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9 marzo 2023

Libro II, Canto 22, proemio


Se a quei che trïonfarno il mondo in gloria,
Come Alessandro e Cesare romano,
Che l’uno e l’altro corse con vittoria
Dal mar di mezo a l’ultimo oceàno,
Non avesse soccorso la memoria,
Serìa fiorito il suo valore invano;
Lo ardire e senno e le inclite virtute
Serian tolte dal tempo e al fin venute.

Fama, seguace de gli imperatori,


Ninfa, che e gesti e’ dolci versi canti,
Che dopo morte ancor gli uomini onori
E fai coloro eterni che tu vanti,
Ove sei giunta? A dir gli antichi amori
Ed a narrar battaglie de’ giganti,
Mercè del mondo che al tuo tempo è tale,
Che più di fama o di virtù non cale.

Lascia a Parnaso quella verde pianta,


Ché de salirvi ormai perso è il camino,
E meco al basso questa istoria canta
Del re Agramante, il forte saracino,
Qual per suo orgoglio e suo valor si vanta
Pigliar re Carlo ed ogni paladino.
...

Vedremo che con questo proemio Boiardo tocca un problema, che è quello della fama, che sarà
poi elaborato particolarmente dall’Ariosto.
Qui è finita la parte del proemio. È un proemio parecchio sviluppato, ritorniamo alla prima ottava.
Ottava 1
Parafrasi  Se a quelli che trionfarono nel mondo e nella gloria, come fecero Alessandro e Giulio
Cesare, che l’uno e l’altro percorsero vittoriosamente dal Mediterraneo all’oceano, non fosse
venuta in soccorso la memoria, sarebbe fiorito invano il loro valore; il loro ardire e senno e virtù
sarebbero tolte dal tempo e giunte alla fine.
 Ruolo della poesia e in particolare della poesia encomiastica è quello di mantenere viva la
memoria, di celebrare questi grandi personaggi
 Viene prefigurata in qualche maniera la funzione della poesia encomiastica
Ottava 2
Fama, seguace degli imperatori, ninfa, che canti le imprese e i dolci versi, che rendi onore agli
uomini ancora dopo la morte, e che rendi eterni coloro che tu celebri, dove sei giunta? A dire gli
antichi amori e a narrare le battaglie dei giganti (cioè a raccontare cose di poco rilievo e
soprattutto, le battaglie dei giganti, di fantasia, non reali) per colpa del mondo che al tuo tempo è
tale che non si interessa più di fama e virtù.
Ottava 3
Lascia la verde pianta al Parnaso, perché ormai è perduto il cammino per salirvi.
 Alloro e aspirazione a un canto
E canta con me questa storia che è bassa di stile e di contenuti non epici, non elevati.
Questo proemio è un po’ abnorme, nel senso che tralaltro per alcuni testimoni da qui viene fatto
iniziare il 3° libro. In realtà il 3° libro inizia con il proemio che leggeremo in seguito, ma quello che
colpisce è che qui vediamo Boiardo che tende a sottovalutare in qualche maniera la sua opera, a
contrapporla a quella che è il canto epico per eccellenza, che deve celebrare i grandi personaggi. Il
motivo per cui lo abbiamo letto è che questo motivo della poesia che è la sola in grado di rendere
eterna la fama sarà poi un motivo che sarà ripreso e sviluppato dall’Ariosto anche in chiave
ironica, e che definisce però quello che dovrebbe essere il ruolo del poeta cortigiano.
Probabilmente, questo proemio viene a giustificare in qualche modo, a chiedere scusa per un
errore che Boiardo ha fatto, perché precedentemente aveva fatto una rassegna dei personaggi
illustri estensi e si era mal preparato su questo, sulle fonti. Proprio per questo poi cercherà di
rimediare facendo un’altra rassegna. Poi vedremo che queste sezioni encomiastiche all’interno del
romanzo cavalleresco – perché di romanzo cavalleresco si tratta – sono delle oasi celebrative, si
ritrovano stesso, attraverso pitture, fontane, oppure attraverso profezie. È un modo per aprire
quella parte che è la celebrazione, la genealogia che ha proprio evidentemente quella funzione lì.

