Sei sulla pagina 1di 20

PARTE PRIMA

INTRODUZIONE

Alfieri spiega le ragioni per la scrittura dell'opera. Dichiara di non voler addurre scuse di falsa modestia, e
che ogni biografia è scritta per amor proprio, qualità della quale sono forniti tutti gli uomini ed in
particolare poeti ed artisti in generale. Vi sono però alcuni elementi di captatio benevolantiae, come, per
esempio, quando vengono nominati i "pochi estimatori della sua opera". Alfieri dice di scrivere per loro in
quanto sa che le sue opere verranno comunque prima poi precedute da una biografia, di cui preferisce
essere direttamente l'autore. Inoltre ammette che potrebbe omettere degli eventi, ma assicura che non
scriverà falsità, cosa che invece potrebbe accadere se l'autore della sua biografia fosse uno scrittore al
soldo degli editori. La biografia sarà organizzata in cinque parti, corrispondenti alle cinque fasi della vita:
infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia (quest'ultima non verrà mai realizzata). Al momento
della stesura dell'introduzione, Alfieri dichiara di essere occupato nella scrittura della quarta sezione, e di
aver notato di scrivere meno di getto di quanto accadesse nelle opere precedenti. Si scusa quindi con i
lettori nel caso in cui trovino che si sta dilungando troppo e chiede loro di punire questo suo errore non
leggendo, eventualmente, l'ultima parte, che trattando la vecchiaia dovrebbe essere quella a carattere più
riflessivo. Altra particolarità della biografia è che parlerà esclusivamente del suo protagonista, nominando
le persone intorno a lui solo in eventualità positive: scopo della biografia è, infatti, lo studio di un uomo,
'autobiografia è perciò il caso più lodevole di biografia perché l' autore non può conoscere nessuno meglio
di se stesso. L'introduzione è chiusa da una dichiarazione stilistica: la scrittura sarà semplice in quanto
l'argomento è personale ed istintivo, al contrario di altre opere.

EPOCA PRIMA-PUERIZIA

CAPITOLO PRIMO

Alfieri racconta brevemente della sua famiglia: suo padre, nobile astigiano, Antonio Alfieri, e la madre,
nobile di origine francese (barbara), Monica Maillard di Tournon. La madre aveva avuto figli da un primo
marito ed era rimasta vedova, il padre non aveva mai lavorato (essendo appunto nobile) ed è già in età
avanzata quando si sposa: anche per questo Vittorio resta orfano mentre è ancora dalla balia a Ronciglione.
La madre si sposa la terza volta, con Giacinto Alfieri, un cadetto, matrimonio del quale Alfieri è felice, anche
se vorrebbe restare più vicino alla madre ora anziana. Alfieri riflette sulla fortuna di essere nato da genitori
nobili (perché così può conoscere davvero, e dunque criticare, la nobiltà), agiati (perché così può servire
solo la verità e non avere padroni) e onesti (perché così non deve vergognarsi di essere nobile). Alfieri
dichiara inoltre di avere quarantuno anni mentre scrive la biografia.

CAPITOLO SECONDO

Alfieri inizia con un ricordo alla Proust, scritto, dice lui stesso, proprio per far vedere come funzionano i
ricordi: uno zio che gli dà dei confetti e di cui lui si ricorda solo le scarpe squadrate. Proprio la vista di scarpe
simili a quella dello zio fa tornare in mente a Vittorio il sapore dei confetti. Il secondo ricordo della prima
infanzia è legato a una forte malattia che lo ha fatto quasi morire. Vi è poi la riflessione sulla sorella Giulia,
la sorella prediletta, con la quale Alfieri vive in casa del patrigno. Uno dei ricordi più brutti dell'infanzia e
quindi la separazione da Giulia, che viene mandata a studiare in un convento astigiano. C'è anche una
digressione sul fatto che la separazione da tutte le persone amate, siano esse amici, parenti, o amanti, dà
sempre lo stesso tipo di sofferenza in quanto l'amore parte sempre alla stessa maniera. Al contrario Alfieri
riceve la sua istruzione in casa, da un sacerdote, Don Ivaldi, che lui stesso giudicherà poi piuttosto
ignorante. L'autore riconosce addirittura che i suoi stessi genitori non sono persone colte, in quanto
secondo loro "un nobile non deve diventare dottore". Alfieri riconosce però di aver sempre avuto una
tendenza verso lo studio e l'introspezione.

CAPITOLO TERZO

Alfieri descrive alcuni piccoli avvenimenti che però sono decisivi per la formazione del suo carattere. Il
primo è il fatto che a poco a poco si dimentica della sorella Giulia, in quanto la vede sempre meno spesso.
Al contrario visita spesso la vicina chiesa del Carmine e in lui nasce un affetto per i novizi, giovani frati che
sono in fondo gli unici coetanei che vede. Si tratta di infatuazione platonica e puerile: Alfieri apre il suo
vocabolario e sostituisce alla voce frati la voce padri, in quanto ha sempre sentito parlare bene dei padri e
spesso male dei frati. Un altro avvenimento è una sorta di tentativo di suicidio. Alfieri va in giardino e
comincia a mangiare erba sperando di trovarvi della cicuta, ma ammette lui stesso di non avere neanche
idea di cosa voglia dire la morte. Poco dopo vomita per l'erba ingerita, la madre a pranzo si accorge delle
sue labbra verdi e lui viene messo in castigo. Secondo Alfieri fatto di essere lasciato solo per punizione ha
favorito lo svilupparsi del carattere malinconico.

CAPITOLO QUARTO

In questo capitolo vengono indicati altri piccoli episodi decisivi per la formazione del carattere di Alfieri. Lo
scrittore spiega infatti di essere stato da piccolo molto taciturno, talvolta al contrario eccessivamente
estroverso, ma soprattutto terrorizzato dalle punizioni. Vi è in particolare un castigo che lui ricorda con
terrore, ovvero l' essere costretto a recarsi in chiesa con la reticella da notte in capo. La prima volta il tutore
lo porta nella vicina chiesa dei carmelitani, dove però lui si vergogna di essere visto dai novizi. La seconda
volta Alfieri viene trascinato fino alla chiesa di San Martino, molto più affollata di gente, e infatti l'autore
racconta di essere stato inginocchiato ad occhi chiusi per tutta la durata della funzione. In entrambi i casi
Alfieri non ricorda quale fosse il motivo del castigo, ma solo la profonda sofferenza che la punizione gli
aveva causato. Vi sono poi altri due episodi molto significativi. Il primo è un incontro con la nonna materna,
venuta da Torino, la quale insiste che volte per farsi dire dal nipote quale regalo di desideri. Alfieri ripete
più volte di non volere niente, ma si scopre poi che aveva rubato alla nonna un ventaglio per regalarlo alla
sorella. Alfieri non viene punito perché come dice la madre e come conviene lui, chi ha poi delle proprietà
come lui (in quanto nobile) si corregge automaticamente al rispetto della proprietà altrui e non ruba più.
C'è poi il racconto della prima confessione, fatta con il confessore della madre, tale padre Angelo. Alfieri
dice che in pratica è il sacerdote a guidarlo nella confessione, e a dirgli poi che per essere assolto come
penitenza deve pentirsi pubblicamente davanti alla madre, cosa che lui, nonostante le insistenze di lei a
pranzo, non riesce a fare. Alfieri spiega poi che solo più avanti negli anni ha capito che il prete aveva tradito
il segreto confessionale avendo concertato con la madre la sua penitenza. Da questo momento, secondo
Alfieri, era nata la ritrosia verso il sacramento della confessione.

CAPITOLO QUINTO

Vi si racconta l'ultimo avvenimento legato all'infanzia. Si tratta di un fatto avvenuto mentre in casa sua si
trova anche il fratello maggiore, figlio di primo letto di sua madre. Alfieri racconta inizialmente di avere
sentimenti discordanti verso il fratellastro, poiché da una parte si tratta di invidia verso le capacità del
fratello, dall'altra di un sentimento di competizione con lui te lo spinge a migliorare. C'è quindi una prima
riflessione sul fatto che spesso due sentimenti umani, l'uno negativo e l'altro positivo, possono partire dalla
stessa situazione iniziale. Un pomeriggio i due fratelli stanno giocando a fare soldati prussiani, Alfieri cade
girandosi e si ferisce contro un ferro del caminetto, procurandosi una ferita molto vicino all'occhio.
Costretto per alcuni giorni a portare una fasciatura, Alfieri ricorda di aver sempre precisato di essere
procurata facendo degli esercizi militari: questo è per lui il primo esempio di vanità nella sua vita. L'anno
dopo il fratello maggiore si ammala e morirà poco dopo, nello stesso tempo Alfieri, per decisione dello zio
paterno che è anche suo tutore economico, viene mandato a Torino in accademia. Egli ricorda di essere in
parte entusiasta di questa partenza, ma di aver molto sofferto quando è stato il momento di doversi
veramente separare dalla madre. Racconta poi che durante la prima sosta del viaggio d'Asti à Torino ha
bevuto direttamente dall'abbeveratoio delle bestie, credendo infatti di essere ora senza mezzi e di doversi
arrangiare. La sezione del libro dedicata all'infanzia si chiude con una riflessione sul fatto che chi la trovasse
inutile si dovrebbe ricordare che ogni adulto è la continuazione di un bambino.

EPOCA SECONDA-ADOLESCENZA

CAPITOLO PRIMO

Alfieri descrive il suo arrivo a Torino presso la casa dello zio. Racconta poi di essere stato chiuso fin da
agosto, e quindi in anticipo, presso l'Accademia, di cui segue la descrizione. Accademia è posta in un grande
palazzo con quattro ali, al centro delle quali vi è un cortile. Tre ali sono dedicate agli studenti e agli ospiti
dell'Accademia, mentre l'altra ospita il teatro reale. Alfieri spiega che non a tutti gli ospiti dell'Accademia è
riservato lo stesso trattamento: vi sono infatti quelli come lui che devono seguire un rigido codice, ma
anche ospiti più grandi che per esempio studiano all'università o fanno già parte dell'esercito e hanno
quindi maggiori libertà. Alfieri riflette sul fatto che per coloro che, come lui, devono imparare una rigida
disciplina non è certo d'aiuto vedere al loro fianco dei ragazzi che al contrario possono uscire andare a
teatro tutte le volte che vogliono.

