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IL CINQUECENTO

CONSIDERAZIONI GENERALI
L’arte musicale del Cinquecento appare come sintesi delle tendenze culturali e stilistiche che
si erano manifestate fin dai primi decenni del secolo precedente e che ora si affermano dietro
l’impulso di una nuova serie di condizioni estetiche, politico-sociali e tecnologiche.
Da un punto di vista più strettamente tecnico, lo svolgimento del linguaggio musicale è, in
questo secolo, orientato a trasmettere il messaggio poetico del testo.
In questa prospettiva, l’incontro e la fusione del linguaggio polifonico nordico (franco-
fiamminghi) con la sonorità della tradizione italiana, sono gli aspetti che maggiormente
caratterizzano l’arte musicale del Rinascimento.
Un forte impulso in questa direzione deve essere venuto dal diffondersi del pensiero
umanistico che poneva i testi filosofici del mondo classico antico alla base del nuovo sapere.
Alla musica veniva riconosciuto il potere espressivo di muovere gli “affetti dell’animo”, e la si
considerava indispensabile per la completezza etica e sociale dell’uomo.

PRINCIPALI TEORICI
La teoria musicale del Rinascimento fu profondamente ricettiva nei confronti della riscoperta
del pensiero classico greco. Alcuni teorici rinascimentali erano fortemente convinti che il
linguaggio musicale del loro tempo fosse di gran lunga inferiore a quanto era stato praticato
nell’antichità. Altri ancora sostenevano che la pratica musicale moderna aveva raggiunto uno
stato di perfezione che tuttavia richiedeva una spiegazione razionale in base alle speculazioni
teoriche formulate dai Greci.
La teoria del cromatismo di Nicola Vincentino si basava sulla convinzione che la musica
comunemente eseguita dai Greci fosse in realtà la mescolanza di tre generi (diatonico,
cromatico ed enarmonico) del tetracordo, e non fosse solo limitata al genere diatonico.
Gioseffo Zarlino fu il teorico che più di ogni altro ebbe la capacità di interpretare con
razionalità d’indagine la tradizione teorica del passato considerata in relazione alla realtà
musicale del suo tempo. Nelle Institutioni harmoniche riassume e accetta solo in parte le
concezioni medievale, rifacendosi invece alle teorie di Tolomeo nel tentativo di includere nella
serie delle conseguenze pitagoriche (ottava, quinta, quarta) le terze e le seste, adoperate
frequentemente dai compositori del tempo. Egli cercò di dimostrare che la tecnica
contrappuntistica moderna aveva una base teorica scientifica, fornendo regole precise.
Egli giustifica razionalmente le formazioni di accordo “maggiore” e “minore” in base alla
posizione rispettiva della terza.
Nelle Dimostrationi harmoniche egli trova più razionale far partire la numerazione dei modi
nel modo autentico di DO (modo ionio=scala moderna di DO maggiore) e farla terminare sul
LA (modo eolio=scala LA minore naturale).
Le teorie armoniche di Zarlino furono duramente attaccate dal suo allievo Vincenzo Galilei nel
Dialogo della musica antica et della moderna. Sosteneva che la polifonia non aveva il potere di
scuotere e commuovere l’ascoltatore. Propose un sistema di intonazione basato su calcoli
aritmetici che si avvicina molto al temperamento equabile moderno.
I MEZZI DI DIFFUSIONE
Un ruolo decisivo nelle nuove possibilità di diffusione della musica scritta fu svolto dalla
stampa musicale. Fu il marchigiano Ottaviano Petrucci a ideare un sistema di impressione
multipla, impiegando caratteri metallici mobili, che permise di pubblicare per la prima volta,
con grande precisione, brani polifonici in notazione mensurale assieme al testo letterario.

IL MECENATISMO
Ebbero parte attiva nella promozione e diffusione della nuova corrente di musica polifonica
profana i figli di Ercole I d’Este, tra cui Isabella che fu una delle principali protagoniste della
rinascita musicale italiana. L’Ariosto che la conobbe a Mantova, la chiamò “d’opere illustri di
bei studi amica”. Al suo servizio, a Mantova, lavorarono due tra i principali musicisti del nuovo
genere della frottola: Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara. Isabella favorì a senso unico
le musiche del genere frottolistico e non dimostrò invece alcun interesse per la musica sacra e
per la chanson.