Esordio del terzo libro, Canto I, proemio


Come più dolce a’ naviganti pare,
Poi che fortuna li ha battuti intorno,
Veder l’onda tranquilla e queto il mare,
L’aria serena e il cel di stelle adorno;
E come il peregrin nel caminare
Se allegra al vago piano al novo giorno,
Essendo fuori uscito alla sicura
De l’aspro monte per la notte oscura;

Così, dapoi che la infernal tempesta


De la guerra spietata è dipartita,
Poi che tornato è il mondo in zoia e in festa
E questa corte più che mai fiorita,
Farò con più diletto manifesta
La bella istoria che ho gran tempo ordita:
Venite ad ascoltare in cortesia,
Segnori e dame e bella baronia.

Le gran battaglie e il trïomfale onore


Vi contarò di Carlo, re di Franza,
E le prodezze fatte per amore
Dal conte Orlando, e sua strema possanza;
Come Rugier, che fu nel mondo un fiore,
Fosse tradito; e Gano di Maganza,
Pien de ogni fellonia, pien de ogni fele,
Lo uccise a torto, il perfido crudele.

Questa è una sintesi di quanto siamo venuti dicendo.


Ottava 1  la possiamo definire di tipo lirico: corrisponde a un componimento degli Amorum libri.
Spesso Boiardo riutilizza dei pezzi di sonetti o stanze di canzone e li adatta all’ottava per farne un
esordio. Va da sé che nell’arco stesso in cui questo frammento lirico è inserito in un elemento
narrativo come quello del poema cavalleresco muta significato, viene risemantizzato, acquista un
significato diverso, e noi sappiamo che mentre nella lirica il tema della primavera è legato all’idea
della stagione dell’amore, quindi al tema amoroso, per Boiardo invece l’idea della primavera è
legato alla stagione presente, al cosiddetto ritorno dell’età dell’oro con la corte estense.
Parafrasi
Come più gradito appare ai marinai, dopo che il fortunale (fortuna vuol dire sia sorte che
tempesta, fortunale, quando c’è una tempesta di mare serve a cambiare il corso delle vicende: i
due significati si sovrappongono; è un elemento degno di nota perché anche Ariosto ci gioca) li ha
sbattuti dappertutto, vedere il mare calmo e le onde tranquille e l’aria serena e il ciel adornato di
stelle, e come il pellegrino si rallegra del nuovo giorno e della bella pianura, essendo uscito fuori al
sicuro dall’aspro monte per la notte oscura, così, dopo che la tempesta infernale della guerra si è
allontanata*, e poi è tornata la gioia e la festa nel mondo e questa corte è rifiorita, manifesterò
con diletto la bella storia che ho sentito, che ho tramato e venite ad ascoltare in cortesia, venite ad
ascoltare, signori e dame e nobili**.
*la guerra con Venezia  l’Orlando innamorato è un poema che celebra la pace
**formule preconfezionate che identificano il pubblico, donne, uomini e tutte le persone nobili
 2 elementi di similitudine
 Vago piano contrapposto all’aspro monte
 Utilizzo dell’ottava: molto spesso le similitudini rimarcano la forma metrica e sono a loro
volta evidenziate dal metro, perché i due membri della similitudine sono dislocati su due
ottave diverse. Potrebbe accadere che siano dislocati sulle due quartine (4 + 4), e in fondo
anche qui l’anafora segna la partizione tra le due quartine, “come… come…”
- Boiardo comincia ad adoperare la forma metrica conoscendone le potenzialità delle
interne scansioni, cioè evidenziare i contenuti attraverso la divisione, la partitura
metrica, non è più usata a caso, un po’ come la usava Boccaccio, per Boccaccio l’ottava
era un contenitore da riempire, ma la partitura metrica asseconda quella semantica.
Questo aspetto in Ariosto sarà particolarmente portato alla perfezione
Possiamo paragonare tra loro i tre esordi dei tre libri e vedremo come questi si richiamino tra loro.
La narrazione per Boiardo è proprio un rito cortigiano che si svolge sempre in quell’ambiente che è
la corte, che viene definita attraverso i suoi rappresentanti raccolti intorno al poeta narratore che
viene presentato sempre come narratore orale. Le allusioni alla scrittura nell’Innamorato sono
abbastanza rare nell’insieme; la finzione dell’oralità è quella mantenuta in maniera costante. C’è
un caso in cui rifacendosi a Dante lui dice “poi che da tutti i lati ho pieno il foglio, finire il canto e
riposarmi voglio”, cioè allude alla scrittura, ma è un caso raro all’interno del dominio assoluto
dell’oralità.
La guerra, che viene qui assimilata all’infernal tempesta, nell’Innamorato è vista come l’elemento
che impedisce il canto, rompe quella situazione di pacifico equilibrio e di bella stagione che rende
possibile cantare. Il finale del poema da questo punto di vista è esemplare.

