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ALFREDO MENETTI

I CLASSICI

I miserabili Mon
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Riassunto
dell’opera di VICTOR HUGO

EDIZIONI BIGNAMI
9788843380459
ALFREDO MENETTI

I CLASSICI

I miserabili
Riassunto
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dell’opera di VICTOR HUGO


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EDIZIONI BIGNAMI
9788843380459
MonicaGatt
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© copyright 2012
by EDIZIONI BIGNAMI ®
proprietà letteraria riservata
l’autore: Victor hugo

la vita
victor-Marie hugo nasce a Besançon nel 1802 ed è il terzogenito di léopold
sigisbert hugo, un capitano dell’esercito napoleonico, e di sophie trébuchet.
egli trascorre la prima infanzia a parigi nell’ex convento delle Feuillantines, poi
segue, insieme alla famiglia, gli spostamenti del padre in italia e in spagna.
lasciandosi guidare dalla propria vocazione artistica, fonda, con il fratello abel,
«il conservatore letterario», una rivista che lo inizia ai generi letterari più svariati.
Fin dalla gioventù mostra di possedere una grande ambizione; infatti nel 1813 (o
1816) scriverà: “voglio essere chateaubriand o niente”, ed il suo impegno gli per-
metterà di raggiungere la gloria prima dei trent’anni.
inizia contemporaneamente la carriera di poeta e di romanziere e con la pubbli-
cazione delle prime opere (le odi e anna d’islanda) ottiene una discreta pensione
e la simpatia di luigi Xviii. È, a quel tempo, cattolico e monarchico, e questi primi
approcci letterari lo avviano prudentemente verso la scia del romanticismo; egli
stesso infatti afferma di non sentirsi né classico, né romantico, ma conciliatore.
Nel 1822 sposa adèle Foucher, una vecchia amica d’infanzia dalla quale si sepa-
rerà nel 1833 per legarsi alla giovane attrice Juliette Drouet.
le nuove teorie romantiche si fanno gradualmente strada nel suo animo e lo con-
quistano definitivamente con la stesura, nel 1827, del dramma in versi cromwell, la
cui “prefazione” è considerata da molti un manifesto anti-classico.
Da questo momento la nuova generazione di artisti e letterati accoglie con entu-
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siasmo i suoi lavori, che gli fruttano, per altro, numerosi onori ufficiali ed un florido
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guadagno economico.
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Nel 1829 pubblica le orientali, una raccolta di poesie che dimostra l’adesione del-
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l’autore allo slancio filo-ellenico del tempo.


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sempre allo stesso anno risale la stesura de l’ultimo giorno di un condannato,


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romanzo di tendenze umanitarie, che esprime il dissenso verso la pena di morte.


seguono due drammi: Marion Delorme, la cui rappresentazione è in un primo
tempo vietata dal governo, e la battaglia di ernani, che riesce, con il suo grande
trionfo, a forzare le porte della commedia francese, fino allora cittadella dei classici.
la rivoluzione letteraria di victor hugo precede di poco quella politica di luglio;
egli stesso lo presagisce quando nella “prefazione” dell’ernani scrive: “il romantici-
smo altro non è che il liberalismo nella letteratura”.
su queste basi ideologiche fonda «il cenacolo», che raccoglie i romantici militanti
del tempo (artisti, scrittori, poeti, quali, ad esempio, balzac, Nerval, gautier), che
lo considerano il loro caposcuola incontestato e il simbolo della nuova generazione.
Dopo il successo dell’esperienza teatrale, hugo cerca di indirizzare verso il ro-
manticismo anche quel genere letterario che contribuirà largamente ad assicurargli
la gloria, rendendolo uno scrittore estremamente popolare: il romanzo.
È soprattutto con il romanzo, infatti, che si ha la misura della sua immaginazio-
ne e della sua potenza verbale; è il romanzo che, diffondendo una morale sempli-
ce e generosa, riesce a toccare il cuore di un grande pubblico.
Fra il 1830 e il 1840 compone altre quattro raccolte liriche e mette in scena molti
drammi; questi lavori mostrano l’evolversi delle idee e del pensiero dello scrittore.
Nel 1843 la figlia maggiore, léopoldine, annega nella senna e il dolore del padre
è talmente profondo da distoglierlo dall’attività letteraria.
È in questo periodo che victor hugo intraprende, con grande impegno, l’attività
politica, che gli permetterà di conseguire la nomina di pari di Francia, di Deputato
all’assemblea costituzionale ed infine, nel 1876, la carica di senatore.
Quando nel 1848 scoppia la rivoluzione, egli si mostra partigiano assoluto di luigi
Napoleone iii e ne sostiene l’elezione alla presidenza della repubblica. Ma presto
comincia, con interventi liberali e umanitari, ad avvicinarsi sempre più alla sinistra;
matura in lui una tenace ostilità verso Napoleone iii, combatte il cesarismo ed infi-
ne contribuisce a sollevare il popolo nei tumulti del 1851. rischia, per questo, di es-
sere arrestato ed è costretto a lasciare la Francia.
il suo esilio dura fino al 1870. in questo periodo victor hugo riprende l’attività
letteraria e compone le sue opere maestre, fra cui i miserabili (1862), senza comun-
que abbandonare mai il suo impegno politico.

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Quando ritorna in patria, è l’idolo della sinistra repubblicana e lo scrittore popola-

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re per eccellenza.

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Muore a Parigi nel 1885 e i suoi funerali assumono l’ampiezza di un’apoteosi. le

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sue spoglie sono conservate nel pantheon di parigi.

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la personalità
victor hugo – scrive gaétan picon – “fu il più popolare fra gli scrittori del suo tem-
po e certamente in Francia lo resta ancora. lo deve al suo destino d’esiliato, alla
sua passione politica, ma anche alla sua comprensione dei sentimenti fondamentali
dell’esistenza privata e della vita civile, e all’eloquenza luminosa e semplice”.
a sua volta enea balmas così ci presenta lo scrittore francese: “hugo è in primo
luogo un «fenomeno» letterario che impone il rispetto per le proporzioni della sua
produzione, ma più ancora del suo genio. in questo senso, egli sfugge alle classifica-
zioni: pur incarnando, meglio di chiunque altro, le confuse premesse e le immense
ambizioni del romanticismo, egli può essere a pena definito un genio francese, e si
rivela largamente tributario di fonti di ispirazioni diversissime (da shakespeare a
eschilo, alla bibbia) che ne fanno il più tipico esponente di un certo cosmopolitismo
letterario ottocentesco, intriso di umanitarismo e largamente «comunicante», al
disopra delle frontiere nazionali, grazie ad un vago quanto eloquente «socialismo».
Ma, benché la sua politica trovi nell’eloquenza e nel virtuosismo verbale i propri
limiti, benché il suo genio ignori la disciplina dell’autolimitazione e della graduazio-
ne degli effetti, benché il suo gusto indulga facilmente all’abnorme e al mostruoso,
dall’opera immensa si sprigiona, nel complesso, una sensazione di forza, di vitalità,
di gioia (a dispetto del pessimismo polemico di certi romanzi o di alcune liriche), di
amore per la vita, che ne assicura, e verosimilmente ne garantirà, la durata e la ri-
sonanza”.

il pensiero e la poetica
vicor hugo ha dominato il XiX secolo per la fecondità e varietà della sua ispirazio-
ne; ha affrontato infatti, con perfetta maestria, tutti i temi e i generi possibili: poe-
sia, lirica, satira, epica, drammi in versi e in prosa, ecc.
la sua prodigiosa potenza creatrice si è evoluta gradualmente fino a divenire il
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riflesso e l’eco della voce del suo tempo.
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convinto che il male si presenti spesso sotto forma di ingiustizia sociale e che il
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poeta debba compiere una missione umanitaria e religiosa, victor hugo ha sempre
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preso parte attiva ai dibattiti politici, ha contribuito a diffondere importanti innova-
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zioni sociali e si è fatto guida eloquente dei movimenti d’opinione dell’epoca.
ha preferito quindi all’arte per arte, l’arte per l’umanità, come egli stesso ci con-
ferma quando scrive: “il poeta deve camminare davanti ai popoli e, come una luce,
mostrargli il cammino”; e ancora: “Nella voce del poeta si ripercuotono tutte le voci
dell’uomo”.
in definitiva, per hugo l’arte è una funzione, un mezzo di conoscenza per accede-
re al mondo. con la sua eloquenza ampia, facile, e sorretto da un’interpretazione
ottimista e razionalistica della storia, egli si è fatto cantore dei più grandi sentimenti
umani. la gioia del lavoro, l’amore paterno, la grazia infantile, l’immensità di Dio, il
mistero della natura, il patriottismo, ma soprattutto la grandezza degli umili e la
carità, la pietà verso i sofferenti, sono i nobili e semplici temi morali affrontati con
ricorrenza nei suoi scritti.
pur divenendo il poeta ufficiale della repubblica, nel suo secolo non sono manca-
te le critiche; filosofia sommaria, orgoglio smisurato ed eccessiva retorica erano le
accuse più comuni; ma oggi il suo genio non è più contestato.
può essere senz’altro considerato uno degli iniziatori più autorevoli del romantici-
smo e, in generale, della poesia moderna. ha rifiutato infatti tutti i divieti classici,
utilizzando la poesia come “un vasto giardino dove non ci sono frutti proibiti”, un
campo quindi il cui dominio è illimitato e che, come un incanto magico e una voce
misteriosa, rende presente ciò che appare nell’immaginazione dell’autore.
la facoltà maestra di victor hugo è senza dubbio l’immaginazione, con la quale
è in grado di trasformare le impressioni in vere e proprie visioni; la sua fantasia
leggera permette di far “vedere” al lettore con la stessa intensità con la quale si
vedono gli oggetti reali e, attraverso un’abbondanza spontanea di metafore, la
parola si arricchisce di una funzione evocativa.
Dinamismo vigoroso, sontuosità verbale, non comune capacità nei giochi di
virtuosismo e nel vaneggiamento dei ritmi più diversi: queste le incomparabili doti
della sua calorosa potenza creatrice.
la sua visione del mondo si caratterizza per chiaroscuri violenti, contrasti, duali-
tà; al grottesco si oppone il sublime, all’ombra la luce, all’inverno lugubre l’estate
radiosa, al crimine l’innocenza. tali antitesi non sono altro che le due facce di una
sola e stessa realtà che si manifesta sotto forma di lotta epica e senza fine tra il ma-
le e il bene, fra il chimerico e il reale.
il poeta è appunto il profeta, il veggente, è colui che persegue l’unità essenziale
di tutte le cose e ne coglie il loro prodigioso animismo.
sorgente dell’ispirazione di victor hugo è perciò una sorta di filosofia composita,
dove si mischiano manicheismo, cristianesimo, pitagorismo e panteismo.
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le oPere
Della vastissima opera di victor hugo ricordiamo le seguenti opere.

le odi
raccolta di chiara ispirazione cattolica, del 1818, che risente molto dell’influenza
di chateaubriand e lamartine: essa rivela certamente un talento precoce, comun-
que ancora lontano dalla vera originalità di victor hugo.

Bug-Jargall
opera in prosa (1820), ricca di avventure romanzesche e drammatiche, dove i
colpi di scena si susseguono a ritmo accelerato; come in tutti i primi romanzi di vic-
tor hugo, si intravede l’influenza di Walter scott.

anna d’islanda
racconto ispirato al “romanzo nero”, del 1823; è uno dei primi approcci di victor
hugo a questo genere letterario; la presenza dell’orrido e del mostruoso è confer-
mata persino dalla scelta dell’eroe protagonista, un mostro bevitore di sangue.

odi e Ballate
Una raccolta del 1826, in cui le odi precedenti vengono rivedute con l’aggiunta
di un gruppo di ballate di ispirazione pittoresca; esse tentano infatti di far rivivere
il Medioevo così come lo si immaginava nelle ballate germaniche. il loro interesse
risiede soprattutto nella virtuosità ritmica delle strofe.

le orientali
Una raccolta di liriche, del 1829, in cui victor hugo sembra aderire all’idea di “ar-
te per arte”; è infatti un esempio di lirica luminosa, termica e musicale, esprimen-
te immagini e espressioni che cantano l’ideale greco della bellezza; dietro ai pae-
saggi e alle ricche immagini si intravede tuttavia un’idea ispiratrice: il fervente so-
stegno alla lotta per l’indipendenza greca.
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icaG le foglie d’autunno
atto
Versi del 1831, scritti in mezzo alla tempesta politica di quegli anni, intrisi di una
dolce malinconia; sembrano l’eco dell’interno dell’anima che si volge verso la pietà
e la carità per tutto ciò, uomini e cose, che soffre e languisce.

Nostra Signora di Parigi


romanzo storico-sociale (1831), che colloca un intrigo melodrammatico in una
atmosfera medievale, resa stupefacente dall’immaginazione dell’autore; protagonista
del romanzo è infatti la parigi del Xv secolo, con la sua corte dei Miracoli, popolata
dalle inquietanti figure dei vagabondi che vivono all’ombra della gigantesca catte-
drale gotica, animata da una visione fantastica; il sublime e il grottesco si mischiano
continuamente e raggiungono nel personaggio di Quasimodo la loro sintesi massima.

i canti del crepuscolo


Una raccolta poetica del 1835, che riflette una doppia crisi dell’autore, amorosa
(la sua felicità coniugale si è spenta) e politica (in seguito alla presa di coscienza
del fatto che anche la Monarchia di luglio non è che un regime transitorio, destina-
to a fallire e a crollare); la nota dominante della raccolta è il “crepuscolo”, simbolo
dello stato d’animo della società nel secolo XiX.

le voci interiori
liriche del 1837, nelle quali l’autore, meditando sugli avvenimenti a lui contem-
poranei, sente in lui risuonare l’eco delle voci che parlano al cuore, quelle cioè dei
più stretti familiari che, ad uno ad uno, sono evocati con affetto dalla memoria.

i raggi e le ombre
Ultima raccolta di poesie scritta nel 1840, prima dell’esilio, nella quale la riflessio-
ne sul tema del “poeta-profeta” che svolge una “missione”, che ha il dovere di
guidare gli uomini, si è fatta più profonda; se la poesia è anche il mezzo per il
raggiungimento di conoscenze eterne, ecco che il poeta diventa il portatore di que-
sti messaggi di carità, di pietà, di giustizia, di verità.

i castighi
Un furore vendicativo contro Napoleone iii, l’uomo che in passato victor hugo
aveva contribuito a portare al potere, è il tema dominante di questa potente opera
di M onicaG
ispirazione attodel 1853; le invettive ed i toni virulenti e passionali sono
satirica
alternati a quelli patetici e alle lamentele nostalgiche; violenza indignata da una
parte, ironia e sarcasmo dall’altra, sono le due forme prevalenti sotto le quali si
esprime la satira. il regime tirannico ed autoritario, che Napoleone iii ha instaura-
to, fa da contrasto all’entusiastica epopea del passato e alla speranza in tempi
migliori dove regnerà una repubblica universale.

le contemplazioni
Una raccolta del 1855 in cui hugo raggiunge la piena maturità come uomo,
pensatore e artista; infatti essa è considerata il capolavoro lirico dello scrittore; l’e-
sperienza della sofferenza e del dolore (in seguito alla morte della figlia léopoldine)
ha portato il poeta a penetrare il mistero del mondo, per poi rivelarlo attraverso la
magia della sua parola. Nella “prefazione” l’autore scrive: «potremmo chiamarle le
memorie di un’“anima”, un’anima “che si racconta” e che ritrae il suo itinerario mo-
rale e spirituale in un quarto di secolo»; e ancora aggiunge: «Ma quando vi parlo
di me, vi parlo anche di voi»; queste poesie infatti non rispecchiano solo la storia
di una vita, bensì la storia della dolorosa esperienza umana in generale.

la leggenda dei secoli


opera capitale nella produzione di victor hugo, del 1859, in cui troviamo una
sintesi del suo pensiero e della sua poetica. È un vasto affresco epico sull’umanità
che mischia favola, leggenda, storia, filosofia, religione, scienza e mito. Questa epo-
pea ha il suo eroe: l’uomo che, risalendo faticosamente dalle tenebre all’ideale,
ascende verso la luce con un unico movimento che di secolo in secolo lo porta alla
conquista del progresso.

i miserabili
l’opera più conosciuta di victor hugo è del 1862; le suggestive pagine di questo
romanzo svolgono, con sincero ardore, la tesi sociale ed umanitaria che regge il
pensiero e la poetica dell’autore.

i lavoratori del mare


Un romanzo del 1866, nel quale l’autore unisce all’epopea del lavoro il dramma
dell’uomo che si trova a lottare contro l’oceano; l’andamento del racconto è per lo
più riflessivo e, verso la fine, sembra perfino sconfinare nella metafisica.

l’uomo che rideMo


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opera del 1869, multiforme e sconcertante per l’inverosimiglianza dell’intreccio,
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che mescola con stravaganza letteratura e filosofia. at to
l’oPera: i MiSeraBili
Quando «i miserabili» vennero pubblicati, lamartine scrisse: «Questo libro d’ac-
cusa contro la società potrebbe intitolarsi più giustamente l’epopea della canaglia;
è il romanzo del popolo, ora crapulone, ora sognatore, spesso sublime, soprattutto
utopista, talvolta dannoso, sovente eroico».
si tratta infatti di un imponente romanzo epico-sociale, in cui l’individuo e la col-
lettività si articolano continuamente, dando espressione tanto ai problemi e alle rea-
zioni del singolo, quanto a quelli della massa; è come una sorta di vasto repertorio
di vizi e virtù, una specie di immensa metafora, capace di accogliere tutto ciò che
di buono o di malvagio può nascere nel cuore della gente comune.
ciascun personaggio rappresenta quindi una tesi, un ideale di vita, che ha per
fondamento la pascaliana concezione dell’uomo, visto come creatura infinitamente
misera e infinitamente grande.
Ma il pensiero di pascal rimaneva a un livello di speculazione filosofica astratta e
distaccata, mentre hugo lo esprime concretamente, lo fa vivere con l’esempio dei
suoi personaggi e lo colorisce attraverso le descrizioni di una gran quantità di emo-
zioni, turpitudini, istinti, reazioni e sentimenti.
Jean valjean è certamente il personaggio che meglio incarna questa concezione:
è un “miserabile” e un disgraziato che è riuscito a sottrarsi alla dannazione eterna
per merito del suo sforzo di redenzione, attuato mediante l’amore, la pietà e la
carità.
comunque nessuno meglio dell’autore stesso è riuscito ad indicare il senso e il
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significato simbolico del suo romanzo, che si rivela, prima di tutto, come una gran-
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diosa epopea dell’anima: «il libro che il lettore ha sottocchio in questo momento …
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è una marcia dal male verso il bene, dall’ingiusto verso il giusto, dal falso al vero,
dalla notte al giorno, dall’appetito alla coscienza, dalla putredine alla vita, dalla be-
stialità al dovere, dall’inferno al cielo, dal nulla a Dio. punto di partenza: la mate-
ria; punto d’arrivo: l’anima. idra al principio. angelo alla fine».

la composizione
si ignora da quanto tempo victor hugo meditasse la stesura di questo libro, che
venne pubblicato nel 1862.
sicuramente è stato il frutto di un lungo lavoro di riflessione e di ricerca, iniziato
già a partire dal 1828 e comunque realizzato, per la maggior parte, intorno agli anni
del declino della Monarchia di luglio.
Non si può tralasciare il fatto che, dopo la dura repressione dell’insurrezione del
1848, si verifica la decisa svolta politica che porta hugo ad avvicinarsi alla sinistra
repubblicana e al conseguente esilio, durante il quale compone i suoi lavori più im-
portanti. l’opera suddetta non può quindi non risentire di quel radicale mutamento
di indirizzo da parte dell’autore.
partendo dalla constatazione che la miseria è spesso conseguenza di un sistema
repressivo impietoso, egli si sente impegnato nella lotta per la conquista di una so-
cietà migliore, non più divisa da profonde disuguaglianze e ingiustizie sociali.
compito dello scrittore, precursore e profeta, è quindi proprio quello di mettere
a nudo gli squilibri radicati nella società, per indicare la strada al loro superamen-
to, e «i miserabili» aderiscono perfettamente a questo scopo.
se l’infelicità non potrà mai essere rimossa, può esserlo invece la miseria, risulta-
to di una società tirannica; in questo victor hugo credeva fermamente e lo attesta-
no anche le parole che pronuncia nel 1849 in un’assemblea politica: «la sofferen-
za non può scomparire, la miseria deve scomparire. vi saranno sempre degli infe-
lici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili».

lo sfondo storico-geografico
victor hugo, presentando all’editore lacrois il suo grande romanzo epico-sociale,
scriveva: «Questo libro è la storia mescolata al dramma, è il secolo, è un ampio
specchio che riflette il genere umano colto sul fatto, in un momento della sua vita
immensa».
ci sono tappe, nella storia, in cui sembra che tutto ciò che fino a quel momento
è stato considerato essenziale, crolli improvvisamente, e quindi nuovi ideali, nuove
speranze e nuovi valori si facciano strada con irruenza.
hugo “coglie sul fatto” proprio una di queste fasi fondamentali che hanno carat-
terizzato il secolo XiX.
il 1815, data dell’inizio della restaurazione, è un punto di riferimento importan-
te che segna una svolta nel progresso della storia umana; tale data è stata scelta
dall’autore come punto di partenza del suo racconto, che si dispiega poi lungo tutto
il periodo della crisi della democrazia francese, fino alla rivoluzione di luglio (1830),
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quando luigi Filippo d’orleans salì sul trono di Francia.


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si tratta di un periodo estremamente difficile nella storia francese, perché


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caratterizzato da profondi squilibri sociali, che il progresso tecnologico rendeva


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sempre più gravi.


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lo sfondo entro il quale si intrecciano le vicende del dramma è dunque la Francia


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del primo trentennio del secolo XiX e, in particolare, Parigi, le sue strade e i suoi
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quartieri, che in quegli anni turbolenti sono popolati da migliaia di infelici, emargina-
ti, disgraziati e derelitti.
a volte, questa cornice storico-geografica si dilata per dare spazio a grandiose
descrizioni epiche come, ad esempio, quelle che dipingono eroicamente la battaglia
di Waterloo o le barricate nell’insurrezione del 1848.
Monica
il contenuto generale
«i miserabili» narrano la storia di un popolano, Jean Valjean, che, per avere ru-
bato del pane destinato a sfamare i bambini di sua sorella, viene imprigionato; re-
sterà in carcere vent’anni a causa dei suoi numerosi tentativi di evasione, che tra-
mutano la pena in ergastolo.
Quando finalmente Jean valjean esce dal carcere, il suo animo è ormai inasprito
dalla lunga convivenza con delinquenti di ogni risma e dall’acredine nei confronti di
quella società ingiusta che lo aveva condannato e che ora mostra verso di lui un’im-
placabile ostilità.
ridotto allo stato di bestia errante, sembra destinato a diventare un vero crimina-
le. Ma il provvidenziale incontro con la sublime figura di monsignor Myriel riesce a
suscitare in lui un profondo desiderio di riabilitazione. Da quel momento il cuore di
valjean esce dall’ombra e, dopo tanti anni di oppressione e di miseria, si avvia verso
la redenzione.
in poco tempo riesce ad arricchirsi onestamente e permette a tutti coloro che gli
stanno attorno di avvantaggiarsi della sua prosperità. l’abnegazione, la carità evan-
gelica e la pietà per i sofferenti diventano lo strumento concreto della sua espiazio-
ne. solo il gendarme Javert riconosce in lui l’antico forzato e per anni gli darà la
caccia, ossessionato dalla smania di riconsegnarlo alla giustizia.
le vicende del protagonista si intrecciano con quelle di Fantine, una donna di-
sgraziata che ha intrapreso la strada della prostituzione per sostentare la figlia co-
sette. Questa bambina, affidata in un primo tempo ai thénardier, una coppia di mal-
fattori, finirà in seguito sotto la protezione di Jean valjean, che si occuperà del suo
futuro e della sua educazione con amore paterno.
cosette diventa quindi per l’ex galeotto la ragione di vita, l’unica persona al mon-
do che abbia saputo mostrargli affetto e riconoscenza.
Ma questo dolce incantesimo si dissolve quando il giovane Mario, simbolo della
nuova generazione che vive in quegli anni turbolenti, animata da ideali liberali e de-
mocratici, si innamora di cosette. sboccia così una tenera passione amorosa che,
dopo molte traversie, viene coronata da un felice matrimonio.
Mario, al quale Jean valjean ha confessato il suo passato di ergastolano, lo crede
un ladro e un assassino: per questo cerca di allontanarlo definitivamente da cosette.
Jean valjean trascorre gli ultimi mesi della sua vita solo, amareggiato e con una
fervente fede religiosa come unico conforto, ma la benevolenza divina farà in mo-
do che quest’anima caritatevole venga premiata per i suoi sforzi di redenzione e si
spenga serenamente fra le braccia di cosette e di Mario.
attorno ai fatti principali si svolge, a volte gloriosa e stupefacente, a volte misera-
bile e meschina, l’epopea del popolo; trovano, ad esempio, un’ampia e potente rie-
vocazione la battaglia di Waterloo, la vita dei bassifondi parigini, vivacizzati dalla ce-
lebre figura del monello gavroche, le regole dei conventi di clausura, l’insurrezione

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popolare del 1832.

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i motivi principali

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«Finché esisterà, per effetto delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale;

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finché i tre problemi del secolo: la degradazione dell’uomo per causa del proletaria-

atto
to, l’avvilimento della donna per causa della fame, l’atrofia del fanciullo per causa
delle tenebre, non saranno risolti; finché sulla terra vi saranno ignoranza e miseria,
libri della natura di questo non potranno essere inutili».
Queste sono le parole con le quali hugo presenta al lettore il suo romanzo e con
le quali rivela la tesi ispiratrice che lo ha guidato nella stesura del libro.
ciò che l’autore chiama la “dannazione sociale” è il motivo fondamentale che col-
lega tutti i personaggi e tutti gli eventi del romanzo e che li immerge in un unico
flusso di vita, quello dell’umanità sofferente e tuttavia grandiosa, che può riscattar-
si e trovare la sua rivincita attraverso l’amore.
Jean valjean, Fantine, gavroche concretizzano simbolicamente i tre grandi pro-
blemi del popolo menzionati nella “prefazione”; questi problemi, secondo hugo,
hanno le loro origini nella miseria, nell’ingiustizia, nell’indifferenza e nell’ignoranza
che persistono nella società del secolo XiX.
solo l’impegno e lo sforzo per cambiare le “cattive leggi” ed i “pessimi costumi”,
solo l’istruzione, la giustizia sociale, la pietà e la carità evangelica potranno impedi-
re ai disgraziati di diventare degli infami.
così infatti ha scritto l’autore: «Nel mio pensiero i miserabili non sono altro che
un libro che ha la fraternità come fondamento e il progresso come obiettivo».
Misticismo umanitario da una parte e rinnovamento sociale dall’altra sono quindi
i motivi ispiratori di questo straordinario romanzo popolare.
PerSoNaggi PriNciPali
JeaN ValJeaN
È il protagonista del romanzo che, vittima dell’ingiustizia sociale ed umana, ha
finito col radicarsi nel male e nell’infamia, trasformandosi così in un “miserabile”.
solo il generoso gesto del vescovo Myriel riesce a suscitare nel suo animo il
desiderio di espiazione e di redenzione; dopo la sua decisione di intraprendere per
il resto della sua vita la strada del bene, tutti coloro che lo incontrano ne traggono
beneficio e ricevono da lui aiuto, solidarietà, disponibilità.
È come se intorno a sé irradiasse un senso profondo e rassicurante di pace,
atto
dettato dalla consapevolezza di aver ritrovato, attraverso l’amore e la carità, la forza
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Monic
di vivere senza l’odio della disperazione.
Nell’intricata selva dei personaggi Jean valjean è come il tronco di un grande
albero da cui si diramano, ciascuna come simbolo di un motivo ispiratore, tutte le
altre figure secondarie. Nessuno meglio di lui simboleggia infatti la concezione di vi-
ta, basata su quell’armonica mescolanza fra manicheismo e cattolicesimo, che sor-
regge il pensiero dell’autore.
potenzialmente volto al bene, questo personaggio viene avvilito, degradato e ab-
brutito dalle miserie di una società ingiusta, che riesce a trovare terreno fertile tra
le bassezze che naturalmente allignano nell’animo umano.
con un grave e faticoso sforzo di espiazione egli riesce ad estirpare il male che
è in lui, ma non a raggiungere la serenità interiore, perché torturato dalla sensazio-
ne che qualsiasi opera di bene possa essere, da un momento all’altro, sopraffatta
dal male radicato in noi stessi.
Jean valjean rimane un disgraziato, un infelice, ma non un infame; è un “mise-
rabile” che si è riscattato attraverso l’amore e la pietà per i sofferenti, per mezzo
dei quali anche la sua sofferenza riesce a trovare degli spiragli di luce.
Quella specie di slancio messianico da cui è animato, i suoi silenzi, la sua malinco-
nia, il doloroso segreto riguardante il suo passato sono tutti sintomi della tragedia eti-
ca che il personaggio vive, quella cioè della continua lotta del bene contro il Male.

FaNtiNe
È la giovane fanciulla che, quasi per gioco, uno studente seduce e poi abbando-
na, costringendola ad affrontare la maternità nella solitudine e nella miseria.
le ristrettezze economiche la spingono ad affidare la figlia ad una coppia di bet-
tolieri che si riveleranno ben presto dei loschi individui e che pretenderanno, per il
mantenimento della bambina, un compenso talmente elevato da spingere Fantine
a intraprendere la degradante esperienza della prostituzione.
lo squarcio sociale che victor hugo dipinge attraverso la figura di questa donna,
perseguitata dalla sfortuna e precipitata nel fango, è uno dei più drammatici di tutto
o tt
il romanzo. Ga a
Non è certo il simbolo astratto della purezza femminile, ma quello tragicamente
on
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concreto, tracciato a tinte forti, della donna debole, ingenua e indifesa, che solo at-
M
traverso un profondo amore materno riuscirà a redimere i suoi peccati.

coSette
È la bambina che, abbandonata dalla madre (Fantine), vive tristemente la sua in-
fanzia per i maltrattamenti della perfida coppia (i thénardier), ai quali è stata affi-
data; sarà il provvidenziale incontro con Jean valjean a cambiare il destino della sua
disgraziata esistenza.
grandi occhi carichi di rassegnazione e malinconici, sommessa timidezza, devo-
zione amorevole verso l’uomo che si è preso cura di lei e l’ha allevata, fanno di que-
sto personaggio una figura pateticamente intensa.
cosette non è solo il simbolo della fanciullezza infelice; rappresenta anche il pro-
totipo della giovane castamente innamorata, che vive con candore e soavità la sua
passione amorosa.

Mario
rappresenta, all’interno del dramma, un modello di vita generosa e semplice, de-
stinata non a soccombere, bensì a tramandare nel futuro i nuovi princìpi democrati-
ci del secolo.
ricorda da vicino “l’idealista appassionato” della tradizione romantica; vive infat-
ti legato alla memoria del padre, un valoroso ufficiale dell’impero, e abbraccia con
calore la causa del popolo in nome del quale combatte sulle barricate durante l’in-
surrezione liberale democratica del 1832.
la vicenda amorosa che lo lega a cosette è un’esperienza appassionata e travol-
gente, e si concluderà felicemente anche per merito del suo ardore e della sua per-
severanza.

JaVert
È la figura dell’implacabile gendarme, che interpreta il senso del dovere nel modo
più rigoroso, al punto da apparire quasi inumano nello svolgimento dei suoi compiti.
egli riconosce in Madeleine l’antico forzato e da quel momento comincia la sua
ostinata caccia all’evaso Jean valjean che, per tutto il corso del dramma, sarà os-
sessionato da questo giudice spietato che lo aspetta, lo vigila e lo segue.
agli occhi di Javert l’umanità appare nettamente divisa fra coloro che rispettano
la legge e coloro che la trasgrediscono; non ci sono punti intermedi o sfumature,
solo linee chiare e precise.
coloro che hanno infranto la legge “devono”, senza tentennamenti o incertezze,
essere puniti, e Javert è il poliziotto che si immedesima pienamente nella sua pro-
fessione e quindi, in nome della giustizia, svolge puntigliosamente i suoi incarichi.
anche di fronte alla luce irradiata da Jean valjean sembra fatalmente cieco; ma
quando ne sarà illuminato, quando si accorgerà che la bontà caritatevole e la pietà
dell’ex galeotto sono superiori alla giustizia stessa, allora tutto quello schermo di
certezze e di princìpi intransigenti che lo sorreggevano, franeranno come un castello
di sabbia e gli rimarrà solo il sapore amaro e insopportabile di una vita lacerata da
inconciliabili criteri morali.

gaVroche
con una vigorosa maestria l’autore scolpisce questa figuretta bizzarra e simpati-
ca, modello tipico di uno dei tanti ragazzi di strada che animavano le vie parigine e
simbolo del popolo che si arrabatta fra le penurie quotidiane.
Figlio abbandonato dei thénardier, pur costretto a scordare presto i sogni dell’in-
fanzia, non vive la sua miserevole e solitaria esistenza con angoscia o afflizione:
sempre allegro, spavaldo e spensierato, riesce persino a trasmettere a chi gli sta in-
torno il suo coraggioso ottimismo nei confronti della vita.
l’intelligenza arguta e la spontanea generosità d’animo che lo caratterizzano,
rendono ancora più vivace e suggestiva la figura di questo piccolo monello parigi-
o tt
no, che morirà eroicamente su una barricata sotto gli sguardi attoniti e stupefatti
Ga
degli insorti. a ic
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i théNardier M
sono i loschi e malevoli padroni di una bettola, che per anni sfruttano ignobil-
mente e con crudeltà Fantine e la figlia cosette; per chiunque li incontri sul proprio
cammino sono una fonte di insidie e di inganni.
la loro disonestà e la loro bassezza d’animo li hanno fatti affondare sempre più
nel fango della stagnazione sociale; sono i borghesi mancati, declassati, degradati
e per questo astiosi e inferociti verso il mondo; sono “i miserabili” che non hanno
speranza di ritrovare la loro dignità perduta e che sono destinati a rimanere dei
gretti e degli infami.
la liNgua e lo Stile
al momento della pubblicazione «i miserabili» suscitarono un enorme scandalo
ed una reazione sdegnata da parte di molti autorevoli scrittori e critici del tempo.
baudelaire lo definì “un libro immondo e inetto” e Flaubert biasimò lo stile “ineso-
rabilmente scorretto e volgare”.
Fra la gente del popolo, invece, ebbe un’immediata ed entusiastica fortuna, tan-
to che hugo arrivò a scrivere nel suo libro segreto: “il successo dei «Miserabili» in-
furia” e, insieme ad esso, anche la fama dell’autore crebbe a tal punto da farlo di-
ventare la guida spirituale del popolo.
Ma perché «i miserabili» scatenarono il furore dei benpensanti, mentre vennero
accolti con tanto calore dalla gente comune? perché il romanzo fu considerato un
libro “sovversivo”, che si inseriva inequivocabilmente in un clima di rivoluzione so-
ciale?
victor hugo aveva avuto il coraggio di gettare un raggio di luce pietoso su quel-
la zona d’ombra che al tempo era assolutamente innominabile: la miseria. “io illumi-
no la notte” aveva detto a lamartine; infatti le pagine del suo romanzo mettevano
in primo piano la degradazione sociale, quella dei più deboli, dei vecchi, degli ope-
rai sfruttati, delle donne tradite, dei bambini abbandonati.
in quell’opera vastissima, ricca di una straordinaria abbondanza di motivi, la voce
dell’autore non era perciò quella del semplice narratore, bensì la voce di un testimo-
ne della storia che rivelava tragicamente ciò che aveva visto e ciò che pensava, im-
ponendo a viva forza un valore realistico al racconto.
tale realismo era oltremodo sottolineato dal fatto che l’argomento cardine del li-
bro, la miseria, veniva rappresentato attraverso il suo proprio linguaggio: il gergo.
per la prima volta era lo stesso popolo a parlare, nella sua lingua semplice, istinti-
va, chiara, schietta e, secondo alcuni, volgare.
in questo senso si può affermare che hugo ha dato celebrità ad un romanzo
storico nuovo, costruito attraverso il suo possente realismo “visionario”, la sua esu-
beranza di immagini concrete, i suoi squarci di vita quotidiana, le sue intense ana-
lisi di una società e dei suoi costumi, che contrapponevano costantemente all’egoi-
smo chiuso della borghesia, la sincera e spontanea generosità popolare.
era naturale, quindi, che l’ideologia borghese si sentisse inghiottita e offesa dalle
accuse che l’autore le rimproverava e che reagisse con disprezzo nei confronti di
quella che divenne l’opera più importante e popolare nella vasta produzione di
victor hugo.
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I miserabili
Riassunto dell’opera

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Parte PriMa
Fantine
- libro i -
un giusto
il romanzo inizia con la presentazione dell’angelica carità di monsignor Myriel,
l’uomo attraverso il quale il protagonista dell’opera, Jean valjean, riceverà la rive-
lazione del bene.
la trama degli eventi raccontati comincia a dispiegarsi intorno al 1815 ed è am-
bientato a Digne, dove monsignor Myriel svolge l’incarico di vescovo dal 1806.
prima della rivoluzione poche persone avevano conosciuto la famiglia Myriel,
quindi le notizie sul suo conto erano scarse ed incerte. pare che Myriel fosse figlio
di nobiltà togata e che buona parte della sua vita fosse stata dedicata al mondo e
alle galanterie, fino a quando l’avvento della rivoluzione non portò al crollo dell’anti-
ca società francese, che, impoverita e decimata, si disperse, cercando scampo al-
l’estero. Myriel emigrò in italia e, quando tornò, era sacerdote.
l’incarico vescovile gli venne assegnato in seguito ad un curioso incontro con Na-
poleone, che, durante la visita ad un parente, sentendosi insistentemente osserva-
to con curiosità da un vecchio, bruscamente gli chiese: «chi è quel buon uomo che
mi guarda?». il vecchio rispose: «sire, voi guardate un buon uomo ed io guardo un
grand’uomo. ciascuno di noi può trarne vantaggio». il vecchio era Myriel. Dopo po-
co tempo fu nominato da Napoleone vescovo di Digne.
come si accinse al nuovo incarico, Myriel decise di cedere la sua residenza, un
ampio e spazioso palazzo, all’ospedale, dove fissò la sua dimora; dei quindicimila
franchi di onorario che riceveva dallo stato, solo mille erano utilizzati per le sue spe-
se personali; il resto era devoluto ad opere assistenziali e caritatevoli.
Mo

con le entrate episcopali passavano per le sue mani grosse somme di denaro, ma
nulla di superfluo veniva aggiunto al suo modo di vivere: egli era il tesoriere di tutte
nic

le beneficenze.
a

Di tutto ciò che Myriel aveva posseduto un tempo gli rimanevano soltanto qual-
Ga

che posateria e due grandi candelabri d’argento.


tto

la sua abitazione era tra le più modeste che si possono immaginare e viveva in
compagnia di una sorella, battistina, e di una domestica, la signora Magloire, ambe-
due ultrasessantenni.
la casa non aveva una sola porta che si chiudesse a chiave e qualunque passan-
te avesse voluto entrarvi, non aveva che da spingere quella che dava sulla piazza
della cattedrale.
alle due donne, che per paura avrebbero preferito qualche chiavistello, soleva ri-
petere: «la porta del sacerdote deve essere sempre aperta».
i poveri del paese scelsero il nome Benvenuto per il loro vescovo, perché lo senti-
vano vicino come padre, fratello, amico. era il grande consolatore degli sventurati
e in qualunque ora lo si poteva chiamare al capezzale degli ammalati e dei moren-
ti. con la sua indole modesta ed umile egli sapeva entrare nel profondo delle anime
e mai pronunciava giudizi severi troppo in fretta senza tener conto delle circostanze
che avevano determinato il peccato.
Mo
Digne era una vasta diocesi; ciononostante monsignor Myriel visitava regolar-
nic
mente tutto il territorio e agli abitanti di un villaggio citava l’esempio del paese vici-
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att
no, perché ogni villaggio aveva qualcosa da imparare dai propri vicini.
c’è un fatto che chiarisce meglio la figura del vescovo di Digne. Dopo la distruzio-
ne della banda di gaspard bès, che aveva infestato i colli ollioules, uno dei suoi luo-
gotenenti, chiamato cravatta, con i superstiti della banda, si era nascosto sulle
montagne della diocesi di Digne, da dove calava sui villaggi seminando terrore e
morte. osò perfino penetrare di notte nella cattedrale di embrun e saccheggiare la
sacrestia.
in mezzo a quel terrore giunse il vescovo per fare il suo giro. invano il sindaco
di chastelar cercò di persuaderlo a tornare indietro: egli era deciso ad attraversare
la montagna senza alcuna scorta per visitare un piccolo comune, che non vedeva
da tre anni.
infatti partì, accompagnato soltanto da un fanciullo che gli faceva da guida. tra-
versò la montagna a dorso di mulo senza incontrare nessuno. giunse così sano e
salvo presso i buoni amici pastori.
prima di ripartire volle cantare un solenne te Deum, ma il curato del villaggio gli
fece presente che nella sagrestia non c’erano ornamenti episcopali, ma soltanto al-
cuni vecchi piviali di damasco ormai logoro. anche le chiese dei dintorni si trovava-
no nella stessa situazione.
Mentre si era in grande imbarazzo, giunsero due uomini sconosciuti, che depose-
ro nel presbiterio una gran cassa per il signor vescovo. poi sparirono
tempestivamente a cavallo.
aperta la cassa, vi trovarono una cappa di stoffa d’oro, una mitria ornata di
diamanti, una croce arcivescovile, una magnifica cotta, tutti i vestiti pontificali ruba-
ti un mese prima nella cattedrale di embrun. Nella cassa c’era anche un pezzo di
carta, sulla quale erano scritte queste parole: «cravatta a monsignor benvenuto».
Fu così cantato un solenne te Deum.
Quando il vescovo ritornò a chastelar, lungo la strada venivano a guardarlo per
curiosità. il buon vescovo disse: «avevo ragione. sono andato da quei montanari
con le mani vuote e ne ritorno con le mani piene, riportando il tesoro di una catte-
drale … Non bisogna aver paura né dei ladri, né degli assassini, ma soltanto di noi
stessi … i grandi pericoli sono dentro di noi. Non dobbiamo mai prendere precauzio-
ni contro il prossimo. Quello che il prossimo fa, iddio lo permette. limitiamoci a pre-
gare iddio quando crediamo che un pericolo stia per capitare sopra di noi. preghia-
Monica
molo non per noi, ma perché il nostro fratello non cada in peccato per colpa nostra».
Gatto
l’autore consiglia il lettore di non fare molte domande sulla sorte del tesoro. si
sa soltanto che nelle carte del vescovo fu trovata una annotazione piuttosto oscu-
ra: «la questione è se tutto questo deve ritornare alla cattedrale o all’ospedale».
c’era a digne un senatore (il conte ***), uomo molto pratico, che aveva fatto la
sua strada con rettitudine (dice ironicamente l’autore), senza curarsi di quegli
ostacoli detti comunemente coscienza, fede giurata, giustizia, dovere; egli aveva
marciato dritto al suo scopo, senza inciampare mai una sola volta.
si diceva discepolo di epicuro e rideva volentieri delle cose infinite ed eterne e
delle “chimere di quel buon vescovo”.
Qualche volta rideva anche davanti allo stesso monsignor Myriel, come capitò
quando ambedue furono invitati dal prefetto a pranzo.
alla frutta il senatore, un po’ brillo, confessò di avere una sua filosofia. Non crede-
va in Dio e non era pazzo di gesù, che predicava ad ogni passo la rinunzia e il sacri-
ficio. rinunzia, per che motivo? sacrificio, a chi? Dobbiamo vivere nel modo più gaio.
la vita è tutto. l’immortalità dell’uomo è una bazzecola! Una bella promessa! il pa-
radiso è come lasciare andare la preda per afferrare un’ombra. su questa terra si de-
ve soffrire o godere. Dove conduce la sofferenza? al niente. Ma avrò sofferto. Dove
conduce la gioia? al niente. Ma avrò goduto. Dunque la scelta era quella di godere.
Questa era la saggezza del senatore, che concluse: «in verità vi dico, signor ve-
scovo, ho la mia filosofia. Dopo questo ci vuole pure qualcosa per quelli che sono
in basso, per i pezzenti, per quelli che guadagnano poco, per i miserabili. si dan loro
da bere le fiabe, le chimere, l’anima, l’immortalità, il paradiso, le stelle! chi non ha
niente, ha il buon Dio … il buon Dio è per il popolo».
a questa professione di fede materialistica, il vescovo, con chiara ironia, così ri-
sponde, battendo le mani: «eccellente e veramente meraviglioso è questo materiali-
smo! Non è per tutti e chi lo possiede non si lascia lapidare come stefano, né bru-
ciare come giovanna d’arco; inoltre ha la gioia di sentirsi irresponsabile e di pensa-
re di poter divorare tutto senza troppi pensieri: i posti, le dignità, i poteri bene o
male acquistati, i tradimenti utili, le deliziose capitolazioni di coscienza. voi altri
grandi signori avete una filosofia tutta per voi, squisita, raffinata, accessibile sola-
mente ai ricchi, buona in tutte le salse; e non trovate nulla di male che la credenza
nel buon Dio sia la filosofia del popolo, allo stesso modo come l’oca con le casta-
gne può sembrare al povero il tacchino cucinato con i tartufi».
segue una lettera scritta da battistina ad un’amica d’infanzia, che descrive l’umi-
le vita quotidiana condotta dalla famiglia del vescovo e la maniera in cui quelle due
sante zitelle subordinavano le loro azioni, i loro pensieri, persino i loro istinti di don-
ne facilmente spaventate, alle abitudini e alle intenzioni del vescovo, senza che egli
dovesse neppure prendersi la pena di parlare per esprimerle.
poco dopo la data della lettera il vescovo fece una cosa che, a sentire l’opinione
di tutta la città, era anche più arrischiata della sua gita attraverso le montagne dei
banditi. Presso digne c’era un uomo che viveva solitario: si trattava di un convenzio-
nale, cioè di un deputato della cosiddetta convenzione, l’assemblea rivoluzionaria,
che governò la Francia dal settembre 1792 all’ottobre 1795.
la convenzione abolì all’unanimità la monarchia, condannò a morte il re con 387
voti su 721 votanti e nel ’93 dovette subire la sanguinosa dittatura di robespierre.
Dunque il convenzionale da anni viveva in un luogo lontano da tutte le strade,
lontano da tutti i casolari, in un vallone molto selvaggio. Nessuno gli si era mai av-
vicinato. era considerato un mostro, un boia. Non aveva votato la morte del re, ma
quasi. era stato terribile.
la gente si chiedeva come mai al ritorno dei principi legittimi non era stato
ghigliottinato e nemmeno bandito a vita.
egli era per di più un ateo, come tutta quella gente. il vescovo ci pensava e ogni
tanto, guardando il vallone, diceva: «là c’è un’anima sola. io gli devo una visita».
Ma, a dire il vero, non si decideva, perché l’idea gli sembrava stravagante, quasi ri-
pugnante.
Un giorno si sparse la voce che un giovane mandriano, che serviva il convenzio-
nale, era venuto a cercare un medico, perché il vecchio scellerato stava morendo.
«sia ringraziato Dio!» pensava qualcuno.
il vescovo prese il bastone, indossò il soprabito e si diresse senza esitazione nel
vallone. Qui vide una capanna molto bassa, povera, piccola e pulita: era l’abitazio-
tto
ne del boia. entrò e si trovò davanti un vecchio dai capelli bianchi, seduto su una
a
sedia a rotelle.
nicaG
iniziò così tra i due “nemici” un colloquio, inizialmente piuttosto burrascoso per
Mo
la diversità di opinioni: il convenzionale difendeva a spada tratta la rivoluzione, de-
finita “il più potente passo del genere umano dopo l’avvento di cristo … incompleta,
ma sublime”. Quanto agli eccessi del ’93, occorre ammettere che sono inevitabili.
egli tuttavia ha detto no all’uccisione del re, mentre ha votato la fine del tiranno,
la fine della prostituzione per la donna, la fine della schiavitù; ha votato la fraterni-
tà, la concordia, l’aurora; ha aiutato la caduta dei pregiudizi e degli errori. i rivolu-
zionari hanno fatto cadere il vecchio mondo, vaso pieno di miserie, che rovesciando-
si sul genere umano, è divenuto un’urna di gioia. il vecchio rimprovera poi il vesco-
vo di essere un principe della chiesa, uno di quegli uomini che hanno stemmi gen-
tilizi e rendite, cucine, livree, cibi gustosi; vanno in carrozza nel nome di gesù che
andava a piedi nudi.
il vescovo lo interruppe, precisando che se questo era vero, era altrettanto vero
che il ’93 era stato inesorabile.
Ma il convenzionale continuò ad insistere nel dire che la rivoluzione nel suo insie-
me era stata un’immensa affermazione umana e se il ’93 era stato spietato,
altrettanto lo era stata la monarchia e per più lungo tempo. infine concluse: «avevo
sessant’anni quando il mio paese mi ha chiamato e m’ha ordinato di mescolarmi
nelle sue faccende. ho obbedito; vi erano degli abusi, li ho combattuti; vi erano
delle tirannie, le ho distrutte; v’erano dei diritti e dei princìpi, li ho proclamati e con-
fessati. il territorio era invaso, l’ho difeso. la Francia era minacciata, ho offerto il
mio petto. Non ero ricco, sono povero … ho soccorso gli oppressi, ho confortato i
sofferenti. ho lacerato la tovaglia dell’altare, è vero, ma era per bendare le ferite

to
della patria … ho protetto, quando è stato necessario, i miei stessi avversari, voi
t
Ga
altri … ho salvato nel 1793 l’abbazia di santa chiara in beaulieu. ho fatto il mio
dovere secondo le mie forze, e il bene che ho potuto. Dopo tutto questo sono stato
ica

cacciato, deriso, schernito, maledetto, proscritto … ora ho ottantasei anni: sto per
on

morire. che cosa venite a domandarmi?»