LA FROTTOLA
Il termine “frottola” viene usato in senso generico dai musicologi per designare un tipo di
composizione, perlopiù strofica, che fu coltivano e praticato nelle corti del nord Italia
(Ferrara, Mantova, Urbino) e in parti del veneto tra la fine del Quattrocento e i primi del
Cinquecento (per declinare tra il 1520 e il 1530). Allo schema poetico della frottola (che gli
studiosi chiamano “barzelletta” e che è di struttura analoga alla ballata trecentesca) vi sono
affiancati altri metri poetici:
- Lo strambotto → un’ottava di versi di endecasillabi, divisa in quattro distici;
- Il sonetto → articolato in 14 versi di endecasillabi: due quartine e due terzine;
- La canzone → variamente composta in una molteplicità di misure e di numero di versi.
Lo stile poetico-musicale è semplice, fortemente sillabico e declamatorio. L’esecuzione poteva
avvenire in due maniere:
1. Le quattro parti vocali venivano affidate ad un gruppo di cantori;
2. Erano eseguite da una voce solista (canta il cantus, la parte acuta) con
l’accompagnamento (liuto) che suona le parti del tenor e del bassus (la linea dell’altus
veniva omessa).
Ciò dimostra che numerose frottole erano in realtà concepite prevalentemente per canto
accompagnato, in questo senso, il genere frottolistico è da ritenersi emanazione diretta della
lunga tradizione quattrocentesca dei cantori improvvisatori, contraddistinguendosi perché si
presentava in forma scritta.
Lo stile musicale della frottola è decisamente indirizzato a far prevalere la linea del canto sulle
altre parti, destinate invece ad avere una funzione di accompagnamento che tende ad essere
accordale (prevalgono le progressioni armoniche costruite sul I, IV, V grado della scala tonale
moderna). La linea vocale della parte superiore ha una condotta segnatamente sillabica, con
qualche breve melisma per mettere in evidenza le sillabe accentate delle parole.
Gli episodi sono nitidamente articolati, chiusi da formule cadenzali e caratterizzati da schemi
ritmici e ricorrenti, determinati dalla regolarità metrica dei versi poetici.
I testi poetici del repertorio frottolistico sono di carattere amoroso, convenzionalmente
patetici, oppure umoristici e buffoneschi. Il testo della frottola si richiama alla struttura
metrica della ballata trecentesca e consiste di una ripresa di quattro versi (ripetuti per intero
o solo in parte alla fine di ogni strofa) e di più strofe solitamente di sei o otto versi, in genere
ottonari (nella ballata trecentesca erano invece endecasillabi o settenari). Sotto il profilo
musicale, il tipo più comune di frottola è costituito da due episodi musicale (A B), ciascuno
suddiviso in due frasi.
IL MADRIGALE
Il madrigale è una forma specifica del Rinascimento maturo (1520-1540), sviluppatasi
principalmente nei circoli umanistici a Firenze e Roma. Le prime fonti arrivano tra il 1520-
1540 e sono manoscritte, e arrivano prima ancora che venissero redatte dalla stampa.
La genesi del madrigale va collegata alla corrente letteraria dell’epoca: tendente a instaurare
un rapporto di imitazione tra poesia e musica (petrarchismo). La ricerca di una poesia
fondata sulle intrinseche qualità espressive dei versi e delle singole parole, piuttosto che
sull’artifizio e sull’invenzione formale, portò al prevalere di strutture musicali dettate più dal
contenuto che dalla forma della poesia.
Il testo, anche se non parla di musica, che ha avuto importanza fondamentale nell’influenzare
l’estetica del madrigale degli albori fu le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Nel
tentativo di ridonare alla poesia italiana specifiche qualità fonetico-musicali, prima ancora che
logiche, Bembo ispirò le sue teorie al modello del Canzoniere del Petrarca.
Dal nuovo modo di leggere la poesia, propugnato dal movimento petrarchista, pervenne
l’impulso principale allo sviluppo del madrigale (anche perché era il gusto dei mecenati colti a
determinare le scelte poetiche dei musicisti, che componevano su commissione dei signori).
L’attenzione all’elevata qualità della poesia, da mettere in musica, diventa esigenza acuta e si
infittisce sempre più la presenza di composizioni scritte su versi del Petrarca e suoi imitatori.
All’inizio del Cinquecento si affievolisce l’interesse per la frottola e si accentua il gusto per i
testi non strofici (canzoni, che diventano madrigali dal 1530, originari dalla raccolta
“Madrigali de diversi musici”, scritta a Roma) → INFATTI, IL MADRIGALE DEL ‘500 È NON
STROFICO, RISPETTO A QUELLO DEL ‘300.
Questa forma poetica di canzone, costituita da un numero vario di versi endecasillabi e
settenari, variamente disposti e alternati, si prestava alla funzionalità dell’intonazione
musicale (ora più contrappuntistica rispetto al canto accompagnato).
È la varietà metrica dei testi poetici che stimola il musicista a trovare soluzioni musicali
sempre diverse per accentuare l’espressività della parola. Su questo principio si baserà tutta
la tradizione musicale madrigalistica successiva.
A questo punti vi è un nuovo e più stretto rapporto tra poesia e musica che offre illimitate
possibilità nell’invenzione musicale (no strutture strofiche e no obblighi di simmetria).
Dal punto di vista formale il madrigale è infatti “durchkomponiert”, che indica una
composizione a forma aperta, a invenzione continua non fondata sul ritorno di frasi ed episodi
musicali. La struttura è pertanto suggerita più dal contenuto che dalla poesia. L’intenzione del
compositore madrigalista è di imitare singole parole o concetti insiti nel testo poetico,
attraverso procedimenti melodici e armonici o ritmici o contrappuntistici.
Struttura del madrigale → le voci sono da tre a otto, ma molto più spesso da quattro a sei,
ciascuna con un’autonomia metrica e ritmica, ma sono interdipendenti tra loro: intreccio
sonoro, armonico, omogeneo e trasparente. Lo scopo del madrigale è quello di realizzare
sonoramente il senso delle parole.
JACQUES ARCADELT – IL BIANCO E DOLCE CIGNO
Madrigale a 4 voci su un testo di Giovanni Guidiccioni. Siamo ancora non lontani dalle frottole
e dalla chanson, ma già in questo madrigale la declamazione del testo è ben più accurata e si
assiste ad un’alternanza tra declamato corale e la sezione in contrappunto. Questo è un primo
modo per la realizzazione del senso delle parole.
Il testo è diviso in tre parti:
1. la prima parte è caratterizzata da frasi più languide ed espressive, e melodie ed armonie
semplici, tali da permettere a chiunque, anche ai meno esperti di poterlo cantare;
2. la seconda parte è caratterizzata dal contrappunto, attraverso il quale si esprimono le farsi
più dinamiche;
3. la terza parte è la sintesi delle prime due parti (abbiamo il cosiddetto madrigalismo,
caratterizzato da una spiccata coralità e da un marcato contrappunto).
La sua semplicità è caratterizzata anche dalla presenza di note ribattute e da un moto per
gradi congiunti, ovvero da una melodia che segue l’andamento della scala e, pertanto, priva di
grandi salti.

