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di PATRIZIO PACI –
d’Europa.
Nella seconda metà del ‘700 a Venezia Baldassarre Galuppi musicò 20 commedie
del drammaturgo e scrittore Carlo Goldoni, mentre a Parigi si accese una disputa
(Querelle des bouffons) tra l’opera buffa italiana di Giovan Battista Pergolesi e
quella francese di Jean Philippe Rameau. In questo periodo il cantante, cui era
richiesto un virtuosismo tipico della scrittura strumentale, veniva scelto per
l’agilità della sua voce e per la gamma dei registri timbrici. Il compositore gli
lasciava molta libertà per ornamentare la melodia, con i cosiddetti “abbellimenti”.
La libertà sugli abbellimenti divenne presto eccesso di licenza. Il cantante,
divenuto un po’ creatore, si sentiva legittimato a mettere in mostra soprattutto i
propri virtuosismi, indipendentemente dalle esigenze musicali dell’opera. Molto più
della musica e del dramma, i cantanti erano i veri protagonisti dell’opera. Esistono
caricature che esagerano le grandezze fisiche dei cantanti di quel tempo. Gli
evirati ebbero un grande fortuna, iniziavano la loro carriera in chiesa e divennero
assai ricercati. Alcuni, come Caffarelli e Farinelli, sono passati alla storia. Con
il tempo, i virtuosismi dei cantanti arrivarono ad eccessi tali da rendere
incomprensibile il testo del dramma, allontanando la parola dalla musica. Sarà il
musicista tedesco Christoph Willibald Gluck (1714 – 1787), insieme al librettista
italiano Ranieri de’ Calzabigi, ad elaborare la riforma del melodramma. Tra i punti
fondamentali di questa riforma, si ricorda che ai cantanti non era più permesso di
riempire la propria partitura di fioriture, se non sono espressamente scritte dal
compositore. Scomparve inoltre la differenza tra recitativo e aria, in quanto si
preferì una dimensione musicale costantemente espressiva e legata alla parola. Il
coro aveva funzione di personaggio. Le danze erano ammesse solo quando
avevano un reale ruolo nel dramma. I cambi di scena furono ridotti al minimo e
l’orchestrazione rivestì un ruolo musicale autonomo e non solo
d’accompagnamento ai cantanti (anticipazione della scrittura Wagneriana).
Nell’Orfeo ed Euridice di Gluck si ha appunto l’esempio di una vocalità molto più
controllata, essenziale rispetto all’azione e più vicina alla metrica del testo. Anche
grandi musicisti come Wolfgang Amadeus Mozart (Nozze di Figaro, Don Giovanni,
Così fan tutte), Gioacchino Rossini (Barbiere di Siviglia) e Gaetano
Donizetti (L’elisir d’amore),attingendo dalla Scuola Napoletana si dedicarono alla
composizione dell’Opera Buffa. Alla fine del 1700 a Milano venne costruito il Teatro
alla Scala, il più grande ed importante del mondo. Nel 1800 romantico, si
abbandonò l’Opera Buffa e i compositori si dedicarono di nuovo al Melodramma,
musicando testi tratti da romanzi che descrivevano vicende appassionate e
tragiche di scrittori come Alessandro Dumas, Victor Hugo, Friedrich Schiller e
William Shakespeare, scritti rielaborati dai librettisti dell’epoca. Il pubblico
partecipava emotivamente identificandosi nei sentimenti dei personaggi. Tra le
passioni rappresentate trionfava soprattutto l’amore (sempre infelice o
contrastato), ma anche il patriottismo, la libertà, la giustizia, temi portati avanti
dagli ideali del Risorgimento, del quale fu massimo esponente in musica Giuseppe
Verdi, iscritto alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. I compositori dediti al
melodramma nel 1800 romantico furono: Gioacchino Rossini ( Italiana in Algeri,
Guglielmo Tell, Sigismondo, La gazza ladra, Cenerentola), Gaetano Donizetti ( Don
Pasquale, Lucia di Lamermoor), Vincenzo Bellini ( La sonnambula, Norma, I
Capuleti e i Montecchi, I Puritani), Giuseppe Verdi (Aida, Nabucco, Attila, I
lombardi alla crociata, Il Trovatore, Rigoletto, Traviata, I Vespri Siciliani, Don
Carlos, Otello, Faltaff). L’opera era molto popolare nell’800, il pubblico che
affollava i teatri proveniva da tutti i ceti sociali, le arie d’opera erano famose come
le canzoni di oggi, tutti le sapevano canticchiare ed ogni città italiana aveva il suo
teatro. In Germania fino al 1826 Carl Maria Von Weber contribuì allo sviluppo
dell’Opera in lingua tedesca, ma nel 1850 il Melodramma subì una trasformazione
per l’influenza di Richard Wagner: l’accompagnamento strumentale fu sostituito
dalla scrittura sinfonica contrappuntistica per fondersi con la melodia, il piano
dell’orchestra fu abbassato per far arrivare meglio in sala la voce dei cantanti e
furono spente le luci in sala per concentrare meglio il silenzio e l’attenzione del
pubblico sul palcoscenico. Il primo compositore a risentire di questa influenza fu il
tedesco Richard Strauss. Nell’Opera francese è da segnalare la produzione
musicale di Hector Berlioz e Georges Bizet (Carmen 1875) che, sotto l’influenza
culturale del Verismo, si ispirò a personaggi e a vicende tratte dalla vita popolare.
Agli inizi del 1900, sulla scia di questa nuova corrente di pensiero, si affermarono
Amilcare Ponchielli (La Gioconda), Umberto Giordano (Andrea Chenier, Fedora),
Francesco Cilea (Adriana Lecouvrier, Arlesiana), Pietro Mascagni (Cavalleria
Rusticana), Ruggero Leoncavallo (Pagliacci), e Giacomo Puccini (Manon Lescaut,
Tosca, Bohème, Madame Butterfly, Turandot), mentre nel resto d’Europa
trionfavano le Scuole Nazionali con il Poema Sinfonico ed il Balletto. Dal punto di
vista musicale l’opera verista subì l’influenza della scrittura Wagneriana e del
Poema Sinfonico: la melodia non era più servita da uno sterile accompagnamento
orchestrale, ma da fraseggi contrappuntistici in stile sinfonico descrittivo, a
sottolineare, con particolari sonorità le azioni drammatiche, come accade nella
colonna sonora. Dai viaggi in America e in Oriente furono importate nuove
armonie e nuove sonorità, usate nei Melodrammi da Giacomo Puccini, abile anche
a sfruttare vecchie forme musicali come il Canto Gregoriano in situazioni di
preghiera sulla scena, ma anche come mezzo per analogie particolari. Il musicista
toscano scrisse infatti le sue ultime 7 note, mentre componeva la Turandot,
praticando una sorta di madrigalismo* su se stesso: fece coincidere la sua morte
imminente con quella del personaggio Liù, usando le ultime 7 note del Canto
Gregoriano dell’Ave Maria, dove il testo parla della nostra morte (mortis nostrae
amen), per applicarle all’aria Tu che di gel sei cinta, dove con le stesse note Liù,
pugnalandosi al ventre, intona: ….e per non vederlo più!