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V.

I LUOGHI DELLA MUSICA BAROCCA

Con il Seicento l’unità stilistica delle epoche precedenti si infranse in una pluralità di stili paralleli. Il
compositore, ogniqualvolta si accingeva a scrivere musica, doveva operare una scelta
consapevole, adottando lo stile di volta in volta più opportuno. Lo scarto stilistico richiesto dalle
varie situazioni divenne pienamente consapevole e addirittura codificato nei trattati teorici. Tutto ciò
nasce da due fattori che portarono a riflettere sugli stili musicali appropriati nelle varie circostanze:
1. avvento della “seconda prattica”: un linguaggio stilistico nuovo non riuscì a soppiantare del
tutto quello precedente; infatti la “prima prattica”, ovvero la polifonia contrappuntistica, non era
stata debellata, fornendo una spinta verso la pluralità stilistica
2. legame con il mondo letterario: fin dal Medioevo le produzioni poetiche e letterarie erano
classificate in generi sempre più definiti con nome stilistiche e formali prescritte con rigore.
A partire dal trattato Cribrum musicum ad triticum Syferticum di Sacchi i teorici musicali operarono
una distinzione tra uno stile da chiesa, uno stile da camera e uno stile teatrale, sovrapposto alla
bipartizione di carattere tecnico-compositiva tra stylus antiquus e stylus modernus.

LA CANTATA DA CAMERA

Con sempre maggiore frequenza, dopo il 1600, i testi madrigalistici vennero messi in musica in
stile monodico con basso continuo o addirittura in stile concertante, stravolgendo del tutto il
modello cinquecentesco di un armonico intreccio tra le voci che si imitavano pariteticamente.
I più celebri tra i madrigali a voce sola scritti intorno al 1600 sono quelli contenuti nelle Nuove
musiche di Caccini. Le composizioni, tutte per una voce e basso continuo, possono essere divise
in madrigali e arie → madrigali sono quelle composizioni in cui il testo è musicato da capo a fondo
senza strofe o ritornelli (come nel madrigale polifonico); arie sono composizioni strofiche in cui la
parte del basso si ripete inalterata ad ogni strofa del testo. La produzione di madrigali polifonici si
registra lentamente fino al 1620; la loro struttura dialogante e paritaria non soddisfaceva più i
consumatori barocchi di musica vocale da camera.
Il genere di musica vocale che soppiantò il madrigale fu la cantata, un genere cameristico vocale-
strumentale la cui voga iniziò attorno al primo quarto del XVII secolo e si mantenne per tutta
l’epoca barocca. Inizialmente il termine indicava qualsiasi composizione cantata per una o due
voci, accompagnata da basso continuo e da alcuni strumenti, che tende alla stroficità. La prima
pubblicazione a stampa in cui compare questo nuovo termine consiste nelle Cantade et arie (1610)
di Alessandro Grandi, allievo di Giovanni Gabrieli. Nelle arie la stessa musica viene riproposta
quasi senza cambiamenti per tutte le strofe; nelle cantate, inizialmente, è solo il basso ad essere
ripetuto identico → cantata su basso strofico.
Ben presto le cantate andarono articolandosi in strutture più complesse, che si basavano sugli
stessi criteri che venivano contemporaneamente introdotti nelle musiche operistiche (distinzione
tra sezioni in stile recitativo, in stile arioso e in arie vere e proprie). Vi erano solitamente due arie
con da capo (aba’), intercalate da recitativi.
La cantata era eseguita da un solo cantante (o due → duetto da camera: gusto contrappuntistico
con imitazione tra le voci) accompagnato dal basso continuo. Il testo poetico riguardava argomenti
amorosi (talvolta pastorali) e aveva un contenuto quasi teatrale. In mancanza di una vera e propria
azione scenica si doveva fare ancora più affidamento sull’abilità dei cantanti. Nella cantata
troviamo riunite le 4 caratteristiche della musica barocca: 1. stile monodico con basso continuo; 2.
stile concertante; 3. tendenza alla rappresentatività; 4. volontà di muovere gli affetti.
La maggior parte dei volumi che contengono contate proviene da Roma → culla della cantata. A
Roma infatti vi erano numerose e potenti famiglie aristocratiche che lottavano in ogni modo per
primeggiare; questi casati non potevano esimersi dal considerare il patrocinio di attività musicali
come elemento indispensabile per l’affermazione del proprio rango. Tutti costoro mantenevano
dunque nel proprio palazzo un piccolo gruppo di musicisti al loro stabile servizio. La “concorrenza”
fra tutte queste piccole corti rese dunque la Roma del Seicento un terreno estremamente fertile
non solo per la musica in generale, ma anche per la sperimentazione o l’accoglienza di tipologie
musicali sempre nuove. Tra i nomi di chi servì le famiglie principesche romane troviamo
Frescobaldi, Carissimi, Corelli, Scarlatti e altri; il compositore migrava da un palazzo nobiliare
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all’altro a seconda delle disponibilità economiche dei vari signori. La cantata era il genere più
richiesto: 1. il minuscolo organico richiesto non ne rendeva dispendiosa l’esecuzione, poiché
potevano provvedere ad essa gli stessi musicisti di casa; 2. il suo stile musicale raggiante e
aggiornato rispondeva alle nuove esigenze; 3. talvolta il testo era composto dallo stesso mecenate
o dai letterati di corte e ciò rendeva più gradevole l’ascolto all’aristocratico pubblico.
Vi era uno scambio culturale molto vivo che portò anche tre compositori (Pasquini, Corelli e
Scarlatti) ad essere accettati in una prestigiosa accademia culturale, l’Arcadia, fondata nel 1690.
Nei primi decenni del Settecento le mode però stavano cambiando: il baricentro dell’interesse si
spostava nettamente sul teatro d’opera. Il patriziato romano perse l’abitudine di assumere musicisti
stabili nelle proprie case, tendendo piuttosto ad uscire da esse per frequentare i teatri d’opera.

Cantata e oratorio si sviluppano entrambi a inizio ‘600 con il medesimo linguaggio ma l’oratorio è
sacro e con un organico ampio; la cantata è profana (amoroso) con organico ridotto, è più agile e
ha un linguaggio meno ricco.

Alessandro Stradella (1639-1682) scrisse numerose cantate profane per due o più voci, ma
soprattutto cantate a voce sola. Queste possono essere classificate in tre tipi:
1. cantate con refrain: alcuni versi ritornano varie volte nella composizione e il compositore
asseconda tali ritorni proponendo la stessa musica
2. cantate strofiche: le prime due stanze di testo hanno ciascuna una musica differente e per
quelle successive viene ripetuta la musica delle prime due
3. cantate in forma libera: tessute da cima a fondo senza ritorno di testo o melodia (Es. In si
lontano lido di Stradella).
Nelle cantate, i recitativi sono sì fondamentalmente sillabici, ma inclinano volentieri verso lo stile
arioso e indulgono a vocalizzi che danno agio all’interprete di mettere in luce le proprie doti
tecniche. Stradella esaspera il cromatismo ed utilizza dissonanze a scopo espressivo per
un’aderenza al contenuto affettivo dei versi.
Tra le arie presenti nelle cantate stradelliane è possibile individuare la ricorrenza di alcuni tipi
stilistici fondamentali. Due tipi principali sono:
1. aria in stile di belcanto: quasi sempre in metro ternario (di solito 3/2), caratterizzata da una
vocalità ampia, da frequenti vocalizzi. In Stradella spesso troviamo imitazione tra canto e
basso
2. aria in metro binario: in metro pari, manifestano sovente la sovrapposizione tra uno stile di
canto declamato, con frequenti ripetizioni di note, e un caratteristico basso melodicamente
mobile e ritmicamente regolare (basso corrente).
Nella maggior parte dei casi, la forma di un’aria viene stabilita attraverso la ripetizione integrale di
segmenti di testo con la musica relativa; Stradella tende ad evitare la forma strofica, che era
invece prediletta da Carissimi, usando invece schemi formali codificati che non sono direttamente
dipendenti dallo stile musicale o dalla struttura del testo in questione. Si tratta della fase intermedia
prima del definitivo trionfo della forma col “da capo” (aba’) che nel tardo Barocco costituirà la
struttura standard dell’aria.