CAPITOLO SECONDO

In questo capitolo Alfieri racconta dei suoi primi due anni all'Accademia. Appena arrivato viene assegnato
alla quartana, ovvero la classe dei ragazzi di quarta che però sono quasi pronti per andare alla classe
successiva che quegli anni era la terza (in quanto si usava numerazione decrescente). L'anno di scuola fatto
in terza e per Alfieri un anno sprecato, in quanto si rende conto che sia lui, sia i compagni, sia l' insegnante
(che ancora una volta è un sacerdote) sono ignoranti e quindi lui non trae nessun giovamento da
quest'anno di studi. L'anno successivo viene promosso alla cosiddetta Umanità, ovvero l'anno dedicato agli
studi umanistici. Alfieri racconta di aver passato lunghe ore nella traduzione di Virgilio e di altre opere
latine. Quello che lo sprona negli studi è, ancora una volta, la competitività con gli altri studenti. In
particolare c'è uno studente bravo come o forse più di lui, con il quale si sente fortemente in gara. Tuttavia,
questa ragazzo è bello e intelligente, e Alfieri in quanto amante del bello non può odiarlo veramente. Il
ragazzo diventa anzi suo complice in alcune avventure giovanili. Per esempio Alfieri racconta di essersi
procurato un'opera di Ariosto divisa in tre volumi. E certo di non averla né comprata, né rubata, bensì di
aver barattato i libri con le sue porzioni di pollo della domenica. Il pollo è infatti la moneta con cui nel
collegio i ragazzi si scambiano la merce per così dire scottante: l'opera stessa dell'Ariosto è per i due
giovinetti un libro pieno di frasi oscure, quasi proibito, e una volta ritrovato dagli inservienti viene
sequestrato e consegnato al rettore della scuola.

CAPITOLO TERZO

In questa parte vengono descritti i parenti che Alfieri ancora a Torino. Si tratta da una parte dello zio che lo
aveva accolto, ma che essendo governatore di Cuneo trascorre nella Granda gran parte dell'anno. Dall'altra
c'è un architetto Alfieri, cugino del padre, che è l'unico parente con cui Vittorio ha davvero dei rapporti
durante la sua permanenza a Torino. Lo zio viene ricordato come una persona di buon cuore e anche come
un ottimo architetto, che ha fatto nascere anche nel nipote la passione per gli edifici ben fatti. Lo zio Alfieri
e autore di alcune strutture importanti della città, quali il primo Teatro Regio e il salone di Stupinigi. Alfieri
ricorda però come molte delle sue opere siano rimaste solo dei progetti su carta. Dello zio viene ricordato
inoltre il vezzo di parlare toscano ovvero l'italiano reale, abitudine acquisita durante un viaggio a Roma. Al
contrario il resto dei nobili torinesi parla spesso francese o dialetto perché l'italiano viene ancora
considerato troppo distante.

CAPITOLO QUARTO

Prosegue il racconto degli anni in Accademia. Alfieri racconta che il terzo anno è dedicato alla retorica:
tanto gli insegnanti quanto il programma però sono insufficienti e l'autore ribadisce ancora una volta che gli
anni in Accademia sono stati quasi inutili per la sua formazione. Per spiegare ciò, racconta che era riuscito a
riottenere i tre tomi dell'opera di Ariosto, ma che non avendo ricevuto un' istruzione sufficiente riusciva
ancora. Vi è poi una critica alla tecnica narrativa dell'Ariosto, che lascia spesso storie in sospeso per
riprendere con i capitoli più avanti. Secondo Alfieri, questa tecnica non accende l'interesse del lettore ma
spezza la sua suspense impedendogli poi di ritrovarla. Vi è poi la descrizione degli altri libri letti nella
gioventù: non Tasso, che lui pensa avrebbe amato molto di più, bensì alcune storie dell'Eneide, alcune
opere di Goldoni, e altri brevi testi. Alfieri descrive poi il suo fisico durante gli anni della scuola: era un
ragazzino emaciato, magro, tanto che i compagni lo chiamano carogna fradicia. Ad un certo punto un
compagno prepotente si fa fare i compiti da lui ripagandolo con dei giocattoli, ma minacciando di picchiarlo
se si fosse rifiutato. Alfieri inizialmente accetta, poi si stufa e invece di denunciare il compagno esegue il
componimento, ma lo scrive male. Da questo Alfieri ricava un insegnamento importante, cioè che molte
volte i rapporti umani sono governati dalla paura reciproca. Il capitolo si chiude con la descrizione della
scuola di geometria e filosofia, quella che si fa l'estero dell'Accademia, all'università. Come nei casi
precedenti, anche questo è totalmente inutile e Alfieri racconta di aver anche spesso dormito durante le
lezioni. Viene raccontato anche di una spada che lo zio avrebbe dovuto regalare da Alfieri, ma che non gli
viene data perché ancora una volta si rifiuta di chiedere qualcosa al parente.

CAPITOLO QUINTO

Prosegue il metodo dei capitoli precedenti, ovvero Alfieri racconta tanti piccoli avvenimenti della sua
giovinezza. A questo punto ha tredici anni, e racconta che la sorella Giulia viene finalmente portata via dal
convento di Asti e trasferita in un convento di Torino. La decisione viene presa perché la ragazza si era
invaghita di un coetaneo mentre era nell'astigiano; con la lontananza gli Alfieri sperano di farglielo
dimenticare come infatti succede. Alfieri racconta comunque di aver consolato molte volte la sorella
durante le sue pene d'amore. Vi è poi la descrizione delle prime esperienze di Alfieri con il teatro comico e
con la poesia. A portare Vittorio a vedere un'opera comica per la prima volta è il cugino di suo padre, lo zio
architetto, che gli fa vedere un'opera al teatro Carignano. Nel frattempo Alfieri sta finalmente crescendo, il
suo fisico è più forte e quando ha quattordici anni può passare l'estate a Cuneo con lo zio. Ricorda molto
bene il viaggio e il fatto di essersi vergognato per il fatto di aver viaggiato con un calesse lento e non
velocemente come da Torino ad Asti nel primo viaggio della sua vita. C'è anche il racconto della prima
poesia scritta da lui in onore di una dama di cui suo zio era invaghito, e che affascinava anche lui; lo zio però
ha condannato questo fatto poetico e lui stesso spiega che fino ai venticinque anni non avrebbe mai più
scritto versi. Riconosce inoltre che la scuola gli ha spiegato sì i versi latini, ma non la poesia italiana, tanto
che il componimento è un miscuglio tra Ariosto e Metastasio. Vi è poi il racconto dell'ultimo anno di scuola,
nel quale studia fisica (con Beccaria) ed epica, ma ancora una volta non viene tratto grosso giovamento
dalle ore scolastiche.

CAPITOLO SESTO

Lo zio viene nominato viceré della Sardegna e lascia il ragazzo con un nuovo tutore. In questo modo Alfieri
ha più libertà economica, anche perché non è più sotto la guida del servitore Andrea, che sfruttava la sua
posizione per sottrargli dei soldi. Vi è poi il racconto degli ultimi anni di studi, che sono dedicati alla
preparazione alla professione di avvocato. Nello stesso periodo Alfieri si ammala nuovamente di un
problema alla testa, ed è costretto a portare una parrucca. Per adattarsi agli scherni che riceve per la sua
capigliatura impara che reagire prima di essere attaccati è una delle cose migliori. Segue la descrizione delle
sue lezioni di musica e ballo. Nella musica ha un certo talento, ma non riesce bene come vorrebbe; al
contrario, è scarso tanto nella scherma quanto nel ballo. La sua non propensione per la danza è procurata
anche dal fatto di avere il maestro francese, nazionalità che gli è sempre stata avversa, tanto aver scritto in
età più avanzata il Misogallo. Spiega lui stesso alcune delle motivazioni che lo hanno portato a detestare
cosi francesi: il primo è un incontro con la duchessa di Parma mentre era ancora ad Asti, e poi proprio
l'incontro con questo suo maestro di danza. Lo stesso autore riconosce come spesso sia la prima
impressione verso una persona O una popolazione a impedirci poi di ragionare razionalmente anche
quando si incontrano persone diverse provenienti presenza dello stesso paese.

CAPITOLO SETTIMO

Muore anche lo zio di Alfieri, quello che era diventato viceré a Cagliari e che era suo tutore economico.
Avendo l'autore ormai quattordici anni diventa padrone delle sue ricchezze, e ha solo un curatore
patrimoniale. Essendo così giovane e disponendo di così grande fortuna Alfieri si dedica all'ozio.
Innanzitutto dichiara di non voler più studiare da avvocato e viene trasferito nel Primo Appartamento,
ovvero la parte dell'Accademia dove vi sono soprattutto ragazzi francesi inglesi che si dedicano solo
minimamente allo studio. Chiede inoltre di poter essere indirizzato alla Cavallerizza ed imparare anche
andare a cavallo; trascorre così molte delle giornate con alcuni compagni tra cavalcate e altre attività poco
formative, Racconta di spendere moltissimo denaro in abbigliamento e altre spese, ma di averne nel
contempo tratto giovamento a livello di sviluppo fisico, in quanto finalmente riesce a crescere in statura e a
riconquistare i capelli. Nel frattempo ha perso anche l'infido servitore Andrea; tuttavia, l'autore ne conserva
un buon ricordo, soprattutto perché l'uomo era molto pronto a obbedire i suoi ordini, anche per questo lui
stesso lo era andato a trovarlo à lungo, anche dopo che Andrea aveva trovato un altro padrone.

CAPITOLO OTTAVO

Vicino ai quindici anni Alfieri comincia a trovare pesante il fatto di essere sempre seguito da un servitore, e
chiede più volte al direttore dell'Istituto di poter uscire da solo come fanno i suoi compagni. Vedendosi
negare la sua autorizzazione, prova più volte a uscire da sola senza permesso, e ogni volta viene messo in
castigo. Il castigo più lungo dura tre mesi, durante i quali lui si rifiuta sia di chiedere scusa, sia di chiedere il
permesso di uscire, e addirittura di mangiare con gli altri, riducendosi a non lavarsi a vivere vicino caminetto
cucinandosi qualcosa che gli viene portato dagli amici, ai quali però non dice parola.