ADRIANO WILLAERT
Adriano Willaert fu maestro di cappella a San Marco, egli mette in pratica perfettamente la
poetica attraverso i suoi madrigali, specialmente nel suo trattato “musica nova”. Tutti i testi
delle sue opere, tranne 1, sono di Francesco Petrarca; quasi tutti i sonetti sono divisi in 2
parti: 2 quartine e 2 terzine. La polifonia di Willaert è più complessa di quella di Arcadelt,
simile a quella dei mottetti. Si vedrà un passaggio importante più avanti, dove le sezioni
contrappuntistiche e le sezioni accordali non sono più nettamente divise tra coro e
contrappunto. Queste 2 sezioni iniziano ad intrecciarsi in maniera da poter iniziare a vedere
un parallelismo tra melodia che coincide con la prosodia verbale. Zarlino, mette in un terreno
teorico la pratica di Willaert, nelle Istitutioni harmoniche, dicendo che:
- Per le materie allegre bisogna usare armonie gioiose e ritmi veloci;
- Per le materie meste, armonie dissonanti, ritmi lenti e note gravi.
In “I piansi or canto” Willaert utilizza:
- Terze e seste, dissonanze e sincope nelle parole “I piansi”, con ritmo lento;
- Accordi di terza e quinta nelle parole “or canto”, con ritmo più veloce.

