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VITTORIO ALFIERI

VITA
Le primissime cose in ordine sparso: di questa vita diciamo:
 1) è una delle 2/3 più belle autobiografie della nostra letteratura (Cellini, Casanova): nonostante la maggior
vicinanza culturale a casanova, la sua vita è più affine a Cellini.
2) coordinate cronologiche: 1749-1803: la prima parte della sua vita, scritta velocemente, è del ‘90. A
questo primo testo segue un secondo testo, portato avanti fino alla fine dei giorni dell’autore e portato a
termine da Tommaso di Caluso, che si occuperà della pubblicazione. Non ha lasciato immutata la prima
parte e vi ha aggiunto la parte dal 91-03: ha sì scritto la seconda parte ma opprimendo anche un effetto
retroattivo al testo precedente.
Un altro problema che riguarda lo statuto teorico dell’autobiografia è la modalità. Nella prima parte
è classico, per cui arrivato a un certo punto della sua vita si volta indietro e fa un bilancio della sua vita: un
autobiografia di questo tipo assume modi romanzeschi, in cui il protagonista è colui che dice io, il
narratore, che si prende per mano dalla gioventù e procede per selezione in parte voluta, ovvero per
esigenza di sintetizzare le cose più interessanti, e in parte resa non perfetta dallo scorrere del tempo,
sbarazzandosi di serie di ricordi che rimangono sepolti per sempre. L’altra modalità è moderna, impostasi
nel ’90, ed è quella del diario, cioè taccuino dell’opera aperta in cui il biografo annota giorno per giorno ciò
che gli accade. Come il primo modello tende al romanzo, all’affabulazione, il secondo tende al diario. Il
primo è di sintesi, il secondo è di analisi; il primo evita la ripetizione, il secondo fa della ripetizione il proprio
passo. Nel caso di alfieri le cose sono complicate perché dopo il 90 per un po’ non mette mano alla
biografia, quindi nel 93 forse aveva 2/3 anni su cui lavorare con vigoria di sintesi. Ma poi col sentimento
della morte la prassi diaristica diventa quotidiana.
Paradosso: l’analiticità del modello diaristico fa sì che a fronte di ristretti lassi temporali ci sia una
proliferazione di testi e una documentazione. L’autobiografo è segretario di sé stesso: inserisce lettere nel
suo diario (Voltaire) diventa così corale e polifonica, spuria, perché può metterci di tutto, rendendo conto di
bisticci che solo un anno dopo sarebbero stati dimenticati. Quindi per noi lettori di alfieri, che ci
appassioniamo alla lettura di quest’opera, la prima parte è di gran lunga più interessate: nella seconda
vediamo più documentazione filologica e scrupolo.
La cosa paradossale che crea imbarazzi in chi voglia inquadrare teoricamente l’opera autobiografica di
alfieri, è che proprio quando diventava più cronachista e meno narratore, sentiva il bisogno di rileggere la
parte eroica della sua vita, agendo sullo stile. I vari alfierismi, espressioni molto forti e deformate e
neologismi, con grande sorpresa, appartengono alla seconda fase, quasi che cercasse una compensazione
della prima parte della sua biografia, mentre gli ultimi scritti non meritano questo sforzo stilistico perché
sono opachi.
Per essere l’autobiografia di un artista, l’opera è molto avara di pagine sull’opera e sulla scrittura ed è
prevalentemente incentrata sul carattere e sulla famiglia, sui duelli, sugli amori, sulle polemiche, sui viaggi:
certo, alfieri ci dice anche come e cosa scrive, quasi per dovere di completezza, ma non è li il suo interesse.
-Nella introduzione ci spiega perché non dà peso alle sue opere.
Come aveva detto Cellini, noto megalomane che si considerava il più grande artista della storia, ‘le mie
opere sono cosi belle che non hanno bisogno di commento, non c’è bisogno che io le difenda, sono del
mondo; invece parlo della mia vita che è quella di un vagabondo, ubriacone e assassino’ (guerra, assassini,
scaramuccie: 25 morti almeno per mano sua), a volte va fiero delle sue bravate e parla di sé come di un
grande combattente, a volte ha sussulti di moralità e se ne pente e vorrebbe un distacco pio dal mondo e
parla con vergogna e biasimo di queste scelleratezze. Cellini per questo motivo, tiene a dire la sua sulla sua
vita: sa una volta morto la gente potrà dire quello che vorrà, rendendo quello che ha fatto leggenda, e lui
un mostro, ma lui dice che si vuol prendere le responsabilità per quanto fatto, quindi un’istanza difensiva: si
tratta di un memoriale, fatto per negare la responsabilità di cose che si vociferano a suo carico.
Alfieri che non era violento come Cellini, non è nella sua posizione, ma dice che le sue tragedie scritte sono
venute bene e altre meno, altre insoddisfacenti, ha ricevuto lodi e critiche, ma ciò che importa è che i testi
ci siano e nessuno può toglierli dal mondo e parleranno per lui: lui sa di aver fatto ciò che era in se e si
affida ai posteri attraverso le opere. Dice poi che la sua vita non è conosciuta altrettanto e allora
provvederà a dare le informazioni su di questa. Nessuno però garantisce la veridicità del racconto
dell’autore: Alfieri dimostrando una prensilità straordinaria sfrutta una trovata che pochi anni prima aveva
fatto scalpore: nel 1788 a Parigi escono le Confessioni  di Russeau, considerato il fondamento della nuova
autobiografia. Le Confessioni di Russeau aprono un orizzonte nuovo: la maggior parte dei saggi del 900 sulla
forma dell’autobiografia sono su Russeau o prendono le mosse da lui. Il saggio più noto, anche perché ha
generato molti contribuiti ad esso ispirati, è l’ormai celebre ‘patto col lettore’ di Lejeune Philippe. Egli vede
nella prefazione di Russeau il primo contratto stipulato fra autore e il suo pubblico: esso sembra un accordo
notarile e funziona che lo scrittore promette di dire tutta la verità e il lettore troverà un sacco di cose a suo
sfavore, scabrose e indecenti: lui non se ne vergognerà; il lettore in cambio di questo scandalo gli deve
promette di credere, assicurandogli la fiducia. Ora capiamo che se un autore è scaltrito metterà in zone
strategiche cose a suo sfavore e una volta ottenuta la fiducia di trasparenza potrà raccontare quello che
vuole. Fece scandalo la sua autobiografia perché parlò molto direttamente, tenendo conto che scriveva ai
nobili del tempo che avevano educazione classicheggiante, di sesso, avventure adolescenziali e infantile,
perversioni, esibizionismo e sadismo, diventando per i lettori un mentecatto che poteva contagiare la
mente dei giovani o assurgendo al rango di eroe che aveva sconfitto gli oneri del decoro e del perbenismo e
reticenza.
-Alfieri nel suo piccolo costella la prima parte dell’infanzia di episodi poco lodevoli, ridicoli, dai quali risulta
la sua fannullaggine e doppiezza: non ha paura di dire bugie, rubare, ha disfunzioni e malattie poco
eleganti, si diceva vivesse avventure nella loro dimensione sensuale e gli dessero sazietà e noia, aveva
inoltre le mani bucate. Arrivando alla sua attività di drammaturgo dice che fosse ignorante e non avesse
letto granché, che non sapesse da dove partire per scrivere e come per lui scrivere sia stato faticoso, duro e
un compito imposto, facendo la figura del mediocre, che riesce solo con sudore ad ottenere la fama. È un
omaggio dal lussurianesimo dilagante: poca eroicità, ma alla lunga tutto ciò dà il sospetto di una
sua astuzia: se Alfieri ragazzino era così bestia, se tali e tanti sono gli scogli e gli spessori, tanto più
meritevole è il risultato finale. È come se Alfieri avesse in mente un passo del cortegiano: la maggior parte
dei perfetti cortigiani nascono già perfetti col sangue raffinato e naturalmente disinvolti, praticano già la
sprezzatura, però ci sono anche quelli di nascita meno nobile, con meno mezzi, che devono fare fatica e ci
mettono molto più tempo ma alla fine sono più raffinati di quelli raccomandati. Fa il plebeo che entra
nell’olimpo delle lettere sgobbando. È un vezzo narcisistico di chi era nato conte, infatti lui esprime fastidio
per questa sua nobiltà: in parte per un motivo, ovvero essendo suddito della monarchia sabauda era
tenuto alla fedeltà e al servizio militare e di dare conto di ogni suo spostamento, per cui ogni volta che
andava all’estero, lui che aveva passione viaggi, ogni volta doveva chiedere permesso e dire con chi perché
per quanto e dove andava: si sentiva soffocato e a un certo punto Alfieri si entusiasma di fronte ad ideali
rivoluzionari, scoprendo l’autore mito dei rivoluzionari francesi, cioè Plutarco, e gioca a fare lo stoico,
facendo come Camillo e Cincinnato: un eroe fiero e indipendente. Ad un certo punto con un gesto
impulsivo abdicò a favore dell’unica sorella, cedendo tutti i diritti, che diventò contessa e lui fu ‘scontizzato’
felicemente, quindi spiemontizzandosi, diventando da schiavo a uomo libero. Era un uomo con facili
entusiasmi e facili depressioni: tendeva alla contrapposizione netta tra servo e uomo libero. Lascia il
castello, i campi e i titoli alla sorella che gli garantì una reddita.
Inizia a viaggiare in italia, in europa, si spinge laddove di solito i viaggi alla moda non arrivavano: arriva fino
alla Svezia, rimanendo ammaliato dal paesaggio ossianico, sebbene non abbia mai letto l’Ossian.
Va in Francia nella terra degli uomini liberi, va a Parigi e vive un decennio d’oro dove scrive e dialoga con
intellettuali e scrittori, senonchè rimane scioccato dalla rivoluzione francese e inorridito e dal fatto di
sentirsi in pericolo in quanto nobile: nel 90 fa i bagagli ma viene fermato dalle guardie che gli prendono le
carte e gli averi e gli sequestrano l’appartamento parigino dove aveva accumulato una biblioteca. Da qui
l’odio per la Francia fino ad arrivare nel suo furore a dichiarare guerra alla Francia, intimandole di restituire
tutti i suoi libri altrimenti sarebbero stati guai. Vi è un doppio binario: eroismo e autoironia. Scrive quindi il
Misogallo, prosimetro anti francese, in cui si rende conto spesso che sta cadendo nel ridicolo, ma poi
rincara la dose. Ecco perché il 90 è importante: è un anno di svolta esistenziale e politica. Lascia lì libri e
manoscritti: sente che buona parte della sua vita è persa, ha un panico di chi si volta indietro, vede la barca
distrutta dal naufragio, e cerca di salvare il salvabile. L’opera del Misogallo inizia a Chamberie in savoia in
una locanda, ancora prima di arrivare in italia.
Dopo alcune disgrazie arriva Firenze, città della sua donna, già sposata, che sposò solo dopo che ottenne il
divorzio: è la duchessa Luisa Stolberg.
 
PARTE PRIMA
 
INTRODUZIONE
-L’introduzione si apre con candore e ingenuità (ingenuamente confesso – ripresa di Russeau), prima ancora
di dire le ragioni dell’opera. Fa poi riferimento all’amor proprio per esprimere ciò che lo ha spinto a
stendere quest’opera. Perché l’amore di sé lo induce a fare quest’opera? Perché, avendo lui scritto molto,
consente con questa autobiografia di far conoscere ai suoi lettori che lui è in vita.
-Circa la volontà di prevenire biografie non autorizzate Alfieri fa riferimento alla ristampa delle sue opere
con una bella introduzione che ne racconti la sua vita: va contro la genia dei librai e tipografi, credendoli
capaci di falsi che sarebbero senz’altro meno veraci di quanto lui andrà a scrivere. Afferma che affinché la
sua vita venga ritenuta meno cattiva e alquanto più vera, si impegna a scrivere la sua Vita, avendo
riconosciuto che in sé è presente alcun poco maggiore la somma del bene a quella del male. La garanzia è
la trasparenza: non avrò certo viltà di non dire cosa che vera non sia.
-Divisioni: puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia. Le prime tre età sono accomunate dal filo
della miseria intellettuale e morale in cui alfieri vive: una miseria cui concorrono forma dello stato, che è
illiberale, culturalmente bigotto e angusto, dove domina delazione e sospetto, un sistema
scolastico deficitario, affidato ad apprendimento meccanico e mnemonico, una lingua che è ‘bastarda’
perché né italiana né francese né dialetto (Torino stessa è anfibia perché non è né italia né
francia), l’ineducazione delle classi che dovrebbero dare esempio, ovvero l’aristocrazia, di cui dà il quadro
che dice che i nobili si imparruccano, sono marionette, hanno modi frivoli indecorosi per guerrieri, sono vili
e affettati, pieni di smancerie (alcune pagine riguardano buone maniere e convenzioni degli aristocratici).
-Alfieri è pienamente antiaristocratico e come Parini critica la classe aristocratica duramente. Alfieri parlò
anche del suo odio verso i francesi, che era nato da piccolo, perché il suo maestro di ballo era francese.
Alfieri odiò il ballo e le convenzioni sociali aristocratiche. Alfieri non fece la vita agiata che avrebbe potuto
fare, ma intraprese altre strade. Nello sfacelo, nel deserto culturale e antropologico, Alfieri si mise al banco
degli imputati, ammettendo di averci messo del suo. Alfieri divento l’Alfieri celebre in gioventù, quando
prese atto di numerose ricadute, anche sul piano amoroso quando rifugge l’amore serpentesco. Le vicende
amorose lo distrassero dall’attività letteraria e solo con l’amore stilnovistico per Luisa Stolberg riuscì ad
alimentare la sua poesia. 
-Rivela che per quanto riguarda la sua storia entrerà nei particolari (soprattutto nelle prime tre parti e
mezzo) per agevolare i posteri nel suo studio, potendo così ciascuno individuare meglio i segreti che
osservando si trova in se stesso. Di contro non intende dar luogo a nessuna di quelle altre particolarità che
potranno riguardare altre persone, le cui peripezie si ritrovassero intarsiate con le sue; non nominerà mai
nessuno, individuandone il nome solo nelle cose indifferenti o lodevoli. àFinzione di diritto di privacy.
-Stile: triviale e spontanea naturalezza con cui ha scritto l’opera, dettata dal cuore e dall’ingegno.
 
EPOCA PRIMA: PUERIZIA: abbraccia nove anni di vegetazione
>Capitolo Primo: Nascita, e parenti<
-nasce il 17 gennaio 1749 da nobili, agiati e onesti parenti.
-Il nascere nella classe dei nobili gli consentì poi, senza la taccia di invidioso e vile,disprezzare la nobiltà per
sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi e i vizi. Il nascere agiato lo rese libero e puro e non servì altro che il
vero.
-Suo padre Antonio Alfieri, uomo purissimo di costumi vissuto sempre senza impiego alcuno, ha sposato a
55 anni sua madre, Monica Maillard di Tournon, giovanissima, da cui ebbe una figlia femmina. A 60 anni si
ammala di polmonite e, benché robusto e vegeto, muore, quando Vittorio aveva appena un anno. La madre
si risposa con il coetaneo Cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano che visse un esemplare unione con lui e al
momento della scrittura sono ancora felici insieme. La donna, stimatissima, vive la sua vecchiaia avendo
come uno figlio rimasto vivo, Vittorio, che per circostanze fatali non può vedere.
 
>Capitolo Secondo: Reminiscenze dell’infanzia<
-1752: non gli è rimasta altra memoria che di uno zio paterno che lo faceva stare dritto su un antico
cassettone e accarezzandolo gli dava carezze e confetti. Egli aveva delle scarpe con la punta quadrata e
molti anni dopo rivedendo quel modello gli riaffiorano sensazioni primitive relative allo zio morto da tempo
e ai dolci che gli dava.
-1754: fu devastato da una dissenteria a tal punto che desiderò di morire, proprio come il fratellino
minore, che aveva sentito dire che fosse diventato un angioletto. Un altro ricordo di questo periodo
riguarda il grande dolore per la separazione dalla sorella Giulia, destinata al monastero – nonostante la
potesse vedere ogni giorno.
-1755: Speculando sui sintomi di questo trauma familiare, Vittorio ricollega ad essi il dolore provato negli
anni giovanili per la divisione da una donna amata o un amico vero. Dalla reminiscenza di quel primo
sconforto capisce che tutti gli amori hanno uno stesso principio impulsivo, lo stesso motore, sebbene
diversi.
Viene poi affidato alla custodia di Don Ivaldi, prete ignorantuccio, che gli insegna a scrivere fino alla classe
quarta, studiando Cornelio Nepote e Fedro. Afferma che anche i suoi parenti erano ignoranti e si rifacevano
al principio per cui ‘ad un Signore non era necessario di diventare Dottore’. Il suo ritrovarsi da solo col
maestro gli dava malinconia e raccoglimento.
 
>Capitolo Terzo: Primi sintomi di un carattere appassionato<
-Il dolore per l’assenza della sorella si era diradato nel tempo, anche perché l’impegno col prete non gli
permetteva di vederla se non durante le feste. Trova quindi consolazione nella Chiesa del Carmine, dove
vedeva uffiziare dei novizi: dopo sua sorella non aveva mai più visto un volto giovanile e i volti di quei
fraticelli novizi, non dissimili da visi donneschi, risveglia nel suo cuore quella traccia impressa dal volto di
suo sorella. Definisce questa ammirazione amore, ma anni dopo capisce che questo sentimento in realtà
obbediva a un istinto animale. Tutto assorto in quelle immagini fantastiche (frati col cero in mano e visi
compunti ed angelici) trascurava i suoi studi e lo annoiava ogni compagnia o occupazione.
-1756: Vediamo l’autoironia: un suicidio spettacolare si riduce a un vomito e a un doloruzzo. Una volta che
madre e prete non erano in casa, devastato da un profondo senso di malinconia, va nel giardino e mangia
l’erba, sperando di trovare la cicuta, che aveva scoperto portava alla morte – seguendo un sa quale
istinto naturale misto di un dolore di cui gli era ignota la fonte. Ma per il sapore insopportabile dell’erba,
gli viene da vomitare e rigetta tutto nel cortile affianco. Quando torna la madre per pranzo lo vedere pallido
e con le labbra verdi: alla fine è costretto a confessare, gli viene data una medicina e il male scompare. La
liberazione con cui il bambino confessa la sua stupidaggine è la stessa con cui l’autore la narra a noi.
 
>Capitolo Quarto: sviluppo dell’indole indicato da vari fattarelli<
 -Scissione bipolare: taciturno e placido ma a volte loquacissimo e vivacissimo, e quasi sempre negli estremi
contrari. Per dare meglio conto di quelle qualità primitive che la natura gli aveva improntato nell’animo,
allega due storie che ritraggono il suo carattere
-Storia 1: A un certo punto ha un problema dermatologico e deve mettere un’umiliante reticella e teme a
dover uscire di casa e subire il giudizio altrui. Il puntiglio di questo bambino svela l’animo dell’adulto: il
mondo è pieno di uomini che sotto sotto hanno le loro vergogne. In questo caso egli deve subire questo
‘castigo’ e ha paura che venga creduto un malfattore per quell’aspetto sconcio, in particolare temeva di
essere visto così dai novizi. A causa di quella vergogna, che dovette subire nella strada per andare a messa,
torna a casa con la morte nel cuore, credendosi disonorato per sempre: questo gli genera dolore, tensione
nell’animo e un malanno tale da far dimenticare quella reticella alla madre.
-Storia 2: viene a far visita alla famiglia la nonna materna e gli chiede se avesse voluto qualcosa, ma la sua
risposta è un costante e ineducatissimo ‘Niente’. Continuando a reiterare la domanda, la richiesta non fa
altro che generare dispetto e lacrime nel bambino, che viene cacciato dalla presenza della donna. Giorni
dopo Vittorio le aveva rubato un ventaglio con la scusa di darlo alla sorella e per questo furto gli costò una
grande punizione.
-1757: in occasione della sua Prima Confessione, Don Ivaldi suggerisce a Vittorio i vari peccati che avrebbe
potuto commettere e gli sollecita come penitenza di chiedere scusa alla madre di tutte le mancanze
passate. Quell’umiliazione fu per lui un supplizio insoffribile, tanto che tornato a casa non accennò neppure
a esercitare la penitenza: la vicenda si risolve in una negazione del pranzo e probabilmente dell’assoluzione
del prete, verso cui covava un odietto bastantemente profondo.
 
>Capitolo Quinto: ultima storietta puerile<
-Non può mancare l’incidente drammatico che potrebbe por fine alla vita del soggetto: molte autobiografie
iniziano con la descrizione di un accidente (Vico racconta della caduta da seggiolone con sangue e materia
celebrale che usciva dalla testa: la sentenzia del dottore rivelava che se anche fosse guarito avrebbe avuto
problemi al cervello). Alfieri, giocando alla marcia prussiana col suo fratello maggiore, il Marchese di
Cacherano (fratello uterino soltanto, di 14 anni, verso cui non nutriva alcun reale amore, ma solo una
benigna invidia, che lo faceva ardentissimamente desiderare di avere lui le stesse cose senza però
volergliele togliere), scivola e batte la testa contro un alare privo di un pomo d’ottone e su una di quelle
punte si trafigge sopra l’occhio sinistro. Poi si alza minimizzando, vergognandosi per non aver eseguito bene
il gesto atletico, e solo dopo qualche secondo si rende conto della gravità della cosa dalle reazioni dei
presenti e dal sangue di cui si sta macchiando. La fasciatura e la conseguente cicatrice non vengono
mostrate con ripugnanza in pubblico, anzi sono motivo di gloria e l’idea del pericolo corso lo lusingava.
Questo certamente per lui era un seme di amor di gloria, ma né il prete né i parenti lo ritenevano tale.
-1758: Alla morte del fratello maggiore, ammalato di tisi, fu portato via dalla casa perché non lo vedesse. In
questa circostanza incontra suo zio Cavalier Pellegrino Alfieri, al quale era stata affidata la tutela dei suoi
beni, che suggerisce alla madre di lasciare quel posto dove non avrebbe imparato nulla e lo manda
all’Accademia di Torino. La brama di vedere cose nuove, l’idea di viaggiare e altre ideuzze infantili diradano
il dolore per l’abbandono della madre; rivela che il dolore maggiore proveniva dall’abbandono del maestro
Ivaldi più che dallo staccarsi dalla madre. Accompagnato da un giovane alessandrino, Andrea (di bastante
educazione in un paese dove il saper leggere e scrivere non era cosa comune) lascia la terra natale. Nel
viaggio si abbevera a un abbeveratoio per cavalli e viene rimproverato dal fattore: lui gli risponde
goliardicamente che un uomo che girava il mondo era avvezzo a quelle cose (strano visto che la madre
l’aveva cresciuto mollemente e con risibili precauzioni di salute).
-Questo primo squarcio riuscirà inutilissimo per chi crede l’uomo non è la continuazione del bambino.
 