M

«la vostra benedizione» disse il vescovo. e s’inginocchiò. Quando il vescovo rial-


zò la testa, la faccia del rivoluzionario era diventata severa. era spirato. il vescovo
rientrò a casa profondamente assorto in non so quali pensieri. passò tutta la notte
in preghiera. Quella visita pastorale fu naturalmente un’occasione di pettegolezzi da
parte degli abitanti di Digne.
l’autore continua l’analisi psicologica della figura di monsignor Benvenuto, in
rapporto all’atteggiamento assunto verso gli avvenimenti del tempo. egli non fu per
nulla un uomo politico; infatti non si interessava delle dispute teologiche del mo-
mento e taceva sulle questioni dei rapporti fra stato e chiesa.
ciononostante, quando l’onnipossente figura di Napoleone cominciò il suo inar-
restabile tramonto, la critica del vescovo di Digne verso il calpestatore del diritto e
della libertà fu spietata.
È difficile (dice l’autore) giudicare il vescovo di Digne dal punto di vista stretta-
mente ortodosso. certamente egli aveva un eccesso di amore sia verso gli uomini
sia verso le cose.
la sua dote migliore era la conversazione tanto amabile da legare a lui chi l’ascol-
tava. la preghiera, la celebrazione degli uffici religiosi, l’elemosina, la consolazione
degli afflitti, la fraternità, la frugalità, l’ospitalità, la rinuncia, lo studio, il lavoro riem-
pivano la sua giornata.
Non era un pensatore né si avventurava in speculazioni astruse. Quello che di
quest’anima semplice si può dire è che amava. l’universo gli appariva come un’im-
mensa malattia; sentiva dappertutto la febbre, ascoltava dovunque le sofferenze e,
per cercare di sciogliere l’enigma, procurava di lenire la piaga. per lui il dolore,
ovunque fosse, non era che un’occasione per esercitare sempre la pietà.
«amatevi l’un l’altro; ciò è tutto», affermava; in questo era tutta la sua dottrina.
- libro ii -
la caduta
Nei primi giorni di ottobre del 1815, un’ora prima del calar del sole, un uomo che
viaggiava a piedi entrò nella piccola città di digne.
gli abitanti, affacciati alla finestra, guardavano quel viaggiatore con una certa in-
quietudine. era difficile incontrare un viandante di aspetto più miserabile.
Di media statura, tarchiato e robusto, non mostrava più di quarantasei o quaran-
tasette anni. Un berretto nascondeva una parte del viso bruciato dal sole e dalla ca-
lura e gocciolante di sudore. sulla schiena portava uno zaino chiuso e nuovo. Nes-
suno lo conosceva. evidentemente era un viandante.
Quell’uomo doveva aver camminato tutto il giorno. sembrava assai stanco. si fer-
mò a bere ad una fontana, poi si diresse verso il Municipio; vi entrò e ne uscì dopo
un quarto d’ora, dirigendosi verso l’albergo chiamato “croce di colbas”, condotto da
un certo Jacquin labarre. era il migliore del paese.
l’oste, che era anche il cuoco, stava cucinando il pranzo destinato ai carrettieri
che si sentivano parlare e ridere nella stanza accanto.
lo sconosciuto entrò, chiedendo vitto e alloggio. l’oste lo squadrò e rispose che
atto

niente c’era di più facile quando uno paga. il forestiero assicurò di avere denaro.
Nell’attesa si sedette accanto al fuoco con la schiena voltata.
l’albergatore si tolse di tasca una matita, staccò un angolo di un vecchio giorna-
G

le, scrisse una riga o due, piegò e consegnò il pezzo di carta ad un fanciullo, che
c a

partì di corsa verso il Municipio. Quando tornò, riportando il biglietto, l’oste lo lesse,
Mon i

poi si volse al viaggiatore dicendo di non potergli dare né vitto né alloggio.


Di fronte alle proteste del viaggiatore, l’oste si chinò all’orecchio di lui e gli ordinò
di andarsene. voleva sapere chi era? gli mostrò il biglietto, dove c’era scritto Jean
valjean: così aveva risposto il Municipio.
l’uomo abbassò il capo e se ne andò. prese la via principale, camminando rasen-
te ai muri delle case mortificato e triste. ora si sarebbe accontentato anche di una
bettola. Ne trovò una in via chaffaut. entrò chiedendo da mangiare e da dormire.
l’oste lo accolse, ma nell’attesa un pescivendolo, che l’aveva incontrato la matti-
na lungo la strada e l’aveva rivisto all’albergo di Jacquin labarre, avvisò l’oste circa
l’identità del forestiero, che venne cacciato anche da questa bettola.
all’uscita alcuni ragazzi gli gettarono dei sassi. se ne liberò minacciandoli col ba-
stone. passò davanti alla prigione, suonò, chiedendo alloggio, ma il custode natural-
mente non glielo concesse. si avviò allora verso una viuzza contornata da giardini.
Qui vide una casetta ad un sol piano. guardò attraverso i vetri della finestra e scor-
se una famiglia composta da un uomo, una donna e un bambino; erano seduti a
tavola e scherzavano davanti alla mensa imbandita. bussò ai vetri, chiedendo un
piatto di minestra e un angolo nella rimessa per poter dormire. Ma il suo aspetto e
le voci che ormai si erano sparse nel paese fecero sì che anche da questa casa fos-
se cacciato.
la notte stava ormai scendendo minacciosa. alla luce pallida del giorno morente
il forestiero scorse una capanna, che era disabitata. sofferente per il freddo e per
la fame, decise di passare lì la notte, sdraiandosi su un letto di paglia. Ma ecco che
si sentì un ringhio feroce e una testa di un grosso cane si profilava nell’ombra sul-
l’uscio della capanna. era un canile.
Jean valjean riuscì a scappare proteggendosi col bastone. riattraversò la città,
camminando alla ventura, finché giunse nella piazza della cattedrale. rotto dalle fa-
tiche, privo di speranza, l’uomo si sdraiò su un banco di pietra.
in quel momento usciva dalla chiesa una vecchia che, vedendo quell’uomo diste-
so nell’ombra, gli si avvicinò e gli chiese che cosa facesse in quel luogo. saputa la
storia e in particolare il vano bussare alle porte degli alberghi, la donna gli consigliò
di bussare alla porta della chiesa. Qui vivevano il vescovo di Digne, monsignor ben-
venuto, e due simpatiche zitelle, la signorina battistina, sorella del vescovo, e la si-
gnora Magloire.
sentendo bussare, il vescovo disse: «avanti». entrò il forestiero, il cui aspetto fe-
ce tremare le due donne, ma non il vescovo. l’uomo disse di essere Jean valjean,
un galeotto, che aveva trascorso diciannove anni al bagno penale; era stato liberato
da quattro giorni e da quattro giorni camminava verso pontarlier senza riuscire a
trovare un alloggio e una cucina per mangiare. l’avevano cacciato da ogni locale

on
per il suo passaporto giallo, quello dei forzati. il vescovo diede ordine alle due don-

M
ne di mettere un altro posto a tavola e di preparare un letto per il forestiero.
Fu trattato, con sua grande meraviglia, come un fratello. venne servita la cena e
furono portate addirittura le posate d’argento, come solitamente si faceva quando
il vescovo aveva qualcuno a cena. per meglio illuminare la sala furono portati anche
due candelieri d’argento.
Durante la cena la conversazione fu condotta da mons. benvenuto con una de-
licatezza intimamente evangelica, senza allusioni o prediche moraleggianti, che
avrebbero potuto mettere in imbarazzo l’inatteso ospite, finché costui venne accom-
pagnato nella camera degli ospiti.
le vicende passate di Jean Valjean affondavano le loro radici nella miseria dei
contadini della Francia del tempo. ancora ragazzo, persi i genitori, condivise parte
della sua giovinezza insieme ad una sorella maggiore, vedova e madre di sette fi-
gli. si trovò perciò costretto ad assumersi l’onere della responsabilità di quelle picco-
le creature, che accudì con affetto e benevolenza. Un giorno, gli stenti e la fame lo
spinsero a rubare dalla vetrina di un fornaio un pane che sarebbe servito a sfama-
re i sette bambini; fu colto sul fatto e gli inesorabili termini del codice lo condanna-
rono a cinque anni di galera.
per quattro volte tentò l’evasione, ma venne sempre catturato e punito con l’ag-
gravamento di altri lunghi anni da scontare in prigione; era entrato nel 1796 e fu li-
berato nel 1815; era entrato disperato, impaurito e singhiozzante, e ne uscì impassi-
bile e fosco. che cosa era avvenuto nel suo animo?
in cella e nel duro lavoro del bagno penale Jean valjean ebbe modo di medita-
re. si costituì in tribunale e riconobbe di aver sbagliato. Ma in seguito si domandò
se soltanto lui aveva sbagliato e concluse che non era giusto che lui, lavoratore, si
trovasse sulla strada disoccupato e dovesse restare senza pane. così pure si chie-
se se la punizione non fosse stata eccessiva e se questa punizione non finisse per
essere una specie di attentato del più forte sul più debole, un delitto della società
sull’individuo, un delitto che durava da diciannove anni.
poste e risolte queste questioni, giudicò la società e la condannò. la condannò a
tutto il suo odio, perché non gli aveva fatto che del male. si convinse che la vita è
una guerra e che in questa guerra egli era il vinto. Non aveva altra arma che il suo
odio e questo se lo sarebbe portato via una volta ottenuta la libertà. giudicò anche
la provvidenza che aveva fatto quella società ed anch’essa fu condannata.
Jean valjean era buono di natura, ma capì che condannando la società diventa-
va malvagio, e condannando la provvidenza diventava empio. Questo stato d’animo
Mo
spiega i tanti e ostinati tentativi di evasione. in conclusione in diciannove anni di la-
nic
aG
vori forzati Jean valjean era diventato capace di due cattive azioni: la prima, una
att
cattiva azione rapida, irriflessiva, piena di stordimento, tutta d’istinto, una specie di
rappresaglia per il male sofferto; la seconda, una cattiva azione grave, seria, di- o
battuta con coscienza, meditata.
il movente era l’odio per la legge umana; un odio che, se non è arrestato, diven-
ta l’odio per la società, per il genere umano, per le cose create, che si tramuta in
un vago e incessante desiderio di nuocere, non importa a chi, purché sia un essere
vivente qualunque. Questo è il motivo per cui il passaporto qualificava Jean Valjean
uomo molto pericoloso.
gli anni che Jean valjean passò in galera lasciarono una traccia indelebile nel suo
spirito. egli era sprofondato nel mare dell’immensa miseria; intorno, solo oscurità,
nebbia e solitudine senza alcun punto d’appoggio: la morte morale, la stanchezza,
la rassegnazione erano penetrati nella sua anima.
Quando venne il giorno della sua liberazione, un raggio di viva luce lo abbagliò,
ma presto si rese conto che il “passaporto giallo” che portava in tasca avrebbe
trasformato il suo destino in una giungla di amarezze e di delusioni.
Dopo aver camminato a lungo, dopo aver bussato a molte porte per cercare ripo-
so e dopo i ripetuti rifiuti, aveva trovato ospitalità nella casa di mons. benvenuto,
che lo aveva accolto senza il minimo timore, offrendogli vitto e alloggio.
Da anni valjean non era più abituato ad un letto comodo e non riuscì quindi a
dormire che qualche ora. Quando suonarono le due all’orologio della cattedrale, si
svegliò e il suo pensiero corse repentinamente alle posate d’argento del vescovo ri-
maste sulla tavola; si alzò con risoluzione, prese il suo zaino, vi frugò dentro ed
estrasse un’aguzza sbarra di ferro con la quale si diresse verso la porta della came-
ra del vescovo.
Jean valjean ascoltò. silenzio. spinse la porta che cedette e si mosse appena; la
spinse una seconda volta ed essa continuò a cedere silenziosa, ma non era suffi-
ciente; si decise e spinse una terza volta più forte, tanto che si udì nell’oscurità uno
stridore prolungato.
Jean valjean si sentì perduto: il vescovo e le due vecchie si erano certamente
svegliati e avrebbero dato l’allarme. Ma non successe niente. Non si udì alcun ru-
more. Jean avanzò verso il letto e intravide il pallido viso del vescovo che dormiva
tranquillamente in un atteggiamento di dolcezza e di beatitudine, che lo turbò per
un momento, facendolo arrestare; ma poi riprese il cammino verso l’armadio. Non
ci fu bisogno di forzare la serratura: c’era la chiave, l’aprì; la prima cosa che vide fu
il cesto dell’argenteria; lo prese, attraversò la camera a grandi passi, raggiunse la
porta, entrò nell’oratorio, aprì la finestra, prese il bastone, scavalcò il davanzale del
pian terreno, mise l’argenteria nel sacco, gettò il cesto, attraversò il giardino, saltò
il muro.
l’indomani mattina, al levar del sole, mons. benvenuto passeggiava in giardino; fu
raggiunto dalla signora Magloire, che gli annunciò il furto e la fuga dell’uomo. il ve-
scovo restò un momento silenzioso, poi disse: «io tenevo a torto e da molto tempo
quell’argenteria. era dei poveri. che cos’era quell’uomo? evidentemente un povero».
Mentre, durante la colazione, il vescovo e le due donne commentavano l’accadu-
to, si sentì bussare. la porta si aprì e comparvero tre guardie, che tenevano per il
bavero Jean valjean, in atteggiamento confuso. Ma inaspettatamente il vescovo dis-
se: «sono contento di vedervi. ebbene, come mai? vi avevo regalato anche i can-
delieri, che sono anch’essi d’argento. perché non li avete presi?».
Jean valjean spalancò gli occhi con un’espressione che nessuno potrebbe espri-
mere, mentre il brigadiere disse: «Monsignore, allora è vero quello che diceva que-
st’uomo, quando l’abbiamo fermato, mentre fuggiva?». e, dopo aver chiesto l’as-
senso del vescovo, lasciò libero l’arrestato.
Mons. benvenuto prese i due candelabri e li diede a Jean valjean, che tutto tre-
aG atto
mante, macchinalmente li prese, turbato in volto.
Monic
il vescovo gli si accostò e a bassa voce gli disse: «Non dimenticate che mi avete
promesso di usare questo denaro per diventare un uomo onesto». poi pregò le
guardie di ritirarsi.
Jean valjean uscì dalla città come se scappasse. era in preda a un cumulo di sen-
sazioni, senza poter dire se fosse commosso o umiliato.
camminò per tutta la mattina senza meta e senza mangiare. pensieri inesprimibili
si accumularono in lui durante tutta la giornata.
verso sera si sedette vicino ad un cespuglio in una grande spianata deserta. si
trovava a circa tre leghe da Digne. era immerso nella sua stanca meditazione, quan-
do udì un rumore. si volse e vide che veniva sul sentiero un piccolo savoiardo di cir-
ca dieci anni, che cantava con la viola al fianco. Di tanto in tanto smetteva di canta-
re e giocava a testa o croce con alcune monete che teneva in mano.
il ragazzo si fermò vicino al cespuglio senza vedere Jean valjean. continuò a gio-
care con le monete, ma una da quaranta soldi gli sfuggì di mano e rotolò fino a Jean
valjean, che vi mise sopra il piede. il ragazzo, avendola seguita, si avvicinò allo sco-
nosciuto e senza alcun timore chiese la restituzione della moneta. Jean valjean
sembrò non udirlo. tenne la testa abbassata, fissando il terreno. chiese al ragazzo
come si chiamasse ed egli rispose: «gervasuccio, signore». poi il ragazzo continuò
M
ad insistere per riavere la sua moneta e si mise a piangere.
on
ica
Jean valjean alzò la testa e con viso truce gli intimò di andarsene. Questa volta il
Ga
ragazzo si spaventò e si mise a fuggire correndo con tutte le sue forze. Jean valjean,
pur immerso nel suo fantasticare, l’udì singhiozzare. Dopo qualche istante il ragaz-
tto
zo era scomparso.
intanto il sole tramontò e Jean valjean sentì improvvisamente un brivido per il
freddo della sera. probabilmente aveva la febbre. era rimasto in piedi senza cambia-
re posizione da quando il ragazzo era fuggito. cercò di sistemare il berretto sulla
fronte e di abbottonare la giacca. Fece un passo e si chinò per riprendere il basto-
ne. allora si accorse della moneta che il suo piede aveva quasi sotterrato. Fu come
un’improvvisa commozione. «che cosa è?» disse tra i denti. tornò indietro di qual-
che passo e la raccolse. si ricordò allora del ragazzo e si mise a camminare rapi-
damente in direzione in cui era sparito gervasuccio.
soffiava un vento glaciale e il paesaggio era ormai ricoperto dalla nebbia. ogni
tanto l’uomo si fermava e a gran voce chiamava il ragazzo, ma le sue grida si spe-
gnevano nelle tenebre e nella nebbia.
allora ripensò alla sua avventura a Digne, alla sua cattiva azione, alle parole del
vescovo, all’incontro col ragazzo, al furto della moneta e si sentì un miserabile.
sconvolto da queste riflessioni, camminava come un ubriaco. Forse non se ne
rendeva conto, ma qualche cosa era in lui cambiata.
ad un tratto ebbe l’impressione di vedere una luce, che sembrava una fiaccola.
guardando meglio, riconobbe che questa luce aveva forma umana: era il vescovo.
ad un tratto la luce sparì. il vescovo era rimasto. riempiva tutta l’anima di quel mi-
serabile con uno splendore magnifico.
Jean valjean pianse a lungo con singulti. Quante ore pianse così? che cosa fece
dopo aver pianto? Dove andò? Nessuno seppe mai dirlo. pare soltanto accertato che
il barrocciaio che faceva servizio da grenoble e che arrivava a Digne verso le tre del
mattino, vide, traversando la strada del vescovo, un uomo in ginocchio nell’ombra,
come se pregasse, davanti alla porta di monsignor benvenuto.
- libro iii -
Nell’anno 1817
Nell’anno 1817, l’anno in cui Napoleone era a sant’elena e si era ormai chiusa per

atto
sempre la rivoluzione, a parigi, quattro giovani studenti vissero con la spensieratez-
za dei vent’anni un’avventura amorosa con quattro deliziose e ridenti ragazze del

aG
popolo.
i giovani erano camerati, le ragazze erano amiche; per Fantine quella fu la sua

Monic
prima illusione, il primo amore, un amore unico e fedele.
tholomyès, l’eterno studente, ricco e di buona famiglia, era l’uomo del quale si
innamorò e insieme vissero dolci momenti di gaiezza e di allegria.
la felice comitiva di studenti e di sartine organizzò, una domenica, una gita in
campagna: fu il loro ultimo incontro.
Dopo il pranzo, consumato in un’osteria ai campi elisi, i quattro giovani si alzaro-
no, dicendo di attenderli per una sorpresa.
Un’ora più tardi venne recapitata alle ragazze una lettera, nella quale i quattro
giovani spiegavano che era giunto il momento del loro rientro nella buona società,
nel dovere, nell’ordine; essi si sacrificavano per il bene dei loro genitori e per la
patria.
Fantine si era data a tholomyès con l’affetto di una moglie ed ora aspettava un
bambino.

- libro iV -
Qualche volta affidare è abbandonare
la partenza dei quattro giovani aveva, in poco tempo, spezzato il legame anche
tra le amiche.
Fantine era rimasta sola e al dolore si aggiunsero le ristrettezze economiche. le
lettere che spedì a tholomyès non ebbero alcuna risposta; non avrebbe mai più rivi-
sto l’uomo che aveva amato e dal quale aveva avuto una bambina.
Dopo un paio d’anni di stenti decise di ritornare nella sua città natale, Montreuil
Marittima, dove forse sarebbe stato più facile trovare lavoro. a ventidue anni,
portando in braccio la sua piccina, Fantine lasciò parigi.
ora, un nuovo straziante problema le si poneva innanzi: per farsi accettare dalla
società avrebbe dovuto separarsi, almeno per un certo tempo, da sua figlia cosette;
Fantine, comunque, aveva già acquisito quel duro coraggio necessario talvolta alla
vita.
Monic
purtroppo il destino fu con lei ancora crudele e la scelta della famiglia a cui affida-
re sua figlia fu certamente una scelta sbagliata.
i thénardier erano infatti delle losche figure, che appartenevano a quella classe
bastarda di approfittatori volgari; nella donna c’era il fondo di un bruto, nell’uomo
la stoffa di un pezzente; erano inquietanti per il loro passato e minacciosi per l’avve-
nire.
la bettola che i thénardier gestivano andava male, quindi i due coniugi accetta-
rono volentieri la proposta di Fantine, che avrebbe procurato loro un inaspettato
guadagno mensile.
vestivano cosette con degli stracci, la nutrirono con degli avanzi e ancor prima
che raggiungesse i cinque anni di età, la fecero diventare la serva di casa; tutti i
giorni cosette veniva punita, sgridata, strapazzata, percossa, mentre le due figlie
della signora thénardier vivevano come avvolte in un raggio d’aurora.
gli abitanti del paese presero l’abitudine di chiamare quella piccola creatura che
viveva con i thénardier, grande poco più di un uccellino, sempre tremante, spaven-
tata e scossa da fremiti, l’allodola. soltanto, il “povero uccellino” non cantava mai.

- libro V -
la discesa
lo sviluppo economico e il livello sociale di Montreuil era cambiato bruscamente
nel 1815.
Uno sconosciuto, di nome Madeleine, si era stabilito in città e aveva avuto la ge-
niale idea di introdurre una piccola trasformazione nel metodo di fabbricazione
dell’industria delle perle di vetro nere. ciò aveva permesso di diminuire il costo delle
materie prime e migliorare il prodotto fabbricato.
in meno di tre anni quest’uomo era diventato ricco e, cosa ancora più importan-
te, la sua abilità e furbizia avevano fatto la fortuna di tutto il paese, rendendo Mont-
reuil Marittima un centro d’affari considerevole. prima dell’arrivo di Madeleine tutto
nella città languiva; ora la disoccupazione e la miseria erano sconosciute.
l’unica cosa che Madeleine esigeva dai suoi operai era l’onestà; spese più di un
milione in opere pubbliche ed assistenziali, quindi il paese gli doveva molto e i pove-
ri gli dovevano tutto; ciò spiega perché finì per essere soprannominato “papà Ma-
deleine”. i servizi resi erano così evidenti che, con voto unanime, il re lo nominò
sindaco della città.
con tutto ciò era rimasto un uomo semplice. adempiva ai suoi doveri di sindaco,
ma all’infuori di ciò, viveva solitario. parlava con poche persone; salutava con pre-
mura e si allontanava subito. le donne dicevano di lui: «che buon orso!».
Mangiava sempre solo: masticava e leggeva su un libro aperto davanti sul tavo-
lo. gli piacevano i libri.
Da quando era a Montreuil si notava che il suo modo di parlare si faceva più cor-
retto, più scelto.
spesso se ne andava nelle sue passeggiate col fucile in spalla, ma se ne serviva
raramente, anche se aveva una mira infallibile. per quanto non fosse più giovane,

atto
si diceva che era dotato di una forza spaventosa.
era esperto di agricoltura e conosceva una quantità di segreti utili che insegnava

G
ai contadini. Quando vedeva una chiesa parata a lutto, vi entrava e si univa alle fa-

nica
miglie in lutto e agli amici addolorati. senza numero erano le sue buone azioni, che
egli nascondeva come gli altri nascondono le cattive.

o
era affabile e triste; il popolo diceva: «ecco un uomo ricco che non ha superbia».

M
le donne maligne dicevano che la sua camera era una grotta. egli le introdusse nel-
la “grotta”, perché si rendessero conto che era una semplice camera con mobili di
mogano piuttosto brutti. Nonostante questo continuarono a dire che era una grot-
ta d’eremita, un luogo di meditazione, un buco, una tomba.
si sussurrava anche che avesse delle somme “immense” depositate da laffitte a
condizione che fossero sempre a sua immediata disposizione. si parlava di tanti mi-
lioni. in realtà erano somme di gran lunga inferiori.
sul principio del 1821 i giornali diedero notizia del decesso di monsignor Myriel,
vescovo di Digne. il vescovo quando morì era cieco da parecchio tempo, ma ebbe la
fortuna di avere sempre vicino la sorella. l’annuncio della morte fu riportato anche
sul giornale locale di Montreuil. l’indomani il signor Madeleine uscì vestito di nero.
Nella città si notò questo lutto. se ne parlò e si concluse che una qualche paren-
tela doveva esserci tra il signor Madeleine e il vescovo venerato. ciò accrebbe la sti-
ma di cui godeva il sindaco e gli diede subito una certa considerazione presso la no-
biltà locale. a chi glielo chiese, il signor Madeleine negò ogni vincolo di parentela;
disse che in gioventù aveva servito quale valletto nella famiglia di lui.
Fecero anche un’altra considerazione: notarono che ogni volta che passava per
la città un piccolo savoiardo, di quelli che girano per le città alla ricerca di camini da
spazzare, il signor sindaco lo faceva chiamare, gli chiedeva il nome e gli dava del
denaro: per questo il passaggio era piuttosto frequente.
a poco a poco e col tempo tutte le opposizioni, le maldicenze e le calunnie con-
tro il signor Madeleine, che inevitabilmente devono subire quelli che diventano cele-
bri, cessarono del tutto. il rispetto verso questo cittadino diventò assoluto. si veni-
va anche di lontano a consultarlo. egli componeva le questioni, evitava le liti,
riconciliava i nemici; tutti lo prendevano a giudice del proprio buon diritto. Un solo
uomo si sottrasse a questo contagio.
Quando vedeva passare il signor sindaco sorridente e riverito, accadeva che un
uomo di alta statura, con un vestito grigio ferro, armato di un grosso bastone e col
cappello calato sugli occhi, si volgesse indietro bruscamente e lo seguisse con lo
sguardo fino a che era scomparso. poi alzava il labbro superiore con l’inferiore sino
a toccare il naso, faceva una smorfia che si potrebbe significare con queste parole:
«Ma chi è quell’uomo? Di sicuro l’ho già visto in qualche posto. in ogni caso non mi
lascio gabbare da lui».
Questo individuo era uno di quelli che, anche se visti di sfuggita, preoccupavano
l’osservatore. Si chiamava Javert ed era della polizia. a Montreuil faceva funzioni di
ispettore. godeva della protezione del prefetto di polizia di parigi.
Quando venne a Montreuil, Madeleine era già il signor Madeleine. ora, se si am-
mette che in ogni uomo c’è una specie animale, ci sarà facile dire che cosa fosse
Monl’agente Javert. i contadini delle asturie sono convinti che in ogni parto di lupa ci
sia un cane, il quale viene ucciso dalla madre, senza di che, diventando grande, di-
i
vorerebbe gli altri piccini. Date un volto umano a questo cane nato da una lupa e
avrete Javert.
egli era nato in prigione da una chiromante, il cui marito era in galera. Diventan-
do uomo, pensò che era venuto al mondo fuori della società, e disperò di potervi
mai entrare. per questo entrò nella polizia. vi fece carriera. a quarant’anni era ispet-
tore. in gioventù era stato impiegato tra i forzati del mezzogiorno.
Due sentimenti dominavano quest’uomo: il rispetto all’autorità e l’odio alla
ribellione. per lui il furto, l’omicidio, tutti i delitti non erano che forma di ribellione.
egli riponeva una fede cieca e assoluta in tutti quelli che hanno una funzione nel-
lo stato e un totale disprezzo per chi sbagliava anche una sola volta. era assoluto,
non ammetteva eccezioni. tutta la sua vita si comprendeva in due parole: vegliare
e sorvegliare. guai a chi cadeva sotto le sue unghie! avrebbe arrestato anche suo
padre e sua madre se avessero sbagliato.
si comprenderà senza fatica che Javert era il terrore di quelli che la statistica an-
nuale del Ministero di giustizia designa sotto il nome di: gente senza edificazione
sociale. il suo apparire li faceva rimanere come pietrificati.
Questo era l’uomo terribile che teneva d’occhio Madeleine, il quale se n’era accor-
to, ma sembrò che non vi desse peso. trattava Javert come tutti gli altri, con
disinvoltura e bontà. Javert era sconcertato da questo comportamento.
Una mattina il signor Madeleine, passando per una strada secondaria, vide un
gruppo di persone; si avvicinò e notò che un vecchio, chiamato papà Fauchelevent,
giaceva sotto il proprio carro, il cui cavallo era stramazzato a terra. il povero vec-
chio si lamentava e chiedeva aiuto. inutilmente il sindaco chiese se c’era qualcuno
disposto a introdursi sotto il carro e a sollevarlo facendo forza sulla schiena. occor-
reva un uomo forte, ma la cosa era possibile. il sindaco offrì ben dieci luigi, ma non
si trovò nessuno disposto a compiere l’impresa.
ad un tratto si sentì una voce, quella di Javert, il quale disse, rivolto a Madeleine,
che soltanto un uomo formidabile avrebbe potuto compiere una simile impresa. egli
aveva conosciuto un solo uomo capace di portare a termine un simile salvataggio.
era un forzato al bagno penale di tolone.
Madeleine capì l’allusione e trasalì, ma non si scoraggiò. Di fronte alle grida del
vecchio, Madeleine si chinò e prima che la folla lanciasse un grido, era sotto il carro.
tutti i presenti erano con il fiato sospeso, ma improvvisamente si vide il carro solle-
varsi lentamente e si udì una voce che chiedeva aiuto. era Madeleine, che aveva
fatto il suo ultimo sforzo. Molti si precipitarono: il vecchio Fauchelevent era salvo
grazie all’abnegazione di uno solo.
Madeleine, pallido e grondante di sudore, si rialzò tra il pianto dei presenti. aveva
sul volto un’espressione felice e celestiale; e fissava il suo occhio tranquillo su
Javert, che continuava a guardarlo.
Ma torniamo a Fantine. Mentre cosette viveva in balìa delle malvagità dei thénar-
dier, Fantine discendeva lentamente di miseria in miseria. Quando arrivò a Montreuil
nessuno si ricordava più di lei; fortunatamente la fabbrica del signor Madeleine era
come un volto amico per qualsiasi bisognoso. ella vi si presentò e fu ammessa nel
laboratorio delle donne. il lavoro era per lei completamente nuovo e perciò
inizialmente difficoltoso. poi Fantine si abituò e poté guadagnarsi da vivere.
Ma una mattina, la sorvegliante del laboratorio la licenziò a nome del sindaco. in
verità Madeleine non ne sapeva nulla e tutto ciò era solo il frutto della cattiveria di
quella megera, guardiana e portinaia delle virtù di tutti. la bramosia della curiosità
e del pettegolezzo l’aveva spinta a spiare i segreti di Fantine e, scoperta l’esistenza
della figlia illegittima, si sentì in diritto di giudicarla e di condannarla.
Fantine fu licenziata e passarono molti mesi senza possibilità di lavoro e quindi di
guadagno. i thénardier chiedevano continuamente denaro, affermando che
cosette era nuda e soffriva il freddo.
Fantine arrivò perfino a sacrificare i suoi bei capelli per la somma di dieci franchi,
con cui comprò una gonna di lana, che inviò alla piccola cosette. pensava d’averla
riparata dal freddo. Ma non era così: i thénardier volevano soldi; vendettero quin-
di la gonna e cosette rimase al freddo.
pressata dalle continue richieste dei thénardier, finì per vendere anche due denti
davanti per due napoleoni, cioè quaranta franchi, che sarebbero serviti per curare
cosette, che i thénardier dicevano falsamente essere ammalata.
Ma i thénardier non cessavano di chiedere continuamente denaro, che Fantine,
ridotta in una misera soffitta, non possedeva.
Quando giunse una lettera di thénardier che chiedeva l’immediato invio di cento
tto
franchi con la minaccia di mettere alla porta la piccola cosette, alla sventurata non
a
nicaG
rimase che vendere “il resto”: e si fece prostituta.
la storia di Fantine è la società che compera una schiava dalla miseria, dalla fa-
Mo
me, dal freddo, dall’ignoranza, dall’abbandono, dalla nudità. si vende un’anima per
un tozzo di pane. la legge di cristo sta sopra alla nostra civiltà, ma non l’ha pene-
trata. si dice che la schiavitù è sparita dalla civiltà europea. Non è vero. esiste sem-
pre, ma grava soltanto sulla donna e si chiama prostituzione.
a Fantine non resta più nulla. le è accaduto tutto ciò che può accadere. ha senti-
to tutto, ha sopportato tutto, provato tutto, sofferto tutto, perduto tutto, pianto tut-
to. si è rassegnata con quella rassegnazione che assomiglia all’indifferenza, come
la morte assomiglia al sonno. Non ha più paura di niente. È come una spugna sa-
tura.
c’è in tutte le piccole città una classe di giovanotti, che in provincia spendono
millecinquecento franchi di rendita con la stessa superbia dei loro pari che a parigi
spendono duecentomila franchi all’anno. sono esseri inutili, parassiti, che sarebbe-
ro zotici in salotto e si credono gentiluomini al caffè, dove dicono i miei prati, i miei
boschi, i miei contadini; fischiano le attrici per far vedere che hanno buon gusto, at-
taccano lite con gli ufficiali della guarnigione per far vedere che sono bellicosi, van-
no a caccia, fumano, sbadigliano, bevono, puzzano di tabacco, giocano al bigliardo,
vivono al caffè e pranzano all’albergo, esagerano le mode, disprezzano le donne,
non lavorano, non servono a nulla e non nuocciono molto. sono semplicemente dei
fannulloni.
in quei tempi per fare un uomo elegante bastava un colletto alto, una cravatta
sgargiante, un orologio con ciondoli, tre panciotti con colori differenti, una corta
giacca color oliva, a doppia bottoniera d’argento, stivali con piccoli ferri ai tacchi e
soprattutto speroni e baffi.
Una sera, otto o dieci mesi dopo gli avvenimenti narrati, uno di questi fannullo-
ni, elegante, vestito alla moda, si divertiva a molestare una donna molto scollata,
che gironzolava davanti alla vetrina del caffè degli ufficiali. ogni volta che la donna
gli passava davanti le gettava, con uno sbuffo di fumo del suo sigaro, qualche frase
che reputava spiritosa: «Quanto sei brutta! vatti a nascondere! sei sdentata! ecc.,
ecc.». costui si chiamava signor Bamatabois.
ad un certo punto, approfittando del momento in cui la donna gli voltava le spal-
le, prese una palla di neve e gliela cacciò sulle spalle nude. la donna mandò un
ruggito, si voltò, balzò come una pantera, e si buttò sull’uomo affondandogli le un-
ghie nel volto, con le più terribili parole che si possono pronunciare.
al rumore che si produsse gli ufficiali uscirono dal caffè, i passanti si fermarono
e si formò un cerchio di gente che rideva, fischiava e applaudiva. l’uomo si dibatte-
va, la donna si accaniva a dargli calci e pugni; era senza cappello, senza denti, sen-
za capelli, e urlava, livida, piena di rabbia.
ad un tratto un uomo d’alta statura si fece largo tra la folla, prese la donna per
Mo
il giubbetto pieno di fango e le disse: «seguimi!». la donna alzò la testa; la sua vo-
nic
ce furiosa si spense; i suoi occhi erano vitrei, era diventata pallida e tremava di pau-
aG
att
ra. aveva riconosciuto Javert. l’elegantone aveva approfittato dell’incidente per
o
svignarsela.
MonicaGatto
Javert si diresse verso l’ufficio di polizia, che si trovava nelle vicinanze, trascinan-
dosi dietro la miserabile. Quando vi giunse, aprì la porta, entrò con la donna e la ri-
chiuse con grande delusione dei curiosi. Fantine sedette in un angolo e Javert prese
un foglio e si mise a scrivere. le disgraziate come questa sono abbandonate alla di-
screzione della polizia; così erano le leggi a quel tempo.
Javert era impassibile, ma anche preoccupato. sapeva che stava esercitando sen-
za controllo, ma con tutti gli scrupoli di una coscienza severa, il suo terribile pote-
re arbitrario; sentiva che il suo sgabello di agente di polizia era un tribunale. egli
giudicava. giudicava e condannava. Una prostituta aveva attentato a un cittadino.
Questo aveva visto, lui, Javert.
Dopo aver scritto in silenzio, piegò la carta, la consegnò al sergente di guardia e
gli intimò di portare la donna in prigione: ne avrebbe avuto per sei mesi. la
disgraziata trasalì. inutilmente pregò, scongiurò, chiese perdono. parlò a lungo cer-
cando di spiegare l’accaduto e di raccontare la sua triste storia.
Javert l’ascoltò, poi disse: «hai detto tutto? vattene adesso, hai i tuoi sei mesi.
il padre eterno in persona non ti potrebbe far più niente». Fantine si accasciò su se
stessa mormorando: «grazia!».
Quando i soldati afferrarono la disgraziata per portarla via, usci dall’ombra della
stanza un uomo: era Madeleine.
Javert salutò con deferenza il signor sindaco. al sentire la parola “sindaco” Fantine
si alzò, respinse i soldati, si incamminò verso il signor sindaco e guardandolo con
viso stravolto, si mise a ridere e gli sputò in faccia.
Madeleine si asciugò il volto e disse: «ispettore Javert, mettete questa donna in
libertà». all’udire quest’ordine, l’ispettore si sentì diventare pazzo; ebbe come un
capogiro per lo stupore, insieme gli mancarono il pensiero e la parola. restò muto.
Non meno stupita rimase Fantine, la quale, credendo che l’ordine fosse stato
dato da Javert, si sprofondò in mille ringraziamenti all’ispettore, al quale precisò che
a cacciarla dalla fabbrica, riducendola alla miseria, era stato il signor sindaco a
causa di un branco di pettegole che fanno delle chiacchiere nel laboratorio.
Non è stata una vergogna mettere sulla strada una povera ragazza che fa one-
stamente il suo lavoro? il signor Madeleine l’ascoltava con un’attenzione profonda.
Fantine continuò a parlare, raccontando la sua triste storia; poi, rivolgendosi ai sol-
dati, disse loro di lasciarla andare, dal momento che l’ispettore l’aveva lasciata libe-
ra. Fece per andarsene, ma Javert ordinò al sergente di fermarla.
a questo punto sorse una violenta disputa tra l’ispettore, che rivendicava a sé la
decisione di condannare o liberare Fantine, essendo quello un fatto di polizia strada-
le, e il sindaco, che affermava essere quello un fatto di polizia municipale, per cui
in base agli articoli del codice d’istruzione criminale spettava a lui esserne il giudi-
ce. per questo decretò la scarcerazione della donna, ordinando all’ispettore che pro-
testava di uscire. Questi, seppure a malincuore, non poté far altro che obbedire.
Fantine, che si era tratta da parte, era in preda a un inesprimibile sconvolgimen-
to. Non si rendeva conto come quell’uomo, che lei aveva insultato e giudicato il re-
sponsabile di tutti i suoi mali, avesse deciso di salvarla.
MonicaGat
Uscito Javert, il sindaco si rivolse a Fantine, dicendole che egli non sapeva nulla
di quanto le era accaduto. Non sapeva neppure che avesse lasciato i suoi laborato-
ri. tuttavia promise di pagare tutti i debiti della donna, di far venire la sua piccina,
e di farla vivere con lei a parigi o altrove. egli si sarebbe interessato di lei e della fi-
glia. Non avrebbe avuto più bisogno di lavorare, perché le avrebbe dato tutto il de-
naro necessario per vivere felice accanto alla sua piccina.
a Fantine sembrava impossibile tutto questo. guardò con stupore l’uomo che le
parlava e poté appena emettere due o tre singhiozzi: le gambe le si piegarono, si
mise in ginocchio davanti a Madeleine, gli prese la mano e vi posò le labbra. poi
svenne.

- libro Vi -
Javert
per ordine del signor Madeleine, Fantine fu trasportata in un’infermeria e affidata
alle cure delle suore, ma quella manciata di neve sulla pelle nuda era stata fatale e
il medico riferì a Madeleine che alla povera donna restavano pochi giorni di vita.
Madeleine aveva trascorso tutta la notte e la mattinata ad informarsi e ora
conosceva nei minimi e più dolorosi particolari la storia di Fantine.
scrisse immediatamente ai thénardier, affinché conducessero subito cosette a
Montreuil Marittima, dove la mamma ammalata la desiderava e mandò loro il dop-
pio della somma che Fantine doveva ancora pagare.
i thénardier, stupiti e ingolositi dal denaro ricevuto, addussero un’infinità di ra-
gioni, una più perversa dell’altra, per ritardare la consegna della bambina e nel
frattempo spillare quanto era possibile dal ricco benefattore.
Una mattina, mentre Madeleine era nel suo ufficio, gli annunciarono che l’ispetto-
re di polizia Javert desiderava parlargli. Madeleine lo fece entrare. era evidente che
l’ispettore era profondamente turbato.
Dopo aver salutato con un inchino il sindaco, gli annunciò che era stato commes-
so un atto colpevole: un agente inferiore aveva mancato di rispetto a un magistrato,
precisando poi che l’agente era lui e il magistrato proprio Madeleine.
Di fronte alla meraviglia del sindaco, Javert aggiunse che la sua colpa era quella
di aver pensato che Madeleine fosse l’ex forzato Jean valjean e come tale l’aveva
denunciato alla prefettura di Parigi. Dalla prefettura gli era stato risposto che era
impossibile, perché il vero Jean valjean era stato trovato dopo la sua scomparsa. si
trattava di un tizio che si chiamava papà champmathieu; arrestato per un furto di
mele e portato in prigione, era stato riconosciuto da un vecchio forzato. lo stesso
Javert, convocato dal giudice, l’aveva riconosciuto. presto sarebbe stato processato
ad arras e condannato, perché rubare delle mele per un ex galeotto è un crimine.
Javert sarebbe andato al processo come testimone. chiedeva però di essere de-
MonicaGa
stituito per aver sbagliato. per lui chi sbaglia deve pagare.
tto
inutilmente il sindaco confermò la sua piena fiducia nell’ispettore: questi se ne
andò dicendo che avrebbe continuato il suo servizio fino al momento della sua
sostituzione.