CIPRIANO DE RORE
Con lui le proposizioni armoniche coincidono con quelle logiche. Fu allievo di Willaert, ma
mentre quest’ultimo, attraverso suono e ritmo, amplia il senso delle parole, De Rore vuole
ampliare anche il senso del discorso → conferendo un’immagine musicale al discorso.
De Rore mette la musica su un sonetto di Giovanni della casa → “O Sonno”. Le frasi non
finiscono con il verso, ma lo superano (enjambement) per raggiungere il significato della
frase. L’armonia è limpida e ogni oscuramento armonico rende vivide le immagine. Le ombre
della notte, la dolcezza dell’oblio, la gravità dei mari, richiamano vivide immagini. Le frasi
seguono la sintassi del testo.
GIACHES DE WERT
Ci spostiamo nelle corti di Ferrara e in quella dei Gonzaga a Mantova, dove conosce Torquato
Tasso. Infatti fu il primo a mettere in musica ottave della “Gerusalemme liberata” prima
ancora che fossero pubblicate. Con lui la musica esprime davvero il senso delle parole,
cogliendo l’arte del dire. Ritmo e armonia si articolano secondo le strutture grammaticali e
sintattiche della lingua. La sua musica non solo esprime con precisione le cose che si dicono,
ma anche il modo di dirle → con la declamazione melodica vuole rappresentare le inflessioni
affettive della voce parlante.
“Misera! Non creda” → questa ottava della Gerusalemme liberata viene messa in musica
nell’ottavo libro del “Madrigale a 5 voci”.

Tardo Rinascimento → siamo giunti a un equilibrio tra declamazione e contrappunto. I


compositori approfittano di questo equilibrio:
- Manieristi: sperimentano elementi eccentrici, introducono nuove forze di tensioni
formali (maniere), arricchendo quella solidità acquisita. Tra i manieristi abbiamo
Gesualdo Principe di Venosa.
- Classicisti: riassorbono questi elementi nella tradizione, facendone una
combinazione. Tra i classicisti abbiamo Marenzio.

MARENZIO (classicista)
Ha composto il madrigale “Solo e pensoso”. Si può vedere come vi sia una rappresentazione
musicale delle immagini sui primi due versi. Il soprano sale lentamente di grado per 15
semitoni (cromatismo), nei manierismi questo avverrebbe in maniera tout court, poi
ridiscende sempre cromaticamente fino alla metà. Le altre 4 voci precipitano una dopo l’altra
attraverso degli arpeggi, che manifestano disperazione, angoscia e che agitano il significato
del testo.
- Sulle parole gli atti d’allegrezza spenti si richiama il fauxbordon e poi si ha uno sfociare
alla fine su “Vampi”.
- Per le parole i più deserti campi il madrigalismo è ancora nella prima voce che ha una
linea melodica ascendente e si allontana dalle altre (perlopiù discendenti) spostandosi
verso una tessitura “deserta”.
- Per le parole vo mensurando le voci cantano utilizzando note di uguale durata, come
fossero una unità di misura stabilita in quel momento.
- Per le parole a passi tardi e lenti vi è un generale rallentamento del ritmo del brano,
fino all’ultima pronuncia della parola “lenti” da parte della prima voce (con cadenza
perfetta per chiudere la prima frase, musicale e del testo).

GESUALDO PRINCIPE DI VENOSA (manierista)


Utilizzava il cromatismo, sia come inflessione semitonica continuata, sia come alterazione
improvvisa, quindi creando dissonanza. Queste maniere venivano applicate in
un’articolazione e gestione del madrigale quasi da prima fase (come era in Arcadelt)
LUZZASCO LUZZASCHI (manierista)
Fece stampare i suoi “Madrigali per cantare e suonare e uno e doi e tre sopran”. Erano
madrigali scritti per le dame della corte di Ferrara. Le novità sono due:
1. abbiamo una notazione accurata delle ornamentazioni che le cantanti svolgevano
(inflessioni e melismi delle cantanti venivano scritti);
2. veniva scritto l’accompagnamento del clavicembalo, per esteso, anziché le sole note gravi.
“O dolcezz’ amarissime” → il testo inizia con la prima scienza del terzo atto del “pastor fido” di
Guarini.
Vi è un avvio di una nuova concezione monodica del madrigale, un ritorno alla voce
accompagnata. A fine secolo si composero dei madrigali riuniti in cicli più o meno
unitari, che sviluppano una serie di stati d’animo o una coerente vicenda drammatica
articolata in più episodi e che vanno sotto il nome di “madrigali drammatici” o di
“commedie madrigalesche”. Lavori che si ricollegano alla villanella-canzonetta, ma che
sfruttano anche lo stile compositivo e le possibilità espressive del madrigale aulico.