EPOCA SECONDA: ADOLESCENZA: abbraccia otto anni d’ineducazione
>Capitolo Primo: partenza dalla casa materna, ed ingresso nell’Accademia di Torino e descrizione di essa<
-Il volo del calesse lo manda in estasi e gli dava tanto piacere che arriva a disprezzare il quarto di trotticello
a cui andava la carrozza chiusa della madre. Inizia ad apprezzare l’andare in groppa a cavalli, attraversando
paesaggi italiani. Arrivati a Torino, Vittorio viene pervaso dallo stupore per gli edifici maestosi della città, ma
la sera a inondarlo è invece lo sconforto di trovarsi in mezzo a tanti visi sconosciuti: questo lo fece ricadere
nel pianto e ne desiderio di tutte quelle cose abbandonate il giorno prima. Alcuni giorni dopo, abituatosi
alle novità, riprende l’allegria ed entra nell’Accademia. Reputa l’educazione pubblica di questa istituzione
priva di influenze morali e di ammaestramenti di vita. Contesta poi la disposizione delle aule e dei luoghi di
sollazzo: infatti dice che loro studenti erano preda di continua distrazione perché in mezzo a un teatro, ai
paggi dalla vita divagata e ai forestieri che alloggiavano lì (durissimo paragone con la severità del sistema
studentesco, detto galera). Più che un’educazione era una locanda in cui l’unica regola era il coprifuoco a
mezzanotte; del resto andavano a corte, ai teatri, nelle buone e cattive compagnie a loro piacimento.
 
>Capitolo Secondo: primi studj, pedanteschi, e mal fatti<
-1759: Rivela che l’Assistente della sua camerata era quel servitore, Andrea, che lo tiranneggiava sia nelle
cose dello studio che nella condotta usuale.
-Viene poi inserito nella classe terza, dopo essere stato esaminato, dove l’insegnante è don Degiovanni, un
pretuccio meno colto di Don Ivaldi e meno affettuoso, visto che doveva badare a 15 altri alunni.
-“tirandomi così innanzi in quella scoluccia,  asino, fra  asini, e sotto un  asino”: Alfieri se la prende con un
precettore ma le sue requisitorie più violente sono contro il sistema educativo piemontese, che genera
ineducazione. La chiama scuoluccia, nonostante sia molto prestigiosa.
-Vittorio dice di non essere mai l’ultimo fra i compagni, ma l’emulazione lo spronava a superarli per
diventare il primo; poi però pervenuto al primato si annoiava e ricadeva nel torpore (bipolarità: o niente o
tutto).
-L’insegnamento di Cornelio Nepote e degli altri autori è puramente formale e grammaticale, infatti
nessuno sapeva chi fossero quegli autori né da dove venissero: è un insegnamento decisamente
approssimativo. Reputa i suoi maestri dei vergognosissimi perdigiorni e lui sente che la sua gioventù è
stata tradita senza rimedio
-A un certo punto Alfieri e compagni si sfidano a una gara di memoria su un testo che sono le Georgiche di
Virgilio. Perde per 200 versi contro un altro giovane e capisce lo smacco della sconfitta ma ci dice
comunque che sapeva 400 versi a memoria. Notiamo una reazione isterica dopo la sconfitta, ovvero pianto
e ingiurie contro il rivale: comportamento esagerato e sopra le righe. Tuttavia dice che non gli poteva
portare odio perché egli era bellissimo e Vittorio è sempre stato propenso alla bellezza.
-C’è un episodio veramente promettere per questo balordo studente che prefigura un destino
letterariamente alto. Siamo nel periodo in cui sta frequentando la classe di Retorica col don Amatis, un
prete di molto ingegno e sagacità. L’Ariosto è il poema della libera composizione, l’altro volto della
letteratura rispetto a un’educazione così angusta. Si tratta infatti di un lettura proibita, erotica, eccitante.
Sulla scia di questa scoperta scambia cibi con libri con un Lignana, tanto che non mangia il pollo per 6 mesi:
“ho bevuto i primi sorsi di poesia a spese di stomaco”. Questa gratuità di poter leggere Ariosto senza uno
scopo didattico porta divertimento, ma proprio questa mancanza di metodo non permetteva la
comprensione. Non fa in tempo a ripromettersi di leggerlo con più ordine, che il libro viene sequestrato
dall’Assistente e consegnato al sottopriore e i poetini (lui e il suo competitore di poesie) rimangono
scornati.
 
LEZIONE 12 (24/10/18)
>Capitolo Terzo: a quali dei miei parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza<
-Nei primi due anni di Accademia impara pochissimo e peggiora la sua salute del corpo per la cattiva dieta e
il non abbastanza dormire. Come conseguenza non cresceva di statura, pareva una candela di cera
sottilissimo e pallidissimo. Uno dei malanni peggiori è quello gli provoca la fuoriuscita di liquido viscoso e
fetente in vari luoghi della testa.
-Essendo il Cavalier Pellegrino stato nominato governatore di Cuneo, egli visita spesso un parente materno,
lo zio Conte Benedetto Alfieri, il quale era un uomo esperto di sentimenti e appassionato di architettura e
che ora stima perché era almeno lui in grado di fare qualcosa. Quando era in Accademia, nonostante il suo
affetto verso di lui, però non lo sopportava soprattutto per il suo accento toscano (Torino=città anfibia).
Grazie a lui però scopre molte cose su suo padre, con cui egli aveva fatto un viaggio a Napoli (gli rivela che
suo padre si era fatto calare con funi nella voragine del Vesuvio).
 
>Capitolo Quarto: continuazione di quei non studi<
-1760: (studi di Rettorica) il senso del deterioramento agirà come un fuoco nell’animo di alfieri che vorrà
essere drammaturgo per recuperare in intensità ciò che la sua vita aveva perso in estensione. Egli non
imparava quasi nulla e fisicamente era infermiccio e perciò preso di mira dai compagni,
definito carogna (Carogna non vuol dire malvagio ma carcassa in putrefazione): questi gli causò fierissime
malinconie e si radicava in lui sempre più l’amore della solitudine. La disgrazia senza sublime.
-Arriva a rubare l’Ariosto dalla camera del sottopriore con la scusa di poter vedere meglio da lì piuttosto
che dalle gallerie la partita della palla grossa. Ma ne interrompe spesso la lettura perché primo aveva molte
difficoltà a intenderlo e secondo l’annoiava la continua spezzatura di storie; finiva così per lasciarlo stare.
Del Tasso non sapeva nulla; si diletta con l’Eneide tradotta da Annibale Caro; si annoia con le ariette
di Metastasio, di cui apprezzava la tematizzazione degli affetti e provava una tristezza grandissimo quando
arrivava il momento pedante delle ariette; si diverte con le Commedie di Goldoni. Rivela che il genio per le
commedie, di cui presentava in sé il germe, viene presto a ricoprirsi per mancanza di incoraggiamento e
trascuratezza.
-dice che in quegli anni veniva forzato da un suo compagno a comporre dei testi di compito in cambio di
palline, se non voleva beccarsi delle botte. Lui lo faceva e manteneva religiosamente il segreto, fino a che
capisce che può sollevarsi da questo impegno, inserendo plateali errori (potebam) nello scritto, in modo da
minacciare di ricoprire di vergogna il suo ricattatore qualora venisse alla luce il loro segreto. “onde io
imparai sin da allora che la vicendevole paura era quella che governava il mondo”
-1761: (studi di filosofia e geometria) Vittorio studia di mattina geometria e di pomeriggio filosofia e logica:
la doppia lezione gli consentiva di fare delle scorsarelle in città, fingendo di uscire di scuola per qualche
bisogno e si esaltava.
-in filosofia eccelleva tra i Grandi e, volendosi distinguere, rispondeva a tutti i quesiti, ma non aveva una
qualche abilità, in quanto era tutto frutto di una buona memoria, infatti non gli interessava quella filosofia
pedantesca, le cui lezioni dopo pranzo erano per tutti soporifere e finivano in concerti di russate dei
presenti.
-in geometria invece dice di non aver mai imparati nemmeno la Quarta Proposizione di Euclide, avendo lui
da sempre avuto una mente anti geometrica.
-AMORE DELLA SOLITUDINE: Inizia un autoritratto cupo e solitario: è un caso, che come nel Parini, di
autoritratto fatto proprio dai letterati delle età successive, è quello che fa Foscolo, che dice che prima di
lui veniva a Santa Croce a ispirarsi Vittorio, errando solo ove Arno è più deserto.
 
>Capitolo Quinto: varie insulse vicende, su lo stesso andamento del precedente<
-1762: il Cavalier Pellegrino raggiunge Vittorio a Torino e vistolo deperito gli permette una dieta migliore e
più sana, che unita al sonno a scuola e alla passeggiata da scuola a casa contribuisce al suo sviluppo e alla
nuova crescita.
Lo zio aveva poi sollecitato sua sorella Giulia a passare nel monastero di Santa Croce a Torino – affidandola
qui alla zia materna-, lasciando quello di Asti, ove aveva conosciuto il primo amore. L’incontro con lei la
rallegrò molto e cerca di sollevarla dall’afflizione d’amore per la quale versava molte lacrime. Col passare
del tempo la lontananza, le divagazioni e la migliore educazione la guarirono e la consolarono da questa
afflizione.
-durante le vacanze Vittorio va al Teatro di Carignano, mediante un sotterfugio  del pietoso zio (sfuggendo
alle regole ferree dell’Accademia), a vedere il Mercato di Malmanite, dove la varietà della divina musica gli
lascia un solco negli orecchie e nell’immaginazione, tale da generargli nelle settimane seguenti una
malinconia straordinaria ma non dispiacevole, che causò una totale svogliatezza negli studi. Fu questa la
prima volta in cui la musica ha effetto su di lui. Anacronisticamente poi commenta che il teatro è il più
potente e indomabile agitatore dell’animo, del cuore e intelletto tra tutti i suoni, in particolare le voci di
contralto e di donna. “quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me nell’atto di sentir musica o
poche ore dopo”.
-fa poi un viaggio da Torino a Cuneo a trovare lo zio nel mese d’Agosto: rivela che il viaggio gli giova molto e
gli procura molta salute perché all’aria aperta; il passo d’asino, lento e ignobile, lo fa vergognare nei
confronti di quelle persone che appena 4 anni prima aveva ammirato la velocità del calesse su cui andava e
pensa “erano in me questi moti il prodotto di un animo caldo e sublime o leggiero e vanaglorioso?, Non lo
so, ma so che se avessi avuto una persona accanto a me egli con la potentissima molla dell’amore di lode
e gloria avrebbe potuto cavare qualcosa da me”
-è proprio in questo soggiorno che lui compone il suo primo sonetto, che era un insieme di versi riassestati
insieme dal Metastasio e da Ariosto: la metrica era zoppicante e non se ne ricorda nemmeno un verso. Si
ricorda solo che era dedicato a una signora corteggiata da suo zio e che piaceva pure a lui. Nonostante
fosse pessimo, la signora che non ne intendeva il significato lo lodò, mentre lo zio, uomo severo e militare,
non incoraggiò questa tipologia di iniziative, che non erano politiche o storiche. Rimpiange di non avere
avuto un mentore che lo instradasse. Da qui l’attaccamento a figure di mentori che sarebbero diventati i
suoi consiglieri: uno è il senese Gori Gambellini, a cui dedica pamphlet necrologico, e l’altro è Tommaso di
Caluso, che completerà la Vita.
-1763: (studio della fisica e dell’etica) studia fisica la mattina e al pomeriggio etica. Fisica lo allettava, ma
l’ignoranza della geometria e il contrasto con la lingua latina, gli impediscono di impadronirsene,
accontentandosi di una pappagallesca dottrina. Grazie alla memoria fa ottime prestazioni alle ripetizioni e
ciò gli fa meritare un regalo dallo zio: il desiderio di questo regalo (che sarà poi una spada d’argento) viene
amplificato dal suo Assistente Andrea, in modo da farlo spremere al massimo nello studio; alla fine non la
ottenne mai perché avrebbe dovuto chiederla allo zio, ma a causa del suo carattere (vedi scena con la
nonna) la parola non trovò l’effetto desiderato da tutti.
 
>Capitolo Sesto: debolezza della mia complessione; infermità continue; ed incapacità d’ogni esercizio, e
massimamente del ballo, e perché<
-lo zio viene nominato Vicere in Sardegna e vi andò, lasciando Vittorio alla tutela di alcuni parenti, i quali
disposero per lui un fondo economico mensile; questo era gestito dispoticamente da Andrea, verso cui si
sentiva dipendente.
-Nuovo episodio tragicomico: gli torna la malattia al cuoio capelluto e pensa che siano stati gli studi
giuridici a procurare patologie. La testa screpolata perdeva un liquido che gli procurò la rasatura completa
del cuoio capelluto e alla conseguente parrucca. Ci sono poi episodi di bullismo con la parrucca al culmine
dei quali capisce che per cavarsela sceglie di sparruccarsi da sé teatralmente facendo con essa ogni
vituperio. Alla fine egli rivela che fu la più rispettata parrucca di sempre perché i compagni avevano capito
che con lui non c’era più tanto da divertirsi. “allora imparai che bisognava sempre parere di dare
spontaneamente, quello che non si potea impedire d’esserti tolto.”
-studio anche geografia e clavicembalo: dice di aver imparato piuttosto bene la prima, facendosi prestare
libri dal suo maestro in francese come Gil Blas e a seguire altri romanzi come Cassandre e Almachide; per
quanto riguardo lo strumento, dice che, benché avesse una passione smisurata per la musica, non fece
alcun progresso in quanto la musica scritta non gli voleva entrare in testa, perché per lui era tutto a
orecchio (a incrementare la fatica d’apprendimento si metteva pure l’orario, il fatal dopo pranzo).
- anche la scherma e il ballo gli riuscivano infruttuosissime: la scherma perché si riteneva troppo debole per
poter stare in guardia (anch’essa post pasto), il ballo perché per la natura lo aborriva e a ciò si aggiungeva la
contrarietà verso il maestro, il quale, francese, gli quadriplicava l’odio innato per quell’arte burattinesca.
Questa fu anche una delle ragioni del suo odio verso la Francia e le impressioni radicate nella intima età
non si cancellano più.
- Oltre questo fatto, altre due cose hanno accentuato il suo essere antigallo: 1)la Duchessa di Parma, di
origine francese, giunge ad Asti e Vittorio nota con disgusto il suo ornamento bizzarro e ridicolo con cui si
era impiastricciata la faccia (trucco rosso, tipico degli ubriachi o dei malati, che quindi è da nascondere in
quanto genererebbe risate o compatimenti). 2)riguardo alla geografia, sentendo che i Francesi erano stati
battuti per mare e per terra, che i Francesi era stati padroni di Asti più volte e che avevano fatto un gran
numero di prigionieri vigliaccamente, sorge in lui un sentimento misto di aborrimento e disprezzo per
quella nazione fastidiosa.
 
>Capitolo Settimo: morte dello zio paterno. Liberazione mia prima. Ingresso nel Primo Appartamento
dell’Accademia<
-Lo zio muore in Sardegna: era un uomo severo e duretto, stimabile per rettitudine e coraggio, ma verso il
quale l’affetto di Vittorio era molto tiepido e dunque non fu molto afflitto per la sua perdita. Anzi, avendo
ormai quattordici anni, ereditava il patrimonio paterno, accresciuto dall’eredità dello zio e lo poteva gestire
liberamente. Oltretutto la cattiva condotta di Andrea (donne alcool risse), che aveva effetti sulla malinconia
del giovane (lo chiudeva in camera da mezzogiorno a sera), viene punita con il suo allontanamento dalla
responsabilità di tutore: questa perdita non fu motivo di sollievo per Vittorio, che anzi lo cerca per due
volte a settimana; riflettendo sul suo affetto per quel tristo soggiogatore, egli dice che grazie alla lettura
di Plutarco, riguardo alla ricerca di virte gloria per cui riesce nella soddisfacentissima arte del fare bene a
chi ha fatto del male, ha provato grazia per quell’uomo, nonostante le dure vessazioni ed in virtù di quegli
insegnamenti morali e pratici impartitigli.
-il primo frutto della sua libertà fu la cavallerizza, la scuola che desiderava ardentissimamente. Il priore gli
dice che se la sarebbe meritato solo se avesse conseguito il magistero di logica, fisica e geometria: messosi
d’impegno e divenuto Maestro delle Arti, inforca la sella nella schiena di un cavallo. La passione e la volontà
compensavano la scarsezza fisica, che va poi affinandosi nel tempo.
-Vittorio alza ogni giorno di più la cresta tanto che ottiene una camera nel Primo Appartamento,
conducendo una vita molto dissipata e poco dedita agli studi. Il molto dormire e il molto cavalcare
l’avevano rimesso in salute, facendogli tornare il brio e l’ardire, insieme ai capelli. In questo momento
positivo, ogni tanto emergeva la vergogna per la sua ignoranza, che veniva acuita dalla lettura di romanzi
francesi, dal non sentire parlare italiano e dal conversare con inglesi e francesi. La lettura della Storia
Ecclesiastica di Fleury lo portò a fargli perdere credito nei confronti di preti e delle loro cose; si dedica poi a
Les Mille et une nuit.
-Fa amicizia con dei giovinotti con cui faceva gran cavalcate, affittando cavalli, con cui facevano i peggio
strapazzi nei boschi e sui selciati, il che gli rinforzava il corpo e gli innalzava di molto la mente
 
>Capitolo ottavo: ozio totale. Contrarietà incontrate, e fortemente sopportate.<
-1764: ci aspettiamo un riscatto e fortificazione e invece il capitolo si chiama ozio totale, che gli
procura reprimende: viene infatti inquadrato come lazzarone di prima categoria, agendo in modo
conflittuale, abbandonandosi in pose salvatiche. Questo perché non voleva più ricevere il servizio di un
inaccontentabile cameriere, che gli dava spesso noia, ha l’idea di gestirsi da solo e di voler uscire senza
accompagnatore, proprio come i suoi compagni, benché più piccolo. Viene a più riprese messo in castigo
dal governatore per questa sua trasgressione e dissolutezza, fino a che riceve un arresto così lungo e
pesante da fargli tornare la malinconia: “con gli occhi conficcati in terra, pregni di pianto, senza pur mai
lasciare uscir una lacrima”. Cade in sorta di prostrazione catatonica e giace muto come un vegetale per
terra. Il malessere lo divora dall’interno: i toni si fanno più patetici.
 
>Capitolo Nono: matrimonio della sorella. Reintegrazione del mio onore, Primo Cavallo<
-“da questa vita di vero bruto bestia, mi liberò finalmente la congiuntura del matrimonio di mia sorella
Giulia col conte Giacinto di Cumiana”. Il suo nuovo cognato aveva ottenuto la liberazione di Vittorio dalla
liberazione e l’uguaglianza dei diritti degli altri membri del Primo Appartamento. Con l’occasione delle
nozze, spende a più non posso e compra un cavallo, che amò con furore e lo rammenta con vivissima
emozione; la sua passione per il cavallo gli guasta la quiete, gli toglie la fame e il sonno, non appena avesse
trovato un qualche incomoduccio in esso. La delicatezza di quel prezioso animale lo spinge a volerne ben
otto, fra gli schiamazzi del tenacissimo curatore, il quale protestava per l’alto numero dei cavalli ma non
c’era nulla da fare.
-Si passa dal torpore all’euforia dello sfarzo: Alfieri si rappresenta come un giovinastro del Giorno di Parini.
In questo sfarzo sfrenato, rivela che non intendeva superare i suoi amici per vanto riguardo a ingegno o
borsa: infatti non esibiva mai i suoi abiti nuovi quando i suoi compagni venivano a trovarlo dopo pranzo,
non cercava la competizione, anzi se ne vergognava. Tra i vizi che si concede, c’è quello della carrozza, cosa
veramente in utilissima e ridicola per un ragazzaccio in una città microscopica come Torino; anche qua dice
che non vi saliva quasi mai perché non avendola gli amici avrebbero dovuto andare a piedi: provando
quindi ribrezzo all’idea di soverchio, non volendo offendere gli amici vi rinunciava.
 