- libro Vii -
il processo champmathieu
Dopo l’inquietante incontro con Javert, Madeleine, come ogni giorno, andò a
trovare Fantine, che lo accoglieva sempre con gioioso calore. poi si recò in città per
noleggiare una carrozza con un cavallo che fosse in grado di percorrere venti leghe
in un giorno e si assicurò che gli venissero consegnati la notte stessa alle quattro e
mezza precise.
il lettore avrà certamente capito che il signor Madeleine altri non era che Jean
Valjean.
Questi, dopo l’avventura di gervasuccio, fu un altro uomo. riuscì a sparire, dopo
aver venduto l’argenteria del vescovo, tenendo soltanto i due candelabri per ricor-
do. passò di città in città, attraversò la Francia, giunse a Montreuil Marittima, dove
visse tranquillo, non avendo che due pensieri: nascondere il suo nome e santificare
la sua vita.
la cosa gli riuscì fino al momento in cui l’ispettore Javert pronunciò quel nome
da lui sepolto tanto profondamente. Mentre sentiva parlare l’ispettore, ebbe un pri-
mo pensiero di andare immediatamente a denunciarsi, tirando fuori dalla prigione
il povero champmathieu. Ma poi soffocò la sua emozione e decise di attendere e di
meditare. predominò in lui l’istinto di conservazione. passò così la giornata apparen-
temente tranquillo, ma internamente agitato.
alla sera, dopo aver mangiato, chiusosi nella sua camera, riprese ad esaminare
la sua situazione e mille pensieri si affollarono alla sua mente. ad un certo punto
disse: «andiamo, non pensiamoci più». Ma poco dopo non poté fare a meno di pen-
sare che lasciar condannare quell’uomo innocente era un delitto inqualificabile, vile,
perfido, odioso.
Dopo mille dubbi e mille ripensamenti decise di compiere il suo dovere e di salva-
re quell’uomo. prese i suoi libri, li verificò e li mise in ordine. gettò nel fuoco il libro
at
icaG
dei suoi crediti che aveva verso piccoli commercianti in difficoltà economiche. poi
scrisse una lettera che suggellò, scrivendo sulla busta: al signor laffitte, banchiere,

Mon
via d’artois, parigi. la mise in tasca; poi prese un portafoglio che conteneva qual-
che biglietto di banca e il passaporto ed iniziò nuovamente a camminare, osses-
sionato ancora una volta da mille pensieri. sentì suonare la mezzanotte prima alla
parrocchia e poi al palazzo municipale.
tornò sulla sua decisione di denunciarsi, ma a questo punto gli venne in mente
la povera Fantine. che avrebbe fatto senza di lui? si determinò così un’altra crisi.
ancora dubbi, incertezze, decisioni, pentimenti. Qualunque sforzo facesse, ricadeva
sempre in quell’orribile dilemma che stava in fondo ai suoi pensieri: «restare nel
paradiso e diventarvi demonio! ritornare all’inferno e diventarvi angelo! Qual è la
vera via? Dov’è il mio posto?» si chiedeva. così si dibatteva nell’angoscia quell’ani-
ma infelice.
per cinque ore Madeleine camminò su e giù per la stanza finché, esausto, si lascio
cadere su una sedia e si addormentò.
alle cinque era sulla carrozza diretto ad arras; la sua coscienza non aveva anco-
ra deciso né risolto nulla: qualcosa lo respingeva e qualcosa lo attirava. egli si trova-
va più che mai nello stato d’animo del primo momento in cui era incominciato il suo
tormento. perché andava ad arras? sicuramente avrebbe preferito non recarvisi,
eppure ci andava. È difficile immaginare i pensieri che lo accompagnarono durante
il viaggio. Forse, nella regione più profonda della sua mente, paragonava quei mu-
tevoli paesaggi che scorrevano davanti al suo sguardo e si dileguavano ad ogni cur-
va della strada, all’esistenza umana, dove tutto è perpetuamente in fuga e dove om-
bre e luci si alternano continuamente.
arrivò ad arras alle otto di sera e dopo poco era al palazzo di giustizia. la sala
dove si stava svolgendo il processo era piena e l’usciere non faceva più entrare
nessuno. Madeleine ebbe l’ennesimo tentennamento, si voltò e si avviò verso l’u-
scita, poi, improvvisamente, si arrestò ed estrasse dal soprabito un foglietto sul
quale scrisse: «signor Madeleine, sindaco di Montreuil Marittima»; ritornò quindi
verso l’usciere e gli disse con autorità di portarlo al presidente della corte d’assise.
il sindaco di Montreuil godeva di una certa fama. arras e Douai invidiavano, alla
fortunata cittadina di Montreuil, il suo sindaco.
poco dopo ricomparve l’usciere con un biglietto che consegnò al signor Madelei-
ne, che lesse: «il presidente della corte d’assise presenta i suoi ossequi all’egregio
signor Madeleine».
l’usciere l’accompagnò in uno stanzino e prima di andarsene disse: «signore, ec-
covi nella camera di consiglio, non avete che da girare la maniglia di ottone di quel-
la porta e vi troverete nella sala d’udienza, dietro il seggio del presidente». l’usciere
l’aveva lasciato solo. il momento supremo era giunto. l’uomo ancora una volta fu
preso dal dubbio e per circa un quarto d’ora rimase nell’incertezza.
alla fine afferrò la maniglia con moto convulso, e la porta si aprì. era nella sala
d’udienza.
Nessuno nella sala fece attenzione a lui, perché tutti gli sguardi erano rivolti verso
l’imputato. soltanto il presidente e l’avvocato generale fecero un cenno di saluto.
era in atto l’interrogatorio dell’imputato, che si ostinava a negare tutto. egli so-
steneva di non essere Jean valjean e neppure un ex forzato: aveva sempre lavora-
to a parigi sotto il signor baloup: bastava informarsi da questo signore. Ma baloup
era fallito e non si era potuto rintracciarlo.
Furono di nuovo interrogati i tre testimoni brevet, chenildieu e cochepaille, che
confermarono la prima deposizione: quell’uomo era senz’altro Jean valjean. al pre-
sidente non restò che chiudere la discussione.
Ma in quel momento si udì una voce che gridava: «brevet, chenildieu, cochepail-
le! guardate di qua!». tutti guardarono l’uomo che stava diritto in mezzo alla sala.
tto

era Madeleine! i suoi capelli, ancora grigi all’arrivo ad arras, erano ora completa-
a

mente bianchi.
aG

tutte le teste si drizzarono. l’impressione fu indescrivibile. ci fu nell’uditorio un


ic

istante di esitazione. Non si poteva credere che quell’uomo tranquillo avesse getta-
n

to un grido così tremendo. Ma l’incertezza non durò che qualche secondo.


Mo

l’uomo che tutti chiamavano Madeleine si avvicinò ai testimoni e chiese loro se


lo riconoscevano. i tre risposero che non lo conoscevano affatto.
allora l’uomo si rivolse versi i giurati e verso la corte, dicendo: «signori giurati,
fate rilasciare l’accusato. signor presidente, fatemi arrestare. l’uomo che voi cer-
cate, non è lui, sono io. io sono Jean Valjean».
tutti restarono stupefatti, mentre l’avvocato generale chiese l’intervento di un
medico, pensando che il signor Madeleine fosse impazzito. Questi però riuscì a di-
mostrare che egli era veramente l’uomo ricercato.
Nella sala non v’erano che occhi spalancati e cuori commossi. «Non voglio più a
lungo disturbare l’udienza», riprese Jean valjean; «io me ne vado, visto che non mi
si arresta. il signor avvocato generale sa chi io sia e sa dove vado: mi farà arresta-
re quando vorrà». si diresse verso la porta d’uscita e, arrivato là, si voltò e disse:
«signor avvocato generale, io rimango a vostra disposizione».
Uscì e la porta si richiuse come era stata aperta, non si sa bene da chi.

- libro Viii -
contraccolpo
Fantine aveva trascorso tutta la notte con la febbre, senza chiudere occhio. Fi-
nalmente al mattino si addormentò.
suor simplicia, che l’aveva vegliata, ne approfittò per andare nel laboratorio del-

MonicaGatto
l’infermeria a preparare qualche altra pozione.
D’improvviso Fantine alzò il capo e si trovò davanti il signor Madeleine. Questi
volle notizie dell’ammalata. seppe che ora stava meglio, anche perché pensava che
il signor sindaco fosse andato a Montfermeil a prendere la sua bambina.
Ma ora, vedendo il sindaco senza cosette, che cosa avrebbe detto? Frattanto si
era fatto giorno e il volto del signor Madeleine era illuminato in pieno. con grande
meraviglia la suora si accorse che i capelli del sindaco erano tutti bianchi.
Madeleine si guardò allo specchio, ma rimase pressoché indifferente. chiese poi
se poteva vedere Fantine. la suora, pur con qualche perplessità, lo fece entrare nel-
la camera. egli si fermò accanto al letto, guardando la donna addormentata.
Quando Fantine aprì gli occhi e lo vide, chiese tranquillamente: «e cosette?».
Madeleine non sapeva che cosa rispondere. Fortunatamente il medico, avvertito,
era sopraggiunto. egli venne in aiuto a Madeleine, dicendo: «Figliola, calmatevi; la
vostra bambina sarà presto qui. voi avete ancora un po’ di febbre e la vista della
vostra piccina potrebbe farvi agitare e questo vi farebbe male. bisogna prima gua-
rire».
la povera madre piegò tristemente la testa, chiedendo scusa al dottore, ma il suo
desiderio di vedere la figlia era grande. chiese notizie di lei a Madeleine, che le pre-
se la mano e disse: «cosette è bella, sta bene, la vedrete presto, ma state calma».
la donna si calmò, ma sentendo la voce di alcuni bambini che giocavano e in
particolare il canto di una bambina, disse: «È la mia cosette! riconosco la sua vo-
ce». poi la bambina si allontanò e la voce si spense. la tristezza invase Fantine, ma
poi si riebbe, pensando al futuro, che sarebbe stato lieto accanto alla sua bambina
grazie all’aiuto del signor Madeleine.
all’improvviso la donna sbarrò gli occhi; il suo volto, un momento prima radioso,
ora era cadaverico; i suoi occhi, dilatati dal terrore, guardavano fissi all’altra estre-
mità della stanza. toccò il braccio a Madeleine con una mano e con l’altra gli fece
cenno di guardare dietro di lui. egli si volse e vide Javert.
ecco quanto era accaduto. Dopo la partenza di Madeleine dalla corte d’assise di
arras e la liberazione di champmathieu, l’avvocato generale e il presidente decise-
ro, anche se a malincuore, l’arresto di Jean Valjean. la giustizia doveva fare il suo
corso. l’avvocato generale emise l’ordine di arresto e lo mandò, per mezzo di un
corriere speciale, a Montreuil Marittima, e ne affidò l’esecuzione all’ispettore Javert.
chi avesse visto costui mentre entrava nella stanza dell’infermeria, lo avrebbe
giudicato nel suo stato normale. egli era freddo, calmo, grave. era tutto d’un pez-
zo e non tollerava piega alcuna né al suo dovere né alla sua uniforme: metodico
con gli scellerati, rigido coi bottoni del proprio abito. eppure chi l’avesse conosciu-
to a fondo, notando che la fibbia del suo sottogola invece d’essere sulla nuca era
sull’orecchio sinistro, avrebbe tremato. ciò rivelava un’agitazione inaudita. tuttavia,
quando lo sguardo di Madeleine incontrò quello di Javert, questi senza muoversi,
to
senza un gesto, senza avvicinarsi, divenne terribile. Nessun sentimento riesce ad
at
essere così spaventoso come la gioia. il volto di Javert era quello di un demonio che
G
ica
ha trovato il suo dannato. sentiva l’orgoglio di avere così bene indovinato fin da
principio e di aver avuto un così buon fiuto. on
Javert in quel momento era al settimo cielo. egli proteggeva l’ordine, faceva usci-
M
re la folgore dalla legge, vendicava la società; si drizzava in un’aureola di gloria. Ja-
vert incuteva terrore, ma non disprezzo. la probità, la sincerità, il candore, la
convinzione, la fede nel dovere, sono cose che diventano perfide se volte all’ingan-
no, ma che possono restare grandi, anche se odiose.
Fantine non aveva più rivisto Javert da quando Madeleine l’aveva strappata a lui.
ora ella pensava che fosse venuto a cercarla. per questo chiese aiuto a Madeleine,
il quale la rassicurò. poi Madeleine si voltò verso Javert e disse: «so cosa volete».
l’ispettore rispose in malo modo di sbrigarsi: «che cosa aspetti? ti decidi a veni-
re?». Queste parole colpirono Fantine, che non credeva alle sue orecchie. poi vide
una cosa per lei inaudita: Javert aveva preso Jean valjean per il bavero. Questi inu-
tilmente chiese all’ispettore tre giorni per andare a cercare la bambina di Fantine.
l’ispettore glieli negò in malo modo, così come malamente rispose alle invocazioni
di Fantine, che tentò inutilmente di alzarsi dal letto, guardando disperata i presen-
ti. tentò di parlare, ma soltanto un rantolo uscì dalla sua gola; poi ricadde sul guan-
ciale. la sua testa batté sulla spalliera del letto e si piegò sul petto, con la bocca
spalancata, gli occhi aperti, spenti. era morta.
Jean valjean, rivolto a Javert, disse: «avete ucciso quella donna». ancora una
volta l’ispettore gli impose di andare. Fu in quel momento che Jean valjean andò
verso un vecchio letto di ferro in pessimo stato, ne sconnesse la spalliera, ne im-
pugnò il pezzo più lungo e guardò Javert.
Questi indietreggiò verso la porta, mentre Jean valjean mosse lentamente verso
il letto di Fantine e disse: «Non disturbarmi in questo momento». Javert tremava.
Jean valjean stette con gli occhi fissi su Fantine, stecchita. rimase assorto, muto.
poi si chinò su di lei e le parlò a voce bassa. che cosa le disse? la morta lo udì?
Nessuno può dirlo.
Jean valjean prese fra le sue mani la testa di Fantine, l’accomodò sul guanciale
come avrebbe fatto una madre col figlio, le riannodò il cordoncino della camicia, e
le rimise i capelli sotto la cuffia. poi s’inginocchiò e prese la mano della morta, che
penzolava fuori dal letto, la sollevò e la baciò. poi si raddrizzò e disse a Javert: «ec-
comi a voi».
l’arresto del signor Madeleine produsse una commozione straordinaria a Montreuil
Marittima, ma, sentendo che era stato un galeotto, tutti lo abbandonarono. tre o
quattro persone solamente in tutta la città rimasero fedeli alla sua memoria. tra
queste la portinaia che lo aveva servito.
la vecchia ancora tutta spaventata, quella sera dell’arresto, macchinalmente pre-
se la chiave della camera del signor Madeleine e il candeliere di cui si serviva per
salire le scale, attaccò la chiave al solito chiodo mettendo vicino il candeliere. poi
tornò a sedersi sulla sedia. solo dopo due ore si rese conto di aver fatto una cosa
inutile. Ma in quel momento lo sportello dello sgabuzzino si aprì e una mano prese
la chiave e il candeliere. era il signor Madeleine. la vecchia non sapeva che dire,

tto
ma l’uomo le spiegò che egli era fuggito dalla prigione ed era venuto lì. pregò la

a
aG
vecchia di andare a chiamare suor simplicia.
intanto egli entrò nella sua camera, prese un foglio di carta sul quale scrisse:

ic
«ecco le due estremità del mio bastone ferrato e la moneta di quaranta soldi ruba-

on
ta a gervasuccio di cui ho parlato alla corte d’assise».

M
entrò nel frattempo suor simplicia, pallida, con gli occhi rossi e tutta tremante. a
lei Jean consegnò uno scritto da portare al parroco, il quale avrebbe dovuto veglia-
re su tutto quello che egli lasciava. Doveva pagare le spese del processo e il fune-
rale di Fantine. il resto doveva andare ai poveri. aveva appena fatto questo, quan-
do si sentirono dei passi e la voce della portinaia, la quale giurava che nessuno in
tutto il giorno era entrato nella casa.
era Javert in cerca di Jean valjean. Questi si nascose in un angolo della camera.
Quando l’ispettore entrò, la suora gli confermò di essere sola nella camera. Javert
si scusò e, salutando profondamente la religiosa, si ritirò.
Un’ora dopo un uomo, camminando fra gli alberi e la nebbia, si allontanava da
Montreuil Marittima, nella direzione di parigi. Quell’uomo era Jean valjean.
Fantine fu sepolta in una fossa comune, perché il parroco pensò di riservare
quanto più denaro possibile ai poveri. Dopo tutto si trattava d’un forzato e di una
prostituta.
aG c
ni
Parte SecoNda
o
M
Cosette
- libro i -
Waterloo
l’autore fa ora qualche passo indietro rispetto ai fatti raccontati nella prima parte
e si riporta al 18 giugno 1815, data della battaglia di Waterloo.
Questa digressione storica è necessaria perché una delle scene generatrici del
dramma si riannoda proprio a quella fatale battaglia.
tutti riconoscono che il piano strategico dell’imperatore francese era un capo-
lavoro; eppure una serie di casi fortuiti condizionò a Waterloo i due comandanti,
Napoleone e Wellington.
Un temporale fuori stagione aveva reso molle il terreno e l’acqua si era accumula-
ta nei fossati della pianura come in catinelle; affinché l’artiglieria potesse manovra-
re, fu quindi necessario aspettare che la terra si rassodasse un po’. Forse, se quel-
la notte non avesse piovuto, l’avvenire dell’europa sarebbe stato diverso: la bat-
taglia poté infatti cominciare soltanto alle undici e mezza, dando il tempo al gene-
rale prussiano blücher di arrivare, soccorrendo gli inglesi al momento opportuno.
le ostilità fra inglesi e francesi si svolgevano con le artiglierie che sprofondava-
no nel fango, le bombarde che non producevano altro che vulcani di melma e con
l’inaspettata resistenza degli inglesi, che non davano respiro al combattimento, ma
tutti questi sfavorevoli episodi turbavano appena la mente di Napoleone e non
offuscavano la sua certezza di vittoria.
verso le quattro del pomeriggio Wellington cominciò a retrocedere e l’imperato-
re, con un lampo di gioia negli occhi, diede ordine ai corazzieri di iniziare l’assedio
per volgere quella ritirata in una fuga.
la cavalleria francese era formata da tremilacinquecento uomini, divisi in ventisei
squadroni. tutta la cavalleria con le sciabole sguainate e le bandiere al vento, discese
la collina della belle-alliance, calò nella tremenda pianura cosparsa di tanti morti, per
salire poi a gran trotto la spaventevole pendice fangosa di Mont-saint-Jean.
Una lunga fila di braccia alzate con le sciabole in pugno apparve sulla cresta, gli
elmi, le trombe, le bandiere, e tremila teste coi baffi grigi che gridavano: viva
l’imperatore! giunti al culmine della cresta, sfrenati, abbandonati alla loro furia e
alla loro corsa sterminatrice, i corazzieri avevano scorto tra loro e gli inglesi un fos-
sato. era la strada incassata di ohain. il momento fu drammatico. lì, sotto i piedi
dei cavalli, c’era il burrone, spalancato, inaspettato. la seconda fila vi spinse la
prima, e la terza vi spinse la seconda. i cavalli s’impennavano, si buttavano all’in-
dietro, cadevano sulla groppa, sdrucciolavano con le zampe all’aria, rovesciando e
calpestando i cavalieri.
la forza acquistata per schiacciare gli inglesi, schiacciò invece i francesi. cavalli
e cavalieri rotolarono nella fossa, stritolandosi gli uni con gli altri, e quando quel
fossato fu pieno di uomini vivi, vi si galoppò sopra e il resto passò. Quasi un terzo
della brigata si rovesciò nell’abisso. Questo fu l’inizio della sconfitta.
Napoleone, prima di comandare quella carica, aveva scrutato il terreno, ma non
aveva potuto vedere quella strada incassata. era proprio una fatalità. evidentemen-
te era tempo che il gigante si ritirasse. Napoleone era stato denunziato al tribuna-
le dell’infinito, e la sua caduta era stata decretata. egli dava fastidio a Dio. Waterloo
Mon
non è una battaglia, è un mutamento di rotta dell’universo. icaG
in quella disperata battaglia, che si combatté a Waterloo e che solo il caotico atto
pennello di un pittore riuscirebbe a descrivere adeguatamente, i soldati inglesi di-
mostrarono di essere quel genere di uomini che, diminuiti di numero, crescono di
coraggio. i battaglioni, disperatamente assaliti, non si mossero; quella rigida fante-
ria rimase impassibile al turbine frenetico che l’avvolse. Fu allora che Wellington de-
cise di ricorrere alla cavalleria e, a questo punto, i corazzieri francesi, da assalitori
divennero assaliti. Fu una mischia confusa e mostruosa, una furia, uno slancio ver-
tiginoso di ardimenti, un uragano di spade fulminee. l’esercito inglese si fiaccava
senza rimedio e si sentiva la sconfitta avvicinarsi inesorabilmente, quando, d’un
tratto, la cavalleria del principe guglielmo di prussia sbucò dal bosco di parigi. co-
minciò quindi l’estrema carneficina. Wellington riprese l’offensiva e un immane
scompiglio si aprì nelle schiere francesi. al grido “viva l’imperatore” si sostituì quel-
lo del “si salvi chi può” e la disfatta fu spaventosa.
l’immagine di quell’esercito che sbandava era simile ad un disgelo: tutto cedeva,
si squarciava, si disgregava, fluttuava, rotolava, precipitava; tutto veniva calpesta-
to e abbattuto; si camminava sui morti e sui vivi. la grande armata, l’esercito più
coraggioso che abbia onorato la storia, stava crollando.
in quel giorno il genere umano mutò di prospettiva; Napoleone mirava al trono
del mondo e sul campo di Waterloo scorse invece sant’elena; quella fu la giornata
fatale che preparò l’avvento del nuovo secolo, in cui non c’era più posto per
quell’uomo titanico; fu l’ombra della mano immensa di Dio a stendersi su Waterloo.
Dopo lo sparo dell’ultimo colpo di cannone, la pianura rimase deserta. Ma nella
notte dal 18 al 19 giugno i morti vennero spogliati, nonostante ci fosse l’ordine di
passare per le armi chiunque venisse colto in flagrante. e mentre in un punto del
campo si fucilavano i predoni, in un altro si rubava.
verso mezzanotte un uomo gironzolava, o meglio strisciava, nei pressi della stra-
da incassata. egli era uno dei predoni, né inglese, né francese, né contadino, né
soldato, meno uomo che iena, attirato dalla puzza dei morti; si proponeva il furto
per vittoria. camminava nel sangue. ad un tratto si fermò. Nel punto in cui termina-
va l’ammucchiamento dei cadaveri, una mano aperta usciva di sotto a quell’ammas-
so di uomini e di cavalli. Quella mano aveva in dito qualche cosa che brillava: era
un anello d’oro. l’uomo si curvò e tolse dalla mano l’anello. poi rimase in ginocchio
con le spalle rivolte al mucchio. Mentre stava per alzarsi, sentì d’essere preso per
di dietro. era la mano aperta che s’era richiusa, afferrando un lembo del suo cap-
potto. anziché aver paura, il predone si mise a ridere. poi, spostando ciò che era di
ostacolo, trasse fuori il corpo.
era un corazziere, un ufficiale di grado elevato, perché di sotto la corazza c’era
la croce d’argento della legion d’onore. il ladro se la prese, così come prese una
borsa e un orologio. Quando l’ufficiale rinvenne, ringraziò il suo salvatore, offrendo-
gli tutto quello che aveva. il ladro finse di frugare, dicendo che non c’era nulla. Nel
frattempo si udirono i passi di una pattuglia.
il ladro stava per andarsene, ma il ferito lo trattenne, chiedendogli il nome: l’uo- a
mo disse di chiamarsi thénardier. a sua volta l’ufficiale disse di essere pontmercy. ic
M on

- libro ii -
il vascello “orione”
Nel 1823 Jean Valjean era stato arrestato, dichiarato colpevole e condannato alla
pena di morte. il re, nella sua infinita clemenza, aveva deciso di commutare la pena
nei lavori forzati a vita nel bagno penale di tolone.
Naturalmente la prosperità di Montreuil Marittima disparve col signor Madeleine,
che pare fosse riuscito, prima del suo arresto, a ritirare dalla banca un’enorme som-
ma di denaro che vi aveva depositato grazie agli onesti guadagni dei suoi commerci.
Nessuno scoprì dove Jean valjean avesse nascosto questa somma.
verso la fine di ottobre entrò nel porto di tolone il vascello orione per riparare
alcune avarie subite durante una burrasca.
Una mattina la folla dei curiosi, che si radunava per contemplare quel gigantesco
vascello di guerra, fu spettatrice di una disgrazia. Un marinaio, intento ad alzare le
vele, perse l’equilibrio e cadde nel vuoto, ma ebbe la prontezza di afferrare al volo
una corda e rimanervi appeso, evitando così di sprofondare nell’abisso. per soccor-
rerlo bisognava esporsi ad un rischio tremendo e nessuno osava avventurarvisi.
ad un tratto si vide un uomo arrampicarsi sull’attrezzatura con l’agilità di un
gattopardo; quell’uomo era Jean valjean. Diecimila sguardi erano fissi sui due uo-
mini sospesi sul precipizio, non un grido né una parola, il galeotto riuscì a salvare il
marinaio, ma quando fu in procinto di scendere, lo si vide esitare, barcollare e quin-
di cadere in mare. in quattro si lanciarono da una barca per salvarlo, ma quell’uomo
non tornò più a galla e non si riuscì nemmeno a ripescare il corpo.
- libro iii -
la promessa fatta alla morta
Fantine era morta e Jean valjean era stato arrestato, quindi nessuno poteva più
inviare soldi ai thénardier, che decisero allora di continuare a tenere cosette, di-
ventata, pur non avendo ancora raggiunto gli otto anni, la serva di casa.
siccome nel villaggio l’acqua scarseggiava, occorreva andare a cercarla assai
lontano, ad una piccola sorgente che si trovava a circa un quarto d’ora dal paese.
l’approvvigionamento dell’acqua era quindi, per ogni famiglia, una dura fatica. in
casa thénardier era la piccola cosette che correva a cercare l’acqua quando ne ab-
bisognava. spaventata dall’idea di dover andare alla sorgente di notte, ella, duran-
te il giorno, aveva molta cura che l’acqua non mancasse mai in casa. Questo
naturalmente le costava molta fatica.
sempre vestita di cenci, coi piedi nudi negli zoccoli, la “piccola allodola” passava
le sue giornate lavorando fra le grida e le punizioni della padrona; le numerose
sofferenze trascorse le avevano fatto assumere un aspetto triste e lugubre.
thénardier aveva superato i cinquant’anni; sua moglie era sulla quarantina: alta,
bionda, rossa, grassa, carnosa, tarchiata, enorme. Faceva tutto in casa: i letti, le ca-
mere, il bucato, la cucina. aveva per unica domestica cosette; un topolino al servi-
zio di un elefante. col rumore della sua voce faceva tremare i vetri, i mobili e la
gente. bestemmiava in maniera inaudita. Quando parlava, sembrava un soldatac-
cio; quando beveva, un carrettiere; quando trattava cosette, sembrava un boia.
Quando dormiva, un dente le usciva di bocca.
il thénardier era un uomo piccolo, magro, pallido, angoloso, ossuto, macilento,
che sembrava ammalato e che invece stava benissimo. sorrideva spesso ed era
educato con tutti. la sua civetteria consisteva nel bere con i carrettieri che veniva-
no nella sua locanda, ma nessuno l’aveva mai visto ubriaco.
era un furbo, un birbante, un vero filone. raccontava di aver combattuto come
sergente a Waterloo e di aver coperto col suo corpo e salvato un generale ferito.
per questo sul muro del suo albergo c’era l’insegna rossastra, su cui era scritto:
“bettola del sergente di W.”.
il dovere di un albergatore, secondo lui, era quello di fermare i passanti, di vuo-
tare le piccole borse, e di alleggerire onestamente le grosse, di ospitare con rispet-
to le famiglie in viaggio, di pelare l’uomo, di spennacchiare la donna.
insomma quell’uomo e quella donna erano astuzia e rabbia maritate insieme,
MonicaGatto
unione mostruosa. Questi erano i due esseri che attanagliavano la piccola cosette
e la maciullavano di giorno in giorno.
cosette era tempestata di colpi, e ciò da parte della donna; andava a piedi nudi
d’inverno, e questo lo doveva al marito.
cosette saliva, scendeva, lavava, spazzolava, fregava, scopava, correva, sgam-
bettava, ansava, muoveva cose pesanti e sbrigava le faccende più dure. Nessuna
pietà avevano per lei la perfida padrona e il padrone velenoso.
Nella bettola dei thénardier entrarono quella sera quattro nuovi viaggiatori e si
sedettero a bere. Di tanto in tanto qualcuno guardava nella strada ed esclamava:
«È buio come in un forno», e cosette trasaliva al solo pensiero di addentrarsi in
quella oscurità.
ad un tratto uno dei nuovi venuti disse che non era stato dato da bere al suo ca-
vallo e la thénardier si rivolse a cosette gridandole di correre al pozzo per prende-
re l’acqua e al ritorno di comprare un pane grosso dal fornaio, e le diede una mone-
ta da quindici soldi.
cosette uscì con il secchio in mano, un secchio più grande di lei, triste e impauri-
ta. Nel tragitto si soffermò davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli che
esponeva una bellissima bambola; quella visione rappresentava per lei la gioia, lo
splendore, la ricchezza; più guardava e più si incantava come di fronte al paradiso.
Finché le botteghe illuminate rischiaravano la strada, la bambina camminava ab-
bastanza coraggiosamente; quando però cessarono la luce e le case, ella fu
inghiottita dalla notte, in un buio sempre più fitto; era impaurita la piccola. ogni
tanto si fermava, ma poi riprendeva il cammino.
giunse al bosco e l’attraversò. conosceva bene la strada per averla fatta tante
volte di giorno. così in sette o otto minuti di cammino giunse alla sorgente. era una
Mo
nica
stretta cavità naturale scavata dall’acqua nel suolo argilloso.
Gat
la piccola immerse il secchio nell’acqua e con un enorme sforzo lo ritirò quasi
to
pieno e lo posò sull’erba. Non si era accorta, mentre era chinata, che dalla sua tasca
la moneta di quindici soldi era caduta nell’acqua. Un vento freddo soffiava nella
pianura. il bosco era tenebroso, senza alcun fruscio di foglie. Deboli e deformi
cespugli sibilavano nella radura, mentre in cielo splendeva una grossa stella.
cosette si guardava attorno smarrita e impaurita. avrebbe voluto fuggire senza
il secchio, ma lo spavento che le ispirava la thénardier glielo impedì. l’istinto le
suggerì di cantare ad alta voce. così poté calmarsi. si alzò. afferrò il secchio con le
due mani, ma era talmente pesante che fu costretta a posarlo. ritentò una secon-
da volta e riuscì a camminare, facendo alcuni passi. si fermò di nuovo; poi dopo al-
cuni secondi ripartì.
camminava curva in avanti, con la testa bassa e le braccia irrigidite e le mani
intirizzite dal freddo. ansimava con una specie di rantolo. Non poteva fare molta
strada in quel modo e andava piano piano, facendo molte soste. pensava che c’era
più di un’ora per ritornare a Montfermeil e che la thénardier l’avrebbe battuta. Que-
sta angoscia si mescolava allo spavento di trovarsi sola nel bosco.
Quel povero piccolo essere disperato non poté fare a meno di gridare: «o mio
Dio, o mio Dio!».
in quel momento sentì che il secchio non pesava più. Una mano che le parve
enorme aveva afferrato il manico e lo sollevava vigorosamente. ella alzò la testa e
vide una grande forma nera che camminava accanto a lei. era un uomo, che era ar-
rivato dietro di lei e senza dire una parola aveva afferrato il manico del secchio. la
bimba, per istinto, non ebbe paura.
Nel pomeriggio del giorno di Natale 1823 un uomo passeggiò a lungo nella parte
più deserta del viale dell’ospedale a parigi. si capiva che stava cercando un allog-
gio tra le case più modeste dell’estremità mezzo in rovina del borgo san Marcello.
Nel vestito e in tutta la persona dava l’impressione di un mendicante di buona
società: l’estrema miseria combinata con l’estrema pulizia. il viale era deserto. al
passaggio della carrozza del re luigi Xviii, che ogni giorno transitava per quella via
per la solita passeggiata, l’uomo cercò di nascondersi; però le guardie, insospettite
dall’aspetto, tentarono di arrestarlo, ma egli riuscì a fuggire e a far perdere le sue

o
att
tracce. aG
giunse davanti all’ufficio del corriere di lagny, dove sostava una carrozza pronta
per partire. l’uomo chiese se c’era posto e, avuta risposta affermativa, salì a casset-
nic

ta, vicino al cocchiere.


Mo

Questi, vedendo il modesto abito del viaggiatore, pensò di farsi pagare. il


viaggiatore pagò il biglietto fino a lagny.
Quando la carrozza verso sera giunse a chelles, il viaggiatore disse di voler
scendere. prese il suo pacco e il bastone, poi saltò dalla carrozza a terra. Un istan-
te dopo era scomparso. a grandi passi aveva percorso la strada di chelles, poi aveva
preso quella che conduce a Montfermeil.
Quando fu nel bosco, rallentò la sua andatura. Mentre camminava aveva scorto
quella piccola ombra che si muoveva gemendo. le si era avvicinato e aveva visto che
si trattava di una povera bimba che cercava di portare un enorme secchio d’acqua.
accostatosi a lei senza dire una parola, aveva preso il manico del secchio. la pic-
cola ritirò la sua mano, lasciando all’uomo il secchio.
Mentre camminavano, lo sconosciuto chiese qualche notizia alla bimba: quanti
anni aveva, dove era diretta, se aveva la mamma e come si chiamava.
udendo il nome di cosette, l’uomo tremò e la guardò a lungo, chiedendole poi
chi l’aveva mandata a quell’ora a cercar acqua nel bosco. cosette rispose che era
stata la signora thénardier, la sua padrona.
Quando giunsero all’albergo, l’apparente mendicante chiese se c’era una camera
libera. in un primo tempo la donna disse di no, ma all’offerta di quaranta soldi (che
era il doppio della cifra normale), la camera si trovò.
lo sconosciuto si sedette vicino al fuoco ed ebbe modo di vedere come era tratta-
ta quella povera bambina. cercò di difenderla, pagando la moneta di quindici soldi
che ella aveva perduto; poi quando cosette, per aver osato prendere in mano la
bambola delle due figlie dei thénardier, fu duramente sgridata e per questo scop-
piò in singhiozzi, l’uomo uscì e poco dopo rientrò portando la famosa bambola che
tutti i ragazzi contemplavano nella vetrina del negozio di giocattoli.
grande fu la meraviglia dei thénardier, che si chiedevano chi fosse quel forestie-
ro che si permetteva di spendere più di trenta franchi per una bambola. certamente
doveva essere molto ricco.
la signora thénardier cambiò subito atteggiamento sia nei riguardi dell’uomo sia
nei riguardi di cosette, quando era in presenza dello sconosciuto. Naturalmente gli
offrirono la più bella camera che avevano.
la mattina seguente il signor thénardier compilò il conto, che raggiungeva la bel-
la somma di ventitré franchi; lo consegnò alla moglie perché lo recapitasse al
destinatario.
la signora thénardier temeva che l’uomo si rifiutasse di pagare una simile cifra.
invece il viaggiatore prese il foglio, lo spiegò, lo guardò senza fare alcuna obiezio-
ne. Quando poi la donna cominciò a lamentarsi per le tante spese a cui erano
soggetti per le tasse, per il mantenimento delle due figlie e per dover nutrire anche
i figliuoli altrui, l’uomo ascoltò con attenzione, poi disse: «perché non vi sbarazza-
te di lei?», riferendosi a cosette.
il viso rosso e violento della bettoliera s’irradiò di gioia ripugnante. chiese all’uo-
mo se veramente intendeva portarsela via; egli rispose di sì, aggiungendo di andare
a chiamare subito la bambina. poi volle pagare il conto: gettò uno sguardo sul foglio
e non poté fare a meno di meravigliarsi della cifra; tuttavia posò sul tavolo cinque
monete da cinque franchi ciascuna.
in quel momento giunse thénardier, che disse: «il signore deve soltanto venti-
sei soldi, venti per la camera e sei per la cena». poi aggiunse che, quanto alla
bambina, aveva bisogno di parlare un po’ con lui. i due si appartarono. l’astuto
albergatore cominciò col dire che egli era molto affezionato a cosette, per cui non
poteva acconsentire: la bambina gliene avrebbe fatto una colpa. e poi non si può
dare la propria bambina al primo che capita.
e mille altre cose di questo genere disse l’astuto albergatore, precisando che co-
munque avrebbe voluto sapere con chi andava e dove andava, perché non voleva
perderla di vista. M
il viaggiatore con accento grave e risoluto rispose: «signor thénardier, se pren-
on
do cosette, la porterò via, e voi non saprete né il mio nome né la mia dimora, voi
ica
non saprete dove ella sarà, perché è mio intendimento che voi non la rivediate mai
G
più. vi conviene? si o no?». at
thénardier capì che aveva di fronte un uomo molto forte. l’aveva osservato at-
to
tentamente la sera prima con la scaltrezza del gatto ed il calcolo del matematico.
aveva subito indovinato l’interesse dello sconosciuto per cosette, prima ancora che
lo manifestasse. Ma chi era quell’uomo? perché tanto interesse? se aveva diritto di
parentela, poteva farlo valere. allora chi era?
thénardier si perdeva in supposizioni. intavolando la conversazione con l’uomo,
sicuro che questi aveva qualcosa da nascondere e che aveva tutto l’interesse a re-
stare nell’ombra, si sentiva forte. Ma alla risposta netta e decisa dello sconosciuto,
to
si sentì debole. le sue supposizioni furono scompigliate. raccolse le sue idee. va-
at
lutò tutto questo in un attimo. giudicò che era giunto il momento di agire e presto.
G
si decise a smascherare bruscamente le sue batterie. «signore», egli disse, «mi oc-
ca
corrono mille e cinquecento franchi». ni o
il forestiero trasse da una tasca un vecchio portafoglio, l’aprì e levò tre biglietti
M
di banca, che posò sul tavolo, poi disse: «Fate venire cosette».
poco dopo la bambina entrava nella sala. il viaggiatore prese il pacco e lo sciol-
se. conteneva un vestitino di lana, un grembiule, una camicia di fustagno, una
sottanina, un fazzoletto, un paio di calze di lana, un paio di scarpette, tutto ciò che
occorreva per vestire una bambina di otto anni. e tutto questo era nero.
«bambina mia», le disse l’uomo, «prendi questa roba e vestiti in fretta».
poco dopo gli abitanti di Montfermeil videro passare alla volta di parigi un uomo
poveramente vestito, che aveva per mano una bambina vestita a lutto, che regge-
va tra le braccia una grande bambola vestita di rosa. si dirigeva verso livry. erano
il nostro uomo e cosette. Questa non sapeva con chi andava, ma era ugualmente
felice: sentiva in sé qualcosa come se si trovasse vicino al buon Dio.
l’uomo misterioso, che strappò cosette dalla sua disgraziata miseria, era Jean
valjean. caduto in mare dal vascello “orione”, aveva nuotato sott’acqua per rag-
giungere una barca vicina, dove si era nascosto fino a sera. sopraggiunta la notte,
era riuscito, a nuoto, ad arrivare sulla costa; si era poi comprato degli abiti nuovi
ed anche dei vestitini di lutto per una bambina dai sette agli otto anni e quindi si
era diretto a Montfermeil.
la sera stessa del giorno in cui aveva strappato cosette dagli artigli dei thénar-
dier, Jean valjean ritornava a parigi. vi giunse con la bambina sul far della notte, e
si diresse verso il viale dell’ospedale.

- libro iV -
la topaia gorbeau
con la bambina al suo fianco Jean valjean era ora alla ricerca di un luogo appar-
tato, lontano dagli occhi indiscreti dei curiosi, che, per sospetto, avrebbero potuto
denunciarlo alla polizia. cosette aveva bisogno di lui, quindi Jean valjean era asso-
lutamente intenzionato a non farsi più riacciuffare.
per il momento aveva scelto la casa gorbeau come rifugio, una vecchia topaia si-
tuata in fondo alla periferia di parigi. era quasi tutta nascosta, non si vedevano che
la porta e una finestra; le persiane erano sgangherate e sconnesse; all’apparenza
sembrava proprio un meschino e malandato tugurio.
la solitudine di quella località, ove in passato tanti delitti erano stati commessi,
aveva qualcosa di orribile; di giorno era un luogo brutto, di sera lugubre, di notte
sinistro, ma per il momento era proprio quello che faceva al caso di valjean.
Davanti alla topaia Jean valjean si fermò. Frugò nel panciotto, ne trasse una spe-
cie di chiave, aprì la porta, entrò, richiuse con cura e salì le scale con cosette. giun-
to in cima alla scala, aprì una seconda porta. la stanza era abbastanza ampia, am-
mobiliata con un materasso steso a terra, una tavola e un paio di sedie. entrò e su-
bito richiuse. Nel fondo della stanza vi era uno stanzino con una branda. Qui depo-
se cosette, che nel frattempo si era addormentata. la guardò e le baciò la piccola
mano.
al mattino un carro carico di pietre, passando sull’acciottolato della strada, scos-
se la bicocca con un rombo d’uragano. cosette si svegliò gridando: «si, signora! ec-
comi! eccomi!». spalancò gli occhi e vide Jean valjean sorridente. lo salutò felice.
prese tra le sue braccia la bambola e mentre giocava rivolse a Jean valjean tante
domande: Dov’era? parigi era grande? la signora thénardier era molto lontana?
Non sarebbe mai venuta? ecc. ecc. infine esclamò: «come è bello qui».
la giornata trascorse così. cosette era felice fra quella bambola e quell’uomo.
il mattino dopo Jean Valjean era di nuovo vicino al letto di cosette. Si sentiva
felice. egli non aveva mai amato. Non era mai stato padre, né amante, né marito,
né amico. la sorella e i suoi bambini erano ormai un lontano ricordo, ormai comple-
tamente svanito. aveva tentato tutti i mezzi per ritrovarli e, non essendoci riuscito,
li aveva dimenticati.
egli aveva cinquantasette anni e cosette otto. ora sentiva veramente di amare
quella piccola. il vescovo aveva fatto sorgere in lui la virtù; cosette vi faceva sorge-
re l’amore. Mo
la stessa cosa era capitata a cosette. anche a lei era mancata la possibilità di
nica
amare. Fu così che anche lei, sin dal primo giorno, si mise ad amare quell’uomo con
Ga
tutti i suoi sentimenti e i suoi pensieri. ella provava quello che non aveva mai prova-
tto
to: un senso di espansione.
Jean valjean aveva scelto bene il suo asilo. egli si trovava là in una sicurezza che
poteva sembrare completa.
le settimane succedettero alle settimane. Quelle due creature conducevano in
quella miserabile stamberga un’esistenza felice. Jean valjean trascorreva il tempo
insegnando alla bambina a leggere e a scrivere e lasciandola giocare. ella lo chia-
mava padre e non gli conosceva altro nome.
Jean valjean per prudenza non usciva mai durante il giorno; solo alla sera, nel
crepuscolo, andava per un’ora o due a passeggiare, spesso entrando nella chiesa
che incontrava nel cammino.
Nonostante tutto, le sue precauzioni non furono sufficienti. Nella casa gorbeau
una vecchia inquilina, pettegola e invidiosa, s’era messa in testa di sorvegliare Jean
valjean, e un giorno lo vide trafficare col soprabito giallo, dal quale non si separava
mai: quell’uomo dall’aria tanto ambigua aveva scucito la fodera e ne aveva estrat-
to una banconota da mille franchi. ogni tasca di quel soprabito pareva essere un
ripostiglio di espedienti del caso: vi si trovavano aghi, forbici, filo, coltelli e addirit-
tura parrucche di vari colori.
Dopo quel giorno si verificarono due fatti strani che insospettirono Jean valjean.
Mo
c’era, nei pressi della zona, un povero mendicante, al quale Jean Valjean faceva
nic
spesso l’elemosina. aG
Una sera, quando egli si avvicinò, il mendicante alzò gli occhi, lo guardò fisso, poi
att
chinò rapido la testa. Quel movimento fu come un lampo e Jean valjean trasalì co-
o
me se si fosse trovato d’improvviso faccia a faccia con una tigre: per un attimo gli
era sembrato di ravvisare il volto di Javert.
alcuni giorni dopo si accorse che di notte qualcuno era venuto ad origliare alla
sua porta di casa e quella volta, spiando dal buco della serratura, non ebbe dubbi
che si trattasse di Javert.
alla mattina Jean valjean prese per mano cosette ed uscirono insieme.

