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FRANCESCA BORTOLETTI

Orlando Furioso
La fortuna dell’Orlando
nelle arti performative. Scenario italiano

Dalle carte alla piazza nei teatri.


Il repertorio di Orlando nei teatri lirici tra Ottocento e Novecento

T ra polemiche ed elogi, la fortuna dell’Orlando Furioso fu immediata, suscitando l’interesse delle tipografie e
insieme l’appassionata ‘partecipazione’ di canterini di piazza, poeti di corte, compositori di accademie e attori
dell’arte. Fortunato soggetto drammatico, coreutico e musicale dei melodrammi e balletti fino a tutto il XVIII secolo1,
l’Orlando Furioso dell’Ariosto continuò a ispirare soggetti drammatici per il teatro di prosa, la danza e il teatro d’opera.
Un felice esempio sono gli episodi su Ginevra e Ariodante, tratti dai canti IV, V e VI del poema ariostesco. Una prima
rappresentazione teatrale della Ginevra di Scozia è firmata da Giovanni Pindemonte e fu allestita presso il teatro di San
Giovanni Grisostomo a Venezia nel 1795. Una versione coreutica dello stesso soggetto fu poi realizzata da Gaspare
Ronzi per un «ballo eroico pantomimo» inserito tra gli atti della Lodoiska di Simon Mayr, rappresentata al Teatro alla
Scala di Milano nel 1799. E per il Mayr, Gaetano Rossi approntò il libretto per la trasposizione operistica della Ginevra
di Scozia. Presentata al Teatro Nuovo di Trieste nel 1801, la Ginevra di Mayr fu messa in scena lo stesso anno a Vienna,
quindi alla Scala di Milano nel 1802 e nel 1816 (fig. a p. 700) e per almeno un trentennio in tutti i maggiori teatri
d’opera italiani e stranieri. Le ragioni di un così lungo protrarsi delle repliche, inusuale al tempo, sono probabilmente
individuabili nella stretta identificazione tra un’opera e un soggetto drammatico specifico – quello di matrice ariostesca –
già da tempo ben noto a un ampio pubblico. Lo confermano anche alcune versioni coeve musicali sul medesimo sog-
getto: la Ginevra ed Ariodante di Domenico Piccinni, rappresentata al Teatro di San Carlo di Napoli nel 1801, e l’Ario-
dante di Gaetano Rossi, messo in scena al Teatro delle Arti di Torino nel 18022.
Si ispirano inoltre all’episodio di Alcina del poema ariostesco L’isola incantata di Giacomo Cordella, rappre-
sentata al Teatro Nuovo sopra Toledo nel 1809, e un ballo eroicomico in quattro atti coreografato da Luigi Dupain
sulla musica di Ferdinando Pontelibero per il Teatro alla Scala di Milano nel 18053. Optò inoltre per la storia d’amore
di Bradamante e Ruggiero il coreografo e ballerino Salvatore Taglioni, che sulla musica del conte Nicolò Gabrielli tra-
dusse la vicenda ariostesca in un’«azione fantastica in sette quadri», rappresentata per la prima volta nel 1849 al Teatro
di San Carlo di Napoli.

1
Si veda il saggio di Tomassini nel presente volume, pp. 655-688.
2
TOSCANI 1993, pp. 43-44.
3
TINTORI 1979.

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In questi primi anni del secolo il balletto si mostrò fortemente legato alla produzione operistica, inserendosi
spesso tra un atto e l’altro dei melodrammi che ancora trovavano forte ispirazione per la scrittura dei libretti negli
autori classici italiani. Di lì a poco l’interesse volgeva verso gli autori stranieri. Una nuova ripresa dei soggetti dramma-
turgici ariosteschi si ebbe solo all’inizio del Novecento sia in ambito operistico che coreutico: nel 1929, con la coreografia
in due atti Les enchantements d’Alcine di Léonide Massine, rappresentata all’Académie Nationale de Musique et de
Danse di Parigi, e nel 1931 con Suite aus Alcina, coreografata da Rosalia Chladek ed eseguita a Vienna sulla musica
dell’Alcina di Händel insieme alle allieve del Gruppo Hellerau-Laxenburg (fig. a p. 701). Fu poi rappresentata a Parigi
come parte prima di una doppia coreografia dal titolo Les Contrast (1932), recante il motto eloquente «Melodie di ieri
– ritmi di oggi». Dell’Alcina di Chladek, la critica del tempo lodò lo stile ‘neoclassico’, privo di alcun intento tragico e
attento invece alla definizione della forma esteriore come espressione dell’interiorità4. Superò la tradizione del balletto
romantico anche La follia di Orlando di Goffredo Petrassi e Aurél Milloss, allestita per la Scala di Milano nel 1947
con le scene e i costumi del pittore Felice Casorati (figg. alle pp. 702-703). L’interesse volgeva verso l’interiorità espressiva
del poema dell’Ariosto che si traduceva in partitura coreografica e musicale. Nella follia d’Orlando l’argomento ‘montato’
attraverso la selezione di alcuni episodi del poema era suddiviso in tre quadri e un finale, introdotti da una voce di ba-
ritono che ne riassumeva il contenuto. Ciascun quadro era però corredato da variazioni, ossia assoli virtuosistici di
danzatori, che non avevano più la funzione di puro ornamento, ma miravano a suggerire di volta in volta l’interiorità
dei personaggi5.
Nei teatri d’opera, nel frattempo, le riprese della trilogia händeliana ispirata al poema dell’Ariosto ebbero
nuova vita, proseguendo l’antica competizione con l’Orlando Furioso di Vivaldi. L’Orlando vivaldiano ha però avuto
una realizzazione senza pari con la celebre messa in scena di Pier Luigi Pizzi, presentata all’Opera di San Francisco nel
1990. Pizzi, che curò le scene decidendo di ambientare l’isola di Alcina in un palazzo settecentesco con mobili alla
Luigi XV, è lo stesso al quale si deve l’immaginario barocco del regista Luca Ronconi e del suo celeberrimo Orlando
Furioso. Pizzi fu infatti autore dell’ambientazione, delle scene e dei costumi della versione televisiva del Furioso del
1975 girata da Ronconi per la RAI nel Palazzo Farnese di Caprarola, in seguito al grande successo ottenuto dalla me-
morabile rappresentazione di piazza del 1969 con la collaborazione drammaturgica di Edoardo Sanguineti e le scene
di Uberto Bertacca6. Dopotutto, è tra la piazza e la corte che avevano preso vita le storie narrate dai versi di Ariosto sin
dal loro inizio. Il loro racconto sembra proseguire ininterrotto attraverso una linea che oscillò per secoli tra la tradizione
dello spettacolo di corte, dei teatri di musica e della scena barocca e le narrazioni di piazza.