Canto IX, libro 3, ottave 25-26


Quivi smontarno le due damigelle.
Bradamante avia l’arme ancora intorno,
L’altra uno abito biavo, fatto a stelle
Quale eran d’oro, e l’arco e i strali e ’l corno;
Ambe tanto legiadre, ambe sì belle,
Che avrian di sue bellezze il mondo adorno.
L’una de l’altra accesa è nel disio,
Quel che li manca ben sapre’ dir io.  allusione scherzosa

Mentre che io canto, o Iddio redentore,


Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco;
Però vi lascio in questo vano amore
De Fiordespina ardente a poco a poco;
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Racontarovi il tutto per espresso.

Si sta parlando qui di Bradamante e Fiordispina, tra le quali è nato una specie di amore, perché
Fiordispina crede che Bradamante sia un uomo. C’è questa storia ambigua sulla quale Boiardo sta
divertendosi. È una cosa che Ariosto si dovrà trovare a risolvere, perché come continuatore
dell’Orlando innamorato dovrà risolvere anche le vicende lasciate in sospeso dal predecessore.
Conclusione ariostea della vicenda  Bradamante ha un fratello gemello, che si chiama
Ricciardetto, e a un certo punto Ricciardetto verrà a sostituire Bradamante e quindi Fiordispina
verrà a unirsi a lui.
Ma quello che colpisce è che la guerra interviene come una cosa esterna che rompe l’equilibrio,
nell’ottava seguente.
Mentre all’inizio del 3° libro ci aveva detto che finita la tempesta infernale era ritornato al mondo
gioia, al Canto IX la tempesta infernale chiude per sempre il poema.
Interventi degli assistenti:
 Ottava conclusiva, il dato insolito è che c’è una conclusione: generalmente un’opera
rimane interrotta perché ad esempio l’autore muore, le opere si interrompono durante il
flusso della narrazione
 Non si lavora molto su questo, ma in realtà sarebbe interessante  rapporto molto stretto
tra composizione e recitazione, questi sono gli ultimi canti, dall’84 in poi ne ha scritti
pochissimi, sappiamo che in questi anni erano particolarmente pressanti le richieste degli
Estensi, soprattutto di Isabella, che era particolarmente amante di questo poema e ne
voleva la continuazione. Boiardo non era particolarmente incline a continuare ma lo faceva
perché gli era richiesto. Forse c’è anche un discorso di questo tipo, lui componeva in vista
di una recitazione molto vicina, questo Canto IX ha messo insieme quelle 25 ottave e poi ci
ha messo questa chiosa e l’ha proposta così, e poi questo è rimasto
Questa interruzione brusca dell’Innamorato è molto feconda da un punto di vista letterario,
perché il Furioso nasce su questa interruzione. Ariosto lo presenta lui stesso come una «gionta»,
una continuazione dell’Innamorato. Che cosa glielo consentiva? Prima di tutto l’esperimento
dell’Innamorato aveva dato vita ad altre continuazioni e riscritture. Esempi:
 Francesco Berni, esegue una riscrittura più che una continuazione
 Niccolò degli Agostini
Cosa fanno questi poeti? Aggiungono dei libri all’Innamorato, cioè cercano di chiudere le fila che
Boiardo aveva lasciato interrotte, portando a termine le storie lasciate sospese. Di questo clima,
che evidentemente rispondeva a quelli che erano i desideri degli Estensi, la curiosità di veder
portate a termine le varie vicende, fa parte anche l’Ariosto. L’operazione ariostesca si distingue
nettamente da quella degli altri, anche dal punto di vista tipografico. Mentre gli altri non
presentavano la loro opera come un’opera nuova, ma come semplicemente un completamento
dell’Innamorato (se l’Innamorato è arrivato al 3° libro, loro vanno al 4°, 5° e così via), ma sempre
ponendosi nell’ottica dei continuatori, sempre quindi con una dipendenza molto forte da Boiardo,
e non creavano nemmeno dei titoli autonomi. Usavano tutti L’Orlando innamorato o
L’innamoramento di Orlando. Ariosto presenta la sua opera come completamente autonoma, a
partire dal titolo, che non è più L’Orlando innamorato ma è L’Orlando Furioso. La continuazione
era una prassi legittima e in qualche maniera autorizzata dalla tradizione. Perché? Perché la
narrazione cavalleresca sul modello di quella delle chansons de geste era di carattere ciclico, per
cui era prassi comune che alcune vicende venissero riprese da altri autori e continuate. Per
esempio, tutte le storie di Orlando si potevano riraccontare, come anche gli antefatti di quelle
vicende. Comunque sia, questa narrazione aveva già un carattere ciclico e quindi era tradizione
portarla avanti e svilupparne alcune parti.
Ariosto sceglie un titolo autonomo, che da un lato allude al suo predecessore, Boiardo ha
raccontato di Orlando innamorato presentandolo come una grande novità, Ariosto ci presenterà
una cosa ancora più eccezionale, cioè come Orlando è impazzito proprio a seguito di quell’amore.