- libro V -
la caccia oscura muta e silenziosa
come un animale cacciato dalla tana, Jean Valjean aveva abbandonato la casa
gorbeau, deciso a non ritornarvi e s’era inoltrato per le vie secondarie di parigi sen-
za sapere dove andare, ma fidando in Dio.
cosette camminava al suo fianco senza domandare nulla; le sofferenze dei primi
sei anni di vita avevano impresso al suo carattere un tono passivo, e comunque, vi-
cino a Jean valjean, si sentiva sicura.
giunti nelle vicinanze del commissariato, la luce di un lampione illuminò distinta-
mente alcuni uomini che in crocchio sembravano consultarsi sulla direzione da
prendere e tra questi c’era Javert.
ora Jean valjean era assolutamente certo che lo stessero cercando; quindi ri-
prese a camminare con maggiore celerità, avendo cura di tenersi sempre nella par-
te più buia della strada.
giunse in una zona, chiamata il piccolo picpus, che aveva quasi l’aspetto monasti-
co di una città spagnola, tutta muraglie e solitudine, e dopo poco ebbe la sensazio-
ne di essere caduto in una rete che lentamente si stringeva; era finito in un vicolo
cieco e dietro di lui sentiva avvicinarsi i gendarmi.
sotto la minaccia del pericolo, Jean valjean ebbe l’illuminante intuizione di nascon-
dersi in una desolata casa che si intravedeva oltre il muro che dava sulla strada. il
problema era proprio come scalare, assieme a cosette, quel muro alto tre metri.
si può dire che Jean valjean avesse la particolarità di portare con sé due tasche;
nell’una aveva i pensieri del santo, nell’altra tutte le feroci risorse del galeotto; egli
frugava ora nell’una, ora nell’altra secondo le occasioni. grazie alle passate evasio-
ni, era diventato maestro nell’arte di salire fino ad altezze spropositate, sull’angolo
diritto di un muro, senza scala, senza uncini, valendosi della sola forza delle sue
braccia e aiutandosi appena con le rare sporgenza della pietra. riuscì infatti, assie-
me a cosette, e mettersi in salvo e si ritrovò in una specie di giardino molto ampio
che circondava un lugubre e misterioso edificio, dal quale giungeva un incantevole
e celestiale concerto di preghiere. era finito in un convento di monache di clausura.
MonicMa le sorprese non erano ancora terminate: dall’oscurità del giardino, al di sopra
del canto sublime, si udì ad un tratto un rumore strano, come di un sonaglio che
venisse agitato. Quel rumore si avvicinava sempre più fino a quando, nel buio della
notte, si intravide l’ombra di un vecchio che avanzava zoppicando col sonaglio
attaccato ad una gamba.
Quell’uomo era Fauchelevent, che due anni prima era stato salvato dal signor Ma-
deleine quando era stato schiacciato dal peso del suo carro. Quella caduta lo aveva
reso storpio e quindi, sempre per raccomandazione del signor Madeleine, era stato
ammesso nel convento per lavorare come giardiniere.
in quel luogo di preghiera non era permesso alcun contatto con estranei e tanto
meno con degli uomini; perciò il sonaglio faceva allontanare le monache, avvisando-
le della presenza del giardiniere.
Dacché Fauchelevent era nel convento, non aveva più sentito parlare di Montreuil
Marittima e non sapeva niente del processo e del relativo arresto di Madeleine.
grande fu la sua meraviglia nel riconoscere nell’intruso il suo antico benefattore.
Non riusciva a rendersi conto del perché e del come quel sant’uomo, che gli aveva
salvato la vita, si trovasse lì con una bambina, ma una sola certezza aveva nel cuo-
re: aiutarlo a costo di qualsiasi sacrificio.
tutti questi fatti, che sembrano strani, si erano svolti nel modo più semplice.
Quando Jean valjean riuscì a fuggire dalla prigione di Montreuil, la polizia pensò
che il forzato evaso si fosse diretto verso parigi, dove è molto facile nascondersi.
Javert, che si era dimostrato abile nella precedente cattura dell’evaso, fu chiama-
to a parigi per le indagini e, come sempre, si dimostrò utilissimo per l’arresto del ri-
cercato, che venne inviato, come abbiamo visto, nel bagno penale di tolone. a que-
sto punto Jean valjean uscì dalla mente dell’ispettore.
Ma nel dicembre 1823 lesse sul giornale che il forzato Jean valjean era morto;
vennero riportati particolari talmente precisi che Javert non ebbe alcun dubbio. get-
tò il giornale e non ci pensò più.
Qualche tempo dopo una nota della polizia trasmessa alla prefettura di parigi ri-
feriva del rapimento di una bambina avvenuta nel comune di Montfermeil da parte
di uno sconosciuto. aggiungeva poi particolari precisi sulla bambina, affidata dalla
madre ad un albergatore del paese. si chiamava cosette e aveva tra i sette e gli ot-
to anni. era figlia di una donna chiamata Fantine, morta in un ospedale, non si sa-
peva né quando né dove.
Javert conosceva bene tutta questa storia, perché al momento dell’arresto Jean
valjean gli aveva chiesto una dilazione di tre giorni per andare a cercare la bambina
di quella donna. Dunque lo sconosciuto rapitore non poteva essere altri che Jean
valjean, anche perché questi era stato arrestato a parigi proprio mentre saliva sulla
diligenza di Montfermeil. Ma Jean valjean era morto.
Javert, senza dir niente a nessuno, decise di recarsi a Montfermeil nella speranza
Monic
aGatto
di trovare qualcosa di più preciso: trovò invece una grande oscurità. Nel paese si
diceva che la bambina non era stata rubata, ma consegnata al “nonno”, come aveva
lasciato intendere thénardier per porre fine alle chiacchiere degli abitanti di Mont-
fermeil sulla sparizione di cosette.
Questa notizia fece svanire Jean valjean.
tuttavia Javert volle sapere qualche cosa di più su quell’“uomo”, ponendo alcu-
ne domande a thénardier. Ma ricevette soltanto risposte vaghe e imprecise.
tornò a parigi, convinto della morte dell’ex forzato. cominciava di nuovo a dimen-
ticare tutta quella storia, quando durante il mese di marzo 1824 sentì parlare di un
personaggio bizzarro, che abitava nella parrocchia di san Medardo ed era sopranno-
minato “il mendicante che fa l’elemosina”. Dicevano che quel tale era un possiden-
te, del quale nessuno sapeva il nome e che viveva solo con una bambina di otto an-
ni, che proveniva da Montfermeil.
Questo nome fece rizzare le orecchie a Javert, che decise di indagare.
si travestì da mendicante; l’“individuo sospetto” gli si avvicinò e gli fece l’elemosi-
na. Quando Javert alzò la testa, ambedue ricevettero una forte scossa, riconoscen-
dosi a vicenda.
Javert seguì il suo uomo fino alla topaia gorbeau e fece parlare la vecchia porti-
naia. con l’aiuto di questa durante la notte, come sappiamo, andò ad origliare alla
porta del misterioso inquilino.
già abbiamo detto che Jean valjean, accortosi di essere sorvegliato, aveva ab-
bandonato la casa gorbeau assieme alla bambina e si era inoltrato per le vie secon-
darie di parigi.
scoperto e inseguito da Javert, si era rifugiato in un convento di monache, dove
era giardiniere Fauchelevent, da lui salvato. Javert credeva di averlo in pugno, ma
ancora una volta la preda gli sfuggì con sua grande disperazione.
gli sembrava impossibile che fosse riuscito a fuggire, perché aveva fatto
circondare tutta la zona dalle guardie; ma non sapeva del convento.
- libro Vi -
il piccolo Picpus
entrare nel convento del piccolo picpus era per chiunque una cosa non solo diffi-
cile, ma impossibile; gli occhi profani non dovevano vedere nulla di quel luogo sacro.
benché quel convento fosse il più murato di tutti, l’autore del romanzo tenta di
farvi penetrare il lettore con una descrizione particolareggiata ma rispettosa di quel
luogo singolare e delle antiche usanze religiose che vi si praticavano.
tutte le suore erano rigorosamente vestite di nero, mentre le novizie portavano
lo stesso abito, tutto bianco. praticavano l’adorazione perpetua, mangiavano sem-
pre di magro e digiunavano durante la quaresima e in molti altri giorni dell’anno.
Dormivano tra lenzuola di saia e sulla paglia in qualunque stagione e dall’una alle
tre del mattino interrompevano il loro sonno per leggere il breviario. Non usavano
fare bagni, non accendevano mai il fuoco, si infliggevano delle autopunizioni ogni
venerdì, osservavano la regola del silenzio, quindi non parlavano tra loro se non du-
rante le brevissime ricreazioni.
solo la priora aveva il privilegio di comunicare con gli estranei, le altre potevano
vedere soltanto i loro più stretti congiunti e comunque assai raramente.
Nella chiesa del convento il pubblico entrava da un ingresso speciale che si apriva
sulla strada e tutto era disposto in modo che nessuna suora potesse vedere un solo
viso; persino il prete officiante era sempre nascosto ai loro sguardi da una tenda.
al convento era annesso un collegio, a cui potevano accedere le giovanette nobi-
li che, a parte le mortificazioni, si uniformavano a tutte le pratiche del convento.
Dal principio della restaurazione, per la rigidità delle regole, quel convento aveva
cominciato a spopolarsi e nel 1840 scomparve.

- libro Vii -
Parentesi
MonicaGatto

l’autore in questo libro fa una lunga e circostanziata parentesi per esprimere il suo
giudizio sull’esistenza claustrale. Ne riassumiamo il pensiero. Questo libro, dice l’au-
tore, è un dramma del quale l’infinito è il primo personaggio. l’uomo è il secondo.
il convento appartiene tanto all’oriente quanto all’occidente, all’antichità come ai
tempi moderni, al buddismo, all’islamismo, come al cristianesimo: esso è uno degli
scenari che l’uomo allestisce all’infinito.
pur mantenendo le nostre riserve, si deve dire che ogni qualvolta vediamo nel-
l’uomo l’infinito, bene o male compreso, ci sentiamo compresi di rispetto.
Dal punto di vista della storia, della ragione e della verità, il monachesimo è già
di per sé condannato.
il regime monacale, buono all’inizio della civiltà, utile per frenare la brutalità per
mezzo della spiritualità, è nocivo alla civiltà dei popoli. Quando poi si impigrisce e
perde le virtù originali, diventa una calamità esemplare.
le clausure hanno fatto il loro tempo. i chiostri, utili alla prima educazione della
civiltà moderna, sono stati un impaccio alla sua crescita e sono dannosi al suo
sviluppo. i monasteri, buoni nel decimo secolo, discutibili nel quindicesimo, sono
detestabili nel decimonono.
il convento in genere e, in modo particolare, il convento di donne, come è oggi
in italia, in Francia e in spagna, è una delle più cupe concrezioni del Medioevo. il
monachesimo, così come esisteva in spagna e come esiste nel tibet, è per la civiltà
una specie di tisi. la clausura non è altro che una castrazione. in europa è stata un
flagello.
aggiungete poi la violenza fatta così sovente alla coscienza, le vocazioni forzate,
la primogenitura che riversa nel monachesimo il soverchio della famiglia, le bocche
chiuse, i cervelli murati, le sepolture d’anime vive, i supplizi individuali, trasalirete
alla vista della tonaca e del velo. È stupido ostinarsi a voler mettere in piedi le cose
ormai sepolte. rispettiamo in qualche punto e risparmiamo da per tutto il passato,
MonicaGatto
purché esso acconsenta ad essere morto; se vuole essere vivo, l’attacchiamo e
cerchiamo di ucciderlo. poiché siamo nel secolo decimonono, siamo avversi alle
clausure ascetiche presso qualsiasi popolo.
Detto questo, aggiungiamo che il convento, dal punto di vista dei princìpi, deve
essere rispettato.
i monaci lavorano, rinunciano al mondo, alla sensualità, ai piaceri, alla vanità,
agli orgogli e agli interessi. Nessuno di essi possiede in proprio alcuna cosa; entran-
do colà, il ricco si fa povero: quello che ha, lo dà a tutti. colui che veniva chiama-
to nobile, gentiluomo o signore, è uguale a chi era contadino.
la cella è identica per tutti, tutti portano la stessa tonaca, mangiano lo stesso
pane scuro, dormono nella stessa paglia, muoiono nella stessa cenere, se è stato
deciso di andare scalzi, tutti vanno scalzi.
Non più titoli. scompaiono gli stessi cognomi. soccorrono i poveri e aiutano gli
ammalati; eleggono coloro ai quali obbediscono, e si dicono l’un l’altro fratello. cer-
tamente questo è il convento ideale. basta che sia il convento possibile, perché io
debba tenerne conto.
scartati i difetti, la comunità claustrale deve essere sempre considerata con una
certa gravità attenta e sotto certi riguardi deferente. il monastero è il prodotto della
formula: uguaglianza e Fratellanza.
Ma quegli uomini e quelle donne, che stanno dietro quelle quattro mura, che si
rendono uguali e che si chiamano fratelli, fanno anche un’altra cosa: pregano Dio.
vi sono due infiniti, uno fuori di noi, lassù; e un infinito in noi, quaggiù; l’infinito
di quaggiù è l’anima; l’infinito di lassù è Dio. Mettere, per mezzo del pensiero, l’infi-
nito di quaggiù a contatto con l’infinito di lassù, è ciò che si chiama preghiera.
Quanto al modo di pregare, qualunque esso sia, è buono, purché sia sincero.
c’è una filosofia che nega l’infinito, ma la negazione dell’infinito conduce dritto al
nichilismo; ma il nichilismo non ha ragione di esistere. Noi, conclude l’autore, di-
sprezziamo la chiesa quando fa la politica e l’intrigo, così come disprezziamo lo spi-
rituale avido di ciò che è temporale; ma onoriamo dovunque l’uomo pensoso. salu-
tiamo chi s’inginocchia. Una fede, ecco ciò che è necessario all’uomo. sciagurato chi
non crede a nulla!
Quell’esistenza claustrale così austera e così cupa, di cui testé abbiamo tracciato
qualche linea, non è la vita, poiché non è la libertà; non è la tomba, poiché non è
la pienezza; è un luogo strano, dal quale si scorge, come dalla cresta di un’alta
montagna, da una parte l’abisso in cui siamo, e dall’altra l’abisso in cui saremo; una
frontiera stretta e nebbiosa che separa due mondi, illuminata e oscurata nello stes-
so tempo da entrambi, dove il raggio indebolito della vita si confonde col raggio in-
certo della morte; è la penombra della tomba.

- libro Viii -
i cimiteri prendono ciò che si dà loro
cosette, in convento, continuò a tacere. Del resto ella si credeva figlia di Jean
valjean e non sapeva altro. presto si abituò al convento. solo rimpiangeva caterina,
la sua bambola.
cosette, divenuta educanda, indossò l’abito come le compagne. Jean poté otte-
nere che gli fossero consegnati i vestiti da lei smessi; questi furono accuratamente
messi in una valigetta con molta canfora e molti aromi.
Jean valjean era stato saggio e prudente a non muoversi da quelle mura; se c’era
da fare qualche corsa fuori, andava il vecchio Fauchelevent, mentre Jean pensava
al giardino, che curava molto bene, avendo buona conoscenza di agricoltura e di
giardinaggio. viveva con il vecchio compagno nella baracca in fondo al giardino, una
bicocca costruita con rottami.
cosette aveva il permesso di andare ogni giorno e passare un’ora con lui. era feli-
ce di stare con l’uomo che chiamava papà. Finita la ricreazione, tornava tra le sue
compagne e Jean valjean guardava le finestre della sua classe.
Di notte si alzava e guardava le finestre del suo dormitorio e spesso ascoltava le
preghiere di quelle creature. ricordava gli antichi compagni, anch’essi reclusi come
le monache, anch’essi senza nome, designati solo con numeri.
Mon
i
Non mangiavano carne e non bevevano mai vino; erano vestiti col nero sudario
di lana, caldo d’estate, leggero d’inverno. abitavano non in camerate riscaldate, ma
in celle dove non veniva mai acceso il fuoco, non sui materassi, ma sulla paglia.
poi il suo pensiero tornava su coloro che gli erano più vicini. anche queste creatu-
re, le monache, vivevano con i capelli tagliati, con gli occhi bassi; non veniva lascia-
to loro neppure il sonno; dopo una giornata faticosa, nel momento in cui stavano
per addormentarsi e per riscaldarsi a fatica, dovevano alzarsi e andare a pregare in
una cappella gelida e cupa, con le ginocchia sulla pietra.
Quelli erano uomini; e queste erano donne. che cosa avevano fatto quegli uomi-
ni? avevano rubato, stuprato, saccheggiato, ucciso, assassinato. erano banditi,
falsari, avvelenatori, incendiari, assassini, parricidi. che cosa avevano fatto quelle
donne? Non avevano fatto nulla.
due luoghi di schiavitù; ma, nel primo, la liberazione possibile, un limite legale
sempre previsto, e poi, l’evasione; nel secondo, la perpetuità e per sola speranza,
quel barlume di libertà che gli uomini chiamano morte. Nel primo si era incatenati
solo alle catene; nel secondo, si era incatenati alla fede. Dal primo si sprigionava
un’immensa maledizione, stridore di denti, odio, rabbia contro la società umana,
sarcasmo contro il cielo. Dal secondo usciva la benedizione e l’amore. e in quei luo-
ghi così simili e così diversi, quelle due specie di esseri tanto differenti compivano
la stessa opera: l’espiazione.
Jean valjean comprendeva bene l’espiazione dei primi; ma non comprendeva
quella delle altre, di quelle creature senza colpa e senza macchia. Una voce nella
sua coscienza gli diceva che queste creature espiavano le colpe degli altri. Questa
casa era una prigione e somigliava tristemente a un’altra da dove era fuggito. Quel-
le alte mura che aveva visto intorno alle tigri, gli apparivano intorno alle pecorelle.
Quando pensava a queste cose, l’orgoglio svaniva. tutto ciò ch’era entrato nella
sua vita da sei mesi lo riconduceva verso le sante ingiunzioni del vescovo; cosette
con l’amore e il convento con l’umiltà.
talvolta nel crepuscolo, nell’ora in cui il giardino era deserto, lo vedevano inginoc-
chiato in mezzo al viale che fiancheggiava la cappella, rivolto verso il punto in cui
sapeva che la suora che faceva la riparazione era prosternata e pregava.
e pregava anch’egli, così inginocchiato davanti a quella suora. sembrava che non
osasse inginocchiarsi direttamente davanti a Dio. pensava che erano due case di Dio
che l’avevano raccolto successivamente nei due momenti critici della sua vita: la pri-
ma allorché la società umana lo respingeva; la seconda nel momento in cui la so-
cietà umana ricominciava a perseguitarlo e la galera si riapriva; e che senza la prima
Mo
sarebbe ricaduto nel delitto, e, senza la seconda, nel supplizio.
nic
il cuore gli si stringeva tutto di riconoscenza ed egli amava sempre di più.
aG
Diversi anni trascorsero così; cosette cresceva.
att
o
Parte terza
Mario
- libro i -
Parigi studiata nel suo atomo
parigi ha un fanciullo, come il bosco ha un uccello; l’uccello si chiama il passero
e il fanciullo si chiama il birichino. Questo piccolo essere è gaio. Non mangia tutti i
giorni e va a teatro, se ne ha voglia, tutte le sere. Non ha la camicia indosso, non
ha le scarpe ai piedi, non ha un tetto sul capo. ha da sette a tredici anni, vive in
gruppi, gironzola per le strade, alloggia all’aria aperta, porta un vecchio paio di cal-
zoni del padre, che gli scendono oltre i talloni, un vecchio cappello di qualche altro
papà che gli ricopre le orecchie, una sola bretella di stoffa gialla, corre, cerca, se la
spassa, fuma la pipa, bestemmia, frequenta la bettola, conosce dei ladri, dà del tu
alle prostitute, canta canzoni oscene, e non ha nulla di cattivo nel cuore. ha nell’ani-
ma l’innocenza, perché finché l’uomo è fanciullo, Dio vuole che sia innocente.
il birichino di Parigi ad un alloggio preferisce la strada, perché vi trova la libertà.
ha i suoi giochi preferiti, delle birichinate tutte sue. ha i suoi mestieri: abbassa i
predellini delle carrozze padronali; si fa pagare per fare attraversare la strada a
Mo
qualcuno, strilla i discorsi pronunciati dalle autorità a favore del popolo, raschia gli
nic
interstizi dei selciati. ha una sua moneta che si compone di pezzettini di rame
aG
lavorato che possono essere trovati sulla pubblica via.
att
o
infine ha la propria fauna: la cocciniglia, il pidocchio, il ragno, “il diavolo”, un in-
setto nero che torce la coda. ha il suo mostro favoloso, nero e vellutato, viscido e
strisciante, ora lento e ora rapido; nessuno l’ha mai visto e si chiama “il sordo”.
il birichino è dotato di una non so quale giovialità imprevista e sbalordisce la gen-
te con i suoi frizzi e le sue pronte battute. con pochi soldi procurati chi sa come, al-
la sera va a teatro. passata questa soglia magica, egli si esalta. il birichino diventa
monello. Questo essere schiamazza, motteggia, schernisce e si batte.
Dipingere l’immagine del birichino è come dipingere l’immagine della città di pa-
rigi ed è soprattutto dai sobborghi, dalla periferia che emerge la vera razza parigi-
na: là c’è il puro sangue, là è la sua vera fisionomia, là il popolo lavora e soffre.
il punto in cui una pianura si congiunge con una città è sempre improntato da
una malinconia penetrante, è il punto dove parlano, nello stesso tempo, la natura
e l’umanità; qui si incontrano spesso fanciulli aggruppati, tumultuosi, lividi, infanga-
ti, impolverati, cenciosi e arruffati.
parigi e i suoi dintorni è tutto l’universo per questi birichini, in apparenza viziati
e corrotti, ma interiormente con l’anima intatta; i loro occhi sono belli perché sono
lo specchio dell’ingegno e la loro sfrontatezza può trasformarli in eroi, perché sono
sì figli del pantano, ma anche figli dell’ideale.
Quei piedi nudi, quelle braccia nude, quei cenci, quella ignoranza, quelle tene-
bre, sono in grado di trasformarsi negli strumenti per la conquista dell’ideale e della
verità.
È il birichino quindi che, meglio di ogni altro, esprime parigi, e parigi è la cupola
del genere umano, compendio prodigioso di tutti i costumi che furono e di quelli che
saranno.
parigi è superba per il suo 14 luglio, che ha acceso la fiaccola dell’avvenire, di-
struggendo in poche ore mille anni di feudalesimo; ed ora sussurra ovunque la sua
potente parola d’ordine: libertà.
otto o nove anni circa dopo gli avvenimenti narrati nella seconda parte, per i
dintorni di parigi si vedeva gironzolare un monello di dodici anni, chiamato “il picco-
lo gavroche”, sempre allegro e vagabondo. suo padre non si occupava di lui e sua
madre non lo amava; quando ogni due o tre mesi tornava a casa, vi trovava solo
miseria e neppure un sorriso, ma, nonostante tutto, era felice perché era libero. la
sua famiglia abitava in una stanza di quella casa malandata che già abbiamo descrit-
to: la topaia gorbeau.
Nella stanza accanto viveva un giovane poverissimo di nome Mario.

- libro ii -
il gran borghese
bisogna fare qualche passo indietro nella narrazione degli eventi per gettare luce
sulla figura di Mario, un nuovo personaggio del dramma che sta emergendo e che
avrà in futuro un ruolo determinante.
Mario fu allevato dal nonno, il signor gillenormand, un vecchio più che mai vivo
e robusto. aveva superato i novant’anni, eppure camminava diritto, ci vedeva bene,
beveva e mangiava con piacere. Nella sua tipologia era un uomo che apparteneva
al secolo precedente e sosteneva la buona vecchia borghesia con sussiego e alteri-
gia. i suoi modi erano qualcosa di mezzo tra quelli dell’uomo di corte che non era
mai stato, e quelli del magistrato che avrebbe potuto essere. Quando voleva, sape-
va essere allegro e carezzevole, ma il più delle volte era impetuoso e facile ad irritar-
si. anche se un po’ brusco di modi, era generoso e, se fosse stato ricco, la munifi-
cenza sarebbe stata il suo debole. Mo
ripeteva spesso con tono autorevole: «la rivoluzionenFrancese
icaG è un mucchio di
farabutti»; adorava i borbone e disprezzava il 1789, e nessuno siapoteva
tto arrischia-
re a tessere in sua presenza l’elogio della repubblica.
Monic
Malgrado tutto era un uomo venerabile, somigliava al Xviii secolo: era, ad un
tempo, frivolo e grande.
Dal primo matrimonio gillenormand aveva avuto una figlia rimasta zitella, che vi-
veva ancora con lui, e dal secondo un’altra, morta verso i trent’anni, che aveva
sposato un soldato di ventura di nome pontmercy.
«È la vergogna della mia famiglia», diceva il vecchio borghese parlando del ge-
nero, in quanto aveva servito negli eserciti della repubblica e dell’impero. Nonostan-
te avesse ricevuto una croce ad austerlitz ed il titolo di colonnello a Waterloo per il
suo eroismo, pontmercy non era riuscito ad accattivarsi la simpatia del signor gille-
normand che, dopo la morte della figlia, per motivi politici, aveva deciso di disereda-
re il nipote Mario, se avesse continuato a vivere col padre.
pontmercy, affinché suo figlio fosse un giorno ricco e felice, scelse la via del
sacrificio e si chinò al volere del suocero.

- libro iii -
Nonno e nipote
Quando Mario era ancora bambino, il signor gillenormand usava frequentare i sa-
lotti dei nobili e dei ricchi. sebbene fosse un borghese, vi era ricevuto, anzi, era
sempre ricercato e festeggiato per il suo ingegno.
in questi salotti, dove si faceva la parodia della rivoluzione, dove si emettevano
gridi di orrore sul nuovo secolo, sulla costituzione e sul bonapartismo, gillenormand
era considerato come un oracolo. Qui egli riusciva sempre a primeggiare per il suo
carattere imponente, dignitoso, onesto, a cui si aggiungevano il prestigio della sua
tarda età e un’attenta arguzia rivelata da motti spontanei e briosi.
in questi luoghi, dove si riuniva il fior fiore dell’aristocrazia parigina, il vecchio
borghese si recava abitualmente accompagnato da sua figlia e dal piccolo nipote,
un ragazzetto sempre tremante e muto, al quale gillenormand non parlava mai se
non con voce severa, talvolta alzando il bastone, e che pure idolatrava.
per Mario tale mondo mummificato era tutto ciò che conosceva della società; era
la sola finestra sul mondo che gli era stata spalancata sulla vita. là si giudicavano
uomini e fatti senza mai tentare di capirli, là la parola “conservazione” era la prima
del dizionario, là si preparava il ritorno alla reazione e alla restaurazione.
in breve tempo Mario, che per natura era incline alla gioia, divenne triste e persi-
no grave. Quando raggiunse l’adolescenza, fu mandato in collegio ed infine entrò
nella scuola di diritto. verso i diciotto anni si era trasformato in un giovane dignito-
so sino alla durezza e puro sino alla selvatichezza, fanatico, austero, ardente,
generoso e fiero.
amava poco suo nonno, del quale disdegnava la gaiezza e il cinismo, e pensava
con tristezza a suo padre.
chi fosse passato per la cittadina di vernon e si fosse recato a passeggiare sul
bel ponte monumentale posto sulla loira, dal parapetto avrebbe visto un uomo sulla
cinquantina, con un berretto di cuoio, vestito di calzoni e d’una giubba di grosso
panno grigio, con gli zoccoli ai piedi e i capelli quasi bianchi, con una larga cicatri-
ce che dalla fronte scendeva sulla guancia, il quale s’aggirava tutto il giorno, con
una vanga e una roncola in mano, in uno di quei terreni circondati da muri che si
trovano vicini al ponte e che fiancheggiano la riva sinistra della senna, graziosi
piccoli recinti pieni di fiori. tutti questi recinti da una parte finiscono nel fiume, dal-
l’altra sono uniti ad una casa.
Quest’uomo, verso il 1817, abitava nel più piccolo di quei recinti e nella più umi-
le di quelle case. egli viveva solo e solitario, nel silenzio e nella povertà, con una
donna né vecchia, né giovane, né bella, né brutta, a cui erano affidati i servizi do-
mestici.
Quel pezzo di terra, che egli chiamava giardino, era celebre in città per la bellez-
za dei fiori che egli vi coltivava. particolarmente belli erano certi tulipani e certe da-
lie. Qui, nel giardino, trascorreva tutto il suo tempo dall’alba al tramonto. Usciva ra-
ramente e non vedeva nessuno all’infuori dei poveri che battevano alla sua porta e
del suo curato, l’abate Mabeuf. tuttavia se qualche abitante della città veniva a bus-
sare alla sua casetta per vedere i fiori, lo accoglieva sorridente. era questi il brigante
della loira.
chi ha letto le memorie militari e i bollettini della “grande armata”, non avrà certo
dimenticato un nome che vi è ripetuto più volte: giorgio Pontmercy.
ancora giovanissimo era soldato nel reggimento di saintonge. scoppiò la
rivoluzione. il reggimento fece parte dell’esercito del reno. combatté in tante loca-
lità. passò in italia nell’esercito di Napoleone e pontmercy divenne sottotenente.
combatté valorosamente ad austerlitz, tanto che l’imperatore gli diede la croce.
partecipò alla spedizione napoleonica in russia: vide Mosca, la beresina, Dresda,
lipsia e molti altri luoghi. Fu promosso capitano.
Dalla fanteria passò alla cavalleria, perché aveva uguale destrezza nel valersi co-
me soldato della sciabola e del fucile, come ufficiale nel manovrare uno squadrone
o un battaglione.
egli accompagnò Napoleone all’isola d’elba. a Waterloo era comandante di uno
squadrone di corazzieri. Fu lui che conquistò la bandiera del battaglione di lune-
Monica

bourg e andò a gettarla ai piedi dell’imperatore, che, contento, gli gridò: «tu sei co-
lonnello, tu sei barone, tu sei ufficiale della legion d’onore». Un’ora dopo cadeva
nel burrone d’ohain; fu spogliato, ma anche salvato da thénardier.
la restaurazione lo mise a mezza paga, poi lo inviò a vernon, sotto vigilanza. lui-
Gatto

gi Xviii non volle riconoscergli la qualifica di ufficiale della legion d’onore, né il gra-
do di colonnello, perché ottenuto durante i “cento giorni”, ma egli continuava a
firmare colonnello barone pontmercy e a portare il distintivo di ufficiale della legion
d’onore. il procuratore del re lo minacciò di procedere contro di lui per abuso ille-
gale di questa decorazione. egli reagì uscendo per otto giorni di seguito col distin-
tivo famoso. Non osarono disturbarlo.
Un giorno incontrò il procuratore del re, gli si accostò e gli chiese: «signor procu-
ratore del re, m’è permesso portare la mia cicatrice?». Non aveva nessuna risorsa,
fuorché la meschinissima paga di capo-squadrone.
Durante l’impero aveva sposato la signorina gillenormand, con grande
indignazione del vecchio borghese. Nel 1815 la signora pontmercy, donna ammire-
vole, morì, lasciando un figlio. Questi sarebbe stato la gioia del padre, ma il nonno
l’aveva imperiosamente reclamato. il padre aveva ceduto nell’interesse del piccino.
ora passava il tempo a curare i suoi fiori o a ricordarsi di austerlitz.
il signor gillenormand non aveva nessuna relazione col genero. il colonnello era
per lui un “bandito”, ed egli, per il colonnello, un “imbecille”.
Misera sarebbe stata per Mario l’eredità del nonno, ma imponente quella della
zia, rimasta zitella, ricca da parte di madre, e il figlio di sua sorella sarebbe stato
l’erede.
Mario sapeva di avere un padre, ma nulla più. Nessuno gliene parlava; ma
sentendo bisbigliare qualche parola e vedendo l’ammiccare degli occhi di cui era
oggetto nella società, finì per pensare al padre soltanto con vergogna e con uno
stringimento di cuore.
Mentre egli così cresceva, il colonnello ogni due o tre mesi veniva di nascosto a
parigi per recarsi nella chiesa di san sulpicio nell’ora in cui la zia gillenormand sole-
va condurre Mario alla messa. stando nascosto, contemplava con le lacrime agli oc-
chi il figlio. Da ciò era nata la sua relazione con il parroco di vernon, che era fra-
tello di un fabbriciere di san sulpicio, il quale aveva notato più volte quell’uomo in
contemplazione davanti al fanciullo.
Un giorno, recatosi a vernon per visitare il fratello, incontrò il colonnello sul ponte
e riconobbe in lui l’uomo di san sulpicio. Ne parlò al parroco ed ambedue, con un
pretesto qualunque, andarono a fargli una visita.
il vecchio soldato, sulle prime assai riservato, finì per raccontare la sua storia. Fu
così che il parroco concepì venerazione e tenerezza per il colonnello, il quale, a sua
volta, fu preso d’affetto per il parroco.
Due volte all’anno Mario scriveva al padre lettere doverose, dettate dalla zia. il
colonnello rispondeva con lettere affettuose, che il nonno si cacciava in tasca senza
leggere.
Una sera Mario ricevette dal nonno una notizia inattesa e sconcertante: il giorno
appresso avrebbe dovuto recarsi a Vernon da suo padre che, molto malato, aveva
espresso il desiderio di poter vedere suo figlio.
Mo
n
Mario arrivò troppo tardi e sul letto di morte scorse, per la prima e l’ultima volta,
il viso venerabile e maschio del padre e le sue membra robuste, sulle quali si
distinguevano le tracce di colpi di sciabola e di buchi di pallottola; una gigantesca
cicatrice imprimeva il segno dell’eroismo su quel volto in cui Dio aveva impresso la
bontà. Ma a tutto questo Mario restò impassibile. oltre ai motivi di antipatia politi-
ca, era convinto che suo padre non l’avesse mai amato e quindi, di fronte a quel
corpo inerte, si sentiva come un estraneo.
la domestica aveva consegnato a Mario un pezzo di carta sul quale era scritto:
«per mio figlio. l’imperatore mi ha fatto barone sul campo di battaglia di Waterloo.
poiché la restaurazione mi contesta questo titolo, che ho pagato col mio sangue,
mio figlio lo prenderà e lo porterà. È certo ch’egli ne sarà degno».
Dietro il foglio il colonnello aveva aggiunto: «in quella stessa battaglia di Waterloo
un sergente mi ha salvato la vita. Quest’uomo si chiama thénardier. credo che in
questi ultimi tempi abbia tenuto un piccolo albergo in un villaggio nei dintorni di pa-
rigi. a chelles o a Montfermeil. Qualora mio figlio lo incontrasse, gli farà tutto il bene
che potrà».
in pochi giorni pontmercy venne dimenticato da tutti e solo una circostanza
fortuita lo fece ritornare presente alla memoria del figlio.
Mario aveva mantenuto le abitudini religiose della sua infanzia e una domenica
in cui era andato a sentire la messa, si trovò seduto vicino ad un vecchio di nome
Mabeuf, che gli fece alcune confidenze. Nel posto ora occupato da Mario, era soli-
to sedersi un uomo, che regolarmente si recava in quella chiesa per vedere suo fi-
glio, a cui aveva dovuto rinunciare, costretto dal suocero, che altrimenti avrebbe di-
seredato il nipote; quel povero padre si teneva sempre nascosto dietro ad un pila-
stro per non essere veduto: guardava suo figlio e piangeva.
a questo punto Mario volle sapere tutto di suo padre, della rivoluzione, dell’impe-
ratore bonaparte. si recò nella biblioteca e sul Monitore lesse tutte le storie della
repubblica e dell’impero; lesse inoltre il Memoriale di sant’elena, tutte le memorie,
i giornali, i bollettini, i proclami; divorò tutto.
la prima volta che trovò il nome di suo padre nei bollettini della “grande arma-
ta”, ebbe la febbre per una settimana. andò a trovare i generali sotto i quali il padre
aveva servito e seppe altri particolari della vita militare di giorgio pontmercy.
il fabbriciere Mabeuf gli aveva descritto la vita del colonnello a vernon. Mario finì
per conoscere interamente quell’uomo raro, sublime e dolce, quella specie di leo-
ne-agnello che era stato suo padre. Mario era sul punto di adorare suo padre. Nel
tempo stesso un mutamento straordinario avveniva nelle sue idee. la storia che
Mon
aveva incominciato a conoscere lo riempiva di sgomento, lo lasciava sbalordito.
icaG
repubblica e impero sino a quel giorno per lui erano parole bestiali. ora si accor-
atto
geva che fino a quel momento non aveva capito il suo paese più di quanto avesse
capito suo padre. Non aveva conosciuto né l’uno né l’altro. egli aveva avuto una
specie di notte volontaria stesa davanti agli occhi. ora vedeva; e da una parte am-
mirava e dall’altra adorava. era pieno di rimpianti e di rimorsi e pensava con dispe-
razione che tutto ciò che aveva nell’animo ora non poteva che dirlo ad una tomba.
se suo padre fosse stato vivo, gli avrebbe baciato il capo bianco, inondato i capel-
li di lacrime, contemplato la cicatrice, strette le sue mani, adorato i vestiti, baciato
i piedi.
Dalla riabilitazione di suo padre era passato naturalmente alla riabilitazione di Na-
poleone, ma questo passo fu più lungo e non poté compierlo senza fatica. tuttavia,
dopo aver letto la storia e averla studiata soprattutto nei documenti e nelle fonti
originali, a poco a poco si squarciò il velo che nascondeva Napoleone ai suoi occhi.
Da quel momento l’orco della corsica, l’usurpatore, il tiranno, il mostro che era
l’amante delle sorelle, la tigre, bonaparte, tutto questo svanì e lasciò il posto, nella
sua mente, ad un indeterminato e luminoso irradiamento, nel quale risplendeva, ad
un’altezza inaccessibile, il pallido marmoreo fantasma di cesare.
Napoleone era stato per suo padre l’adorato capitano che si ammira e per il quale
si sacrifica la vita; per Mario fu qualche cosa di più. egli fu il predestinato condottie-
ro del popolo francese, che succedette al popolo romano nel dominio dell’universo;
fu il continuatore di carlo Magno, di enrico iv, di richelieu, di luigi Xiv, un uomo
senza dubbio con le sue macchie, le sue colpe e anche il suo delitto, ma augusto
nelle colpe, brillante nelle macchie, possente nel delitto.
come capita a tutti i neofiti di una religione, la sua conversione lo esaltava, egli
M
si precipitava nell’adesione spingendosi troppo oltre. ad ogni modo aveva fatto un
on
gran passo: dove prima vedeva la rovina della monarchia, scorgeva ora il trionfo
ica
della Francia. il suo orientamento si era mutato: il tramonto era diventato il levan-
G
te. egli si era voltato. tali rivolgimenti si compivano nel suo animo senza che la fa-
at
to
miglia ne avesse neppure sospetto.
da quel momento fu interamente rivoluzionario, profondamente democratico e
repubblicano. allora si recò da uno stampatore e gli ordinò cento biglietti da visita
col nome barone Mario pontmercy.
per un’altra naturale conseguenza, a mano a mano che si accostava al padre, si
allontanava sempre più dal nonno.
Mario di quando in quando si assentava per alcuni giorni. in uno di questi viag-
gi si era recato a Montfermeil per obbedire alle istruzioni del padre, e aveva cerca-
to l’antico sergente di Waterloo, l’albergatore thénardier. Questi era fallito, l’alber-
go era chiuso e nessuno sapeva che cosa ne fosse avvenuto.
in occasione di tali ricerche Mario rimase assente quattro giorni. il nonno disse:
«Questo ragazzo sta proprio diventando dissoluto». si accorsero che portava sul
petto e sotto la camicia qualche cosa che era appeso al collo con un nastro nero.
Dal giorno della scoperta della verità sul padre, aveva preso l’abitudine di assen-
tarsi da parigi e passare la notte fuori di casa. la zia cominciò ad incuriosirsi, cre-
dendo che si trattasse di qualche scappatella amorosa e decise di farlo pedinare da
teodulo, un lontano cugino di Mario. Questi scoprì che la supposta passione amoro-
sa era in realtà una tomba, la tomba del padre, sulla quale Mario andava a prega-
re e a piangere.
teodulo rimase assai sconcertato da questa scoperta. Non sapendo che cosa
scrivere alla zia, decise di non scriverle affatto. probabilmente non sarebbe succes-
so nulla, se la scena di vernon non avesse avuto una specie di contraccolpo a parigi.
Mario tornò a casa del nonno all’alba del terzo giorno. stanco per le due notti
passate in diligenza, pensò di fare un buon bagno. salito nella sua stanza, si tolse
il soprabito e il cordone nero che aveva al collo, poi entrò nella stanza da bagno.
il nonno, che si alzava all’alba, accortosi dell’arrivo del nipote, pensò di salire per
salutarlo. salì con tutta la fretta che gli permettevano le sue vecchie gambe. Quan-
do giunse nella stanza, Mario non c’era più. vedendo il soprabito e il cordoncino ne-
ro, li raccolse e scese nel salotto del suo appartamento, dove c’era la figlia. era feli-
ce di avere nelle mani il ritratto della donna che teneva lontano il nipote. infatti al
cordoncino era appeso un astuccio di pelle nera, simile a un medaglione.
il signor gillenormand prese l’astuccio, lo esaminò senza aprirlo e disse: «Qui ci
deve essere un ritratto. sarà qualche sgualdrina disgustosa. la gioventù d’oggi ha
così cattivo gusto!». Quando aprì l’astuccio, vi trovò dentro, con sua grande mera-
viglia, soltanto un biglietto piegato. l’aprì e lesse: per mio figlio. era il biglietto che
il colonnello, morendo, aveva lasciato al figlio, e che noi conosciamo.
«È la calligrafia di quel filibustiere», disse a bassa voce gillenormand. Dopo aver-
lo letto, padre e figlia si sentirono agghiacciati.
Nello stesso momento un pacchettino rettangolare cadde da una tasca del so-
prabito. erano i cartoncini di Mario. la zia ne passò uno al padre, che lesse: barone
Mario pontmercy. gillenormand suonò. accorse la cameriera Nicoletta. il vecchio
prese il cordone, l’astuccio, il soprabito, gettò tutto a terra nel mezzo della stanza
Moni
e ordinò alla donna di portare via tutti quegli arnesi. passò un’ora intera nel più pro-
fondo silenzio. ad un tratto comparve Mario. caGa
prima ancora di varcare la soglia del salotto, egli vide suo nonno che teneva in
tto
mano uno dei suoi cartoncini e che, vedendolo, esclamò con quella sua aria di su-
periorità borghese e canzonatoria: «guarda! guarda! … adesso tu sei barone. Mi
congratulo con te. cosa significa tutto questo?».
Mario arrossì e rispose: «vuol dire che io sono figlio di mio padre».
il signor gillenormand smise di ridere e disse: «tuo padre sono io».
«Mio padre» rispose Mario «era un uomo umile ed eroico che ha servito valorosa-
mente la repubblica e la Francia, che ha vissuto un quarto di secolo nei bivacchi, di
giorno sotto la mitraglia, di notte sulla neve, nel fango, sotto la pioggia, che ha ri-
cevuto venti ferite, che è morto dimenticato e abbandonato e che ha avuto un solo
torto, di amare troppo due ingrati: il suo paese e me».
era più di quanto il signor gillenormand potesse ascoltare. si alzò in piedi e gridò:
«Mario! ragazzo scellerato! io non so chi fosse tuo padre! ma quello che so, è che
in mezzo a quella gente non vi furono che miserabili. erano tutti pezzenti, assassi-
ni, berretti rossi, ladri!». e continuò a lungo su questo tono.
a sua volta Mario reagì. era impossibile che egli insultasse suo nonno, ed era
ugualmente impossibile che non vendicasse suo padre. alzò gli occhi, guardò fisso
suo nonno, e gridò con voce tonante «abbasso i borbone e quel grosso porco di
luigi Xviii».
il vecchio da scarlatto che era, divenne più bianco dei suoi capelli. andò due vol-
te, lentamente e in silenzio, dal camino alla finestra e dalla finestra al camino; poi
con un sorriso quasi calmo, disse: «Un barone come il signore e un borghese come
me non possono stare sotto lo stesso tetto». poi pallido, feroce, puntò il dito verso
Mario e gli gridò: «vattene!». Mario lasciò la casa.
l’indomani il signor gillenormand disse alla figlia di mandare ogni bimestre
o
sessanta pistole a quel bevitore di sangue e voleva che non si parlasse più di lui.
a tt
Mario era uscito indignato. Ma ciò che più lo turbò fu il fatto che Nicoletta, senza
G
accorgersene, lasciò cadere probabilmente lungo la scala l’astuccio nero che
ica n
conteneva il biglietto scritto dal colonnello, e non fu più ritrovato. Mo
Mario se ne andò senza dire dove, con trenta franchi, un orologio e pochi capi di
vestiario. rimase comunque convinto che il signor gillenormand, – da quel giorno
in poi non lo chiamò in altro modo – aveva gettato nel fuoco “il testamento di suo
padre”.

- libro iV -
gli amici dell’aBc
Dopo aver lasciato la casa del nonno, Mario si era ritrovato solo e abbandonato
al proprio destino; ma la gioventù è la stagione delle facili alleanze e, in poco tem-
po, fece amicizia con un ragazzo di nome courfeyrac, appartenente al gruppo degli
“amici dell’abc”.
in quel tempo si sollevava quasi inavvertito qualche fremito rivoluzionario; i
giovani vivevano in una di quelle età critiche di trasformazione, complicate da mil-
le riflussi. i realisti divenivano liberali e i liberali democratici; si adoravano ad un
tempo Napoleone e la libertà. in Francia non esistevano ancora quelle vaste orga-
nizzazioni segrete come la carboneria italiana, ma qua e là oscure consorterie anda-
vano ramificandosi.
a parigi esisteva la società degli “amici dell’abc”, che aveva come ideale l’innalza-
mento del popolo e il progresso. le adunanze abituali si tenevano in una sala inter-
na del caffè Musain, ove si fumava, si giocava e si rideva. la maggior parte degli
affiliati erano studenti che costituivano quasi una famiglia, tanta era l’amicizia che
li univa e tutti erano figli diretti della rivoluzione francese.
Mario era piombato in questo vespaio d’ingegni e, avendo vissuto fino ad allora
solitario, si trovò un po’ spaurito in mezzo a tutti quegli entusiasmi.
abbandonando le idee di suo nonno per quelle del padre, aveva creduto d’essersi
formato un’opinione definitiva; ora, senza neppure confessarlo a se stesso, sentiva
che il punto di vista, sotto il quale vedeva le cose, cominciava e spostarsi di nuovo.
Una sera, al caffè Musain, ci fu un vivace scontro di idee che impresse nell’ani-
mo di Mario un profondo turbamento.
gli scontri tra i giovani avvengono improvvisamente e sono vertiginosi. così acca-
deva anche tra Mario e i suoi amici. Mario in queste conversazioni difendeva a spada
tratta la corsica e soprattutto Napoleone, contro il parere di chi invece inneggiava
alla repubblica.
Una sera al caffè Musain la discussione tra Mario e i suoi amici repubblicani fu
particolarmente violenta e lasciò una cupa oscurità nell’animo del giovane. Mario ri-
mase triste. si era appena formata una fede, doveva già abbandonarla? si persua-
se di no.
tuttavia era turbato: si sentiva distante da suo nonno e dai suoi amici; dop-
piamente isolato. cessò di andare al caffè Musain. Ma altri problemi doveva affron-
tare, primo fra tutti quello economico.
Una mattina l’albergatore si presentò in camera di Mario, dicendogli che aveva
bisogno di denaro. Mario lo pregò di far venire courfeyrac, il giovane che aveva ga-
rantito per lui. Questi poco dopo arrivò. si informò della situazione e venne così a
sapere che Mario aveva quindici franchi, un orologio d’oro, un soprabito, due paia
di calzoni, le scarpe e poco altro. Decisero di vendere il soprabito e un paio di calzo-
ni, oltre all’orologio. così fu fatto.
Dai vestiti si ricavarono venti franchi, dall’orologio quarantacinque. Dunque Mario
aveva in tutto ottanta franchi, ma il conto dell’albergo ammontava in tutto a settan-
ta franchi, per cui ne restavano soltanto dieci.
occorreva trovare un lavoro, ma non era facile, perché Mario non sapeva fare
nulla e non conosceva le lingue.
la zia gillenormand, sensibile alle sventure, aveva scoperto il domicilio di Mario.
Questi una mattina, di ritorno dalla scuola, trovò una lettera della zia e le sessanta
pistole, cioè seicento franchi in oro.
Mario rimandò i trenta luigi alla zia con una lettera in cui dichiarava di avere i
mezzi di sussistenza e quindi di poter sopperire da sé alle sue necessità. in quel
momento gli restavano in tutto tre franchi.
la zia non informò il nonno del rifiuto per non esasperalo. Mario uscì dall’alber-
go, non volendo fare debiti.

MonicaGatto
- libro V -
domina la sventura
la vita per Mario divenne dura. trascorse giorni senza pane, notti senza sonno,
sere senza candele, settimane senza lavoro.
in quell’età in cui l’uomo ha bisogno d’orgoglio, egli si sentì deriso, umiliato, avvi-
lito e conobbe le ingiustizie pungenti della miseria.
Da queste terribili prove a cui spesso l’esistenza sottopone, i deboli escono infa-
mi, i forti sublimi.
la sventura, l’abbandono, la povertà sono a volte campi di battaglia da cui
emergono degli eroi: l’indigenza e la privazione generano fierezza e forza d’animo.
Mario riuscì a resistere alle tentazioni del male, guidato dalla tenacia e da
un’oscura energia che era in lui. attraverso tutti questi guai, riuscì ad abilitarsi
all’avvocatura e ne informò il nonno con una lettera fredda, ma piena di rispetto.
trovò lavoro in un’industria libraria, dove assolveva incarichi di vario genere e pian
piano uscì dalle strette peggiori.
anche le febbri politiche col tempo si allontanarono dal suo animo; aveva sem-
pre le stesse opinioni, solamente le aveva mitigate. se dovessimo chiederci a quale
partito apparteneva, risponderemmo a quello dell’umanità e nell’umanità sceglieva
la Francia e il popolo.
Mario aveva vent’anni. Da tre anni aveva lasciato il nonno. Non si erano più rivi-
sti né cercati. il giovane pensava che il nonno non l’avesse mai amato. Ma s’ingan-
nava. l’adorava a suo modo, con sfuriate e schiaffi.
Quando il ragazzo se ne fu andato, sentì un gran vuoto. Nei primi tempi sperò
che quel bonapartista, quel giacobino, quel terrorista, quel settembrista ritornasse;
ma passarono i giorni, i mesi, gli anni; il bevitore di sangue non ricomparve.
il signor gillenormand soffriva ma il suo orgoglio gli diceva che se si ritornasse
da capo, lo rifarebbe. il nonno non s’informava, ma vi pensava sempre.
Quanto alla zia, ella pensava troppo poco per amare molto, per cui Mario per lei
era ormai un’immagine sfocata.
tto a
caG
Mentre il vecchio rimpiangeva la perdita del nipote, questi si compiaceva d’esser-
i n
si allontanato da lui, anche se lo pensava con affetto; s’era imposto di non riceve-
Mo
re nulla dall’uomo che aveva agito male verso suo padre. la sua vita dura gli piace-
va e lo soddisfaceva, anche perché era un’espiazione.
Nella giovinezza anche la povertà ha qualcosa di bello, perché aiuta a maturare.
Qualsiasi giovane, per quanto povero, farà sempre invidia a un imperatore. È fermo,
sereno, affabile, tranquillo, attento, serio, contento del poco e ringrazia Dio d’aver-
gli concesso due ricchezze che mancano a molti ricchi: il lavoro che lo fa libero, e il
pensiero che lo fa degno. a Mario accadde tutto questo.
egli, sebbene fosse avvocato, non trattava cause, come pensava il signor gille-
normand. Preferiva lavorare nel campo librario commerciale: un lavoro sicuro, poco
faticoso, che gli bastava. Uno dei librai gli fece un’ottima offerta: mille e cinquecento
franchi all’anno e un buon alloggio. Ma avrebbe perso la sua libertà. rifiutò.
Mario viveva solitario. aveva due amici: uno giovane, courfeyrac, e uno vecchio,
il signor Mabeuf. propendeva per il vecchio, che gli aveva fatto conoscere ed ama-
re il padre.
Mabeuf aveva preso in simpatia Mario, perché questi, giovane e affabile, ravviva-
va la sua vecchiaia senza turbare la sua timidezza. Mabeuf aveva un appassionato
amore per le piante e per i libri e, sebbene povero, riusciva a mettere insieme, a
forza di pazienza e di privazione, una preziosa collezione di oggetti rari di ogni gene-
re. Nonostante la vita non fosse stata con lui generosa, si era conservato sereno, e
Mario si sentiva affettuosamente attratto da quel candido vecchio costantemente
assediato dal bisogno.