Di canto in cunto tra i pupi.


Opra dei pupi fra tradizione e innovazione
L’Opra

Una nuova vita dell’Orlando dell’Ariosto e dell’antico mestiere dei canterini di piazza si manifestò nei primi decenni
dell’Ottocento, quando alcuni contastorie di professione o cosiddetti cuntisti ripresero a narrare nelle città dell’Italia
meridionale, tra Roma, Napoli e la Sicilia, le epopee cavalleresche dei paladini di Francia. Con loro, il racconto orale
si trasferì dalle piazze nei teatri e portò il popolo dentro il teatro: quello dell’Opra dei pupi.

4
OBERZAUCHER-SCHULLER, GIEL 2002, trad. ingl. 2011, pp. 59-60, 63-64.
5
VEROLI 1996.
6
Si veda il saggio di C. Longhi nel presente volume, pp. 725-758.

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Dai contastorie, gli opranti appresero, oltre che le vicende dei cavalieri, anche la tecnica di interrompere lo
spettacolo in un momento cruciale, suddividendo il racconto in infiniti episodi a puntate programmati dal puparo
anche per mesi7. Di padre in figlio le famiglie di opranti si tramandarono il mestiere rendendo familiari al popolo le
gesta e gli amori dell’Orlando di Ariosto e le imprese dei paladini di Francia narrate nella Chanson medievale e negli
altri poemi cinquecenteschi. Attraverso le storie dei cavalieri che i pupari mettevano in scena, gli spettatori ricono-
scevano passioni e valori universali e si immedesimavano nelle vicende dei loro eroi fatti di legno, alpacca e latta: Or-
lando, il prode e fedele cavaliere, contraddistinto da un leggero strabismo, dal simbolo di un’aquila sull’elmo e di una
croce sulla corazza, e da un gonnellino che nella tradizione palermitana è verde e blu come il suo pennacchio (fig. a
p. 704); Rinaldo, il ribelle e furbo donnaiolo, che in genere ha i baffi, porta un leone nella corazza ed è caratterizzato,
sempre a Palermo, dal colore rosso. A Catania i colori, generalmente, si invertono. C’è poi Astolfo, con la corazza
rigata ‘a palma’, Oliviero con il sole e ancora l’esercito nemico dei soldati pagani con scudi tondi e corazze ed elmi
decorati con mezze lune8. Ogni personaggio costituiva una tipologia che il pubblico poteva usare per classificare le
persone che si incontravano nella vita, creando, come fece d’altronde Ariosto nel suo Furioso, un gioco di sovrapposi-
zioni tra il tempo mitico del racconto e il tempo reale, tra le storie antiche e i riferimenti più o meno espliciti alla vita
contemporanea.
Durante lo spettacolo il pubblico partecipava attivamente alle gesta dei propri eroi: parteggiava per Orlando
o Rinaldo; criticava le iniquità a volte commesse da Carlo Magno verso i suoi paladini; avvisava i cavalieri del soprag-
giungere del pericolo, e inveiva per i tradimenti di Gano, tanto che una volta uno spettatore lo comprò dal puparo, lo
appese ad un albero e gli sparò. La platea s’ammutoliva invece alla morte dei paladini, a Roncisvalle, vivendo il lutto
in un religioso silenzio, come testimoniano le parole di Giuseppe Pitrè:

La tristezza è sul volto di tutti; le stesse parole che l’un l’altro gli spettatori si barattano sono sommerse per
riverenza al luogo e al momento sacro e solenne [...] All’apparir dell’angelo a Rinaldo, al benedir che fa
Turpino il conte Orlando, tutti si scoprono il capo come la sera del Venerdì santo rappresentandosi il Mortorio
di Cristo. [...] Il suono del corno di Orlando scuote le fibre di chicchessia, lo squillo della tromba che chiama
all’ultima battaglia è orribile quale non fu mai durante l’anno9.

Il teatrino dei pupi fu fino a tutta la prima metà del Novecento un centro di aggregazione di marinai, facchini,
artigiani. Era un pubblico di ogni età, che conosceva bene le storie dei suoi eroi cavalieri e non doveva cogliere in fallo
l’oprante. Questo teatrino è arrivato fino a noi superando numerose crisi. Tuttavia nel proseguo delle battaglie gloriose
tra la vita e la scena, pupi e pupari trovarono nuovi percorsi dentro e fuori la tradizione, e con loro la materia dell’Or-
lando Furioso, assorbita come parte del repertorio delle Storie dei paladini di Francia degli opranti e cuntisti siciliani,
ancora una volta si rinnovava e generava nuove sfide.
L’infanzia di Orlando (1990) di Mimmo Cuticchio ne fu un valoroso esempio. Cuticchio, figlio d’arte, imparò
il mestiere di puparo dal padre Giacomo e da uno degli ultimi maestri tradizionali di cunto, Peppino Celano. Ne L’in-
fanzia di Orlando, Mimmo Cuticchio recitava con il figlio, Giacomo come il nonno, quando questi aveva poco più di