LA SONATA BAROCCA

Con Girolamo Frescobaldi la musica strumentale entrò a pieno diritto nel flusso della tradizione
scritta, appropriandosi della capacità di muovere gli affetti. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del
Seicento, nella stessa area di diffusione della canzone - grosso modo veneziana, iniziò ad apparire
sui frontespizi di musiche per gruppi strumentali il termine “sonata”.
Sulle prime, “canzone da sonar” e “sonata” sembrerebbero termini intercambiabili; nei primi anni
del Seicento si iniziò a scandire una demarcazione tra i due termini: più del 90% tra i compositori di
canzoni strumentali consisteva in organisti, mentre gli autori di sonate erano quasi sempre
esecutori professionisti di altri strumenti (soprattutto violinisti); quest’ultimi erano molto meno
interessati alla teoria della composizione e alla polifonia: la loro finalità principale consisteva nel
realizzare esecuzioni concrete che mettessero in luce tutte le potenzialità del proprio strumento,
sfruttandone la tecnica virtuosistica, le molteplici risorse timbriche, l’improvvisazione di
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abbellimenti. Organisti e strumentisti occupavano anche un differente status sociale; le paghe degli
organisti potevano essere anche otto volte superiori a quelle dei loro colleghi di altri strumenti.
La sonata, libera da qualsiasi rapporto con le voci umane o con un testo, accolse in pieno le nuove
esigenze “individualistiche” dell’esecutore seicentesco.
Arcangelo Corelli (1653-1713) era uno dei violinisti più famosi e le sue prestazioni musicali erano
richieste da personaggi di altissimo rango; fu al servizio della regina Cristina di Svezia, dei
cardinali Benedetto Pamphilij e Pietro Ottoboni. Costituisce un punto di riferimento sia riguardo al
repertorio della sonata, sia per ciò che concerne il concerto grosso; la sua produzione segna un
parziale allontanamento dalla prassi tradizionale: si nota una tendenza a determinare una polarità
melodica-basso, creando un vuoto sonoro nella regione intermedia (diverso dalla sonate di
Giovanni Gabrieli, dove lo spettro sonoro era occupato in modo equilibrato). Lombardia e Veneto
possono essere considerati quasi la culla della sonata, ma intorno alla metà del Seicento furono le
città di Modena e Bologna a produrre un vasto repertorio di questo genere di musica strumentale.
Se nella sua prima fase la sonata impiegava un nutrito numero di esecutori, dai primi decenni del
Seicento gli organici si fecero più ristretti. Quello di uso più comune nel XVII secolo è la sonata a
tre: due strumenti monodici e il basso continuo. I righi musicali presenti nella partitura sono tre ma
il numero degli esecutori poteva variare; spesso il b.c. era realizzato da più strumenti.
Rara, ma comunque presente, la possibilità di ridurre l’intera sonata a tre per clavicembalo solo.
Un’altra frequente tipologia della sonata seicentesca consiste nella sonata a due, o sonata
solistica: lo strumento monodico sostenuto dal basso continuo è soltanto uno e in partitura vi sono
solo due pentagrammi. Il repertorio della sonata a due divenne uno dei trampolini di lancio dei
grandi compositori-violinisti tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento
(Vivaldi, Locatelli, Tartini etc).
Il diverso organico strumentale della sonata non era l’unico fattore di differenziazione all’interno di
tale genere musicale; sia la sonata a tre che quella solistica potevano essere definite “da chiesa” o
“da camera”, con chiara allusioni all’ambiente in cui andavano eseguite.
La sonata da chiesa doveva rientrare nello stylus ecclesiasticus, per adattarsi al luogo sacro in
cui veniva eseguita e per stimolare i giusti affetti negli ascoltatori. Per quanto riguarda la struttura,
inizialmente vi erano quattro movimenti nella stessa tonalità (ma uno dei movimenti centrali poteva
essere in un tono vicino) con alternanza lento-veloce-lento-veloce. E’ molto contrappuntistica ed è
accompagnata dall’organo. Stile severo.
La sonata da camera era destinata principalmente agli intrattenimenti musicali nei palazzi
aristocratici; totalmente indipendente da un rapporto stretto con lo stile contrappuntistico, aveva
estratto la sua linfa dalla musica per danza. Una delle pratiche del ballo imponeva l’accoppiamento
di una danza lenta con una successiva veloce → nacque la consuetudine di riunire le musiche per
danza in quelle che vennero definite suites, successioni di danze alternativamente lente e veloci,
unificate dall’uso di una medesima tonalità; con ogni probabilità non erano affatto danzate come si
evince dalla mancanza di un’inflessibile periodicità di accenti necessaria all’esecuzione coreutica.
La successione dei movimenti della sonata da camera non assunse alcuna struttura fissa,
alternando genericamente tempi di danza differenti per andamento, metro e stile. Inoltre i
compositori di musica “alta” iniziarono ad appropriarsi in modo massiccio delle musiche per danza,
inserendole soprattutto nelle proprie composizioni strumentali → i ballerini delle danze di società,
aristocratici non professionisti, occupavano i più altri strati della gerarchia sociale. Allora l’origine di
questa nuova tendenza può essere ricercata nelle predilezioni dei committenti aristocratici
dell’epoca. La formulazione della suite nella sua forma più classica (allemanda, corrente,
sarabanda, giga nella stessa tonalità) è stata attribuita a Johann Jakob Froberger, allievo di
Frescobaldi. La sonata da camera era accompagnata dal clavicembalo.
Man mano che ci si avvicina all’anno 1700 i due tipi andarono sempre più sovrapponendosi,
poiché assorbirono l’uno le caratteristiche dell’altro: i tempi lenti e veloci delle sonate da chiesa
assumono spesso le caratteristiche di Sarabanda e Giga; la sonata da camera si dota di un
Preludio in tempo lento, simile al Grave che apre la sonata da chiesa etc.

Il repertorio delle sonate a tre del tardo Seicento costituisce un campo privilegiato per osservare
alcuni stilemi musicali barocchi: 1. l’avvicendarsi di situazioni affettive diverse sotto forma di
contrapposizione tra movimenti successivi; 2. l’emancipazione della scrittura dallo stile vocale; 3.
affermazione del linguaggio tonale.
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Due delle tecniche più usate sono il fortspinung (sviluppo continuo): i compositori evitano contrasti
tematici all’interno dei singoli movimenti, tessendo l’ordito sonoro con un’unica, breve cellula
melodico-ritmica; la progressione: ripetizione di un breve modulo melodico-armonico detto
“modello” che ricompare ogni volta su un grado della scala superiore o inferiore.
Siamo in un momento importante segnato dalla nascita del sistema tonale → 1. le differenze tra
le scale modali iniziano a scomparire con l’utilizzo di note estranee alla modalità di base; 2. l’uso
della monodia accompagnata e del b.c. implicano una verticalizzazione delle strutture sonore; 3. la
presenza di tempi di danza porta ad una necessaria scansione ritmica ed un assetto
sostanzialmente accordale.
I tratti caratteristici delle scale tonali rispetto a quelle modali sono due: 1. il numero dei modi è
limitato a due, maggiore (TTSTTTS) e minore (TSTTSTT); 2. qualunque nota può fungere da
punto di partenza (tonica) di una scala maggiore o minore.
Tre sono i concetti fondamentali della tonalità: 1. tensione armonica: l’accordo di tonica è un vero
centro gravitazionale attorno a cui orbitano gli altri accordi della medesima tonalità; 2. gerarchia:
non tutti gli accordi sono ugualmente caratteristici delle tonalità cui appartengono → quelli sul V
grado, “di dominante”, e sul IV, di “sottodominante”, sono espressione di una tonalità in modo
meno equivoco; 3. sintassi: si cristallizzano alcune formule cadenzali standard.
I singoli accordi appartenenti ad una tonalità nel corso di una composizione possono assumere
momentaneamente la funzione di toniche transitorie, creandosi attorno un loro piccolo circuito di
accordi subordinati e determinando un temporaneo spostamento del centro tonale → modulazione,
che permette varietà nella condotta armonica. Allorché le tonalità momentaneamente raggiunte
hanno come tonica un accordo appartenente alla tonalità principale, non ci si allontana di molto
dalla tonalità di partenza → tonalità vicine.
Si determinarono “percorsi” armonici preferenziali che furono associati ad alcune forme; un caso
emblematico è quello delle composizioni in forma di danza costituenti le suites e le sonate da
camera → esse erano bipartite: la prima sezione terminava nella tonalità della dominante, la
seconda riconduceva attraverso modulazioni alla tonica.

L’OPERA ITALIANA DEL SEICENTO

Abbiamo visto dunque che tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 c’è una fase importante, un
mutamento di linguaggio musicale; musica come ars retorica che muove gli affetti tanto nella
musica vocale quanto in quella strumentale, che subisce una rapida evoluzione grazie alle
caratteristiche tecnologiche degli strumenti ed inizia ad essere scritta. Vi è il passaggio dalla
polifonia alla monodia, che permette al compositore di concentrarsi sugli aspetti più legati alla
discorsività della musica.
L’opera a partire dal ‘600 diviene centrale; nasce il teatro musicale interamente cantato. L’aria,
composizione che si concentra su un’unica linea, diventa il nuovo asse attorno al quale ruota la
musica vocale inizialmente, poi anche quella strumentale.
Più di trent’anni separano le opere che Monteverdi scrisse a Mantova (L’Orfeo e L’Arianna) da
quelle che compose per Venezia: Il ritorno di Ulisse in patria (1640) - tratto dall’Odissea - e La
coronazione di Poppea (1643) - tratto dalla storia della Roma antica; non completata da
Monteverdi. Cambia la committenza, le occasioni di esecuzione, il pubblico a cui si rivolgevano, il
tipo di testi e di argomenti, la forma globale e lo stesso stile musicale.