La continuazione è un esito paradossale di quel problema precedente. Questo titolo allude
probabilmente però anche all’Hercules furens senechiano, sarebbe un primo ammicco alla
tradizione classica, sappiamo che all’interno del Furioso la dimensione classica è molto importante
e lo vedremo. Nel titolo quindi sono contenute tante cose, poi vedremo che nella trattatistica
dell’epica molto si discute dell’importanza del titolo, perché è un segnale molto notevole, tanto
più che gli altri non ne produssero di nuovi. Il Furioso ha una lunga gestazione, dal 1508 alla terza
redazione del 1532. La lavorazione intorno al poema si affianca a quella intorno alle commedie,
che risalgono a quel periodo lì e arrivano fino agli anni 30, e a quella più ristretta ma sempre
all’interno di questo periodo che è delle Satire.
Ariosto è insieme continuatore e riscrittore. Da un lato (e questo si sentirà particolarmente nel
1525, cioè con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua) la lingua boiardesca è sentita come
eccessivamente provinciale, eccessivamente padana, cosa che per Boiardo era un vanto. Se noi
confrontiamo la lingua dell’Innamoramento di Orlando con quella degli Amorum libri vediamo che
il linguaggio è molto più elevato e conto in questi ultimi. Questa scelta qui è anche un modo per
creare un rapporto di intesa più stretto con il pubblico, l’Innamorato è pensato per essere
consumato all’interno di quel circolo, e allora se lo vediamo da quel punto di vista anche la scelta
linguistica – al di là di quello che Boiardo credeva – diventa forse anche un segnale di intesa con il
proprio pubblico. Si dice comunemente che per Ariosto tutto cambia nel 1525: non è vero, la
prima redazione dell’Orlando furioso, quella del 1516, ha un italiano già molto diverso da quello
usato da Boiardo. Ci sarà quel procedimento di correzione, di maggior italianizzazione e aderenza
al canone, ma fin dall’inizio la lingua di Boiardo e di Ariosto è diversa.
In questo processo di adeguamento e di italianizzazione, di sprovincializzazione della lingua c’è
un’altra cosa, una maggior ambizione: se Boiardo aveva presente un pubblico definito, quello della
corte estense, Ariosto va oltre, inizia a pensare a un pubblico italiano, non più ristretto all’interno
di quell’ambiente. Questo per la parte del riscrittore, chi fa un’operazione un po’ alla Berni, ma
Ariosto è soprattutto un continuatore, ma un continuatore diverso dagli altri.
Il poema conosce tre redazioni, 1516, 1521 e 1532. Questa situazione consente il cosiddetto studio
delle varianti, inaugurato da Gianfranco Contini, lavorando proprio sul Furioso. Il critico può
vedere il poema nella sua evoluzione, cosa non consentita nella maggior parte dei casi. Santorre
Debenedetti ha trovato i frammenti autografi.  filone critico della variantistica
Il dato più notevole dal punto di vista contenutistico è l’inserimento di 6 canti e in essi 4 episodi.
L’Orlando Furioso nel 1532 ha 46 canti, nel 1521 e nel 1516 ne ha 40.
1) Olimpia
- Amore per Bireno, fedeltà a Bireno, tradimento che Bireno farà ad Olimpia, Olimpia
esposta all’Orca e salvata da Orlando creando un parallelo con il salvataggio di Angelica
esposta all’Orco da parte di Rinaldo
Episodi di omicidi, tradimenti e così via, le «discortesie», l’opposto degli ideali cavallereschi ed
epici.
2) episodio della rocca di Tristano
3) episodio di Marganorre
Infine:
4) Ruggiero e Leone, episodio esemplare, prova del valore dell’amicizia, che serve a ritardare
il finale del poema
Quello che è stato notato è che l’inserimento di questi episodi cambia un po’ il tono medio del
poema e lo spinge verso un maggior pessimismo, una visione più cupa, con anche forti allusioni
alla contemporaneità, per esempio nell’episodio di Olimpia Ariosto farà un’invettiva contro l’uso
delle armi da fuoco, l’archibugio di Cimosco, che sarà un’allusione alle guerre contemporanee.
Nella rocca di Tristano ci saranno tutte in pitture, e sarà anche lì un pretesto per poter fare un
excursus su questa parte cupa della contemporaneità. Mentre Boiardo vede la guerra come la fine
della possibilità di narrare, Ariosto cerca di integrarla nel poema.
Se quello che colpisce della lettura dell’Innamorato è una gioia di fondo, un ottimismo, il Furioso
ha un tono completamente diverso. In quell’arco di tempo, le cose sono completamente cambiate,
nel mondo della corte e anche nella corte estense. Oltretutto Ariosto era anche lui un funzionario
degli Estensi, ma quello che più balza agli occhi è che Ariosto percepisce il ruolo cortigiano con
estrema fatica, come qualcosa di negativo, fatto di compromessi e di rinunce che vive come
sacrifici. Gli interventi sulla corte sono tutti portatori in genere di una visione negativa della corte,
completamente diversa da quella di Boiardo e di Castiglione.