LA MUSICA DELLA RIFORMA: IL CORALE


Dal movimento popolare, dalle insurrezioni contadine e dagli interessi nella lotta contro i
privilegi feudali del clero, nasce il PROTESTANTESIMO, che prende le mosse dalle 95 “tesi” di
Martin Lutero. Lutero si rifiutò di riconoscere il primato papale e l’autorità della Chiesa,
ribellandosi contro l’abuso delle indulgenze, l’avidità del clero e il culto dei santi. La rottura
con la Chiesa di Roma (1519) portò alla ricerca di un nuovo ordinamento del servizio liturgico
che non dovesse ridursi a mera pratica esteriore, ma che fosse fondato sulla partecipazione
diretta al culto da parte di tutta la comunità dei fedeli.
Momento centrale del servizio divino luterano divenne la predica o il sermone, cui facevano
cornice la lettura delle Scritture, le preghiere e i canti in comune. In armonia con le esigenze
della Chiesa riformista, Lutero si occupò di rendere accessibili i testi religiosi e liturgici anche
a chi non conosceva il latino → su lingua nazionale, tali canti sono denominati corali.
Per consentire alla comunità dei fedeli una diretta partecipazione al culto, il canto dei corali a
più voci doveva essere condotto con semplicità estrema, in stile omofonico e omoritmico
(considerando che li imparavano ad orecchio). La melodia del corale è di conseguenza
articolata in frasi regolari ed alquanto arcate, e procede per intervalli semplici (soprattutto di
terze). La struttura melodica primi corali (quelli non fondati su melodie gregoriane) segue lo
schema a a b, tipico della Barform.

LA MUSICA DELLA CONTRORIFORMA


La diffusione delle idee della Riforma aveva messo in serio pericolo non solo l’unità e
l’autorità della Chiesa di Roma, ma aveva pure reso consapevoli gli ambienti ecclesiastici del
bisogno di trovare quel senso di interiorità, di trascendenza e di rigore che si riteneva fosse
smarrito. Per consolidare il potere ecclesiastico e sottoporre ad una severa regolamentazione
i vari aspetti della vita e della pratica religiosa la Chiesa romana convocò il Concilio di Trento.
Nel definire le forme liturgiche, i padri conciliari mirarono a imporre il principio nuovo della
separazione (al posto dell’interscambiabilità e della ambivalenza) tra sacro e profano. La
convocazione del Concilio segnò la fine del liberalismo della Chiesa in campo artistico.
Si doveva eliminare la penetrazione di elementi mondani nel servizio liturgico, come temi e
modelli di parodia profana. La parola di Dio doveva essere al centro della liturgia e la sua
intellegibilità non doveva venire oscurata dagli artifizi contrappuntistici e dall’uso
contemporaneo dei testi.
Le prescrizioni emanate dal Concilio trovarono comunque scarsa applicazione pratica sul
piano propriamente stilistico musicale: si continuarono ad impiegare i linguaggi
contrappuntistici elaborati e ad utilizzare le melodie e i modelli profani.
PALESTRINA E LA SCUOLA POLIFONICA ROMANA
Palestrina occupa una posizione centrale nella cornice della storia della polifonia sacra del
secondo Cinquecento, non solo per la sua eccezionale fecondità creativa, ma anche per
l’influsso che la sua musica esercitò, in quanto compimento dei nuovi ideali religiosi e
spirituali postconciliari. La musica di Palestrina divenne un modello esemplare della scrittura
contrappuntistica (che fu chiamato “stile antico”, o “osservato, o “alla Palestrina”).
Il corpus musicale palestriniano fu scritto prevalentemente a Roma e per Roma soltanto, ad
uso prevalentemente liturgico; per la Messa e l’Ufficio.
Il linguaggio polifonico di Palestrina, fondato sulla purezza della sonorità vocale e sull’uso di
un contrappunto levigato, non si scosta dalla maniera tradizionale dei maestri franco-
fiamminghi. L’arte contrappuntistica di Palestrina si sviluppa soprattutto in direzione della
intelligibilità delle parole e di una sonorità ordinata in maniera da evitare l’enunciazione
simultanea di testi diversi.
Il lavoro compositivo di Palestrina si dispiega in primo luogo nel calcolato, accurato ed
equilibrato controllo grammaticale della curva melodica delle singole parti.
L’accurata preparazione e risoluzione delle dissonanze verticali rimane il tratto stilistico che
più contraddistingue la polifonia palestriniana.
Anche se persiste la scrittura polifonica e l’utilizzo del contrappunto, Palestrina sfrutta la
pienezza della policoralità (complesso corale diviso in più blocchi) e della declamazione
omofonica (le voci proseguono simultaneamente).