>Capitolo decimo: Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle truppe.<
-1765: (la suffissazione tende sempre alla svalutazione). Durante una villeggiatura con due suoi amici si
innamora di una brunetta (mogli del loro fratello maggiore) piena di brio e prova sintomi petrarcheschi a
causa di questo affetto: malinconia profonda; ricerca continua dell’oggetto amata; trovare l’oggetto amato
e fuggirlo; troverlo e non sapere che dire; correre in ogni angolo della città per vederla; non poterla
neppure udire nominare; una fiamma che rimane per sempre semiaccesa nel cuore ed influenza il suo agire
come una norma.
-Va a Genova col suo curatore e vede il mare, che gli rapisce l’anima, e del quale avrebbe certamente
espresso lodi se avesse avuto le parole (non praticava l’italiano da due anni). In questo viaggio ha il sommo
piacere di rivedere la madre e la sua città natale.
-Tornato in Accademia l’incontro con Inglesi, Francesi, Tedeschi e altri gli risveglia una frenetica voglia di
viaggiare e di vedere i loro paesi
-1766: benché gli fosse passata la voglia, aveva firmato la petizione per diventare militare e quindi doveva
parteciparvi: si trattava di un impegno minimale che consisteva nel radunarsi alle insegne per due volte
all’anno per alcuni giorni e la sua mansione era di Portainsegna nel Reggimento Provinciale di Asti. Ciò gli
genera parecchia noia perché si trovava bene in Accademia. Egli compie esattissimamente il suo dovere,
subordinandosi controvoglia: rivela che l’anima della disciplina militare non poteva incontrarsi con quella di
un futuro poeta tragico.
-la smania di viaggiare lo porta a richiedere una licenza del re per un viaggio a Roma e Napoli, sfruttando
l’ingegno del suo cognato, persuadendo un ajo inglese che lo avrebbe accompagnato e il suo curatore,
nonostante le dissimulazioni e le pieghevolezze lo irritassero parecchio.
-Dice infine che il lettore avrebbe potuto saltare a piedi pari questa parte perché questi anni
dell’adolescenza sono accomunati da infermità, ozio e ignoranza.
 
EPOCA TERZA: GIOVINEZZA: abbraccia dieci anni di viaggi, e dissolutezze
>Capitolo Primo: Primo viaggio: Milano, Firenze, Roma.<
 -1766: a 17 anni, compie il suo primo viaggio con tappe: Milano, Firenze e Roma. Firenze e Roma facevano
parte del gran tour (insieme a Napoli e Palermo). Da questo momento non smetterà più di viaggiare,
essendo infetto dalla ‘febbre del viaggio’. Ansie nevrotiche di partire, ansai di arrivare senza godersi il
viaggio, e poi immediatamente voltare la carrozza e tornare indietro caratterizzano le sue volate in giro per
l’Europa: sono viaggi dell’eterno incontentabile.
-Il viaggio parte ad ottobre con 4 padroni, 4 servitori e il nuovo cameriere di Vittorio, ex cameriere del
Cavalier Pellegrino, Francesco Elia, di sagace ingegno ed esperto di viaggi, il solo e vero nocchiero stante la
loro totale incapacità in materia. Di Milano non riesce ad apprezzare nulla, perché ignorantissimo e
svogliato di ogni utile e dilettevole arte: questo è palese nell’episodio in cui il bibliotecario dell’Ambrosiana
gli dà in mano un manoscritto del Petrarca e lui, da vero barbaro Allobrogo, non lo considera (avendo
esperito in precedenza un rancore nei confronti di questo complesso poeta). Il viaggio si svolge all’insegna
del perfezionamento della sua già inoltrata barbarie linguistica, sia perché non leggeva in italiano da anni
sia perché parlava in francese coi suoi compagni, sia perché scriveva letteruzze e memorie in questa lingua
straniera. Dopo le due settimane a Milano, che visita come un vandalo, - specificato che parlerà in questa
parte di sé e non di ciò che ha incontrato per ignoranza del soggetto-, va a Bologna, che, coi suoi portici e
frati, non apprezza.
-Raggiunge poi Firenze, che gli piace meno di Genova, dove visita la Galleria, palazzo Pitti e reputa degna di
nota la tomba di Michelangelo in Santa Croce (riflessione, unica come una goccia d’acqua nell’oceano
dell’ignoranza: la fama di un uomo dipende dalla stabilità di ciò che lascia). Invece che apprendere il
fiorentino, decide di approfondire la lingua inglese presso un maestruccio. Cercava infatti di evitare di
parlare nel suo ridicolo dialetto piemontese anfibio, ripugnante della pronuncia della lettera U, articolata
con una smorfia simile a quella delle scimmie o di uno che soffia sul brodo: stava così fra la vergogna della
propria lingua e la pigrizia di imparare il toscano.
Alfieri si rende conto di essere nella città delle tre corone, si rende conto della bellezza del fiorentino e si
vergogna di farsi riconoscere come piemontese che per lui non era una lingua. [Nascerà da qui la volontà di
recuperare il tempo perduto: Alfieri deciderà di diventare una persona colta e il primo passo sarà quello di
impadronirsi della lingua.  L’uso vivo della lingua non sapeva cosa fosse: allora, non potendo stabilirsi a
Firenze, torna in Piemonte e si procura la divina commedia, l’orlando furioso, il decameron, la
Gerusalemme liberata e inizia a leggerseli integralmente creando parallelamente degli spogli, cioè elenchi
linguistici in cui lui ricopiava parole belle e espressive, clausole, effetti d’arte. Al museo d’Alfieri ci sono
molti di questi spogli, con migliaia di fogli, spesso con commenti alla parola lemmatizzata. Questa
operazione nella sua vita la fece 5 volte: nella fase della maturità dice che porta a termine per la quinta
volta la lettura dei classici integralmente. Viene fuori una componente fondamentale e cioè il titanismo,
l’individualismo: dà il meglio di sé quando parte da uno svantaggio e si fortifica con le sue proprie forze.
Naturalmente questa sete di cultura non lo folgora subito, la sua ignoranza è grassa e ce ne vorrà prima di
sbarazzarsene: tanto che quando si trova in mano il Virgilio del Petrarca miniato da Simone Martini non lo
riconosce, definendosi allobrogo. Gli allobrogi erano una tribù di galli che si erano situati nella zona di Asti.
L’espressione di fero allobrogo è la perifrasi con cui Parini indica alfieri. Stando a Firenze capisce quanto
generi fastidio ciò che di francese c’è nel piemontese: a livello fonologico si tratta dei fenomeni di
nasalizzazione e palatalizzazione, in particolari quelle vocaliche, in particolare la u. Si vergogna di questo
fonema tanto che cerca di usare parole in cui non incorra la vocale].
-Riparte dopo un mese e giunge a Lucca dove un giorno gli pare un secolo e poi a Pisa dove il Camposanto
gli parve lunghissimo. Gli piacque Livorno, dove sta per 8 giorni, sia perché assomigliava a Torino sia perché
era sul mare, elemento del quale non si saziava mai. Chiuse le orecchie al toscano anche qui e giustifica ciò
dicendo che, avendo passato molti anni con gli inglesi, aveva maturato un falso amor proprio individuale,
tanto che era convinto che la potenza e la ricchezza degli inglesi rispetto alla miseria dell’Italia, valessero a
dare più prestigio a quella lingua.
-Dopo essere passato per Siena e Viterbo, giunge a Roma, tanto fantasticata ed agognata: qui sta 8 giorni e
visita Panteon, il Colosseo e San Pietro, che apprezzò più di tutte le cose in assoluto.  Alla fine rivela che le
visite negli anni seguenti avrebbero amplificato lo stupore sterile della prima volta, facendogli apprezzare il
valore dei monumenti romani.
 
>Capitolo Secondo: continuazione dei viaggi liberatomi dall’ajo<
 -1767: nel viaggio di ritorno verso Napoli, Elia si ferisce a un braccio e va farsi curare da un chirurgo della
zona: nonostante l’infortunio, il cameriere dà prova di grande coraggio e presenza di spirito continuando 
nella guida imperterrito. A Napoli trova una bettolaccia in cui stare e ciò lo mette di cattivo umore perché la
dimora ha sempre influito sul suo debolissimo cervello. È il periodo del Carnevale ed assiste a spettacoli
pubblici e a feste private, ma in quei tumulti, libero interamente di sé, con molti diverti mementi e soldi,
provava un senso di malinconia, noia e dolore, facendosi infestare da idee lugubri e funeste, che andava a
ruminare presso il mare, da solo (infatti non era riuscito a legare coi napoletani a causa della sua natura
ritrosa). Anche con le donne non aveva fortuna, nonostante fosse molto incline nei loro confronti, ma la
scusa del continuo viaggiare giustificava l’impossibilità di stringere legami forti. Viene poi introdotto alla
corte del quindicenne re Ferdinando IV in cui riscontra lo stesso contegno dei maggiori re: in questo
contesto riesce a ottenere il secondo permesso dalla corte di Torino, ovvero quello di slacciarsi dall’ajo,
compagno di viaggio irresoluto e indugiatore. Ottenuta la libertà assoluta, lasciati i compagni a Napoli, egli
constata di vivere ignoto a se stesso, in una continua malinconia, non sapendo nemmeno cosa desiderava:
solo dopo molti anni capisce che la sua infelicità proveniva dal bisogno di avere un cuore occupato da un
degno amore e la mente da un nobile lavoro.
 
>Capitolo Terzo: proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia.<
-Giunto a Roma prova la stessa dissipazione e noia di prima, così come la stessa smania di rimettersi in
viaggio; vedeva sempre le solite quattro o cinque cose belle di Roma. Incontra poi il Conte di Rivera
Ministro di Sardegna che, sebbene sordo, lo allietava con consigli utili: un giorno apre il sesto dell’Eneide e
pronuncia i noti versi per Marcello, ma Vittorio non se li ricordava più e se en vergognò amaramente, tanto
che fece in modo di non incontrarlo più. La ruggine sul suo intelletto era così densa che non lesse più
Virgilio né altri libri per molti anni.
-Va poi da Papa Clemente XIII e prova ribrezzo per la prosternazione e il bacio dei piedi, di cui aveva
conosciuto il valore.
-Per mezzo del conte di Rivera, ottiene il terzo raggiro alla corte di Torino: il permesso di un secondo anno
di viaggi per vedere Francia, Inghilterra e Olanda. In questa occasione il suo curatore decide di concedergli
1500 zecchini: nonostante la cifra ridotta lo sbigottisca, decide di non rispondere per evitare ripensamenti,
ma opta per il risparmio di ciò che gli rimaneva dei 1200 zecchini iniziali.
-è questo il periodo della sordida avarizia, in cui intende addirittura non pagare vitto a Elia (poi si astiene
dal farlo). Nel viaggio verso Venezia paga un vetturino per ottenere un asino storpio per viaggiare: arrivato
a Loreto capisce che non può farcela e spende un capitale per ultimare il viaggio, sciogliendo la gelata
avarizia con la bollente indole. L’avarizia diventò così un giusto ordine senza spilorceria.
-Dopo essere passato da Ferrara, senza averne riconosciuto la patria di Ariosto, e dopo aver preso un
traghetto su cui c’erano delle ballerine di teatro arriva a Venezia: la città lo riempì di meraviglia e diletto,
anche per il gergo (forse per le commedie di Goldoni). Nonostante la quantità di teatri e i molti
divertimenti, l’insofferenza dello stare e la solita malinconia smorzarono le novità esaltanti che aveva
scoperto. Passava le giornate ruminando e dormendo e spesso piangendo senza motivo: capisce qualche
anno dopo che questo era un accesso periodico della primavera in cui cuore e mente si combinavano 
essere più o meno oziosi e vuoti; in inverno invece la fantasia e l’entusiasmo erano vive d’inverno e
d’estate. Queste scoperte su di sé hanno diminuito la vergogna del tanto male che ha fatto, essendosi
convinto che non era in sé il potere in quei tempi fare altrimenti.
-Durante il viaggio verso Venezia dice una cosa molto classica psichiatricamente: la compagnia che gli dava
più fastidio era quella con sé stesso. Di conseguenza sta male anche con gli altri. Anela alla malinconia,
che però impone solitudine, che porta quindi a un irrequietezza senza sfogo.
 
>Capitolo Quarto: fine del viaggio in Italia e mio primo arrivo a Parigi<
-Incalzato dalla smania del viaggio lascia Venezia, avendone visto nemmeno la decima parte e non
avendone cavato neppure il minimo frutto. Non apprende alcuna notizia sulla gestione politica della città, in
quanto turpemente vegetava.
-Giunge a Padova dove non conobbe nessuno dei grandi professori, il cui solo nome lo faceva rabbrividire;
nemmeno visitò la tomba del Petrarca lì vicino
-Incalzato dalla noia e dall’ozio passa a Vicenza, Verona, Mantova, Milano e poi Genova: in queste città
lascia lettere a gente che conosceva affinchè questi venissero a cercarlo, ma questo non accadeva quasi mai
perchè a meno che non lo venisse a cercare insistentemente lui lasciava la città: ciò accadeva sia per una
ragione di fierezza d’ineducato carattere sia perché non voleva vedere visi nuovi; avrebbe voluto vivere
sempre con la stessa gente nei vari posti.
-A Genova, sempre col suo atteggiamento selvatico e malinconico, incontra un banchiere che conosceva , il
quale lo invita, vedutolo senza libri e nell’ozio più totale, a conoscere un suo amico, Carlo Negroni, che
aveva passata gran parte della sua vita a Parigi.
-con lui parte alla volta di Antibo da Genova, ma una burrasca costringe la barca a riparare nel porto di
Savona: qui il desiderio di raggiungere la Francia e l’indigestione d’Italia lo inchiodano in una casa per due
giorni. Da Antibo passa poi a Tolone, che non apprezza sebbene la veda solo superficialmente; da Tolone
passa a Marsiglia che per le nuove e ben diritte strade e le proterve donzelle gli piacque molto.
-A Marsiglia va a stare in un albergo dove consumava i pasti in una tavola rotonda in cui non era obbligato a
parlare: ciò era un vantaggio per il suo animo taciturno e gli consentiva di ascoltare lungamente discorsi,
per lo più sciocchi, senza però stringere alcun rapporto.
-Una delle ragioni per cui desiderò maggiormente la Francia fu il teatro, di cui aveva visto una
rappresentazione di una compagnia francese a Torino. Nonostante apprezzasse le esibizioni, non gli passò
mai nell’animo il pensiero di comporre opere teatrali, ma si limitò ad ascoltare con attenzione; inoltre rivela
di apprezzare di più la commedia rispetto alla tragedia, sebbene la sua natura fosse più inclinata al riso: la
sua indifferenza per la tragedia risiedeva nel fatto che essa dava luogo a personaggi secondari che gli
raffreddavano la mente, interrompendo l’azione brutalmente. A ciò si aggiungeva un disgusto per la lingua
francese nella trivialità dei modi e nella nasalità dei suoni, sebbene gli attori fossero eccellenti rispetto agli
italiani incapaci: alla bontà di pensieri e affetti corrispondeva una freddezza insoddisfacente per Vittorio.
-Oltre al teatro, uno dei suoi divertimenti era il mare: lo guardava appoggiandosi a uno scoglio e fantastica,
dicendo che avrebbe composto poesie di fronte a quel paesaggio se solo avesse avuto l’abilità di scrivere in
rima e la lingua per farlo. Il mare era praticato da pirati, pescatori, non si andava per fare il bagno. Alfieri si
spoglia e prende il sole contro uno scoglio e vede solo il mare e il cielo.
 
>Capitolo Quinto: primo soggiorno a Parigi<
-Dopo una breve tappa a Lione giunge a Parigi, dove sosta per due settimane di mal tempo. Il più
fantasticato dei soggiorni è quello a Parigi, nel quale dopo molta fatica, vuole subito vedere la Sorbona e ne
rimane disgustato, perché vede un edificio modesto con una  strada fangosa: ecco perché si chiamava
Lutezia (città del fango)! L’umiltà e barbarie del fabbricato, il sudiciume e il goticismo delle chiese, la
vandalica struttura dei teatri e soprattutto le donne impiastrate e bruttissime concorrono alla disillusione di
Parigi; le bellezze come i giardini e il Louvre vengono annebbiati dalla quantità di brutture.
-A Parigi non ha incontri particolarmente rilevanti e allora si dà a passeggiate e teatri, sempre con un dolore
quasi continuo. Con l’arrivo dell’Ambasciatore di Sardegna, visita varie case e si dà al gioco d’azzardo, ma
non perdendo né vincendo molto finisce per tediarsi. Lascia così una deludente Parigi alla volta di Londra,
smanioso di vedere cose nuove.
A Parigi quindi la sua impressione è di disinganno e miseria. Contraddizione: ha sofferto il provincialismo
torbido e piuttosto di cogliere il dialogo con giornali e grandi uomini, coglie solo elementi negativi, ovvero
fango, trucco e brutte case.
-1768: prima di partire per Parigi viene invitato dall’ambasciatore alla corte di Versailles per capo d’anno,
dove risiedeva il re Luigi XV, che aveva un contegno giovesco, con uno sprezzo nei confronti dei suoi
inferiori.
 
>Capitolo Sesto: viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo intoppo amoroso<
-parte per Londra in compagnia del cugino dell’Ambasciatore in Parigi, giovani di dodici anni più vecchio di
lui ma ignorante al pari suo, nonché grande amatore del mondo e poco conoscitore degli uomini. benché
non gradisse viaggiare in compagnia, l’accompagnamento di questo personaggio è molto gradito a Vittorio,
il quale – essendo egli molto innamorato di sé – parlava delle sue avventure e si lodava per aver
compiaciuto alle donne (era di bell’aspetto). La sera essi giocavano a scacchi e il tipo loquace lo batteva
sempre a causa di una particolare ottusità in tutti in giochi da parte di Vittorio.
-Da Calais salpano per l’Inghilterra e il clima rigidissimo piace a Vittorio, che si rallegrava per le cose
estreme. Apprezza moltissimo Londra per il benessere universale, la pulizia e perenne moto di denaro e
industria in tutto il territorio.
-Accoglie senza ritrosia l’affetto dell’Ambasciatore di Spagna, Principe di Masserano, appassionato di
Piemonte, che lo invita a veglie e festini: alla lunga Vittorio se ne tedia e finisce per fare il cocchiere,
scarrozzando per tutta Londra il suo compagno, a cui solo lasciava i trionfi amorosi.
-Il paese gli piace molto per l’armonia di cose diverse che miravano tutte al benessere pubblico; non aveva
un particolare simpatia per gli individui del posto, ma ne apprezzava le belle donne e l’equitativo governo,
di cui la libertà era figlia. La bontà del posto gli faceva scordare persino la spiacevolezza del clima.
-L’Olanda presenta le stesse cose che si ammirano in Inghilterra (ricchezza, pulizia, savie leggi, industrie),
ma in proporzione minore (Rivela che i due soli paesi ha sempre desiderato sono Inghilterra, ove la natura
l’arte ha trasfigurato e soggiogato la natura, e l’Italia, ove la natura è risorta a fare vendetta nei confronti
degli inoperosi governi). Nel suo soggiorno a l’Haja incappa nell’amore per una donna di modesta bellezza e
soave ingenuità, già sposata, e si persuade di non poter vivere senza di lei. Accanto a questo amore, Vittorio
aveva sviluppato un rapporto di amicizia con il Ministro del Portogallo, Don Iosè d’Acunha, uomo di ingegno
e originalità, la cui taciturnità lo aveva legato stretto al giovane. Con le conquiste di amante e amico,
riamato da entrambi, traboccava di gioia; all’amico chiedeva consigli e all’amata parlava dell’amico. L’amico
lo intima inoltre ad interrompere quella vita oziosa, sollecitandogli la lettura di prosatori e filosofi italiani,
tra cui Machiavelli, di cui Iosè gli fa avere una copia. Nota che il desiderio di studiare e di creare riceveva
impeto dall’incontro con l’amore, che ne invogliava l’applicazione mentale, in quanto gli pareva di poter
tributare all’oggetto amato i frutti del suo ingegno. Un giorno il marito della sua donna, ricchissimo, porta la
sua donna e Vittorio, verso cui non era geloso, in Svizzera; al ritorno da questa vacanza i due amanti si
devono dolorosamente lasciare perché lei sarebbe dovuta andare a trovare la madre. Dopo 10 dieci giorni
essi si rivedono a l’Haja, al termine dei quali ella è sollecitata dal marito a raggiungerlo, provocando in
Vittorio un dolore immenso. (Dopo la frequentazione, i due si danno appuntamento all’anno successivo;
Vittorio troverà una scusa per fuggirla: c’è qualcosa che non va nel sistema che regola illusione e delusione).
-la disperazione lo porta a desiderare la morte, tanto che tenta più volte il suicidio, non riuscendo però ad
eludere la sorveglianza dell’arguto Elia e del suo amico Iosè. Affoga in un dolore cupo e taciturno e non
intendeva esternarlo. Decide poi di tornare in Italia, abbandonando quella terra la cui vista gli pareva
ingratissima per questa profonda delusione; l’amico lo incoraggia a partire, essendo convinto che la
lontananza e il tempo siano le cure migliori. A Torino passa i giorni nella villa di sua sorella, avendo bisogno
di digerire la febbre in piena solitudine.
 