CAPITOLO NONO

La sorella Giulia si sposa con il conte Giacinto di Cumiana. Dopo le nozze Alfieri riacquistata libertà rispetto
ai compagni di accademia, un maggiore controllo delle sue finanze che anche il suo primo cavallo. In poco
tempo arriva possedere otto cavalli, nonché una carrozza e svariati capi di abbigliamento lussuosi. Racconta
però di essere sempre stato restio al vantarsi con gli amici del pomeriggio, quelli con cui va a cavalcare, che
sono meno benestanti di lui. Detesta soverchiare chi già dall'inizio è minore di lui, mentre al contrario è
forte il senso di competitività verso chi ritiene suo pari o superiore.

CAPITOLO DECIMO

Alfieri vive suo primo innamoramento, verso la cognata di alcuni suoi amici. La subordinazione militare (cui
è destinato in quanto figlio primogenito di una famiglia aristocratica), però, non fa per lui: decide quindi di
intraprendere un primo viaggio a Roma e Napoli. Ha solo diciassette anni, e fino allora il viaggio più lungo
che ha fatto è stato fino a Genova pochi mesi prima. Per questo, per poter partire deve riuscire a ingannare
suo cognato, il marito della sorella, presso la quale vive. Intraprende perciò il viaggio con tre amici
dell'Accademia, un inglese, un belga, in olandese. Con la partenza verso questo viaggio si conclude la
sezione dedicata all'adolescenza, che Alfieri riconosce come totalmente inutile in quanto dedicato in
maggioranza all' ozio e all'ignoranza.

EPOCA TERZA-GIOVINEZZA

CAPITOLO PRIMO

Alfieri parla del suo primo viaggio in Italia con due amici. Con loro ci sono anche tre servitori, un aio
(precettore) e anche Francesco Elia, un anziano ed esperto servitore del suo defunto zio. La prima tappa del
viaggio è Milano, che ad Alfieri non piace in quanto molto più disordinata di Torino. Alla biblioteca
ambrosiana gli viene dato anche un manoscritto di Petrarca, che però Alfieri riconosce di non aver punto
apprezzato. Le carrozze e i cavalli proseguono poi tra Parma e Mantova, due città che vengono visitate solo
di sfuggita. La prima lunga tappa è Firenze; Alfieri si vergogna perché, nonostante sia nella patria del
toscano, preferisce imparare l'inglese, e a inoltre continua a voler utilizzare la ridicola u alla francese di
Torino. Il viaggio prosegue poi con brevi tappe a Lucca, Pisa, e Livorno: quest'ultima è la città che più piace
all'autore, sia per la somiglianza con Torino, sia per il mare che per lui sempre un elemento affascinante. Vi
è poi un lungo soggiorno a Roma, città di cui Alfieri apprezza molto poco, ad eccezione di alcuni elementi
architettonici, forse per l'influenza dello zio architetto. L'autore rammenta come lo stupore dei suoi amici
stranieri verso le meraviglie dell'Italia sia molto maggiori del suo. Solo dopo i lunghi soggiorni all'estero ha
saputo poi valorizzare l'Italia e gli italiani, e anche capito l'entusiasmo degli stranieri per ciò che vedevano
sulla penisola.

CAPITOLO SECONDO

Il viaggio prosegue verso Napoli. Nel tragitto Francesco Elia si rompe un braccio, e acquista ancora più
ammirazione da parte di Alfieri in quanto riesce a risolvere da solo e prontamente anche questa situazione.
A Napoli Alfieri si trova a disagio come in tutti gli altri luoghi in cui si è trovato in precedenza: egli riconosce
infatti di ammirare di più il percorso fatto verso una meta e il fatto di essere lontano da casa rispetto a
quanto visita. In questo momento Alfieri ha diciotto anni, e ancora non sa davvero cosa fare della sua vita;
durante la visita alla corte napoletana gli viene consigliato di diventare un diplomatico; l'idea lo lusinga, ma
non si mette mai veramente a tentare quella carriera. Allo stesso modo, non cerca nessun legame né
amichevole, né amoroso, in quanto capisce che il suo solo interesse in quel momento è esplorare e
rimanere il più possibile lontano da casa. C'è poi la riflessione sul carattere personale: l'autore riconosce di
essere una persona che non fa il male di proposito, ed anche molto volenterosa, ma di avere sempre un
disagio legato al fatto di non avere né un amore né uno scopo nella vita. Il capitolo si conclude con la
partenza del solo Alfieri verso Venezia con Francesco Elia, mentre il suo precettore e gli amici restano a
Napoli per tutto camevale.

CAPITOLO TERZO

Deve proseguire da solo il suo viaggio verso Venezia. Racconta di aver ottenuto dalla re sabaudo il
permesso di proseguire i suoi viaggi ancora per un anno, esplorando così l'intera Europa. Va infatti ricordato
che in quel periodo i nobili del regno di Sardegna dovevano chiedere al re il permesso per ogni loro
spostamento che li allontanasse dai doveri di corte o dell'esercito. Sulla strada da Napoli a Venezia Alfieri si
ferma nuovamente a Roma, ma ammette ancora una volta di non saper sfruttare interamente la bellezza
della città, limitandosi a visitare il minimo indispensabile. Inoltre, grazie a un nobile (il conte di Rivara)
riesce a incontrare il Papa Leone XIll. Questo incontro è il pretesto per ricordare ancora una volta la Storia
Ecclesiastica, opera francese la cui lettura è stata secondo l'autore la casa della sua avversione verso il
clero. La decisione di intraprendere il viaggio in Europa viene però macchiata dalla notizia avuta dal
curatore del fatto che per il viaggio avrà solo 1500 denari. Alfieri si trova quindi in ristrettezze, e per
risparmiare decide di fare il viaggio fino a Venezia con dei mezzi molto più lenti dei cavalli da posta. Una
volta arrivato a Bologna, l'impazienza giovanile ha il sopravvento e il viaggio proseque con cavalli più rapidi.
L'autore non apprezza né Bologna, né tantomeno Ferrara, per quanto quest'ultima città sia stata la patria e
ospiti la tomba di Ariosto, il primo autore da lui conosciuto in gioventù. Giunto a Venezia Alfieri ne apprezza
subito sia il dialetto, che gli ricorda le commedie goldoniane, sia i tanti avvenimenti organizzati per il
carnevale. L'entusiasmo per la novità dura poco: ben presto Alfieri ritrova il suo malessere. C'è quindi
spazio per una riflessione sul fatto che il suo disagio si ripete in quasi tutte le stagioni primaverili ed
autunnali, mentre al contrario in estate e in inverno Alfieri sa di stare meglio e di poter anche scrivere
meglio le sue opere.

CAPITOLO QUARTO

L'autore racconta del suo uso soggiorno a Venezia, in cui non ho visto nulla ma è rimasto come al solito da
solo. Vi è però una riflessione sul governo di Venezia, tanto diverso da quello degli altri stati italiani ma
comunque al potere da molti anni. Il viaggio si sposta poi verso alcune città più piccole, tra cui Vicenza,
Mantova, e anche Padova, in cui dovrebbe esserci la tomba di Petrarca che però Alfieri ovviamente non
visita, così come non visita l'università e molti celebri professori a cui si sarebbe interessato più avanti negli
anni. Si sposta poi fino a Genova, città che era stata visitata per prima; il suo interesse, però, non è per la
Liguria, bensì per la costa francese, che inizia a visitare con delle piccole gite in barca. Il suo viaggio in
Europa parte dunque da Marsiglia, città in cui si trattiene per alcuni giorni. Tanto a Marsiglia quanto a
Genova, Alfieri limita al minimo le sue interazioni con il resto del mondo; porta con se' delle lettere di
presentazione per i nobili delle varie città, ma le sfrutta solo il minimo indispensabile. Prosegue poi il
viaggio attraverso Avignone, Aix en Provence e Valchiusa, tutte città importanti sia per la storia d'Italia che
per quella letteraria (il legame con Petrarca). Anche queste città, pero, vengono ignorate dall'autore, che si
reca il più velocemente possibile alla sua meta finale, Parigi. In questo capitolo di sono alcune prime
riflessioni sulla futura attività letteraria di Alfieri. Egli racconta infatti che i paesaggi marini avrebbero
ispirato in qualunque altra mente la scrittura di poesie, attività in cui però lui si sente allora ancora
incapace. Parla poi di suo interesse verso la commedia francese: da grande autore di tragedie, lo stupisce
come in gioventu sia stato più attratto dalle commedie che non dalle tragedie francesi, ma è chiaro che ciò
sia legato alla maniera di comporre tragedie dei francesi, che spesso usano le tre unità aristoteliche in
maniera pedissequa e compongono quindi opere difficili da vedere anche chi per chi come l'autore è più
incline agli umori malinconici.
CAPITOLO QUINTO

Arrivo dell'autore a Parigi. Come prevedibile, anche questa città lo delude profondamente: sia per il
sudiciume, sia per il cattivo gusto, sia probabilmente per le eccessive aspettative che Alfieri aveva formato
sulla capitale francese. L'unica conoscenza di Alfieri nella città è l'ambasciatore del regno di Sardegna, che
però in quel momento non si trova a Parigi; egli trascorre quindi lunghe giornate tra passeggiate, teatro, e
donne. Solo una volta tornato l'ambasciatore di reintrodotto nell'alta società parigina, ed in particolare fa la
conoscenza di altri ambasciatori e del faraone, gioco d'azzardo in voga all'epoca. L'ultimo avvenimento
degno di nota è il suo incontro con il re Luigi XV nel giorno di Capodanno. Alfieri nota come il re sia
totalmente indifferente a tutti coloro che vede, siano essi piccoli nobili come l'autore o personaggi davvero
importanti. Alfieri riflette sul fatto di aver poi visto un altro re nome Luigi essere salutato molto
diversamente dal popolo durante la rivoluzione.