A Firenze, il primo tentativo di imbastire uno spettacolo interamente cantato, l’opera, era andato di
pari passo con la sperimentazione del recitar cantando e con l’esigenza di creare eventi fastosi. I
primi esemplari sono dunque pressoché simili agli intermezzi “aulici”, ovvero spettacoli creati dal
personale fisso di corte a cui assisteva un pubblico sceltissimo, il tutto spesato dal principe senza
risparmio. Il caso della prima esecuzione dell’Orfeo di Monteverdi di discosta un po’ da questo tipo
di destinazione: a Mantova, fu l’Accademia degli Invaghiti ad aver accolto la sfida dei fiorentini, sia
pure con il patrocinio del principe Gonzaga.
Nel decenni seguenti fu però Roma a promuovere questo nuovo tipo di spettacolo → scuola
romana; la produzione della città era strettamente connessa alla facciata “cattolica” di Roma: a

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fianco delle trame tratte dalla mitologia classica, abbondavano gli intrecci desunti dalle vite dei
santi. Il primo spettacolo in assoluto nel nuovo stile monodico fu realizzato proprio a Roma:
Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri.
Nel 1631 fu rappresentato il Sant’Alessio di Stefano Landi, che inaugurò numerose novità: 1. una
delle prime opere che metteva in scena la vita di un uomo concreto, con i suoi problemi e drammi;
2. con la seconda rappresentazione venne inaugurata la stagione delle opere barberiniane,
finanziate dalla famiglia romana Barberini, ormai sinonimo delle opere romane della prima metà
del Seicento per la qualità e quantità delle opere, con soggetti a sfondo religioso → i cardinali
Barberini fanno costruire dentro il loro palazzo il primo teatro d’opera; 3. libretto scritto da un
letterato di punta, Giulio Rospigliosi; 4. inserimento dell’elemento comico. Con Landi, altri autori
erano Mazzocchi e Marazzoli. La morte di papa Urbano VIII, avvenuta nel 1644, e l’avvento al
potere della rivale famiglia Pamphilj segnarono il declino delle attività operistiche barberiniane.
L’importanza della scuola romana consistette nel superamento del recitar cantando, nella
progressiva differenziazione stilistica tra recitativi e arie.
Nel frattempo, l’asse portante della vita operistica italiana si era spostato a Venezia; la città
lagunare poteva mantenere ancora una vita culturale vivace, favorita da libertà di stampa e di
pensiero nonché da una buona circolazione di capitali. Aveva un ceto mercantile molto forte.
Venezia era allora una Repubblica, non vi erano signori. Vi era un doge eletto con collegio. Gli
impresari cominciarono a costruire teatri e commissionarono qualcosa a poeti e musici.
Punto di svolta è il 1637, quando un gruppo di musicisti romani e veneziani affittarono un teatro
veneziano e vi rappresentarono l’Andromeda, recuperando le spese dell’allestimento dalla vendita
dei biglietti → scuola veneziana. L’opera non era più elargita dalla liberalità di un principe, ma era
divenuta una vera e propria impresa commerciale a fini di lucro. I costi dei biglietti erano comunque
tali che in genere solo l’aristocrazia e al massimo l’alta borghesia potevano permetterseli; la
composizione del pubblico non era quindi cambiata molto tra opera di corte e questa nuova opera
→ opera impresariale. L’impresario investiva il suo capitale pagando le spese dell’allestimento:
affittare un teatro, retribuire compositore e cantanti, orchestrali, scenografo, personale tecnico etc.
Il librettista non era pagato ma a lui spettava l’intero incasso della vendita al pubblico dei libretti
stessi. Fonte di guadagno indispensabile per l’impresario era dunque la vendita dei biglietti. Si
diffuso l’uso di affittare preventivamente per l’intera stagione teatrale i palchetti del teatro e si
costruirono teatri dotati di vari “ordini” di palchi sovrapposti → teatri all’italiana. L’opera rimaneva
comunque uno spettacolo costosissimo, e biglietti e affitti dei palchi bastavano raramente a
pareggiare il bilancio. L’opera diventa senza coro, con pochi personaggi e musicisti, poche
macchine sceniche (molto diverso dall’opera di corte molto fastosa). Per quanto riguarda i temi dei
libretti, anche a Venezia inizialmente si predilessero i temi mitologici; poiché la Repubblica si
considerava erede delle grandi tradizioni romane e troiane, abbondarono gli intrecci desunti
dall’Eneide e dalla storia antica. Rientrano in questo filone Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi
e le opere del celebre allievo Francesco Cavalli. Nel 1645 l’isola di Candia (Creta), possedimento
veneziano, fu attaccata dall’esercito turco; nella guerra, Venezia si trovò alleata tanto con l’impero
asburgico quanto con il papato. I libretti delle opere subirono l’influenza della congiuntura bellica; i
librettisti si ritrovavano a rispecchiare le ideologie delle classi dominanti. Prevalsero le trame
“eroiche” e “imperiali”, i cui protagonisti erano i grandi condottieri dell’antichità. I soggetti non
dovevano avere troppe implicazioni culturali, non dovevano essere troppo realistici perché l’opera
doveva rappresentare un momenti di evasione → libretti più immediati con strofette regolari per le
arie e endecasillabi per i recitativi. Vi è alternanza di recitativo (molto vicino al parlato con poca
sostanza melodica; modo per avvicinare l’azione cantata alla veloce declamazione di informazioni)
e aria (pezzo lirico/strofico in cui il personaggio mostra il suo stato emozionale per ciò che è
accaduto). Si andava a teatro anche ogni sera a vedere lo stesso spettacolo.

Il melodramma passa quindi ad essere opera impresariale da opera di corte: l’opera di corte era
destinata all’intrattenimento di corte; erano spettacoli commissionati a favore del diletto di
aristocratici e con due altri scopi; consentire al ceto aristocratico di identificarsi in questo genere
alto per confermare il loro ruolo e celebrare la magnificenza del signore. L’opera impresariale è
invece rappresentata in un teatro pubblico, creato ad hoc per gli spettacoli. Questa porta ad una

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standardizzazione con due effetti: 1. il linguaggio musicale e vocale dell’opera tende a limitare le
proprie espressioni; 2. diventano comuni delle situazioni e degli atteggiamenti.

Per quanto riguarda la struttura delle opere, gli atti erano inizialmente brevi e rappresentavano
situazioni sostanzialmente statiche. Nacque l’unità drammaturgico-musicale tipica del teatro per
musica: la scena. Un atto poteva essere diviso in un numero di scene che andava dalle dieci alle
venti. Il “dramma per musica” veneziano accolse fin dall’inizio la suddivisione in scene, come si
nota nel Giasone che Francesco Cavalli compose sul testo di Giacinto Andrea Cicognini nel 1649.
La vicenda vede Giasone alla ricerca del vello d’oro e alle prese con le regine Isifile e Medea.
Vengono utilizzati tre tipi di versificazione: 1. versi sciolti, settenari ed endecasillabi non rimati; 2.
versi misurati disposti in strofe; 3. schemi intermedi tra le prime due tipologie non ordinati in strofe.
La scelta della versificazione aveva probabilmente una precisa funzione drammaturgia. Cavalli, in
corrispondenza della transizione ai versi misurati, passa gradualmente dal recitativo all’arioso: il
primo è una rapida recitazione intonata dei versi, il secondo è un declamato melodicamente e
armonicamente più interessante, in cui le ragioni della musica si fanno valere.
Intorno alla metà del secolo un testo strofico era invariabilmente reso in musica con un’aria
strofica, in cui il canto era libero di dispiegarsi assecondando esigenze puramente musicali e non
più dovendo sottostare a quelle imposte dalla pronuncia del testo. Il rispetto della verosimiglianza
imponeva ai librettisti veneziani di giustificare i testi strofici, destinati a diventare arie, come parti
integranti dell’azione. Accadeva soprattutto ai personaggi mitologici o a quelli comici di
abbandonarsi ad un canto vero e proprio mentre ai personaggi serie era richiesto un contegno più
realistico, più simile al recitativo.
Si parla di aria di sortita per indicare l’aria che solitamente apre la scena, in cui il personaggio di
presenta, esce sul palcoscenico → funzione propulsiva rispetto alla vicenda: i personaggi sul palco
reagiscono all’entrata in scena di un nuovo personaggio; l’aria di entrata è solitamente alla fine
della scena e coincide con il rientro del personaggio fra le quinte → funzione statica: il personaggio
commenta ciò che è avvenuto nella scena.
La necessità di allestire frequentemente nuovi spettacoli senza perdere il gradimento del pubblico
favorì nei teatri veneziani l’affermazione di una serie di convenzioni. Si affermò dunque la divisione
in tre atti preceduti da una sinfonia strumentale e da un prologo; i primi due atti si concludevano
con un ballo; i personaggi principali, che compaiono con un’aria di presentazione, erano in genere
due coppie di amanti; la struttura interna degli atti era articolata in modo da creare gruppi di scene.
Più frequentemente vi era l’aria comica, normalmente strofica, in cui la musica non doveva
compromettere l’effetto comico del testo e vi era dunque un canto sillabico con limitata estensione
e frasi ben separate; il duetto amoroso, al momento del ricongiungersi delle coppie, anche se
considerato poco verosimile.
Vi erano anche alcuni tipi di scene convenzionali: l’aria-lamento, caratterizzata da un basso
ostinato; la scena-lamento; la scena di sonno, che agevolava l’irrazionale uso del canto da parte
del personaggio dormiente o di quello che vegliava; le scene di invocazione e incantamento
(scene-ombra); la follia, che mostra un personaggio in preda ad un comportamento irrazionale.

