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Parafrasi e Commento Testi modulo B

Matteo Maria Boiardo, dall’Inamoramento de Orlando: 22a (I I 1-3); 22b (da I XVIII
41-46); 22c (III IX 26)
Nobili cavalieri che vi riunite per udire
Vicende interessanti e mai udite prima,
restate attenti e in silenzio, ad ascoltare
la bella storia che ispira il mio poema
e vedrete le gesta incredibili,
la grande fatica e le prove ammirevoli
che il nobile orlando compì per amore
al tempo in cui Carlo Magno era imperatore

Non vi sembri assurdo, signori, di sentir cantare di


Orlando innamorato, poiché anche chi al mondo
È il più orgoglioso, è sconfitto d’amore
E completamente assoggettato da lui, nè un braccio robusto
Né un animo coraggioso, né uno scudo
O una corazza, né una spada affilata
Ne qualunque altra forza potrà mai difendersi
Che alla fine non sia battuta e conquistata da Amore

Questa storia è nota a poche persone


Perché Turpino in persona la tenne segreta
Credendo forse che al quel conte virtuoso
Potesse dispiacere la sua versione scritta
Poiché, colui che vinse qualsiasi avversario
Perse la battaglia con Amore:
Parlo di Orlando cavaliere perfetto
Ma basta con le parole passiamo ai fatti

Pietro Bembo Crin d’oro crespo


Le crespe chiome d’oro che sembra ambra nitida e pura
Che ondeggiano all’aria sul viso candido volgei
Quegli occhi più chiari del sole
In grado di trasformare la notte oscura nel giorno luminoso
Il sorriso che placca ogni mia aspra e dura pena
Le labbra e i denti da cui escono parole
Si dolci, che l’anima non vuole ascoltare altre
Le mani simili all’avorio che afferrano e rubano il cuore
Cantare con un’armonia quasi divina
Senno maturo alla più giovane età
Leggiadria non si fa mai vedere fra noi
Unita alla sua somma bellezza e somma onesta
Furono l’esca del mio amore e sono in voi
Grazie al Cielo che a pochi riserva generosamente
Sonetto a schema ABBA ABBA CDE DEC
In questo sonetto il ritratto dell’amata proposto da Bembo, secondo lo schema del
cosiddetto “canone breve”, è ricalcato chiaramente sul catalogo delle bellezze e
delle qualità dell’amata contenuto nel n°213 dei Rerum vulgarium fragmenta di
Petrarca che comincia con il verso Grazie ch’a pochi il ciel largo destina, qui solo
leggermente variato in chiusura. Alla memoria di questo testo Petrarchesco (dove
troviamo elementi molto simili, come la saggezza giovanile, la leggiadria, il cantar, gli
occhi capaci di portare luce nelle tenebre) si associano tanti altri prestiti dallo stesso
autore come i capelli e aura e il motivo dell’esca, di ciò che innesca il fuoco della
passione amorosa
Ludovico Ariosto, dall’Orlando furioso: 32a (I 1-4)
Delle donne, dei cavalieri, delle battaglie, degli amori,
degli atti di cortesia, delle audaci imprese io canto,
che ci furono nel tempo in cui gli Arabi
attraversarono il mare d'Africa, e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire
e i furori giovanili
del loro re Agramante, il quale si vantò
di poter vendicare la morte di Traiano
contro il re Carlo, imperatore romano.

Nello stesso tempo, racconterò di Orlando


cose che non sono state mai dette né in prosa né in rima:
che per amore, divenne completamente folle,
lui che prima era considerato uomo così saggio;
dirò queste cose se da parte di colei che mi ha quasi reso tale
e che a poco a poco consuma il mio piccolo ingegno,
me ne sarà concesso a sufficienza
che mi basti a finire l'opera che ho promesso.