CAPITOLO SESTO

L'autore viaggia verso Londra. Con lui questa volta c'è compagno di viaggio, il figlio del suddetto
ambasciatore a Parigi, un ragazzo molto più estroverso di lui ma con il quale Alfieri, che ama ascoltare gli
altri più che parlare, si trova bene. Londra e l'Inghilterra acquistano molto di più l'ammirazione dell'autore
rispetto alla Francia; Alfieri infatti ammira l'operosità degli inglesi, le loro leggi che fanno vivere bene la
gente nonostante il clima ostico. Stessa cosa vale per le donne, forse meno belle di quelle francesi ma più
buone e spontanee. In Inghilterra, Alfieri è costretto dal suo amico a fare vita sociale, ma si trova ben presto
a preferire l'attività di cocchiere per lui e fraternizza con altri cocchieri passando lungo tempo a cavallo
nelle campagne vicino a Londra. Il viaggio prosegue poi dopo novembre in Olanda dove Alfieri si innamora
la prima volta. La sua amante è una giovane donna sposata da circa un anno con un nobile spesso in
viaggio, e con la quale l'autore intrattiene una relazione amorosa. Sempre in Olanda conosce anche il suo
primo vero amico, un diplomatico portoghese, Acuñaav, persona come lui taciturna ma con il quale trova
quindi grande affinità. La liaison con la ragazza olandese continua senza problemi anche con la
consapevolezza del marito di lei, finché la ragazza non è costretta però a seguire il marito in uno dei suoi
trasferimenti. Alfieri ne patisce molto, e arriva addirittura a tentare il suicidio strappandosi la benda che
trattiene il sangue durante un salasso. Ancora una volta è indispensabile l'intervento del fido servitore Elia,
che lo salva senza proferire parola e accompagna poi Alfieri nel lungo viaggio verso casa che si conclude a
Carmagnola presso la sorella. Ancora una volta c'è una riflessione sulle attività intellettuale di Alfieri:
l'amicizia con il diplomatico portoghese lo invoglia per la prima volta ad aumentare la sua cultura, mentre
l'amore per la ragazza ispira la prima volta il desiderio di scrivere, che Alfieri abbinerà sempre alla presenza
di effetti nella sua vita.

CAPITOLO SETTIMO

Capitolo cuscinetto, nel quale Alfieri rimane per alcuni mesi a casa della sorella à Carmagnola e a Torino.
Parte del tempo è occupato dalle letture, anche se Alfieri fa ad esempio fatica a comprendere gli scritti
politici di Rousseau, che in quel periodo erano già molto in voga. Lo stesso succede con la nuova Eloisa,
romanzo d'amore, ma che Alfieri giudica troppo cerebrale e non riesce a finire. Un'altra parte del tempo di
preoccupata di studi di astronomia, che sono però molto teorici in quanto Alfieri non è riuscito ancora a
superare la sua avversione per le regole geometriche e matematiche. Durante il suo soggiorno a Torino il
cognato cerca di accasarlo con una giovane nobildonna, ma anche questo tentativo non va a buon fine in
quanto la ragazza gli preferisce un altro pretendente meglio inserito nella vita di corte. Alfieri riflette su
questo scampato pericolo passato, ridendo del fatto che un possibile matrimonio intorno ai vent'anni
avrebbe probabilmente spento in lui ogni futura velleità poetica. C'è inoltre un anticipo della sua attività di
scrittore: i libri che più gli piacciono, infatti, sono le vite di Plutarco, del quale lo affascinano le biografie dei
grandi personaggi, forse un anticipo del futuro titanismo alfieriano. Il capitolo si conclude con la decisione
di riprendere il viaggio in Europa poiché, compiuti vent'anni, è libero dal controllo del tutore e dispone
pienamente del suo patrimonio.

CAPITOLO OTTAVO

Alfieri riprende il suo viaggio, questa volta nell'Europa continentale e settentrionale. La prima città ad
essere visitata è Vienna, nella quale ha occasione di incontrare Metastasio, celebre poeta classicista italiano
al servizio della corte asburgica. Prosegue poi il viaggio per Praga, Dresda, infine Berlino, dove ha la
possibilità di incontrare il celebre Federico il Grande di Prussia. L'autore ha un ricordo pessimo di questo
incontro con l'imperatore prussiano: egli è infatti deluso dall'eccessiva militarizzazione del regno tedesco e
dalla rigidità dei cortigiani. Il viaggio prosegue poi verso la Danimarca, stato che per la sua somiglianza con
l'Olanda piace sommamente all'autore. Ultima tappa, la Svezia, altro Stato ideale in quanto eccessivo nel
suo essere nordico (ricordiamo ancora una volta come Alfieri ripeta spesso di preferire sempre gli eccessi ai
valori moderati). Parallelamente l'autore descrive anche le letture fatte: Montaigne, ancora Plutarco,
nonché alcuni autori italiani tra cui l'Aretino. Egli infatti durante i suoi viaggi incontra più volte alcuni
personaggi italiani e si sforza quindi anche di parlare il dialetto toscano. In Svezia, inoltre, si diletta molto
con le corse con le slitte, ma fa sempre attenzione a non trovare né affetti, né amore.

CAPITOLO NONO

Ancora viaggio attraverso l'Europa. Alfieri descrive minuziosamente l'attraversamento delle isole svedesi
alla volta della Finlandia, non risparmiandosi un commento metaletterario sul poco interesse che questa
descrizione susciterà nei lettori. Il viaggio prosegue poi fino a San Pietroburgo, allora capitale russa; Alfieri si
rifiuta di incontrare la zarina Caterina Il, da tutti riconosciuta come filosofa e monarca illuminata, ma che
per lui è solo un enorme esempio di tirannide in quanto ha fatto uccidere il marito Pietro IlI in una congiura
e non ha liberato il suo suo popolo dalla schiavitù. Inoltre Alfieri prova un grande disprezzo verso i russi, che
per lui sono un popolo asiatico mascherato da europeo. C'è anche un parallelo con il regno di Prussia, regno
per lui eccessivamente militarizzato Il cui sovrano ha infatti rapporti di grande amicizia con la zarina
Caterina. Nel tornare verso sud Alfieri è costretto a ripassare in Germania, paese che per lui non ha alcuna
attrattiva. Il transito presso un fronte di battaglia gli permette di riflettere anche sull'assurdità di alcuni
regimi europei. Il viaggio riprende poi verso settentrione, visto che Alfieri va a visitare l'amico portoghese
Acuña in Olanda, senza però poter vedere la sua amante ormai trasferitasi a Parigi. Prima di recarsi in
Inghilterra Alfieri compie un'altra breve deviazione in Belgio, dove la visita al principato di Liegi, controllato
da un vescovo, è il pretesto per ribadire ancora una volta la sua avversione per la vita clericale quanto per
quella militare.

CAPITOLO DECIMO

Descrizione delle disavventure amorose di Alfieri a Londra. Nella capitale inglese l'autore ritrova il principe
di Masserano, ambasciatore del regno di Napoli, e suo amico. Inizia inoltre un legame amoroso con
Penelope, una nobildonna inglese sposata che lo prende come suo amante, con cui si incontra in segreto
mentre il marito è fuori di casa. Quando lei si sposta nelle campagne inglesi per la villeggiatura estiva di
sette mesi il marito riceve notizia di una visita alla moglie, e la seconda volta la fa seguire. Pochi giorni dopo
Alfieri fa una gita a cavallo con l'amico principe di Masserano e si ferisce il braccio, fortunatamente il
sinistro. Il fatto di avere il braccio destro funzionante lo salva poche sere dopo, quando il marito di
Penelope lo trova nel teatro italiano e lo sfida a duello. L'uomo è però d'indole britannica, quindi si
accontenta di ferirlo, e Alfieri dal canto suo non è in grado di fargli ulteriormente male con la spada. Poco
dopo Alfieri si reca presso una parente di Penelope che li aveva protetti e lì la sua amante gli racconta di
aver cercato di avvisarlo, senza però riuscirvi. La faccenda si risolve con il marito di Penelope che le chiede il
divorzio e l'autore, pronto a diventare il nuovo compagno della donna, che si rifugia presso un altro amico,
il marchese Caracciolo.

CAPITOLO UNDICESIMO

L'illusione amorosa dell'autore si spegne presto. L'amante dice più volte ad alfieri di essere sicura che lui
non la sposerà, ma di saperne solo lei il motivo. Pochi giorni dopo, infatti, confessa all'autore di aver avuto
un'altra relazione, con uno dei palafrenieri del marito. Si scopre quindi che anche il marito era a conoscenza
della relazione tra la moglie e il suo servitore, ma dato che questi aveva confessato spontaneamente lo
aveva perdonato prendendosela invece con l'autore. Alfieri pensa che Penelope sia stata altrettanto
spontanea nella sua confessione a lui, ma viene ancora una volta deluso: la donna gli ha parlato solo perché
sapeva che la vicenda era ormai nota alla stampa e Alfieri l'avrebbe comunque letta sui giornali. Il processo
di divorzio viene disputato a nome dell'autore come causa della separazione tra i due coniugi: tocca quindi
a lui pagare un risarcimento al marito tradito. Nonostante la disprezzi, Alfieri non riesce a staccarsi da
Penelope, e compie con lei un breve viaggio in Francia. A un certo punto finalmente il ribrezzo verso la
donna fedifraga supera l'attrazione, e Alfieri riesce a allontanarsi da lei proseguendo da solo il viaggio verso
Londra.