- libro Vi -
due stelle si incontrano
Mario era un bel giovanotto di media statura, con folti capelli neri, una fronte alta
e intelligente, l’aspetto calmo e sincero e, su tutto il viso, un non so che di altero,
pensoso ed innocente.
al tempo della sua maggiore miseria, si era accorto che le ragazze si voltavano
quando egli passava, ed egli fuggiva e si nascondeva, pensando che esse lo
guardassero per i suoi vestiti logori, e ne ridessero. esse invece lo guardavano per
la sua bellezza e ne sognavano.
l’amico courfeyrac spesso gli diceva di leggere meno libri e di guardare un po’ di
più le donnette. egli invece le evitava. vi erano però due donne che Mario non
fuggiva: l’una era la vecchia barbuta che scopava la sua stanza; l’altra era una ra-
gazzina che egli vedeva spessissimo e non guardava mai.
Da più di un anno Mario notava in un viale deserto del lussemburgo un uomo e
una ragazza giovanissima seduti vicini sulla stessa panchina. l’uomo poteva avere
una sessantina d’anni: appariva mesto e serio, ma aveva un’espressione buona.
sembrava un vedovo molto a modo. la fanciulla era una ragazza di tredici o quat-
tordici anni, magra, quasi brutta, impacciata, non interessante. sembravano padre
e figlia.
Mario aveva preso l’abitudine, non si sa come, di passeggiare per quel viale e ve
li trovava sempre. Quell’uomo e quella fanciulla avevano attirato l’attenzione di cin-
que o sei studenti che passeggiavano di quando in quando in quel viale; fra questi Mon
icaG
atto
c’era anche courfeyrac. Questi aveva chiamato la figlia signorina lanoire per il suo
vestitino nero, e il padre leblanc per i suoi capelli bianchi.
Mario li vedeva quasi tutti i giorni alla medesima ora nel primo anno. l’uomo gli
andava a genio, ma trovava la fanciulla per niente interessante.
Nel secondo anno, senza sapere bene il perché, interruppe le passeggiate al lus-
semburgo. per sei mesi non mise piede nel viale. infine un giorno vi ritornò e trovò
al solito posto la solita coppia. l’uomo era sempre lo stesso, ma la fanciulla appari-
va un’altra. infatti ora era un’alta e bella creatura, dotata di tutte le più avvenenti
forme della donna. aveva meravigliosi capelli castani, una fronte che pareva fatta
di marmo, guance che sembravano foglie di rosa, colorito pallido, un candore
commosso, una bocca vezzosa, un naso non bello ma grazioso. Quando le passò
vicino, Mario non poté vederne gli occhi, che erano perennemente abbassati. Nel
primo momento pensò che fosse un’altra figlia dello stesso uomo, ma poi riconobbe
che era la stessa. in sei mesi la bambina era diventata giovanetta: ecco tutto.
Mario le passò ancora vicino e la giovinetta alzò le palpebre, lasciando vedere i
suoi occhi azzurri, profondi e velati, dallo sguardo innocente. ella guardò Mario con
indifferenza; e Mario, dal canto suo, continuò la passeggiata assorto nei suoi pen-
sieri. passò ancora cinque o sei volte vicino alla giovanetta, ma senza neppure
volgere gli occhi verso di lei.
Nei giorni seguenti egli tornò come al solito al lussemburgo e come al solito vi
trovò il padre e la figlia, ma non vi fece attenzione. Un giorno, l’aria era tiepida, il Mo
lussemburgo era inondato d’ombra e di sole, il cielo era puro e i passerotti manda-
vano piccoli gridi tra i castagni. Mario passò vicino a quella panca e la giovanetta
alzò gli occhi su di lui; i loro sguardi si incontrarono. che cosa c’era questa volta
nello sguardo della fanciulla? Mario non avrebbe potuto dirlo. Non c’era niente e
c’era tutto. Fu come una luce inconfondibile. ella abbassò gli occhi, egli continuò la
sua strada.
ciò che Mario aveva visto non era l’occhio semplice d’una fanciulla, era un abis-
so misterioso che si era semiaperto, per poi richiudersi bruscamente. vi è un gior-
no in cui ogni fanciulla guarda così. sventura a chi si imbatte nel suo sguardo!
la sera, rientrando nel suo stambugio, Mario gettò uno sguardo sul suo vestito
e per la prima volta si accorse che commetteva l’indecenza e la stupidaggine inaudi-
ta di andare a passeggiare al lussemburgo con i vestiti di tutti i giorni, cioè con un
cappello logoro, con grosse scarpe da carrettiere, calzoni neri ormai diventati bian-
chi sui ginocchi ed una giacca nera consumata ai gomiti.
Dopo quel fatale incontro di sguardi fra Mario e la deliziosa fanciulla sconosciu-
ta, trascorsero una quindicina di giorni, durante i quali venne a maturazione la
violenta e trascinante esperienza che caratterizza la nascita delle grandi passioni.
Mario si recava al lussemburgo non più per passeggiare, ma per contemplare da
lontano l’incantevole bellezza di quella giovane che aveva conquistato il suo cuore.
Una sera, all’imbrunire, trovò sulla panca che il signor leblanc e la figlia aveva-
no appena abbandonato, un fazzoletto cifrato con le lettere U.F.; quale nome pote-
vano indicare? Mario fece tante fantasiose ipotesi ed infine scelse di assegnare alla
donna amata il nome di “Ursula”.
Nel frattempo il signor leblanc si era però accorto dell’insistente presenza di un
giovane che si aggirava fra i viali del lussemburgo e che un giorno aveva commes-
so l’imperdonabile errore di seguirli fino al portone di casa. Da allora le passeggia-
te del signor leblanc e della figlia si erano diradate e, ad un certo punto, i due erano
scomparsi da quella casa dove Mario pensava abitassero.

- libro Vii -
“Patron Minette”
le società umane hanno, tutte, quello che nel teatro si chiama terzo fondo. il suo-
lo sociale è minato dovunque talora in bene, talora in male. Questi strati si sovrap-
pongono. vi sono le miniere superiori e le miniere inferiori. vi è un alto e un basso
in questo tenebroso sottosuolo che talvolta crolla sotto il progresso della civiltà.
al di sotto dell’edificio sociale, costruzione meravigliosa e meschina ad un tempo,
vi sono escavazioni di ogni specie. vi è la miniera religiosa, la miniera filosofica, la
miniera politica, la miniera economica, la miniera rivoluzionaria. chi scava con l’i-
dea, chi con i numeri, chi con l’odio.
l’autore si dilunga ad esaminare questi aspetti della società umana, sofferman-
dosi in particolare sull’ultimo scavo, luogo terribile: è quello che abbiamo chiamato
terzo fondo. È la fossa delle tenebre. È la caverna dei ciechi. la porta inferi che co-
munica con gli abissi.
le selvagge figure che si aggirano in questa fossa, quasi belve o fantasmi, non si
occupano del progresso universale, ignorano l’idea e la parola, non hanno cura che
del soddisfacimento individuale. sono quasi incoscienti e dentro di esse si trova uno
spaventoso sfacelo. hanno due madri, entrambe matrigne: l’ignoranza e la miseria.
l’analisi che l’autore fa dei bassofondi di parigi si conclude con l’inquietante e
terrificante descrizione di un quartetto di banditi (claquesous, gueulemer, babet e
MonicaGatt
Montparnasse) che presto apparirà nelle vicende del romanzo.
o
Questi quattro uomini, che erano cresciuti come mostruosi funghi nel sottosuolo
della civiltà e che vivevano nelle tenebre lasciando intravedere solo i loro tremiti da
ragno, costituivano una specie d’associazione, conosciuta col nome di patron Minet-
te. tale cosca lavorava in grande su parigi come un ladro misterioso a quattro teste,
come un polipo che, grazie alle sue malevoli diramazioni, era in grado di assumersi
l’impresa generale di tutti gli agguati e di tutti i delitti nel dipartimento della senna.
- libro Viii -
il povero malvagio
passò l’estate, poi l’autunno, e infine venne l’inverno. Né il signor leblanc né sua
figlia erano più ricomparsi al lussemburgo e Mario ormai viveva con la sola speran-
za di ritrovare ursula, ma le sue ricerche erano state, finora, tutte vane.
abitava sempre nella topaia gorbeau, dove non era rimasta altra inquilina che la
miserabile famiglia Jondrette.
le giornate di Mario trascorrevano piene di solitudine e di noia, finché un giorno
capitò un fatto curioso; due giovanette cenciose lo urtarono per la strada e lasciaro-
no cadere, senza accorgersene, un piccolo involto che pareva contenere delle car-
te. Mario lo raccolse e lo aprì nella speranza di trovare qualche indicazione necessa-
ria per restituirlo a chi lo aveva perduto.
l’involto conteneva quattro lettere che apparivano scritte dalla medesima mano,
pur terminando con firma diverse; erano le suppliche di disgraziati individui che ne-
cessitavano di aiuti finanziari. Non avendo trovato alcuna traccia indicativa per la re-
stituzione, Mario si mise in tasca il pacchetto e rincasò.

MonicaGatto
la mattina dopo una fanciulla sconosciuta venne a bussare alla sua porta. Una
fanciulla giovanissima stava in piedi sull’uscio socchiuso. era una creatura sparuta,
macilenta, scarna; soltanto una sottana e una camicia su una nudità tremante e as-
siderata. per cintura uno spago, e uno spago per legare i capelli, un pallore biondo
e linfatico, mani rosse, bocca semiaperta e priva di alcuni denti. Mario si era alzato
e guardava con un certo stupore questo essere.
«che volete, signorina?» domandò.
«ho una lettera per voi, signor Mario». ella chiamava Mario per nome. Ma chi era
questa ragazza? come conosceva il suo nome? senza aspettare che egli le dicesse
di venire avanti, ella entrò.
Mario prese la lettera, l’aprì e lesse: «Mio amabile vicino, giovanotto! ho saputo
le vostre bontà per me, che voi avete pagato il mio fitto sei mesi fa. vi benedico,
mio caro. la mia figlia maggiore vi dirà che siamo senza nemmeno un pezzo di pane
da due giorni, quattro persone e mia moglie malata. se non m’inganno nel mio
pensiero, credo dover sperare che il vostro cuore generoso si farà umano a questo
fatto, e vi suggerirà il desiderio d’essermi propizio degnando di prodigarmi un pic-
colo beneficio. sono con la distinta considerazione che si deve ai benefattori del-
l’umanità. Jondrette. p.s. Mia figlia è ai vostri ordini signor Mario».
Questa lettera, in mezzo all’oscura avventura che lo occupava dalla sera prece-
dente, produsse l’effetto di una candela in un sotterraneo. tutto fu bruscamente ri-
schiarato. Questa lettera veniva da dove venivano le altre quattro. era la medesima
scrittura, lo stesso stile, la stessa ortografia, la stessa carta, lo stesso colore di ta-
bacco. c’erano cinque missive, cinque storie, cinque nomi, cinque firme e un solo
firmatario. il capitano spagnolo don alvarez, la sfortunata madre balizard, il poeta
drammatico genflot, il vecchio attore comico Fabantou, si chiamano tutti e quattro
Jondrette, seppure Jondrette si chiamava proprio Jondrette.
sebbene Mario abitasse da parecchio tempo in quella catapecchia, non aveva ve-
duto che poche volte e di sfuggita il suo miserabile vicinato. aveva la mente altro-
ve. per questo la sera prima aveva urtato sul viale le ragazze Jondrette senza rico-
noscerle. ora egli vedeva tutto assai chiaramente. capiva che il suo vicino Jondrette
aveva scelto nella sua miseria, l’espediente di sfruttare la carità dei benefattori, che
si procurava degli indirizzi, e scriveva, sotto finti nomi a persone che egli giudicava
ricche e pietose, lettere che le sue figlie portavano, a loro rischio e pericolo, giac-
ché quel padre era arrivato al punto di mettere a repentaglio le sue figlie.
Mario capiva che probabilmente quelle sventurate facevano non so quale altro tri-
ste mestiere, e che da tutto ciò erano risultati due esseri miserabili che non erano
né bambine, né giovanette, né donne, specie di mostri impuri e innocenti prodotti
dalla miseria. sventurate creature senza nome, senza età, senza sesso, per le quali
né il bene né il male sono più possibili, e che, uscendo dall’infanzia, non hanno già
più nulla in questo mondo, né la libertà, né la virtù, né la responsabilità.
intanto Mario guardava stupito la ragazza che andava e veniva nella soffitta guar-
dando e commentando. si dimenava senza preoccuparsi della sua nudità, quando
la camicia le cadeva fin quasi alla cintura. vedendo dei libri, dichiarò con un certo
orgoglio di saper leggere e scrivere. e per dimostrarlo, prese un foglio e vi scrisse
in grandi caratteri: ci sono i cagnotti, cioè gli sbirri. improvvisamente chiese se Ma-
rio andava a teatro: lei ci andava spesso perché aveva un fratellino amico degli arti-
sti che le regalava ogni tanto dei biglietti. poi, esaminando Mario, prese un atteggia-
mento strano: «sapete, signor Mario, che siete un bellissimo giovane?». Nello stes-
so tempo venne ad entrambi lo stesso pensiero che fece sorridere l’una e arrossire
l’altro.
la ragazza si avvicinò a Mario, ma questi indietreggiò e disse di avere un pac-
chetto che probabilmente le apparteneva. poi consegnò le quattro lettere, che furo-
no accolte con gioia dalla giovane, la quale aggiunse che sarebbe andata subito a
consegnarne una al benefico signore della chiesa di san giacomo dell’alto passo.
Mario, ricordando che cosa la sciagurata veniva a cercare da lui, frugò nella tasca,
estraendone cinque franchi e sedici soldi: tutto quello che aveva. consegnò alla ra-
gazza i cinque franchi e si tenne i sedici soldi. la giovane fu lieta della generosa of-
ferta: ringraziò e se ne andò a trovare il suo vecchio.
atto
MonicaG
Da cinque anni Mario viveva nella povertà, nelle privazioni e rinunzie, ma l’incon-
tro con la giovanetta gli fece capire che egli non aveva ancora conosciuto la vera
miseria. si sentì in colpa per non aver fatto abbastanza per quei suoi vicini. aveva
pagato il loro affitto, ma era stato un gesto macchinale. avrebbe potuto far di me-
glio. con la sua indifferenza aveva contribuito alla sventura di quei disgraziati. Men-
tre si rimproverava più del necessario, osservava il muro che lo separava da Jon-
drette. ad un tratto scorse verso l’alto, vicino al soffitto, un buco triangolare ri-
sultante da tre tavole mal connesse. salendo sul cassettone, appoggiò l’occhio alla
fessura e guardò.
ciò che vide era uno stambugio. la camera di Mario era squallida, ma pulita. la
stamberga che stava guardando era sporca, lurida, puzzolente, tenebrosa. i mobili
si limitavano ad una sedia di paglia, una tavola traballante, qualche vecchia stovi-

Mo
glia e, in due angoli, due giacigli indescrivibili. Da una finestra-abbaino veniva quel-

nic
la poca luce che illuminava appena la stanza. sui muri sporchi si vedevano disegni
osceni. i pavimenti non erano di mattoni, ma di gesso diventato nero per il lungo

aG
calpestio. su di esso vi erano ammucchiate alla rinfusa vecchie ciabatte, scarpacce
e orribili cenci. sul caminetto c’era un po’ di tutto: uno scaldino, una marmitta, assi

atto
ridotte a pezzi, stracci, una gabbia d’uccelli, ceneri e anche un po’ di fuoco.
la vastità accresceva l’orrore di quella stamberga. in un angolo era attaccata al
muro, in una cornice di legno nero, un’incisione colorata, sotto la quale si leggeva
scritto in gran lettere: il sogno. rappresentava una donna ed un bimbo addor-
mentati, il bimbo sulle ginocchia della madre, un’aquila in una nuvola con una co-
rona nella parte inferiore e la donna che allontanava la corona dal capo del fanciullo
senza svegliarsi; in fondo, in un’aureola, Napoleone appoggiato ad una colonna.
vicino alla tavola, su cui si vedevano penna inchiostro e carta, era seduto un uo-
mo di circa sessant’anni, piccolo, magro, fosco, faccia furba, crudele, una sporca ca-
naglia. l’uomo aveva una lunga barba grigia. era vestito con una camicia da donna,
sotto la quale si vedevano dei calzoni infangati e scarpe dalle quali uscivano le dita
dei piedi. aveva una pipa in bocca e fumava. scriveva, probabilmente una qualche
lettera simile a quelle che Mario aveva letto.
Una grossa donna, che pareva avesse quarant’anni come cento, stava accocco-
lata sui piedi nudi presso il camino. era altissima, una specie di gigante vicino al
marito. aveva capelli orrendi ed era anch’essa malamente vestita. sopra uno dei
giacigli c’era una lunga ragazza pallida, quasi nuda con i piedi penzoloni. senza dub-
bio era la sorella minore di quella che Mario aveva visto. Dimostrava undici o dodici
anni.
Mario stava per scendere da quella specie di osservatorio, quando vide entrare
nella stanza la figlia maggiore, la quale annunciò al padre che il filantropo della
chiesa di san giacomo dell’alto passo stava per arrivare in carrozza.
il padre con arte diabolica spagliò la sedia, ordinò alla figlia minore di rompere
un vetro della finestra e alla moglie di mettersi a letto. in un angolo la figlia mino-
re singhiozzava, mostrando un pugno sanguinante: si era ferita spezzando il vetro.
il padre guardò la scena e sparse la cenere sui tizzoni per nasconderli. poi disse:
«ora possiamo ricevere il filantropo».
ica
Mon
poco dopo si sentì bussare. l’uomo andò ad aprire, esclamando con inchini pro-
fondi e sorrisi d’adorazione: «entrate, signore; degnatevi di entrare, mio rispettabi-
le benefattore, e anche la vostra deliziosa signorina».
Un uomo attempato ed una giovanetta apparvero sulla soglia della soffitta. Mario
non aveva lasciato il suo posto. ciò che egli provò in quel momento sfugge ad ogni
umana possibilità di descrizione. era lei. era quel dolce essere assente, quell’astro
che aveva brillato per sei mesi, era quella pupilla, quella fronte, quella bocca, quel
bel viso svanito, che andandosene aveva fatto la notte attorno a lui. ella riappariva
in quell’ombra, in quella soffitta, in quell’orrendo bugigattolo, in quell’orrore! ella
era sempre la stessa, un po’ più pallida. era sempre accompagnata dal signor le-
blanc. aveva fatto qualche passo nella camera e aveva deposto sul tavolo un pacco
voluminoso.
il lettore avrà ormai intuito chi veramente siano i protagonisti dell’avventura della
quale Mario era, in questo momento, il nascosto spettatore. dietro al nome Jondret-
te si nascondeva il miserabile thénardier, mentre il signor leblanc e sua figlia era-
no, in verità, Jean valjean e cosette.
Jean valjean era sempre pronto ad aiutare i bisognosi e, dopo aver ricevuto una
lettera di supplica simile a quelle ritrovate da Mario, il destino lo aveva condotto pro-
prio nella “tana” di thénardier. era arrivato con un pacco di indumenti nuovi e di
coperte di lana, che cosette distribuì con bontà e tenerezza a quegli esseri immon-
di che il tempo e gli stenti avevano resi irriconoscibili.
intanto con una serie di frottole raccontate per impietosire il suo benefattore,
Jondrette era riuscito a convincerlo a ritornare più tardi con sessanta franchi,
necessari per l’affitto.
Mario non aveva perduto nulla di tutta quella scena; i suoi occhi erano rimasti fis-
si su “Ursula” ed un solo pensiero occupava la sua mente: seguirne le tracce quan-
do fosse uscita.
purtroppo una serie di casi sfortunati gli impedirono di scoprire la nuova abitazio-
ne di lei; quindi, rincasando, si trovò sommerso da mille idee, che si rincorrevano
confusamente nel suo animo. l’inaspettata apparizione di Ursula e la sua nuova
scomparsa erano state per Mario come un bagliore di speranza in un mare di im-
mensa disperazione. era desolato, sconsolato; ma ad un tratto fu strappato con vio-
lenza ai suoi pensieri dalla voce alta e aspra di Jondrette, che diceva alla moglie:
«ti dico che ne sono sicuro, e che l’ho riconosciuto».
Mario saltò nuovamente sul cassettone e riprese il suo posto alla piccola spia del-
la tramezza. rivide l’interno di quel mostruoso stambugio dove Jondrette cammina-
va su e giù, a grandi passi, con un’espressione insolita negli occhi.
«e vuoi che ti dica una cosa», aveva aggiunto, «la signorina … è lei!». «Quella?»
gridò la moglie di Jondrette con un’intonazione bestiale che esprimeva sorpresa,
rabbia, odio e collera.
Nella stanza tenebrosa si creò un’atmosfera agghiacciante, squarciata dagli insul-
ti e dalle bestemmie che la donna lanciava contro cosette.
il marito non le dava retta, andava e veniva in silenzio come una tigre in gabbia,
poi, d’improvviso, aggiunse: «vuoi che ti dica ancora una cosa? la mia fortuna è
fatta. Ne ho abbastanza della miseria! voglio mangiare secondo la mia fame, bere
secondo la mia sete, dormire, starmene con la pancia all’aria senza far niente! il
riccone è in gabbia»; e le sue parole terminarono con un riso tagliente e velato.
Dalle confuse e misteriose frasi che erano state dette, Mario aveva intuito ben
poco, ma capiva nettamente che si stava macchinando una malvagia sorpresa e che
il signor leblanc e sua figlia correvano un grave pericolo. Decise di recarsi ad un
commissariato, dove raccontò la sua avventura; un ispettore di polizia lo fornì di due
pistole ed organizzò le cose in modo che l’agguato potesse essere sgominato.
Mario avrebbe dovuto riappostarsi all’osservatorio fino all’arrivo del signor le-
blanc e sparare un colpo in aria al momento giusto, per avvertire la polizia che era
giunta l’ora di intervenire. l’ispettore al quale Mario si era rivolto era Javert.
intanto anche Jondrette non aveva perso tempo: si era recato da un rigattiere e
ne era uscito tenendo in mano un grosso scalpello; aveva contattato niente meno
che l’organizzazione di patron Minette e aveva stabilito che le sue due figlie facesse-
ro da sentinella durante l’agguato.
il signor leblanc arrivò alle sei; aveva un’aria serena e posò sul tavolo quattro
luigi. Jondrette era sorridente e spaventoso ad un tempo; nei suoi modi c’era una
calma ripugnante e minacciosa.
Mario non provava che un sentimento di orrore, ma nessuna paura; era attento
a non perdere una sillaba, con l’occhio allo spiraglio e la pistola in pugno.
appena entrato, il signor leblanc chiese notizie della piccina ferita, della signora
ammalata, della situazione in generale della famiglia.
Mentre Jondrette parlava con apparente disordine, Mario vide in fondo alla came-
ra un individuo, che non aveva visto prima; quest’uomo era entrato con tanta legge-
rezza da non procurare alcun rumore; era malamente vestito con abiti stracciati e
sporchi; zoccoli ai piedi, scamiciato, con le braccia nude e tatuate e il volto tinto.
Quando leblanc lo vide, non poté reprimere un moto di sorpresa, ma Jondrette
lo rassicurò, dicendo che era un vicino. aveva il viso nero perché lavorava in una
fabbrica di prodotti chimici. poi Jondrette riprese il discorso interrotto, ma proprio
in quel momento la porta si aprì ed entrò una seconda persona, in tutto simile alla
to

prima. anche questo, a detta di Jondrette, era un vicino.


at

per la seconda volta l’uomo riprese il discorso interrotto e disse che gli rimaneva
G

un quadro prezioso, opera d’un grande maestro, al quale egli teneva come alle sue
ica

due figlie; tuttavia, data la situazione, era disposto a venderlo.


on

Mentre leblanc guardava quel quadro con un principio di inquietudine, si accor-


M

se che sul fondo della stanza c’erano ora quattro uomini, tre seduti sul letto e uno
appoggiato allo stipite della porta. tutti avevano le braccia nude e il viso imbratta-
to di nero. «sono amici. amici della mia miseria. sono sporchi di nero perché lavora-
no in mezzo al carbone» disse Jondrette; «Non badateci, benefattore mio, ma com-
prate il mio quadro. Quanto lo stimate?». «Mah!» disse leblanc guardando fissa-
mente Jondrette negli occhi; «è una qualunque insegna d’osteria, ed è pagata be-
ne con tre franchi».
Jondrette rispose dolcemente: «avete con voi il portafogli? Mi accontenterò di
mille scudi».
leblanc si alzò in piedi, si mise con le spalle al muro e girò rapidamente lo sguar- o
do nella stanza. c’erano Jondrette e i quattro uomini che non fiatavano e pareva a tt
non lo vedessero nemmeno, mentre Jondrette aveva ripreso a parlare conauna G
c
intonazione così lamentosa che il signor leblanc cominciò a pensare di avere idavan-
ti a sé un folle, divenuto tale per la miseria. on
M
l’uomo parlò a lungo delle tristi condizioni in cui viveva la sua famiglia, minaccian-
do di gettarsi nel fiume, se leblanc non gli avesse dato la cifra richiesta. poi improv-
visamente gridò con voce tonante: «Ma non si tratta di questo! Mi riconoscete?».
a questo punto la porta della camera si spalancò e apparvero tre uomini in
camiciotto di tela turchina, col viso coperto da maschere nere; il primo era munito
di un lungo randello ferrato, il secondo d’una mazza per abbattere i bovini, il terzo
di un’enorme chiave asportata da qualche porta di carcere.
Jondrette chiese all’uomo del randello dove fosse Montparnasse; gli fu risposto
che si era fermato a parlare con sua figlia maggiore. precisò pure che tutto era
pronto; carrozza e cavalli.
intanto i tre uomini dalle braccia nude avevano preso dal mucchio delle ferraglie,
l’uno una grande cesoia, l’altro una sega, ed il terzo un martello, e s’erano colloca-
ti attraverso la porta. Mario pensò che tra qualche secondo sarebbe giunto il mo-
mento d’intervenire, lasciando partire il colpo di pistola.
Jondrette, finito di parlare con l’uomo del randello, si volse di nuovo verso il signor
leblanc e disse: «Non mi riconoscete, dunque? Mi chiamo thénardier! sono l’al-
bergatore di Montfermeil. avete capito bene? thénardier! ed ora mi riconoscete?».
il signor leblanc, con la sua calma abituale, rispose: «Non più di prima».
Mario non udì quella risposta. chi l’avesse visto in quel momento, in quell’oscuri-
tà, lo avrebbe visto torvo, istupidito e come fulminato.
Quell’uomo, che aveva salvato suo padre, che egli aveva detto di fargli “tutto il
bene possibile”, il cui nome egli associava al nome del padre nella venerazione,
quell’uomo era un mostro! Quel liberatore del colonnello Pontmercy stava per com-
mettere un delitto. l’aveva cercato per tanto tempo, ed ora che l’aveva trovato, gli
toccava consegnarlo al boia. Fremeva, giacché tutto dipendeva da lui. aveva in suo
potere, a loro insaputa, quegli esseri che si agitavano lì, sotto i suoi occhi: se aves-
se tirato la pistolettata, il signor leblanc sarebbe stato salvo e thénardier perduto;
mentre se non avesse sparato, il signor leblanc sarebbe stato sacrificato e forse
thénardier sarebbe sfuggito. rovinare l’uno e lasciar cadere l’altro? in entrambi i
casi avrebbe avuto dei rimorsi. Ma il tempo stringeva: bisognava decidere. tale era
l’ansia, che per poco non svenne.
intanto thénardier, agitatissimo, passeggiava in lungo e in largo per la camera,
in piena esplosione, gridando: «Finalmente vi ritrovo, signor filantropo! siete voi
che siete venuto a Montfermeil, al mio albergo, otto anni fa e mi avete portato via
la figlia di Fantine, l’allodola. siete voi la causa di tutte le mie sventure. avete avuto
per millecinquecento franchi una fanciulla che avevo io e che certo apparteneva a
famiglia ricca, che mi aveva già reso molto denaro e dalla quale dovevo ricavare di
che vivere per tutta la vita! Una fanciulla che mi avrebbe ricompensato di tutto ciò
che ho perduto in quella maledetta taverna».
thénardier si interruppe per riprendere fiato. Ne approfittò il signor leblanc per
dire che egli non era un milionario e che non conosceva thénardier: evidentemen-
te questi si era sbagliato.
e alla domanda di thénardier che gli chiedeva chi egli fosse, il signor leblanc ri-
spose: «vi chiedo scusa, signore. vedo che siete un bandito».
la thénardier voleva reagire, ma il marito la fermò e, rivolto al signor leblanc,
soggiunse: «bandito! sì, lo so che mi chiamate così! già, è vero! sono un fallito e
mi nascondo; non ho pane, non ho un soldo e sono un bandito. voi vi scaldate i
piedi, portate soprabiti, calzate scarpe di lusso, mangiate tartufi, asparagi e piselli,
fuori stagione. Noi invece facciamo tutt’altra vita. Non leggiamo il termometro per
sapere se è freddo, sentiamo il sangue raggelarsi nelle vene e il gelo arrivarci al
cuore. e voi venite nelle nostre caverne, per chiamarci banditi! Ma noi vi mangere-
mo, vi divoreremo! e sappiate anche, signor filantropo, che io non sono un uomo
losco; non sono un uomo di cui si sa il nome e che va a rubare i figliuoli nelle case.
sono un vecchio soldato francese. ero a Waterloo e in quella battaglia ho salvato
un generale, di cui non ricordo il nome. e quel quadro che vedete e che ha dipinto
David, rappresenta me; ho il generale sulle spalle e lo porto via sotto la mitraglia.
M
on

Quel generale non ha fatto nulla neppure lui per me e ora che vi ho detto tutto que-
sto, facciamo il punto: ho bisogno di denaro, molto denaro, moltissimo denaro, o vi
icaG

stermino, fulmine del buon Dio».


Mario era riuscito a dominare di nuovo la sua angoscia e ascoltava. era proprio
at

il thénardier del testamento.


to

Nelle parole di quell’uomo, nell’esplosione d’una natura perversa che metteva a


nudo ogni cosa, in quel miscuglio di millanteria e d’abiezione, d’orgoglio e di me-
schinità, di rabbia e di stupidità, c’era qualche cosa di orribile come il male e di
pungente come la verità.
Dopo aver ripreso fiato, thénardier fissò il signor leblanc con occhio fosco di san-
gue e gli disse: «che cosa hai da dire prima che ti facciamo a pezzi?».
il signor leblanc taceva e guardava tutti i movimenti di thénardier, il quale, ac-
cecato dall’ira, andava e veniva nella stamberga con la fiducia di chi è armato.
infatti erano in nove contro uno. leblanc tentò anche la fuga, riuscendo perfino a
saltare sul davanzale e a scavalcarlo. era già mezzo fuori, quando sei mani vigoro-
se lo afferrarono: erano i tre “fumisti” che si erano slanciati verso di lui. Fu così
riportato nella tana, dove tentò inutilmente di lottare contro quei forsennati.
alla fine thénardier ordinò di legarlo ai piedi del letto. lo frugarono. indosso ave-
va soltanto una borsa di cuoio contenente sei franchi. thénardier allontanò col ge-
sto i delinquenti e si sedette quasi dirimpetto al signor leblanc. la sua fisionomia
era passata dalla violenza bestiale alla tenerezza falsa e scaltra. lo rimproverò per
aver tentato la fuga e lo elogiò per non aver emesso neppure un grido. insinuò
Mon
tuttavia che tale silenzio fosse dovuto alla paura di attirare la polizia. aggiunse che,
icaG
atto
secondo lui, il signor leblanc aveva interesse a nascondere qualche cosa; ma an-
ch’egli aveva lo stesso interesse, per cui potevano mettersi d’accordo.
anche Mario era stato colpito dallo stesso dubbio, ma contemporaneamente am-
mirava la costanza con cui quell’uomo manteneva il silenzio e quel viso fiero e ma-
linconico.
thénardier arrivò presto al dunque, dicendo al prigioniero: «possiamo intender-
ci. cerchiamo di regolare la faccenda da buoni amici. Non voglio rovinarvi. Non sono
un poliziotto dopo tutto. guardate, ci rimetto del mio e faccio anch’io un sacrificio.
Mi occorrono solo duecentomila franchi». Un’altra cosa chiese al signor leblanc: che
avesse la compiacenza di scrivere ciò che egli gli avrebbe dettato.
spinse la tavola molto vicino al signor leblanc, prese un calamaio, una penna e
un foglio. Fece poi slegare la mano destra del prigioniero e cominciò a dettare: «Mia
cara figlia, vieni subito. ho assolutamente bisogno di te. la persona che ti con-
segnerà questo biglietto è incaricata di condurti da me. t’aspetto».
aggiunse che la lettera era per la piccina: per precauzione non pronunciava mai
il nome. pregò poi il prigioniero di firmare; cosa che egli fece ponendo in calce il
proprio nome e cognome: Urbano Fabre. la lettera quindi fu inviata alla signorina
Fabre, presso il signor Urbano Fabre, 17, via san Domenico d’inferno.
thénardier chiamò la moglie e disse: «ecco la lettera. tu sai ciò che devi fare.
giù c’è una carrozza. parti e torna subito!».
Nella camera, insieme con thénardier e il prigioniero, stavano i cinque banditi. il
prigioniero era ricaduto nel mutismo. Una calma tetra era successa al clamore
selvaggio che aveva riempito la stamberga qualche momento prima.
Mario aspettava in grande ansietà. l’enigma era più impenetrabile che mai. chi
era quella piccina? se era Ursula, l’avrebbe vista nel momento del suo ingresso nella
stanza.
ad un tratto thénardier si rivolse al signor Fabre, dicendogli che presto sarebbe
tornata sua moglie. era bene chiarire le cose. la piccina non sarebbe venuta lì, ma
sarebbe stata portata in un luogo tranquillo e sereno. appena avuti “quei pochi
duecentomila franchi”, gli sarebbe stata restituita. poi aggiunse: «se mi fate arre-
stare, il mio compagno darà il colpo di grazia alla piccina». il prigioniero non disse
una parola.
all’udire queste parole nella mente di Mario passarono immagini spaventose. era
chiaro che si trattava di lei. che fare? la minaccia di uccidere la ragazza impediva
a Mario di fare arrestare quei miserabili. Quella situazione terribile durava già da più
di un’ora, quando giunse la thénardier.
essa si precipitò nella camera, rossa, trafelata e ansante, con gli occhi
fiammeggianti e gridò: «indirizzo falso! in via san Domenico d’inferno non esiste
alcun Urbano Fabre».
Mario respirò. ella, Ursula o l’allodola, colei che egli non sapeva più come chiama-
re, era salva.
thénardier rimase muto, poi con voce calma e crudele, disse al prigioniero: «Un
indirizzo falso. che cosa speri dunque?».
«guadagnar tempo» gridò il prigioniero. e nello stesso momento scosse le corde:
erano tagliate. il prigioniero non era più legato al letto che per una gamba.
l’inchiesta giudiziaria che seguì all’agguato constatò che nella stamberga era sta-
to trovato un soldone, tagliato e formato in modo particolare, che soltanto i condan-
nati al bagno penale sanno fare per poter evadere.
prima che i sette uomini avessero avuto il tempo di lanciarsi su di lui, egli si era
curvato sotto lo scaldino e s’era rialzato brandendo alto sopra la testa lo scalpello
arroventato che mandava un bagliore sinistro.
il prigioniero alzò la voce: «voi siete dei disgraziati. se pensate di farmi dire e di
farmi scrivere quello che non voglio, vi sbagliate. guardate». Nello stesso tempo
protese il braccio e posò sulla pelle nuda lo scalpello arroventato. si sentì lo sfrigo-
lio della carne bruciata e l’odore caratteristico delle camere di tortura si diffuse nel-
la stanza. Mario barcollò inorridito e i briganti stessi ebbero un brivido; il volto dello
strano vecchio si contrasse appena. «Miserabili,» egli disse, «non abbiate paura di
me più di quanta io non ne abbia di voi». e strappandosi lo scalpello dalla piaga, lo
gettò dalla finestra che era rimasta aperta.
Mario sentì sotto di lui thénardier che diceva: «Non c’è che una sola cosa da fa-
re: squartarlo!»
Moegli poi avanzò verso la tavola, aprì il cassetto e ne trasse il coltello.
nicsiaguardava attorno senza sapere cosa fare. ad un tratto trasalì.
Mario, smarrito,
Gadit carta, sul quale lesse la riga scritta quella mattina dalla
vide sulla tavola un foglio to
figlia maggiore dei thénardier: ci sono i cagnotti. si inginocchiò sul cassettone, pre-
se il foglio, staccò un pezzo di calcinaccio dalla parete, l’avvolse nella carta e gettò
il tutto, attraverso la fessura, in mezzo alla tana.
la thénardier, udendo il colpo, si voltò e raccolse il pezzo di calcinaccio avvolto
nella carta, pensando che fosse stato gettato dalla finestra. lo consegnò al marito,
il quale spiegò rapidamente la carta e vide con meraviglia che era la calligrafia della
figlia e mostrò alla moglie il rigo scritto sul foglio; poi con voce sorda aggiunse:
«presto, la scala! lasciamo il ladro nella trappola e filiamo attraverso la finestra».

atto
appena issata la scala, tutti si precipitarono verso la finestra; nacque una violen-
ta discussione su chi doveva passare per primo. Uno dei banditi propose di scrive-

G
re i nome, gettarli in un berretto e tirare a sorte. «volete il mio cappello?» gridò una

c a
voce dalla porta. tutti si voltarono. era Javert. teneva il cappello in mano, e lo ten-

i
Mon
deva sorridendo.
Javert aveva atteso il segnale convenuto, finché, spazientito, aveva deciso di sali-
re senza aspettare il colpo di pistola. giunse proprio in tempo. i banditi, spaventa-
ti, si precipitarono sulle armi abbandonate qua e là, ma tutti i loro colpi andarono
a vuoto.
tutti vennero ammanettati e il signor leblanc, mentre Javert scriveva il verbale,
approfittò della confusione, del trambusto e dell’oscurità, per saltare dalla finestra
e sparire nelle tenebre.
Javert ebbe la strana sensazione di aver perso la preda migliore.
il giorno successivo si vide gavroche, quel piccolo birichino al quale l’autore ave-
va accennato in precedenza, gironzolare davanti alla topaia gorbeau.
Fu la portinaia che, vedendolo, gli riferì che le sorelle e i genitori erano stati
arrestati. il birichino si grattò dietro l’orecchio, poi girò le spalle e si allontanò can-
tarellando.
Parte Quarta
L’idillio di via Plumet e l’epopea di via Saint-Denis
- libro i -
Poche pagina di storia
È questa una parentesi storica in cui l’autore si sofferma a fare alcune considera-
zioni sugli avvenimenti del 1831 e del 1832, che si riallacciano alla rivoluzione di lu-
glio, che determinò la caduta dei borboni e l’avvento della monarchia borghese.
la famiglia predestinata, che ritornò in Francia dopo Napoleone, fu tanto scioc-
Mo
ca e superba da credere che era stata lei a dare e che poteva riprendersi quello che
nic
aG
“aveva dato”. atto
credeva inoltre che la casa dei borboni possedesse il diritto divino e la Francia
non possedesse nulla; che il diritto politico concesso con la costituzione di luigi
Xviii non fosse altro che un frammento del diritto divino, staccato dalla casa dei
borboni e graziosamente donato al popolo fino a quando il re non si fosse degnato
di riprenderselo.
la casa dei borbone fu scontrosa col diciannovesimo secolo e fece la faccia fero-
ce ad ogni sviluppo della nazione. per servirci d’una espressione popolare ma vera,
diremo che le mostrò i denti, e il popolo se ne accorse. credeva di avere salde ra-
dici perché era il passato. e s’ingannava: essa faceva parte del passato, ma tutto il
passato era la Francia.
le radici della società francese non erano affatto nei re borbone, ma nella nazio-
ne. la casa di borbone era per la Francia la forza sanguinante della sua storia, ma
non era più l’elemento principale del suo destino. si poteva fare a meno dei borboni
e se n’era fatto a meno per ventidue anni.
Quella follia terrena detta “il diritto dei re” non aveva mai come allora negato il
diritto di Dio. Fu questo fatale errore che condusse quella famiglia a manomettere
le garanzie “accordate” nel 1814, le sue “concessioni”, com’essa le chiamava. Ma ciò
che essa chiamava le sue “concessioni”, erano le nostre conquiste, i nostri diritti.
Quando essa si sentì forte, prese la sua decisione e tentò il colpo. Un mattino si
parò di fronte alla Francia e, alzando la voce, contestò il titolo individuale: negò la
sovranità al popolo e la libertà al cittadino. Questa è la sostanza di quegli atti famo-
si che vengono chiamati le ordinanze di luglio. così la restaurazione cadde, anche
se durante il suo regime sono state compiute grandi cose.
la caduta dei borboni fu piena di grandezza, ma non da parte loro, ma da parte
della nazione. essi lasciarono il trono con gravità, ma senza grandezza; la loro disce-
sa nell’oscurità non fu una di quelle scomparse solenni che lasciano una cupa
emozione alla storia. se ne andarono, ecco tutto, portando con loro il rispetto, ma
Mo
non il compianto.
la rivoluzione di luglio era stata appena una scossa; alla regalità vinta non aveva
nemmeno fatto l’onore di trattarla da nemica e di versare il suo sangue. agli occhi
dei governi dispotici aveva il torto di essere formidabile e di restare dolce.
la rivoluzione di luglio è il trionfo del diritto che vince il fatto. cosa piena di in-
segnamenti. Da ciò il fulgore della rivoluzione del 1830; da ciò anche la sua man-
suetudine. il diritto che trionfa non ha alcun bisogno di essere violento. la lotta tra
il diritto e il fatto dura dall’origine della società. porre fine al duello, amalgamare l’i-
dea pura con la realtà umana, far penetrare pacificamente il diritto nel fatto e il fatto
nel diritto, ecco il lavoro dei saggi.
il governo del 1830 ebbe fin dall’inizio la vita dura. all’orizzonte si preparava la
tempesta; tutto ciò che era stato frettolosamente soffocato con la restaurazione si
agitava e fermentava. verso la fine di aprile del 1832 s’intravedevano i lineamenti,
ancora poco distinti, d’una rivoluzione possibile. tutta la Francia guardava ansiosa
parigi e parigi guardava al focoso sobborgo di sant’antonio che, riscaldato segreta-
mente, entrava in ebollizione. l’insurrezione imminente preparava il suo uragano
con calma, sotto gli occhi del governo. anche gli “amici dell’abc” si organizzavano,
frementi, in previsione del possibile evento.

- libro ii -
eponina
Mario, dopo aver assistito all’inatteso epilogo dell’agguato sulla cui traccia egli
aveva messo Javert, decise di abbandonare per sempre la casa gorbeau e farsi
ospitare dall’amico courfeyrac.
ormai aveva orrore di quel luogo in cui aveva veduto, in tutta la sua
manifestazione più ripugnante e più feroce, la spaventosa bruttura sociale e mora-
le della famiglia thénardier. oltretutto, non voleva figurare nel processo che proba-
bilmente sarebbe seguito, per non essere obbligato a deporre contro l’uomo che
credeva avesse salvato suo padre.
Mario era ripiombato nella disperazione più cupa; tutto il suo futuro si poteva
riassumere in due parole: assoluta incertezza. aveva riveduto per un attimo la fan-
ciulla che egli amava, ma nel momento in cui aveva creduto di afferrarla, un soffio
aveva portato via l’ombra di lei. aspirava sempre a rivederla, ma non lo sperava più.
e che pensare del vecchio che credeva suo padre? perché non aveva gridato al
soccorso? Quell’uomo gli aveva lasciato l’impressione di qualcosa d’eroico e, al tem-
po stesso, di equivoco.
i giorni si succedevano senza che accadesse nulla di nuovo, finché una mattina,
mentre passeggiava, Mario fu fermato da eponina, la maggiore delle figlie thénar-
dier. era scalza e vestita di cenci come quel giorno in cui era entrata in camera sua;
soltanto, i suoi stracci avevano i buchi che s’erano fatti più grandi. aveva la stessa
voce rauca, lo stesso sguardo smarrito e titubante e, più di prima, aveva un’espres-
sione timida e miserevole. con tutto questo sembrava più bella.
s’era fermata davanti a Mario con un barlume di gioia sul viso e, dopo qualche
istante, disse soddisfatta: «ah! vi ho dunque incontrato! sapeste, quanto vi ho cer-
cato!».
Mario non l’aveva più vista dal giorno in cui il signor leblanc e sua figlia si erano
recati dai thénardier; in quell’occasione le aveva chiesto, in cambio di qualsiasi fa-
vore, di fargli avere l’indirizzo del misterioso benefattore e la ragazza gli aveva
assicurato che avrebbe fatto del suo meglio per accontentarlo.
eponina aveva mantenuto la sua promessa ed ora era lì, davanti a Mario, conten-
ta di renderlo felice annunciandogli che aveva scoperto l’indirizzo a cui tanto il gio-
vane teneva.