Satira I
Siamo nel 1517. La composizione delle Satire si svolge in un arco di tempo che va dal 1517 al 1525
e cessa con il rientro di Ariosto dalla Garfagnana, dove era andato in funzione di governatore da
Ippolito. Il 1517 è un anno molto importante per lui perché è l’anno della rottura con il cardinale
Ippolito. Vedremo che il Furioso è dedicato a Ippolito e anche dopo la rottura Ariosto non
cambierà la dedica; sarà elogiato anche Alfonso, ma la dedica resterà rivolta ad Ippolito (maggior
fedeltà al proprio poema rispetto che al proprio signore). La rottura avviene perché non vuole
accompagnare il cardinale in Ungheria, mentre molti altri del seguito vanno con lui. Ariosto rifiuta
e da quel momento il suo rapporto con Ippolito si guasta. A questo tema è dedicata la prima satira.
Le Satire sono 7, componimenti in terza rima che si rifanno al modello classico della satira
oraziana, ma anche al capitolo in terza rima. Hanno come argomento la corte, un argomento di
primo piano delle Satire. Ci sono altri temi, ma i rapporto con la corte sono uno dei temi centrali
del discorso satirico. Leggiamo quindi la prima.

Io desidero intendere da voi,


Alessandro fratel, compar mio Bagno,
s’in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno


per me si lieva e dice la cagione
per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione


(l’arte che più tra noi si studia e cole),
l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