CAPITOLO DODICESIMO

Visto che a Londra sono troppi ricordi della disavventura con Penelope, Alfieri ritorna in Olanda a trovare
ancora una volta l'amico Acuña, per poi prosequire il viaggio per Parigi (che ancora una volta non gli piace)
e poi fino in Spagna. Nella penisola iberica Alfieri adotta un metodo singolare di viaggio, ovvero acquista
due cavalli e prosegue al galoppo fino a Madrid e poi a Barcellona per altre città, sempre accompagnato dal
fido Elia. Ancora una volta evita il più possibile gli incontri con altri essere umani, siano essi nobili persone
del popolo. In Madrid in particolare evita l'incontro sia con il re che con l'ambasciatore del regno di
Sardegna, essendo egli una persona che aveva già incontrato in Inghilterra durante sul primo viaggio e con
il quale non c'era stata la minima simpatia. Durante il viaggio Spagna avviene un episodio singolare: Alfieri
ha fatto amicizia con un giovane orologiaio spagnolo, e una sera lo invita a cena. Dopo il pasto si fa
pettinare dal servo Elia, ma un errore di quest'ultimo fa scattare l'ira di Alfieri che ferisce il servitore.
L'incidente, per quanto grave, si risolve in quanto Elia non cerca vendetta. Alfieri racconta però che il servo
conservò per anni i fazzoletti insanguinati in modo da ricordare il smacco subito. Alfieri fa dunque una
riflessione sul fatto di non aver mai pensato di poterlo trattare come suo inferiore, ma di aver sempre
apprezzato coloro che, per quanto suoi sottoposti, si fossero difesi a loro volta se picchiati, in quanto
l'autore ha sempre preferito lo scontro da uomo a uomo. Proseguendo il suo viaggio Alfieri visita Lisbona,
città per lui tanto bella da distante quanto squallida e orribile una volta visitata. Viaggiando a ritroso dalla
Spagna in direzione dell'Italia, a Cadice Alfieri si ammala nuovamente. Si fa visitare in Francia, a
Montpellier, ma contrariamente al consiglio dei medici decide poi di proseguire fino a Torino, dove passa
tutta l'estate a curarsi. In tutto il capitolo vi sono anche riferimenti alla futura attività di scrittore
dell'autore. Innanzitutto a Parigi Alfieri avrebbe l'occasione di incontrare Jean-Jacques Rousseau, persona
che egli odia e ammira contemporaneamente, ma più per il suo comportamento che per le sue opere. L'
incontro non avviene per volere dell' autore, che però acquista sempre a Parigi una serie di volumi
contenenti le opere dei più importanti poeti italiani. La lettura di queste opere, che lui mai prima aveva
affrontato, è il pretesto per fornir ai lettori l'elenco di coloro che, secondo lui, sono i maggiori poeti italiani
di tutti i tempi: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso e Machiavelli (come si può ben vedere nessuno è
coevo vicino cronologicamente ad Alfieri). Inoltre, durante il viaggio a cavallo per la Spagna egli ammette
che, se avesse avuto più capacità di scrittura, avrebbe cominciato sicuramente il suo poetare. Vi è poi un
attivissimo paragone tra le speculazioni di chi soffre di malattie psichiche e i poeti: secondo Alfieri l'unica
differenza è che i secondi mettere per iscritto le loro farneticazioni, rendendole poesia. A Lisbona, infine, c'è
l'incontro con l'abate di Caluso, letterato e definito "un Montaigne vivente" con il quale Alfieri stringe una
sincera amicizia. È grazie a lui che l'autore sente per la prima volta quel desiderio di scrivere che soddisferà
però solo molti anni più avanti.

CAPITOLO TREDICESIMO

Alfieri racconta dei sei mesi trascorsi a Torino, abitando in una casa in piazza San Carlo. Crea una sorta di
società tra amici intimi, in cui vi sono giovani dell'alta società di diversa intelligenza. Nessuno, comunque,
che permetta ad Alfieri di eccellere in qualcuna delle attività della compagnia; la più diffusa è la scrittura di
storielle divertenti, che vengono depositate anonime in una cassetta e poi lette per diletto. Alfieri racconta
quindi di aver notato quanto talento possiede nella scrittura delle storie di satira: scrive infatti, per
esempio, un racconto legato a un ipotetico giorno del giudizio, in cui riesce a fare il verso a tutte le
principali personalità della città. Il genere della satira, però, non è di suo gradimento, In quanto riconosce
che per la sua riuscita è molto più importante lo spirito incattivito del lettore (e il suo desiderio di fasi beffe
di ricchi e potenti) rispetto alle capacità dello scrittore. Il capitolo si conclude con la descrizione di un'altra
breve liaison amorosa dell'autore, che è stato per alcuni mesi legato sentimentalmente a una donna di
quasi dieci anni più grande di lui. Egli non la ama, ma subisce la forte attrazione che la donna prova per lui.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Alfieri racconta degli eccessi a cui lo ha portato l'insano amore/odio per quella donna (il cui nome è
Gabriella Falletti di Villafalletto). Innanzitutto ha patito una pesante malattia, con sintomi come convulsioni
e un vomito continuo. Sfiora la morte e deve perfino fare testamento. Una volta ripresosi, ritorna a fare il
cavalier servente della stessa dama, sebbene la cosa continui a stressarlo. Anche la donna si ammala, e nel
periodo trascorso al suo capezzale l'autore si mette, per noia, a scrivere un breve dialogo tra un Photino,
una donna di nome Lachesi (come una delle Parche), e Cleopatra, Si tratta di una bozza piuttosto scarsa in
qualità e in ortografia, che Alfieri non esita però a mettere come appendice alla sua biografia come
testimonianza dell'inizio della sua attività letteraria. Preso dallo sconforto per lo stress procuratogli dalla
donna, Vittorio decide un certo punto di fuggire prima per Milano e poi in direzione di Roma, ma giunto
solo a Novara si pente e scrive alla sua dama per chiedere scusa. L'inghippo si risolve con Alfieri che resta
fuori alcune settimane e poi torna con il pretesto di una nuova malattia, senza essere ancora riuscito a
liberarsi da questa amante che lo rende infelice.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Alfieri racconta della follia compiuta per liberarsi finalmente dell'amore per questa donna più vecchia di lui.
Si taglia i capelli rossi, manda la coda a un caro amico, e dato che come nobile non può presentarsi in
pubblico con i capelli così tagliati resta in casa per alcuni mesi. A questo periodo di clausura forzata che
corrisponde l'inizio della sua attività come drammaturgo. Alfieri prime scrivi un sonetto, che invia (insieme
alla Cleopatra scritta in casa Falletto) per giudizio a un amico, Padre Paciaudi, il quale critica non tanto
l'opera, quanto l'italiano usato dall'autore, ancora poco avvezzo a usare questa linqua. Affida inoltre invia i
suoi scritti anche un caro amico, il conte Agostino Tana, che come Paciuadi gli invia delle simpatiche
annotazioni e correzioni. Siamo nel 1ffff5:Alfieri scrive una nuova tragedia del titolo Cleopatra (in oltre 1600
versi, la più lunga tra le sue tragedie) che viene rappresentata al teatro Carignano di Torino in due repliche
e diventa così la prima opera dell'autore. Egli fa seguire a questa tragedia un'altra scenetta in cui vi sono
degli autori e poeti che si beffano della sua stessa opera. Per lui si tratta del segno di come la sua attività di
scrittore iniziata come drammaturgo e commediografo contemporaneamente. Alla fine di questa terza
sezione della biografia sono riportati alcuni stralci di queste opere giovanili, e anche alcune delle lettere dei
suoi primi maestri e correttori; essi però sono state modificate dall'Alfieri per essere inserite nell'opera. Si
legge chiaramente come i versi siano acerbi, le rime ancora abbozzate, gli accenti mal distribuiti: è lo stesso
autore a criticarsi in alcune note aggiunte poi a margine, non senza falsa modestia probabilmente. Questa
sezione si chiude qui in quanto secondo Alfieri l'inizio della sua attività di poeta corrisponde all'ingresso
nell'età adulta.

EPOCA QUARTA-VIRILITÀ

CAPITOLO PRIMO

Alfieri decide quindi a 2ff anni di diventare autore di tragedia. Prende la decisione, però, di scrivere tragedie
lingue italiana, lingua che non ha parlato in famiglia e non ha poco esercitato negli ultimi anni di continui
viaggi all'estero. Questo si riflette sullo scarso risultato linguistico della sua prima opera in italiano, la
tragedia Cleopatra. Alfieri confessa di aver provato precedentemente con la scrittura in francese,
elaborando due opere dei titoli di Filippo e Polinice. Provando poi a tradurre le stesse due opere in italiano
si rende conto che scrivere in italiano e cosa ben diversa, e capisce di non avere le capacità linguistiche
necessarie per il lavoro del genere. Alfieri fa dunque un paragone tra il lavoro del drammaturgo e un lungo
percorso, che abbia come punto di arrivo proprio il successo nei teatri. Spiega che lui si trova a metà strada,
in quanto sa di essere bravo per quanto riguarda l'invenzione delle storie e la descrizione dei sentimenti
umani, ma di dover rifare svolta della strada dietro di se' per riappropriarsi delle competenze dell' Italiano.
Ancora una volta Alfieri usa la falsa modestia, per spiegare come il suo carattere a quel tempo fosse
alquanto presuntuoso e come sia stato per lui un atto di grande umiltà lo scegliere di ricominciare degli
studi quasi scolastici di grammatica. Per meglio apprendere la lingua italiana alfieri si ritira in montagna sul
confine francese. Idea come riconosce lui stesso poco produttiva, in quanto il suo compagno di studi è
l'abate Aillaud, ex precettore di alcuni suoi compagni di accademia. Il religioso gli consiglia di iniziare dei
grandi classici della letteratura italiana, e Alfieri con grande sforzo riesce a leggere l'intera opera di Tasso,
Dante, Ariosto, Petrarca: quest'ultimo è, tra gli autori della tradizione italiana, quello che gli va meno a
genio. Non sono tanto le difficoltà nel comprendere riferimenti degli autori a preoccuparlo, quanto il fatto
che spesso non capisce la lingua vera e propria. La preparazione linquistica proseque leggendo alcuni testi
tradotti in italiano da altre lingue: tra questi, particolare è la scelta di leggere l'Ossian, il poema del falso
bardo inglese, ma nessuna opera francese, proprio perché Alfieri vuole disintossicarsi da quella lingua.
L'ultima sezione del capitolo è dedicato un libro che Alfieri fatica a leggere quando è vicino ai trent'anni, ma
che racconta avrebbe poi detto molte volte più avanti con l'età, ovvero il Galateo di Giovanni Della Casa.