- libro iii -
la casa di via Plumet
l’autore, dopo aver soffermato la sua attenzione sui fatti che hanno coinvolto
Mario, riprende la trama degli avvenimenti riguardanti Jean Valjean e cosette.
i cinque anni trascorsi fra le mura del convento del piccolo-picpus erano stati per
Jean valjean anni felici, perché era vissuto vicino a cosette con la dolce speranza
che non si sarebbero mai separati. Ma col tempo gli erano sorte alcune titubanze:
si era reso conto che cosette aveva il diritto di conoscere la vita e di uscire dall’i-
solamento delle mura del convento.
sotto il nome di Fauchelevent, che nel frattempo era morto, aveva preso in affit-
to una casa a parigi e vi si era trasferito insieme a cosette e ad una vecchia
governante, la signora toussaint.
Mo
la casa in via plumet era una villetta circondata da un giardino con una grande
nic
cancellata che dava sulla strada. Quel giardino, abbandonato a se stesso da più di
aG
att
mezzo secolo, straordinario e attraente, era tutto ciò che i passanti potevano intra-
vedere. o
cosette era uscita dal convento ancora bambina; aveva poco più di quattordici
anni. la sua educazione era terminata: le suore le avevano insegnato la religione,
la devozione, la storia, la geografia, la grammatica, la musica, il disegno, ecc., ma
quanto al resto, ella ignorava tutto, il che è un fascino e un pericolo.
aveva bisogno di mettersi a contatto con la realtà. l’anima di una giovanetta non
deve essere lasciata al buio. essa deve essere rischiarata dolcemente e discreta-
mente dal riflesso della realtà piuttosto che dalla sua luce diretta e cruda. Mezza lu-
ce utile e graziosamente austera che dissipa le paure infantili ed evita le cadute.
Non v’è che l’istinto materno che sappia cosa e di che cosa dev’essere fatta quella
mezza luce e nulla può supplire a questo istinto.
per formare l’anima di una giovanetta, tutte le monache del mondo non valgono
una madre. cosette non aveva avuto la madre. Quanto a Jean valjean, certo c’era-
no in lui tutte le tenerezze e le premure, ma non era che un vecchio, che non sa-
peva assolutamente nulla. per preparare una donna alla vita, quanta scienza occor-
re per lottare contro quella grande ignoranza chiamata innocenza!
Jean valjean e cosette vivevano felici; ella adorava quel buon uomo e gli era
sempre vicino; e il buon vecchio amava la fanciulla come una figlia.
cosette aveva un ricordo confuso della sua infanzia. pregava mattina e sera per
la madre che non aveva conosciuto. i thénardier le erano rimasti in mente come
due orribili figure vedute in sogno. le pareva che la sua vita fosse cominciata in un
abisso dal quale l’aveva tratta Jean valjean.
poiché non aveva un’idea molto chiara di essere figlia di questo buon uomo,
s’immaginava che l’anima della madre fosse passata in lui e fosse venuta a stare
vicino a lei. Della madre non conosceva neppure il nome. Quando lo chiedeva a
Jean valjean, questi rispondeva con un sorriso. Una volta ella insistette, e il sorriso
finì con una lacrima.
Quel silenzio di Jean valjean copriva di tenebre Fantine. era prudenza? era ri-
spetto? era timore di abbandonare quel suo nome ai rischi d’una memoria che non
fosse la sua? Del resto Jean valjean era felice. ringraziava Dio, nell’intimo dell’ani-
ma, d’aver concesso che egli, uomo sventurato, fosse amato così da quell’essere
innocente.
cosette, guardandosi allo specchio, talora si vedeva bella, talora brutta. Quando
sentì la vecchia governante che diceva: «signore, avete notato come la signorina
diventa bella?», ne fu veramente felice. effettivamente era bella e graziosa. si era
sviluppata; la carnagione s’era fatta bianca, i capelli erano diventati lucidi e uno
to splendore nuovo s’era acceso nelle sue pupille azzurre. Del resto lo notavano anche
t
Ga gli altri.
anche Jean valjean ne fu colpito, ma anziché gioirne, provava un indefinibile
a ic
struggimento al cuore. egli non chiedeva che una cosa: che cosette lo amasse! che
on
continuasse ad amarlo! Di fronte a quella bellezza che gli sbocciava accanto, il vec-
M
chio dal fondo della sua bruttezza, della sua vecchiaia, della sua miseria, della sua
riprovazione e della sua angoscia, temeva di essere abbandonato.
a sua volta cosette, dopo quel giorno in cui si riconobbe bella, cominciò ad avere
cura della sua toeletta. si ricordò le parole di un passante: «bella, ma vestita male».
il padre non le aveva mai rifiutato nulla, ed ella riconobbe subito la scienza del
cappellino, della veste, della mantellina, dello stivaletto, del manicotto, della stoffa
che va bene, del colore che s’addice, quella scienza che fa della donna parigina
qualche cosa di così incantevole, di così profondo e di così pericoloso.
in meno di un mese la piccola cosette fu una delle donne non solo più graziose,
Mo
ma anche delle meglio vestite di parigi.
nica
Ga
Jean valjean osservava quei gusti con ansietà. osservò che cosette prima chie-
tto
deva sempre di rimanere in casa con lui, mentre ora chiedeva di uscire. Notò pure
che ora non si tratteneva più nel cortile posteriore, ma preferiva stare nel giardino
davanti al cancello, per farsi notare dai passanti.
Fu in quel tempo che Mario, dopo altri sei mesi, la rivide al lussemburgo.
Dunque, come si è visto, nel cuore dei due giovani era sbocciato l’amore senza
che essi ne avessero piena consapevolezza. in quel certo momento in cui cosette
ebbe, senza saperlo, quello sguardo che turbò Mario, Mario non dubitò di aver egli
pure turbato col suo sguardo cosette. già da tempo ella lo vedeva e lo osservava,
guardando altrove. Mario trovava ancora brutta cosette, quando già cosette trova-
va bello Mario. Ma siccome egli non badava punto a lei, cosette lo ricambiava di
uguale indifferenza. tuttavia lo trovava bello e interessante.
Nei giorni seguenti Mario continuava a rimanere seduto sulla sua panca senza av-
vicinarsi, il che indispettiva cosette.
Un giorno volle essere lei ad avvicinarsi, passeggiando da quella parte. Quel gior-
no lo sguardo di cosette rese Mario folle e lo sguardo di Mario rese cosette treman-
te. a partire da quel giorno si adorarono. cosette non sapeva che cosa fosse l’amo-
re. il primo sentimento che provò fu una tristezza confusa e profonda. ella amava
con passione tanto profonda, in quanto amava senza sapere. Non si rendeva conto
se ciò fosse bene o male.
Mario e cosette erano avvolti nelle tenebre l’uno per l’altro. Non si parlavano, non
si salutavano e non si conoscevano; si vedevano e vivevano perché si vedevano.
Di giorno in giorno cosette si faceva donna e si sviluppava, bella e innamorata,
con la coscienza della sua bellezza e l’ignoranza del suo amore.
Mario faceva di tutto per sottrarsi al “padre”; si dava tuttavia il caso che Jean
valjean lo scorgesse. cosette non lasciava trapelare nulla. Ma Jean valjean era pre-
occupato. l’ora in cui cosette avrebbe amato poteva scoccare da un momento al-
l’altro.
spesso si chiedeva: «che cosa viene a cercare? Un’avventura! che vuole? Un
amorazzo! ed io, che dopo tante sofferenze ho trovato la felicità, perderò tutto, an-
che cosette; perderò la mia vita, la mia gioia, la mia anima». Dopo questi ragiona-
menti giurò che non avrebbe mai più rimesso piede al lussemburgo.
cosette non si lamentò, non disse nulla, non fece domande. Jean valjean notò
però che la giovane era diventata triste.
Una volta fece una prova. le chiese se voleva andare al lussemburgo. ella rispo-
se di sì. vi si recarono. tre mesi erano trascorsi. Mario non vi andava più, e quindi
non c’era.
il giorno dopo Jean valjean chiese di nuovo a cosette se voleva andare al lus-
semburgo. ella con tristezza e con dolcezza rispose di no. Ma intanto languiva. sof-
friva dell’assenza di Mario, come aveva goduto della sua presenza. pensava che for-
se era finita. Non lasciò intravedere nulla al “padre”, all’infuori del suo pallore. Ma
Jean valjean era preoccupato per quel pallore. insomma quei due esseri che si era-
no amati così esclusivamente, soffrivano ora fianco a fianco, l’uno per causa dell’al-
tro, senza dirselo, senza averselo a male, e sorridendo.
l’autore continua a dipingere l’infelicità che era calata sull’animo del protagoni-
sta del dramma.
Jean valjean sentiva che cosette gli sfuggiva senza scampo; avrebbe voluto lot-
tare, trattenerla, distruggere ciò che si era posto tra loro e che aveva steso sul vi-
so di quella fanciulla un velo di malinconia, ma i suoi sforzi sembravano vani.

- libro iV -
Modall’alto
Soccorso dal basso può essere soccorso nicaGatto
la loro vita così a poco a poco si oscurava. Non rimaneva loro che una distrazio-
ne: portare del pane a chi aveva fame, e indumenti a chi aveva freddo.
Fu proprio in quel tempo che si recarono a visitare la topaia di Jondrette.
l’indomani Jean valjean comparve nel padiglione calmo, ma con una larga ferita
al braccio, che rassomigliava ad una scottatura e che egli spiegò in un modo qua-
lunque. Quella ferita fu tale da obbligarlo a rimanere in casa per più di un mese,
curato amorevolmente da cosette. Quando la ferita guarì, la fanciulla provò un’im-
mane gioia. passò l’inverno e venne la primavera, la cui gioia passa dalla natura nel
cuore dell’uomo.
cosette, senza che se ne avvedesse, dimenticò la tristezza del passato e tornò a
sorridere.
Jean valjean, inebriato, la vedeva ritornare vermiglia e fresca. Una volta guarita
la ferita, riprese le sue passeggiate solitarie e crepuscolari.
Nessuno pensi che si possa passeggiare così soli nelle zone deserte di parigi sen-
za imbattersi in qualche avventura.
una sera il piccolo gavroche non aveva ancora mangiato; egli si ricordò di non
aver mangiato neppure il giorno prima. iniziò a gironzolare con l’intenzione di trova-
re qualcosa. si ricordò che nei paraggi c’era un vecchio giardino, abitato da un vec-
chio e una vecchia, e in quel giardino c’era un melo. a fianco del melo c’era una
specie di deposito per la frutta, mal chiuso, dove era possibile impadronirsi di una
mela. vi si recò. v’era una siepe che proteggeva il giardino.
il ragazzo la guardò prima di scavalcarla. Da una breccia vide che nel giardino,
seduto su un paracarro rovesciato, c’era un vecchio e di fronte a lui una vecchia in
piedi. Dal loro dialogo seppe che il vecchio si chiamava Mabeuf e la vecchia mamma
plutarco.
Questa faceva presente a Mabeuf che il padrone di casa reclamava tre rate
d’affitto; che la fruttivendola voleva essere pagata; che il macellaio rifiutava di far
loro credito e che il fornaio voleva un acconto.
«che cosa mangerete?», chiedeva la vecchia, preoccupata. «Non si può conti-
nuare a vivere così senza denaro».
«io non ne ho. abbiamo però le mele del nostro melo» rispose tranquillo il vec-
chio. la vecchia se ne andò.
gavroche invece di scavalcare la siepe, vi si rannicchiò sotto. ad un tratto nella
strada apparvero due figure. la prima sembrava quella di un vecchio borghese, cur-
vo e pensoso, che camminava lentamente per l’età, andando a zonzo nella serata
stellata. la seconda era diritta, decisa, sottile. camminava regolando il passo su
quello del vecchio. la seconda figura era ben nota a gavroche: era Montparnasse.
la prima invece gli era ignota. Montparnasse a caccia, a quell’ora, in un luogo simi-
le, era pericoloso.
gavroche sentiva le sue viscere di birichino muoversi a compassione per quel po-
vero vecchio. impossibile intervenire. ad un tratto Montparnasse saltò sul vecchio,
lo afferrò per il colletto, lo strinse e vi si attaccò. Un minuto dopo uno di quegli uo-
mini era sotto l’altro, abbattuto e rantolante, che si dibatteva, con un ginocchio di
pietra sul petto. Ma non era accaduto quello che pensava gavroche, giacché a terra
era Montparnasse e quegli che stava sopra era il vecchio.
Questi si rialzò, dicendo all’altro: «alzati!». Montparnasse si rialzò, ma il vecchio
lo teneva per il bavero. alle domande del vecchio Montparnasse rispose di avere di-
ciannove anni, di fare il mestiere di fannullone e di essere un ladro. il lavoro lo an-
noiava. seguì una pausa.
il vecchio meditava e il giovane bandito dava scossoni, tentando inutilmente di
liberarsi dalla stretta. la meditazione del vecchio durò qualche tempo, poi alzò
dolcemente la voce e, guardando fisso Montparnasse, gli disse: «Figlio mio, tu entri
per pigrizia nella più faticosa delle esistenze. tu dici di essere un fannullone. pre-
M

parati a lavorare. l’ozio è simile ad un laminatoio; se ti afferra per una falda del ve-
o

stito, ti stritola» e continuò la sua solenne allocuzione nel tentativo di riportare quel
n

bandito sulla retta via. alla fine disse: «ora va’ e pensa a ciò che t’ho detto. a
aG ic

proposito, che volevi da me? la mia borsa? eccola.», e il vecchio, lasciando libero
Montparnasse, gli pose in mano la borsa. Montparnasse la soppesò e poi la lasciò
a

scivolare nella tasca del soprabito.


tt
Mentre il vecchio si allontanava, gavroche uscì dal suo nascondiglio, strisciò
nell’ombra dietro Montparnasse immobile.
giunse vicino a lui senza essere né visto né sentito, insinuò dolcemente la mano
nella tasca del soprabito, afferrò la borsa, ritirò la mano e, rimettendosi a striscia-
re, tornò indietro.
Montparnasse, che non aveva alcun motivo di stare all’erta e che meditava, per
la prima volta in vita sua, non si accorse di nulla.
gavroche, quando fu ritornato al punto in cui si trovava papà Mabeuf, gettò la
borsa al di sopra della siepe e fuggì a gambe levate.
la borsa cadde sul piede del vecchio, che si ridestò di soprassalto. egli si chinò
e raccolse la borsa. Non ci capì nulla e l’aprì. trovò in uno scomparto alcuni spiccioli
e nell’altro sei napoleoni.
«È caduta dal cielo», disse a mamma plutarco.

- libro V -
la fine non somiglia al principio
Quando sopraggiunse la primavera, la passione segreta di cosette parve calmar-
si. Mario era uno di quei temperamenti che sprofondano nel dolore e vi rimangono;
cosette era di quelli che vi si immergono e ne escono. Ma capitò un singolare inci-
dente che riaprì la ferita del suo cuore.
Una sera si trovava sola nel salotto e d’un tratto le parve di sentire dei passi nel
giardino. salì rapidamente al primo piano, aprì la finestra; ma non vide nessuno;
credette quindi di essersi ingannata e non ci pensò più.
Ma il giorno dopo, all’imbrunire, si verificò nuovamente lo stesso fatto misterio-
so e, questa volta, cosette trovò una lettera sulla panchina vicino al cancello che
dava sulla strada.
Un impulso irrefrenabile la spinse a trarre dalla busta ciò che conteneva e vi sco-
prì un quaderno, sul quale erano scritte dolcissime frasi d’amore: «la sintesi
dell’universo in un solo essere, l’ampliarsi di un solo essere fino a Dio: ecco l’amo-
re»; «come è triste l’anima quando è triste per amore»; «basta un sorriso intravi-
sto laggiù sotto un cappello di crespo bianco, coi nastri viola, perché l’anima entri
nella reggia dei sogni»; «che cosa strana! lo sapete? sono nelle tenebre. v’è un
essere che andandosene s’è portato via il cielo».
Queste e tante altre erano le frasi che lesse col fiato sospeso e che la trasportaro-
no fra le più dolci fantasie. ognuna di quelle righe misteriose le inondava il cuore
d’una luce strana; sentiva in quelle parole una natura appassionata, ardente,
generosa, onesta.
Mon
ella non ebbe alcun dubbio sulla provenienza di quel quaderno. la luce era torna-
ta nella sua mente; tutto era riapparso all’improvviso; era lui che le scriveva, era lui
che l’aveva ritrovata! Quel quaderno fu come una favilla caduta nel suo cuore e l’in-
cendio della passione ricominciò ad ardere con più violenza di prima.
venuta la sera, Jean valjean uscì. cosette si fece bella, si acconciò i capelli, in-
dossò un bel vestito e scese nel giardino. Non voleva uscire né aspettava una visi-
ta. camminando sotto i rami, giunse alla panchina. la pietra che poggiava sulla let-
tera c’era ancora. si sedette e poggiò la mano su quella pietra come se volesse ac-
carezzarla.
ad un tratto ebbe l’impressione che ci fosse qualcuno dietro di lei. alzò la testa
e si alzò. era lui! aveva il capo scoperto, pareva pallido e un po’ patito. il suo volto
era illuminato dal chiarore del sole. cosette si sentiva venir meno. indietreggiò, ap-
poggiandosi ad un albero per non cadere. allora udì la sua voce, quella voce che
non aveva mai udito:
«perdonatemi, sono io. ho il cuore gonfio. Non potevo più starvi lontano e sono
venuto. avete letto le mie lettere? Mi riconoscete un poco? vi ricordate i giorni in
cui mi passaste davanti? Da troppo tempo non vi ho più vista. abitavate in via del-
l’ovest. vi seguivo, non potendo fare altro. poi siete scomparsa. Di notte vengo qui
a vedere da vicino le vostre finestre. l’altra sera ero dietro di voi; vi voltaste ed io
fuggii. Una volta vi ho sentito cantare ed ero felice. voi siete il mio angelo. lasciate
ch’io venga un po’ qui. Ma forse non gradite la mia presenza?».
«Mamma mia!» ella esclamò. e si ripiegò su se stessa, come se morisse. egli
l’afferrò e la strinse tra le braccia, sorreggendola. era perdutamente innamorato.

MonicaGa
ella gli prese una mano e se la mise sul cuore ed egli sentì che sopra vi era quel
suo quaderno. allora balbettò: «voi m’amate, dunque?».
ella rispose con una voce che non era più di un soffio: «taci! lo sai». e nascose
il viso rosso sul petto del giovane.
egli cadde sulla panca ed ella vicino a lui. così abbracciati, rimasero per un po’
di tempo in silenzio. poi a poco a poco si parlarono.
o tt

Quei due esseri, puri come spiriti, si dissero tutto: i loro sogni, le loro ebbrezze,
le loro estasi, le loro chimere, le loro debolezze, come si fossero adorati di lontano,
come si fossero desiderati, e la loro disperazione quando avevano cessato di
scorgersi.
si confessarono ciò che avevano di più intimo e di più misterioso. si raccontarono
tutto quello che l’amore, la giovinezza e quel resto di infanzia che era in loro susci-
tavano nella loro mente.
Quei due cuori si riversarono l’uno nell’altro, si compenetrarono, s’incantarono e
si abbagliarono.
infine ella gli chiese: «come vi chiamate?». egli rispose: «Mi chiamo Mario. e
voi?». «Mi chiamo cosette».
- libro Vi -
il piccolo gavroche
in questo libro l’autore si sofferma a descrivere la figura del piccolo gavroche, fi-
glio dei coniugi thénardier, che di lui si erano però disinteressati fin dall’infanzia.
gavroche si era abituato alla solitudine e alla libertà; viveva spensierato fra le
strade dei bassofondi di parigi e solo un paio di volte al mese andava a trovare la
famiglia.
Nonostante la sua età, la vita gli aveva già insegnato a districarsi con furbizia tra
i numerosi problemi quotidiani di sopravvivenza e perfino le figure più losche del
quartiere lo conoscevano, lo stimavano e si fidavano di lui.
i genitori, proprio mentre l’osteria di Montfermeil affondava nell’abisso di mille
debitucci, avevano avuto altri due figli, entrambi maschi, dei quali si erano
sbarazzati con estrema facilità.
la thénardier era madre soltanto per le sue femmine; in lei l’odio per il genere
umano incominciava dai suoi tre maschi.
Una sera il piccolo gavroche, sempre allegramente intirizzito sotto i suoi stracci,

Mon
stava in piedi davanti alla bottega di un parrucchiere. vide entrare due fanciulli che,
con le lacrime agli occhi, chiedevano la carità; il barbiere li ributtò sulla strada in

ic
malo modo e gavroche, preso da compassione, si avvicinò loro e li invitò a seguir-

aGa
lo. Non sapeva che erano i suoi fratelli che, anch’essi travolti da tristi vicissitudini,
si trovavano abbandonati e senza più dimora.
Dopo averli rifocillati con un tozzo di pane, gavroche li condusse fino all’angolo

tto
sud-est della bastiglia, dove si ergeva un monumento bizzarro: era un elefante di
quaranta piedi d’altezza, costruito in legno e in muratura. Nel ventre di quel colos-
so c’era una specie di buco nero, una breccia appena visibile dall’esterno e talmen-
te stretta che solo i gatti e i bambini vi potevano entrare. Quella tana era diventa-
ta la casa di gavroche; lì il ragazzo trascorreva le notti per ripararsi dal freddo e dal-
la pioggia e lì ospitò, quella notte, i due trovatelli.
allo spuntare dell’alba un uomo sbucò dalla via sant’antonio, attraversò la piaz-
za, s’insinuo sotto il ventre dell’elefante ed emise uno strano grido di richiamo. Qua-
si immediatamente la tavola che chiudeva il buco si spostò e lasciò passare il pic-
colo gavroche.
l’uomo era Montparnasse, uno dei componenti della banda di patron Minette.
Durante l’agguato alla topaia gorbeau era riuscito a sfuggire a Javert ed ora stava
organizzando l’evasione di thénardier e dei suoi compagni.
«abbiamo bisogno di te. vieni a darci una mano», disse Montparnasse; il monel-
lo senza chiedere chiarimenti rispose: «eccomi»; e dopo pochi minuti i due erano
di fronte al recinto della prigione.
o
thénardier era riuscito a scappare dalla sua cella, ma, raggiunta la cima del re-
tt
a Ga
cinto, si era reso conto che una parete a picco dell’altezza di un terzo piano lo se-
parava dal lastricato della via; la corda che aveva portato con sé era troppo corta e
ic
le forze gli erano venute meno.
M on
per aiutarlo a ridiscendere, qualcuno doveva arrampicarsi su un vecchio condot-
to in muratura, stretto e traballante, che a malapena avrebbe sopportato il peso di
un ragazzo.
il piccolo gavroche, con l’agilità di uno scoiattolo, raggiunse in pochi secondi l’or-
lo del muro e, un momento dopo, thénardier era in strada.
prima di rimettersi le scarpe il monello attese alcuni istanti: chissà … forse il pa-
dre si sarebbe voltato verso di lui; ma ciò non avvenne; gavroche allora disse: «Non
avete più bisogno di me, o uomini? io me ne vado». e se ne andò saltellando.

- libro Vii -
il gergo
come si è potuto constatare, l’intento narrativo di hugo è in parte storico e la
sua analisi è concentrata su ciò che si potrebbe definire “il rovescio della civiltà”,
cioè gli strati più cupi e profondi della società.
il vero storico deve essere capace di affrontare tutti gli aspetti della realtà, dai
più sublimi ai più tenebrosi.
in questo contesto, se la lingua parlata di una nazione è degna di interesse, è
cosa più degna d’attenzione la lingua parlata dai “miserabili”: il gergo.
Forse, anche per difendersi dalle obiezioni di alcuni critici del suo tempo, che giu-
dicavano abominevole l’uso letterario del gergo, hugo cerca di dimostrare che quan-
do si tratta di scandagliare una piaga della società, non può essere un torto l’anda-
re troppo oltre e il penetrare sino in fondo.
certo, lo scandagliare i bassifondi dell’ordine sociale, là dove finisce la terra e in-
comincia il fango, frugare nella brutale lingua della miseria, non è né attraente né
facile. Non vi è nulla di più lugubre del mettere a nudo il formicolio spaventevole
del gergo, artiglio graffiante dei reietti.
Nella formazione di questa lingua laida, inquieta e velenosa, ogni razza vi ha de-
posto il suo strato, ogni sofferenza vi ha lasciato cadere la sua pietra. tutto il gergo,
dunque, è penetrato da quei foschi simboli che fanno della parola la testimonianza
di un dolore.
se compito dello storico è anche quello di segnalare le deformità e le infermità
sociali per poi poterle guarire, è certamente indispensabile avere la forza di scende-
re alle tenebre di coloro che piangono e di coloro che maledicono.
- libro Viii -
incanti e desolazioni
riprendiamo la narrazione dei fatti dal momento in cui era avvenuto l’incontro fra
Mario e cosette nel giardino della casa di via plumet.
Da quel giorno Mario si recò là tutte le sere e per i due giovani cominciò un perio-
do di ardente felicità.
essi si adoravano e vivevano come se l’universo intorno fosse sprofondato in un
abisso; anche il passato più recente sembrava confuso e lontano.
tutto il tempo che passavano insieme lo trascorrevano scambiandosi dolci frasi
d’amore, avvolti da un’estasi beata.
era il 3 giugno 1832, anno di importanti avvenimenti sull’orizzonte di parigi. sul
cader della notte Mario stava percorrendo il solito viale, quando vide tra gli alberi
eponina che gli veniva incontro. Due giorni di seguito erano troppi. lasciò il viale,
cambiò strada e andò nella via plumet passando per via Monsieur.
eponina lo seguì fino a quando lo vide entrare nel giardino della villa. ella si
avvicinò e si sedette sulla sbarra della cancellata. ad un certo punto vide sei uomi-
ni che camminavano lungo i muri, separati e a qualche distanza l’uno dall’altro. il
primo che arrivò alla cancellata si fermò e attese gli altri. Dopo un secondo erano
riuniti tutti e sei, armati di vari attrezzi di scasso.
Uno di loro esaminò la cancellata, finché trovò la sbarra che Mario aveva smos-
so. Mentre stava per afferrare quella sbarra, una mano che usciva bruscamente
dall’ombra gli si abbatté sul braccio e una voce rauca gli diceva: «c’è un cab (cioè
un cane)». Nello stesso tempo l’uomo vide una ragazza pallida in piedi davanti a lui.
egli indietreggiò balbettando: «chi è questa briccona?».
«vostra figlia», si sentì rispondere. era infatti eponina che parlava a thénardier.
all’apparizione di eponina, gli altri cinque che componevano la solita banda che ab-
biamo incontrato nella topaia gorbeau e che erano riusciti ad evadere dalla prigio-
ne, si erano avvicinati, tenendo nelle loro mani gli orribili utensili.
la ragazza abbracciò il padre, dicendo di essere felice di rivederlo libero ed
esagerando volutamente nelle effusioni affettuose. poi con tono deciso disse di
essersi informata: in quella casa, abitata da due donne e da un vecchio signore, non
c’era niente da rubare. Dunque non valeva la pena esporsi inutilmente. Ma i com-
ponenti della banda non erano di questo parere. ci fu una lunga e pesante discus-
sione con minacce da ambo le parti, con ampio uso di parole dell’orrendo gergo.
eponina non si scoraggiò: si pose davanti al cancello, dicendo che se fossero en-
trati in quel giardino, se avessero toccato quel cancello, ella avrebbe gridato, avreb-
o
be bussato alle porte delle case, avrebbe svegliato tutti; la gente sarebbe accorsa
tt
Ga
in massa e la polizia sarebbe intervenuta.
ica n
Mo
la discussione durò a lungo, finché i banditi, per evitare il peggio, rinunciarono
alla loro barbara impresa e se ne andarono. pensarono di passare la notte “sotto
pantin”, cioè sotto parigi.
thénardier confermò di avere le chiavi per aprire il cancello che immetteva nelle
fogne di parigi.
Mentre eponina montava la guardia alla cancellata e faceva indietreggiare i sei
banditi, Mario era vicino a cosette che, per la prima volta, l’aveva accolto con un
velo di tristezza negli occhi.
Quella stessa mattina suo padre le aveva detto di tenersi pronta perché presto
sarebbero partiti. «Forse andremo in inghilterra», aveva aggiunto, e comunque
cosette aveva intuito che probabilmente non sarebbero più tornati a parigi.
Mario sentì un fremito che lo percorse da capo a piedi; per nulla al mondo avreb-
be rinunciato a cosette, ma gli mancava il denaro per poterla seguire. improvvisa-
mente un’idea gli attraversò la mente, un’idea che egli stesso giudicò folle e
azzardata, ma che con coraggio decise di seguire: il giorno successivo si sarebbe
recato dal vecchio nonno a chiedergli aiuto.
tto

papà gillenormand aveva i suoi novantun’anni suonati. era uno di quei vegliardi
di antico stampo, che aspettano la morte impavidi. eppure la figlia diceva: «Mio pa-
caGa

dre non è più lui!». e aveva ragione. la rivoluzione di luglio l’aveva esasperato per
sei mesi appena.
in realtà il vecchio era molto depresso. Non lo ammetteva, perché non era nella
Moni

sua natura, ma interiormente si sentiva mancare. Da quattro anni aspettava Mario,


convinto che quello scapestrato prima o poi sarebbe tornato.
Ma ormai, in certe ore tristi, egli giungeva alla conclusione che se Mario si fosse
fatto aspettare ancora un poco … Non temeva tanto la morte quanto il pericolo di
non rivedere più Mario.
gillenormand, senza tuttavia confessarlo, non aveva mai amato nessuno come
aveva amato Mario. eppure egli era, o si credeva, assolutamente incapace di fare
un solo passo verso il nipote. «creperei, piuttosto» diceva.
Una volta la figlia gli chiese se era ancora irritato con “quel povero Mario”. egli
sollevò la testa canuta, appoggiò il pugno sul tavolo e gridò con accento irritato e
vibrante: «povero Mario, dite? Quel signore è uno stupido, un pezzentaccio, un va-
nitosello ingrato, senza cuore e senz’anima, un orgoglioso, un malvagio!».
e volse il capo dall’altra parte, perché sua figlia non vedesse una lacrima che ave-
va negli occhi.
la sera del 4 giugno gillenormand stava seduto accanto al camino in cui era ac-
ceso un gran fuoco con un libro in mano, che non leggeva. stava pensando a Mario
con la più grande tenerezza e insieme con un’invincibile nostalgia.
Mentre era immerso in questi pensieri, il suo vecchio domestico, basco, entrò e
chiese: «il signore può ricevere il signor Mario?».
il vecchio si rizzò a sedere, pallido e simile ad un cadavere: tutto il sangue gli era
rifluito al cuore. balbettò: «Fate entrare». la porta si aprì ed un giovane entrò: era
Mario.
papà gillenormand, inebetito dallo stupore e dalla gioia, rimase qualche momen-
to senza vedere altro che una luce, come quando si è davanti ad un’apparizione.
Finalmente! Dopo quattro anni! lo afferrò con una sola occhiata: lo trovò bello,
nobile, fiero, fatto già uomo, con un atteggiamento serio e un aspetto affascinan-
te. gli venne voglia di abbracciarlo. Ma, per quel contrasto ch’era il fondo della sua
natura, ne uscì una durezza. egli disse bruscamente: «che venite a fare, qui? siete
venuto a chiedermi perdono? avete riconosciuto i vostri torti?». credeva di mette-
re Mario sulla giusta via, credeva di far piegare il “ragazzo”.
Mario fremette: quello che gli veniva chiesto era la sconfessione di suo padre.
abbassò gli occhi e rispose: «No, signore. so che non gradite la mia presenza, ma
vengo solo per chiedervi una cosa e poi me ne andrò subito».
«siete uno sciocco!» disse il vecchio. «chi vi dice di andarvene?». era come se
dicesse: Ma chiedimi perdono dunque! gettami le braccia al collo!
sentì che Mario tra poco l’avrebbe lasciato, perché la sua durezza lo scacciava. il
suo dolore cresceva e stava mutando in collera. e allora rimproverò il nipote di aver-
gli mancato di rispetto, di aver abbandonato la sua casa per andare chissà dove, di
aver fatto il suo comodaccio, vita da scapolo, da donnaiolo, e mille altri rimproveri.
Questo modo violento di indurre il nipote alla tenerezza non produsse che il silen-
zio di Mario. a questo punto volle sapere qual era la cosa che il nipote voleva chie-
dergli. Mario rispose che era venuto a chiedergli il permesso di sposarsi.
gillenormand fece venire la figlia e con voce secca e rauca le comunicò la noti-
zia; poi le ordinò di andarsene. infine volle sapere se Mario aveva una posizione, se
la futura moglie era ricca.
Mario rispose di non avere una posizione, di non guadagnare nulla e aggiunse
che la giovane che intendeva sposare non aveva dote. tuttavia egli insisteva per
avere il permesso di sposarla.
il vecchio scoppiò in una risata stridente e lugubre; poi assalì il nipote con paro-
le di scherno e concluse dicendo che egli non gli avrebbe mai dato il permesso.
«Padre mio!» implorò il giovane. M
«Mai!» ribatté il vecchio. il tono e le parole del nonno non lasciarono dubbi: Ma-
on
rio perdette ogni speranza. attraversò la camera a passi lenti, la testa china, barcol-
ic
lando, simile ad uno che stesse per morire. aG
at
gillenormand lo seguiva con lo sguardo e nel momento in cui Mario stava per
to
uscire, fece quattro passi, afferrò Mario per il bavero, lo ricondusse energicamente
nella camera, lo gettò sopra una poltrona e gli disse: «raccontami la cosa».
erano state quelle sole parole, padre mio, sfuggite a Mario, che avevano provoca-
to quella rivoluzione.
il padre volle sapere tutti i particolari della storia d’amore di Mario e si dimostrò
molto comprensivo. era giusto che il giovane nipote si divertisse. Non era però il ca-
so che si sposasse. «stupido! Fattene l’amante.», gli disse.
Mario impallidì. si alzò, raccolse il cappello ch’era per terra e si diresse verso la
porta; là si voltò e disse: «cinque anni fa oltraggiaste mio padre; oggi oltraggiate
mia moglie. Non vi chiedo più nulla, signore. addio.»
papà gillenormand tentò di reagire, ma prima che avesse potuto pronunciare pa-
rola, Mario era scomparso. il vecchio rimase alcuni istante immobile e come folgora-
to. chiese aiuto alla figlia, ma i tentativi di fermare Mario furono inutili. il vecchio
si portò le mani alle tempie con un’espressione di angoscia e s’abbatté sopra una
poltrona, senza sangue, senza voce, senza lacrime.
a

- libro iX -
a G
ic

dove vanno?
on
M

Mario era entrato nella casa del signor gillenormand con una ben piccola speran-
za e ne era uscito con un’immensa disperazione.
sul calar della notte, come aveva promesso a cosette, era in via plumet; ma
quando entrò nel giardino, lo trovò deserto; alzò gli occhi disperato e vide che le
imposte della casa erano chiuse. cosette era partita senza nemmeno avere il tempo
di lasciargli il nuovo indirizzo: l’aveva perduta per sempre!
col cuore traboccante di dolore, Mario si sedette sui gradini del terrazzo: la morte
era l’unica soluzione rimastagli.
in quel mentre sentì una voce provenire dalla strada: «signor Mario, i vostri amici
vi aspettano alla barricata di via chanvrerie». a Parigi era scoppiata l’insurrezione.
per chiarire il senso degli ultimi eventi narrati, è bene precisare i motivi che spin-
sero Jean all’affrettata partenza.
Dell’idillica storia d’amore tra Mario e cosette egli non aveva avuto alcun sospet-
to. Mario era stato prudente: durante il giorno non si era mai fatto vedere e solo
dopo le dieci di sera, quando il padre di cosette andava a dormire, si recava nel
giardino della casa.
le ansietà di Jean erano dunque di altra natura. gli era capitato di scorgere
thénardier che si aggirava nei paraggi: nuovi pericoli si profilavano all’orizzonte e
Jean non intendeva correre altri rischi.
parigi inoltre in quei mesi non era tranquilla e per chi avesse avuto qualcosa da
nascondere c’era l’inconveniente di una polizia più attenta. perciò era più prudente
lasciare la Francia e trasferirsi in inghilterra.
- libro X -
il 5 giugno 1832
Nella primavera del 1832, sebbene da tre mesi il colera avesse gettato sul popo-
lo una calma tetra, parigi era pronta per la rivolta.
la grande città assomigliava ad un cannone a cui sarebbe bastata una scintilla
per far partire il colpo; la scintilla fu la morte del generale lamarque.
costui era stato valoroso con la spada sotto l’impero e coraggioso con la parola
durante la restaurazione. la sua morte rappresentò per il popolo una grave perdi-
ta. il cinque giugno, giorno fissato per le esequie, il sobborgo di sant’antonio, che
il corteo funebre doveva rasentare, prese un aspetto terribile. in quella tumultuosa
rete di vie tutti si armavano come potevano. i lungoviali, i balconi, le finestre, i tetti
formicolavano di curiosi che guardavano sgomenti e con gli occhi pieni d’ansietà il
passaggio di quella folla armata. la polizia osservava con la mano sull’impugnatu-
ra della spada. poco dopo, nello stesso tempo in tutti i punti della città esplose un
gran tumulto, come cento fulmini in un solo rombo di tuono.
Da ogni quartiere si sentì gridare: “alle armi”; chi toglieva le pietre dal selciato,

M
chi sfondava le porte delle case, chi frugava nelle cantine, chi rotolava barili, chi am-

o
mucchiava sassi, mobili, tavole; in meno di un’ora un’infinità di barricate sorsero dal

ni
suolo. Un terzo di parigi era in mano agli insorti e la grande città ebbe un fremito
di paura. caG
in pieno giorno le porte e le imposte delle finestre erano state chiuse; i coraggio-
a

si si erano armati e i vili si erano nascosti. a mano a mano che la notte calava, pa-
tto

rigi si colorava sempre più del lugubre fiammeggiare della sommossa.

- libro Xi -
l’atomo s’affratella con l’uragano
Durante l’esplosione della rivolta, anche il gruppo degli “amici dell’abc” si era riu-
nito ed organizzato per recarsi ad innalzare una barricata.
Quei giovani affiliati si erano messi in marcia fra le strade di parigi e, pian piano,
una grossa folla in agitazione, composta da studenti, artisti, operai e scaricatori di
porto, si unì a loro.
Un vecchio, che pareva molto innanzi negli anni, marciava in mezzo a quella ban-
da; non aveva armi e si affrettava per non restare indietro: era il signor Mabeuf.
anche il piccolo gavroche aveva deciso di andare alla guerra; si era messo davan-
ti a tutti, cantando a squarciagola e roteando in aria una pistola senza cane.
- libro Xii -
corinto
Quel corteo armato e tempestoso si arrestò all’estremità della via chanvrerie di
fronte alla taverna corinto ed in pochi minuti sbarrò il passaggio erigendo una barri-
cata alta due metri.
Fra il gruppo di insorti serpeggiava una giovialità cordiale; sembravano tutti
fratelli e non sapevano il nome gli uni degli altri.
gavroche, allegro e chiassoso, entusiasmava come un turbine la compagnia, an-
dava e veniva senza sosta mormorando, ronzando e molestando tutti. era furioso
d’avere una pistola senza cane e reclamava in continuazione: «voglio un fucile! per-
to t
ché non mi date un fucile?». Ga
ad un tratto la sua attenzione si rivolse verso un uomo sospetto. cominciò a
i c a
saltellargli intorno con aria pensosa ed infine gridò: «È uno sbirro!».
n o
in un batter d’occhio quell’uomo fu preso per il collo, atterrato e perquisito. in
M
fondo al taschino gli trovarono un foglio sul quale era scritto: «Non appena compiu-
ta la sua missione politica, l’ispettore Javert s’assicurerà, con una sorveglianza spe-
ciale, se è vero che dei malfattori svolgano congiure segrete sulla riva destra della
senna vicino al ponte di Jena».
Javert venne legato ad un palo e si decise di fucilarlo nel caso in cui la barricata
fosse stata sul punto di cadere.
Dopo aver issata la bandiera rossa, vennero distribuite le cartucce. coi fucili
caricati, circondati da case mute come tombe, quel manipolo di uomini coraggiosi
attendeva impaziente e risoluto.
calò la notte e non accadde nulla. si sentivano solo rumori confusi e di tanto in
tanto delle fucilate lontane. Questa tregua prolungata era segno che il governo
temporeggiava e raccoglieva le sue forze.

- libro Xiii -
Mario entra nell’ombra
Quella voce che attraverso il cancello del giardino aveva chiamato Mario, esortan-
dolo a recarsi nella barricata, gli aveva fatto l’effetto della voce del destino. egli vo-
leva morire; quale occasione migliore gli potevano offrire?
Mario scostò la barra del cancello che tante volte l’aveva lasciato passare, uscì
dal giardino e disse: «andiamo!» sfuggendo alle pattuglie ed evitando le sentinel-
le, si diresse deciso verso via chanvrerie.
chi avesse guardato Parigi dall’alto in quel momento, avrebbe avuto sotto gli oc-
chi una visione fosca: fanali spenti, finestre chiuse, tutto era senza luce, senza vi-
ta, senza rumore, senza movimento. la polizia invisibile alla sommossa vegliava
dappertutto, e manteneva l’ordine, ossia l’oscurità.
sul cadere del giorno, tutte le finestre dov’era accesa una candela avevano
ricevuto una pallottola; la luce veniva quindi spenta e, talvolta, veniva ucciso l’in-
quilino. perciò non si muoveva più nulla.
tutto quel vecchio quartiere dei mercati, che è come una città nella città,
attraversato dalle vie di san Dionigi e san Martino, in cui si intrecciano mille viuzze
e del quale gli insorti avevano fatto la loro ridotta e la loro piazza d’armi, sembra-
va, dall’alto, un enorme buco tenebroso, scavato nel centro.
in quell’oscurità il governo e l’insurrezione stavano per affrontarsi. Di là si usci-
va soltanto uccisi o vincitori. Da ambo le parti, ferocia, ira e propositi uguali covava-
no. per gli uni avanzare significava morire, e nessuno pensava a indietreggiare; per
gli altri restare significava morire, e nessuno pensava a fuggire.
Mario era arrivato ai mercati. Qui tutto era più tranquillo che nelle strade vicine.
il giovane si fermò e si sedette su un paracarro. il pensiero andò a suo padre, che
aveva combattuto eroicamente in tante battaglie per la difesa della patria. ora
toccava a lui; dopo suo padre anch’egli stava per essere coraggioso, intrepido e
ardito, per correre incontro alle pallottole, per offrire il petto alle baionette, per ver-

i
on
sare il sangue, per affrontare il nemico. Ma il campo di battaglia dove stava per

M
scendere era la via e quella guerra era una guerra civile. pensava alla spada di suo
padre che il nonno aveva venduto a un rigattiere. era una fortuna che fosse scom-
parsa piuttosto che far sanguinare oggi il fianco della patria.
era una cosa terribile. Ma egli non poteva tirarsi indietro, non poteva vivere senza
cosette, anche se ella era partita senza avvisarlo, senza una lettera. Forse non
l’amava. Nella tempesta di questi pensieri chinò il capo. lo rialzò: una splendida
chiarificazione s’era prodotta nella sua mente. l’azione a cui stava per partecipare
gli apparve non più deplorevole, ma superba. Non ci sono forse casi in cui
l’insurrezione si eleva fino alla dignità di un dovere? la Francia sanguina, ma la
libertà sorride, e davanti al sorriso della libertà, la Francia non sente le sue ferite.
la guerra diventa vergogna e la spada pugnale solo quando esse assassinano il
diritto, il progresso, la ragione, la civiltà, la verità. allora, sia guerra civile o ester-
na, essa è iniqua e si chiama delitto. Quando invece si combatte per abbattere l’e-
norme montagna di pregiudizi, di privilegi, di superstizioni, di menzogne, d’anghe-
rie, d’abusi, di violenze, d’iniquità, di odio, allora la guerra è giusta e doverosa.
Vincere ad austerlitz è grande, prendere la Bastiglia è immenso. Questo era lo
stato d’animo di Mario, mentre guardava davanti a sé la barricata, dove gli insorti
discorrevano a bassa voce, senza muoversi, e si sentiva colà quel quasi silenzio che
contrassegna l’ultima fase dell’attesa.
ni ca
- libro XiV -

o M
le grandezze della disperazione
erano giunte le dieci di sera e nulla accadeva ancora. all’interno della barricata
ognuno aveva preso il proprio posto di combattimento; quegli uomini coraggiosi
aspettavano con l’orecchio teso, silenziosi, pronti a far fuoco.
Dopo qualche minuto si udì provenire dal fondo della via rumori di passi corti e
cadenzati, che si avvicinavano con un crescendo tranquillo e terribile.
ad un tratto, dall’ombra, una voce gridò: «chi va là?». enjolras rispose con tono
vibrante ed altero: «la rivoluzione francese». immediatamente la barricata fu inva-
sa da una scarica spietata e decisa di colpi che ferirono diversi uomini.
la bandiera che avevano innalzato era caduta, ma nessuno aveva la forza di an-
dare incontro alla morte per rimetterla a posto.
Fra il silenzio generale si vide farsi avanti il vecchio Mabeuf che, con la testa
tentennante ma con passo sicuro, prese la bandiera e cominciò a salire lentamente
la scaletta in pietra della barricata.
i suoi capelli bianchi, il viso decrepito e gli occhi infossati lo facevano sembrare
un fantasma tremante ma austero di fronte ad un esercito di fucili invisibili. giunto
in cima, agitò la bandiera rossa e gridò: «viva la rivoluzione! viva la repubblica! Fra-
ternità! Uguaglianza! e la morte!».
Una scarica di mitraglia si abbatté sulla barricata. il vecchio si piegò sulle ginoc-
chia e cadde riverso sul selciato.
Una commozione profonda serpeggiò tra gli insorti, che, con quell’esempio,
avevano riconquistato il coraggio necessario per affrontare l’attacco.
Proprio nel momento più critico, quando una scintillante moltitudine di baionette
ondeggiava al di sopra della barricata, sopraggiunse Mario.
resosi conto di quello che stava succedendo, prese una torcia e scivolò in un an-
golo fino a raggiungere un barile di polvere da sparo e, con un grido risoluto ed ar-
dito, minacciò di far saltare la barricata.
in un attimo sullo sbarramento non c’era più nessuno. gli assalitori rifluirono di-
sordinatamente verso l’estremità della via, perdendosi nelle tenebre. la barricata
era salva.
Mentre Mario, dopo aver ispezionato la barriera, stava per ritirarsi, udì pronuncia-
re debolmente il suo nome nell’oscurità. trasalì, riconoscendo la voce che due ore
prima l’aveva chiamato attraverso il cancello di via plumet. però adesso quella vo-
ce non era più che un soffio.
si guardò attorno, ma non scorse nessuno. credette di essersi ingannato e di es-
sere in preda ad un’allucinazione. Fece un passo per allontanarsi, quando si sentì
nuovamente chiamare. Questa volta non poteva avere più dubbi, perché la voce era
più chiara. guardò attentamente e scorse nell’ombra una forma scura che si
trascinava verso di lui.
era qualcosa che strisciava sul selciato. la luce del fanale gli permetteva di di-
stinguere una blusa, dei pantaloni di velluto, strappati, due piedi nudi e qualche co-
sa che pareva una pozza di sangue. intravide un pallido viso che si sollevava verso
di lui: era eponina. Mario si abbassò premuroso, chiedendole che cosa facesse lì.
«Muoio» rispose la giovane con un filo di voce.
Mario si accorse che la ragazza aveva una mano sanguinante, forata da una
pallottola.
ella aveva tappato con una mano un fucile, che aveva preso di mira Mario. in tal
modo aveva salvato il giovane.
Mario pensò che la ferita alla mano non era mortale; ma eponina gli fece osserva-
re che la pallottola aveva attraversato la mano, ma era uscita dalla schiena. per lei
non c’era più nulla da fare. volle che Mario le sedesse accanto ed egli obbedì. con
grande sforzo eponina gli confidò il suo amore per lui.
Mario ascoltava e guardava quella disgraziata creatura con profonda compassio-
ne. in quel momento la voce di galletto del piccolo gavroche si elevò dalla barricata.
eponina ascoltò quella voce, poi disse: «È lui. È mio fratello. bisogna che non mi
veda». Mario trasalì.
intanto eponina con grande sforzo si avvicinò a Mario; con voce bassa e rotta dai
singhiozzi, disse: «ho una lettera per voi. Mi avevano detto di impostarla, ma io non
volevo che vi giungesse. però non voglio che mi serbiate rancore. prendetela.»
Mario la prese ed eponina aggiunse: «adesso promettetemi di darmi un bacio in
fronte quando sarò morta. lo sentirò.» abbandonò la testa sulle ginocchia di Mario
e le palpebre le si chiusero.
Mario era certo che si fosse addormentata per l’eternità. invece lei riaprì lenta-
mente gli occhi e con voce dolcissima disse: «e poi, vedete, signor Mario, forse ero
un poco innamorata di voi». tentò ancora di sorridere e poi spirò.
Mario baciò la fronte, imperlata di sudore gelido, di quell’anima infelice, poi, con
cuore impaziente, prese la lettera, ruppe il sigillo e lesse: «Mio diletto, ahimè, mio
padre vuole che partiamo subito. saremo stasera in via dell’Uomo armato, n. 7. tra
otto giorni saremo a londra. cosette. 4 giugno».
MonicailG
Mario sentì il dovere di inviare a cosette atto addio e ordinò a gavroche di
supremo
consegnarle un biglietto sul quale scrisse: «il nostro matrimonio è impossibile. ho
tentato con mio nonno, ma ho avuto un rifiuto. Non ho fortuna, e neppure tu ne
hai. sono corso da te, ma non ti ho più trovata. Muoio. ti amo. Quando leggerai
queste parole, la mia anima sarà vicina a te e ti sorriderà …».
sotto aggiunse: «Mi chiamo Mario pontmercy. portate il mio cadavere presso mio
nonno, signor gillenormand, via delle Figlie del calvario, n. 6, al Marais».
- libro XV -
la via dell’uomo armato
le convulsioni di una città sono nulla se paragonate a quelle dell’anima. l’uomo

to
è una profondità ancora più grande d’una città.

at
Jean Valjean, anche in quell’ora, era in preda ad un tormento spaventoso.