Vi piaccia, generosa e nobile prole del [duca] Ercole I,


che siete ornamento e splendore del nostro tempo,
Ippolito, di gradire questo poema che vuole
e darvi solo può il vostro umile servitore.
Il mio debito nei vostri confronti, lo posso solo
pagare in parte con le mie parole ed opere scritte;
non mi si potrà accusare di darvi poco,
perché io vi dono tutto quanto posso donarvi, non ho altro.

Voi mi sentirete ricordare fra i più valorosi eroi,


che mi appresto a citare lodandoli,
di quel Ruggiero che fu il vostro
e dei vostri nobili avi il capostipite.
Il suo grande valore e le sue imprese
vi farò udire se mi presterete ascolto;
e ile vostre profonde preoccupazioni cedano un poco,
in modo che tra loro i miei versi possano trovare spazio.

Torquato Tasso, dalla Gerusalemme liberata: 33a (I 1-5)


canto le armi devote e il comandante (Goffredo di Buglione) che liberò il grande
sepolcro di Cristo. Egli molto si adoperò con la ragione e con la mano, soffrì molto
per la conquista di Gerusalemme e invano il demonio si oppose a tale conquista
come anche vana fu l’opposizione delle popolazioni della Libia e dell’Asia. Il cielo gli
diede favore e ricondusse sotto le insegne sacre I compagni che erravano.

Oh Musa, tu non circondi di caduchi allori le cime del monte Elicona, tu che non sei
circondata da allori effimeri destinati a scomparire ma stai in cielo tra i cori beati, hai
corone fatte di stelle immortali e tu ispiri al mio cuore entusiasmi celesti religiosi. Tu
illumini il mio canto e perdoni se intreccio storie e fantasia e diletti moderni, non
derivati da te.

Spiega che gli uomini prediligono poesia ricca di immagini fantastiche e dilettevoli e
di altri ornamentali dolcezze a lei propri, e trovano nel parnaso il simbolo della
poesia, mescolato a dolci immagini alludono e persuadono anche coloro che sono
più schivi e più ritrosi, così come il fanciullo malato porgiamo una tazza coi bordi
cosparsi di un liquido dolce, il fanciullo ingannato dal sapore dolce beve l’amara
medicina e anche in virtù dell’inganno guarisce.

Tu, forte magnanimo Alfonso II d’este che vuoi sottrarti all’improvvisa tempesta
degli eventi e conduci verso un punto sicuro me pellegrino errante che sono
sballottato, tra gli scogli e le onde, quasi inghiottito accogli, con benevolenza queste
mie carte, che ciò che ti offro come un dono votivo. Forse un giorno verrà che il mio
puro presagio della tua gloria e possa scrivere su dite quello che ora riesco solo ad
accennare.