CAPITOLO SECONDO

Prosegue la preparazione di Alfieri per diventare un drammaturgo. L'autore decide di non occuparsi solo
della letteratura italiana, ma anche di quella latina, che aveva accanto trascurato durante gli anni
all'Accademia. Si affida quindi a un maestro, con il quale legge le opere di Seneca e di Orazio: queste,
avendo temi più vicini alla vita reale e a volte scurrili, risultano più facili all'autore, che aveva quasi
totalmente dimenticato il latino e il greco. Anche la lettura di Fedro infatti gli risulta ormai quasi
impossibile. Il secondo importante passo in questo avvicinamento alla perfetta lingua italiana è un viaggio
in Toscana. Alfieri si reca prima Pisa e poi a Firenze. Lungo il viaggio verso Pisa fa un importante incontro,
quello con il tipografo Bodoni, famoso in tutta Europa per la sua opera di stampatore. A Pisa prosegue la
lettura dei grandi classici: per Alfieri è il pretesto per discutere su quelle che poi saranno le fondamenta del
suo stile, che nasce proprio durante questi studi. Per esempio fa una lunga disquisizione sul fatto che
'endecasillabo sia il verso ideale per la poesia in linqua italiana, sia essa tragica o comica. Per spiegare
questa sua idea confronta universi giambici latini con due versi di Torquato Tasso. Vi è poi una critica ai
maestri che trova sia a Pisa sia a Firenze, in quanto spesso essi sono totalmente in disaccordo su ciò che per
lui è buono per quanto riguarda il contenuto dell'opera. Alfieri infatti, non senza presunzione, non vuole
imparare ad argomentare in maniera tragica, in quanto crede di esserne già perfettamente in grado, bensì
vuole imparare le regole linguistiche legate al buon italiano. Il soggiorno di Firenze serve anche per
elaborare e sistemare alcune delle sue opere già scritte, tra cui il Filippo, che viene tradotto in italiano.
Alfieri stende inoltre l'idea per un'altra opera completamente nuova, Antigone. Scrivendo capisce però
definitivamente che non solo non può tradurre opere scritte inizialmente in francese, ma anche leggere
opere di altri autori sullo stesso tema può rivelarsi una mossa poco felice, in quanto porterà anche
involontariamente a copiare l'autore originario. Per questo, Alfieri racconta di aver rinunciato a leggere, tra
gli altri, le opere di Shakespeare che è un autore che lui apprezza molto. In Toscana inoltre Alfieri non ha
nessuno di cui si fidi come correttore per le sue opere (come erano invece, per esempio, il Tana e il Paciaudi
a Torino). L'ultima parte di questo capitolo racconta di come è venuto a conoscenza della storia che è poi
diventata una delle due tragedie medicee, il Don Garzia.

CAPITOLO TERZO

Capitolo molto breve. Alfieri torna a Torino, attirato sia dalle compagnie, sia dai suoi amati cavalli. Mentre è
lì riesce finalmente a scrivere un sonetto che l'amico Tana giudica ben scritto: si tratta di un racconto in
versi del rapimento di Ganimede. Entusiasta per questo buon risultato, Alfieri continua a scrivere piccoli
sonetti, anche in onore di una donna della quale si è innamorato. Prova poi a mettere in versi l' Antigone
ideato durante il viaggio a Pisa. Il risultato è però poco lusinghiero: Alfieri decide quindi di tornare ancora
una volta in Toscana, per non essere influenzato dal dialetto piemontese che parla tutti i giorni a Torino.

CAPITOLO QUARTO

Alfieri racconta quindi del suo secondo viaggio in Toscana. Questa volta il viaggio viene organizzato
diversamente: l'autore conta di stare molto tempo in quella regione, e porta con se' servitori e cavalli. Vi è
una breve descrizione del viaggio fatto da Alfieri, in parte a cavallo e in parte su una piccola barca partita
dalla Liguria. L'autore spiega poi che ha rinunciato a soggiornare nuovamente in Pisa, perché qui si trova
una giovane che avrebbe potuto sposare; egli però non vuole ancora contrarre matrimonio, perciò per
evitare imbarazzi preferisce andare a Siena, dove inoltre vi sono meno stranieri e quindi è più facile
apprendere il giusto toscano, A Siena Alfieri trova un altro importante amico: si tratta del mercante Gori
Gandellini, uomo colto che ha il merito stimolare Alfieri al miglioramento delle sue competenze letterarie:
questo è infatti uno degli aspetti che Alfieri cerca maggiormente nelle sue poche amicizie. Stimolato proprio
dal Gori, Alfieri riprende la lettura del Machiavelli. Quest'opera gli stimola contemporaneamente sia La
congiura dei Pazzi che il Della Tirannide, opera che infatti viene stesa proprio in quel periodo e molto
rapidamente. Alfieri spiega quindi che l'edizione del Della Tirannide che ha fatto pubblicare si discosta
davvero poco con la prima stesura fatta da lui così repentinamente: si tratta però di una scelta ponderata,
perché Alfieri sa che l'opera corretta dalla saggezza dell'età non avrebbe avuto lo stesso spirito che aveva
invece quando lui l'aveva stesa. In questo capitolo inoltre Alfieri spiega un aspetto importante del suo
lavoro, ovvero come stende le sue opere. Egli racconta infatti che il primo passo è scrivere due pagine
abbozzate in cui racconta la storia e definisce i personaggi. Segue poi la stesura, in cui Alfieri decide
veramente e però in prosa cosa dire i personaggi. L'ultimo aspetto, quello più importante, è quello del
verseggiare, ovvero mettere in poesia quello che è stato finora scritto in prosa. Alfieri non nega, però, che le
opere hanno anche bisogno di una lunga successiva revisione.

CAPITOLO QUINTO

Capitolo tanto breve quanto fondamentale: Alfieri racconta infatti di aver steso in questo periodo la Virginia
e l'Oreste, continuando però a evitare ispirazioni anche involontarie leggendo l'omonima opera di Voltaire.
L'evento importante in questo capitolo è un soggiorno a Firenze, durante il quale fa conoscenza con quella
che diventerà la donna della sua vita: Luisa Stolberg, maritata con il conte d'Albany: il marito è pretendente
giacobino al trono d'Inghilterra, ma questo non impedisce ad Alfieri di innamorarsi della donna e di iniziare
con lei una relazione. La donna, infatti, affascina Alfieri perché egli sente che il suo amore per lei non lo
distoglie dalla carriera letteraria, ma anzi lo sprona. Alfieri inoltre in questo capitolo compie un lungo flash
forward: rivela infatti che anche mentre sta scrivendo queste sue memorie la donna è al suo fianco, ancora
innamorata di lui, e che quindi l'amore tra i due si è risolto per il meglio

CAPITOLO SESTO

Racconto dell'anno 1ffff8. Alfieri si ritrova a questo punto in una situazione difficile: vorrebbe restare a
Firenze con la contessa d'Albany, ma essendo vassallo del re di Savoia è costretto a chiedere
continuamente permesso sia per scrivere le sue opere, sia per soggiornare all'estero. La soluzione è tanto
facile quanto drastica: Alfieri rinuncia a tutte le sue proprietà e le dona alla contessa Giulia e a suo cognato,
il conte di Cumiana. Si tratta di un procedimento molto lungo, dal quale Alfieri esce solo con una piccola
rendita annuale. Vende inoltre tutto ciò che possiede a Torino, ricavandone un piccolo capitale che investe
in Francia. Quando sta vendendo i suoi averi teme per alcuni giorni che il fido Elia, cui è stata affidata la
vendita, lo abbia tradito fuggendo col denaro, ma così ovviamente non è. Per completare la sua liberazione
Alfieri la rinuncia inoltre agli abiti militari che ammette sempre portato più per vanità che per fedeltà al re
di Savoia. La sua vita dopo la rinuncia alle ricchezze è certamente meno lussuosa, ma Alfieri è pienamente
convinto della sua scelta. In questo anno dedicato soprattutto alle faccende amministrative Alfieri riesce a
malapena a dedicarsi al lavoro di drammaturgo e di poeta: questo è anche per il fastidio derivato dal fatto
che Luisa, la sua compagna prese e parla solo francese. Alfieri sa che in questo modo non riuscirà a
migliorare il suo italiano e le sue opere, ma la donna ancora una volta compie un gesto di grande amore e
impara per lui l'italiano. Per Alfieri il fatto di essere cresciuto e vissuto in un ambiente poliglotta può essere
visto in due modi: da una parte dà merito di essere comunque riuscito a elaborare opere degne di nota;
dall'altro, se queste opere verranno criticate sarà un'ottima giustificazione.

CAPITOLO SETTIMO

Alfieri si trova finalmente lontano da preoccupazioni di tipo economico e sentimentale, e si dedica quindi
alla scrittura quasi a tempo pieno, alla stesura di poemi e soprattutto di tragedie (tra cui la Congiura dei
Pazzi e poi il Don Garzia) a cui alterna momenti in cui si dedica alla poesia per omaggiare la sua donna.
Trova anche il tempo di elaborare un altro testo di tino riflessivo, Del Principe e delle Lettere. In questo
stesso periodo relazione con Luisa viene resa difficile dal fatto che la donna è ancora sposata, e quindi
costretta a vivere comunque con il marito. Alfieri può vederla solo in alcune occasioni, perciò si dedica
molto anche alla scrittura: stende varie opere e ne versifica altre, tra cui la Maria Stuarda. In questo
periodo, però, il suo animo e consolato della presenza presso di lui di alcuni amici, tra cui Gori e soprattutto
l'abate di Caluso, che come lui decide di trasferirsi a Firenze per poterti dedicare meglio ai suo interessi e
non a quelli della sua famiglia.
CAPITOLO OTTAVO

La storia di Luisa si complica ulteriormente: il marito infatti in un impeto di ira prova persino ad ucciderla, e
questa potrebbe essere una grande occasione per giustificare la separazione della donna dal conte. Le
regole del tempo a proposito, però, sono alquanto complicate: Luisa deve quindi chiudersi in convento,
prima a Firenze e poi successivamente a Roma presso il cognato Alfieri nel frattempo non può fare altro che
attendere, sopportare ovviamente scrivere. Decide quindi di intraprendere dei nuovi viaggi: prima da Gori,
a Siena, poi di muoversi verso Napoli. La scelta di Napoli non è casuale, ma dettata dal fatto che per
raggiungere la città bisogna necessariamente passare per Roma. A Roma egli può fare una breve visita alla
sua amata, che però è sempre tenuta in convento. Alfieri fa tutto il possibile per cercare di accelerare la sua
liberazione. Prosegue poi fino a Napoli, città nella quale si dedica ancora una volta solo al mestiere di
letterato. Le sue rendite sono infatti sufficienti perché non debba avere più preoccupazioni di tipo
economico.