7
PASQUALINO 1977.
8
MARINO 2007.
9
PITRÈ 1884.

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7 anni. Lo spettacolo intrecciava cunto, recitazione e mondo dell’Opra, recuperando il possibile del repertorio. Rac-
contava le avventure di Orlando-bambino e dai quei racconti d’infanzia (di Orlando, ma anche di Cuticchio e del
figlio Giacomo, da allora ricordato come Orlandino) si avviava una nuova rinascita del teatro dei pupi. È in questa tra-
sformazione che il repertorio di un teatro secolare superò ogni confine temporale e spaziale, portando la storia dell’Or-
lando di Ariosto ad un nuovo pubblico: nelle scuole, nei festival e nelle rassegne di teatro, in Italia e all’estero.
«Non si tratta di rispettare ciò che è morto nel senso della conservazione, ma piuttosto di accettare la trasfor-
mazione [...]». È questo il monito che accompagna il nuovo spettacolo Visita guidata all’opera dei pupi (1989), scritto in
collaborazione con Salvo Licata su richiesta di Carlo Quartucci: un gioco scenico tra l’oprante, i suoi pupi e il suo pub-
blico, che attraverso le storie dei paladini mira a raccontare in teatro «il delirio quotidiano», tra ironia – la stessa presente
nei poemi cinquecenteschi di Ariosto e Boiardo – e commozione10. Non esiste un vero e proprio testo scritto, ma solo
un canovaccio e la memoria e l’immaginazione dell’oprante, che con la presenza del corpo e della voce anima come un
suo doppio il pupo armato: «Orlando sempre più furioso getta le armi. Infine cade a terra distrutto dalla stanchezza e
dal dolore», si legge nel canovaccio de La pazzia di Orlando (tratto da Visita guidata) di Mimmo Cuticchio, che sul palco
vive e ogni volta rinnova quel dolore e quella stanchezza in una scena di grande emozione (fig. a p. 705).
Altre famiglie di pupari continuano oggi a narrare le vicende del paladino Orlando unitamente ad altre storie
e intrecci. A Catania la tradizione dell’Opra è affidata alla marionettistica dei fratelli Napoli, una compagnia attiva sin
dai primi anni del Novecento. Fra tradizione e innovazione lavora da circa trent’anni anche la famiglia siracusana Vac-
caro-Mauceri. Riparte dai testi dei poemi cinquecenteschi, Boiardo e Ariosto, e dal Furioso sceglie il filone della storia
di Olimpia, presentata dalla Compagnia per la prima volta in occasione della XXXIV edizione del Festival di Morgana
dedicato nel 2009 interamente all’Orlando Furioso.
La storia di Olimpia è ripresa dalla Compagnia con grande rigore e suddivisa in tre opere teatrali: Olimpia,
la triste istoria; Olimpia, una nuova speranza; Olimpia, scaccomatto al destino. Per il primo ‘episodio’ la compagnia ha
realizzato anche uno straordinario libro fotografico, che fotogramma dopo fotogramma ripropone sotto nuova forma
l’esito performativo. Una sorta di ‘fotoromanzo a puntate’, fatto di suggestivi primi piani ed eloquenti sequenze nar-
rative, che partono dall’assedio di Parigi, narrano della vendetta del re Cimosco, dell’uccisione del padre di Olimpia e
dei suoi fratelli, e giungono fino alla battaglia in cui Orlando riesce a sconfiggere Cimosco (figg. alle pp. 706-707). La
vicenda è quindi sospesa, nel libro come lo è in teatro, in attesa del successivo episodio da rappresentare.
Terminato lo spettacolo ogni puparo ripone i suoi pupi in fila in due listoni di legno (fig. a p. 708) fino al tempo
di un altro spettacolo per dar vita a una nuova ‘vecchia’ storia: dentro l’Opra ma per una straordinaria diffrazione dei pa-
ladini-pupi anche in altri mondi, luoghi e teatri della scena contemporanea, dove i pupi siciliani si materializzano in ma-
rionette umane, in altri Orlandi, Rinaldi e Angeliche e recitano i versi dell’Ariosto nel gioco della finzione tra teatro e vita.

Orlando e il suo doppio.


La diffrazione dei pupi nel Nuovo Teatro italiano

In fila, in due ampi listoni di legno posti lungo un muraglione, si dispone una schiera di paladini fatti di carne e ossa, im-
mobilizzati come pupi appesi, nella scena finale dell’Orlando Furioso della Compagnia della Fortezza, rappresentato nel
1998 dentro le mura del carcere di Volterra dai detenuti-attori diretti da Armando Punzo (fig. a p. 709). «Siamo partiti