L’OPERA SERIA TRA SEI E SETTECENTO

Nell’Italia centro-settentrionale del Settecento non esisteva città di media grandezza senza una
sua seppur piccola stagione operistica. L’Italia meridionale, invece, non offrì quasi nessuno spazio
al mercato operistico, se si escludono Palermo e Napoli. L’assenza di un vero circuito operistico in
tale territorio mostra il profondo legame che si era instaurato fra opera in musica e un tipo di
tessuto sociale cittadino che in gran parte del meridione era virtualmente assente: quel tessuto
sociale, formato dall’aristocrazia e dalle classi più agiate, che era aperto ad iniziative
imprenditoriale. Al contrario, fin dal Settecento, in quelle città in cui esisteva una stagione d’opera,
il recarsi a teatro divenne gradualmente una consuetudine; andare a teatro era la più importante
occasione di divertimento e di relazioni sociale per le classi dominanti.
Poiché gli spettatori si sentivano i veri finanziatori dell’opera, essi si reputavano nel pieno diritto di
dimostrare sonoramente il loro gradimento o il loro dissenso nei riguardi dello spettacolo.

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Inoltre non si andava a teatro per assistere ad una vicenda plausibile e identificarsi con i
personaggi; l’aristocratico voleva entrare nel regno dell’arte e della fantasia. La concentrazione del
pubblico non era dedicata tanto allo svolgersi dell’intreccio, quanto piuttosto all’arte con cui esso
veniva presentato in modo sempre nuovo. Anche l’esecuzione della stessa opera doveva variare di
sera in sera → è chiara dunque la fortuna dell’aria col “da capo”: in essa era prevista la ripetizione
della prima parte estemporaneamente e virtuosisticamente abbellita dal cantante in modo ogni
volta diverso. 1. Il libretto era rigorosamente in poesia e si concludeva con un lieto fine. Ci sono
versi più liberi e altri organizzati → vengono trattati musicalmente in modo diverso: versi sciolti
(settenari endecasillabi) trattati in recitativo (parti di azione e di dialogo → gli avvenimenti
accadono in una data di tempo analoga a quella della vita reale); versi in rima organizzati in strofe
trattati in arie (tempo rallentato fino anche a fermarsi) → 2. Scorrimento irregolare del tempo dato
proprio dall’alternata recitativi/arie. 3. La voce del protagonista maschile doveva svettare su tutte le
altre e la principale parte maschile era dunque affidata ad un “musico”, un uomo evirato dalla voce
di soprano. A Roma inoltre le donne non potevano calcare le scene teatrali, ragion per cui anche i
ruoli femminili venivano ricoperti da castrati travestiti. 4. A fianco della declamazione intonata che
regnava nelle zone in recitativo coesisteva il virtuosismo delle arie; in esse era posta in secondo
piano la chiara percezione del testo in favore del puro godimento musicale. 5. Ovvio che i soggetti
stessi delle opere risentono dell’impostazione non naturalistica.
Il dramma si svolge parallelamente su due livelli: il recitativo spinge avanti la parte esteriore e
visibile dell’azione, mentre l’insieme delle arie mostra la parte interiore del personaggi.
A patire dagli inizi del Settecento iniziò a farsi strada il desiderio di una maggiore coerenza
drammaturgica → le trame iniziano ad essere più focalizzate attorno ad un asse centrale a cui si
rivolge la vicenda.
Il letterato veneziano Apostolo Zeno era considerato il promotore di quella che viene definita
“riforma” del teatro musicale; vengono usati in modo minore arie di sortita e di mezzo e personaggi
buffi. Anche il romano Pietro Metastasio rientra in questo processo di razionalizzazione e
semplificazione dei libretti. La trama standard dei suoi drammi consiste generalmente in due
coppie di amanti a cui le circostanza esteriori, spesso per cause politiche, impediscono la
desiderata unione. i soggetti rimangono antuchi, mitologici, ma tutto ciò che accade è spiegabile
da ciò che è accaduto prima; l’importanza è del testo. Zeno e Metastasio hanno il compito di ridare
dignità a questo spettacolo musicale ora percepito come corrotto.
Se il mondo seicentesco è dominato dalla città di Venezia, a partire dalla fine del secolo il
baricentro iniziò a spostarsi su Napoli, grazie sopratutto all’iniziativa del duca di Medinaceli. Già
prima dell’insediamento di costui, era stato assunto come maestro di cappella di corte Alessandro
Scarlatti, che già era riuscito a far rappresentare a Roma alcune opere da lui composte.
Oltre alla protezione dell’autorità, una delle cause che provocò il quasi indiscusso primato
napoletano sull’opera del Settecento fu l’ottimo sistema di istruzione musicale praticato nei suoi
conservatori → si parla di “scuola napoletana” per indicare coloro che furono legati come allievi o
mastri ai quattro principali conservatori napoletani (Scarlatti, Pergolesi, Paisiello, Cimarosa etc).
Dal 1710 tali compositori iniziarono ad emigrare altrove, spinti dalla crisi economica. Il comporre
opere stava diventano sempre più una libera professione. Fu questo il periodo dell’esordio
liberistico del Metastasio.
L’opera fu introdotta a Napoli solo nella seconda metà del XVII secolo. La “Compagnia dei Febi
Armonici” rappresentò L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e venererò poi rappresentate altre
opere di operisti come Francesco Cirillo o Provenzale. Intanto compositori, cantati e strumentisti,
venivano formandosi negli orfanotrofi napoletani, chiamati Conservatori.
Alessandro Scarlatti (1660-1725) trattò tutti i generi musicali in voga alla sua epoca; il
melodramma attraverso le sue opere acquisì elementi che divennero tipici fino a Gluck: 1. la
sinfonia d’apertura; 2. l’uso del recitativo accompagnato; 3. l’aria con da capo con pezzi d’assieme
a fine atti; 4. mancavano spesso i cori, mancano del tutto le danze.
Scarlatti fu il principale operista italiano del suo tempo; non appartenne a nessuna scuola → la sua
posizione storica è di cerniera tra l’opera veneziana e l’opera napoletana.
Il vero maestro di molti operisti della scuola napoletana fu Francesco Durante, grande didatta che
non scrisse però opere.