>Capitolo Settimo: rimpatriato per un mezz’anno mi do agli studj filosofici<
-Torna a Torino e fa delle letture, tra cui Rousseau, Montesquieu e Helvetius, perché traboccante di
malinconia amorosa e desideroso di applicare la mente in studi: non sa però da dove cominciare perché la
trascuratezza di quei sei anni di ozio l’avevano resa incapace di qualunque tipo di studio
-1769: stando in casa di sua sorella, legge e passeggia tutto il tempo: legge l’Eloisa di Rousseau (in cui trova
tanta affettazione di sentimento e freddezza di cuore, che non gli permettono di finirlo), l’Enriade e la
Pucelle di Voltaire (letti pochi perché insoddisfacenti), l’Esprit di Helvetius (sgradevole impressione), ma il
libro più bello sono le vite dei Grandi di Plutarco: cinque volte le rilesse con un tale trasporto di grida e
pianti che chi fosse stato a sentirlo nella camera vicina, lo avrebbe ritenuto un pazzo (lettura ad alta voce).
La lettura di Plutarco è una sferza che gli rende insopportabile l’angustia sabauda e gli fa venire voglia di
essere vissuto in un’altra epoca. Si mette poi a studiare il sistema planetario, più storicamente che
scientificamente. Tra queste dolci occupazioni, cresceva insieme la taciturnità, la malinconia e la nausea di
ogni comune divertimento.
-nel frattempo suo cognato lo sollecita a prendere moglie e fare su famiglia a Torino. Gli trova così una bella
ragazza erede di una famiglia ricca, verso cui Vittorio prova un’attrazione non tanto per la sua bellezza me
per la sua ricchezza, utile a fare una bella figura nel mondo. Tuttavia la ragazza, che da principio avrebbe
accettato Vittorio, fu invitata da una zia a prendere altro partito, un giovane signorotto, che godeva di un
certo favore presso il Duca di Savoia; oltre a ciò era di ottima indole e di amabile costumatezza, cose che lui
non possedeva e che gli costarono il rifiuto. Si ritiene poi fortunato di aver rifiutato questo finto amore,
accolto il quale non avrebbe avuto più ispirazione poetica: arrossisce quindi al solo pensiero di una scelta
fatta per denari a scapito del suo sentimento.
-Andato in fumo il progetto, si riaccende la voglia di viaggiare, in modo da esorcizzare quel vuoto colossale
che aveva dentro. Così, constatato di avere un ingente disponibilità economica presso il curatore, si dispone
a fare un secondo viaggio con maggiore spesa e maggiori comodi.
 
>Capitolo Ottavo: Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia<
-Ottenuto il permesso del Re, viene pervaso da una malinconia non fastidiosa e oziosa ma riflessiva e
dolcissima. Nel viaggio lo accompagnavano i Saggi di Montaigne, che lo dilettavano e lo istruivano, e
laddove incontrava un passo in latino andava direttamente a guardare le note interpretative e saltava a piè
pari poesie di letterati italiani per una primitiva ignoranza.
-Passa per la corte di Vienna e c’è la scena che ha bollato il povero Metastasio, il quale era stato chiamato a
Vienna come poeta ufficiale. Alfieri viene invitato dal Conte di Canale, uomo di cultura che faceva dei salotti
serali per leggere classici o greci o latini, alla corte di Vienna e vede Metastasio che avvicinandosi alla
sovrana le si inginocchia, con una ‘genuflessioncella’ (il suffisso svilisce in maniera poco decorosa). Questa
scena ad Alfieri, che sta ribollendo con immagini di virtù e libertà, pare il simbolo dell’avvilimento della
subordinazione della letteratura al potere: è l’emblema del poeta cortigiano, che prostituisce la propria
musa alla regina. Si audefinisce un pensatore rivoluzionario ed eversivo, “ed io giovanilmente
plutarchizzando”, “salavtico pensatore”. Metastasio verrà bastonato per motivi letterari anche più avanti
quando entrato nel cimento teatrale e con una lingua toscana fatta sua, Alfieri affronta il problema del tipo
di verso: cercava un modello autorevole che potesse ispirare densità e icasticità e questo modello lo trova
nell’Ossian del Cesarotti. Fa quindi i conti coi letterati che hanno scritto per il teatro dicendo che il modello
inservibile è quello del Metastasio, i cui versi sono brodosi, non duri e aspri come i suoi.
-Va poi  a Berlino per un mese, dove viene presentato al Re, verso cui prova indignazione e rabbia, a riprova
del suo disgusto verso la presenza di militari con le loro uniformi in giro per la città.
-Giunge a Copenaghen, che gli piace perché assomiglia all’Olanda e per la presenza di industrie e attività
commerciali alla realizzazione di un benessere comune, che non gli hanno fatto apprezzare le belle
costruzioni architettoniche.
-1770: parla in italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, il Conte Catanti di origine pisana, la cui
pronuncia toscana lo dilettava, paragondandola al piagnisteo nasale e gutturale del danese. Il Conte lo
invita a non trascurare la bella lingua italiana e allora Vittorio si mette a leggere alcuni libri italiani, tra cui i
Dialoghi di Pietro Aretino, che lo rapiscono per originalità e proprietà delle espressioni. Continua nel
frattempo la rilettura di Plutarco e di Montaigne.
-Parte poi per la Svezia, ove trova un ferocissimo inverno con neve e laghi ghiacciati. A Stoccolma la
carrozza viene adattata a slitta e lui può godere dello spettacolo di laghi, dirupi e selve trasportato sul
questo veloce mezzo. Rivela che benché non abbia mai letto l’Ossian, molte di quelle immagini gli si
destavano ruvidamente scolpite.
-La Svezia e i suoi abitanti gli vanno molto a genio perché emergeva una certa semilibertà, generata una
valida forma di governo, che lui non conobbe mai a fondo per pigrizia: rivela che capì in realtà che la
corruzione delle classi nobili e l’influenza di Francia e Russia non consentivano il radicamento della
concordia fra gli ordini né della durevole libertà
-In Svezia si mette a scendere giù dai dirupi con uno slittino, come i bambini, con furore, va giù come un
missile. Il paesaggio e lo stato della natura estrema gli fece venire voglio di comporre poeticamente, se solo
avesse avuto l’abilità…
 
>Capitolo Nono: proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra<
-va al porto di Grisselhamna e attende tre giorni prima di poter affrontare il mare, in quanto era ghiacciato.
Racconta poi dell’impresa dell’attraversamento del tratto di mare, frammentato in molte placche giacciate,
che vengono scansate con una lancia. La novità del viaggio lo diverte moltissimo.
-Da lì per capriccio e angoscia di tornare, procrastinando il rientro, va in Russia, verso Pietroburgo: in quella
stagione erano annullate le tenebre e si ritrova stanchissimo per non aver riposato. La fantasia e le
aspettative nei confronti della Russia vengono tradite dall’impatto con quel popolo di Tartari non Europei.
In particolare viene disgusto dalla regina autocratica Caterina II che, per il suo odio in astratto verso la
tirannide, Vittorio non vede di buon occhio. Ella era nota per essere la mandataria dell’uccisione di suo
marito e, volendo ridare al popolo i diritti dell’umanità che gli spettava, l’aveva ancora una volta ridotto in
schiavitù. A Pietroburgo recita la parte dell’anticonformista nel giudizio su Caterina II, considerata da
Voltaire una sovrana illuminata. Alfieri leggendo Plutarco si è creato una mitologia personale del tiranno a
tutti gli effetti: non vuole andare a corte perché la definisce autocratrice; è l’idea del tiranno in astratto che
lo rende intrattabile.
Per il disprezzo verso la condotta di questa popolazione, desiste dalla tappa a Mosca e torna sulla ricca città
di Danzica, bestemmiando oltre ai russi anche i prussiani.
-Dopo tre giorno di ricovero da un viaggio spiacevole in Berlino, parte per l’amata Inghilterra. Nel tragitto
passa per Gottinga, dove si imbatte in un asinello e, comparandosi a lui per ignoranza, rivela che avrebbe
voluto comporre una bizzarra poesia se lingua e penna lo avessero soccorso.
-Dopo essere passato per Colonia, torna a Spa, dove aveva passato del tempo due anni prima: trova che
quella realtà fosse adatta al suo umore perché univa rumore e solitudine, che consentono di vivere i festini
passando inosservato. Qui compra due cavalli, pranza in compagnia di forestieri e passa le serate a vedere
ballare donzelle.
-Prosegue a cavallo verso Liegi, dove un Ministro di Francia gli fa conoscere il Principe Vescovo di Liegi e
l’Abate di Stavelò, di cui visita le corti.
-giunge poi a l’Haja dall’amico Iosè, che lo vede migliorato e lo caldeggia con luminosi consigli, per due
mesi.
 
>Capitolo Decimo: secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra< 
-1777: Giunge Londra dopo 4 anni di viaggio e qui ha il secondo intoppo amoroso con una bella inglese: è
una novella di 5 pagine con intrigo amoroso in cui il marito scopre Alfieri, ma poi la diplomazia inglese
interviene per non creare scandali.
A Londra passa molto tempo in compagnia del Ministro di Napoli, Marchese Caraccioli, e l’Ambasciator di
Spagna, Principe di Masserano, presso la cui casa prendeva spesso ricovero ed incontrava la bella inglese,
già sposata. Essi si vedono segretamente all’Hyde Park, a teatro e Vittorio si crede realmente riamato dalla
donna, ma era preoccupato dalla non sicurezza di quegli appuntamenti. Il suo affetto per lei è tale da
credere che il distacco di sei mesi estivi nella casa di campagna sia intollerabile per lui. Le continue
imprudenze avevano suscitato dei sospetti nel marito che aveva accennato più volte a volerglielo fare
notare. Vive in questo stato per 5 mesi finché scoppia la bomba. Aveva sempre controllato le condizioni per
i loro incontri segreti, che erano tutte riuscite fino a quel momento. Mentre il marito era a dormire a
Londra, si avvicina a cavallo alla casa e, lasciatolo a un miglio di distanza, entra in casa, credendosi
inosservato. Tornato a Londra si distrae cavalcando un cavallo che aveva preso a Spa in compagnia di
Marchese Caraccioli: volendo dar prova della sua bravura, tenta di saltare una staccionata, ma colpisce la
sbarra e il cavallo cade; la giovanile superbia dura ben poco, infatti si accorge di un lacerante dolore alla
spalla sinistra, che si era slogata. Viene operato quindi da un chirurgo e gli viene prescritto il letto. Questo
infortunio non lo distoglie dal desiderio della sua donna, che decide di raggiungere la sera stessa la casa in
campagna sfruttando per un pezzo la carrozza. Cogliendo l’occasione dell’assenza del marito, vi entra
segretamente e ci sta fino all’alba seguente – assicurandosi di non essere stato visto. Dopo alcuni giorni
passati a letto, decide di andare al Teatro Italiano con il Principe Masserano con sua moglie. Durante la
recita, sente dal palchetto qualcuno che nomina il suo nome: è il marito dell’amante che, desideroso di
vendicare quell’adulterio, lo invita a un duello con la spada al Green Park. Vittorio rivela che, non potendolo
onoratamente provocare in precedenza, anelava ad incontrare quell’uomo perché sentiva gravare su di sé il
peso della colpa. Il marito gli dice che la moglie gli ha confessato dei due incontri e Vittorio nega
imperterrito. Allora parte lo scontro e Vittorio, spadaccino incapace e col braccio fuori fase, lo attacca
disordinatamente, desideroso più che mai di farsi ammazzare. “Egli non mi uccise perché non volle e io
non l’uccisi perché non seppi”(onestà di confessarsi graziato). Finalmente Vittorio subisce una ferita sul
braccio destro e, reputatosi soddisfatto, il marito abbassa l’arma e se ne va, solo dopo aver ricevuto il
merito da parte dell’avversario. Prende poi la decisione di rientrare a Teatro col braccio fasciato con un
fazzoletto, mentendo al Marchese di essersi dovuto assentare per un dialogo con un conoscente. Uscito da
teatro, si dirige verso la casa della cognata dell’amante, che era sempre stata dalla loro, e vi trova la donna
amata. Lei gli dice che il marito aveva scoperto gli incontri segreti grazie allo spionaggio di un suo familiare,
il quale aveva riferito l’aspetto dell’intruso al marito, che lo aveva quindi identificato. La gelosia inglese non
portò a invettive, minacce o querele, ma a un divorzio legittimo, per legge, e a una saturazione della sua
sete di vendetta nei confronti dell’uomo, in un confronto con la spada. A sentire le decisioni del marito, la
donna, preoccupata per la sorte di Vittorio, gli aveva mandato un messaggero con l’intento di metterlo in
guardia, ma l’impresa non va a buon fine e chi trova Vittorio è invece il marito. La donna nel frattempo,
sicura della morte di Vittorio, aveva raggiunto la casa della cognata. Dopo il racconto della moglie, Vittorio
capisce che avrebbe dovuto prendere il posto del marito che stava per compiere il divorzio e ne era
felicissimo: annuncia perciò l’imprevista conquista al Marchese Caraccioli va a letto sereno.
 
>Capitolo Undecimo: Disinganno orribile<
Elia, avendo incontrato il messaggero mandato dalla donna con la lettera, era subito uscito a cercare
Vittorio; va quindi a Teatro, ma gli viene detto che era uscito di lì appena 10 minuti prima. Elia sapeva del
suo amore e intuì cosa aspettava al suo padroncino: così si dirige alla casa del marito e lo trova in aspetto
molto turbato, il che fu per lui una garanzia dell’uccisione e aveva riferito il suo pensiero al Caraccioli. Nel
frattempo Vittorio era in casa della donna ed aveva ricevuto le congratulazioni del padre per il secondo
matrimonio. Notava però una nube di preoccupazione sul volto dell’amante: lei gli assicura che lo ama e
vuole vivere per sempre con lui, ma è convinta che lui non la prenderebbe mai per moglie. Questa
asserzione pare strana a Vittorio che, indagando, le cava informazioni circa questa perplessità: aveva amato
prima di lui un palafreniere che stava in casa di suo marito, lo stesso che aveva spiato le sue mosse presso
la casa in campagna. Per indurre il padrone al divorzio, aveva confessato al marito la sua pluriennale
relazione con la donna e che non valeva la pena continuare quel matrimonio. Vittorio annuncia alla donna
che le nozze non ci saranno e che purtroppo l’avrebbe amata se non fosse stato ancora tanto innamorato di
lei; ne rivela l’apprezzamento per la lealtà e il coraggio. Dopo il danno la beffa: vede su un giornale la
confessione del palafreniere al suo padrone, in cui compariva tutta la sua storia con la donna; capisce che la
perfida donna gli aveva confessato tutto dopo che il palafreniere aveva fatto l’annuncio sul quotidiano.
Torna quindi dalla donna e le rivela che non lo avrebbe mai più rivisto; si decide alla fine ella ad andare in
un monastero in Francia per un po’ di tempo, e Vittorio, fremendo e bestemmiando, si ritrova ad
accompagnarla: dopo un po’ la vergogna prevale sull’amore e la abbandona per sempre. Scopre poi che il
marito aveva proseguito il processo divorziale nel nome di Vittorio, senza neppure il suo intervento e che
aveva accordato il matrimonio di lei con il palafreniere: ecco in cosa consiste la gelosia degli inglesi; tuttavia
questo comportamento sgradevole però lo scampò da morte sicura e da una pena pecuniaria ingente che
lui stesso avrebbe potuto infliggerli legalemente. 
 
>Capitolo Duodecimo: ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e il ritorno in patria.<
-Lascia la burrascosa Inghilterra alla volta dell’Olanda dove rincontra l’amico D’Acunha, con cui condivide la
profondissima piaga. Per esorcizzare la malinconia si rimise in  viaggio verso la Spagna.
-Fa tappa a Parigi e prova lo stesso disgusto della prima volta, standoci un mese, ove avrebbe potuto
conoscere Rousseau tramite l’aggancio di un italiano: gli avrebbe senz’altro presentato la sua stima per il
suo carattere puro e per la condotta indipendente (molto più che per i libri, che lo avevano tediato assai),
ma la sua pigrizia ed orgoglio non si vuole piegare alla presentazione di un uomo superbo e bisbetico (dice
che se avesse ricevuto una scortesia gliene avrebbe restituite dieci). Invece che Rousseau, compra 36
volumi di poeti e prosatori italiani ma, non provando voglia o necessità di applicare la mente, non ne fa uso.
-Con questi scudi contro l’ozio, si avvia per la via di Perpignano verso Barcellona. Durante il viaggio piange e
cerca consolazione nei libri di Montaigne, la cui lettura spezzata gli dava senno e coraggio. Arrivato in città
compra subito due cavalli di razza che lo sollevano molto più di Montaigne. Soggiornando  a Barcellona si
diletta nella lettura di Don Quixote, venendogli facile apprendere la bellissima lingua spagnola.
Riprendendo il viaggio verso Madrid, scopre ancora una volta che l’andare, massimo dei piaceri, lo tediava
molto meno dello stare, massimo degli sforzi, avendo lui un’inquieta indole. Mentre Elia prosegue in
carrozza un po’ più avanti di lui in cerca di selvaggina, Vittorio cammina al fianco di un bell’andaluso con cui
discorre piacevolmente. Egli rivela che in queste solitudini avrebbe versato molti versi in cui esprimeva
affetti e riflessioni malinconiche, ma la non-abilità linguistica e stilistica glielo impediva. Gli viene spesso da
piangere e da ridere allo stesso tempo: “queste due cose se non seguitate da nessuno scritto, sono tenute
mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono”. Non possedendo nessuna
lingua, non poté esprimere ciò che gli ribolliva dentro, ma si accontentava di ruminare fra se stesso. Questo
infervoramento mentale se produce un testo fa di te un poeta, se si limita a essere un parlottio interiore,
che porta a pianto o riso, fa di te un mentecatto.
-A Madrid si annoia e non conosce nessuno a parte un orologiaio, pieno di ingegno naturale, che si mostra
addolorato per tutte le barbarie che ingombrano la sua patria. Una sera capita un fatto assurdo: era al
ristorante con questo giovane e dopo cena Elia accorre per sciogliergli i capelli, come al solito prima di
andare a letto, ma nello stringere gli tira una ciocca di capelli; questo fastidio estremo porta Vittorio a
rovesciare un candelabro sulla tempia del cameriere il cui sangue raggiunge il giovane, il quale, credendolo
impazzito, gli salta subito addosso come per tenerlo; nello stesso tempo Elia offeso gli salta addosso per
picchiarlo. Vittorio agilmente si leva e prende la sua spada per difendersi, andando a inscenare una zuffa
tragicomica e scandalosa. Riappacificati gli animi, lo spagnolo capisce che il nuovo amico non è apposto e
Vittorio dice ad Elia che avrebbe fatto bene ad ammazzarlo.
-Dopo aver vissuto da orso in quel di Madrid, dove non vede moltissimi edifici della città, ragiona basilare è
quella che il suo amico di Madrid, l’Ambasciator di Sardegna, non gli andava a genio, raggiunge Lisbona la
vigilia di Natale e vi sta per 5 settimane: lo spettacolo della città lo rapisce veramente per il suo aspetto
teatrale e magnifico quasi quanto quello di Genova. Lo squallore e la tristezza che emersero poi dalle
strade, vessate dal terremoto, però scemò lo splendore della ripa.
-1772: a Lisbona conosce il Ministro in Portogallo, Conte Valperga di Masino, e suo fratello minore Abate
Tommaso di Caluso. Il conte, di ottimi costumi e dottrina, gli rende delizioso il soggiorno, tanto che
piuttosto che andare alle feste preferisce stare da solo con lui; con lui imparava sempre qualcosa e non gli
faceva pesare la sua ignoranza estrema, nonostante il divario di conoscenze tra i due: questo fu clamoroso
perché nulla era minore in lui dell’orgoglio se non l’ignoranza. È proprio in una di queste serate che Vittorio
inizia ad apprezzare arte e poesia, ma questo entusiasmo dura ben poco. Sebbene Vittorio non credesse in
un suo futuro in campo poetico, c’era gente come l’Abate che lo continuava a persuadere che fosse fatto
per quello. La compagnia di quest’uomo aveva risvegliato in lui l’animo turbato e lo riportò alla lettura.
-Lasciata poi Lisbona, di cui apprezzò soprattutto le donne, viaggia verso Siviglia, di cui apprezza il bel clima
e la faccia tipicamente spagnola che presentava questa città. Afferma poi che Spagna e Portogallo sono le
uniche nazioni in cui i costumi tradizionali si conservano anche nel ceto medio e basso
-Va poi a Cadice dove segue la celebrazione del carnevale, ma ne rimane amareggiato. Riparte poi sulla
strada verso Torino e i soli luoghi che gli danno soddisfazione sulla strada sono Cordova e Valenza, che
visita in primavera, tiepida e deliziosa: le limpide acque azzurre, l’azzurro bellissimo del cielo e
un’atmosfera amorosa, testimoniata anche dalla presenza di donne da occhi stupendi, gli danno
l’impressione di trovarsi in un paese favoloso.
-durante il lungo tragitto si separa dai suoi due bei cavalli, le cui condizioni erano peggiorate: il primo lo dà
alle figlie di un’ostessa, raccomandandole di rivenderlo a buon prezzo, il secondo lo regalo a un conoscente
francese, banchiere, domiciliato a Barcellona. Riceve poi una delusione economica a Montpellier,
barattando i denari spagnoli con una cambiale, da convertire in denari francesi, ricavandone una miseria:
questo confermò la sua pessima reputazione dei banchieri.
-Passa per Genova, sosta per tre giorni da sua madre in Asti e arriva strapazzato dopo due mesi di viaggio a
Torino mal ridotto.
[Torna in Piemonte con un corteo di cavalli: vedendola così è una vicenda che ricorda certi scompensi tra
realtà e fantasia in Cervantes con don Chisciotte. Ennesimo rimpianto delle occasioni perdute: questi viaggi
potrebbero essere di estroversione per paesaggi e luoghi nuovi che visita, ma sono di introversione perché
li fa da solo.]
 