10
CUTICCHIO 2010, pp. 33-34.

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dall’immagine dei pupi siciliani – dice il regista – da quello che resta nella nostra memoria di questa antica forma d’arte,
da quegli occhi che nel silenzio del retroscena, dove sono rimasti appesi, ti guardano dicendo tutto senza dirti nulla.»
Da quel silenzio eloquente di pupi inermi, familiare ricordo d’infanzia di molti dei detenuti-attori, muove la
lettura che Punzo ha fatto del Furioso, decidendo di riprendere in mano il poema dell’Ariosto in un momento di grave
difficoltà della Compagnia a rischio di chiusura dopo dieci anni di lavoro dentro il carcere. In questo momento di pro-
fonda crisi, «l’Orlando Furioso è arrivato come un antidoto alla malattia – scrive Punzo – all’abbandono, alla morte».
La ricerca di Angelica era per Punzo e i suoi attori la ricerca della vita nella difficile situazione della compagnia. Ancora
una volta la finzione letteraria del Furioso e i suoi mille intrecci si sovrappongono alla realtà. Ma il passaggio dalla fin-
zione letteraria alle storie di vita vera che ciascun detenuto portava sulla scena non aveva nulla di drammatico, al con-
trario – con assoluta fedeltà al poema dell’Ariosto che non arriva mai al tragico – l’Orlando di Punzo racconta di dame,
cavalieri ed armi con grande ironia.
Si presenta come un gioco di finzioni a cui il pubblico, che entra dentro le mura e le sbarre del carcere di si-
curezza dopo i controlli di prassi, è invitato a giocare, perdendosi in un labirinto ideale – quello ariostesco –, ma che
è anche luogo fisico: un vero e proprio dedalo alto oltre tre metri, costruito dai detenuti nel cortile del carcere sul
disegno di Valerio di Pasquale. Entro i meandri di questo labirinto, accolti da una musica di carillon, composta da Pa-
squale Catalano, gli spettatori incontrano qua e là i protagonisti del poema ariostesco: in calzoncini e scarpe da ginnastica
con elementi di armatura di latta sul torace nudo, spesso tatuato, gli attori-detenuti scandiscono con voce ‘cortese’ e
appassionata le ottave dell’Ariosto, apostrofando con i nomi di Angelica o Bradamante le visitatrici di sesso femminile,
come in uno scherzo seducente e amoroso: «Che si chiami forse libertà questa inafferrabile damigella?», sussurra con
forza uno dei paladini.
Riprendendo le andature dei pupi, i detenuti-attori intrecciano, come tra sogno e realtà, i versi dell’Ariosto
con domande o testimonianze della loro condizione reale, e usano quei versi e quelle storie del Furioso per portare su
se stessi l’attenzione del passante di turno. Nel frattempo, in altri luoghi del cortile del carcere, di fronte ad altri passanti
e alla presenza delle guardie carcerarie, altri paladini si sfidano in energici duelli a colpi di poesia e ritmo, declamando
versi e combattendo a cavallo l’uno dell’altro con manici di scopa come spade; simulano morti ai piedi del visitatore;
trasportano alcuni spettatori su un carrello portamerci e ancora siedono trionfanti sopra un trono ricavato da vecchi
sedili di un cinematografo, continuando a raccontare senza tregua frammenti di storie dal Furioso, come in un romanzo,
sincronico come quello ronconiano, a puntate. Per quasi un’ora, i paladini-attori-detenuti guidano lo spettatore entro
gli intrecci di follia e ragione del poema ariostesco e lo conducono fuori dal dedalo di quinte lignee, come liberandolo
da un perpetuo peregrinare: per un lungo istante, un senso di libertà e pace unisce spettatori e attori, visitatori e
detenuti, prima che disciplinatamente i paladini si dispongano a chiusa del lavoro in piedi sul ponteggio di legno, im-
mobili, come pupi.
In un teatro vuoto, in penombra, tre cavalieri, appesi anch’essi come marionette giganti su due rastrelliere li-
gnee ai lati del palcoscenico, aprono lo spettacolo Paladini di Francia (2008) dei Cantieri Teatrali Koreja, regia di Enzo
Toma e drammaturgia di Francesco Niccolini, riconosciuto come miglior spettacolo per ragazzi dell’anno 2009 con il
premio Eolo awards e avendo ricevuto il Premio della Critica dalla Associazione Nazionale dei Critici di Teatro (figg.
alle pp. 710-711). Il posticcio mondo dei pupi è ancora una volta evocato per raccontare le vicende del Furioso di Ario-
sto, che Niccolini e Toma incastonano in un omaggio a Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini, dove gli attori-
marionette allestivano l’Otello shakespeariano per poi finire abbandonati in una discarica a contemplare le nuvole sulle
note della celebre canzone di Domenico Modugno. «Un giorno – racconta Niccolini – ho pensato che anche Orlando