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Il melodramma napoletano del Settecento superò la mescolanza tra vicende drammatiche e
personaggi comici che era consueta nelle opere veneziane del periodo precedente. Vennero
distinguendosi due generi, serio e buffo:
- opera seria: vicende solenni ed eroiche, personaggi storici o mitologici, lingua curata; eseguita
nei teatri importanti con la collaborazione di cantanti più celebrati e orchestre estese; libretti di
poeti e letterati illustri, come Apostolo Zeno o Pietro Metastasio; pubblico specialmente
aristocratico
- opera buffa: vicende di vita quotidiana, spesso in dialetto napoletano; eseguita in teatri piccoli
con orchestra ridotta; semplicità dello stile e mescolanza delle forme; libretti prima di autori non
sconosciuti poi anche di letterati noti, come Carlo Goldoni.
I compositori napoletani coltivarono entrambi i generi; ricordiamo Feo, Porpora, Vinci, Leo,
Pergolesi.
Intorno alla metà del secolo, solo il veneziano Baldassarre Galuppi e il faentino Giuseppe Sarti
contesero la palma di operisti di successo al numeroso stuolo di “napoletani” che avevo occupato
tutti gli spazi operistici europei. Si cerò in questa fase di imprimere ai libretti una struttura
drammaturgia ancor più stringente, in cui l’azione scorresse pressoché ininterrotta dall’inizio alla
fine → musicalmente, ciò significava un minor numero di arie, tutte incardinate nella vicenda, e
una semplificazione dei recitativi, svuotati da tutto il superfluo. Aumentò la percentuale di recitativo
accompagnato dall’orchestra a scapito del recitativo secco, dove il cantante era sostenuto dal solo
b.c. → si avvertiva il bisogno di una più massiccia presenza musicale.
Un’altra spinta verso la coerenza drammatica dell’opera provenne dal teatro recitato: l’attore
inglese David Garrick inaugurò uno stile di recitazione inedito molto più naturalistico, in cui i
personaggi quando non era il loro momento giravano sul palco e anche tra il pubblico come se
fossero fuori dalla vicenda.
Il melodramma del Settecento era solitamente diviso in tre atti; iniziava con una sinfonia cui
seguivano recitativi alternati ad arie. La Sinfonia era solitamente all’italiana (o scarlattina), di
forma tripartita: allegro-grave-presto. Nel recitativo si narrano le vicende e l’azione; non è canto
spiegato ma una declamazione melodica; può essere semplice/secco o accompagnato/obbligato.
Aria è qualunque forma melodica, composta di un certo numero di frasi simmetricamente regolate
sulle strofe o sui versi; racchiudono i momenti affettivi e sentimentali della vicenda. Secondo la
struttura si avevano: aria semplice, doppia (AB), aria col da capo (ABA), aria a rondò (ABACA).
L’arioso era un brano che si giovava alternamente del recitativo e della melodia spiegata. I pezzi
d’insieme sono quei brani che chiudono un’opera o singoli atti, richiamano in scena tutti i
personaggi o molti fra essi.
L’orchestra moderna nacque con il melodramma; Monteverdi fu il primo operista che attuò la
strumentazione espressiva, ovvero l’uso degli strumenti in rapporto alla situazione drammatica.
Il favore che l’opera italiana godeva in tutta Europa non era condiviso dai nostri letterati, dai
trattatisti e dai critici; questo riguarda anche la Francia, dove ci furono amore “querelles”, prima fra
lullisti e ramisti, poi tra buffonisti e antibuffonisti e infine tra gluckisti e piccinisti.
E’ all’interno di questo processo che va inserita l’opera del compositore tedesco Chritoph
Willibald Gluck (1714-1787); egli si stabilì a Vienna e compose numerose opere su libretti di
Metastasio. Nell’ambito della corte imperiale vennero ad incontrarsi quattro persone che
collaboravano per rendere espliciti i desideri di riforma teatrale: il conte Giacomo Durazzo,
“direttore generale degli spettacoli” di corte; il librettista Ranieri de’ Calzabigi; il ballerino e
coreografo Gasparo Angiolini; il compositore Gluck. In un primo tempo, Gluck affiancò alla
produzione di opere metastasiane quella di opéras comiques, opere comiche in auge nella Francia
del settecento caratterizzate da dialoghi trattati come recitativi senza accompagnamento.
Nella prefazione della tragedia Alceste (1767), Gluck espone le sue idee “riformatrici” → il suo
scopo è quello di spogliare l’opera italiana dagli abusi con cui cantanti e compositori l’avevano
immiserita:
1. limitare il virtuosismo vocale e il “da capo” nelle arie, evitando così anche la discontinuità
temporale dell’azione e saldando i pezzi chiusi con i recitativi limitrofi → tutto più verosimile
2. sostituire le arie sentenziose e “di paragone” (=arie il cui testo associa una situazione concreta
ad una condizione psicologica) con testi che mostrino situazioni più interessanti e sentimenti e
passioni forti
3. collegare la sinfonia iniziale al resto dell’opera
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4. abolire il recitativo secco e aumentare l’importanza dell’orchestra
5. introdurre all’interno dell’azione occasioni per cori e balli
6. ricercare una “bella semplicità” restringendo la musica al suo compito di servire la poesia.
Queste idee hanno però in sé diverse contraddizioni:
1. per creare un’opera moderna si torna a soggetti mitologici, come nelle prime opere di corte
2. per concentrare l’azione si utilizzano pochi personaggi, impedendo di fatto l’azione stessa
3. la scarsità dei personaggi è bilanciata da coro e balli, che tuttavia erano un ulteriore elemento
di staticità
4. malgrado la volontà di realismo drammaturgico, Gluck non può fare a meno id usare un
contralto maschile per l’eroe del suo Orfeo.
Dopo Gluck l’opera italiana continuò però nella sua tradizione senza troppi problemi. Gluck stesso
fu costretto a rivalutare il ruolo dell’aria: essa era pur sempre un mezzo insostituibile per scolpire a
tutto tondo l’identità dei personaggi. Suoi successori sono Sacchini, Salieri, Cherubini e Spontini.

L’opera seria del Settecento → Sul volgere della metà del secolo XVII erano ormai i gusti del
pubblico a dettar legge negli spettacolo operistici e le arie riscuotevano un gradimento così
indiscusso che se ne accettava un impiego estensivo anche da parte dei personaggi seri.
Attorno al 1650 quella strofica era di gran lunga la forma prediletta per le arie d’opera;
particolarmente interessanti cono le arie strofiche in cui si riscontra l’uso del refrain, alcuni versi,
uno o due, che ricorrevano sempre uguali al termine di tutte le strofe. Ciascuna strofa si
componeva di due parti: a una prima sezione (a) ne seguiva un’altra (b), costituita dal refrain del
testo → arie bipartite: l’intonazione musicale prende per ciascuna strofa la forma ab. Spesso (b)
veniva immediatamente ripetuta, lievemente variata (b’), formando la forma abb’.
Meno frequenti erano alcuni altri tipi di aria in cui il refrain compariva all’inizio e al termine della
prima strofa, e poi in chiusura delle altre. Di solito alla parte di testo variabile era associata una
musica diversa da strofa a strofa → arie con forma da capo-refrain.
Talvolta il testo era composto da una sola strofa: aba, tripartita.
Nella seconda metà del Seicento, iniziò una lenta rimonta dell’aria tripartita che, a inizio
Settecento, iniziò ad essere definita aria col “da capo”:
1. presenza di un a nettamente distinto dal b e ripetuto al termine dell’aria (forma aba);
2. sezioni a, b tonalmente interdipendenti (b si conclude in una tonalità vicina);
3. dimensioni piuttosto sviluppate;
4. frequente presenza di un ritornello strumentale introduttivo e/o intercalato tra le sezioni
dell’aria;
5. collocazione al termina della scena, dopo il recitativo, spesso come aria di entrata.
Il successo dell’aria col “da capo” sancì la definitiva affermazione della musica rispetto al testo in
quanto strumento espressivo principale nel teatro d’opera. La ripetizione della sezione a
comprometteva maggiormente la verosimiglianza rispetto alle arie bipartite → distacco da parte
del personaggio stesso rispetto alla sua particolare situazione affettiva. Le arie finirono per
atteggiarsi secondo fisionomie poetico-musicali ricorrenti, ciascuna corrispondente a una
particolare situazione tipica delle trame operistiche (aria del sonno, di sortita, di bravura, parlante
(facile ma molto espressiva), in catene (personaggio prigioniero), di paragone).

La struttura della scena (recitativo+aria) nell’opera italiana settecentesca offriva il vantaggio di una
notevole flessibilità e adattabilità alle esigenze pratiche dei diversi allestimenti.
Esempio: Griselda di A. Scarlatti. La “sinfonia avanti l’opera” che apre la Griselda esemplifica bene
il tipo della sinfonia tripartita che diventerà tipica dell’opera italiana; è manifesta la ricerca del
contrasto fra i tre movimenti, sotto l’aspetto metrico, agogico, tonale e sotto il profilo dell’assetto
sonoro. La distribuzione delle arie tra i personaggi suggerisce una precisa gerarchia dei ruoli e
degli interpreti, come era convezione all’epoca. Vi sono anche virtuosismi e ampi salti melodici
come era convenzione dell’opera seria settecentesca; vi è anche il recitativo accompagnato che
interviene nei momenti di maggiore tensione emotiva.
Esempio: Orfeo ed Euridice di Gluck su libretto di Ranieri de’ Calzabigi. Non è propriamente un
“dramma per musica”, ma un’”azione teatrale”, genere diffuso a Vienna soprattutto come
spettacolo di corte. Caratteristiche sono le dimensioni ridotte e la presenza di non più di tre

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personaggi (qui Orfeo, Euridice e Amore). Topoi caratteristici delle “azioni teatrali” sono pure
l’ambientazione mitologica, l’uso della danza e del coro, la cura riservata all’orchestrazione.
Il compito del compositore non era quello di interpretare il contenuto affettivo del testo, come
nell’opera italiana, ma quello di liberare il potenziale fonico-espressivo implicito nella
declamazione.