CAPITOLO NONO

Questo capitolo è dedicato interamente al lavoro letterario. Alfieri infatti si dedica in questo periodo non
tanto all'amata, che è lontana da lui, ma allo scrivere. In breve tempo si trova con un totale di quattordici
tragedie, anche se nelle intenzioni iniziali voleva scriverne dodici. Le ultime due opere a entrare a far parte
del suo corredo sono la Merope e il Saul. Il Saul ha ispirazione biblica: Alfieri spiega infatti che se avessi
dovuto seguire il suo istinto avrebbe scritto almeno altre due opere di tema biblico per il momento si limita
a sistemare ciò che ha già preparato. Le sue opere vengono elaborate in più punti, ma Alfieri ribadisce più
volte ch una volta date alla stampa raramente ha poi imposto grosse correzioni successive. Racconta poi di
come fa per capire se le sue opere vengono apprezzate o no; la sua tecnica e infatti di riunire una
quindicina di persone, che possano in quanto a varietà riprodurre il vero pubblico di un teatro. Si tratta poi
di recitare l'opera davanti a queste persone e di osservarne i movimenti sulla sedia. Dal sedere del pubblico
si capisce infatti molto meglio di quanto non possono dire le bocche, che spesso danno lodi false e
pretestuose. Il sedere al contrario è sincero, in quanto da esso si può vedere se lo spettatore è interessato
all'opera, spaventato o emozionato nei momenti giusti, e si capisce quindi quando l'opera ha raggiunto il
suo scopo.

CAPITOLO DECIMO

Alfieri racconta di come riesce finalmente a mettere in scena una delle sue opere. Si tratta di una recita
fatta da un gruppo di nobili di appassionati di teatro, con i quali l'autore mette sul palco l' Antigone,
interpretandone lui stesso una parte. L'opera per quanto piccola ha grande successo e Alfieri decide quindi
di mandarne in stampa quattro in totale, tra cui l' Antigone e il Filippo. Nello stesso periodo Alfieri incontra
il Papa: I' avversione dell'autore per il clero è già nota, ma in quel momento Alfieri si riduce addirittura
promettere al Papa di dedicargli la prossima delle sue tragedie. Egli infatti potrebbe ingraziarsi il sommo
pontefice e farne un suo difensore nella questione legata al divorzio della moglie, ma il Papa non può
accettare opere di nessun autore e Luisa è comunque costretta a restare ancora presso il cognato. La
situazione si sta facendo molto difficile in quanto la presenza di Alfieri vicino alla donna è ormai risaputa da
tutti e mette in cattiva luce la famiglia d'Albany. Alfieri ancora una volta prende una decisione prima che
siano gli altri a farlo per lui, e pur di non essere bandito da Roma lascia di sua sponte la città. Per ingannare
il tempo compie dunque un viaggio nel nord della penisola. Visita ancora una volta il Gori a Siena e l'abate
di Caluso a Vercelli, limitandosi a una brevissima incursione a Torino presso la sorella. Il suo viaggio
prosegue poi portandolo vedere dalle altre le tombe del Petrarca e di Dante, nonché a visitare due letterati
suoi contemporanei, ovvero il Parini a Milano e a Padova il Cesarotti, famoso per aver tradotto in italiano l'
Ossian. Questo viaggio di Alfieri si conclude a Venezia.

CAPITOLO UNDICESIMO

Alfieri decide di tornare in Toscana, passando questa volta da Modena e Pistoia. Lungo il tragitto scrive
alcuni epigrammi, riconoscendo però che si tratta di un genere poco adatto alla lingua italiana. Si ferma poi
a Firenze, per far giudicare le opere da lui pubblicate agli accademici, ma si accorge che essi non sanno
dargli un giudizio concreto pur criticando i suoi scritti. Fa poi visita al Gori, e decide di pubblicare altre
tragedie, per un totale di sei. Questa volta è Alfieri in persona ad occuparsi della revisione e della
discussione con i censori, impicci di cui per la prima edizione si era occupato l'amico. Lo stress causato dal
lavoro e dalla discussione con i revisori gli causa anche un ennesimo periodo di malattia. Nel frattempo
l'autore riceve la critica positiva del Casalbigi (che invita i drammaturghi a farsi pittori), che cita anche nella
Vita dicendo che aveva avuto anche la tentazione di farne la prefazione delle sue opere. Alfieri decide poi di
trascorrere l'inverno in Francia e Inghilterra, perché tanto non può rivedere Luisa.

CAPITOLO DODICESIMO

Alfieri in Inghilterra acquista svariati cavalli, dedicandosi invece all'ozio per quanto riguarda la scrittura. Alla
fine ne porta quattordici in Toscana, passando le Alpi e soggiornando alcune settimane a Torino. In questo
capitolo ribadisce ancora una volta la sua avversione per francesi e per la letteratura francese.

CAPITOLO TREDICESIMO

A Torino Alfieri rivede alcuni dei suoi amici di gioventù; non tutti però lo accolgono amichevolmente, più
che altro per invidia. Inoltre deve fare visita al re (che lui anche da apolide rispetta) e al ministro, che gli
offre di ritornare in Piemonte e fare carriera politico- diplomatica. Alfieri rifiuta, convinto ancora di
continuare a scrivere. La stessa convinzione gli resta dopo aver assistito al Carignano ad una brutta versione
della sua Virginia. E il pretesto per una dura critica all'Italia e all'assenza di un vero movimento teatrale
nazionale: mancano bravi attori, autori competenti e un pubblico attento. Per questo, Alfieri sa che non
potrà mai ottenere la vera gloria, ma continuerà a scrivere. L'autore riparte, fa visita alla madre ad Asti e poi
torna a Siena dall'amico Gori. Nel frattempo ha finalmente notizie dell'amata, che libera da Roma si sta
recando alle terme di Baden.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Alfieri riceve in Toscana i cavalli acquistati in Inghilterra. Proseque con la scrittura del poemetto Etruria
Vendicata e riparte poi alla volta della Germania per rivedere Luisa. L'incontro con l'amata è il pretesto per
scrivere tre nuove tragedie, nonostante Alfieri avesse deciso di non occuparsi più di tali opere. Vi è anche
qui un flash forward in quanto Alfieri anticipa che è l'ultima volta che ha salutato l'amico Gori. Ritrovata
l'amata a Baden, i due vengono raggiunti dalla notizia della morte del Gori, che Alfieri può affrontare più
serenamente proprio perché c'è Luisa al suo fianco. Tornato in Toscana dopo l'ennesima dura separazione
dalla sua donna decide di non restare più a Siena (dove era proprio Gori ad ospitarlo) bensì di trasferirsi a
Pisa per l'inverno 1ff84-1ff85.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Solo a Pisa, Alfieri decide di scrivere per distrarsi dall'assenza dell'amata; Luisa infatti si trova a pochi
chilometri da lui, a Bologna (stando a Bologna infatti la donna non contravviene all'obbligo di rimanere
nello Stato Pontificio, ma almeno rimane lontana dal cognato a Roma). Inizialmente l'autore prova a
operare una correzione dei versi di Sallustio, ma si tratta di un lavoro troppo certosino per sfogare il suo
stress, perciò decide di andare avanti con la scrittura de Del Principe e Delle Lettere. Nello stesso periodo
vengono date in stampa altre tragedie, e si arriva così al terzo volume; Alfieri chiede a questo proposito una
critica al Cesarotti, che critica in parte lo stile dell'autore astigiano. L'ultimo paragrafo è dedicato alla
tradizionale festa pisana del Ponte, alla quale Alfieri partecipa ottenendo grande ammirazione per i sui
cavalli: è il pretesto per far notare ancora una volta come in Italia sia più facile avere gloria per leproprie
ricchezze che per ciò che si è scritto.