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e Astolfo e tutti gli altri paladini, a Roncisvalle, sono morti sotto le nuvole, e da lì sono partito». Da lì, sotto quel cielo
pasoliniano e dal ricordo delle storie di Orlando rese familiari per anni dai pupari siciliani, e ancora da un vecchio
libro illustrato sui Paladini di Francia (senza autore e senza data), come pure dalle versioni del poema di Italo Calvino
a cui Niccolini si ispira, parte il racconto di Koreja del Furioso in un gioco di specchi, citazioni, rimandi e incanti.
Quasi per magia una delle ‘marionette-viventi’ si stacca dall’essenziale struttura lignea e, costretta entro un
pesante costume-armatura fatto di latta, forchette e pentole (straordinaria ‘invenzione scenica’ di Iole Cilento), comincia
a muoversi: è Orlando che, con un chiaro accento romanesco, racconta la sua storia di cavaliere: «è burino – scrive
Niccolini nel copione –, non capisce niente, vuole solo giocare e combattere, attività che per lui coincidono». Ogni
personaggio ha la sua armatura e il suo dialetto che lo caratterizzano per andatura e stile, su un registro comico e al
tempo stesso di alto valore poetico. Così Astolfo usa il napoletano fuori scena e l’accento anglopartenopeo quando
recita; Ruggiero sembra ciociaro e Ferraù parla il sardo, mentre per Angelica dal Catai si scelgono un costume e un ac-
cento esotico, come una Madama Butterfly appena uscita dal teatro dell’opera (fig. a p. 712). C’è poi Carlo Magno,
«vecchio vecchissimo», che non appare mai in scena e che dirige con voce tonante come un grande burattinaio questa
immensa baracca di pupi.
Parlano in rima i quattro attori, Silvia Ricciardelli, Antonella Iallorenzi, Carlo Durante, Fabio Tinellasono, e
si scambiano ruoli, lingue e costumi, interpretando undici parti che costituiscono per l’attore una prova incredibile
per camaleontismo vocale e tecnica corporea. In origine lo spettacolo si rivolgeva ad un pubblico giovane nell’intento
di rendere le storie di Ariosto familiari anche alle nuove generazioni, raccontando, con grande ironia, di amore e di
guerra, quelli di un tempo come di oggi (fig. a p. 713). Ma la meraviglia di questo Orlando riesce a coinvolgere un
pubblico di ogni età: adulti e ragazzi ritrovano qui lo stupore e la predisposizione a contemplare, come nel film paso-
liniano, la meraviglia che incanta. Dopo i mille inseguimenti, i duelli e l’ultima battaglia dei paladini di Francia, morti
a Roncisvalle, le quattro marionette sono riposte nei loro scaffali da uno zoppicante puparo e tornano, sulle note della
canzone di Modugno, a guardare le nuvole: «ahhh... straziante meravigliosa bellezza del creato!». L’ironica narrazione
dei Paladini di Francia si carica di un sentimento di umana pietas e partecipata commozione, ché come dice Ferraù «il
fatto che i pupi muoiano per finta non vuol dire che non muoiano».
Il teatro dei pupi dissemina la sua memoria e si fa mediatore delle storie dei cavalieri di Francia. Di questa
memoria teatrale, letteraria e mitica, il ‘nuovo teatro’ del Novecento si è nutrito e ad essa ritorna, ispirato da una
naturale sovrapposizione di immagini, valori e stili tra la materia ariostesca e quella dei pupi-paladini.
Ancora un teatrino di marionette di una compagnia di attori girovaghi impegnata ad allestire il poema del-
l’Ariosto fa da cornice alla messa in scena dell’Orlando Furioso della Compagnia Calandra, regia di Giuseppe Miggiano
e drammaturgia di Luigi Scorrano, vincitrice nel 2009 del Premio Lecce Art Festival. In Astolfo sulla luna, diretto da
Miriana Ronchetti nel 1998 per un pubblico di ragazzi, sono invece pupazzi bifacciali alti un metro e ottanta a rad-
doppiare il numero degli attori-paladini in scena. Mentre i paladini si sdoppiano nelle silhouettes di un teatro d’ombre
nell’Orlando Furioso della compagnia Teatrogiocovita, che in questo lavoro del 1991 diretto da Egisto Marcucci mostra
a tratti i corpi degli operanti e le loro tecniche come mimi o animatori di gesta in figura. Nuovamente attori-pupi nar-
rano, su musiche antiche e sopra una piattaforma mobile circolare posta al centro della scena, la vicenda di Orlando
nello spettacolo di teatro-danza di Cristian Finoia presentato in occasione di Udine estate 2010.
Ancora marionette umane appaiono nell’Orlando Furioso della compagnia Ondadurto Teatro, per la regia di
Marco Paciotti con Carla Tatò e Carlo Quartucci, volti e voci celebri del teatro italiano. Qui, il richiamo alla tradizione
dei pupi si unisce al recupero dell’immaginario dell’Orlando ronconiano, sia quello della piazza che quello televisivo,

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per l’uso dello spazio scenico e per la creazione delle macchine scenografiche in ferro poste sopra a carrelli mobili, manovrati
dagli stessi attori-danzatori in scena, come il bell’ippogrifo (fig. a p. 716). Sul palcoscenico sono installati tre schermi da
dove Tatoi e Quartucci, recitano l’Ariosto, giocando come giganti burattinai con gli otto attori sul palco (figg. alle pp.
714-715). Le musiche di Stefano Saletti, eseguite dal vivo dalla Piccola Banda Ikona, sono parte integrante della dram-
maturgia che alterna la parola alla danza, all’acrobatica e alla presenza magica delle macchine sceniche seguendo il ritmo
celere del poema ariostesco – «il poema del movimento» lo definiva Italo Calvino11 – su piani visivi multipli e simultanei.

Il poema del movimento.


Tra teatro, danza e installazioni

I livelli del ‘dinamismo’ della scrittura dell’Ariosto sono numerosi, come notava Corrado Bologna in ripresa delle
parole di Calvino: c’è il movimento «zigzagante» delle gesta dei cavalieri; o quello delle donne in fuga; c’è il movimento
della «voce dell’autore», e quello della «voce del testo». Ma soprattutto c’è il movimento «fonetico-simbolico della
lingua» che riguarda la forma, prima ancora del contenuto12. Su questi diversi piani cinetici che molto hanno a che
vedere con la presenza della voce poetica che nasce e si trasforma nell’oralità, il nuovo teatro si è confrontato e ha spe-
rimentato nuove vie attraverso la pratica di nuovi narratori e di moderni rimatori; ha proposto sonorità del corpo-
voce, che dal teatro di parola si sono distanziate; ma ha anche trasferito il suono e ritmo della parola narrata nel
movimento di corpi danzanti e in complesse strutture sceniche o videoinstallazioni, che divengono elementi portanti
della drammaturgia.
Sulla forza espressiva della parola poetica di Ariosto e dei sentimenti e delle passioni che animano il poema,
si compone la coreografia InCanto dall’Orlando Furioso realizzata nel 2008 (dopo una prima versione nel 2007) da
Mauro Bigonzetti per Aterballetto, con la collaborazione di Angelo Davoli per le scene e l’impianto visivo. L’InCanto
di Bigonzetti traduce in linguaggio della danza il pathos che muove i personaggi e le storie del poema ariostesco. Ogni
finalità narrativa è abbandonata. Sono i conflitti, la «precarietà della ragione» e la follia, unite alle «contraddizioni in-
dividuali e nella società», di allora come di oggi, al centro di questa creazione. Sulle musiche di Händel e le incursioni
sonore di Bruno Moretti, diciotto danzatori si alternano in sequenze di assoli, passi a due, terzetti, quartetti o scene
corali, indossando costumi simili a pezzi di armatura o tute marziali, ideati da Guglielmo Capone. Muovono entro
uno spazio virtuale creato dalle proiezioni di Davoli fatte di stelle, navicelle, nuvole e cieli azzurri; e ancora la luna,
notturna, che fa da preludio al balletto e all’incedere del danzatore guerriero – evocazione epica – sia esso Astolfo, Rug-
giero o lo stesso Orlando (figg. alle pp. 718-719).
Tra il tempo disteso dell’attesa, fatto di movimenti solenni di alta qualità, e il tempo cinetico dell’azione, dovuto
all’irruzione frenetica di pulsioni amorose e ‘sragionamenti’, si distinguono le figure archetipiche dell’Ariosto: il folle pa-
ladino, i duetti tra i ‘nemici-amanti’, la foresta incantata. Si evoca il mondo cortese, fatto anche di giochi di seduzione
e ironiche danze, e il tempo eroico della battaglia. Si riconosce infine l’ippogrifo (fig. a p. 717), riportato a una «essenza
originaria», nota Davoli, ripulita dalle molte forme in cui è stato rappresentato. È un mondo di incanto questo di Bi-
gonzetti. È un viaggio onirico che traduce in corpi danzanti il movimento ritmico dell’ottava ariostesca ed è fatto di
tempi di ‘slancio’ e di ‘agio’, sregolatezza ed equilibrio classico, per un esito di alta poesia e terrena sublimità.