INTERMEZZI E OPERA BUFFA

La distinzione tra genere serio e genere comico non fu avvertita in modo vincolante sino alla fine
del Seicento (ricordiamo ad esempio gli elementi comici nell’opera barberiniana a Roma). Le opere
veneziane seicentesche incorporavano nel “bello scompiglio” delle loro trame anche alcune scene
buffe. A fianco degli aristocratici protagonisti vi erano alcuni personaggi di basso ceto sociale che
davano luogo a scenette comiche tra loro. La trama più comune di queste scene buffe si limitava
ad utilizzare due personaggi: una vecchia nutrice che si innamorava di un giovane paggio, a sua
volta a servizio dell’eroe maschile. Le smanie amorose di una vecchia non potevano che essere
risibili; l’eventuale “lieto fine” non poteva che essere determinato dall’amore del paggio per la dote
economica di costei. Parallelamente i personaggi avevano anche una funzione seria, inserita nel
corso principale della vicenda.
Man mano, trama principale “seria” e trama secondaria “comica” andarono sempre più
separandosi: l’azione dei personaggi buffi venne limitata al loro piccolo mondo a due, senza più
interferenze con la vicenda generale dello spettacolo. Ciò va collegato anche con la parallela
evoluzione dell’opera avvenuta all’epoca di Apostolo Zeno: la crescente esigenza di coesione
drammatica dei libretti comportava l’espulsione di ogni elemento comico generando appunto
l’”opera seria”.
Nei primi anni del Settecento furono definitivamente troncati gli ultimi legami delle scene buffe con
le opere che le ospitavano → nacque un nuovo genere musicale: gli intermezzi, costituiti da
un’azione indipendente e compiuta in se stessa, che può essere rappresentata anche del tutto
autonomamente (non sono da confondere con gli intermedi che interrompevano le commedie
recitate del Cinque-Seicento). I primi esempio provengono da Venezia e risalgono al 1707. Dalle
scene buffe, gli intermezzi ereditarono la collocazione temporale: fino al 1730 la loro trama si
suddivideva in tre singoli intermezzi collocati tra 1° e 2° atto, fra 2° e 3° e verso la fine del 3°. Dagli
anni ’30 divenne invece più comune la tipologia in due intermezzi, situati nei due intervalli. Lo
spettatore assisteva parallelamente a due spettacoli, uno serio e l’altro comico, che si
interrompevano vicendevolmente. Ognuno dei tre (o due) intermezzi comprendeva quasi sempre
dialoghi in recitativo secco, un’aria per ciascuno dei due personaggi e un duetto finale.
Generalmente gli intermezzi si svolgevano sul svolgevano sul proscenio; la vicenda era
ambientata nell’epoca contemporanea tra personaggi di ceto sociale medio-basso. I protagonisti
erano due e non era necessario l’accompagnamento dell’intera orchestra. I cantanti inaugurarono
uno stile vocale nuovo: una declamazione comica prossima a quella naturale, sillabica, ricca di
contrasti di tessitura e dinamica; gli strumentisti avevano anch’essi una funzione comica,
sottolineando le battute dei cantanti. Il ritmo era nervoso e mutevole, la dinamica prescritta in
partitura e la fraseologia assai frammentata e ricca di incisi.
Il circuito di produzione e fruizione degli intermezzi ricalca quello dell’opera seicentesca: ad una
prima fase (dai primi del ‘700), in cui i cantanti venivano reclutati fra il personale fisso del teatro, ne
seguì (dal 1715 ca) una seconda in cui la coppia buffa, stabilmente unita, girovagava con il proprio
repertorio fisso nei diversi teatri; infine (dal 1730 ca) si passò alla libera circolazione dei singoli
solisti.
A Napoli questo genere musicale arrivò molto tardi; i solisti specializzati nelle scene buffe
all’interno delle opere napoletane erano contemporaneamente membri della cappella di corte e in
quanto cantori reali non potevano inserirsi in un circuito, quale quello degli intermezzi, retribuito
assai meno. Nel 1724 il librettista Metastasio scrisse per un proprio dramma un testo di intermezzi
del tutto indipendenti da esso.
Negli intermezzi, i ruolo delle scene buffe (donna vecchia/uomo giovane) si erano completamente
ribaltati; ora la donna è giovane e scaltra, di condizione sociale inferiore, e con furberie e

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travestimenti cerca di ascendere nella scala sociale facendosi sposare dal personaggio maschile,
vecchio.
Il successo con cui venne accolto questo genere musicale ne favorì, dopo gli anni ’30 del
Settecento, l’esecuzione totalmente autonoma.
Intanto a Napoli esisteva già, fin dal 1709, un tipi di spettacolo musicale comico: la commedia per
musica, la cui caratteristica più importante era quella di far uso del dialetto napoletano; solo più
tardi si iniziarono ad avere i personaggi più “seri” in lingua italiana → ai personaggi di ceto basso si
affiancarono personaggi di livello superiore. La commedia per musica presentava molti punti di
contatto con il dramma per musica: era uno spettacolo in tre atti, che occupava un’intera serata,
caratterizzato da alternanza di recitativi e arie, con personaggi seri e buffi, con intermezzi a sua
volta tra un atto e l’altro. Scopo era insegnare a fuggire i vizi, mostrandone la presenza in
personaggi plebei. Mancava totalmente qualsiasi intento satirico verso l’ambiente dell’opera seria.
Questo genere musicale giunse fino a Roma e Venezia. A Venezia negli anni ’30 entrarono in
contatto tutti i diversi modi di fare uno spettacolo comico in musica: la commedia per musica
napoletana; gli intermezzi; un tipo di spettacolo cantato di tradizione veneziana; le commedie di
prosa; la commedia dell’arte (usano i canovacci) → nacque così la prima vera opera buffa: La
contessina del commediografo Carlo Goldoni. Fu soprattutto nella produzione scaturita dalla
collaborazione di Goldoni con Baldassarre Galoppi che l’opera buffa acquistò quel compiuto livello
artistico per cui essa divenne uno dei generi musicali più importanti del Settecento. Dalla
commedia per musica napoletana, l’opera buffa prese il fatto di costruire uno spettacolo a sé in tre
atti, denominato dramma giocoso, la divisione per ceti sociali di personaggi, l’uso talvolta del
dialetto; dagli intermezzi prese l’esclusione di arie col “da capo” in favori di pezzi chiusi d’azione;
dalle satire veneziane trasse la distanza critica verso l’opera stessa.
Nel 1760 un altro libretto di Goldoni, musicato da Niccolò Piccini, destò scalpore e inaugurò una
nuova fase dell’opera buffa: si tratta di Cecchina, o sia La buona figliola, che si inserisce nel filone
“sentimentale-lacrimevole → opera semiseria, genere operistico in cui convivono personaggi,
forme e stili tratti dall'opera seria e dall'opera buffa. Storicamente il genere semiserio si affermò in
Italia negli ultimi decenni del Settecento. L'intreccio si sviluppava intorno alle disavventure di una
coppia di giovani, per lo più di estrazione sociale umile, e dopo aver sfiorato la conclusione tragica,
si concludeva immancabilmente con un lieto fine. Il ruolo del malvagio era assegnato normalmente
ad un personaggio dell'aristocrazia, così da istituire un elemento di conflitto sociale (oltre che
personale) di matrice tipicamente francese. (Esempi: La gazza ladra di Rossini; Il furioso all’isola di
San Domingo di Donizetti).
Al dramma giocoso dette un contributo insostituibile, negli anni ’80, Mozart.

Nel 1733 venne rappresentato il Prigionieri superbo, opera seria che Pergolesi scrisse su libretto di
Gennarantonio Federico. Agli stessi si devono gli intermezzi inseriti tra gli atti di quell’opera,
denominati La serva padrona. Molti dei tratti che vi si riscontrano sono tipici degli intermezzi nella
loro forma “classica”: pochissimi sono i personaggi - qui il vecchio Uberto e la giovane serva
Serpina + Vespone, servo di Uberto, che non apre bocca → uso della pantomima e del
travestimento (sempre Vespone). Tipica è pure l’articolazione in due intermezzi, ciascuno dei quali
comprende due arie più uno/due duetti; il tutto è intercalato da recitativi e il numero conclusivo è un
duetto. Si nota inoltre la presenza di situazioni e personaggi modellati su stereotipi di successo; il
realismo della vicenda; la quotidianità del linguaggio. Nelle arie comiche si nota la pronuncia
sillabica e spesso rapida, l’uso di note ripetute, l’articolazione netta delle frasi, presenza di
numerosi salti di ottava, frequente unisono con il basso strumentale.