>Capitolo Decimoterzo: poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di
poesia<
-Rimpatriato, si accorge che gli si erano allargate le idee sul mondo, tanto che quando il cognato gli chiede
se avesse voluto compiere impegni diplomatici (per la seconda volta), Vittorio risponde negativamente, non
volendo rappresentare nemmeno il più grande dei re, mantenendo invece integra la sua indipendenza con
una lodevole occupazione. Si considera: ricco, libero, esperto delle cose morali e politiche e pensatore (per
quanto comportasse la sua età).
-1773: si pone a far vita di lusso e gusto con gli amici, i vecchi compagni d’Accademia e quelli della gioventù:
in una dozzina vengono a costituire una società permanente con regole di ammissione e votazioni, ovvero
la Libera Muratoreria (Massoneria). Si trovano insieme a divertirsi, cenando e ragionando di ogni cosa.
Questo gruppo, eterogeneo per temperamento e estrazione sociale, convivevano come in un’equilibrata
repubblica e si introducevano scritti che venivano letti dal presidente, anonimamente: questi erano
divertenti e bizzarri, tutti in francese, miste di filosofia e impertinenza (fa un componimento sul Giudizio
Universale in cui Dio interloquisce con le anime dell’uditorio). Questi saggi gli danno la speranza di poter
mettere per iscritto le proprie idee ed ha così un lampo confuso di desiderio, ma si rende conto di non
avere né materia né mezzi per generare effetti soddisfacenti. C’è quindi la lamentatio di Vittorio che ci dice
che non viveva più nell’ignoranza e sentiva la necessità di cavare qualcosa di nuovo dalla sua vita, sognando
di diventare un grande autore. Qualsiasi velleità veniva però assopita dalla libertà totale, dalle donne e dai
cavalli: tutte cose che generavano ozio.
-Vegetando in questa vita giovanile, incappa nel terzo tristo amore, con una certa Gabriella Faletti, da cui ne
esce con la convinzione che la vera passione da perseguire era quella del sapere e del fare, che lo distacca
dagli orrori della noia, della sazietà e soprattutto della disperazione. Vittorio prosegue il rapporto con lei un
po’ per fare scena di languore un po’ perché lei era disposta e lo riceveva nella camera da letto. La relazione
con questa donna era parecchio sconcia e lei, più grande di 10 anni, era davvero malfamata presso il
mondo galante. L’aveva conosciuta in Accademia e, dopo averla rivista dopo sei anni, riprendere l’amicizia:
benché non la amasse e non gli piacesse esteticamente si ingolfa di lei in modo tormentoso, dimenticando
cavalli e amici.
 
>Capitolo Decimoquarto: malattia e ravvedimento<
-Nel lungo tempo di questo amore, a causa di vergogna e dolore, la sua salute peggiora, che viene
diagnosticata come caso straordinario: vomitava continuamente e dopo 5 giorni di digiuno, grazie a un
bagno caldo e del siero, si riprende, ma lo stomaco rimane comunque danneggiato. Non vedendo una
soluzione da quel labirinto amoroso, desidera morire, tanto che un suo amico gli consiglia di confessare e
fare testamento e lui lo ascolta. “Bisogna veramente che l’uomo muoja perché altri possa appurare, ed ei
stesso, di lui il giusto valore”.
-1774: risorto dalla malattia, decide di sciogliersi dai lacci, oltre quelli amorosi, pure da quelli militari,
aborrendo lui quell’infame mestiere delle armi che aveva ricoperto per pochissimo: va dal colonnello e gli
dà le dimissioni che, seppur respinte per due settimane, vengono infine accettate.
-Passa i giorni annoiato e nella vergogna per la coscienza sporca, sfuggendo a ogni suo conoscente o amico.
Accade poi che un giorno la Faletti si ammala e lui la va a trovare, stando silenziosamente ai piedi del letto
pronto a servirla. Durante una di queste sedute, inizia a schiccherare una scena di un’opera teatrale, in cui
erano presenti Photino, una donna di nome Lachesi (una delle tre parche) e Cleopatra: si sorprende del
fatto che dopo sei anni in cui non aveva scritto una parola in italiano, gli sia venuta un’ispirazione del
genere; rivela che l’origine sia da attribuire all’arazzo che c’era nell’anticamera di quella signora, che
rappresentava Antonio e Cleopatra. Non solo non sa il toscano, ma non ha la minima idea di come si faccia
una tragedia: scrive la Cleopatra, non arrivando nemmeno alla fine, e la legge ad alta voce alla donna
-La signora guarisce dalla sua malattia. Vittorio si dimentica la sceneggiatura sul divano e sta tra quei cuscini
per circa un anno, come se venisse covata tra i sederi molle dei nobili starnazzanti (contrappasso).
-Trovandosi sempre più tediato e arrabbiato di fare quella vita serventesca, parte per Roma per vedere se
la lontananza lo guarirebbe da quella morbosa passione. Sfruttando una lite con la propria signora, si decide
a partire in segreto la mattina seguente, ma la donna viene a scoprirlo la sera stessa da qualcuno della casa.
Gli manda così una lettera e un ritratto, come d’usanza, e ciò lo fa tentennare sulla partenza: non fa in
tempo a raggiungere Novara che il dolore e la viltà gli stringono il cuore al punto che torna indietro. Per non
farsi vedere, onde evitare la figuraccia tra i compaesani, si ferma in un’osteria del sobborgo e lì scrive alla
signora chiedendole perdono per quella fuga; riceve quindi udienza dalla donna e un seguente vergognoso
perdono, promettendo di tornare a Torino entra 5 settimane. Ma, ripreso il cammino verso Milano, si sente
riassalito dalla vergogna della sua debolezza e arriva in città in uno stato compassionevole. Trova pace solo
nel moto e così riparte verso Parma, Firenze e Genova prima di ritornare a Torino (di notte, all’oscuro),
compiendo un viaggio di un anno in circa 18 giorni. Divenuto disprezzabile agli occhi degli amici che lo
canzonano e ai suoi, cade in avvilimento e malinconia che di lì a poco sarebbero scoppiati.
 
>Capitolo Decimoquinto: liberazione vera. Primo sonetto<
-1775: tornato dall’opera, insulso e tediosissimo divertimento italiano, con la Signora decide di rompere i
legami con questa persona per sempre. Capisce inoltre che sfuggirle non portava alcuna soluzione, si decide
a stare nella propria abitazione, che era proprio di fronte a quella della Faletti, e a guardarla passare e fare
cose, senza cedere al fascino di antiche rimembranze.
-Scrive poi a un suo amico di quella sua tragica situazione, cercando in lui approvazione – allegando alla
lettera una ciocca dei suoi capelli. Allora, isolato in questo modo e proibiti tutti i messaggi urlando e
ruggendo, passa 15 giorni in questa strana liberazione. Non lo giovava la lettura nemmeno del giornale; solo
il cavalcare da solo gli rinfrancava lo spirito.
-un giorno fantasticando elabora un sonetto che manda al dotto Padre Paciaudi, che lo aveva sempre
invitato a leggere testi italiani. proprio quest’uomo, ricordandosi che Vittorio aveva composto una tragedia
col titolo di Cleopatra, gli compra un libro con questo titolo e glielo manda. Vittorio la legge, la postilla e la
ritiene peggiore della sua per effetti e disegno generale. Nel frattempo Paciudi, per non farlo smarrire
d’animo, finge di apprezzare il suo sonetto e ciò gli permette di studiare i grandi poeti e giudicare pessima la
sua composizione.
-Riprende poi in mano la vecchia Cleopatra e intende farla rappresentare in teatro: prima però decide di
apporre correzioni e cambiamenti, consultando alcuni suoi amici che non avevano trascurato, come lui la
lingua italiana. La sua accademia si andava assomigliando a una semi accademia di letterati, ma essendo
Vittorio spesso indocile verso gli ammaestramenti, si disperava e annoiava gli altri. Tuttavia, nonostante
questo comportamento poco costruttivo, egli recuperava il suo intelletto, dimenticandosi di quella fiamma
indegna. Si faceva legare alla sedia da Elia, che nascondeva i lacci sotto il mantello, lasciando libere solo le
mani per scrivere e picchiarsi; il servo poi lo scioglieva quando avvertiva che era passato quell’accesso di
furiosa imbecillità.
-In occasione del Carnevale, si veste da Apollo e compone delle colascionate (versi triviali). In queste
trovate buffonesche si accresceva il suo amore per la gloria.
-Butta il manoscritto iniziale e scrive una nuova Cleopatra meno ambiziosa della prima, più snella (goffo
raddrizzamento). Dopo alcuni mesi di consulti poetici riesce a comporre 5 atti del Cleopatra Tragedia (prima
tragedia pubblicata, a 26 anni: lentissimi progressi e triviali studi), mandando il primo atto a padre Paciaudi
e correggendo, seguendo le indicazioni del dotto; stessa procedura segue la corrispondenza col suo
coetaneo Conte Agostino Tana, esperto di filosofia e grammatica.
-Aggiunge poi una farsetta, intitolata I Poeti in prosa: “né la tragedia né la farsetta erano le sciocchezze di
uno sciocco, ma un qualche lampo e sale qua e là in tutte e due traluceva”. Confrontando la sua Cleopatra
con tragedie di poeti rivali, ammette che le tragedie di costoro erano state il parto maturo di una incapacità
erudita, e la sua era un parto affrettato di una ignoranza loquace.
-queste due composizioni furono recitate con applauso per due sere consecutive e alla terza richiesta,
essendosi pentito dell’esposizione al pubblico, si mette d’accordo con gli attori per impedirne la
rappresentazione. Alfieri prova imbarazzo e vergogna perché essa non sostiene l’esame del palcoscenico,
ma il fatto di essersi calato nei panni del vero drammaturgo gli mette addosso una fede performativa, per
cui vuole continuare a respirare quel mondo. “da quella fatal serata mi entrò in ogni vena un sì fatto
bollore e furore di conseguire un giorno meritatamente una palma teatrale, che non mai febbre alcuna di
amore mi avea con tanta imperiosità assalito”. Questa prima rappresentazione segna il suo ingresso
ufficiale sulla scena e quindi l’età adulta, che biologicamente sarebbe già iniziata prima dei 26 anni, ma
viene fatta decorrere dal ‘75.
 
LEZIONE 13 (25/10/18)
EPOCA QUARTA: VIRILITÀ. Abbraccia trenta e più anni di composizioni, traduzioni e studi diversi.

Capitolo Primo: Ideate, e stese in prosa francese le due prime tragedie, il  Filippo  e il  Polinice. Intanto un
diluvio di pessime rime 

- 1775 (ha 27 anni): inizia a diventare un autore tragico. Questi sono i suoi patrimoni: 

 animo risoluto, ostinatissimo e indomito


 affetti: amore e tutte le sue furie
 rabbia feroce contro ogni tirannide 
 debole memoria delle tragedie francesi viste nel passato, ma mai lette o meditate
 ignoranza delle regole dell’arte tragica
 mancanza di abilità nello scrivere bene e nel padroneggiare la sua lingua
 grade presunzione che non gli permetteva di conoscere e investigare la verità. 
- Così come primo proposito si impone di studiare da capo la grammatica italiana e conseguentemente
tutto quel che serve per saper scrivere correttamente e con arte. E fu una cosa assai dolorosa e mortificante
il fatto di ricominciare a studiare come un ragazzo mentre pensava e sentiva già da uomo. 

- Poi grazie alla recita di Cleopatra  aveva aperto gli occhi non tanto sul tema, ma sull’immensità dello spazio
che avrebbe dovuto percorrere all’indietro prima di poter diventare un vero tragediografo. 

- Fece così un solenne giuramento: che si sarebbe impegnato fino in fondo per imparare la lingua italiana
come un uomo d’Italia. 
- In questo anno, 1775, scrive le sue prime tragedie: Filippo e Polinice (tra Marzo e Maggio): fatte in prosa
francese. C’era bisogno di una lunga e difficile via per tramutarsi in poesia italiana. Preferì il francese non
tanto perché lo sapesse meglio o perché lo preferisse, ma perché avendo parlatolo per molto tempo si
riusciva a spiegare meglio in quella lingua. 

- Così leggeva tanti testi italiani per ‘invasarsi’ dei modi toscani. L’avere pronte però quelle due tragedie gli
faceva prestare più attenzione anche ai testi più anti-tragici. E la messa in scena della Cleopatra (che
avvenne in quello stesso anno) mi sembrava sempre più una critica all’opera stessa. 

- Da quel luglio in poi non volle più proferire alcuna parola in quella lingua e non volle neanche più
mantenere i rapporti con i quali comunicava in francese. Inoltre tentava di tradurre in versi ogni pensiero
che faceva. Così scrisse alcune ‘rimerie’ (perché chiamarle poesie è troppo) tra le quali una fu cantata ad un
banchetto di muratori e tentò di rispettare, ma senza successo la regola delle terzine. 

- Poi si rifugiò nelle montagne del Piemonte, nel paesino di Cézanne. Lì vi era anche l’abate Aillaud, pieno
d’ingegno e con cultura di letteratura latina e francese. Già in gioventù si erano conosciuti e l’abate aveva
cercato di farlo appassionare alle lettere leggendogli tragedie di Racine, ma senza troppo successo. 

- Furono molto preziosi quei momenti in cui si raccoglieva in se stesso e faceva lavorare efficacemente
l’intelletto. 
- Tradusse quindi in prosa il Filippo e il Polinice ma rimasero sempre molto anfibie perché a metà fra una
lingua e l’altra. Anche poi nel rifare la terza Cleopatra sempre nella versione francese il suo maestro tragico
il Conte Agostino Tana gli disse che era molto bella, ma quando la tradusse in versacci italiani disse che
aveva perso tutto il suo vigore. Infatti “In ogni poesia il vestito fa la metà del corpo ed in alcune l’abito fa
tutto”. 

- Ebbe grande riconoscenza per i suoi due grandi maestri: padre Paciaudi e Conte Tana. Lo aiutarono infatti
nella difficoltosa battaglia di “dar sempre la caccia alle parole e forme francesi e di spogliare le sue idee per
rivestirle sotto un’altro aspetto”. 

- Poi decise di leggere e studiare i Poeti primari italiani, postillandoli tutti a margine. Partì con Dante ma gli
risultò troppo difficile, quindi ricominciò col Tasso della Gerusalemme, poi l’Ariosto del Furioso, Dante
senza commenti e Petrarca, postillandoli tutti e ci impiegò un anno circa. Fu quasi più un’indigestione che
uno studio a tutto tondo, ma gli permise di prepararlo bene per poi apprezzarli meglio in un secondo
momento. 

- Era anche importante che leggesse opere in versi sciolti, perché avrebbe scritto così e lesse lo Stazio del
Bentivoglio e l’Ossian del Cesarotti che lo colpirono molto e lo invasarono. Questi furono un ottimo modello
per il verso di dialogo. Tentò poi di leggere qualche tragedia italiana o tradotta dal francese ma non fu
colpito particolarmente da nessuna. Quindi non trovò mai nessuna tragedia decente scritta in italiano. 

- Il Paciaudi continuò a consigliargli libri e soprattutto anche molta prosa che è nutrice del verso. Un giorno
gli portò anche il Galateo del Casa (perché denso di ottimi toscanismi). Alfieri l’aveva già disprezzato da
ragazzo e appena lo riaperse, alla vista di ‘conciossiacosache’ a cui seguiva un periodo pomposo e poco
sugoso si incollerì e lanciò dalla finestra il libro. 

Capitolo Secondo: rimessomi sotto il pedagogo a spiegare Orazio. Primo viaggio letterario in Toscana. 

1776: da più di sei mesi era ormai immerso nello studio dell’italiano, ma si rese conto che non
comprendeva più il latino ed infatti quando arrivava a delle citazioni, anche le più brevi era costretto a
saltarle. Quindi non potendo più leggere in francese, e non essendoci opere italiane degne, Alfieri non
poteva più leggere testi tragici. Quindi per poter leggere le tragedie di Seneca decise di prendersi un ottimo
pedagogo che all’inizio gli fece leggere Fedro, ma poi ritenne più utile partire da Orazio, perché dal difficile
sarebbe poi passato al facile, perché così il resto sarebbe stato in discesa. Ed infatti partendo da Orazio con
molta difficoltà, sbagliando molte volte, ma riuscì a tradurre tutte le Odi in tre mesi. I questo modo inoltre
riuscì a studiare la grammatica grazie alla poesia.

Continuò a studiare gli autori italiani: Poliziano, della Casa, ricominciò inoltre a leggere da capo i primari. 

Tradusse quindi in versi per la prima volta il Filippo, ma risultò languida, prolissa, fastidiosa e triviale, annoiò
sia il pubblico sia l’autore. 

Così decise di andare in Toscana, perché pensava che quella fiacchezza di stile fosse più dovuta alla sua
penna che non alla sua mente, per abituarmi a parlare, udire e pesare in toscano. L’intento era di star 6
mesi ma vi rimase di più. Andò anche a Parma, Modena e Bologna dove grazie al Paciaudi conobbe uomini
importanti nel mondo delle lettere fra cui anche lo stampatore Bodoni. 

Intanto Alfieri stava conoscendo e pesando le sue facoltà intellettuali, e per far ciò teneva un diario, in cui vi
scriveva anche i pensieri e le motivazioni intime che lo facevano operare e parlare. Era iniziato in francese e
poi lo continuò in italiano. 

Arrivò a Pisa e lì conobbe i più celebri professori e cavò da loro tutto ciò che era più utile per la sua arte.
Non era mai troppo preoccupato per la sua ignoranza perché era convinto che per far tragedie la prima
cosa richiesta è il ‘forte sentire’, che non si impara, mentre gli restava solo da imparare l’arte di far sentire
agli altri quello che lui aveva sentito. 

A Pisa ideò in prosa l’Antigone e verseggiò il Polinice. Fece leggere ai professori dell’università quest’ultima
e si mostrarono soddisfatti e avevano definito fluido e sonante quello che secondo lo stesso Alfieri era
languido e triviale. Mentre alcuni pezzi riconoscevano fosse scorretta. 

Tradusse anche la Poetica di Orazio in prosa. Lesse le tragedie Seneca. 

Problema del verso: nella letteratura italiana esiste praticamente solo l’endecasillabo per ogni
componimento eroico quindi Alfieri sosteneva che bisognava creare una giacitura di parole, un suono e un
fraseggiare che distinguesse il verso sciolto tragico da quello sciolto e rimato eroico e lirico. Trovò
differenza fra i giambi di Seneca che vuole stupire e atterrire l’uditore, e Virgilio invece che vuole dilettare e
rapire il lettore. Quindi un autore tragico italiano non dovrà mettere in bocca ai suoi personaggi dei versi
che assomiglino nel suono a quelli epici come ad esempio di Tasso. Quindi Alfieri convinto della differenza
di questi due stili dava poco retta ai professori pisani riguardo allo stile e all’arte drammatica, ma li
ascoltava sulla purità toscanesca e grammaticale. 

In questo anno possedeva già tre altre tragedie. Fonti:

1. Filippo, si ispirò al romanzo di Don Carlos di San Reale


2. Polinice, ispirato ai Fratelli nemici del Racine
3. Antigone, ispirata al 12esimo libro di Stazio. Più con influenze dal Racine e dai Sette Prodi di
Eschilo. 
Alfieri infine riteneva che il leggere troppe tragedie prima di comporre fosse un errore, perché faceva
perdere l’originalità. Infatti aveva smesso di leggere Shakespeare. 

Stese immediatamente dopo l’Antigone anche l’Agamennone e l’Oreste, che non gli parevano un furto da


Seneca.

Andò poi a Firenze per tutto Settembre e conversò tutto il tempo coi Fiorentini di modo che pian piano
iniziò a pensare esclusivamente in quella lingua. 

A Firenze verseggiò per una seconda volta il Filippo, ma i progressi gli parevano lentissimi. 
Non aveva lì dei maestri come il Paciaudi e il Tana, ma nonostante ciò il pessimo esito delle sue rime non lo
scoraggiò, anzi lo convinse che l’impararne a memoria e continuare a leggerne lo avrebbe aiutato a
saturarlo di forme poetiche. 

Capitolo Terzo: ostinazione negli studj più ingrati.

A ottobre tornò a Torino, non perché ritenesse di essersi ‘intoscanito’ abbastanza, ma per diversi motivi fra
cui la cura dei suoi cavalli. Continuò a studiare intensamente e si appassionò molto a Sallustio tanto che
decise di tradurlo. 

Intanto era tornato l’Abate Tommaso di Caluso dal Portogallo che spronò Alfieri alla letteratura facendogli
conoscere tanti altri maestri.

Fine 1776: portò dal Tana un sonetto sul tema del ratto di Ganimede (ispirato al ratto di Proserpina di
Cassiani) che lodò moltissimo, ed era da un anno che Alfieri gli portava rime pessime e lui continuava a
spronarlo. Alfieri contentissimo di quelle lodi ne scrisse altri due simili anche di temi. Da questi poi
scaturirono molti altri sonetti, spesso amorosi anche se non dettati da un amore particolare. Così fece degli
evidenti progressi nel rimare. 

In ogni caso l’unico scopo era formarsi uno stile ottimo per la tragedia. 

Nell’aprile 1777 verseggiò l’Antigone. Ma quando la lesse in una società letteraria si rese conto che lo stile
era ancora molto lontano da quello che aveva studiato intensamente. Mentre la tragedia in quanto affetti e
condotta fosse buona, le mancava lo stile, che non permetteva di esprimere tutte le situazioni.  
Quindi decise di ritornare in Toscana. 

Capitolo Quarto: secondo viaggio letterario in Toscana, macchiato di stolida pompa cavallina. Amicizia
contratta col Gandellini. Lavori fatti o ideati in Siena. 

- Inizio Maggio 1777: parte verso la toscana, deve chiedere il permesso al re del regno di Piemonte e glielo
concede, e portò con sé otto cavalli e più gente, perché voleva essere poeta e signore. Fece passare da
Lerici e Sarzana i cavalli, mentre lui andò per mare, ma ci fu il vento contrario quindi attese 8 giorni a
Sarzana senza la sua roba, quindi l’unica cosa che riuscì a leggere fu Tito Livio che lo appassionò
moltissimo. 

- Metodo per scrivere le tragedie di Alfieri: ideare - stendere - verseggiare, sono questi i tre respiri. Utili
perché concedono tempo, necessario per ponderare il componimento:

1. Ideare: distribuire il soggetto in atti e scene; fissare il numero di personaggi; fare in due pagine
l’estratto scena per scena di quel che faranno e diranno
2. Stendere: riempire le scene con dialoghi in prosa, senza rifiutare neanche un pensiero; scrivere con
impeto senza badare allo stile
3. Verseggiare: porre in versi la prosa, molto tempo dopo la stesura di getto così da selezionare i
pensieri migliori e tradurli
 Limare: levare, mutare alla fine
Questo è il metodo che Alfieri osserva essere tipico del suo  scrivere a partire dal Filippo. 