Se accadrà che il popolo cristiano riesca a recuperare combattendo per mare e per
terra gli infedeli e strappare nuovamente il Santo Sepolcro, ingiustamente nelle
mani dei Turchi, che ti sia concesso o il comando di terra o quello della forza marina.
In modo tale da poter emulare Goffredo; intanto accetta la poesia che ti offro e
preparati a combattere.
Commento
Lo schema classico del proemio reintrodotto nell’epica italiana dal Poliziano e
dall’Ariosto appare ormai consolidato. Anzi qui è dato cogliere, nella proposizione,
un richiamo all’Eneide virgiliana nella coppia di termini, “L’arme e l’capitano” (Arma
virumque cano), messa in evidenza al primo verso. Ma rispetto al Virgilio e anche
all’Ariosto, che esordiva con una fluida ostensione della materia oggettiva del
poema (Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori), appare significativa nel Tasso
l’anticipazione del verbo canto. Sempre nell’ottava di proposizione, poi, compare un
motivo già ariostesco, quello dell’errare nel duplice senso di vagare (proprio dei
cavalieri erranti, nel Furioso) e di deviare moralmente. Ma sin da questa prima
occorrenza è chiaro che il motivo nel Tasso si orienta più decisamente in direzione
morale e di una moralità connotata in senso religioso: come meglio si comprenderà
in seguito, anche il motivo dell’errare fisico (vagare), in quanto allontanarsi dal luogo
della battaglia e dal compito supremo della liberazione del sepolcro di Cristo, è un
errare morale, una colpa. E qui precisamente in questo senso, compare il termine
erranti, assai diverso da quello che qualificava i cavalieri della precedente tradizione,
erranti nel senso di vaganti nell’avventura. Quando poi ricompare poco più avanti
riferito al Tasso il medesimo termine si connota, in forza della metafora del mare in
tempesta, nel senso del patetico (altra novità rispetto al Furioso). L’invocazione alla
musa cristiana (probabilmente, col Getto, la Sapienza) e la contrapposizione tra
gloria effimera, connessa alla materia terrena, e gloria imperitura, connessa alla
materia sacra (e anche qui si misura la distanza dall’Ariosto che invocava, tra serietà
e ironia, la donna amata), introducono una riflessione sui fini dell’arte. Sia pur con
cautela, e in verità con una semplificazione rispetto alle tesi esposte nelle opere
teoriche, il Tasso mostra qui di riproporre il binomio classico “utile+dolce”,
endonismo e pedagogismo, ma il dolce è declassato, nella similitudine d’origine
addirittura platonico-cristiana, a necessario allettamento per trasmettere un
insegnamento, una verità morale e religiosa. La sintesi endonismo-pedagogismo
inclina insomma verso il secondo termine, anche se all’altezza della Liberata non è il
caso di insistervi più di tanto, vista la complessità, sul piano dei fatti, delle
motivazioni a scrivere che muovono il poeta. Quanto alle ottave di dedica, si noti
infine il motivo, frequente in questi anni, dell’augurio al duca Alfonso di potersi fare
un giorno condottiero, degno di Goffredo, d’una nuova crociata: la vicenda remota
nel tempo si proietta nell’attualità, il tema religioso trova un aggancio, non
pretestuoso, con la società cortigiana e l’encomio del letterato.

Giovan Battista Marino, dall’Adone: 34b (X 39 - 45)