Quello che colpisce delle Satire è lo studiato tono colloquiale, un tono in forma di lettera o di
confessione, insieme con vaste escursioni stilistiche dall’alto al basso e con un contenuto di tipo
moraleggiante. Non va preso alla lettera. Questa apparenza di estrema sincerità non consente di
fare un testo letterario un documento storico. Non si costruisce la biografia dell’Ariosto attraverso
le Satire, com’è stato ampiamente mostrato molti dei temi sono diffusissimi nella tradizione
precedente (es. Serafino Aquilano). Tutto va filtrato attraverso l’idea che si tratta di topoi polemici.
Ciò non toglie che gli spunti storici ci sono. È un dato di fatto che i suoi rapporti si siano guastati.
Ariosto aveva 9 fratelli, questo verrà poi lamentato in un’altra Satira perché lui era il maggiore e
doveva farsi carico una volta morto il padre anche del destino degli altri fratelli. Chiede ad
Alessandro e al suo amico Ludovico del Bagno, segretario di Ippolito e amico di Ariosto che andò al
seguito di Ippolito, se qualcuno si leva per giustificare le ragioni per cui si è rifiutato, oppure se
tutti dotti nell’adulazione lo aiutano a biasimarlo oltre ogni ragione. Già i primi elementi sono del
tutto negativi; nella corte vige l’adulazione, quello che il signore vuole diventa volontà di chiunque.

Pazzo chi al suo signor contradir vole,


se ben dicesse c’ha veduto il giorno
pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,


di varie voci subito un concento
s’ode accordar di quanti n’ha dintorno;

e chi non ha per umiltà ardimento


la bocca aprir, con tutto il viso applaude
e par che voglia dir: «anch’io consento».

Qui si viene profilando la figura negativa del cortigiano. Chi vuole andare contro la volontà del suo
signore è decisamente pazzo, se anche il signore dicesse che ha visto il giorno pieno di stelle e il
sole in piena notte. È un riferimento alla sestina 22 di Petrarca. Sia quando il signore loda il
cortigiano sia quando vuole trattarlo male comunque si leva un’orchestra di voci che si accordano
al signore, cantano tutti alla stessa maniera. Addirittura quelli che non hanno il coraggio di
pronunciarsi a voce lo fanno attraverso la propria espressione. Qui ci sono dei riferimenti
abbastanza precisi al cortigiano. Nel brano viene citato «chi contradir vuole»; dice Castiglione che
dovere del perfetto cortegiano è dir la verità al principe. «Quando il signore inclina a far cosa non
conveniente, al proprio signore ardisca di contraddirgli». Dovere del cortigiano è essere perfetto
consigliere.
C’è proprio una ripresa verbale, «pazzo chi al suo signor contraddir vòle». Analogamente, poco
oltre, il punto dove dice «far scorno», riprende Castiglione. Machiavelli arriverà a dire al principe
come sfuggire agli adulatori e di chiedere consiglio a poche persone assolutamente fidate e a
quelle persone dare assoluta libertà di far capire loro che anche qualora esprimano dissenso non
incorreranno nell’ira o nel fastidio del principe, perché soltanto in questo modo potrà
salvaguardarsi dalla piaga degli adulatori. Una delle cose da cui maggiormente mettono in guardia
i principi, gli intellettuali del tempo.

Ma se in altro biasmarme, almen dar laude


dovete che, volendo io rimanere,
lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,


de le quali per sé sola ciascuna
esser mi dovea degna di tenere.

Prima la vita, a cui poche o nessuna


cosa ho da preferir, che far più breve
non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna.

Cosa dice Ariosto? «Se mi volete biasimare, biasimatemi pure, ma almeno lodatemi per essere
stato sincero, per averlo detto a viso aperto (cit. dantesca). Perché? Prima di tutto per la
conservazione della mia vita, che è forse la cosa più importante, non esiste forse cosa più
importante se non l’onore.»

Ogni alterazione, ancor che leve,


ch’avesse il mal ch’io sento, o ne morei,
o il Valentino e il Postumo errar deve.

Qualunque alterazione, qualunque cambiamento di clima mi sarebbe fatale, se non sbagliano il


Valentino e il Postumo, due medici della corte estense.
Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei
casi de ogni altro intendo; e quai compensi
mi siano utili so, so quai son rei.

Io so meglio degli altri che cosa mi è utile, che cosa mi fa bene.

So mia natura come mal conviensi


co’ freddi verni; e costà sotto il polo
gli avete voi più che in Italia intensi.

So come la mia natura sia poco adatta ai freddi inverni, e lì è freddo.

E non mi nocerebbe il freddo solo;


ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto,
che più che da la peste me gli involo.