E’ molto importante l’intervallo tra la seconda e terza fase perché riprendendo in mano dopo tanto tempo
il testo valutava se nella rilettura sentiva di nuovo affollarsi nel cuore e nella mente un’insieme di pensieri e
affetti di forza viva allora valeva la pena tradurlo in versi; altrimenti modificava il testo o addirittura a volte
gli capitò di buttare via il copione intero (un Carlo Primo, un Romeo e Giulietta che gettò nel fuoco). 
Con questo metodo le sue tragedie al di là dei tanti difetti, hanno come pregio il fattosi essere fatte di getto
e quindi ogni pensiero, parola e azione di ogni atto siano unite a quello precedente: vi è quindi molta unità.
Infatti stendendola getto, nella terza fase l’autore non deve far altro che “scegliere l’oro dal piombo”.

- Poi andò a Pisa (dove aveva lasciato una donna di cui si era innamorato e che doveva sposare ma che dato
che era tornato a Torino non aveva sposato) e poi Siena, dove conobbe 6/7 uomini dotati di grande
intelletto, fra cui Gori Gandellino che diventò suo grandissimo amico e che gli diede molti consigli sulla
scrittura. Quell’estate lavorò molto e dal Gori ebbe il pensiero di scrivere un’opera sulla Congiura de’
Pazzi e per questo lesse Machiavelli. Fu molto ispirato dal suo stile originalissimo e sugoso quindi scrisse la
tragedia, e scrisse anche i due libri della Tirannide, che furono uno sfogo della giovanile oppressione.
Nessun secondo fine o vendetta ispirò quella sua opera, ma forse solo il troppo sentire. 

Capitolo Quinto: degno amore mi allaccia finalmente per sempre. 

Concluso il ‘libercoletto’ della Tirannide, tornò ad occuparsi solo di tragedie. Quindi scrisse di
getto l’Agamennone, l’Oreste e la Virginia. Gli venne però un dubbio sull’Oreste: questa tragedia l’aveva
ideata l’anno prima a Pisa dopo aver letto il pessimo Agamennone di Seneca. Poi a Torino si era accorto che
Voltaire aveva scritto un’Oreste tragedia e Alfieri si indispose del fatto che già un altro moderno avesse
scritto la medesima sua tragedia. Così a Siena quando stava per stendere l’Oreste chiese all’amico Gori se
gli conveniva leggere la tragedia di Voltaire per confrontarsi, ma il Gori gli suggerì di scriverla senza leggere
prima l’altra perché solo così non avrebbe rischiato di plagiarla, ma sarebbe stato un prodotto
completamente suo. Da allora in poi questo divenne il suo sistema. 
Quel soggiorno a Siena fu un ‘balsamo’ per il suo intelletto e il suo animo; lesse Giovenale; poi si trasferì a
Firenze dove conobbe Luisa di Stolberg-Gerden (che si era sposata nel 1772 con il conte d’Albany
pretendente al trono d’Inghilterra, e che convisse con Alfieri dal 1784 fino alla morte e fu erede di tutti i
suoi averi e carte): lei fu la sua “quarta ed ultima febbre del cuore”. La vide nei teatri e passeggi, ma non si
era mai accostato a lei fino a che un amico l’aveva convinto a presentargliela e lui vi si era trovato
totalmente preso. Nel dicembre intanto fece un breve viaggio a Roma per le poste a cavallo e lì scrisse il
Sonetto di Roma. 

Si rese conto però che questo suo ultimo amore era diverso dagli altri perché univa e stimolata sia cuore sia
intelletto. In lei quindi non trovò mai un’ostacolo alla gloria letteraria e un rimpicciolimento dei pensieri,
anzi fu sprone e conforto per ogni sua opera. 

Capitolo Sesto: donazione intera di tutto il mio alla sorella. Seconda avarizia. 

- 1778: si presenta il problema che i nobili feudatari piemontesi devono sempre chiedere la  licenza al
Re per uscire dallo Stato. Alfieri aveva sempre odiato queste pesanti e spiaciute catene della sua nativa
servitù. Quindi un primo problema era che doveva sempre con sotterfugi e richieste ottenere il permesso di
stare in toscana dove poteva scrivere liberamente, leggere gli autori che voleva. Il secondo grande
problema era quello dello stampare fuori. Infatti vi era una legge che diceva che qualunque autore che
volesse far stampare libri fuori dallo stato aveva avere la licenza del re; e l’altra legge imponeva a tutti i
vassalli di avere una licenza per lasciare lo stato. Quindi il problema era chiedere così tante licenze e quindi
alla fine Alfieri si trovò costretto a decidere se rimanere vassallo o diventare autore: scelse l’autore. Quindi,
dato che odiava i sotterfugi, decise di ‘disvassallarsi’ tramite un’intera donazione in vita di ogni suo stabile
sia infeudato sia libero a sua sorella Giulia (unica erede naturale). Così otteneva una pensione dal Piemonte
e soprattutto la possibilità di comprare l’indipendenza della sua opinione, la scelta del suo soggiorno e la
libertà di scrivere. Ci volle comunque molto tempo per sbrigare tutte le questioni pratiche anche perché ci
voleva sempre l’approvazione del Re (che doveva infiltrarsi anche negli affari più privati) e che poteva
decidere di non dare l’autorizzazione di concedere una pensione all’estero, ma il re d’allora era a
conoscenza della grandezza di Alfieri quindi fu ben contento di concedergliela. 

Non disse nulla prima di aver concluso il tutto alla sua donna per non farla preoccupare e anche perché non
voleva che glielo impedisse. E quando lei lo seppe lo biasimò ma non lo stimò mai meno. 

Poi chiese al su fidato Elia di vendere tutti i suoi mobili e argenteria e mandargli una cambiale coi soldi della
vendita, tardò molto ad arrivare e diffidò di Elia ma poi la ottenne. Intanto le pratiche per la
‘spiemontizzazione’ andavano per le lunghe. 

Pian piano quindi vendette quasi tutto, anche 4 cavalli, mentre gli altri 4 li regalò, e si restrinse al minimo
necessario tanto che si trovò donatore ma anche avaro. Infatti aveva diminuito anche la varietà di cibi. Però
in ogni caso continuò a comprare moltissimi libri.

Intanto le sue composizioni in quell’anno avevano risentito molto dei disturbi anti-letterari in cui si era
ingolfato. inoltre la sua donna parlava francese e lui contro la sua idea originaria tornò a parlarlo. Anche se
poi riuscì a insegnarle l’italiano e riuscirono a parlarlo fra di loro, mentre comunque nella sua casa parlava il
francese.

Capitolo Settimo: caldi studi in Firenze.

Aprile 1778: ha verseggiato la Virginia e quasi tutto l’Oreste. Poi aveva iniziato un poemetto in ottava rima:
l’Etruria vendicata sull’uccisione del Duca Alessandro da Lorenzo de Medici, perché era un fatto che gli era
piaciuto molto, ma non lo vedeva come una possibile tragedia, ma piuttosto come poema. Lo lavorava a
pezzi senza aver steso alcun abbozzo per esercitarsi a far rime (perché ormai con i versi sciolti delle tragedie
stava via via perdendo la capacità di rimare). Scriveva inoltre anche molte rime d’amore per la sua donna. 

1778:  distese con ‘febbre frenetica’ la tragedia de Pazzi e subito il don Garzia. Ideò e distribuì i capitoli dei
tre libri Del principe e delle Lettere. Ideò la Maria Stuarda, verseggiò l’Oreste. 

1779: fu molto angustiato dalla sua donna che aveva tanti dispiaceri domestici a causa del marito
oppressivo che non la faceva mai uscire se non con lui. 
Poi verseggiò la Congiura de’ Pazzi e il don Garzia; ideò la Rosmunda, l’Ottavia, il Timoleone; stese
la Rosmunda, Maria Stuarda. 

In mezzo a questo intenso lavoro letterario trovò soddisfatti anche gli affetti del cuore con l’amata donna e i
suoi due amici lontani che vennero a fargli visita: primo il Gori, e poi l’Abate di Caluso che stette un anno a
Firenze e con cui l’Alfieri passò molto del suo tempo ed imparo moltissime cose, molte più che se avesse
studiate un sacco di libri: apprezzò molto i versi di Virgilio. 

Intanto continuava il suo lavoro di perfezionamento dello stile che non lo convinse mai anche dopo le prime
stampe delle sue tragedie, solo dopo forse la stampa di Parigi. Apprezzò da Dante e Petrarca, la capacità di
rimare mentre da Virgilio, Cesaretti e se stesso l’arte del verso sciolto tragico. 

1780: verseggiò Maria Stuarda, stese l’Ottavia (frutto della lettura di Plutarco) e il Timoleone (frutto della


lettura di Tacito, riverseggiò per la terza volta il Filippo, che continuava a rimanere ricco di forme ibride dal
francese e forme impure. Verseggiò la Rosmunda e gran parte dell’Ottavia.

Capitolo Ottavo: accidente, per cui di nuovo rivedo Napoli, e Roma, dove mi fisso. 
La sua donna viveva ormai angustiatissima, perché vessata dal marito. Così Alfieri l’aiutò a liberarsi da
questo giogo e riuscì tramite richieste ai potenti raggirandoli, a salvare la sua donna da un irragionevole e
sempre ubriaco padrone, senza che fosse toccato l’onore e la dignità di nessuno. 

Un giorno lei e il marito andarono in un monastero a visitarlo ma con sorpresa di lui lei dovette rimanere lì
per ordine di chi regnava a Firenze così fu accettata la loro separazione. Lei poi fu mandata a Roma e Alfieri
sofferse molto quella separazione che non riusciva più a scrivere e a studiare, così decise di andare a
Napoli, perché per arrivarci passava da Roma.

1781: compra 4 cavalli. Non avendo più nessuno rimasto a Firenze, perché anche l’Abate Caluso era tornato
a Torino, partì e si diresse prima a Siena dal Gori e poi a Roma, dove rivide la sua amata che però era ancora
infelice, anche se meno di prima, perché era dietro le sbarre del convento. Per amore di lei fu provato
dall’umiliare il suo orgoglio davanti al cognato di lei che era l’unico garante della sua libertà.

Poi andò a Napoli e quel secondo distacco fu ancora più doloroso del primo da Firenze. Passò un periodo di
grande tristezza perché non riusciva a studiare e nemmeno a produrre versi o tragedie. Passeggiava esule
per le spiagge e campava di posta ricevuta, senza neanche essere colpito dalla bellezza dei posti in cui era
perché triste. 

In alcuni momenti però riuscì a finire di verseggiare l’Ottavia e riverseggiò più di metà Polinice. Era però
talmente triste che non riuscì neanche a scrivere il terzo canto del poemetto.

Intanto le vicende della sua amata stavano migliorando e a Marzo ottenne dal Papa di uscire dal monastero
e andò a vivere in un appartamento del cognato. Alfieri però non poté andar subito da lei nonostante
questa cosa lo turbasse molto. Resistette due mesi e poi a fine Maggio andò a Roma trascinato da Amore e
li si stabilizzerà. 

Capitolo Nono: studi ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime tragedie. 

Terminò di riverseggiare il Polinice, proseguì da capo l’Antigone e la Virginia e poi l’Agamennone e l’Oreste,


i Pazzi, il Garzia, il Timoleone che non era ancora stato messo in versi e poi per la quarta volta il Filippo.  Poi
dopo tanti versi sciolti si dedicò anche a scrivere il terzo canto delPoemetto. Compose poi le prime quattro
odi dell’America libera. 

1782: ha la speranza di poter concludere in quell’anno tante tragedie e pensava di non scriverne più di 12
ma di continuare a limare e sistemare quelle che stava finendo. 

Poi lesse la Merope di Maffei per impararne lo stile ma si arrabbiò moltissimo perché in Italia quella che era
ritenuta un’ottima tragedia in realtà era terribile. Quindi con uno slancio d’intensità decise di scriverne una
lui più semplice, calda e incalzante di quella. Così scrisse la sua Merope. Inoltre in quei mesi scrisse anche
il Saulle, ispirato dalla lettura della Bibbia che lo infiammò del molto poetico. Questa fu la tragedia 14 e lì si
fermò perché erano tantissime. All’inizio provava ribrezzo ad andare oltre il numero che si era prefissato e
all’inizio decise che non avrebbe verseggiato queste ultime due se non prima di concludere definitivamente
tutte le altre. Ma non gli servirono a nulla i suoi propositi perché non riusciva a tornare sulle prima se non
prima di finire queste ultime due: quindi nacquero Merope e Saulle più spontanee di tutte le altre. 

A settembre del 82 tutte 14 furono dettate, ricopiate e corrette. E anche limate, ma in realtà dopo poco
Alfieri si accorse che potevano essere ancora limite molto meglio. A ottobre quindi si riposò. 

Ha 34 anni e vuole avere la palma poetica. Lesse queste tragedie in varie società piene sia di uomini sia di
donne, sia di letterati sia d’idioti. Spesso quasi tutti lo lodavano, ma Alfieri dava poca importanza alle sole
lodi, perché gli interessava anche il biasimo. Quindi per interpretare se quei 12/15 ascoltatori, che si
possono accostare ad una platea, erano interessati o annoiati guardava le espressioni del volto e la loro
posizione sulla sedia. Infatti “non potendo l’ascoltatore né comandare al proprio suo viso, né inchiodarsi
direi in su la sedia il sedere, queste due parti indipendenti dell’uomo faranno giustissima spia al leggente
autore degli affetti e dei non affetti de’ suoi ascoltatori”. Quindi spesso gli sbadigli, i colpi di tosse e i sederi
mai fermi gli suggerivano una lettura delle reazioni degli ascoltatori. In ogni caso però gli furono dati molti
consigli da uomini letterati, uomini di mondo e dalle donne (per quanto riguarda gli affetti). 

Questo esporre così tragedie era per Alfieri un esporsi al ridicolo, ma non se ne pentì perché questo
sicuramente aveva portato beneficio alla sua arte. 

Capitolo Decimo: Recita dell’Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione
dolorosissima. Viaggio per la Lombardia. 

Alfieri decise di far recitare da una compagnia una sua tragedia. Scelse quella che recitava nel palazzo
dell’ambasciatore di Spagna che faceva commedie e tragedie tutte traduzioni non buone dal francese. Vi
era come attrice la duchessa Zagarolo, non molto brava ma bella e dignitosa di personale e soprattutto che
intendeva quel che diceva. 
Alfieri desiderava per le sue tragedie: la nuda semplicità dell’azione - pochissimi personaggi - verso rotto e
impossibile da cantilenare. 

Scelse l’Antigone  perché la riteneva una delle meno calde fra le sue e quindi se quella avrebbe avuto
successo allora sicuramente le altre sarebbero state sicuramente migliori. La proposta fu accettata dalla
compagnia, ma nessun attore si sentiva di far parti così importanti, quindi il Duca di Ceri, fratello della
duchessa interpretò Emone, l stesso Alfieri fece Creonte, la duchessa fece Antigone e la moglie del duca
fece Argia. Questa tragedia ebbe molto successo e Alfieri si insuperbì molto. 

1783: decide di stampare le sue tragedie e si rese conto di quanto sia scabroso questo passo. Infatti imparò
con l’esperienza le inimicizie e i raggiri letterari, le decisioni giornalistiche e tutte le cose terribili che
accompagnano la stampa di un libro. Decise di non stamparlo a Roma perché vi eran troppe restrizioni, ma
lo volle stampare a Siena dall’amico Gori, così gli mandò 4 tragedie tutte corrette su un manoscritto
pulitissimo, ma si rese conto che non era abbastanza. Poi pian piano gli tornarono tutte le tragedie
stampate bene grazie all’amico ma male a causa del tipografo (Vincenzo Pazzini Carli) e verseggiate
barbaramente dall’autore. Poi dovette andare in giro per le vie di Roma regalando le copie ben rilegate e
poi volle andare anche a presentarle al Papa. Lui le lodò molto e gli chiese se ne avrebbe fatte altre. Alfieri
disse che nel aveva già fatte molte altre fra cui Saul di tema religioso e che voleva intitolarle a lui. Il Papa
rifiutò orche non poteva accettare dediche di opere teatrali. Quindi Alfieri provò due mortificazioni: l’una
che avesse rifiutato, l’altra che Alfieri stesso voleva un segno di stima da un individuo che in realtà riteneva
di assai minor conto. 

Il vero motivo per cui fece quella visita al Papa era che da ormai un po’ di tempo sentiva pettegolezzi della
casa del cognato della sua donna perché non erano contenti dell’assidua frequenza di Alfieri alla casa di lei.
Quindi volle cercare un appoggio presso il sovrano di Roma. Comunque andarono avanti le lamentele sulla
frequenza di Alfieri presso la casa della sua donna e anche lui stesso era d’accordo con queste lamentele,
quindi appena tornò a Roma il cognato, dato che era andato a Firenze a causa di una grave malattia del
fratello, disse alla donna che interrompesse quel rapporto con Alfieri. Così lui prima di esser cacciato via
decise da solo di andarsene, e come scusa, che era anche la verità, disse che aveva troppo a cuore l’onore, il
decoro e la pace di quella donna e quindi si era allontanato per far cessare le chiacchiere. Così la sua
partenza fu approvata  dal Ministero e dal Papa. 
A Roma aveva vissuto una vita bella: era presso la villa Strozzi, la mattina studiava, a volte faceva delle
pause per cavalcare, poi la sera scendeva dall’amata. 

Partito da Roma andò a Siena, dove stette con l’amico Gori che lo aiutò tantissimo a non impazzire. Questa
separazione dalla sua dama fu infatti ancora più dolorosa. Ogni attitudine letteraria si stava estinguendo in
quel tempo, e anche le lettere di critica sulle sue tragedie gli interessavano ben poco allora. Tutte
concordavano nel biasimare quasi esclusivamente lo stile dicendo che era “durissimo, oscurissimo e
stravagantissimo senza pero individuare il come, il dove e il perché”. Gli importò comunque poco di quelle
censure perché aveva l’animo impegnato da altri pensieri. 

Dopo che stette a Siena andò a Venezia, il cavalcare fino a lì lo aiutò molto a rinsanire nella salute. Passò a
Bologna. Intanto assodata la pace tra Americani e Inglesi scrisse la quinta ode dell’America libera e concluse
quel poemetto.  Andò a Padova dove conobbe i Cesaretti e ne fu molto contento. Tornò a Bologna per
visitare la tomba di Ariosto. 

Riteneva infatti che quei 4 poeti fossero i primi e soli italiani. In oro vi era tutto quello che umanamente può
dare la poesia, eccetto il meccanismo del verso sciolto. Infatti diceva di essi “Mi riescono sempre nuovi,
sempre migliori nel loro ottimo, e direi anche utilissimi nel loro pessimo; che io non asserirò con cieco
fanatismo che tutti e quattro a luoghi non abbiano e il mediocre e il pessimo; dirò bensì che assai, ma assai
vi si può imparare anche dal loro cattivo”. 

Poi andò a Milano, poi andò a trovare l’Abate di Caluso, suo carissimo amico e da lì passò a salutare la
sorella a Torino ma passò solo per poche ore non volendo farsi vedere già così presto in quel luogo che
aveva abbandonato. Poi tornò a Milano e conobbe il Parini che gli diede qualche consiglio sullo stile. 

In quel lungo viaggio in Lombardia nessuno gli seppe mai dire che cosa fosse il difetto vero del suo stile così
dovette trovarselo da sé. 

Capitolo Undecimo: Seconda stampa di sei altre tragedie. Varie censure delle quattro stampate prima.
Risposta alla lettera del Calsabigi. 

Da Milano andò in Toscana e pensò di scrivere degli epigrammi. Rimase un po’ di giorni a Firenze e parlò coi
‘barbassori’ che gli fecero intendere che se prima di stampare le prime quattro tragedie le avesse fatte
correggere da loro le avrebbe scritte bene. Così gli consigliarono di cambiare le parole troppo antiquate, i
modi insoliti e troppo brevi e oscuri all’orecchio. Tornò a Siena e lì volle continuare a stampare la altre sue 6
tragedie e le fece uscire molto in fretta in due tomi. Imparò così a conoscere i censori dei manoscritti, i
revisori delle stampe, i compositori, i torcolieri ed i proti, di cui nella prima stampa si era occupato l’amico
Gori. Badò lui alla correzione delle prove, ma avendo l’animo oppresso non le emendò al meglio come farà
poi nella stampa di Parigi. Risultarono quindi più piatte delle prime 4. 
Quando stava per finire la stampa ricevette una lettera dal Casalbigi di Napoli (ammiratore di Metastasio e
iniziatore di una riforma del melodramma, fu considerato un’autorità del teatro). Nella lettera faceva un
acritica ragionata delle sue prime 4 tragedie, e così Alfieri gli rispose subito anche perché gli parve la sola
critica che uscisse da una mente critica, giusta e illuminata. 

A ottobre pubblicò il secondo volume e si preparò al terzo. 

Intanto voleva a tutti i costi rivedere la sua donna, ma non era una cosa realizzabile in quell’inverno quindi
decise di fare un viaggio in Inghilterra e Francia, così che almeno avrebbe potuto comprare tanti cavalli
inglesi. 

 
Capitolo Duodecimo: terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli. 