G
alla vigilia di quel 5 giugno, egli si era trasferito, accompagnato da cosette e da

a
toussaint, nella via dell’Uomo armato.

ic
Non fu senza un tentativo di resistenza che cosette aveva abbandonato la via

Mon
plumet. era la prima volta che si trovava in disaccordo con Jean valjean.
Questi era tanto preoccupato da non accorgersi della tristezza di cosette e
cosette tanto triste da non accorgersi della preoccupazione di Jean valjean.
Questi aveva voluto portare con loro la fedele toussaint, per non lasciarla in via
plumet. per il resto non aveva portato con sé nulla, se non la valigetta odorosa che
cosette chiamava l’inseparabile. ci voleva troppo tempo per trasportare i bauli. con
gran fatica toussaint aveva portato via un po’ di biancheria e qualche vestito.
erano partiti di sera e giunsero nella nuova casa a notte avanzata. si coricarono
in silenzio.
il nuovo alloggio era composto di due camere da letto, una sala da pranzo e una
cucina, che comunicava con un soppalco dove c’era un letto. Questo toccò a tous-
saint.
Non appena Jean Valjean si trovò in via dell’uomo armato, l’ansia si affievolì e,
gradatamente, svanì. si sentiva tranquillo in quell’antica viuzza di parigi. trovò per-
fino bella la sala da pranzo, che tale non era.
il giorno dopo cosette rimase in camera fino alle cinque, quando era pronto un
arrosto freddo di pollo preparato da toussaint. Ne assaggiò un pezzetto e poi, con
la scusa di una emicrania, se ne tornò in camera.
Jean valjean non se ne preoccupò. in quella via tranquilla si liberava di tutte le
sue preoccupazioni, soddisfatto di aver abbandonato la vecchia dimora senza com-
plicazioni. tuttavia era saggio espatriare a londra, almeno per un paio di mesi.
Mentre camminava su e giù a passi lenti, vide una cosa strana. Nello specchio in-
clinato sopra la credenza poté chiaramente leggere le quattro righe seguenti: «Mio
diletto, ahimè, mio padre vuole che partiamo subito. saremo stasera in via dell’Uo-
mo armato, n. 7. tra otto giorni saremo a londra. cosette. 4 giugno.»
lo scritto era rimasto impresso sulla carta assorbente. il biglietto era stato invia-
to a Mario per mezzo del giovane operaio che passava in via plumet, mentre la carta
assorbente era rimasta nella cartella di cosette. arrivata nella sala da pranzo, la gio-
vane, tutta presa dall’angoscia, aveva dimenticato la cartella sulla credenza, senza
badare che la lasciava aperta.
Jean valjean rimase talmente turbato che pensava fosse un’allucinazione. Non
poteva essere. riesaminò il foglio con la scrittura rovesciata che sembrava uno
scarabocchio. allora si disse: ma qui non c’è scritto nulla. È stata un’allucinazione.
e respirò a pieni polmoni con un sollievo indescrivibile. Jean valjean teneva in ma-
no la cartella. D’un tratto guardò lo specchio e rivide con chiarezza le quattro righe.
stavolta non era un miraggio. comprese. barcollò, si lasciò sfuggire dalle mani la
cartella e si accasciò sulla vecchia poltrona, con la testa ripiegata, l’occhio vitreo,
smarrito.
strano a dirsi, Mario non aveva ancora ricevuto la lettera di cosette. il caso, tradi-
tore, l’aveva svelata a Jean valjean prima di recapitarla a Mario.
Jean valjean aveva superato tante traversie con grande forza d’animo. Ma in
quell’ora tale forza gli veniva meno. Di tutti i dolori che aveva dovuto subire, que-
sto era il più tremendo.
egli amava cosette di amore paterno e in quella paternità aveva concentrato tutti
nica
Mo
i suoi affetti. all’infuori di cosette nella sua esistenza non aveva conosciuto nulla di
Gat
ciò che si può amare. egli ora si sentiva padre, ma padre strano, in cui si confonde-
to
vano il nonno, il figlio, il fratello, il marito e addirittura qualcosa di materno.
Quando si avvide che era proprio finita, che gli sfuggiva, che svaniva, quando si
disse: «ella s’allontana da me!» allora il dolore che provò oltrepassò i limiti del
possibile, e sentì in ogni fibra, dalla testa ai piedi, un fremito di rivolta. sentì l’im-
menso risveglio dell’egoismo, e l’io urlò nell’abisso di quell’uomo.
Jean valjean riprese in mano la cartella e si confermò nella sua convinzione; ri-
mase curvo e come pietrificato, ma con una calma apparente e terribile.
allora ricordò certi particolari, alcune date, certi rossori e pallori di cosette, e si
disse: è lui. Dalla sua prima congettura, colse Mario. Non sapeva il nome ma era
certo della persona. scorse chiaramente il girovago sconosciuto del lussemburgo.
Dopo aver constatato che tutto il male veniva da lui, egli, Jean valjean, l’uomo re-
dento, che aveva fatto tanti sforzi per risolvere in amore la sua vita, scrutò nel pro-
prio io e vide lo spettro dell’odio.
in precedenza la domestica gli aveva detto: «signore, c’è del chiasso, in parigi si
battono». Ma egli non vi aveva fatto attenzione. ora quelle parole gli tornarono alla
mente. in quel momento entrò toussaint.
Jean valjean si alzò e le chiese dove si battevano. ella rispose: «Dalla parte di
saint-Merry».
sotto l’impulso di un moto inconsapevole Jean valjean si trovò, cinque minuti
dopo, sulla via. era a testa scoperta. si sedette sul limitare della porta di casa. sem-
brava ascoltasse. era notte.
Quanto tempo Jean valjean passò in quella sua drammatica meditazione? Nem-
meno lui avrebbe potuto rispondere. la via era deserta. era seduto lì, sulla soglia,
immobile come una larva di ghiaccio.
ed ecco una forte detonazione scoppiò dalla parte dei mercati; la seguì una se-
conda ancora più violenta. era probabilmente l’attacco alla barricata di via della
chanvrerie, dove abbiamo visto essere anche Mario.
Jean valjean trasalì, si raddrizzò volgendosi verso la parte da cui era giunto il
rumore.
ad un tratto vide qualcuno che camminava nella via; udiva dei passi vicino a lui
e alla luce del fanale scorse un viso livido, giovane e raggiante. era gavroche che
arrivava allora in via dell’uomo armato. aveva il naso in alto e sembrava cercare
qualcosa.
Jean valjean si sentì spinto a volgere la parola a quel birichino, chiedendogli che
cosa avesse. il ragazzino rispose dicendo che aveva fame. Jean valjean gli mise in
mano una moneta da cinque franchi, che gavroche guardò con meraviglia, perché
non l’aveva mai vista. Disse però che preferiva fracassare la lanterna come aveva
fatto poco prima, lanciando una pietra contro il fanale che illuminava la zona, che
restò così il buio.
Disse quindi al “borghese” di riprendersi la sua moneta: non voleva lasciarsi cor-
rompere. restò invece commosso quando Jean valjean gli disse di conservare quel
denaro per sua madre. si mise in tasca la moneta e poi chiese all’uomo di indicar-
Moni

gli, se lo sapeva, il numero sette di quella strada. a Jean valjean balenò un’idea nel-
la mente. Disse al ragazzo: «sei tu che mi porti la lettera che aspetto?».
caG

«È per una donna», rispose gavroche.


«la lettera è per la signorina cosette, nevvero?».
gavroche confermò, aggiungendo che era stato mandato dalla barricata. Jean
atto

valjean gliela chiese e il ragazzo, dopo qualche esitazione, gliela consegnò, preci-
sando che veniva dalla barricata di via della chanvrerie.
Detto questo, il monello se ne andò, diretto alla barricata. Ma lungo il cammino
continuò a fracassare altre lampade.
Jean valjean rientrò in casa con la lettera di Mario; si sedette presso il tavolo e
lesse ciò che vi era scritto. rimase un momento come schiacciato dal cambiamen-
to di emozioni che si produceva in lui; sentì dentro di sé una specie di orrenda gioia:
l’essere che ingombrava il suo destino spariva, liberamente, di propria volontà. egli
stava dunque per rimanere nuovamente solo accanto a cosette. Ma dopo queste
prime sensazioni si fece pensieroso.
Un’ora dopo uscì armato, diretto verso la barricata di corinto. Nel frattempo era
successa un’avventura a gavroche.
Mentre il monello passava, nella notte, per la via delle vieilles-haudriettes
cantando e gesticolando, notò, nello sfondo di un portone, un carretto a mano, su
cui dormiva un ubriaco. pensò che quel carretto avrebbe fatto bellissima mostra di
sé sulla barricata. si liberò con facilità dell’ubriaco, deponendolo sul selciato; poi af-
ferrò le stanghe del carretto e s’avviò verso la barricata.
il rotolare della carretta sul selciato fece accorrere un sergente dal vicino posto
di guardia.
Quando gavroche se lo vide davanti minaccioso, pensò di liberarsene lanciando
a gran forza la carretta contro il sergente, che venne travolto.
il monello se la diede a gambe, invano inseguito dai soldati, che nel frattempo
erano accorsi, scaricando a casaccio i loro fucili.
l’avventura di gavroche rimase nella tradizione del quartiere come uno dei ricor-
di più terribili e nella memoria dei vecchi porta il nome di: “attacco notturno al posto
di guardia della stamperia reale”.
to
at
G
a
ic
on
M
Parte QuiNta
Jean Valjean
- libro i -
guerra fra quattro mura
l’autore in questo libro fa una lunga digressione per parlare delle insurrezioni po-
polari e in particolare delle barricate.
le due più note barricate non appartengono al periodo in cui si svolgono i fatti nar-
rati in questo romanzo, ma sono quelle che uscirono dalla terra il giorno della fatale
insurrezione del giugno 1848, la più grande guerra della strada che la storia ricordi.
accade spesso che, ergendosi contro gli stessi sacri princìpi, contro la libertà,
Mo
n
l’uguaglianza e la fraternità, anche contro il suffragio universale, contro il governo ica
di tutti retto da tutti, dal fondo delle sue angosce, dei suoi scoraggiamenti, delle
G
privazioni, delle febbri, delle miserie, dei malanni, dell’ignoranza, delle tenebre,
questa grande disperata, la canaglia, protesti, e la plebe dia battaglia al popolo.
sono giorni lugubri, ma in tale demenza c’è sempre una certa quantità di diritto.
Queste parole che vorrebbero essere ingiurie: pezzenti, canaglie, diseredati,
lazzaroni, dimostrano piuttosto la colpa di coloro che governano anziché quella di
coloro che soffrono, piuttosto la colpa dei privilegiati che quella dei diseredati, i deli-
ri di questa folla che soffre e che sanguina, le sue violenze improvvise, le sue vie di
fatto contro il diritto, sono colpi di stato popolari e vanno repressi.
Ma in questi momenti, pur facendo quello che si deve fare, si sente qualcosa che
sconcerta e che sconsiglia di andare oltre.
il giugno del 1848 è stato un fatto a parte e quasi impossibile a classificare nel-
la filosofia della storia. si tratta di quella santa sommossa nella quale si sentì la san-
ta ansietà del lavoro che reclama i propri diritti.
l’autore vuole ora fermare per un momento l’attenzione sulle due barricate, raro
documento di lotta, che in un certo modo si inseriscono nella storia da lui racconta-
ta. l’una ostruiva l’accesso al sobborgo del tempio.
la barricata Sant’antonio era mostruosa: giungeva all’altezza di un terzo piano e
si estendeva per settecento piedi. sbarrava da un capo all’altro la vasta imboccatu-
ra del sobborgo, cioè ben tre vie; essa sorgeva come un argine ciclopico nel fondo
di quella piazza formidabile che aveva visto il 14 luglio.
altre diciannove barricate si ergevano nelle profondità delle vie dietro quella barri-
cata-madre. era costruita dalle macerie di tre case a sei piani, distrutte apposta.
Quella barricata era degna di apparire in quel punto stesso ove era sparita la basti-
glia. si sentiva il tumulto della folla in quell’ingombro deforme. c’era della cloaca in
quel fortino, e qualche cosa di maestoso in quel disordine. vi si poteva scorgere di
tutto: travicelli di tetti, macerie di soffitte, telai di finestre con tutti i loro vetri, in at-
Mo
tesa del cannone, caminetti divelti, armadi, tavoli, banchi e mille altri oggetti, rifiu-
nic
ti che perfino un mendicante non raccoglierebbe.
aG
pareva che il sobborgo sant’antonio avesse con un colossale colpo di scopa
atto
radunato tutto fuor della porta, facendo della propria miseria una barricata.
la barricata faceva arma di ogni cosa; tutto quello che la guerra civile può
scagliare contro la società pareva uscire di lì: una cresta di fucili, sciabole, bastoni,
asce, picche e baionette.
a un quarto di lega di là, all’angolo della via del tempio, si poteva scorgere una
strana muraglia, che in altezza raggiungeva il secondo piano delle facciate delle ca-
se. Quel muro era costruito di pietre da lastricare. era diritto, squadrato, a strapiom-
bo, glaciale. la calcina mancava, ma questo non guastava la sua rigida architettu-
ra. bastava vedere la sua altezza per intuirne lo spessore. il suo cornicione era ma-
tematicamente parallelo alla base. la via era deserta a perdita d’occhio. tutte le fi-
nestre e le porte erano chiuse. lo splendente sole di giugno ammantava di luce
quella fortezza terribile.
era la barricata del sobborgo del tempio. era impossibile non rimanere preoc-
cupati dinanzi a quella misteriosa costruzione. tutto era acconciato, combaciato,
rettilineo, geometrico e funebre.
se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo, ardiva attraversare
la via solitaria, un sibilo acuto, e il passante cadeva ferito o morto.
Nei dintorni tutti gli anditi dei portoni erano ingombri di feriti. ammassati dietro
a quel muro, all’ingresso del sobborgo del tempio, dal ponte ad arco gettato sopra
il canale, i soldati della colonna d’attacco osservavano, muti e pensosi, quel forte
minaccioso. Questa barricata, difesa da ottanta uomini, assalita da diecimila, tenne
duro per ben tre giorni. il quarto, vennero forate le case e i soldati piombarono dai
tetti. Neppure uno di quegli ottanta cercò di fuggire: furono uccisi tutti.
la barricata in via chanvrerie non era che un abbozzo, un embrione, in parago-
ne alle due barricate-colossi che sono state appena descritte, ma per l’epoca, era
già formidabile.
l’autore si sofferma ora a “dipingere” il coraggio, gli entusiasmi, l’accanimento,
le speranze presenti negli animi di quegli uomini valorosi che difendevano la barrica-
ta. l’essere riusciti a respingere l’attacco notturno li aveva resi sicuri del loro succes-
so; ma alle prime luci del mattino enjolras, che si era arrischiato in un giro di per-
lustrazione, era riapparso, annunciando che un terzo della forza armata di parigi
puntava verso di loro.
erano isolati e non potevano contare sul soccorso di nessuno. Un silenzio peno-
so calò sul gruppo di insorti: il loro destino era segnato. i due capi, Mario ed enjol-
ras, si ricordarono di aver messo da parte quattro uniformi sottratte a dei soldati
uccisi; con esse sarebbe stato facile mischiarsi ai ranghi e scappare. sacrifici inutili
non erano necessari e, almeno qualcuno del loro gruppo, avrebbe potuto salvarsi.
Mario gridò: «vi sono tra voi uomini che hanno famiglia, madri, sorelle, spose,
bambini? costoro si facciano avanti.»
Nessuno si mosse, nessuno voleva rinunciare alla morte; quindi furono scelti, con
voto unanime, cinque giovani destinati alla salvezza. Ma solo quattro erano le divi-
se disponibili. la generosa gara per stabilire chi dovesse rimanere incominciò fin-
ché, ad un tratto, una quinta uniforme cadde sulle quattro, quasi venisse dal cielo.
Mario alzò lo sguardo e riconobbe il signor Fauchelevent entrato allora nella barri-
cata. Un’indescrivibile commozione generale pervase gli insorti: il quinto uomo era
salvo e poteva insieme agli altri essere risparmiato alla morte.
Mario si trovava in una particolare situazione psicologica: tutto ciò che accadeva
non era altro che visione. si sentiva già nella tomba, gli pareva d’essere già dall’al-
tra parte della muraglia e di vedere i viventi con gli occhi di un morto.
il signor Fauchelevent e Mario non si rivolsero mai la parola.
i cinque uomini prescelti uscirono dalla barricata: così vestiti, sembravano pro-
prio guardie nazionali. prima di partire, abbracciarono coloro che restavano.
Javert, condannato a morte, era legato al pilastro e meditava. entrò nell’osteria
enjolras e gli si avvicinò. il condannato chiese da bere. enjolras gli diede un bicchie-
re d’acqua e lo aiutò a bere; dopo di che il condannato chiese di essere slegato per
potersi coricare sopra un tavolo. gli fu concesso.
Mentre veniva liberato, un insorto gli teneva puntata la baionetta sul petto. gli
legarono le mani dietro la schiena; gli furono legate anche le caviglie, in modo che
potesse fare passi di circa quindici pollici. gli insorti lo condussero verso il tavolo sul
fondo della sala e ve lo sdraiarono, legandolo stretto, in modo che gli fosse impossi-
bile l’evasione.
Mentre si stava legando Javert, un uomo, ritto sulla soglia, lo guardava atten-
tamente. l’ombra proiettata da quell’uomo fece voltare la testa a Javert. alzò gli
occhi e riconobbe Jean valjean. Non trasalì neppure; alzò gli occhi e si limitò a dire:
«È naturale».
Quando si levò la piena luce del giorno, all’imboccatura della strada apparvero
due cannoni. era il principio della fine. l’attacco, che dopo poco venne sferrato, fu
spietato e furioso. Quel manipolo d’uomini all’interno della barricata si difese con
eroismo, ma tutte le cartucce e le munizioni si esaurirono velocemente e la situazio-
ne, da minacciosa, si tramutò in disperata.
intanto si vide uno in basso fuori dalla barricata, nella via, sotto la pioggia delle
pallottole. gavroche si era munito di un cesto per bottiglie, era uscito dalla barrica-
ta e con grande calma vuotava nel paniere le giberne piene di cartucce delle guar-
Mon

die nazionali uccise. sembrava che non sentisse i colpi di mitraglia. Una ventina di
morti giaceva sul selciato: per gavroche era una ventina di giberne.
icaG
a
intanto il fumo, probabilmente voluto, nascondeva la via come una nebbia. il
piccolo gavroche si divertiva a destreggiarsi con grande abilità tra il fuoco della fuci-
leria. le guardie lo conoscevano bene: egli strisciava sul ventre, galoppava a quat-
tro gambe, teneva il paniere coi denti, si torceva, scivolava, saltellava da un morto
all’altro e vuotava le giberne e le cartucciere con la destrezza della scimmia che apra
una noce.
e intanto si trovò dove il fumo era meno denso e il pericolo di essere colpito au-
mentò. Una pallottola rovesciò il suo paniere; ma egli si mise a cantare. poco dopo
però un proiettile, meglio guidato degli altri, finì per raggiungere il fanciullo.
si vide gavroche barcollare, poi cadere. si raddrizzò, rimanendo seduto. Un lungo
rivolo di sangue gli rigava il volto. guardò nella direzione da dove era giunto il col-
po e si mise a cantare; ma una seconda pallottola gli troncò la parola. stavolta il
ragazzo si abbatté, la faccia contro il selciato, e non si mosse più.
Mario, ignorando i colpi che lo sfioravano, si lanciò fuori dalla barricata, ma era
già troppo tardi: gavroche era morto. ritornò nel fortino col volto impiastrato di
sangue; aveva fra le braccia il corpo del fanciullo e il paniere pieno di cartucce che
il monello, a costo della vita, aveva raccolto.
intanto nella barricata enjolras ordinò che metà dei suoi uomini, su nella casa,
ne guarnisse i davanzali e gli abbaini.
Nel frattempo un plotone di pompieri zappatori con le asce sulle spalle apparve
all’estremità della via. l’ordine di enjolras venne eseguito. con quelle pietre venne-
ro sbarrate le finestre e gli abbaini; alcune aperture lasciavano il passaggio alle can-
ne dei fucili. vennero anche preparate le sbarre di ferro per sprangare internamen-
te la porta dell’osteria. la fortezza era completata. la barricata era il bastione, la
casa era la torre.
Fu anche inchiodata la porta della cucina, che funzionava da ambulanza. i venti-
sei uomini si prepararono così a difendersi dall’imminente attacco.
enjolras ordinò poi che l’ultimo che usciva dall’osteria doveva rompere la testa al-
lo sbirro Javert. Questi rimase impassibile.
a questo punto apparve Jean valjean. si rivolse a enjolras, dicendo: «or ora mi
avete ringraziato. se credete che io meriti una ricompensa, ebbene io la chiedo: far
saltare io stesso le cervella a quest’uomo». il comandante ritenne giusta la richie-
Mo
sta e gli consegnò il condannato. tutti gli insorti uscirono dall’osteria all’assalto.
nic
Jean valjean si avvicinò a Javert, sciolse la corda che lo teneva avvinto a mezzo
aG
corpo, gli fece cenno di alzarsi, poi lo prese per la martingala e, trascinandoselo die-
att
tro, uscì dall’osteria, lentamente, dato che Javert, impacciato alle gambe, poteva
o
camminare soltanto a piccoli passi.
Jean valjean impugnava la pistola. attraversarono così il trapezio interno della
barricata. gli insorti, intenti all’imminente attacco, voltavano la schiena. solo Mario,
che si trovava all’estremità di sinistra dello schieramento li vide passare.
con non poca fatica Jean valjean fece scavalcare a Javert, sempre legato, il pic-
colo trinceramento del vicolo Mondétour. giunti nella parte opposta della piccola
barricata, si trovarono del tutto soli nella viuzza. l’angolo della casa li nascondeva
agli occhi degli insorti.
Nelle vicinanze c’era un ponticello raccapricciante di cadaveri, tra i quali si distin-
gueva quello di una donna. era eponina. Jean valjean disse a voce bassa: «Mi pa-
re di conoscerla». poi si mise la pistola sotto il braccio, fissò Javert, si tolse dalla
borsa un coltello e tagliò tutte le corde che tenevano legato l’ispettore; poi disse:
«siete libero».
Javert non era facile a stupirsi, ma questa volta non poteva farne a meno. Jean
valjean continuò: «Non credo che uscirò di qui. comunque qualora ne uscissi, abito,
sotto il nome di Fauchelevent, in via dell’Uomo armato, al numero sette. andate.»
Javert si abbottonò il pastrano, drizzò le spalle, incrociò le braccia e tenendosi il
mento con una mano, si indirizzò in direzione dei mercati. Jean valjean lo seguì con
lo sguardo. Fatto qualche passo, l’ispettore si voltò e disse: «voi mi date fastidio.
Fareste meglio ad uccidermi». Jean valjean ripeté: «andatevene».
Javert si allontanò a passi lenti. Quando fu scomparso, Jean valjean scaricò la
pistola in aria. poi rientrò nella barricata e disse: «È fatto».
Monic

ed ecco che cosa era accaduto.


Mario, nel prigioniero che era condotto a morire, aveva riconosciuto Javert, ma
non ne era certo. Ne chiese conferma a enjolras e questi confermò. Mario si alzò.
aGatto

Ma proprio in quel momento udì il colpo di pistola e poco dopo vide entrare Jean
valjean. Un cupo gelo avvolse il cuore di Mario.
la barricata stava ormai per entrare in agonia. l’ultimo attacco fu come un
uragano. la via si coprì di cadaveri e, nella mischia, gli ultimi rimasti combatterono
allo scoperto, offrendosi a facili bersagli col coraggio dell’ora suprema.
Mario era talmente crivellato di ferite, che il viso e il corpo scomparivano sotto
un velo di sangue. Quando una pallottola lo colpì alla spalla, le sue ginocchia si
piegarono e cadde svenuto. aveva già gli occhi chiusi e, in stato di incoscienza, av-
vertì la scossa di una mano vigorosa che lo afferrava e in quel mentre pensò: «sono
prigioniero. sarò fucilato.»
dopo poco la barricata venne presa. Fu un’orrenda carneficina, che non rispar-
miò nessuno di quel gruppo di valorosi.
in realtà Mario era prigioniero. prigioniero di Jean valjean. Questi non aveva mai
preso parte ai combattimenti, ma si era dedicato alla cura dei feriti. Negli intervalli
riparava la barricata. Nella fitta nube del combattimento pareva non vedere nep-
pure Mario; ma in realtà non lo lasciava mai con lo sguardo.
Quando un colpo d’arma da fuoco rovesciò Mario, Jean valjean, con un balzo fe-
lino, piombò su di lui come su una preda e lo portò via. Nessuno se ne accorse.
tenendo tra le braccia Mario svenuto, attraversò il campo disselciato della barri-
cata e scomparve dietro l’angolo della casa di corinto, al riparo delle pallottole. Qui
per il momento era al sicuro, ma soltanto per qualche minuto.
Jean valjean lasciò scivolare a terra Mario e gettò uno sguardo attorno a sé. la
situazione era disperata. come uscire da quel massacro? scavalcare la barricata
bassa era possibile, ma sopra la cresta si vedevano le punte delle baionette. era la
truppa di linea, appostata dietro la barricata. che fare? solo un uccello poteva usci-
re di lì. Jean valjean, disperato, guardò a terra.
sotto un ammasso di pietre, che in parte la celavano, vide una griglia di ferro po-
sata orizzontalmente a livello del suolo. la sua esperienza di recluso gli fu di aiuto.
sollevò la griglia, si caricò sulle spalle Mario inerte, si calò con quel carico umano
sulla schiena nel pozzo, si lasciò ricadere su di sé la pesante griglia, pose il piede
sopra una superficie lastricata a tre metri sotto il suolo e si trovò, con Mario sem-
pre svenuto, in una specie di corridoio sotterraneo.
là c’era pace, silenzio, notte. poteva sentire a malapena sopra di sé il formidabi-
le tumulto dell’osteria presa d’assalto.

tto
Ga
- libro ii -
ica

le budella del leviatano


n
Mo

Jean Valjean con il suo carico umano si trovava nelle fogne di Parigi. la città in-
fatti ha sotto di sé un’altra città: una città di fogne, la quale ha le sue vie, i suoi cro-
cicchi, le sue piazze, i suoi viali, le sue arterie e la sua circolazione, che è di fango,
dove manca solo la forma umana.
se parigi potesse sollevarsi come un coperchio dall’alto si vedrebbe un immenso
fascio di arterie sotterranee simile ad un grande albero con tutte le sue ramificazio-
ni: è la complicata rete delle fognature, una sorta di polipo tenebroso dai mille
tentacoli, che si ingrandisce ogni qual volta la città si allarga; se la città stende una
via, la fogna allunga un braccio.
Nel medioevo essa era un regno da leggenda; in quella inestricabile cloaca
nessuno riusciva ad orientarsi e tutto ciò che le leggi umane perseguitavano (il cri-
mine, la protesta sociale, il furto), lì si nascondeva e lì trovava asilo o sepolcro.
al principio del secolo XiX la fogna di parigi era ancora un luogo misterioso. con-
siderata dal popolo il baratro dell’inferno, nemmeno alla polizia veniva in mente di
esplorare quello spaventevole antro di scarico, avvolto nelle tenebre, tortuoso, pie-
no di crepacci, disselciato, scabroso e fetido.
per realizzare un’opera di spazzatura, sgombero, misurazione, allargamento e re-
stauro, nel 1805 un uomo di nome Bruneseau decise di gettare lo scandaglio in
att G
nica
Mo
quella buia caverna sotterranea. la sua visita, durata sette anni, fu una dura batta-
glia contro la peste e l’asfissia, ma ebbe il risultato di portare a termine lavori consi-
derevoli, che alleviarono il primitivo aspetto feroce di quella cloaca.

- libro iii -
Fango, ma anima
Dunque Jean valjean in un batter d’occhi, il tempo di sollevare un coperchio e ri-
chiuderlo, era passato dalla piena luce all’oscurità completa, dal mezzogiorno alla
mezzanotte, dal fracasso al silenzio, dal turbine dei tuoni all’immobilità della notte.
aveva lasciato la via ove la morte era dovunque per piombare in quella specie di
sepolcro. Non sapeva se dentro quella fossa portava un vivo o un morto.
Dopo alcuni istanti non era più cieco. Un po’ di luce filtrava dallo spiraglio attra-
verso il quale era scivolato e il suo sguardo si era abituato a quella cantina.
essi erano meno vicino alla salvezza di quanto Jean valjean pensasse. pericoli
d’altro genere e non meno grandi, forse, li attendevano. Dopo il turbine folgorante
della lotta, la caverna dei miasmi e delle insidie; dopo il caos, la cloaca.
Jean valjean era piombato da un girone dell’inferno in un altro. tuttavia si fece
coraggio e iniziò il cammino in mezzo a mille difficoltà e a mille dubbi.
il tracciato della fogna riproduce, per così dire, il tracciato delle vie soprastanti.
vi erano, nella parigi di allora, duemiladuecento vie. ci si immagini sotto di esse
quella foresta di tenebrose ramificazioni che ha nome cloaca.
Jean valjean camminava con ansia ma sempre calmo, senza veder nulla, senza
nulla sapere, tuffato nel caso. certo è una cosa lugubre essere sperduti in quella
parigi sotterranea. Jean Valjean era obbligato ad inventare la sua via, senza ve-
derla. come uscire di lì? avrebbe trovato un’uscita? l’avrebbe trovata a tempo? sa-
rebbe arrivato ad un punto inestricabile impossibile da superare? Mario vi sarebbe
morto dissanguato, lui di fame? avrebbero finito per smarrirsi entrambi e diventare
due scheletri in qualche angolo di quelle tenebre? erano queste le terribili doman-
de alle quali Jean valjean non sapeva rispondere. egli, senza saperlo, si dirigeva
verso la fogna di cinta: era quindi sulla buona strada. si rese conto comunque di
essere sotto quella parte della città che era rimasta immune dalle barricate, perché
sentiva sopra la testa come un rumore di tuono lontano. erano le ruote delle car-
rozze in corsa.
ad un tratto scorse la propria ombra davanti a sé. Dietro di lui, nella parte di
corridoio che aveva già percorso, ad una distanza che gli parve immensa, fiam-
meggiava, striando la densa oscurità, una specie di orribile astro che pareva guar-
darlo. era la fosca stella della polizia che sorgeva dalla fogna.
Dietro quella stella si muovevano confusamente otto o dieci forme nere, diritte,
indistinte, terribili. erano le ombre di una pattuglia di agenti di polizia che esplorava-
no i condotti sotterranei di Parigi per controllare che non fossero stati presi come
rifugio dagli insorti.
Nell’istante in cui la ronda diresse la luce della lanterna verso Jean valjean, egli
si fermò, appiattendosi contro il muro per non essere scorto; non udendo alcun ru-
more, il gruppo di agenti si convinse che in quella direzione non c’era nessuno e si
rimise in marcia, lasciandosi alle spalle i due fuggitivi.
il silenzio ridivenne profondo e l’oscurità completa. anche Jean valjean riprese il
suo arduo cammino; le pareti umide e il pavimento viscido offrivano cattivi punti di
appoggio; per non fare urtare Mario nel soffitto, era costretto a curvarsi, barcol-
lando ad ogni passo, mentre avvertiva tra i piedi i rapidi guizzi dei sorci. la sua for-
za prodigiosa cominciava a cedere; sentiva aumentare il peso del fardello che ave-
va sulle spalle e la fatica assalirlo.
ad un tratto sentì che sotto i piedi aveva non più terreno solido, ma melma. in
quel punto il fondo della fogna crollava, formando un crepaccio di fango, che nel
linguaggio tecnico veniva denominato “fontis”. le sabbie mobiliG
a attoquasi sempre
sono
i c
na la terra, è lenta per affondamento; comunque sia, Molanprima
implacabili; se l’acqua domina, la morte è improvvisa per inghiottimento; se domi-
legge di salvezza è
liberarsi di qualsiasi fardello; ma a Jean valjean non sfiorava nemmeno l’idea di ab-
bandonare Mario.
contemporaneamente allo svolgersi di questi eventi, nelle vicinanze soprastanti,
stava accadendo un altro fatto inquietante. Due uomini sulla ripa della senna,
separati da una certa distanza, parevano osservarsi, l’uno evitando l’altro. sembrava
una partita di scacchi giocata in silenzio, da lontano. i due individui proseguivano
lentamente, quasi ciascuno temesse, con un movimento troppo affrettato, di far
raddoppiare il passo all’avversario: si trattava di un agente di polizia, che pedinava
un sospetto criminale.
l’uomo pedinato giunse ad una collinetta; la doppiò per non essere più scorto
dall’inseguitore e sparì.
l’agente ebbe un attimo di esitazione; la sua preda pareva scomparsa nel nulla;
poi, improvvisamente, scorse nel punto in cui finiva la terra e incominciava l’acqua
un cancello largo e basso, guarnito di tre cardini massicci e di una grande serratu-
ra; al di là delle pesanti sbarre arrugginite si poteva distinguere un lungo corridoio
buio: era uno scolo che si riversava nella senna, dentro al quale il bandito s’era si-
cramente rifugiato.
Quel cancello era stato aperto e richiuso con una chiave; quindi l’agente si pose
in agguato con la paziente collera del cane di punta.
Jean Valjean era incappato in un “fontis”, una specie di frana, che forma un gran-
de pozzo, dovuto al cedimento del selciato mal sostenuto dalla sabbia sottostante.
il suolo della fogna, smosso, si era inabissato nella melma. era un pozzo di melma
in una caverna di tenebre.
Jean valjean sentì il selciato sfuggirgli sotto i piedi. entrò nel fango. c’era acqua
nella superficie e fango nel fondo. bisognava per forza andare avanti. ben presto
ebbe il fango fino ai malleoli e l’acqua al di sopra delle ginocchia. Di mano in mano
che avanzava, cresceva la melma e cresceva l’acqua.
ad un certo punto dovette rovesciare indietro il viso, per sfuggire all’acqua e po-
ter respirare. vedeva sopra di sé la faccia livida e il capo penzolante di Mario. Fece
uno sforzo disperato e lanciò un piede in avanti: il piede urtò un non so che di soli-
do, un punto d’appoggio. era tempo! il punto d’appoggio era il principio del versan-
te opposto del pozzo che si era piegato senza rompersi.
Jean valjean non dovette far altro che risalire il piano inclinato per giungere al-
l’altro lato del franamento. Uscendo dall’acqua incespicò in una pietra e cadde in gi-
nocchio. stette così per un po’, poi si raddrizzò rabbrividendo, intirizzito, sudicio,
curvo sotto il moribondo che trascinava con sé, tutto gocciolante di fango, con l’ani-
mo pieno di uno strano chiarore. ancora una volta si rimise in cammino. lo sforzo
per superare il “fontis” l’aveva spossato. alzò gli occhi e all’estremità del sotterra-
neo scorse una luce. stavolta non era più la luce terribile; era la luce amica. la lu-
ce del giorno.
Jean Valjean vedeva l’uscita. Non sentì più la fatica, né il peso di Mario. più che

Mon
camminare egli corse. giunse all’uscita e si fermò. Non poteva uscire. l’arcata era
chiusa da un robusto cancello che, secondo ogni apparenza, doveva girare rara-

icaG
mente sui suoi cardini ossidati. era fissato alla sua intelaiatura da una grossa serra-
tura, che, rossa di ruggine, pareva un enorme mattone. al di là del cancello, l’aria
libera, il fiume, la luce. Jean valjean depose Mario lungo il muro, poi s’avvicinò al

atto
cancello e si aggrappò alle sbarre.
la scossa fu forte, ma inutile lo scotimento. l’inferriata non tremò neppure. era
finita. tutti gli altri sbocchi dovevano essere chiusi allo stesso modo. tutto quello
che Jean valjean aveva fatto era stato inutile. volse le spalle al cancello e cadde sul
pavimento. Nessuna via d’uscita. era l’ultima goccia dell’angoscia.
Ma ecco che in quel momento sentì una mano posarsi sulla spalla e una voce che
gli sussurrò in un orecchio: «Facciamo a metà!». Un uomo gli stava dinanzi: era
thénardier, che era sfuggito al poliziotto. pensando che Jean valjean avesse ucci-
so l’uomo che era steso a terra per rapinarlo, propose ancora una volta di fare a
metà del bottino; in compenso egli gli avrebbe aperto il cancello: aveva la chiave,
celata sotto il camiciotto sbrindellato. gliela mostrò. Jean valjean restò come istu-
pidito.
thénardier trasse anche una corda da una larga saccoccia e gliela diede: sareb-
be servita per gettare il cadavere nel fiume. gli chiese poi quanto c’era nelle tasche
dell’ucciso.
Jean valjean purtroppo si era dimenticato di portarsi dietro il portafogli. Non ave-
va che qualche moneta nella tasca del panciotto; il tutto ammontava ad una tren-
tina di franchi.
thénardier, vedendo il magro bottino, cominciò a palpare le tasche di Jean valjean
e di Mario. Non trovò nulla. però nel palpare il vestito di Mario, riuscì a strapparne
un lembo di stoffa, senza che Jean valjean se ne accorgesse. poi, dimenticando la
frase: facciamo a metà, intascò tutto. ad operazione compiuta, aiutò Jean valjean
a caricarsi Mario sulle spalle, si avvicinò al cancello, gettò uno sguardo fuori, poi
introdusse la chiave nella serratura. la stanghetta scivolò e la porta girò sui cardi-
ni senza alcun cigolio. evidentemente veniva aperto più spesso di quanto si potes-
se supporre. Questo faceva pensare ad un traffico di delinquenti.
Jean Valjean si trovò fuori, davanti al fiume che lambiva i suoi piedi. si chinò,
prese un po’ d’acqua nel cavo della mano e spruzzò qualche goccia sul viso di Mario.
le palpebre del giovane non si sollevarono, ma la sua bocca semiaperta respirava.
Jean valjean stava per tuffare nuovamente la mano nel fiume, quando ebbe l’im-
pressione che ci fosse qualcuno alle sue spalle.
si voltò e vide davanti a sé Javert, che, come abbiamo visto, aveva pedinato M onic
poco
prima thénardier. Questi sapeva che il poliziotto stava là, davanti al cancello, in at- aG
tesa. aprendo il cancello d’uscita a Jean valjean, si sarebbe liberato del poliziotto.
Questo non riconobbe subito l’ex galeotto; per questo appoggiò le sue possenti
mani sulle spalle dello sconosciuto, lo guardò attentamente e lo riconobbe.
lo sguardo di Javert divenne terribile. chiese a Jean valjean che cosa facesse lì
e chi era quell’uomo svenuto. venne così a sapere tutta la storia. Non fece fatica a
credere alle parole dell’interrogato, perché, da buon poliziotto, aveva osservato e
ascoltato tutto quand’era prigioniero alla barricata. sapeva chi era Mario. afferrò la
mano del giovane, tastandogli il polso. sentenziò che era morto. per Jean valjean
invece era ancora vivo. precisò che Mario abitava in via delle Figlie del calvario, in
casa di suo nonno, di cui non ricordava il nome. Frugò nell’abito del ferito, ne
estrasse il portafogli, aprì il quaderno alla pagina scarabocchiata da Mario e la tese
a Javert, che lesse: «gillenormand, via delle Figlie del calvario, n. 6».
l’ispettore chiamò il cocchiere, al quale ordinò di portare subito una carrozza.
Quando questa arrivò, tutti vi salirono e subito dopo la carrozza partì verso la casa
di Mario.
era notte fonda quando il veicolo arrivò a destinazione. Nel caseggiato tutti
dormivano e Javert interpellò il portiere, che aiutò i due uomini a portare Mario fino
al terzo piano. venne chiamato d’urgenza il medico, che dopo una visita accurata,
non rilevò alcuna lesione interna; una pallottola gli era penetrata tra le costole, ma
la piaga non era profonda.
Mentre il dottore lavava il viso e i capelli di Mario, apparve, in fondo al salone, il
signor gillenormand. il rumore lo aveva svegliato e senza capire cosa stesse acca-
dendo, si era spinto fino alla stanza da cui proveniva la luce. il vecchio era ritto sulla
soglia con la testa tremolante e l’aria stupita; vedendo Mario disteso sul divano, tut-
to coperto di piaghe, con gli occhi chiusi, le labbra smorte e il viso d’un pallore
mortale, trasalì ed esclamò: «ah, il brigante; è morto! si è fatto ammazzare alla
barricata, per odio verso di me!». poi si avvicinò alla finestra ed incominciò un lun-
go, delirante soliloquio, in cui erano mischiati ricordi d’infanzia del nipote, impreca-
zioni, parole di affetto e di rimpianto, finché Mario, ad un tratto, aprì lentamente gli
occhi. «Figlio mio caro», gridò il nonno. «tu mi guardi, sei vivo! grazie!». e dopo
queste parole cadde svenuto.
Nel frattempo Jean valjean e Javert se n’erano andati. risaliti sulla carrozza, Jean
valjean aveva espresso un ultimo desiderio: recarsi per un momento soltanto in
casa sua, in via dell’Uomo armato, n. 7.
Javert acconsentì e quando arrivarono sotto il portone congedò la carrozza e dis-
se che avrebbe atteso in istrada. giunto al primo piano, Jean valjean si affacciò al-
la finestra per guardare nella via e provò uno stupore che lo abbagliò: la strada era

Mon
deserta. Javert se n’era andato.

ica
- libro iV -
Javert fuori strada
Javert si era allontanato a passi lenti. per la prima volta in vita sua egli cammina-
va a testa bassa e con le braccia dietro la schiena. raggiunse la senna in un pun-
to dove la corrente è molto forte. le persone che cadono in quei gorghi, non ricom-
paiono più. anche i migliori nuotatori vi affogano.
Javert, poggiati i gomiti sul parapetto, si prese il mento tra le mani e sprofondò
in una grave meditazione. grande era la sua angoscia a causa della grave decisio-
ne che aveva preso. Una cosa soprattutto lo stupiva, cioè che Jean valjean gli aves-
se fatto grazia, ed una cosa l’aveva pietrificato, che lui, Javert, avesse fatto grazia
a Jean valjean.
che fare ora? Denunciare Jean valjean era male; lasciarlo libero era male. era
chiaro che bisognava tornare indietro e arrestare l’ex galeotto. Ma Javert non se la
sentiva. Un forzato che non si poteva acciuffare e consegnare alla giustizia! e que-
sto per causa di Javert!
Questi era costretto a riconoscere che la bontà esisteva. Quel forzato era stato
buono. ed egli stesso, cosa inaudita, era stato buono. Dunque, stava depravando-
si. Questi e molti altri pensieri tormentavano l’animo di Javert. Questi, ad un certo
punto, abbandonò il parapetto e, a testa bassa, si diresse verso il vicino posto di
polizia. vi entrò e sedette al tavolino, su cui ardeva una candela.
v’erano sul tavolino una penna, un calamaio e carta per eventuali processi verbali
e per le relazioni delle ronde notturne.
Javert prese la penna, un foglio di carta e si mise a scrivere quanto segue:
Qualche osservazione nell’interesse del servizio.
«primo: prego il signor prefetto di polizia di prestare attenzione a quanto segue.
«secondo: i detenuti che ritornano dall’interrogatorio si levano le scarpe e duran-
te la perquisizione restano a piedi nudi sull’ammattonato. parecchi, rientrando in
prigione, tossiscono. ciò provoca spese d’infermeria.
«terzo: la “filatura” è un buon metodo, con ricambi di agenti di tratto in tratto,
ma bisognerebbe che, in taluni casi importanti, almeno due agenti non si perdesse-
ro di vista, acciocché nel caso in cui per una qualunque ragione, un agente venis-
se a mancare nel suo servizio, l’altro lo sorvegli e lo sostituisca.
«Quarto: non ci si spiega perché il regolamento speciale della prigione delle Ma-
delonnettes interdisca ai prigionieri di avere una sedia sia pure a pagamento.
«Quinto: alle Madelonnettes, non vi sono che due sbarre alla finestra della canti-
na, il che permette alla cantiniera di lasciarsi toccare le mani dai detenuti.
«sesto: i detenuti detti “abbaiatori”, perché chiamano gli altri detenuti al parlato-
rio, si fanno pagare dal prigioniero due soldi per gridare il suo nome distintamente.
È un furto.
«settimo: nel laboratorio di tessitori si trattengono al detenuto dieci soldi per
ogni filo corrente; è un abuso dell’appaltatore, perché la tela non ne risulta meno
buona.
«ottavo: è spiacevole che i visitatori della Force debbano attraversare la corte dei
ragazzi per recarsi al parlatorio di santa Maria egiziaca.
«Nono: è fatto accertato che si odono ogni giorno i gendarmi raccontare nel
cortile della prefettura di polizia gli interrogatori fatti agli imputati da parte dei
magistrati. per un gendarme, che dovrebbe essere sacro, il ripetere quello che ha
inteso nel gabinetto del giudice istruttore, è un grave abuso.
«Decimo: la signora henry è una donna onesta: la sua cantina è pulitissima, ma
è male che una donna tenga la chiave dello sportello della camera di sicurezza. ciò
non è degno della conciergerie di una grande civiltà».
Javert vergò queste righe con la sua scrittura più calma e corretta, senza omette-
re una virgola, facendo stridere vigorosamente la penna sulla carta. sotto l’ultima
riga egli firmò:
«Javert – ispettore di 1° classe.
Dal posto di polizia dello châtelet.
7 giugno 1832 a circa un’ora del mattino».
Mo
Javert fece asciugare l’inchiostro sulla carta, poi la piegò come se si trattasse di
nic
una lettera, la sigillò, vi scrisse sopra: Nota per l’amministrazione; lasciò la lettera
aG
att
o
sul tavolo ed uscì dal posto di polizia. attraversò di nuovo la piazza e raggiunse
esattamente lo stesso punto, sul lungo fiume, lasciato un quarto d’ora prima.
era l’ora che segue la mezzanotte. l’oscurità era completa. il punto era quello
dove la senna è più rapida. Javert chinò la testa e guardò giù. Non si vedeva nulla.
si sentiva soltanto il rumore dell’acqua.
Javert rimase a lungo immobile, fissando quella voragine di tenebre. poi di botto
si tolse il cappello e lo posò sul parapetto. Un istante dopo una figura alta e nera
apparve ritta sul parapetto, si chinò verso la senna, poi piombò diritta nelle tene-
bre. vi fu un tonfo sordo e le tenebre sole conobbero il segreto delle convulsioni di
quella forma oscura scomparsa sott’acqua.