11
CALVINO 1970, 19882, p. XXIX.
12
BOLOGNA 1998, pp. 110-124.

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Di un’alternanza di ‘adagi’ e ‘allegri’ si compone una originale «cantata pantomima» dell’Orlando Furioso
diretta da Giuliana Lanzavecchia e recitata dai giovanissimi artisti della compagnia Bricabrac di Bolzano. Un ‘recitar
cantando coreografico’ che incastona brani del Furioso con passaggi dal Castello dei destini incrociati di Calvino (1973)
su una partitura musicale-coreografica in un atto e ventuno quadri. Brani di musiche medievali e rinascimentali risuo-
nano in una scena ‘metallica’, in cui appaiono strutture sceniche di ferro (fatte di scarti e rottami), ispirate dalle sculture
meccaniche di Jean Tinguely e quelle di Fausto Melotti. È un contraltare di voci, corpi e macchine che non mira a se-
guire una sequenza rigorosamente narrativa, privilegiando invece una restituzione del ritmo non lineare del narrare dei
versi ariosteschi fatto di alternanze di pause e azioni.
Ancora tra la ricerca della ‘posa’ in scena e di una accelerazione del ‘movimento’ muove lo studio del testo
ariostesco condotto dai registi teatrali Enrico Casagrande e Daniela Nicolò per lo spettacolo provocatorio O.F.
ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus. Incentrato sulla follia amorosa di Orlando per Angelica,
l’Orlando dei Motus si svolge sopra una piattaforma circolare rotante dove, sullo sfondo centrale e imponente, do-
mina l’immagine della Venere d’Urbino di Tiziano. «La struttura scenica – scrivono i registi – è anch’essa elemento
drammaturgico: circo, giostra di esposizione degli eroi del poema ariostesco tratti in pose pittoriche o in vertiginose
battaglie e inseguimenti». O.F. dei Motus ha conosciuto molte prove, aggiustamenti ed esiti: fu rappresentato in
una prima versione nel 1998, poi riveduta, quindi elaborato in forma di performance, realizzata nello spazio della
Galleria Vittorio Emanuele a Milano nel 1999. Per l’occasione era stata allestita una struttura scenica simile ad una
di quelle macchine rotanti costruite a fine Ottocento per lo studio della sequenzialità del movimento. Come il frui-
tore delle macchine ottocentesche, lo spettatore dell’Orlando dei Motus vedeva amplificato il movimento, quasi
centrifugo, degli attori, che dentro la struttura si muovevano sopra la pedana girevole, a segno anche della non fi-
nitezza del poema.
E se i Motus scelsero il rimando alla meccanica ottocentesca per la loro restituzione teatrale del Furioso di
Ariosto, la tecnologia digitale ha condotto la scrittura ariostesca su nuovi orizzonti percettivi nella videoinstallazione
Orlando Furioso dalla pagina illustrata alla pagina elettronica, realizzata da Paolo Bischi, Elena Dettole e Valerio Lo
Bello, su ideazione del CTL – Centro Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria, Scuola
Normale Superiore di Pisa, in occasione della mostra, curata da Lina Bolzoni, Donne Cavalieri Incanti Follia. Viaggio at-
traverso le immagini dell’Orlando Furioso (Pisa, dicembre 2012 - febbraio 2013). Come in un libro di pop-up, carrelli
elettronici e zumate che seguivano un andamento a zig-zag mostravano in uno scenario 3D la pazzia di Orlando cor-
redata da alcune citazioni degli stessi canti ariosteschi come in un magico teatro virtuale13.

Orlando Furioso dei nuovi narratori.


L’Orlando
Drammaturgie virtuali e teatri di narrazione

Ha solo una camicia bianca, una tromba e uno sgabello il narratore Enrico Messina per dar fiato al suo racconto, Or-
lando, furiosamente solo rotolando presentato dalla compagnia teatrale Armamaxa. Ma alla sobrietà e fissità della scena,
Messina contrappone la ricchezza delle immagini evocate e il ritmo incalzante della narrazione. Si rivolge subito al suo
pubblico, come l’arte di affabulatore comanda, e come Ariosto fece al cominciar di ogni suo canto. Descrive i suoi per-
sonaggi, usa gesti grandi e di grande espressività mimica e subito scoppia l’ilarità fra i presenti, pubblico di grandi e

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Donne Cavalieri Incanti... 2012, pp. 168-170.