Metà ottobre 1783: lasciò Siena e si diresse verso la Francia, dove passò per diversi paesi fra cui la Valchiria
e lì compose molte rime e fu una delle giornate più beate e dolorose al tempo stesso. Spargendo lacrime
raccolse molte rime. Poi arrivò a Parigi per la terza volta e quella fogna gli fece la solita impressione di ira e
dolore. Intanto non ebbe contatti coi letterati francesi che erano quasi digiuni della letteratura italiana, e
conoscevano solo Metastasi. Inoltre Alfieri non voleva avere discorsi con loro perché non voleva riascoltare
quella loro terribile lingua. Quindi partì subito.

1784: arriva a Londra e lì compra molti cavalli e arriva a 14, stesso numero delle sue tragedie, quindi non
volle più comprarne o vederne altri. Con essi infatti gli ritornò l’impeto e il brio, nonostante gli costarono
molti soldi. Nei mesi in cui rimase in Inghilterra visse in un ozio molto vile e smise di leggere i poeti e di
scrivere rime. 

Poi nell’Aprile decise di tornare in Italia a Siena e fece un viaggio molto faticoso perché dovette portare
tutta la carovana dei suoi 14 cavalli con sé, e fu molto difficoltoso il trasporto soprattutto attraverso le alpi.
Si sporcarono molto ma ne valse la pena perché molti esperti gli facevano complimenti per la loro bellezza. 

Quindi Alfieri si accorse che quell’interruzione dallo studio giovò molto alla sua salute, ma lo rese
arrugginito sul sapere e senno, anche perché non scrisse quasi più niente in quei mesi. 

Capitolo Decimoterzo: breve soggiorno in Torino. Recita uditavi della Virginia. 

- A Torino fu molto felice di rivedere i vecchi amici e i luoghi dell’infanzia, anche se fu molto amareggiato
che molti gli voltavano le spalle e alcuni amici gli rivelarono perché lo trattavano così: alcuni perché si era
messo a scriver tragedie, altri perché aveva viaggiato tanto, altri ancora perché era arrivato con troppi
cavalli, piccolezze insomma scusabili se si conosce la natura dell’uomo. 

- Dovette per forza di cose presentarsi al Re che si era offeso per averlo tacitamente rinnegato con
l’espatriazione perpetua. Il suo cognato si propose di accompagnarlo. Prima fu ricevuto dal Ministro che lo
accolse quasi festeggiandolo e gli propose di riassestassi lì a Torino, ma alfieri disse ormai che voleva
tornare in Toscana per proseguire le sue stampe e i suoi studi, non tentò di dirgli che non gli interessava la
burocrazia piemontese perché non voleva aver beghe. Poi fu ricevuto dal Re, Vittorio Amedeo II,  che non
parlò di questa cosa ma lo ricevette con molta affabilità e cortesia, e Alfieri ammise che nonostante non
ami la figura del Re, quella dinastia sotto cui nacque era ottima. 

- Rimase a Torino giusto per salutare i parenti e l’amico Abate di Caluso che lo svegliò dal letargo letterario. 

- Lì assistette ad una recita pubblica della sua Virginia. L’aveva preparata un suo amico dell’Accademia già
prima che lui arrivasse a Torino e a quel punto gli aveva chiesto se poteva addestrare un po’ gli attori. Ma
Alfieri sapendo che erano attori mediocri non volle farsi complice della loro incapacità, quindi rifiutò di
aiutarli ma acconsentì solo ad assistere alla rappresentazione. Ottenne la stessa attenzione e lo stesso esito
della Cleopatra, ma da quel giorno Alfieri fu disingannato dalla gloria, perché ritenne che i giudizi degli
uomini presenti in Italia non vi era da attendersi una lode costruttiva né biasimo. Quindi patì morte alla
recita.

- Così partì da Torino, andò ad Asti dove salutò la madre e poi si diresse a Siena. Uscito dagli stati del re
sardo si sentì liberato dal giogo e poté finalmente respirare. 
Intanto voleva rivedere la sua donna che era riuscita ad uscire da Roma ma avendo la salute rovinata si
diresse in Svizzera a Tirolo. Alfieri fu tentato di seguirla, ma obbedì al dovere e andò a Siena dove trovò
conforto presso l’amico Gori. 
 

Capitolo Decimoquarto: Viaggio in Alsazia. Rivedo la Donna mia. Ideate tre nuove tragedie. Morte
inaspettata dell’amico Gori in Siena. 

- Arrivò a Siena e poi anche i 14 cavalli a cui unì il 15esimo che aveva lasciato lì. Per due mesi stesse senza
far nulla, solo curava i suoi cavalli e non scrisse rime. Concluse solo il terzo canto del Poemetto L’Etruria
vendicata, e cominciò il quarto, ma gli parve che le tante interruzioni che ebbe nella sua composizione
influirono sul tema totale dandogli un aspetto sconnesso. 

- Continuò a ricevere molte lettere che lo riempirono di speranza di rivedere la sua donna, quindi partì per
la Germania il 4 di agosto, senza sapere che non avrebbe più rivisto il suo amico Gori. Andò a Colmar, in
Alsazia e lì ritrovò la sua amata. Durante il cammino iniziò di nuovo a scrivere tantissime rime, e scrisse
anche un Capitolo delle rime per il Gori su come avrebbe dovuto curare i suoi cavalli. 

- Essendo molto felice ideò altre tre tragedie (nonostante dopo Saul aveva pensato di non scrivere più
nulla): Agide, Sofronisba e Mirra. Le prime due gli erano già venute in mente molte altre volte e le aveva
sempre cacciate, ma questa volta si erano ripresentate con così tanta forza nella sua fantasia che le stese di
getto. Per Mirra invece fu ispirato dalla lettura delle Metamorfosi di Ovidio e pianse molto dopo averla letta
quindi subito pensò di metterla in tragedia. Il suo intento era quello di far sì che lo spettatore scoprisse da
se stesso e a poco a poco tutte le tempeste del cuore infuocato dell’infelice e non colpevole Mirra, senza
che ella accennasse, non confessandolo a nessuno, al suo nefando amore. L’idea quindi era di operare
facendo quasi tacere Mirra. 

- Poi gli arrivò la lettera da Siena che lo avvisò della morte prima del fratello di Gori e poi dello stesso Gori di
cui fu immensamente addolorato; la vicinanza della sua amata lo aiutò a non disperarsi, ma poi dovette
tornare a Siena nei primi di novembre. Lì non riuscì a soggiornare quindi si spostò a Pisa. 

Capitolo Decimoquinto: Soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Traiano ed altre cose. 

1785: La sua Donna si spostò in Italia e arrivò a Bologna dove si fermò per l’inverno. Quindi Alfieri passò
altri cinque mesi senza vederla e soffrendo, e l’unico suo sollievo erano le lettere di lei, i cavalli e pochi libri.
Lesse subito le lettere di Plinio il Minore e lo dilettarono molto per la loro eleganza e le molte notizie su
cose e costumi romani. Poi lesse anche il Panegirico a Traiano e fu indignato da quella lettura e arrabbiato
scagliò via il libro dicendo che non era il modo di parlare di Traiano, così scrisse d’impeto senza riflettere
quattro pagine e rilettolo il giorno dopo e piaciutogli lo continuò a scrivere e lo concluse in quattro giorni
(dal 13 al 17 marzo). 

Questo lavoro gli riaccese l’intelletto, ma non riuscì a farsi spirare così intensamente da altro perché non
poteva scrivere a comando! Quindi riprese in mano la sua traduzione di Sallusti, ma non la migliorò.
Continuò quella prosa Del principe e delle Lettere. 

Gli arrivò una lettera dal Cesarotti di critica sulle ultime tre tragedie a cui Alfieri rispose ringraziandolo e
ribattendo sulle critiche. Inoltre gli chiese un modello per il  verso tragico, ma come la prima volta gli disse
che non vi erano modelli italiani ma aveva preso come modello la Semiramide e il Maometto di Voltaire. Poi
questa fu la lettera che pubblicò il giornale riguardo al suo terzo tomo. 

In quei mesi ricopiò le dieci tragedie stampate e vi appose molte mutazioni che pensava sufficiente, ma poi
si accorse quando le pubblicherà a Parigi che non erano per niente abbastanza. 
Intanto si divertì nelle varie feste dei paesi, sfoggiato i suoi bei cavalli di cui andava fiero anche perché
riceveva molti complimenti. Nel frattempo constatava con grande dolore che nella fetida e morta Italia era
più facile farsi riconoscere per i bei cavalli che non per le tragedie. 

Capitolo Decimosesto: secondo viaggio in Alsazia, dove mi fisso. Ideatavi, e stesi i due Bruti, e l’Abele. Studi
caldamente ripigliati. 

Intanto Luisa era andata a Parigi perché la Francia era l’unico posto dove poteva stabilirsi tranquillamente
perché aveva parenti, aderenze e interessi. Poi si spostò in Alsazia e lì i due si ricongiunsero. Alfieri portò
con sé anche tutti i suoi cavalli, poiché ormai non voleva più viverci in Italia (a Torino non voleva tornare,
Siena senza l’amico avrebbe sofferto troppo a restarci e Roma pure non poteva tornare). Poi però la sua
donna dovette tornare di nuovo a Parigi. In ogni caso erano ormai vicini e potevano vedersi senza intoppi
quindi ebbe molte speranze che gli rischiararono l’intelletto e scrisse tantissimo. Finì di stendere l’Agide,
stese anche la Sofonisba e la Mirra.

1786: Finì di stendere il secondo e terzo libro Del principe e delle Lettere, ideò e stese il dialogo Della virtù
sconosciuta, che era un tributo al Gori. Ideò, distese e verseggiò Abele. Poi decise di scrivere entrambi
i Bruti su sollecitazione della sua amata che in una lettera gli disse che aveva assistito ad un
rappresentazione del Bruto di Voltaire e che le era piaciuta moltissimo. Così Alfieri quasi per dispetto volle
scriverle per vedere se fossero meglio le sue o quelle francesi. Così arrivò a quota 19 tragedie e da lì non ne
scrisse veramente più. 

Poi si ammalò, dovette fare una dieta e riavutosi però poi fu addolorato dal non poter vedere più la sua
amata per più di tre mesi e quindi scrisse poco e lavorò male. Poi al riapparire della sua amata si riebbe e
andò con lei a Parigi. Quindi si trovò a fine anno ad aver verseggiato Agide, Sofonisba,Mirra, steso i
due Bruti e scritta la prima Satira: genere di cui aveva già ideato i soggetti a Firenze ma che non aveva
eseguito perché ancora scarso di lingua e di rima. Ma riavuto grazie alla sua donne scrisse moltissime rime. 

Capitolo Decimosettimo: viaggio a Parigi. Ritorno in Alsazia, dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa
di tutte le diciannove tragedie. Malattia fierissima in Alsazia, dove l’amico Caluso era venuto per passare
l’estate con noi. 

1787: dopo 14 mesi in Alsazia Alfieri va dalla sua donna a Parigi che odiava tantissimo, ma non vivendo per
se stesso si adattò. Inoltre odiava Parigi pochi non poteva imparare nulla per verseggiare perché non vi
erano letterati che sapessero la sua lingua. Inoltre i francesi vantavano il primato sull’arte tragica, ma
nonostante le sentenze fossero corrette, erano mal realizzate. 

Verseggiò il Bruto Primo, e per un incidente comico riverseggiò anche tutta la Sofonisba. Aveva infatti
voluto farla leggere ad un conoscente che aveva conosciuto a Torino, Ippolito Pindemonte, ma mentre
gliela leggeva fu assalito da una grande freddezza e arrivato a metà del terzo atto la gettò nel fuoco e la
fece bruciare. Infatti ritenne che quel soggetto di tragedia era sgradito e traditore, all’inizio tragico ma poi
svaniva. Poi passato un po’ di tempo rilesse la prosa e trovandovi ancora qualcosa di interessante ci lavorò
sopra di nuovo. 

Poi iniziò a pensare di voler stampare tutte le sue tragedie a Parigi, ma volle scegliere lo stampatore più
adatto. Fece correggere e stampare il Panegirico a Traiano in un mese e si accorse che quello stampatore
non era adatto. Così scelse Didot Maggiore esperto della lingua italiana e dal maggio 1787 iniziò il lavoro
che durò 3 anni. E questo fu un modo per inchiodarono a Parigi. 
Però tornò in Alsazia per l’estate perché l’amico Abate Caluso lo venne a trovare lì; gli portò una lettera
della madre che gli propose un matrimonio con una dama di Parigi, ma Alfieri ovviamente negò e poi
conversarono a lungo di letteratura, ma poi pochi giorni dopo Caluso si ruppe un polso e Alfieri fu ridotto in
fin di vita dalla dissenteria e stette molte settimane fermo. Poi guarì e fu importantissimo per le sue
tragedie perché per la loro stampa si fece un lavoro pratico assai lungo e tedioso di correzione e limatura
per darne il giusto colorito senza il quale sarebbero state assai in difetto. 

Capitolo Decimottavo: Soggiorno di tre e più anni in Parigi. Stampa di tutte le tragedie. Stampa nel tempo
stesso di molte altre opere in Kehl.

L’Abate Caluso dovette tornare in Italia per delle occupazioni, ma prima volle andare a Strasburgo e Alfieri,
nonostante ancora debole lo seguì per godere ancora della sua dotta compagnia, e con loro Luisa.
Andarono a vedere la famosa tipografia in Kehl del signor Beaumarchais, che aveva appena preso i caratteri
di Baskerville che piacquero tantissimo ad Alfieri. Decise quindi di stampare tutte le opere che non eran
tragedie in quella tipografia e subito lasciò le cinque odi chiamate l’America libera da stampare. Fu molto
piacevole lavorare coi proti di quella tipografia, infatti continuavano a mandargli correzioni e lui mutava e
rimutava in continuazione versi interi e questo lo stimolava ogni volta a fare meglio. 

Fu invece molto più faticoso lavorare per Didot i cui compositori e torcolieri gli facevano pagare a peso
d’oro ogni mutazione di parola. 

1788: Tornato a Parigi cercò una dimora stabile e ne trovò una molto lieta. Si portò dall’Alsazia tutti i cavalli
e ne cedette metà alla signora soprattutto per diminuirne la spesa e la divagazione. 

A Febbraio arrivò la notizia della morte del marito della signora e lei ne fu sinceramente dispiaciuta, infatti
sarebbe stata un’ottima moglie se lui non l’avesse estenuata con le sue continue acerbe e rozze maniere. 

1789: Continua la stampa delle tragedie, e arrivata al quarto volume Alfieri scrive il suo parere su tutte le
tragedie, che avrebbe poi inserito a fine edizione. A Kehl stampò le odi (l’America libera), il dialogo (La virtù
sconosciuta), l’Etruria e le Rime. 

Agosto 1789: terminato il sesto volume delle tragedie e a Kehl le due prose del Principe e delle Lettere e
della Tirannide. Poi volle ristampare col Didot anche il Panegirico e l’ode di Parigi Sbastigliato e terminò il
volumetto con la favoluccia Le mosche e le api. 

Capitolo Decimonono: principio dei tumulti di Francia, i quali turbandomi in più maniere di autore mi
trasformarono in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno. 

Da Aprile 1789, Alfieri aveva vissuto in molte angosce perché a Parigi vi erano molti tumulti dovuti alla
convocazione degli Stati Generali. Temeva quindi di non riuscire a terminare le sue edizioni, e quindi che
tutte le sue fatiche fossero state vane. Quindi lui si affrettava quanto più poteva, mentre gli artefici della
tipografia del Didot no, ma leggevano tante gazzette e leggi invece di comporre e correggere le stampe.
Arrivò finalmente quel giorno in cui le sue tragedie furono imballate e spedite in Italia e altrove.

Intanto però le cose a Parigi andavano sempre peggio:

1790: da un anno Alfieri osserva gli effetti dell’inesperienza della Francia che parla di tutto ma non conclude
mai nulla. Quindi vuole andarsene per sempre dalla Francia ma l’unico motivo per cui rimane è la sua
donna. Per cui in questi anni vegeta più che vive. 
Intanto riceve notizia che le sue tragedie stanno venendo molto e che piacciono. Riceve molte lodi, ma le
prende con le pinze perché sono dai suoi amici e non vi è una motivazione, non vi è un perché che invece
sarebbe molto utile per la sua arte. Quindi attende altre vere motivazioni sia di lode sia di biasimo.

Intanto delle sue opere stampate in Kehl pubblica solo l’America liberata e la Virtù sconosciuta, riservando
le altre a tempi meno burrascosi. Però le ha fatte stampare comunque tutte perché ritiene che chi lascia
manoscritti non lascia mai libri, mentre un libro può esistere solo se veramente stampato, riveduto e limato
sotto il torchio e dall’autore. 

Conclusione: Alfieri in questi anni storicamente burrascosi scrisse la sua vita perché: non aveva null’altro da
fare (dato che aveva ormai finito di scrivere e stampare tutte le sue opere, e quel lavoro di limatura durato
tre anni l’aveva sfiancato); aveva tristi presentimenti; riteneva che qualche cosa di degno di nota l’avesse
fatto. 

Chiude questa sua Vita a Parigi, a 41 anni  il giorno 27 Maggio 1790. 

Non la rileggerà più se non a 60 anni se ci arriverà, e, se avrà ancora giudizio, vi aggiungerà il conto di quegli
anni mancanti che sono gli anni sterili della sua quinta epoca: vecchiaia e rimbambimento. 

Se però nel frattempo morirà, Alfieri prega qualche benevolo nelle cui mani capiterà quest’opera di farne il
miglior uso che vorrà: potrà stamparlo così come Alfieri l’ha steso, ovvero con impeto di veracità, ma non
dovrà aggiungere nient’altro se non la data e luogo della sua morte. E l’unico rimpianto di Alfieri sarà
abbandonare la sua donna amata. Mentre se gli parrà troppo lungo lo potrà accorciare e modificarne lo
stile per renderlo più elegante, l’unica cosa è che non aggiungo altri fatti. 

Infine Alfieri dice che avrebbe potuto benissimo restringere il sugo della sua vita in due o tre paginette, ma
cosi avrebbe mostrato solo il suo ingegno, mentre così ha svelato più il suo cuore e i suoi costumi perché
dell’ingegno ha già dato prova nelle sue opere. 

Firenze 2 Maggio 1803 

[indica la trascrizione in redazione definitiva della prima parte della Vita, dove Alfieri aveva annotato
“Scritta da rivedersi e proseguirsi nel Febbraio 1799”; poi scrisse “Aperto il dì 4 marzo 1798”]

Parte Seconda: CONTINUAZIONE DELLA QUARTA EPOCA 

[Sotto questo titolo Alfieri ha segnato la data in cui incominciò a scrivere o meglio a trascrivere da appunti
volanti questa seconda parte della vita “A dì 4 maggio 1803”]

Proemietto.

Alfieri rilesse 13 anni dopo a Firenze tutto quello che aveva scritto a Parigi riguardo alla sua vita fino a 14
anni. Dopo aver ricopiato e ripulito tutto lo scritto, penso di continuare a scrivere degli anni passati
ritenendo che abbia fatto qualcosa che meriti di essere risaputa. Questa seconda fase sarà più breve perché
col passare degli anni le forze fisiche e morali scemano. E sarà anche l’ultima fase poiché a 55 anni è ormai
entrato nella fase della vecchiaia di cui ci sarà pochissimo da dire. 

Capitolo Vigesimo: Finita interamente la prima mandata delle stampe mi do a tradurre Virgilio e Terenzio; e
con qual fine il facessi. 

1790: Alfieri è a Parigi ozioso e angustiato così iniziò a tradurre degli squarci di Eneide e trovandolo molto
utile e dilettevole lo ricominciò da capo. Poi tradusse anche il Terenzio da capo, e volle iniziare a creare un
verso comico per poi scrivere delle commedie tutte sue. Poi continuò a studiare e leggere Orazio, Virgilio,
Giovenale, e di nuovo Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso. Così si inculcò migliaia di versi in testa facendolo
isterilire e queste occupazioni non gli fecero scrivere quelle tramelogedie che aveva pensato dopo la prima,
l’Abele. Poi fece un viaggio con la sua donna in Normandia, e dato che le cose si stavano facendo sempre
più critiche in Francia, e volendo cercare più pace e sicurezza decisero di andare in Inghilterra, dato che
Luisa desiderava molto andarci. 

Capitolo Vigesimoprimo: Quarto viaggio in Inghilterra e in Olanda. Ritorno a Parigi dove ci fissiamo davvero,
costrettivi dalle dure circostanze. 

1791: andarono in Inghilterra e dopo poco si annoiarono entrambi di essere lì. 

Poi ci fu la famosa fuga del Re di Francia che fu poi ripreso e ricondotto a Parigi prigioniero. Questo
avvenimento abbuiò sempre più gli affari in Francia e Alfieri e la sua donna erano legati ad essa per motivi
monetarie date che avevano le loro entrate lì e in quei giorni si vedeva settimanalmente scendere sempre
più il valore monetario di entrambi. Così risolvessero di dovervi tornare e dopo aver fatto un giro
imbarcarono a Douvres, dove Alfieri ebbe un’incontro improvviso: rivide quella donna che vent’anni prima
era stata la sua amante in Inghilterra, le scrisse una lettera e attese la sua risposta.

Poi arrivati a Calais fecero un giro in Olanda e risolvessero di fissarsi stabilmente in Francia.

Capitolo Vigesimosecondo: Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Germania tornati in Italia ci
fissiamo in Firenze.  

1792: tornati a Parigi cercarono una nuova casa e lì si stabilirono Alfieri e Luisa. Alfieri fece arrivare tutti i
suoi libri da Roma e che nel tempo aveva accresciuto, anche grazie ai suoi ultimi viaggi. Era felice d avere la
sua donna e i suoi libri sperava solo che questo potesse durare. 

Gli scrisse anche la sua mamma preoccupata che il luogo in cui viveva era ormai pericoloso e chiedendogli
di tornare a trovarla. Così fece ma sua madre morì prima che lui arrivasse in Italia.