Giuseppe Parini, Mattino (1763), vv. 125-57
Ma già vedo entrare di nuovo il tuo servo ben pettinato; ti chiede quale delle solite
bevande oggi tu preferisca bere nelle tazze preziose, tutte merci e bevande
provenienti dalle Indie; scegli quella che più desideri. Se oggi preferisci dare allo
stomaco un gradevole tepore, in modo che il calore naturale vi bruci in giusta
misura, e ti aiuti a digerire, scegli la cioccolata scura, della quale ti fanno dono i
Guatemaltesi e i Caraibici, che hanno i capelli avvolti di piume come i barbari; ma se
una noiosa tristezza ti opprime, o cresce troppo grasso intorno alle tue membra
graziose, rendi onore con le tue labbra al nettare dove fuma e brucia tostato il seme
arrivato a te da Aleppo e da Moka, città superba per le mille navi che sempre la
affollano. Certo fu necessario che un regno, la Spagna, uscisse dai suoi antichi
territori, e con navi ardite superasse i confini da tempo rimasi inviolati, tra tempeste
in mari stranieri, nuovi mostri, paure, rischi e privazioni inumane; ed è giusto che
Cortes e Pizarro non giudicarono umano il sangue che scorreva negli uomini d'oltre
oceano, per cui, con armi da fuoco che tuonavano e fulminavano, rovesciarono dai
loro antichi troni i re aztechi e i valorosi Incas; perchè in questo modo giunsero al
tuo palato, o gemma degli eroi, nuove delizie.
Commento
Il giorno è un componimento mai finito del poeta Giuseppe Parini che, inizialmente,
si divideva in tre parti (Mattino, Mezzogiorno, Sera). L’ultima sezione è stata in
seguito divisa in due parti (quelle incomplete), Vespro e Notte. L’idea dietro a
questo poemetto composto in endecasillabi sciolti è quella di rappresentare in
maniera satirica l’aristocrazia caduta di quel tempo. L’opera di Parini descrive la vita
di un “giovin signore”, la giornata di un pupillo appartenente alla nobiltà milanese,
dando il via a quella che viene chiamata la letteratura civile italiana.
Nel testo non c’è tanto un’aggressione diretta quanto una sottile ironia trasmessa
dalle parole di Parini, che vuole indicare al giovane aristocratico il modo giusto di
impiegare la sua giornata.
Nel caso specifico del mattino All’inizio della giornata il “giovin signore”, epiteto
affibbiato dall’autore al protagonista di cui narra la giornata, viene colto al momento
del risveglio, quando già il sole è alto. Come mai si alza così tardi? Perché ha passato
la notte impegnato tra i suoi numerosi incontri mondani. Quando si alza deve
scegliere: caffè o cioccolata? La scelta si basa sulla tendenza a ingrassare o sulla
necessità di digerire la cena della sera prima. La mattina comincia con le visite
inopportune, come quella dell’artigiano che chiede il compenso per il lavoro svolto,
e prosegue con le visite gradite, come quella del maestro di violino o di quello di
francese.
Dopo le lezioni si occupa della toeletta e legge, accumulando le conoscenze
necessarie a fare bella figura in un ambiente mondano. Prima di uscire la sera viene
vestito da altri con abiti nuovi e si adorna con accessori tipici dei galantuomini del
Settecento (parrucca, coltello, tabacchiera) e, rispettando la pratica del cicisbeismo,
andava a prendere la dama di cui era cavalier servente. Da notare l’ironia, in quanto
Parini stesso era fortemente critico nei confronti della pratica del cicisbeismo.
Ugo Foscolo, De’ sepolcri, vv. 151-85
I sepolcri dei grandi stimolano l’animo nobile a grandi imprese, o Pindemonte e
rendono bella e degna di venerazione al forestiero la terra che li contiene. Io quando
vidi la chiesa dove riposa il corpo di quel grande che, insegnando ai principi come
rafforzare il regno, spoglia il loro potere delle apparenze gloriose, e svela alle genti
quanto dolore e quanta violenza costi [il potere]; e la tomba di colui che in Roma
innalzò agli dei un nuovo Olimpo (Basilica di San Pietro); e [la tomba] di colui che
vide ruotare vari pianeti sotto la volta celeste, e il sole illuminarli [stando] immobile
( riferimento al sistema eliocentrico), così che aprì per primo la conoscenza del cielo
all’inglese (Newton) che tanto ingegno vi applicò- esclamai beata te [Firenze], per