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piccini. Da lì, tra racconto, voce e gesto si compie la vicenda di Orlando, come in una proiezione di quadri virtuali
negli occhi e nella mente dello spettatore (figg. alle pp. 720-721).
Messina conserva alcuni passi originali delle ottave dell’Ariosto, s’ispira al Cavaliere inesistente di Calvino, si
concede licenze poetiche o introduce vere e proprie invenzioni, alternando i cambiamenti di flusso dal comico al
poetico: il galoppo dei paladini nella foresta si trasforma nel suono di locomotive; i baffi di Orlando diventano lunghe
ali di gabbiano; il suono degli eserciti risuona come vero; e la parola, sovrana, incede nei ritmi della narrazione epica
del cunto siciliano e assume il colore dei dialetti, caricando le voci e i volti dei personaggi evocati di connotazioni ogni
volta diverse, come in un alternarsi di maschere.
L’Orlando di Messina è tratto da Hruodlandus, libera rotolata medievale, da lui scritto e recitato con Alberto
Nicolino. Di quello spettacolo è stato pubblicato anche il testo. Ma da quel testo il racconto si è dipartito e continua
a vivere di vita propria, rinnovandosi ad ogni contatto di pubblico: «Si è persa la parte necessaria e sta rimanendo la
parte connessa al visivo. Recito le immagini che io vedo e nel recitarle rivedo la radice della scrittura», afferma lo
stesso autore.
Per alcuni preziosi momenti quelle immagini si sono sovrapposte alle immagini delle storie ariostesche narrate
in affreschi nelle corti che un tempo, come oggi, ospitarono il racconto dei canti di Ariosto. L’Orlando di Messina è infatti
stato ospitato dall’Associazione Culturale Bradamante nelle corti della Valtellina, che da quasi cinquecento anni conservano
i dipinti delle scene tratte dal Furioso14: alla Torre di Roncisvalle a Castionetto di Chiuro nel 2010; quindi al Palazzo
Besta di Teglio e al Castel Masegra di Sondrio nel 2013. Oltre a Messina, anche Elena Rivi e Stefano Schifini hanno de-
clamato frammenti di scene ariostesche; ed è stata presentata una lettura sulla simultaneità della scena degli affreschi di
Palazzo Valenti in parallelo alla proiezione di alcuni episodi dell’Orlando Furioso televisivo di Luca Ronconi. I fili di queste
iniziative si sono poi intrecciati con altri reading, numerosi in tutta Italia, e altri narratori e poeti di Orlando, radunatisi
anche a Palazzo Te, al Festival della Letteratura di Mantova 2012, per un susseguirsi di performance e letture sul poema
di Ariosto: cinquanta artisti, altrettanti racconti, canti e cunti – c’era anche Cuticchio – per un Ariosto in festa.
Dal potere evocativo della parola poetica di Ariosto muovono anche gli spettacoli presentati all’interno del
circuito di un fertile teatro-ragazzi. Alcuni li abbiamo già incontrati, altri li nominiamo ora: Quel pazzo d’Orlando,
della Compagnia Teatro dei Grassi saturi con Mariagrazia Bisurgi e Dario Manti (2012); Orlando Furioso ovvero la fine
del Mondo, ideato e diretto da Antonio Varvarà e presentato dall’Associazione Questa Nave in collaborazione con CSS
Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia con il sostegno de La Biennale di Venezia; e ancora Orlando il
Furioso della Compagnia La Baracca, presentato dal Teatro Testoni di Bologna nel 2001 e diretto da Gabriele Marchioni
ed Enrico Montalbani per soli quattro attori che tuttavia sembrano moltiplicarsi su una scena estesa anche alla platea,
avvolgendo il pubblico di adolescenti nel mondo immaginifico di Orlando.

Lingua e racconto tra le rime di Orlando


Orlando.
Teatro di parola (in rima)

Grandi cavalli colorati, rossi, blu, verdi e gialli sono sospesi come in una giostra (fig. a p. 722). Entra ‘il narratore’. Marco
Baliani è il suo nome. Comincia dal principio il suo racconto, sulla scelta del Furioso da metter in scena riscrivendone
ogni canto a buon uso dell’odierno palco. Annuncia così l’inizio di una sfida, attraverso l’Ariosto, con la «nostra ricca

14
Si veda il saggio di F. Caneparo nel presente volume.

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lingua», dice, e i suoi «tesori», per fare quello che, secondo il narratore, fece un tempo l’Ariosto nel sentire il suono dei
suoi versi e vederli in azione. Si rivolge al suo pubblico, introduce l’altro attore, Stefano Accorsi, e la materia del loro
canto, Giocando con Orlando. Questo è il titolo del loro lavoro sul poema ariostesco presentato da Nuovo Teatro nel
2013. La scenografia è del maestro Mimmo Paladino. Baliani firma regia e adattamento drammaturgico e in scena è il
provocatore, come in tenzone con il ‘primo’ narratore, di un gioco ludico e corporeo sulla rima e la sua improvvisazione.
Apre la via a mille ‘aristofanesche’ digressioni dal racconto della storia d’Orlando, innamorato e pazzo. Ma
infine sempre fa ritorno, tirato per la giacchetta dal suo compagno, a parlare dell’amore folle e contrastato di un eroe
di altri tempi eppure ancora così ‘praticato’. Prendono in mano il ‘grande’ libro, i due narratori, per rinfrescare la trama
di storie o cercare la descrizioni di luoghi, forse inesistenti, o di animali strani, come ad esempio il magico ippogrifo
(fig. a p. 723).

primo narratore
dice il libro che l’animal chiamasi ippogrifo [...]
secondo narratore
e chi è quel cavaliero in groppa a tal destriero
primo narratore
qui dice che di nome fa Ruggiero [...]

Alla storia di Orlando e Angelica s’intrecciano così quella di Ruggiero e Bradamante; e ancora l’episodio di
Olimpia, di Atlante o della maga Alcina e altri ancora. Raccontano di duelli e combattimenti fino all’ultima battaglia
tra maomettani e cristiani, che son sbarcati in questa storia a Lampedusa. Combattono come se fossero dei pupi, in ri-
chiamo all’antica tradizione dei contastorie, e poi giacciono a terra e quei corpi fantasiosi portano alla mente quelli di
uomini che «ancora oggi [...] giaccion tra l’onde». Continua a trasformarsi il racconto di Baliani e Accorsi. Avevano
presentato una versione del poema di Ariosto l’anno prima, chiamandolo il Furioso Orlando che vedeva in scena Accorsi
con l’attrice Nina Savary, mentre Baliani curava solo la regia. Proseguono ora sotto questa nuova veste, inseguendo il
fluire di una oralità che è filtrata dall’artificio della rima e dai giochi linguistici e ritmici che essa crea, per cercare per-
formance dopo performance l’ottava ludicamente ‘perfetta’.