Dopo il caos del 10 Agosto 1792 decise di andarsene, si fede fare due passaporti e preparò per la partenza
che fissò il 20, ma anticipò a fortuna al 18. Infatti riuscirono a passare alla barriera per la via di Calais, anche
se furono bloccati da un’orda di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi e furiosi che uscirono da una
bettola e che iniziarono a tormentarli di domande e insulti, perché erano ricchi che scappavano dalla
Francia e stavano lasciando i poveri in balia del potere. Dopo molta insistenza, Alfieri rimase molto calmo e
li lasciarono passare. Fecero giusto in tempo poiché qualche giorno dopo gli stessi che gli avevano concesso
i passaporti arrivarono in casa di Alfieri e della sua donna con l’ordine di catturarli, in particolare di
imprigionare Luisa, ma non trovandoli gli sequestrarono tutto, cavalli, mobili e libri. Ed inoltre scamparono
a tutta la catastrofe dei giorni seguenti dove furono giustiziati moltissimi nobili, quindi non poterono far
altro che ringraziare la provvidenza. 

Dopo il viaggio giunsero in Italia e in particolare a Firenze dove decisero di stabilirsi e Alfieri fu molto felice,
nonostante aveva perso tutto, di ritrovare almeno la bella lingua.  Intanto compose molte rime. 

Capitolo Vigesimoterzo: a poco a poco mi vo rimettendo allo studio. Finisco le traduzioni. Ricomincio a
scrivere qualche coserella di mio, trovo casa piacentissima in Firenze; e mi do al recitare.
Arrivato a Firenze trovò gente che parlava delle sue tragedie, e anche molti le recitavano, male ma
frequentemente. Questi fatti ridestarono lo spirito letterario di Alfieri. Così ideò l’Apologia del Re Luigi XVI,
poi riprese le sue due traduzioni, del Terenzio e dell’Eneide e le portò a conclusione anche se non in modo
perfetto. Ricopiò il suo Sallustio tradotto in precedenza. Stese anche una prosa storico-satirica sugli affari di
Francia (La prosa seconda del Misogallo) e poi scrisse molti sonetti, composizioni poetiche ed epigrammi
che raccolse poi nel Misogallo. 

1793: gli mancavano i libri per lo studio vero che aveva ormai perduti in Francia da cui ne aveva salvato solo
150 volumetti piccole di classici. 

Abbandonò definitivamente il progetto delle tramelogedie si rivolse alle Satire d cui aveva fatto solo la
prima che servirà poi a prologo delle altre.  Scrisse quindi la seconda e la terza, ma poi non era abbastanza
ispirato. 

Inizio poi a recitare: aveva trovato alcuni giovani di grande genio e capacità: impararono e recitarono il Saul
in una casa privata con poca udienza.

1794: continuò a recitare e rifece da capo in casa sua il Saul di cui lo stesso alfieri faceva la parte e il Bruto
primo. Vide intanto che faceva progressi in questa difficile arte ed era un ottimo passatempo che gli
riaccese la virtù creativa. 

1795: questo perditempo lo tenne impegnato per molto tempo, fece il Filippo e di nuovo il Saul,
personaggio a lui più caro perché riteneva che in esso ci fosse tutto. Fu invitato a Pisa da una compagnia
che aveva recitato il suo Saul e per vanagloria lo recitò lui stesso.

Intanto aveva iniziato a ricomprare tutti i libri perduti: quelli in lingua toscana, i classici latini e molti anche
greci. 

Capitolo Vigesimoquarto: la curiosità e la vergogna mi spingono a leggere Omero, ed i tragici greci nelle
traduzioni letterali. Proseguimento tiepido delle satire, ed altre cosarelle. 

Era arrivato a 46 anni senza aver mai letto né poeti tragici, né Omero o nulla del genere. Alfieri si vergognò
molto  e cercò di risolvere la questione perché esercitava quel mestiere di poeta lirico e tragico e quindi
aveva una certa curiosità nei loro confronti. 
Lesse Omero, Esiodo, i tre Tragici, Aristofane, Anacreonte nelle traduzioni letterarie latine. Non lesse Pindar
perché era un perdita di tempo. 

1796: scrisse rime e satire, arrivò alla settima. L’Italia subì l’invasione dei francesi. Il piemonte fu straziato e
quindi andarono in fumo i sostentamenti che Alfieri aveva da lì.

Continuava a scrivere il Misogallo dove aveva inserito la sua vendetta a favore dell’Italia. Quindi sperava
che giovasse all’Italia e nuocesse alla Francia. 

Capitolo Vigesimoquinto: per qual ragione, in qual modo, e con quale scopo mi risolvessi finalmente a
studiare da radice seriamente da me stesso la lingua greca. 

Decide di studiare il greco che più volte l’Abate causo aveva tentato di insegnargli, ma se era solo ridotto a
scrivergli l’alfabeto su un foglietto. Solo che Alfieri non era molto bravo ad imparare le lingue e aveva avuto
difficoltà anche con l’inglese! Però dato che erano ormai due anni che leggeva opere greche senza mai
inoltrarvisi completamente decise di impegnasi e dal 1797 iniziò ad imparare da solo il greco. Riuscì a
leggerlo bene e lesse tantissime opere ad alta voce. Ma questa fatica non lo debilitò, anzi lo fece risorgere
dal letargo di tanti anni precedenti. Arrivò a 17 satire, continuò le rime, e iniziò a tradurre alcune tragedie e
commedie greche. 

Capitolo Vigesimosesto: Frutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca: io scrivo (spergiuro
per l’ultima volta ad Apollo)l’Alceste seconda.

1798: arrivato a leggere l’Alceste di Euripide Alfieri fu assai colpito e intenerito e avvampato dai tanti affetti
di quel sublime soggetto e scrisse su un fogliolino che se non avesse giurato di non scrivere più tragedie
avrebbe sicuramente scritto a caldo la sceneggiatura di Alceste di getto tanto l’aveva infiammato. Nel
settembre del 96 quindi scrisse la sceneggiatura dell’alcesti coll’intenzione di non farla mai, ma poi nel 98
aiuto a casa da una passeggiata che gli riaccese la fantasia allora si pose a stenderla e scrisse di un fiato il
primo atto e scrisse a margine “steso con furore maniaco e lacrime molte”. Poi scrisse con uguale impeto
glia lari atti. 

Nel settembre del 98 avendo imparato il greco tornò sull’Alcesti prima che era la sua traduzione si
infiammò e iniziò a versificarla. Ma riconobbe che questa tragedia era quasi un plagio di quella di Euripide
quindi la inserì nelle traduzioni col titolo di Alceste Seconda. Vediamo qui la natura spontanea dei peti
d’impeto.

Queste due Alcesti svelarono anche il suo studio del greco che aveva occultato a tutti quanti, anche alla
stessa Luisa, anche se poi lo aveva scoperto, e poi anche all’Abate Caluso a cui poi gli inviò una letterina in
greco e lo apprezzò moltissimo. 

Lettere col francese: in quegli anni la Lombardia era completamente invasa dai francesi. In Torino vi era
l’ambasciatore francese Ginguenè e da lui Alfieri ricevette una serie di lettere. In queste le risposte di Alfieri
avevano sempre pure e rette intenzioni e azioni. Sembrava che Ginguené avesse ordine di asservire alla
libertà francese del Piemonte e cercando dei vili ministri sperava di far diventare Alfieri uno di questi. In
questo modo dopo averlo impoverito l’avrebbero disonorato. 

Capitolo Vigesimosettimo: Misogallo finito. Rime chiuse colla Teleutodia. L’Abele ridotto; così le due Alcesti
e l’Ammonimento. Distribuzione ebdomadaria di studi. Preparato così, e muniti delle lapidi sepolcrali
aspetto l’invasion dei francesi che segue nel marzo ’99.

1799: Cresceva sempre più il rischio dell’invasione francese in Toscana e per questo Alfieri era sempre
pronto ad un eventuale trasferimento. Aveva posto fine al Misogallo più per tedio e l’aveva stampato in 10
copie. Aveva preparato tutto per vivere incontaminato e libero. Scrisse la sua vita e per questo scrisse
anche la sua lapide sepolcrale così da esser certo che si dicesse di lui quello che voleva. 

Poi volle provvedere a tutti i suoi lavori limando e copiando e separando tutto quello che è finito da quello
non finito. Volle quindi chiudere a 50 anni la copia delle rime: creò un altro piccolo tomo con 70 sonetti, un
Capitolo e 39 Epigrammi da aggiungere a quelli stampati in Kehl. Lo sigillò con un’ode sull’andare di Pindaro
e lo intitolò Teleutodia (cioè ‘canto finale’). E da quello chiuse bottega e non compose più nulla se non
qualche sonettuccio o epigrammuccio che però non scrisse. 

Traduzioni: ne aveva fatte 4, Virgilio, Sallustio, Terenzio. Gli spiaceva bruciarle, ma non poteva lasciarle
come cosa finita, poiché non lo erano. Così decise di ricopiare sia il testo sia la traduzione, e prima fra tutti
fece l’Alceste. 

Fece copiare l’Abele e la limò. Poi vi aggiunse una prosuccia breve intitolata l’Ammonimento alle Potenze
Italiane che aveva limato e fatta copiare. Così fece anche con le 17 Satire. 
Poi decise di distribuire in modo ordinato il suo studio per ogni settimana:

 Lunedì e Martedì: Sacra Scrittura (prima in greco, confrontato poi col testo alessandrino, poi in
italiano, poi nella versione latina della vulgata)
 Mercoledì e Giovedì: Omero (la leggeva subito in greco traducendola in latino letteralmente, e non
si arrestava mai, poi prendeva la traduzione latina, e la confrontava). 
 Venerdì, Sabato e Domenica: Pindaro, poi i Tragici, Aristofane e Teocrito (sempre prima in greco
per vedere se lo intendeva e poi in latino). 
Lo studio gli era così caro che mai interruppe quelle mattine di studio.

Sistemò i libri e li mandò in una villa fuori Firenze fino a quando il 25 marzo del 1799 avvenne l’invasione
della toscana ad opera dei francesi e quel giorno steso Alfieri e Luisa si rifugiarono nella villa poche ore
prima dell’invasione. 

Capitolo Vigesimottavo: occupazioni in villa. Uscita dei francesi. Ritorno nostro in Firenze. Lettere del Colli.
Dolore mio nell’udire la ristampa prepararsi in Parigi delle mie opere di Kehl non mai pubblicate. 

Alfieri era così oppresso dalla tirannide ma non per questo soggiogato e stette in quella villa con poca gente
di servizio e la dolce metà di lui stesso. E così stavano in villa dove pochissimi dei loro conoscenti e amici li
visitavano per paura della tirannide. 

Ricopiò e limò le due Alcesti, continuando a studiare la mattina. 

Intanto i pericoli erano tanti perché ogni notte venivano rapiti giovani e imbarcati come schiavi a Livorno, e
così non potevano dormire mai tranquilli. Questo stato infelice durò fino al 5 Luglio quando i francesi
furono battuti in tutta la Lombardia e fuggirono anche da Firenze. Così Alfieri e Luisa poterono tornare in
Firenze, dopo un mese poiché gli piaceva quella quiete in villa. 

Ricevette poi delle lettere dal Marchese Colli, che era marito della figlia della sorella di Alfieri e gli scrisse
che dopo esser stato fatto prigioniero e ferito gravemente era passato al servizio dei francesi dopo la
deportazione del re di Sardegna fuori dallo suo stato. Intanto alfieri aveva visto passare il re di Sardegna in
Firenze e vedendolo così solo e infelice lo commosse e gli venne una certa voglia di servirlo. Infatti era sto
mal consigliato e non era riuscito a far nulla di utile per il Piemonte. Poi Alfieri lo rivide in migliori
circostanze allora si rammaricò meno di se stesso per essere meno utile. 

Poi provò un nuovo dolore: un manifesto del libraio Molini Italiano di Parigi in cui diceva di aver intrapreso
di stampare tutte le opere di alfieri (quelle ‘filosofiche’ quindi sia in prosa sia in poesia) e tutte le sue opere
stampate in Kehl, mai pubblicate. Questo fu un grande dolore per lui. Infatti quando nel 93 aveva perso
tutte i suoi libri perché gli erano stati sequestrati, aveva fatto pubblicare un avviso su tutte le gazzette
d’Italia dove diceva che gli erano stati confiscati molti libri e dichiarava di non riconoscere sua nessun altra
opera eccetto quelle pubblicate prima da lui. Quindi vedendo questo manifesto la cosa più efficace sarebbe
stato un Contromanifesto e confessare che i libri erano suoi e avrebbe pubblicato per discolpa il Misogallo.
Però non era libero perché abitava in Italia e amava altri oltre se stesso, quindi avrebbe messo a rischio
tante cose. Quindi ripubblicò solamente quell’avviso del 93 sulle gazzette, con una piccola postila riguardo a
quella ristampa. Molto probabilmente, il Ginguené, a cui Alfieri aveva accennato alle sei copie delle sue
edizioni mai pubblicate, tornato a Parigi aveva cercato quelle copie e ne aveva trovate solo 4 e le vendette
forse al Molini perché si ristampassero e le altre se le tenne lui. Quanto alle altre sei copie se fossero state
ritrovate le avrebbero sicuramente o stampate o rivendute perché erano delle copie molto belle, quindi
forse sono sepolte sotto pile di libri e sono intatti a putrefarsi a Parigi e non furono aperte perché
portavano come titolo ‘Tragedie italiane’. 

In ogni caso le trovò pubblicate in mezzo a stampe altrui.


Capitolo Vigesimonono: Seconda invasione. Insistenza noiosa del General letterato. Pace tal quale, per cui
mi scemano d’alquanto le angustie. Sei commedie ideate ad un parto.

1800: battaglia del Marengo nel giugno 1800, e l’Italia diventa tutta francese per molti anni. Quindi Alfieri
tirava solo a finire le sue opere senza più curarsi del pericolo. Ridusse e limò le sue 4 traduzioni e non fece
altro se non continuare a studiare. 

15 ottobre: i francesi invadono la Toscana e Alfieri non ebbe tempo di rifugiarsi nella sua villa, quindi rimase
in città, ma non fece altro se non vederli o sentirli e non fece mai altro. Non si faceva mai vedere. 

Intanto il loro Generale comandante in Firenze aveva la passione delle lettere quindi più volte tentò di
andare a far visita all’Alfieri ma non lo trovò in casa, quindi gli scrisse un biglietto. Alfieri disse che se voleva
visitarlo per motivazioni politiche non l’avrebbe ricevuto, ma se era per questioni letterario allora era ben
disposto. Il Generale disse che dalle sue opere gli era venuta voglia di conoscerlo, ma a causa della sua
indole ritrosa, non avrebbe cercato più di visitarlo. Quindi Alfieri riuscì a tenersi lontano da qualsiasi
contatto coi francesi. 

Settembre: nasce un rinnovato impulso che non riesce a trattenere e scrisse di getto sei Commedie. Non sa
neanche lui come mai in un momento di così triste schiavitù gli venne questo spirito creatore. Le prime
quattro (L’Uno, I Pochi, I Troppi, L’Antidoto) sono quasi una divisa in quattro le ideò insieme dopo una
passeggiata poi il giorno dopo ideò anche le altre due (La Finestrina e Il Divorzio), la prima era un genere
completamente nuovo per l’Italia, mentre l’altra era la tipica commedia dei costumi italiana.

Così in 6 commedie tentò di fare tre generi diversi: 

 Prime quattro: adattabili ad ogni tempo, luogo e costume.


 Quinta: fantastica, poetica e di largo confine.
 Sesta: nell’andamento moderno di tutte le commedie. 
Vi è molta trivialità in esse, ma è molto poco il diletto e non vi è nessun utilità. Dice infatti che questo secolo
in cui Alfieri vive ha voluto pescare l tragedia dalla commedia praticando il ‘dramma urbano’ (cioè la
tragedia borghese). Ma Alfieri ha voluto cavare dalla tragedia le commedia sempre con intento di vero,
cosa che gli sembra più utile e divertente perché rimane nel vero. Infatti si vedono spesso i grandi e i
potenti che ci fanno ridere, mentre si vedono molto meno i mezzani cioè banchieri e avvocati, e mai i
coturni. 

Capitolo Trigesimo: Stendo un anno dopo averle ideate la prosa delle sei commedie; ed un altr’anno dopo le
verseggio; l’una e l’altra di queste due fatiche con gravissimo scapito della salute. Rivedo l’Abate di Caluso
in Firenze.

1801: si arriva ad una pace coi francesi che dura ancora e che tiene tutta l’europa in armi, timore e schiavitù
cominciando dalla Francia stessa. 

Alfieri pensava solo a terminare la sua gia troppo lunga carriera letteraria. Perciò verso Luglio provò con
tutte le sue forze a stendere tutte sei le commedie e lo fece tutto d’un fiato, se non che a metà fu interrotto
a causa di una lunga malattia. Poi alla fine di quell’anno ebbe la triste notizia della morte di suo nipote,
figlio di sua sorella, che non si era ancora sposato, e questo gli spiaceva molto anche perché il patrimonio di
sua sorella si sarebbe così disperso in mani straniere. 

Poi a fine dell’anno ricomprò quattro cavalli di cui solo uno da sella che erano già una spesa considerevole. 

Quindi a fine della sua esistenza si ritrovava abbastanza sazio, disingannato dalle cose del mondo, sobrio di
vitto, vestendo sempre di nero, non spendendo in nulla se non in libri, comunque ricco anche se la metà di
quando era nato. Non attese alle offerte del nipote Colli che ormai aveva tradito l’Italia alleandosi coi
francesi. Infatti Alfieri dice che dai ladri non vuole assolutamente nulla. Preferisce rimanere libero e puro
uomo italiano e quindi dissimulò ogni sua proposta e lettera. 

1802: Verseggiò le commedie con lo stesso ardore e furore con cui le aveva ideate e stese. Poi iniziò ad
essere assalito da dolori spasmodici che lo relegarono a letto, e gli dispiacque anche che venne a trovarlo
l’amico Caluso e dovette stare con lui solo a letto. Gli diede però da leggere solo le sue traduzioni dal greco,
le satire, il Terenzio e il Virgilio, tranne le commedie che non le volle nominare neanche fino a che non le
avesse finite. L’amico fu contento del suo lavoro, ma poi se ne andò. Guarì nell’Ottobre e riprese subito le
commedie che gli mancava solo di lasciarle maturare e limare. 

Capitolo Trigesimoprimo: intenzioni mie su tutta questa seconda mandata di opere inedite. Stanco,
esaurito, pongo qui fine ad ogni nuova impresa; atto più a disfare, che a fare, spontaneamente esco
dall’Epoca Quarta virile, ed in età di 54 anni e mezzo mi do per vecchio, dopo ventotto anni di quasi
continuo inventare, verseggiare, tradurre, e studiare - invanito poi bambinescamente dell’avere quasi che
spuntata la difficoltà del greco, invento l’Ordine d’Omero, e me ne creo Cavaliero. 

1803: qui conclude le sue “lunghe e noiose ciarle”. 

In quest’anno le due malattie lo avvisano che è ormai tempo di finire di fare e raccontare. Quindi pone fine
all’Epoca Quarta essendo certo che da lì in poi non vuole più creare nulla. L’unica cosa che vuole continuare
a fare è solo limare le sue traduzioni e continuare i suoi studi. Inoltre non crede più di stampare le cose che
si ritrova fatte in quegli anni perché costerebbe troppa fatica ed inoltre essendo in un governo non libero si
ritroverebbe sottoposto a molte revisioni e censure. 

Quindi decide di terminare lietamente e di mostrare al lettore come stia iniziando a rimbambire in questa
quinta epoca racconta che dopo che finì di verseggiare le commedie, e si credeva così padrone di
interpretare i greci che aveva studiato così  che inventò la collana chiamata i ventitré poeti sia antichi sia
moderni dietro vi incise un suo distico greco. Lo fece approvare dall’amico Caluso li registrò sulla Vita, e
sperò di realizzare questa collana con i più bei gioielli in oro e pietre dure e così so affibbiò questo nuovo
Ordine.

Conclude salutando il lettore in data 14 maggio 1803, Firenze. 

LETTERA DEL SIGNOR ABATE DI CALUSO, QUI AGGIUNTA A DAR COMPIMENTO ALL’OPERA COL RACCONTO
DELLA MORTE DELL’AUTORE. Alla precarissima Signora Contessa D’Albany.

L’Abate Caluso pone fine alla vita di Alfieri con una lettera dove loda l’amico per la sua ‘schiettezza e
sublime semplicità’. Dice che “felicissima n’è la naturalezza del quasi negletto stile; e meravigliosamente
rassomigliante e fedele riesce l’immagine ch’egli ne lascia di sé scolpita, colorita e parlante. Vi si scorge
eccelso qual era e singolare ed estremo, come per naturali disposizioni così per opera posta in ogni cosa
che sembrata gli fosse non indegna de’ generosi affetti suoi”. 

La contessa aveva chiesto all’Abate di scrivere le ultime righe della sua vita: Alfieri stava finendo di scrivere
le sue commedie e fu assalito nuovamente dalla podagra che fu molto più violente poiché lo studio assiduo
l’aveva assai indebolito. Stette a letto per molto tempo, e anche quando un giorno uscì a fare una
passeggiata prese freddo e gli venne anche la febbre. Dovette rimanere a letto e la sua signora gli stava
accanto in ogni momento. Però dopo poco morì il sabato 8 ottobre 1803, anche se non fecero in tempo a
confessarlo perché il prete arrivò tardi non pensando una malattia così grave. 
Fu seppellito a Santa Croce, presso l’altare dello Spirito Santo sotto una semplice lapide. E lo stesso Caluso
scrisse tre sonetti in onore della sua morte, più per mostrare qual amico lui fosse ma anche quale grande
perdita avesse fatto l’Italia. 

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