l’aria felice piena di vita, per le acque fresche che l’Appennino fa scorrere verso di te
dalle sue montagne! La Luna luminosa per la purezza della tua aria, ricopre di luce
limpidissima i tuoi colli in festa per la vendemmia, e le valli circostanti popolate di
case e di oliveti, mandano verso il cielo mille profumi di fiori: Tu, Firenze, per prima
hai udito il poema ( la divina commedia) che attenuò l’ira del ghibellino esule
[Dante], e tu hai dato gli amati genitori e la lingua  a quella dolce voce di Calliope
che adornando Amore di un velo candidissimo, [che era] nudo in Grecia e nudo a
Roma, [lo] restituì nel grembo di Venere celeste [Petrarca]; ma [sei ancora] più
beata [perchè] raccolte in un’unica chiesa ( Santa Croce) conservi le glorie italiane,
forse le uniche da quando le Alpi indifese e l’onnipotenza delle alterne sorti umane
ti sottrassero l’esercito e le ricchezze, e l’identità nazionale, tranne la memoria
[della passata grandezza], tutto.
Commento
La data di composizione è probabilmente tra il luglio e il settembre 1806 e
pubblicato a Brescia nel 1807.
L'opera è in 295 endecasillabi sciolti, cioè non rimati e non suddivisi in strofe
regolari.
Spunto per la composizione fu una occasionale discussione con l'amico poeta
Ippolito Pindemonte, a cui il carme è indirizzato, circa l'estensione (nel 1806) anche
all'Italia dell'editto napoleonico di Saint Cloud, in vigore in Francia fino al 1804. Egli
imponeva di seppellire i morti nei cimiteri pubblici, fuori dei centri abitati; proibiva
la distinzione fra i morti comuni e illustri (per i più poveri, sepolti a spese dello Stato,
erano previste fosse comuni); prescriveva che le pietre tombali fossero della stessa
grandezza, soggette al controllo e all'approvazione dei magistrati.
Il carme esprime tutta la poetica civile, sociale e morale di Foscolo.
Nel carme possiamo trovare quattro aspetti principali in cui vengono analizzati i
sepolcri:
- Esaltazione del sepolcro come legami d'affetti
Esso dà l'illusione ad ogni mortale di sopravvivere alla morte, perché facilita la
corrispondenza di amorosi sensi fra l'estinto e i viventi che curando la tomba ne
perpetuano il ricordo. Soltanto chi non lascia buona memoria di sé ha poca
consolazione dalla tomba di cui nessuno avrà cura.
- Il sepolcro simbolo di civiltà
Il poeta si stupisce che una legge vieti il culto dei morti, dal momento che esso è
sorto col sorgere della civiltà ed è stato tramandato nei secoli, tanto che ancora
oggi gli Inglesi curano i loro cimiteri come giardini, con una vera religione della
tomba. Ma forse in Italia, dove si vive in maniera disordinata e grossolana, non si
capisce più il valore profondo del sepolcro, di cui si considerano soltanto le inutili
pomposità esteriori e se ne teme il presagio nefasto
-  Il sepolcro ispiratore di egregie cose
Dalle tombe degli uomini grandi si sprigiona un messaggio di fierezza e di
eroismo: Firenze è beata perché nella chiesa di Santa Croce custodisce le
tombe di Macchiavelli, di Michelangelo, di Galileo; in esse è la memoria del
passato e da esse si può trarre auspicio di grandezza futura. Vittorio Alfieri
traeva da queste tombe la sua ispirazione poetica e patriottica e ora che abita
eterno con questi grandi, è a sua volta ispiratore di egregie cose di atti
magnanimi.
- Il sepolcro suscitatore di poesia
Infine le tombe sono ispiratrici di poesia. Omero, interrogando le tombe degli
antichi Troiani seppe eternamente le gesta nei suoi poemi. Foscolo si augura di
essere chiamato dalle Muse a una missione altrettanto grande: la poesia è il
sommo ideale della sua vita e la reale fonte di immortalità, perché se le tombe
sono destinate alla rovina del tempo, l'armonia poetica invece <<vince di mille
secoli il silenzio>>.
Alessandro Manzoni, Adelchi, atto III, coro
Dagli Atri pieni di muschio, dalle piazze in rovina
Dai boschi, dalle fucine arroventate e stridenti
Dai solchi bagnati dal sudore dei servi
Un popolo privo di unità all’improvviso si risveglia
Tende l’orecchio, alza la testa
Colpito da un rumore che cresce di intensità