L’OPERA FRANCESE DEL SEICENTO e oltre

Con l’approssimarsi del Barocco, la musica era divenuta uno dei mezzi con cui l’autorità celebrava
i propri fasti, muovendo gli affetti degli ascoltatori. La nazione in cui questo orientamento si
espresse in forma più palese fu la Francia, in cui riuscì ad imporsi la più forte sovranità
centralizzata d’Europa. Fondamentali furono gli esperimenti di un circolo culturale esclusivo fiorito
alla corte di Carlo IX intorno al 1570, l’Académie de poésie et de musique. Il letterato Jean
Antoine de Baif, principale ispiratore di questa accademia, sosteneva che per far rivivere i
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portentosi effetti della musica antica bisognava raggiungere una competa fusione tra poesia e
musica → assoluta importanza al ritmo. Baif voleva ottenere una musica il cui ritmo ricalcasse alla
perfezione quello poetico → musique mesurée à l’antique. Venne mantenuta una strutta a più voci,
anche se esse venivano trattate omoritmicamente, evitando le imitazioni contrappuntistiche; ideò
anche una danza mesurée attraverso l’adattamento dei passi delle danza tradizionali alle strutture
ritmiche antiche che unificavano versi e musica.
In occasione dei festeggiamenti per le nozze di Margherita di Lorena e del duca di Joyeuse, venne
rappresentato il più celebre tra i balletts de cour (balletti di corte), il Balet comyque de la royne
(Balletto drammatico della regina), ideato dal violinista e coreografo italiano Baltasar de
Beaujoyeux. Alla fine del Cinquecento, il ballet de cour era il genere di teatro musicale preferito alla
corte di Francia: una successione di danze con un filo narrativo con strumenti e canto. Negli anni
’30 del Seicento, i ballets de cour abbandonarono i contenuti allegorici per celebrare le glorie
militari della monarchia francese. Valenza politica ebbe una delle più importanti iniziative musicali
intraprese nei primi anni del regno di Luigi XIV dal cardinale Giulio Mazarino, che fece allestire a
corte alcune opere italiane. L’ostilità dello sceltissimo pubblico verso le iniziative di Mazarino
nasceva da una duplice causa: da una parte, l’opera italiana (con cantanti castrati, armonia
complessa, virtuosismi vocali, testo incomprensibile per la lingua) era molto lontana dal gusto
francese; dall’altra, il crescente movimento di opposizione cercava di ostacolare ogni
italianizzazione della vita di corte. A metà del secolo XVII, accanto al ballet de tour venne in voga
la comédie-ballet, in cui brani danzati e pezzi cantati sono inseriti nel corso dei dialoghi parlati.
La Francia rimase l’unico paese europeo in cui l’opera italiana non riuscì ad attecchire ed erano
maturi i tempi perché venisse forgiato un nuovo tipo di spettacolo che rispecchiasse pienamente i
gusti francesi → colui che riuscì in questo intento fu un italiano naturalizzato francese: Jean
Baptiste Lully (1632-1687). Il suo stile francese pretendeva una maggiore fedeltà al testo
musicale. Lully iniziò a collaborare con il famoso commediografo Molière alla creazione di
numerose comédies-ballets. L’integrazione tra poesia musica e danza avvenne però solo nel 1673,
con la prima tragédie lyrique di Lully, Cadmus et Hermione, su testo di Philippe Quinault, noto
librettista. Questa e le successive erano vere e proprie tragedie in versi, il cui testo veniva
interamente musicato in un’alternanza di récits e di airs, oltre a numerosi interventi corali e
strumentali. Dopo un prologo, generalmente preceduto e seguito da un’ouverture strumentale (due
sezioni con carattere contrastante), si susseguivano cinque atti, ciascuno imperniato da un
divertissement, ovvero un momento in cui l’azione si arrestava per dar luogo ad un balletto
elaborato. Il testo del prologo, intonato spesso da personaggi allegorici, esplicitava la funzione di
tutta l’opera e favoriva l’identificazione tra il re e l’eroe della vicenda. La tragédie lyrique si
configura come un’emanazione della tragédie parlata ed è dunque importante l’attenzione alla
parola. Nei récits lulliani vi è una grande varietà metrica con alternanza tra misure binarie e
ternarie → aderenza del declamato musicale all’accentuazione del verso. L’air che segue il récit è
strettamente legato a quello, né è quasi un’emanazione. Gli influssi italiani sono esclusi del tutto
dai récits: Lully imponeva ai cantanti di astenersi dall’introdurre arbitrariamente vocalizzi e
diminuzioni, com’era invece uso corrente nell’opera italiana; le coloriture sono relegate nei
divertissements. I libretti erano scritti tutti con lo stesso tipo di verso e si fa dunque fatica a capire
quali sezioni sono destinate alle arie e quali ai recitativi. L’opera francese era centralizzata; Parigi
era il centro, c’era solo questa corte e non si poteva dunque diffondere un’opera impresariale
senza piazze. In Francia vi era una cultura classicista, ispirata ai principi classici della bellezza,
deve riflettere la naturalezza delle cose (castrazione non accettata, troppo artificiale).
Si pone in antitesi all’opera italiana per 1. è un’opera di corte, 2. riflette un’estetica classica, 3.
importanza alla declamazione intonata del testo. In Francia è più importante il recitativo (momento
in cui il teatro è più verosimile), in Italia le arie.
Il Re Sole concesse a Lully l’assoluto monopolio sugli spettacoli operistici → accumulò un notevole
patrimonio grazia all’ascesa nella scala sociale. Nato dunque sotto gli auspici di Luigi XIV durò fin
quasi la fine del XVIII secolo. Questo genere per tutto il Settecento fu oggetto di accese dispute tra
i teorici del teatro musicale d’oltralpe; vi era difficoltà nel conciliare il fasto dei divertissements con
il tono generalmente severo e aulico tenuto da récits e airs. Nella tragédies lyriques si mescolano i
tratti di diversi generi di spettacolo preesistenti: la comédie-ballet, l’opera italiana, ma soprattutto i
ballets de cour e la tragedia recitata. Nel 1670 Luigi XIV rinunciò ad ogni ruolo attivo negli

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spettacoli di corte; la sua presenta, perduta nella realtà, fu recuperata nel nuovo genere teatrale
sotto forma di allegoria. La serie di tragédies lyriques che Lully compose per la corte francese si
configura come una sorta di chanson de geste del sovrano.
Esempio di tragédie lyrique: Armide di Lully. Tutto è giocato sui continui mutamenti affettivi di
Armide e sui suoi sentimenti contraddittori nei confronti di Rinaldo. Vengono introdotte nella
vicenda situazioni adatte all’inserzione di divertissement per rispettare il principio di
verosimiglianza; vengono anche mutuati molti dei canoni drammaturgia classici in uso nella
tragédie di parola (articolazione in 5 atti e tendenza al osservare le unità aristoteliche d’azione, di
tempio e di luogo). Per garantire il rispetto dell’unità di tempo, si sfrutta il principio della liaison des
scènes (connessione tra le scene) → due scene consecutive hanno almeno un personaggio in
comune, che rimane in scena mentre i suoi interlocutori cambiano.
A fine ‘600 la tragédie lyrique divenne il modello di un teatro brocco musicale nobile ed elevato;
l’opera italiana invece assunse i tratti di un “sottoprodotto” che non rispettava i requisiti minimi per
essere definito genere aristocratico.
Successore di Lully fu Rameau (1683-1764) ; il suo senso teatrale si attua con un uso più vario del
recitativo, una melodia largamente influenzata dagli italiani, un’armonia ricca, orchestrazione
largamente impiegata → querelle tra lullisti e ramisti. Si affermò in modo decisivo l’opéra
comique, un tipo di spettacolo leggero in cui si alternavano e si mescolavano dialoghi parlati e arie
semplici, molto influenzata dall’opera buffa italiana; questa si venne affermando e diverrà in
Germania il Singspiel e nell’Ottocento l’operetta. Dopo il 1830 si affermò il grand-opéra,
improntato ad esteriore grandiosità con soggetti romanzeschi basati su violenti contrasti di
passioni. Intorno a metà secolo, dalla fusione di elementi del grand-opéra e dell’opera comique
nacque il dramma lirico: argomenti storici o leggendari con caratteri favolosi (esponenti: Bizet,
Gounod).

L’EUROPA TRA SEI E SETTECENTO

Nonostante il continuo successo delle tragédies lyriques, le caratteristiche stilistiche della musica
italiana, la creazione dell’opera in musica e i meccanismi impresariali erano novità talmente
dirompenti che tutti gli stati europei dovettero confrontarvisi.
- La Francia, anche per ragioni politiche, le respinse quasi tutte - accettando solo l’idea di un
teatro musicale. Solo gradatamente lo stile italiano riuscì a far breccia; un giovane compositore
Francois Couperin, aveva escogitato uno stratagemma per scrivere sonate a tre in stile italiano
senza provocare accuse di “tradimento” da parte dei suoi compatrioti: finse che un cugino gli
avesse inviato una sorta di un nuovo compositore italiano e poiché il suo pubblico era avido
delle novità musicali della penisola, Couperin ottenne un grande successo, e con il suo nome
italianizzato produsse altre sonate.
- La capitale dell’impero asburgico, Vienna, le accolse quasi interamente. Pero ostentare il
prestigio della corte imperiale, furono allestiti nella città spettacoli operistici in italiano, nel segno
del mecenatismo “istituzionale”, non certo a fini di lucro. Un’eccezione è Ambrugo, in cui l’opera
era cantata in tedesco e vi era un costo del biglietto.
- In Germania: forse il più grande musicista tedesco del Seicento è Heinrich Schutz (1585-1672);
i due viaggi che compì in Italia costituirono un’esperienza fondamentale per la sua maturazione
stilistica. Assorbì pienamente la concezione della musica come arte di muovere gli affetti,
sostanzialmente affine alla retorica. Le sue composizioni, benché prevalentemente orientate sul
repertorio sacro, si pongono come sintesi della “seconda pratica” italiana con la tradizione
musicale luterana. In Germania il compositore Georg Muffat tentò una conciliazione tra lo stile
strumentale francese (ritmi di danza e impianto orchestrale a cinque parti) e quello italiano
(impianto a tre parti, scrittura espressiva ed idiomatica).
- Totalmente diverso fu il percorso musicale dell’Inghilterra. Il maggior compositore inglese
seicentesco è Henry Purcell (1659-1695) → compone inserti musicali, spesso destinati al
balletto, che riempiono alcuni drammi recitati. La musica da un lavoro apriva la
rappresentazione e occupava gli spazi tra un atto e l’altro e dall’altro era introdotta come musica
di scena nei momenti in cui l’azione richiedeva un intervento sonoro. Vi erano anche i masque,
sofisticati e sontuosissimi balletti di corte corredati di musica vocale e strumentale, talvolta
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inseriti nei drammi recitati. Solo una composizione di Purcell è una vera e propria opera: Dido
and Aenas (1689), spettacolo interamente musicato. Nelle sue musiche, Purcell sviluppa un
principio già usato da Lully: l’uso del basso ostinato.
- L’altra grande potenza del Seicento, la Spagna, rimase quasi impermeabile alla diffusione
dell’opera italiana. Fiorirono solo le zarzuelas, drammi recitati di argomento mitologico con
inserti musicali.