IL MOTTETTO E LA MESSA SICUT LILIUM (PALESTRINA)


Nel Cinquecento si compongono mottetti su testi diversi: soprattutto su testi devozionali
dell’epoca, ma anche su brani biblici, o su testi del Proprium; talvolta anche su testi profani in
latino. Messa e mottetto condividono l’utilizzo del cantus firmus.
Un mottetto in quest’epoca è costituito da una serie di segmenti corrispondenti ciascuno a una
frase del testo. Possiamo esemplificare questa tecnica sul mottetto a cinque voci di Palestrina
“Sicut lilium inter spinas”, il cui testo è tratto dal Cantico dei cantici. Diviso in quattro
segmenti della durata di 28 battute.
LA SCUOLA VENEZIANA
Mentre i compositori della scuola romana utilizzavano il contrappunto ordinato e lo stile
vocale a cappella, i maestri che operavano a Venezia ponevano invece al centro del loro
interesse la coltivazione di uno stile musicale discontinuo e composito, fondato sul contrasto
dei colori timbrici e sonori (sia vocali che strumentali).
Lo sfruttamento sonoro di raggruppamenti corali diversi ed equivalenti (tecnica policorale o
dei cori spezzati) si era verificato nell’area veneta fin dagli inizi del XVI secolo.
Il principio del contrasto sonoro veniva sfruttato, bel inteso anche nella polifonia di
ascendenza franco-fiamminga (contrappunto imitativo), ma in maniera piuttosto sporadica e
discontinua.
Per i maestri veneziani, invece, i registri e i timbri diversi delle voci e degli strumenti sono gli
elementi essenziali dei contrasti sonori. La disposizione degli organici vocali mette bene in
evidenza la qualità delle voci alte contro le voci basse. Erano pure presenti strumenti che
potevano alternarsi o mescolarsi ai cori e ai solisti. Questa combinazione la possiamo notare
nelle Sacrae symphonieae di Giovanni Gabrieli.
La semplicità dell’andamento delle voci, che procedono per blocchi accordali, serve bene per
lo scopo di mettere in rilievo il ritmo naturale delle parole (modo diverso da Palestrina, ma
che comunque si atteneva al Concilio di Trento, tramite la giustapposizione accordale).
L’aderenza costante della musica al significato del testo si realizza attraverso la declamazione
e i molteplici dialoghi tra i cori.
Ad Andrea Gabrieli va il merito di aver arricchito la tecnica dei cori spezzati di una maggiore
varietà di effetti sonori e colori, mediante dialoghi animati tra più cori. Gabrieli non rinuncia
del tutto alla polifonia imitativa, ma questa cede il posto, nei punti salienti, all’andamento
omofonico o quasi.
La scrittura accordale è fondata sul diatonismo semplice, con un forte senso per le relazioni di
quinta, mentre l’uso dei cromatismi è parsimonioso.
Il termine “concerto” in questo periodo assume la definizione di compagini vocali e
strumentali.
Giovanni Gabrieli fu uno dei primi a specificare l’impiego di determinati strumenti e uno dei
primi ad adoperare indicazioni di dinamica, fatto che dimostra il ruolo essenziale da lui
conferito alle tine sonore (come avviene nella Sonata pian, e forte).

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