Dagli sguardi timorosi, dai volti impauriti


Come un raggio di sole traluce da fitte nuvole
Traspare l’orgoglioso coraggio dei padri
Negli sguardi, nei volti confusi e incerti
L’onta subita si mescola e contrasta
Con il misero orgoglio del passato

Il popolo si raccoglie voglioso ma subito si disperde in preda al terrore


Il popolo avanza e si arresta con un incidere tortuoso
Con un passo incerto tra timore e desiderio
Prima avvista poi scruta la massa dispersa in ogni direzione
Scoraggiata e disordinata dei dominatori crudeli
Che fugge dalle spade che non si fermano

Il popolo vede i domitori ansanti e simili a animali impauriti


Con le chiome irte come criniere di una belva che si difende per paura
E cercano i noti nascondigli dei loro covi
E qui deposto l’atteggiamento minaccioso
Le donne prima superbe ora pallide
Guardano in modo sconvolto i loro figli

E sopra i longobardi in fuga con le spade


Avide di sangue colpire come cani disciolti inseguono
I guerrieri da destra a sinistra, correndo e cercando
E li vede presi da una gioia mai provata prima
Con la speranza che va veloce e percorre gli eventi
E sogna la fine della dura schiavitù

Udite i vincitori che sono rimasti padroni del campo


Impediscono da ogni parte la fuga
Sono giunti da lontano per difficili sentieri
Sospesero le gioie dei festosi conviti
Si levarono in fretta dai dolci riposi
Chiamati dagli squilli delle trombe

Lasciarono nelle sale donne addolorate che


Rinnovano continuamente gli addii
Le preghiere e le raccomandazioni finché il pianto
Troncò ogni parola, hanno cercato la fronte
Degli elmi ammaccati, porre la sella sui bruni corsieri
Volano sul ponte levatoio che suono cupo
Passarono di terra in terra a schiera
Cantando festose canzoni di guerra
Passando nel cuore i loro dolci castelli
Passando per valli petrose e suoli scoscesi
Vegliarono armati durante le gelide notti
Ricordando gli intimi colloqui d’amore

Sopportarono gli ignoti pericoli di forze sforzate


Le corse affannose per sentieri senza traccia di passaggio umano
Sopportarono la rigida disciplina militare, la fame
Videro le lance scagliate contro i loro petti
Accanto ai loro scudi udirono le frecce
Volare fischiando vicinissime ai loro elmi

E il premio sperato e promesso a quei forti dovrebbe


O delusi italiani essere quello di mutare la vostra sorte
Di porre fine al dolore di un volgo a essi straniero?
Tornate alle vostre superbe rovine alle opere non adatte alla guerra
Alle officine riarse e ai campi bagnati
Dal sudore di un popolo schiavo

Il vincitore si mescola convinto col nuovo signore rimane l’antico


L’uno e l’altro popolo insieme la opprimono
Dividono fra loro gli schiavi italiani
E gli armamenti si posano insieme sui campi insanguinati dalla guerra
Gli italiani non sono un popolo
Ma un volgo disperso
Commento:
Il “coro” è una sintesi vigorosa del dramma di tre popoli: quello dei longobardi,
costretti all’onta della fuga; dei franchi vittoriosi sì ma a prezzo di grandi rinunce di
fatiche e di pericoli; degli italiani, volgo disperso che si illude di riacquistare la
libertà. La scena dei Longobardi che fuggono, pallidi e smarriti, in cerca di salvezza è
piena di movimento e pathos: è un popolo di guerrieri superbi, sprezzanti che sente
l’onta di una dolorosa sconfitta: loro i dominatori costretti a fuggire come belve
inseguite in una caccia spietata e selvaggia! E dietro ai longobardi in fuga, ecco, quei
cani disciolti, le schiere vittoriose dei franchi. Balena nei loro occhi il lampo di gioia,
ma portano sul volto i segni di un lungo patire. E la dura legge della guerra, con i
suoi orrori e le sue scene di sangue e di morte; e il poeta la contempla con una
tristezza di un cristiano che accetta rassegnato il fluire doloroso della storia scritta
con il sangue e con le lacrime della sofferenza umana. Ed ecco il motivo culminante
del “coro”: il popolo italico, accorso al rumore insolito della battaglia, se ne sta lì,
con il cuore in tumulto, a contemplare quell’urto di prodi guerrieri, sognando “la
fine del duro servir”. Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo
disceso dai grandi romani. Come può pensare, illuso, che quei guerrieri abbaino
lasciato gli agi di una vita serena e le spose in pianto per venire a liberarlo? Ritorna
ai suoi atri muscosi, ai fori cadenti, ai boschi, ai campi e alle arse fucine stridenti e si
rassegni a servire non uno ma due padroni. Vana speranza è la sua: un popolo
straniero non può gettare cosi la vita per ridare la patria perduta a un volgo che non
ha più dignità che virtù.
Erano parole di fuoco queste che Manzoni gettava agni italiani del 1822 era il suo
vigoroso contributo al risveglio risorgimentale

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