Voce e poesia dal Furioso


Furioso.
Teatro di voce

In un teatro di voce, immaginifico e di dirompente corporeità, si rinnova la storia di Alcina. La maga ariostesca rivive
ne L’isola di Alcina, presentata dal Teatro delle Albe alla Biennale Teatro di Venezia nel 2000, come ‘primo movimento’
di un progetto triennale, Ariosto/cantiere Orlando, sui poemi cavallereschi rinascimentali. Nella loro lettura del Furioso,
le Albe guardano al poema ariostesco come a un serbatoio della creatività popolare e del meraviglioso. Il regista Marco
Martinelli ha così ideato insieme all’attrice e compagna di vita Ermanna Montanari un «concerto per corno e voce ro-
magnola», come descritto nel sottotitolo dell’opera, composto dai versi in lingua romagnola di Nevio Spadoni e dalle
musiche elettroniche di Luigi Ceccarelli.
In una scena essenziale, due sorelle siedono su un divano posto sopra una pedana, davanti a una tenda di vel-
luto, che nasconde un muro. La maggiore, Alcina, racconta del padre, appassionato lettore dell’Orlando Furioso, tanto

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che decise di chiamarla come la maga del poema ariostesco. Ricorda che un giorno, ancora bambine, il padre le abban-
donò nella casa sopra il canile, lasciandole per proseguire il suo lavoro di custode; ed evoca la figura di uno straniero,
«bellissimo», a causa del quale la sorella è ora impazzita per amore. Via via i nodi della storia s’intrecciano con la materia
ariostesca e ruotano attorno al tema della fissazione e follia amorosa. Così nel suo racconto Alcina svela l’angoscia del
suo amore per il «furistir dai riccioli d’oro». Ferita anche lei d’amore, la donna vorrebbe morire, ma come dice l’Ariosto
nell’Orlando «le fate morir sempre non ponno».
Immobilizzata nel suo destino, Alcina libera il suo narrare in un canto stridulo che intona, quasi immobile,
sopra il suono vibrante del corno, seguendo una incalzante partitura vocale in un’interpretazione straordinaria della
Montanari, premiata dal Premio Ubu 2000 come miglior attrice italiana della stagione. Anche la scena e la dramma-
turgia visiva erano pensate con l’intento di definire uno spazio che fosse assediato dal suono della voce. Uno spazio bi-
dimensionale e immobile, denso di una ‘visionarietà emotiva’, che alla Montanari era stato ispirato da un quadro di
Dosso Dossi. Dal pittore ferrarese, che l’Ariosto stesso nomina nel Furioso (XIII, 2), sono così trasferiti il rosso, l’azzurro
scuro e i verdi fondi negli abiti della festa delle due sorelle, nel divano e nel tendaggio che alla fine svela l’oro della
parete posta sullo sfondo (fig. a p. 724).
Dall’Isola di Alcina nasce nel 2009 Ouverture Alcina: un concerto-performance. È un lavoro «in levare», fatto
cioè «di sparizioni» ulteriori e tagli: sono eliminate infatti le parti esclusivamente teatrali e gli altri personaggi. Resta
solo Alcina, tra l’immobilità iconica del suo corpo e la forza motrice del suo canto, la dirompente intensità della parola
poetica che, sempre più lontana dal teatro di parola, è presenza di corpo-voce15. Calata nel nostro tempo, Alcina è re-
stituita a quell’aura arcana assegnatale da Ariosto. Il suo canto, tra apollineo e dionisiaco, ci riconduce a quella ‘micro-
comunità’ della performance, fatta di alti ingegni, cantori orfici e cantastorie da cui lo stesso Ariosto era partito per
scrivere il suo Orlando fra l’esigente corte e la vibrante piazza.

Bibliografia

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Ariosto, raccontato da Italo Calvino con una scelta del poema, Torino 1970, 19882; ID., Il castello dei destini incrociati,
Torino 1973; A. PASQUALINO, L’opera dei pupi, Palermo 1977; G. TINTORI, Cronologia: Opere, balletti, concerti 1778-
1977, in Duecento anni di Teatro alla Scala, a cura di C. Gatti, vol. 2, Gorle 1979; C. TOSCANI, Soggetti romantici
nell’Opera italiana del periodo napoleonico, in Aspetti dell’Opera italiana fra Sette e Ottocento: Mayr e Zingarelli, a cura
di G. Salvetti, Lucca 1993, pp. 13-70; P. VEROLI, Milloss. Un maestro della coreografia tra espressionismo e classicità,
Lucca 1996; C. BOLOGNA, La macchina del Furioso, Torino 1998; G. OBERZAUCHER-SCHULLER, I. GIEL, Rosalia Chla-
dek, Munich 2002, trad. ingl. 2011; M. MARINO, Un museo all’Opra. Guida al museo vivente di Mimmo Cuticchio e
dell’Associazione Figli d’Arte Cuticchio, collaborazione di R. Corti, Palermo 2007; M. CUTICCHIO, La nuova vita di
un mestiere antico. In viaggio con l’Opra dei pupi e il Cunto, Napoli 2010; Donne Cavalieri Incanti Follia. Viaggio at-
traverso le immagini dell’Orlando Furioso, a cura di L. Bolzoni, C.A. Girotto, catalogo della mostra (Pisa), Lucca
2012; L. MARIANI, Ermanna Montanari, Pisa 2012.

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MARIANI 2012.

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