CAPITOLO SEDICESIMO

Alfieri può finalmente riunirsi all'amata nella villa alsaziana di lei. I due si separano nuovamente quando lei
si reca a Parigi, ma Alfieri approfitta della solitudine per finire di scrivere Mirra e Sofinisba. Termina inoltre il
terzo libro di Del Principe e delle Lettere e inizia un nuovo testo, il Della Virtù sconosciuta, e inizia l'Abele.
Finisce poi l' Etruria vendicata. Riceve da Luisa la notizia che la donna ha assistito a Parigi al Bruto di
Voltaire, e decide di fare meglio. Stende quindi di getto il Bruto Primo e Secondo, che dovrebbero essere le
sue due ultime tragedie. In totale sono diciannove: Alfieri al momento di scrivere la sua autobiografia no ha
più scritto nulla per il teatro, rispettando la promessa fatta. Alfieri prosegue nella correzione delle opere
mentre attende Luisa, e si ammala per l'ennesima volta mentre l'attende. Una volta tornata la donna in
Alsazia due trascorrono insieme l'estate e poi partono in coppia alla volta di Parigi, dove Alfieri decide che si
dedicherà a un nuovo genere letterario, ovvero la satira.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Mentre si trovava a Parigi Alfieri non scrive opere nuove, ma decide di dare alla stampa le sue tragedie
presso un editore francese. Per provare i caratteri e gli effetti della stampa dà per prima cosa in stampa il
Panegirico a Traiano, breve opera che aveva composto anni prima. A Parigi ha anche un breve scatto d'ira
mentre legge la Sofonisba a un amico; prova a bruciare l'opera, ma poi la recupera, anche se per lui resterà
sempre tra le meno riuscite. Ritorna quindi a Colmar con Luisa e riceve la visita dell'abate di Caluso. L'amico
gli porta un messaggio della madre, che gli propone una nobildonna in sposa, ma Alfieri ovviamente rifiuta.
Durante il soggiorno dell'abate Alfieri viene colpito da una durissima dissenteria, che lo risparmia ma lo fa
uscire dalla malattia molti giorni dopo gravemente debilitato. Nel frattempo anche l'amico abate è
infortunato, essendosi slogato il polso a cavallo. In questo capitolo Alfieri ribadisce inoltre che per lui
l'italiano è, per la sua musicalità, l'unica lingua degna di fare poesia, sebbene sa che sia con l'inglese che con
il francese otterrebbe la gloria più rapidamente.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Alfieri, la donna e Caluso si recano a Strasburgo, dove visitano anche la tipografia Beaumarchais. La
tipografia è molto bella e Alfieri decide di farvi stampare tutte le sue opere che non siano tragedie. Le prime
ad andare in stampa sono le cinque doti l'America libera. Torna quindi a Parigi con Luisa, che riceve la
notizia della morte di suo marito. Nonostante la separazione avvenuta molti anni prima, Luisa è
sinceramente dispiaciuta per la morte del marito. Alfieri nel frattempo proseque con la stampa delle sue
opere, e a fine 1ff89 ha anche scritto un' ode sulla recente rivoluzione francese, intitolata Parigi Sbastigliata.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Alfieri vive un periodo difficile e di tensione, in quanto con la Rivoluzione francese vede in pericolo sia i
privilegi dei nobili, sia la sua pensione depositata presso il regno di Francia. Nel frattempo le tragedie
vengono distribuite in Italia, dove hanno un certo successo; Alfieri spiega però ancora una volta di aver
scritto poco e lentamente preferendo scrivere sempre il vero, che scrivere di più solo per avere maggior
gloria e maggiori guadagni. Alfieri ribadisce inoltre che spesso dava alla stampa il manoscritto delle sue
opere (come succede per esempio per l' America Libera) perché per lui le opere non esistono finché non
stampate. Siamo nel 1ff90 e Alfieri ha 41 anni. È arrivato con la sua autobiografia al presente, e spiega che
la rileggerà solo dopo circa quindici anni, o per raccontare dei nuovi generi letterari che in quel momento
pensa di sperimentare, o per iniziare una quinta epoca, quella del "rimbambimento". Lascia poi istruzioni
nel caso in cui muoia senza poter continuare e rivedere l' opera. Chiede che l'opera venga eventualmente
tagliata e rifinita stilisticamente, ma che non vengano né aggiunti, né tolti eventi. Quest'opera infatti è
l'unica in cui Alfieri dice di aver scritto non per il suo ingegno come nelle altre, ma facendo operare
prevalentemente il suo cuore, e quindi l'opera è più personale, spontanea e quindi anche meno raffinata
stilisticamente.

PARTE SECONDA

CONTINUAZIONE DELLA QUARTA EPOCA

PROEMIETTO

Alfieri spiega che sono passati tredici anni da quando aveva terminato di scrivere le sue memorie. Ora ha
cinquantacinque anni, sa di non avere più molto tempo perciò dopo aver corretto ciò che aveva già scritto
decide di raccontare quanto successo negli anni successivi al 1ff90.

CAPITOLO VENTESIMO

Finito di scrivere, Alfieri si dedica alla traduzione di Virgilio e di Terenzio per rimanere allenato a
verseggiare. Il suo obiettivo sarebbe iniziare poi a scrivere delle commedie, nonché delle tramelogedie. Gli
unici risultati sono però l' Abele (finito) e la stesura di un Conte Ugolino che però non vedrà mai luce. Visto
il continuare delle tensioni in Francia Alfieri e la contessa d'Albany vanno prima in Bretagna e poi decidono
di fare un viaggio in Inghilterra.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Alfieri e Luisa viaggiano per I' Inghilterra, ma sono poi costretti a fare rientro in Francia poiché solo con dei
particolari documenti possono rimanere ancora in possesso dei loro averi. Durante il viaggio Alfieri rivede
casualmente Penelope, la donna della quale era diventato amante durante il suo secondo soggiorno a
Londra. Rivedendola ha un moto di affetto e scambia con la donna due lettere. Non nasconde però niente a
Luisa, alla quale racconta tutta la storia Durante il viaggio i due fanno ancora breve deviazione in Belgio,
dove si trova la famiglia della donna.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Altieri fa ritorno a Parigi con la compagna. I due però capiscono presto che è meglio fuggire al più presto
dalla città, ormai governata dai rivoluzionari. Con somma fatica Alfieri riesce a procurarsi dei documenti di
uscita dalla città; Il passaggio della dogana è però molto complicato, in quanto alcuni popolani cercano di
entrare in possesso delle loro carrozze. Alla fine la fuga riesce, e Alfieri si trasferisce così nuovamente a
Firenze. Oltre a questi avvenimenti Alfieri racconta anche di essere riuscito a rimanere del tutto immune
dalla propaganda dei rivoluzionari. Nel frattempo, inoltre, la madre muore all'età di settant'anni: nelle sue
ultime lettere aveva raccomandato al figlio di fuggire al più presto dalla Francia
CAPITOLO VENTITREESIMO

A Firenze Alfieri riprende con l'attività di traduzione, ma non ha più stimolo per scrivere altre opere. L'unico
testo che scrive è una prosa satirica sulla Francia, e che diventa poi la prefazione del Misogallo. Nel
frattempo Alfieri si dedica alla recitazione con alcuni amici aristocratici; la sua parte preferita è quella di
Saul, che secondo lui è la parte più completa.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Avendo ancora molto tempo libero Alfieri si dedica alla lettura dei grandi classici greci: Omero, Esiodo, e
infine Pindaro, che però lo mette più in difficoltà. Nel frattempo, entro il 1ff9ff è arrivato a scrivere ben
sette satire e allunga ancora il Misogallo.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Alfieri decide di dedicarsi allo studio della lingua greca, in modo da poter leggere in originale le opere
letterarie. Inizialmente questo studio è molto difficoltoso, poi Alfieri si entusiasma per il greco e l'attività
intellettuale lo stimola a scrivere. Arriva così a 1ff satire, che mette in stampa assieme a molte rime.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Alfieri si dedica a scrivere due versioni dell' Alceste. La prima è così classicheggiante che l'autore la legge
riuscendo in parte a farla passare per una traduzione dell'originale greco. Vi è poi una nota politica: Alfieri
infatti viene richiamato dall'ambasciatore francese in Piemonte, che vorrebbe farlo asservire al regno
napoleonico in cambio della restituzione dei suoi libri. Alfieri riporta in allegato gli scambi di lettere con
questo ambasciatore e ricorda ancora una volta di non aver ceduto al tiranno, preferendo perdere la sua
grande biblioteca.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Alfieri prosegue delle sue giornate di studi. Ha ormai creato una vera e propria routine settimanale,
distribuita tra studio dei classici greci e della Bibbia. Si dedica anche alla traduzione e soprattutto ad una
approfondita lettura delle opere di Pindaro. Inoltre mette alla stampa le sue opere: il Misogallo, le rime
ancora una volta riordinate, l' Abele. Nel frattempo i francesi sono scesi in Toscana che hanno già
conquistato Lucca; prima che arrivino a Firenze nel marzo del 1ff99, Alfieri la compagna fuggono in una villa
in campagna.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Alfieri e la compagna restano lontani da Firenze fintanto che viene occupata dai francesi. Alfieri fa anche
visita a Carlo Alberto IV, re di Savoia allontanato da Torino: egli infatti gli è rimasto affezionato pur avendo
perso la cittadinanza sabauda. Nello stesso periodo Alfieri ha una gran brutta sorpresa: i manoscritti che
aveva lasciato stanno per essere stampati senza il suo nome, nonostante i vari appelli da lui fatti per
rientrare in possesso.

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Alla seconda invasione di Firenze da parte dei francesi Alfieri si trova in città, ma essendo straniero riesce ad
evitare di dover ospitare dei soldati in casa sua. Il comandante francese, però, essendo un appassionato di
lettere prova incontrarlo: Alfieri preferisce passare per misantropo e non vederlo affatto. Nel frattempo
l'autore scopre di essere stato nominato mezzo internazionale, sapete delle scienze di Torino; rifiuta però
anche questa nomina, e si mette a progettare sei commedie, che stende nei mesi successivi.

CAPITOLO TRENTESIMO

Nuovi problemi di salute per Alfieri (sempre la gotta), che si affretta a terminare le ultime commedie in
modo da potersi dedicare poi solo allo studio del greco e del latino, così come la sua compagna studia il
tedesco e l'inglese. Nel frattempo riceve la visita dell'abate di Caluso, che si complimenta con lui per gli
ultimi lavori, e apprende la notizia che il suo unico nipote maschio è venuto a mancare, lasciando senza un
erede maschio; nonostante Alfieri abbia ceduto tutti i suoi possedimenti alla sorella Giulia, ciò lo lascia
deluso in un moto d'orgoglio aristocratico.

CAPITOLO TRENTUNESIMO

Alfieri capisce che giunto a 55 anni non ha molto tempo a disposizione. Non ha più voglia di seguire la
messa in stampa delle sue ultime opere, e preferisce perciò lasciare solo degli ordinati manoscritti. Sceglie
inoltre di tenere la Vecchiaia di Cicerone come opera da tradurre se supererà i sessant'anni. Sappiamo però
che ciò non avverrà mai. Alfieri inoltre si scusa per aver a volte raccontato degli episodi troppo
frettolosamente, ma si giustifica spiegando che ciò è accaduto perché era sempre molto occupato nelle
altre opere letterarie.

LETTERA DELL'ABATE DI CALUSO

La lettera viene messa in fondo all'opera per completarla con il racconto della morte dell'autore. Caluso
scrive alla contessa D'Albany e allega un racconto della rapida morte di Alfieri, che in pochi giorni perde
conoscenza e viene stremato probabilmente dalla gotta. Segue ovviamente la lode all'autore del quale
restano fortunatamente le opere, e viene citato Canova che sta già preparando il monumento funebre per
la chiesa di Santa Croce a Firenze

Potrebbero piacerti anche