La musica strumentale, non supportata da alcun testo, continuò a lungo ad apparire come una
successione di suoni senza senso o come una sollecitazione delle componenti psicologiche più
irrazionali e sensuali. Si iniziò solo dopo a giustificare il linguaggio dei suoni come “pittura sonora”,
destinata a esprimere gli affetti di un testo (musica vocale) o a riprodurre i suoni naturali (musica
strumentale) → anche la musica priva di testo poteva proporrei come imitazione della natura. I
compositori si adeguarono al canone mimetico imperante associando sempre più spesso alle loro
musiche strumentali titoli descrittivi o altri riferimenti extramusicali. I principi della mimesi
(imitazione della natura) si tradussero in musica più frequentemente nel repertorio
clavicembalistico. Esempio: Pieces de clavecin di Couperin.

IL CONCERTO BAROCCO

E’ ancora una volta a Roma che vanno rintracciate le provini di un genere musicale che dominò, a
fianco della sonata, la produzione strumentale tra Sei e Settecento: il concerto grosso. Nota che
il termine “concerto” indica genericamente una forma con strumenti concertanti, ovvero con parti
articolate, non di accompagnamento, che possono confrontarsi tra loro (stile drammatico anche
nella musica strumentale). La prima forma è il concerto d’assieme (più parti strumentali con parti
singole o gruppi che emergono alternativamente), successivamente il concerto grosso e il concerto
solistico (reso disponibile dal forte incremento della tecnica strumentale).
Verso la fine del Seicento gli oratori andarono servendosi di un organico strumentale più ampio. Le
partiture di composizioni di 14 ci mostrano un particolare trattamento della compagine strumentale:
Stradella divide i suoi musicisti in due gruppi, denominati “concertino” e “concerto grosso”. Gli
strumenti del concertino sono i medesimi di quelli della sonata a tre, ovvero due violini e basso
continuo; il concerto grosso, invece, ha una struttura a quattro parti (violino, 2 vuole, b.c.). Tutta la
forma è giocata sull’alternanza e sovrapposizione tra le due parti. Stradella si serviva di questa
suddivisione dell’organico strumentale per le diverse esigenze dell’accompagnamento, impiegando
il concertino nelle arie dei solisti e riservando il concerto grosso per i pezzi d’assieme e la sinfonia
introduttiva. Il concertino era quasi un gruppo di solisti contrapposti al resto della massa
orchestrale.
Anche Arcangelo Corelli si appropriò di questa tecnica concertante, realizzandola nella musica
strumentale. Alcune sue composizioni ricevettero per antonomasia il titolo di Concerti grossi,
essendo interamente imperniate sull’alternanza tra “soli” e “tutti” → il termine ha quindi un doppio
significato: dal punto di vista della strumentazione si tratta del gruppo di strumenti che si
contrappone al concertino; dal punto di vista formale denota il genere musicale, tipico dell’epoca
barocca, basato proprio sul contrasto tra concertino e ripieno. Corelli mutò l’organico del ripieno: 2
violini, viola e b.c., accentuando anche il virtuosismo del concertino. I dodici Concerti grossi di
Corelli rispecchiano anche la divisone sociologica che imperava nella sonata a tre: i primi otto “da
chiesa” (con movimenti di carattere fugato) e gli altri quattro “da camera” (movimenti di danza).
L’appropriazione del concerto da parte di autori veneziani introdurrà molte novità:
1. il numero dei movimenti sarà generalmente ridotto a tre
2. verrà applicata ai singoli movimenti la “forma-ritornello”: la sezione introduttiva del “tutti” ritorna
in varie tonalità, raggiunte tramite sezioni modulanti affidate ai “soli”
3. si accentuerà la dimensione solistica del concertino, approdando alla composizione di concerti
per un unico strumento solista, che dimostrava il proprio virtuosismo → concerto solistico. Il
“tutti” orchestrale (ex concerto grosso) esegue i ritornelli; tra un intervento e l’altro vi sono gli
episodi (ex concertino) solistici, che variano il tema del ritornello o lo riprendono → si sviluppa
l’arte della variazione virtuosistica 1. servono strumentisti abili, 2. scrittura differenziata: gli

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episodi solistici usano le progressioni, il tutti usa schemi più fissi. Lo stesso accadeva tanto nei
tempi lenti quanto in quelli veloci.
Il centro musicale che più d’ogni altro suggerì al concetto le sue nuove caratteristiche è Bologna.
Tra i primi autori di concerti solistici troviamo Tommaso Albioni (1671-1751), ma ben presto la
ribalta di questo repertorio fu occupata da un altro compositore veneziano: Antonio Vivaldi
(Venezia 1678- Vienna 1741), autore di circa 500 concerti. Egli ricoprì il ruolo di “maestro di violino”
presso il Pio Ospedale della Pietà di Venezia; “ospedali” erano gli istituti che raccoglievano i
bambini orfani, abbandonati fornendo loro un’educazione e un mestiere. Qui la musica svolgeva un
ruolo di primo piano. Buona parte della produzione strumentale di Vivaldi fu composta in vista di
esecuzioni di ragazze dell’Ospedale. Ben presto Vivaldi affiancò all’insegnamento un altro filone di
attività musicale: quello relativo al teatro d’opera e compose circa 100 opere. La sua fama divenne
internazionale e lo portò a viaggiare in tutta Europa. Gli ultimi ani della vita di Vivaldi lo videro
quasi ai margini della vita musicale dell’epoca; Johann Joachim Quantz scrisse che “cadde in una
leggerezza meschina e bizzarra, tanto nel comporre quanto nel suonare”.

In Italia, l’atteggiamento dei ceti intellettuali risentì non posso della divaricazione tra cultura
artistico-letteraria e pratica musicale. L’Arcadia, l’accademia letteraria rapidamente diramatasi
dopo il 1690 che propugnava il recupero di un classicismo antiebraico, ignorò quasi del tutto la
musica, considerata un ornamento per intrattenere. Sull’altro fronte, i compositori si confrontarono
occasionalmente con la poetica dei letterati. La presenza di chiari intendimenti descrittivi o anche
id riferimenti extramusicali è nei cataloghi dei compositori italiani assai più rara di quanto non
avvenga per i compositori coevi francesi o tedeschi.
Un’eccezione sono i concerti di Vivaldi. Le denominazioni attribuite a queste composizioni
sembrano offrire un campionario delle capacità descrittive della musica strumentale: dalla semplice
onomatopea (Il gardellino), alla rappresentazione di un paesaggio (La tempesta di mare) etc. Due
concetti del catalogo vivacchiano, uno per flauto e uno per fagotto, sono intitolati La notte. In quello
per flauto, Vivaldi non si limita a suggerire il clima espressivo attraverso il solo titolo generale, ma
attribuisce denominazioni particolari ad alcuni sei singoli movimenti (Fantasmi, Il sonno, Sorge
l’Aurora). Un ulteriore passo è quello compiuto nelle Stagioni, il celeberrimo ciclo di quattro
concerti (1725)→ La primavera, L’estate, L’autunno, L’inverno. Le Stagioni sono concerti per
violino solista, orchestra d’archi (violini I e II + viola) e continuo. L’autografo è perduto ma vi sono
manoscritti in cui si nota delle lettere accostate alla parte del violino solista, che stabiliscono una
corrispondenza tra i diversi segmenti di ciascun concerto e i versi di quattro sonetti di autore
ignoto.
La Primavera è divisa in tre movimenti: Allegro, Largo, Allegro. Nel primo movimento, in
corrispondenza delle immagini poetiche del sonetto più dinamiche l’interesse musicale viene
incrementato tramite il rapido avvicendarsi di elementi tematici differenti, e durante il “solo”
attraverso frequenti modulazioni che alla fine conducono alla tonalità di Do#min., relativa di mi
magg. Nel largo in do# min., vi è un’atmosfera di tregua senza b.c.; è di forma bipartita: la prima
parte modula alla tonalità della dominante, la seconda torna alla tonica. Il b.c. ricompare
nell’Allegro finale, in forma-ritornello come il primo movimento.

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