Non solo mi farebbe male il freddo, ma anche il caldo delle stufe, gli ambienti troppo riscaldati. In
effetti calza, aveva una certa età quando scrive, non era più un giovinetto, evidentemente la sua
salute poteva essere messa a rischio. Ma quello che colpisce è che sono molti i punti in cui
ritroviamo questi aspetti nella letteratura contemporanea, sono motivi diffusi.

Io, per la mala servitude mia,


non ho dal Cardinale ancora tanto
ch’io possa fare in corte l’osteria.

Parafrasi  io, a causa del mio cattivo servizio, non ho dal cardinale ottenuto ancora abbastanza
perché io possa farmi da mangiare e da bere a corte.

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo


collegio de le Muse, io non possiedo
tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

Parafrasi  Apollo, grazie a te, grazie a te, e santo collegio delle Muse, io non ottengo abbastanza
perché io possa farmi un mantello.

«Oh! il signor t’ha dato...» io ve ’l conciedo,


tanto che fatto m’ho più d’un mantello;
ma che m’abbia per voi dato non credo.

 Voce esterna, tono dialogato e colloquialità apparente


Parafrasi  Io vi concedo di dirmi: «Oh, il signor ti ha dato», tanto che mi sono fatto più di un
mantello, ma non credo che me lo abbia dato per voi (Apollo e Muse).
Nuovo elemento polemico: il poeta cortigiano può offrire la poesia. Ariosto non è certo che quello
che ha ottenuto l’abbia ottenuto per il servizio come poeta. Al signore non interessa.
Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello
voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
mandare al Culiseo per lo sugello.

Non vuol che laude sua da me composta


per opra degna di mercé si pona;
di mercé degno è l’ir correndo in posta.

Egli lo ha detto: io voglio ancora dirlo a questo e a quello, e posso mandare al Culiseo i miei versi
per posta.
 Culiseo  doppio senso, tipico della commedia, quindi siamo al basso, nei punti più bassi
dello stile
Non vuole che la lode composta da me per lui sia considerata opera degna di misericordia; degno
di misericordia è l’andare correndo di posta in posta. Le poste erano le soste del cavallo.

A chi nel Barco e in villa il segue, dona,


a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi
nel pozzo per la sera in fresco a nona;

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi


se levino a far chiodi, sì che spesso
col torchio in mano addormentato caschi.

Dona a chi lo segue nel parco e nella casa, a chi lo veste e lo spoglia, anche a chi ponga i fiaschi nel
pozzo per la sera a mezzogiorno. Veglia la notte, fino a che i bergamaschi si divertono a far chiodi,
così che spesso con il torchio in mano cascano addormentati.

S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,


dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio;
più grato fòra essergli stato appresso.

Se io l’ho inserito nei miei versi, dice che l’ho fatto a piacere e in ozio (mi sono dilettato a perdere
tempo); gli sarebbe stato più gradito se gli fossi stato appresso.
Qualche terzina dopo:

Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta


con la lira in un cesso, e una arte impara,
se beneficii vuoi, che sia più accetta.

Marone è un poeta cortigiano, ma è anche Publio Virgilio Marone (gioco sull’ambiguità). Getta i
tuoi versi pure nel cesso, tanto non servono a niente. Contraddizione di fondo tra quello che lui
desidererebbe coltivare e richieste provenienti dalla corte. Insensibilità da parte del signore verso
la sua produzione poetica, non gliene importa niente.
Qualche terzina dopo:
Ruggier, se alla progenie tua mi fai
sì poco grato, e nulla mi prevaglio
che li alti gesti e tuo valor cantai,

che debbio far io qui, poi ch’io non vaglio


smembrar su la forcina in aria starne,*
né so a sparvier, né a can metter guinzaglio?**

Si rivolge direttamente al suo personaggio, richiamando alla lettera parole del Furioso. Ruggiero,
progenitore ecc., se i tuoi discendenti mi hanno così poco gradito e cantare i tuoi gesti non è
servito a niente, che cosa devo fare?
*trinciante
**colui che si occupa degli sparvieri, della caccia
Io queste cose – dice Ariosto – non le so fare, e non sono neanche adatto perché sono vecchio..

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