- libro V -
il nipote e il nonno
Mario fu per lungo tempo tra la vita e la morte. spesso nel delirio ripeteva il nome
di cosette e finché non cominciò a ristabilirsi, il nonno rimase al suo capezzale.
Quando il dottore annunciò che finalmente era fuori pericolo, il vecchio gillenor-
mand fu investito da un’entusiastica gioia, che aumentò di giorno in giorno.
Mario, invece, sembrava malinconico; si lasciava medicare e curare in silenzio. gli
to
G at
avvenimenti di via chanvrerie erano, nel suo ricordo, come avvolti in una nube; om-
a
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Mon
bre quasi indistinte fluttuavano nella sua mente: eponina, gavroche, Mabeuf, Fau-
chelevent e la sua enigmatica apparizione fra il fumo della barricata.
Non comprendeva come si trovasse in vita, non sapeva come e da chi fosse stato
salvato; tutto quello che avevano saputo dirgli era che l’avevano riportato di notte,
in una carrozza, sino in via delle Figlie del calvario, ma nessuno si ricordava l’aspet-
to dei due uomini misteriosi che l’avevano sin lì accompagnato.
Ma, al di sopra di tutti questi confusi pensieri, dentro di sé sentiva, pressante, il
desiderio di ritrovare cosette per sposarla.
la benevolenza del nonno durante tutta la convalescenza spinse Mario a
confessare ciò che tormentava la sua anima.
la reazione del vecchio gillenormand fu inaspettata; con gli occhi raggianti di al-
legria disse:
«sì, l’avrai la tua bella fanciulla. ella viene tutti i giorni a prendere tue notizie; è
un gioiello e ti adora. la vedrai domani, e che tu sia felice, figlio mio caro!».
l’incontro tra i due giovani fu incantevole. cosette era inebriata, rapita, sgomen-
ta; tutta la famiglia era presente, compreso Fauchelevent, in disparte vicino all’uscio.
Quando la prima ondata di felicità cominciò a placarsi, Jean valjean annunciò, fra
lo sbalordimento generale, che per il futuro matrimonio cosette avrebbe portato in
dote circa seicentomila franchi (era la somma guadagnata con la vecchia fabbrica
di Montreuil, meno le spese di dieci anni).
Nei giorni seguenti Jean Valjean si preoccupò di risolvere anche il delicato pro-
blema dello stato civile di cosette. temendo che, confessando la sua vera origine,
il matrimonio potesse andare a monte, riuscì a farla risultare come l’unica supersti-
MonicaGatto
te di una famiglia estinta; egli quindi non risultava essere il padre, ma solamente il
tutore.
trascorsero alcune splendide settimane di felicità, animate dai preparativi per il
matrimonio. Ma per quanto l’incanto fosse grande, esso non riuscì a cancellare dalla
mente di Mario due tormentose preoccupazioni.
Una riguardava thénardier. anche se si trattava di uno scellerato e di un bandi-
to, ciò non toglieva nulla al fatto che egli aveva salvato suo padre; e Mario lo vole-
va ritrovare per esprimergli riconoscenza. Ma thénardier, per timore di un arresto, si
era reso assolutamente irreperibile, sprofondando nell’abisso delle miserie sociali.
l’altro cruccio riguardava il suo salvatore, l’uomo che lo aveva sottratto alla barri-
cata e portato non si sa attraverso quali rischi e peripezie, fino alla casa del signor
gillenormand. Ma anche in questo caso le sue ricerche erano state tutte vane;
nessuna traccia e nessun indizio di quell’uomo misterioso venuto dal nulla e riscom-
parso nel nulla.

- libro Vi -
la notte insonne
il 16 febbraio 1833 fu la data delle nozze di Mario e di cosette; la cerimonia fu
intima e dolce, e durante tutta la serata regnò un allegro e vivace entusiasmo.
solo Jean valjean si era tenuto un po’ in disparte e, senza farsi notare da nessu-
no, aveva presto lasciato quella casa felice, per recarsi in via dell’Uomo armato.
il suo appartamento era desolante: gli armadi erano stati svuotati e un silenzio
angosciante aleggiava tra le stanze. il suo sguardo cadde sulla valigetta che per an-
ni si era portato appresso; l’aprì; essa conteneva i panni con i quali, dieci anni pri-
ma, cosette aveva lasciato Montfermeil. cominciò, con le lacrime che gli scorreva-
no sul viso, a ricordare: era un inverno freddissimo e cosette tremava nei suoi cen-
ci, trasportando a fatica un grande secchio; immersi nel buio del bosco camminava-
no, lui e quella piccola bambina, tenendosi per mano, ed ella non aveva che lui al
mondo.
allora, quella venerabile testa canuta ricadde sul letto e la faccia si inabissò, per
così dire, nelle vesti di cosette, e, se in quel momento qualcuno fosse passato sulla
scala, avrebbe sentito forti singhiozzi.
Dunque, la vecchia lotta formidabile, della quale abbiamo già visto parecchie fasi,
ricominciò. Quante volte non abbiamo visto Jean valjean in lotta serrata e disperata
con la sua coscienza? ora tale lotta ricominciava implacabile dopo le nozze di cosette
con Mario. il problema era questo: in quale modo si sarebbe comportato Jean
Monica
Valjean di fronte alla felicità di cosette e di Mario? Quella felicità era lui che l’aveva
Gatto
voluta, era lui che l’aveva fatta. cosette aveva Mario, e Mario possedeva cosette.
essi avevano tutto, anche la ricchezza. e ciò era opera sua. Ma di quella felicità che
cosa stava per fare, egli, Jean valjean? sarebbe rimasto quella specie di padre un
po’ in disparte, ma rispettato? avrebbe apportato, senza dir parola, il suo passato a
quell’avvenire? avrebbe condiviso le sorti di cosette e di Mario? avrebbe unito, come
intruso, alle loro felicità la sua catastrofe? avrebbe continuato a tacere?
esaminò l’inesorabile problema sotto tutti i suoi aspetti. cosette, quella incante-
vole esistenza, era la zattera di quel naufragio. che fare? aggrapparvisi o abbando-
nare la stretta? se vi si fosse aggrappato, sarebbe uscito dal disastro, sarebbe risali-
to alla luce del sole, si sarebbe salvato ed avrebbe vissuto. e se avesse abbandona-
to la stretta? sarebbe stato l’abisso.
Questi erano i drammatici interrogativi che si poneva e su di essi a lungo meditò.
alla fine entrò nella calma della prostrazione. pesò, meditò e studiò le alternative
della misteriosa bilancia di luce e d’ombra. o imporre la sua galera a quei due giova-
ni splendenti, o consumare da solo il suo irrimediabile affondamento. a quale solu-
zione si fermò? Quale determinazione prese? la sua vertiginosa meditazione durò
tutta la notte.

- libro Vii -
l’ultimo sorso del calice
i giorni successivi alle nozze sono cari alla solitudine. si rispetta il raccoglimento
dei felici ed anche un po’ il loro sonno attardato.
il 17 febbraio era già passato da poco il mezzogiorno, quando Jean Valjean si
presentò in via delle Figlie del calvario e bussò alla porta della casa dei due giova-
ni sposi. gli venne ad aprire il domestico basco, al quale Jean valjean chiese se il
signor pontmercy s’era alzato. basco disse che sarebbe andato a vedere.
Jean valjean rimase solo nel salotto ancora in disordine per il matrimonio avvenuto
il giorno prima. Dopo pochi minuti si sentì un rumore alla porta. Mario entrò, a testa
alta, con la bocca ridente, un non so che di luminoso nel volto e lo sguardo felice.
«siete voi, papà!», esclamò, scorgendo Jean valjean.
Quella parola: papà, significava per Jean valjean la suprema felicità. vi era sem-
pre stato fra loro una certa freddezza.
Mario dichiarò di essere felicissimo di rivederlo; di aver sentito la sua mancanza
il giorno prima. chiese anche notizie della mano, che aveva visto fasciata il giorno
precedente. e proseguì: «cosette vi ama tanto! Non dimenticate che voi avete qui
la vostra camera. Non ne vogliamo più sapere della via dell’Uomo armato, squalli-
da e brutta. Da oggi starete qui con noi, come a casa vostra». e continuò in que-
ste sue esternazioni di affetto.
Ma a questo punto Jean Valjean disse: «Signore, debbo dirvi una cosa. io sono
un ex forzato.» poi, togliendosi la benda attorno alla mano, disse di aver finto quel-
la ferita per non dover firmare il falso e rendere così nullo il matrimonio. egli infatti
non era il signor Fauchelevent, ma Jean valjean, condannato per furto a diciannove
anni di galera e successivamente all’ergastolo. egli non era il padre di cosette, con
la quale non c’era alcuna parentela. Dieci anni prima non sapeva neppure che esi-
stesse. ella era orfana, senza padre e senza madre. ella aveva bisogno di aiuto.
ecco perché egli s’era messo ad aiutarla e ad amarla. oggi ella non appartiene più
alla sua vita, è diventata la signora pontmercy e non ha più bisogno di lui. Quanto
ai seicentomila franchi, si trattava di un deposito. in che modo quel deposito fosse
giunto nelle sue mani non era il caso di spiegarlo. egli lo restituiva.
Mario, di fronte a queste rivelazioni, rimase sbalordito; infine esclamò: «Ma per-
ché mi dite tutto questo? chi vi costringe a farlo? potevate tenere per voi il vostro
segreto. Non siete né denunciato, né inseguito, né perseguitato. per quale motivo

tto
fate questa confessione?».

Ga
Jean valjean con voce tanto bassa e tanto sorda che si sarebbe detto parlasse più
a se stesso che a Mario, rispose: «per quale motivo? per un motivo strano, per one-
nica
stà. certamente sono uno sciocco. perché non restare? voi mi offrite una camera nel-
la casa e la signora pontmercy non chiede di meglio che d’avermi con sé. avremo così
Mo

in comune il tetto, la mensa, il focolare, lo stesso cantuccio davanti al camino, la stes-


sa passeggiata estiva. È la gioia, questa, la felicità e tutto. vivremo in famiglia!».
a quella parola Jean valjean divenne terribile. incrociò le braccia, fissò il pavi-
mento e la sua voce assunse ad un tratto un tono drammatico: «in famiglia? No.
io non sono di nessuna famiglia. Non lo sono della vostra, né lo sono di quella degli
uomini; nelle case in cui si è in famiglia, io sono di troppo. io sono lo sciagurato, io
sono l’escluso. il giorno in cui ho maritato quella fanciulla è finita: l’ho vista felice,
ho visto ch’ella era con l’uomo da lei amato, che c’era con essi un buon vecchio; ho
visto che c’era una famiglia di due angeli e tutte le gioie in quella casa e mi son det-
to: tu non entrare. avrei potuto mentire e restare il signor Fauchelevent. l’ho fatto
finché è stato per lei. Ma ora sarebbe per me, e non debbo farlo. Voi mi chiedete
che cosa mi costringe a parlare? una cosa buffa: la mia coscienza».
e tante altre cose disse su questa sua situazione certamente anomala. respirò a
fatica e poi disse questa ultima frase: «Un tempo, per vivere, rubai un pane; oggi,
per vivere, non voglio rubare un nome».
vi fu una pausa. ambedue tacevano, ciascuno nel turbine dei suoi pensieri. Mario
non sapeva cha cosa dire. ad un certo momento la porta si socchiuse dolcemente
e nell’apertura apparve il capo di cosette. si scorgeva soltanto il suo dolce viso; era
deliziosamente spettinata e aveva le palpebre ancora gonfie di sonno.
guardò prima il marito e poi Jean valjean e gridò loro ridendo: «scommetto che
parlate di politica! Ma che sciocchezza! invece di stare con me!».

MonicaGatto
«t’inganni, cosette,» rispose Mario. «stavamo parlando d’affari; parlavamo del
miglior modo d’investire i tuoi seicentomila franchi».
cosette avrebbe voluto sedere vicino a loro e ascoltare soltanto. Ma il marito
insistette perché ella si ritirasse. ella volle prima abbracciare chi per lei era suo
padre; poi, seppure a malincuore, se ne andò. i due rimasero soli.
Jean valjean, pensando a cosette, implorò Mario di non dirle nulla del loro col-
loquio e il giovane promise che avrebbe tenuto il segreto per sé. Un’ultima cosa
Jean valjean chiese a Mario: di poter venire ogni tanto a vedere cosette. Mario ri-
spose che poteva venire tutte le sere. ottenuta questa concessione, Jean valjean
se ne andò.
Mario era sconvolto. Quella specie di avversione che aveva sempre provato per
quell’uomo vicino al quale vedeva cosette, aveva avuto la sua spiegazione. in
quell’uomo c’era qualcosa di misterioso, che il suo istinto avvertiva. e quell’enigma
era tra le più orribili delle vergogne. la felicità di Mario e di cosette era ormai
condannata ad una simile vicinanza? era un fatto compiuto? l’accettazione di quel-
l’uomo faceva parte del matrimonio? Non v’era più nulla da fare? Mario aveva spo-
sato anche il forzato?
Mario si chiedeva anche se non avesse qualcosa da rimproverarsi. così ricordava
che nell’ebbrezza del suo amore, egli non aveva mai parlato a cosette di quell’enig-
matico dramma della topaia gorbeau.
come aveva fatto a non averle mai nominato neppure i thénardier? ora faceva
fatica a spiegarsi il suo silenzio d’allora. indubbiamente l’amore gli aveva bendato
gli occhi.
pur detestando Jean valjean, provava anche una certa compassione e una certa
sorpresa per quell’uomo. Quel ladro aveva restituito un deposito. e che deposito!
seicentomila franchi. e il segreto di quel deposito lo conosceva solo lui: poteva te-
nersi tutto e invece aveva restituito tutto. inoltre aveva spontaneamente rivelato
tutto, sebbene nulla ve lo costringesse.
Mario si chiedeva poi perché quell’uomo fosse andato alla barricata e lì non aves-
se combattuto. ricordava la funebre visione di Jean valjean che si portava fuori dal-
la barricata Javert legato e sentiva ancora lo spaventoso colpo di pistola. era an-
dato forse alla barricata per vendicarsi? e infine un’ultima domanda e anche a que-
sta nessuna risposta: com’era avvenuto che Jean valjean avesse così a lungo vis-
suto con cosette?
Di fronte a tutte queste domande, che non avevano risposta, Mario finiva per
avere sempre un certo orrore di Jean Valjean.
Dato questo stato d’animo, il pensare che quell’uomo avrebbe avuto un contatto
qualunque con cosette, suscitava in Mario una specie di orrore. Non era facile na-
sconderlo a cosette, ma Mario ci riuscì.

- libro Viii -
decrescenza crepuscolare
trascorsero parecchie settimane e di giorno in giorno nuove abitudini si impadro-
nirono di cosette. i suoi divertimenti si potevano riassumere in uno solo: stare vici-
no a Mario.
Jean Valjean andava sempre a trovarla, anche se provava la vaga sensazione che
Mario lo volesse allontanare da lei. scoprì persino che non era stato toccato nean-
che un soldo della somma che egli aveva donato a cosette. probabilmente Mario
aveva dei dubbi sull’origine di quei seicentomila franchi e gli ripugnava l’idea di
usarli. MonicaGatto
Jean valjean decise di adeguarsi al volere dell’uomo che cosette amava; comin-
ciò a diradare le sue visite; e infine, per giustificare la sua futura assenza e tranquil-
lizzare cosette, annunciò che sarebbe partito per un viaggio. in realtà, continuava
a vivere in via dell’Uomo armato ed ogni giorno, all’imbrunire, si recava a passi lenti
fino all’angolo della via delle Figlie del calvario; lì si arrestava, sporgeva il capo con
una specie di timidezza cupa verso la casa dove abitava cosette e, con gli occhi pie-
ni di lacrime, pareva guardasse il riverbero d’un paradiso perduto. restava così per
qualche minuto, poi tornava indietro e, a mano a mano che si allontanava, il suo
sguardo si spegneva.

- libro iX -
ombra suprema, suprema aurora
avremmo torto, precisa l’autore, ad accusare Mario. egli si era limitato ad allon-
tanare Jean valjean dalla sua casa e a cancellarlo più che poteva dalla mente di
cosette. credeva di avere delle ragioni serie e faceva quello che giudicava necessa-
rio e giusto.
cosette era naturalmente all’oscuro dei segreti che Jean valjean aveva confes-
sato a Mario durante il loro colloquio. Fra lei e il marito v’era una specie di magne-
tismo magico, che la portava a fare per istinto e quasi macchinalmente tutto quel-
lo che Mario desiderava.
il destino aveva così voluto che Jean valjean perdesse per sempre ciò che era
stata, in quegli ultimi dieci anni, la luce della sua anima. pian piano anche le forze
cominciavano a venirgli meno; non usciva più di casa ed in poco tempo gli fu im-
possibile alzarsi persino dal letto; la portinaia gli preparava giornalmente un magro
pasto, che però, a malapena, il vecchio riusciva ad assaggiare.
Una sera Jean valjean fece fatica a sollevarsi sul gomito. si prese la mano e non
sentì il polso. la sua respirazione era corta e di tanto in tanto s’arrestava. riconobbe
di essere più debole di quanto non lo fosse mai stato. Fece uno sforzo e riuscì a
fatica a vestirsi. poi aprì la valigia e ne trasse il corredo di cosette e lo spiegò sul
letto.
i candelabri del vescovo erano al loro posto, sul camino. egli prese due candele
e le mise nei candelabri; poi, benché fosse giorno, le accese. ogni passo che face-
va, lo stancava al punto che doveva sedersi. si guardò allo specchio e non si
riconobbe. aveva ottant’anni, ma prima del matrimonio ne dimostrava cinquanta:
quell’anno aveva contato per trenta.
era notte. trascinò a fatica una tavola e la vecchia poltrona vicino al camino e
posò sulla tavola la penna, il calamaio e la carta. con mano tremante scrisse que-
ste parole: «cosette, ti benedico. ora ti spiegherò: tuo marito ha avuto ragione di
farmi capire che dovevo andarmene; però vi è un po’ d’errore in quello che egli ha
creduto; ma ha avuto ragione. È un bravo giovane: amalo sempre molto, quando
sarò morto. signor pontmercy, amate sempre la mia figliuola adorata. cosette, tro-

MonicaGatto
verai questo foglio, ecco cosa voglio dire; vedrai le cifre, se avrò la fortuna di ricor-
darmele, e ti convincerai che quel denaro è proprio tuo. ecco tutta la faccenda: il
giavazzo bianco viene dalla Norvegia, il giavazzo nero viene dall’inghilterra, le con-
terie nere vengono dalla germania. basta una piccola incudine di tre pollici quadrati
ed una lampada a spirito, per rammollire la cera. la cera una volta veniva fatta con
la resina e il nerofumo, e costava quattro franchi la libbra; io ho pensato di farla con
la gomma lacca e con la trementina; così non costa più di trenta soldi ed è miglio-
re. i fermagli si fanno con una pietra violetta che viene incollata con quella cera su
incastonatura di ferro; la pietra deve essere violetta per gli ornamenti in ferro e nera
per i gioielli d’oro. la spagna ne compera molto: è il paese del giavazzo …».
si fermò. la penna gli cadde dalle dita e incominciò a singhiozzare. si prese il ca-
po fra le mani e meditò.
«oh!» esclamò dentro di sé. «È finita. Non la rivedrò più. È stato un sorriso che
è passato sopra di me. entrerò nelle tenebre senza neppure rivederla. almeno per
un minuto sentire la sua voce, toccare la sua veste, guardarlo quell’angelo, e poi
morire. Morire è nulla; ciò ch’è spaventoso è morire senza rivederla. Mio dio! Non
la rivedrò più». in quel momento bussarono alla porta.
Quella stessa sera Mario si era appena alzato da tavola e s’era ritirato nello stu-
dio, quando Basco gli consegnò una lettera, dicendo che la persona che l’aveva
scritta attendeva in anticamera.
cosette passeggiava in giardino col nonno. Mario prese la lettera e udì un forte
odore di tabacco. guardò l’indirizzo. al signor, signor barone pontmercy. Nel suo
palazzo. l’odorato potente del tabacco gli fece riconoscere la scrittura. Mario fu co-
me illuminato da un lampo: rivide la tana Jondrette. aprì la lettera con nervosismo
e lesse:
«signor barone,
«se l’essere supremo me ne avesse dato i talenti, io avrei potuto essere il baro-
ne thénard membro dell’istituto (accademia delle scienze), ma non lo sono. porto
soltanto lo stesso nome suo, felice se questo ricordo mi raccomanda all’eccellenza
della vostra bontà. la beneficienza di cui m’onorerete sarà reciproca. io sono in
possesso di un segreto che interessa un uomo che vi interessa. tengo il segreto a
vostra disposizione desiderando di avere l’onore di esservi utile. vi darò il mezzo
semplice di cacciare dalla vostra onorabile famiglia quest’individuo che non vi ha di-
MonicaGatto

ritto, essendo la signora baronessa d’alta nascita. il santuario della virtù non po-
trebbe più a lungo coabitare col delitto senza abdicare. aspetto nell’anticamera gli
ordini del signor barone. con rispetto». la lettera era firmata thénard.
il contenuto e l’ortografia completavano la rivelazione. Mario aprì un cassetto del-
la scrivania, ne tolse alcuni biglietti di banca, se li mise in tasca e suonò, ordinan-
do a basco di far entrare.
entrò un uomo che, con meraviglia, Mario non riconobbe, anche per il vestito tut-
to nero, molto consumato, ma decente. la delusione di Mario di vedere entrare un
uomo diverso da quello che attendeva, fu grande. con voce dura chiese che cosa vo-
lesse. l’uomo si dilungò a lungo a descrivere un villaggio chiamato la Joya, che si
trova dalle parti di panama, che si compone d’una sola casa quadrata, a tre piani,
ogni lato della quale è lungo cinquecento piedi. Nel centro del palazzo c’è un cortile,
pieno di munizioni e di provviste. Non ci sono finestre, ma soltanto feritoie; non por-
te, ma soltanto scale; non porte alle stanze, ma botole. alla sera si chiudono le bo-
tole, si ritirano le scale, si appoggiano i tromboni e le carabine alle feritoie; dunque
casa di giorno e fortezza di notte. perché tante precauzioni? perché gli abitanti della
casa hanno paura dei cannibali, di cui è piena la regione in cui si trova il villaggio.
«che cosa volete concludere?», interruppe Mario, che dalla delusione era passa-
to all’impazienza.
lo sconosciuto disse di essere un antico diplomatico che, stanco del mondo in cui
viveva, voleva andare a Joya con la moglie e la figlia. aggiunse che aveva un se-
greto interessante per il barone: era disposto a venderlo.
per dimostrare che il segreto era interessante, gli anticipò che il signor barone
aveva in casa sua un ladro e un assassino; e aggiunse: «assassino e ladro. e tene-
te presente, signor barone, che io non vi parlo qui di fatti antichi, scontati, che si
possono considerare cancellati dalla prescrizione; parlo di fatti recenti, fatti attuali,
finora sconosciuti alla polizia. Quell’uomo si è insinuato nella vostra famiglia sotto
falso nome. si chiama Jean valjean».
«lo so».
«vi dirò pure gratis che è un antico forzato».
aG atto
«lo so». Monic
«Ma c’è un particolare che è noto soltanto a me ed interessa alla fortuna della
baronessa. È da vendere; lo offro a voi per ventimila franchi».
«conosco quel segreto, come conosco tutti gli altri segreti» disse Mario.
«signor barone, facciamo diecimila franchi e parlo».
«vi ripeto che so già quello che volete dirmi».
«bisogna pure che mangi. parlerò, signor barone. Datemi venti franchi. il mio no-
me è thénard...».
«…dier», precisò Mario. «voi siete pure l’operaio Jondrette, l’attore Fabantou, il
poeta genflot e la comare balizard. aggiungo che voi avete tenuto una bettola a
Montfermeil e che siete un pezzente. prendete». e Mario, prendendo dalla tasca un
biglietto da cinquanta franchi, glielo gettò in faccia.
thénardier, sconvolto, afferrò il biglietto e, pur sentendo l’umiliazione, fu felice
di ricevere quel dono. era tuttavia sorpreso, perché egli era venuto per portare lo
stupore, ed era lui che ne riceveva. Non si rendeva conto chi fosse il barone di pont-
mercy. i due restarono a lungo in silenzio, che poi fu interrotto da Mario.
«thénardier, vi ho detto il vostro nome. volete ora che vi dica il segreto che voi
volete comunicarmi? anch’io ho le mie informazioni e la so più lunga di voi. Jean
valjean, come avete detto, è un assassino e un ladro, perché ha derubato un ricco
industriale, il signor Madeleine; un assassino perché ha assassinato l’agente di poli-
zia Javert». thénardier non capiva. Mario glielo spiegò.
«in un circondario del passo di calais c’era un uomo che aveva avuto qualche
pendenza con la giustizia, e che, sotto il nome di Madeleine, s’era sollevato e riabili-
tato. con un’industria era anche diventato ricco e aveva fatto la fortuna di un’inte-
ra città. era il padre e il sostegno dei poveri; fondava ospedali, apriva scuole, visita-
va gli ammalati, dotava le fanciulle, aiutava le vedove, adottava gli orfani, era co-
me il tutore del paese. Non voleva onorificenze; era sindaco. Un forzato latitante,
che conosceva la storia del sindaco, lo denunciò, lo fece arrestare e ne approfittò
per venire a parigi e farsi consegnare dal banchiere lafitte, per mezzo di una firma
falsa, una somma di più di mezzo milione, che apparteneva al signor Madeleine. ora
quel forzato che derubò Madeleine, è Jean valjean. la seconda accusa è quella di
aver ucciso l’agente Javert con una pistolettata».
il furbo thénardier non esitò a dire a Mario: «signor barone, siamo su una falsa
strada. io amo la verità. Jean valjean non ha derubato il signor Madeleine e non ha
ucciso Javert. Non ha derubato il signor Madeleine, perché lo stesso Jean valjean è
Madeleine; non ha ucciso Javert, perché Javert ha ucciso se stesso, suicidandosi.»
per dimostrare che era vero quanto asseriva, trasse da una tasca della giacca due
ritagli di due noti giornali, che riportavano l’uno che Jean valjean e Madeleine era-
no la stessa persona; l’altro che Javert si era suicidato, gettandosi nella senna, ag-
giungendo che da un rapporto scritto dallo stesso Javert al prefetto di polizia, risul-
tava che egli era stato fatto prigioniero nella barricata della via chanvrerie, e che
era debitore della vita alla magnanimità d’un risorto, il quale, avendo avuto l’incari-
co di giustiziarlo, anziché bruciargli le cervella, aveva sparato in aria. il suicidio era
dimostrato dal ritrovamento del cadavere nelle acque della senna. Dunque non
c’erano dubbi: Mario non poté trattenere un grido di gioia.
tuttavia, precisò thénardier, Jean valjean non era un santo e non era un eroe.
era un assassino e un ladro come dimostravano due fatti recenti, che lui solo co-
nosceva. era disposto a svelarli, lasciando al buon cuore del giovane barone fissa-
re la ricompensa.
«signor barone», disse thénardier, «il 6 giugno 1832, il giorno della sommossa,
un uomo si trovava nella grande Fogna di parigi, nel punto in cui la fogna va a
raggiungere la senna. era costretto a nascondersi non per ragioni politiche e ave-
va preso per dimora la fogna, di cui possedeva la chiave. verso sera quest’uomo
sentì un rumore di passi. stupito, si rannicchiò e rimase in agguato. il cancello d’u-
scita non era lontano. la poca luce gli permise di riconoscere il nuovo venuto e di
vedere che quell’uomo portava sulle spalle un cadavere. l’uomo che camminava era
un antico forzato e quello che portava sulle spalle era la sua vittima, che egli ave-
va ucciso per derubarlo. Quel forzato andava a gettare il cadavere nel fiume. Nella
fogna manca tutto, perfino lo spazio, e quando due uomini sono là dentro, bisogna
che s’incontrino. così avvenne. l’inquilino e il passante furono costretti a darsi il
buon giorno. Disse il passante all’inquilino: tu vedi che cosa ho sulle spalle, biso-
gna che esca, tu hai la chiave, dammela. Non era possibile rifiutarsi, perché il for-
zato era un uomo di forza terribile. l’inquilino, che aveva la chiave, cercò di parla-
mentare per guadagnare tempo; esaminò il cadavere: era quello di un giovane ben
vestito, dall’aspetto di un ricco. Mentre parlavano, egli trovò modo di lacerare e di
portar via un pezzo della giacca dell’uomo assassinato, senza che l’assassino se ne
accorgesse. Dopo di che aprì il cancello, fece uscire l’uomo, richiuse il cancello e se
la diede a gambe. ora voi capite che l’assassino era Jean valjean, mentre colui che
aveva la chiave vi parla in questo momento».
att

Detto questo, trasse dalla tasca il pezzo della giacca, un lembo di stoffa nera ta-
aG

gliuzzata e tutta coperta di macchie scure.


nic

Mario s’era alzato, pallido, respirando a fatica. si avvicinò all’armadio, ne aprì lo


sportello e vi cacciò dentro il braccio. poi, rivolto a thénardier: «Quel giovane ero
Mo

io. ecco la giacca!», gridò Mario, gettando sul pavimento una vecchia giacca nera
tutta insanguinata. poi strappò il lembo dalle mani di thénardier, si curvò sulla giac-
ca e avvicinò alla falda tagliuzzata il pezzetto lacerato: lo strappo s’adattava perfet-
tamente.
thénardier era impietrito, e pensò: «sono spacciato».
Mario si rialzò, fremente, disperato e commosso. si frugò nella tasca e mosse,
furioso, verso thénardier, presentandogli e appoggiandolo quasi sul viso il pugno,
pieno di biglietti da cinquecento e da mille franchi.
«voi siete un infame, uno scellerato, un bugiardo, un calunniatore. venivate per
accusare quell’uomo, e lo avete giustificato; volevate perderlo, e siete soltanto
riuscito ad esaltarlo. siete voi un ladro! e siete voi un assassino! vi ho visto, thé-
nardier-Jondrette, in quella stamberga del viale dell’ospedale, e ne so abbastanza
sul vostro conto per mandarvi in galera e anche più lontano, se volessi. eccovi mille
franchi, lazzarone che non siete altro!». e gettò un biglietto da mille franchi a thé-
nardier.
«prendete questi soldi ed uscite di qui. Waterloo vi protegge, perché là avete
salvato la vita a un colonnello. e venite qui a commettere un’infamia. via di qua,
sparite! ecco ancora tremila franchi, prendeteli! partirete domani stesso per
Mon
l’america con vostra figlia, giacché vostra moglie è morta. vigilerò sulla vostra par-
icaG
tenza e in quel momento vi sborserò altri ventimila franchi». atto
thénardier uscì, senza aver capito niente, stupefatto, ma felice di quel dolce
schiacciamento sotto sacchi d’oro e di quel fulmine che gli scoppiava sulla testa sot-
to forma di biglietti di banca.
Due giorni dopo partì, per cura di Mario, per l’america, sotto falso nome con la fi-
glia azelma. Ma la miseria morale di thénardier era senza rimedio: così fu in ameri-
ca quello che era stato in europa. col denaro di Mario, thénardier si fece negriero.
appena thénardier fu uscito, Mario, tutto eccitato, chiamò cosette, che era in
giardino, e ordinò a basco di preparare una carrozza. cosette lo credette impazzito.
egli non respirava più; si metteva una mano sul cuore per comprimere i palpiti. era
sconvolto. ora intravedeva in Jean valjean non so quale nobile figura. gli appariva
di una virtù sovrumana, dolce, tanto umile nella sua grandezza. in un momento la
carrozza fu davanti alla porta. Mario fece salire cosette e vi si slanciò, ordinando al
cocchiere di andare in via dell’Uomo armato, numero sette. la carrozza partì.
«oh, che felicità!» fece cosette. «in via dell’Uomo armato! Non osavo più parlar-
tene, andiamo a trovare il signor Jean».
«tuo padre, cosette! tuo padre più che mai. egli deve aver avuto nelle sue mani
la lettera che io ti inviai. cosette, egli venne alla barricata per salvarmi. e ha salva-
to molti altri e lo stesso Javert. Dopo essere stato il suo salvatore, egli è stato anche
il mio salvatore. ed io sono un mostruoso ingrato! ora però lo prenderemo con noi,
voglia o non voglia». cosette non capiva una parola, ma disse ugualmente: «hai ra-
gione».
Quando sentì bussare alla porta, Jean valjean con un filo di voce disse: «avan-
ti». la porta si aprì. apparvero Mario e cosette. Questa si precipitò nella camera e
Gatto
corse ad abbracciarlo, dicendo: «babbo!». anche Mario, soffocando l’emozione e le
lacrime, disse: «padre mio!». Monica
cosette, liberatosi dello scialle e del cappello, si sedette sulle ginocchia del vec-
chio, gli scostò i capelli bianchi e lo baciò in fronte.
Jean valjean lasciava fare, smarrito, balbettando: «come si è sciocchi! credevo
di non vederla più. e invece eccola qua! avevo proprio bisogno di vedere cosette
qualche volta: anche il mio cuore vuole un osso da rosicchiare. eppure lo sentivo di
essere di troppo e cercavo di farmene una ragione».
e cosette rispondeva: «che cattiveria averci abbandonati così! perché sei stato
via tanto tempo? ti trovo cambiato. sei stato ammalato e noi non l’abbiamo sapu-
to. guarda, Mario, toccagli la mano. È fredda!”.
«e così eccovi qui! signor pontmercy, voi mi perdonate!», ripeté Jean valjean.
a quella frase Mario disse:
«vedi, cosette? egli giunge fino a chiedermi perdono. e sai che m’ha fatto? M’ha
salvato la vita; e dopo avermi salvato e dopo avermi dato a te, che ha fatto di se
stesso? si è sacrificato. Quest’uomo, cosette è un angelo». poi, con una collera in
cui c’era venerazione, esclamò: «perché non l’avete detto?».
«ho detto la verità», rispose Jean valjean.
«No», riprese Mario; «la verità è tutta la verità, e voi non l’avete detta».
«perché io pensavo come voi, e trovavo che avevate ragione: bisognava che io
me ne andassi».
Mario riconfermò che da domani non sarebbe stato più lì e cosette, ridendo, ag-
giunse che, se fosse stato necessario, sarebbe ricorsa alla forza.
«Domani», disse Jean valjean, «non sarò più qui, ma non sarò in casa vostra. io
sto per morire, ma non è nulla».
Mario, impietosito, guardava il vecchio. cosette mandò una grido straziante.
Mentre il triste dialogo continuava, si udì un rumore alla porta. era il medico, che
entrava. il medico, senza parlare, fece capire a Mario qual era la triste realtà.
ad un tratto Jean valjean si alzò. Questi ritorni di forze sono spesso l’annuncio
dell’agonia. egli si diresse con passo fermo al muro; staccò dalla parete il piccolo
crocefisso e tornò a sedersi; poi, ponendo il crocefisso sulla tavola, disse ad alta vo-
ce: «ecco il grande martire». poi il suo petto s’accasciò e la testa si piegò: iniziava
così la lenta e triste agonia. in un momento in cui si riebbe riuscì a dire che l’unica
cosa che ancora gli dispiaceva era il fatto che Mario non avesse voluto toccare il
denaro da lui donato a cosette. Quel denaro era proprio di sua moglie: non l’ave-
va rubato a nessuno. li aveva guadagnati costruendo dei gioielli che potevano ga-
reggiare con quelli costruiti a berlino, ma ad un costo di gran lunga inferiore. Ne
aveva modificati altri, ottenendo ottimi risultati e un cospicuo guadagno: erano più
graziosi e meno cari. tutto il procedimento era scritto in un foglio, che il moribon-
do consegnò a Mario, perché comprendesse quanto denaro si poteva guadagnare
col sistema da lui inventato.
intanto era salita la portinaia, che premurosamente chiese al moribondo se vole-
va un prete. Jean valjean rispose che ne aveva uno; e col dito sembrò indicare un
punto sopra il suo capo. È probabile che il vescovo assistesse a quella agonia.
Ma intanto la faccia si sbiancava e sorrideva ad un tempo. riuscì ancora a
pronunciare parole affettuose ai due giovani, mettendo le sue mani sulle loro teste,
mentre essi erano inginocchiati ai piedi del letto. ad un tratto sentirono che quelle
mani non si muovevano più. era morto.
la notte era senza stelle, densa di tenebre; ma, certo, stava là ritto qualche an-
gelo immenso, con le ali spiegate in attesa dell’anima.
l’erba nasconde, la pioggia cancella.
Nel cimitero del père-lachaise, nelle vicinanze della fossa comune, lontano dal
quartiere elegante di quella città dei morti, lontano da quelle tombe strambe che
sfoggiano di fronte all’eternità le orribili mode funerarie, in un angolo deserto, lungo
un vecchio muro, sotto un grande tasso al quale s’abbarbicano i convolvoli, in mez-
zo alla gramigna ed al muschio, v’è una pietra. Quella pietra è come tutte le altre,
corrosa dal tempo, dalla muffa, dal lichene e dagli escrementi degli uccelli. l’acqua
la rende verde e l’aria l’annerisce. Non è vicina ad alcun sentiero e a nessuno piace
recarsi da quella parte, perché l’erba è alta e i piedi sono presto bagnati. se c’è un
po’ di sole, vi strisciano le lucertole: tutt’intorno è un brillare d’avena selvatica. in
primavera le capinere cantano nell’albero. Quella pietra è nuda. chi la tagliò pensò
solo al necessario della tomba, e l’unica cura che venne presa fu quella di fare quel-
la pietra abbastanza lunga e abbastanza larga per coprire un uomo.
Non vi si legge alcun nome.
sono passati molti anni da allora; una mano vi scrisse con la matita questi quat-
tro versi, divenuti a poco a poco illeggibili sotto la pioggia e la polvere, e che pro-
Mo
babilmente oggi sono cancellati:
il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
il vivait. il mourut quand il n’eut plus son ange.
la chose simplement d’elle-même arriva,
comme la nuit se fait lorsque le jour s’en va.
(Dorme, sebbene la sorte fosse per lui molto strana,
viveva. Morì quando non ebbe più il suo angelo.
la cosa venne da sé in modo naturale.
come scende la notte quando tramonta il giorno.)
da «I miserabili»
L’inizio

PARTE PRIMA
FANTINE
Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dan-
nazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni
e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a
quando i tre problemi del secolo, l'abbrutimento dell'uomo per colpa
dell'indigenza, l'avvilimento della donna per colpa della fame e l'atro-
fia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a
quando, in certe regioni, sarà possibile l'asfissia sociale; in altre parole,
e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno
sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno
non essere inutili.
Hauteville House, I gennaio l862.

LIBRO PRIMO
Un giusto
Capitolo I: Monsignor Myriel
Nel 1815, era vescovo di Digne monsignor Charles François Bienvenu Myriel,
un vecchio di circa settantacinque anni, che occupava quel seggio dal 1806.
Sebbene questo particolare abbia poco a che fare con ciòcche racconteremo, non
sarà forse inutile, sia pure solo per essere del tutto precisi, accennare qui alle voci
ed ai discorsi che correvano sul suo conto, nel momento in cui era arrivato nella
diocesi. Vero o falso che sia, quel che si dice degli uomini occupa spesso altret-
t

tanto posto nella loro vita, e soprattutto nel loro destino, quanto quello che fan-
t
Ga

no. Monsignor Myriel era figlio d’un consigliere del parlamento d’Aix: nobiltà
a

di toga, dunque. Si raccontava di lui che suo padre, nell’intenzione di fargli ere-
ic
on

ditare la propria carica, gli aveva dato moglie prestissimo, secondo una consue-
M
tudine abbastanza diffusa tra le famiglie dei membri del parlamento. Malgrado
quel matrimonio, si diceva, Charles Myriel aveva fatto molto parlare di sé. Ben
fatto nella persona, sebbene di statura alquanto piccola, elegante, simpatico e
intelligente, aveva speso tutta la prima parte della sua vita e nel bel mondo e
negli intrighi amorosi. Sopravvenne la rivoluzione e gli avvenimenti precipita-
rono; le famiglie dei membri del parlamento, decimate, scacciate e perseguitate,
si dispersero, e Charles Myriel, fin dai primi giorni della rivoluzione, emigrò in
Italia, dove gli morì la moglie, d’una malattia di petto, contratta molto tempo
prima. Non avevano figli. Cos’accadde, poi, nel destino di monsignor Myriel?
Furono forse il crollo dell’antica società francese, la rovina della sua famiglia
od i tragici spettacoli del ’93, ancor più spaventosi per gli emigrati, che li vede-
van da lontano, ingranditi dallo sgomento, a far germogliare in lui le idee di
rinuncia e di solitudine? Fu colpito all’improvviso, nel bel mezzo d’una di quel-
le distrazioni e di quegli affetti che occupavano la sua vita, da uno di quei colpi
misteriosi e terribili che giungono talvolta al cuore, uomo che le catastrofi pub-
bliche non avrebbero prostrato, pur infierendo sulla sua esistenza e sulla sua for-
tuna? Nessuno avrebbe potuto dirlo; tutto quello che si sapeva era che, al suo
ritorno dall’Italia, era prete.
Nel 1804, monsignor Myriel era curato di Brignolles. Era già vecchio e vive-
va in una profonda solitudine.
Verso l’epoca dell’incoronazione, un affaruccio della sua parrocchia, non si
sa più bene quale, lo condusse a Parigi, dove, fra le altre persone potenti, andò
a sollecitare, per i suoi parrocchiani, monsignore il cardinale Fesch. Un giorno
in cui l’imperatore era venuto a far visita a suo zio, il degno curato, che aspet-
tava in anticamera, si trovò sul passaggio di sua maestà; Napoleone, vistosi
guardato con una certa curiosità da quel vecchio, si voltò e disse bruscamente:
«Chi è quel dabben uomo che mi guarda?»
«Sire» disse monsignor Myriel «voi guardate un uomo dabbene, ed io guardo
a

un grand’uomo. Ognuno di noi può trarne profitto.»


nic

Quella stessa sera, l’imperatore chiese al cardinale il nome di quel curato e


M o

poco tempo dopo monsignor Myriel fu tutto sorpreso di venir a sapere ch’era stato
nominato vescovo di Digne.
Del resto che cosa c’era di vero nei racconti che si facevano sulla prima parte
della vita di monsignor Myriel? Nessuno lo sapeva, e ben poche famiglie ave-
vano conosciuto i Myriel prima della rivoluzione.
Monsignor Myriel dovette subire la sorte di tutti coloro che giungono per la
prima volta in una cittadina dove ci son molte bocche che parlano e pochissime
teste che pensano; dovette subirla, sebbene fosse vescovo e appunto perché vesco-
vo. Ma, dopo tutto, le dicerie alle quali si mescolava il suo nome forse non erano
che dicerie; rumore, parole, discorsi; meno che discorsi, erano palabres, come dice
l’energica lingua del mezzogiorno.
Comunque, dopo nove anni d’episcopato e di residenza a Digne, tutte queste
ciarle, argomento di conversazione, sulle prime, di città piccole e di piccole men-
ti, erano cadute in un profondo oblio. Nessuno avrebbe osato parlarne e nem-
meno ricordarsene.
Monsignor Myriel era giunto a Digne accompagnato da una vecchia zitella,
la signorina Baptistine, ch’era sua sorella ed aveva dieci anni meno di lui.
Tutta la loro servitù si componeva d’una domestica della stessa età della signo-
rina Baptistine che si chiamava la signora Magloire e che, serva del signor
curato, riuniva ora il doppio ufficio di cameriera della signorina e di guarda-
robiera di monsignore.
La signorina Baptistine, lunga, pallida, smilza e dolce, traduceva in realtà
l’ideale di ciò che esprime la parola “rispettabile” (poiché sembra necessario che
una donna sia madre, per essere venerabile). Non era mai stata avvenente; ma
tutta la sua vita non era stata che un succedersi d’opere sante, e aveva finito
per imprimere su di lei una sorta di candore e di luminosità; invecchiando, ella
aveva acquisito quella che si potrebbe chiamare la bellezza della bontà. Ciò che
nella gioventù era stata magrezza, era divenuta trasparenza, nella maturità; e
quella diafanità lasciava scorgere l’angelo. Era un’anima ancor più che una
vergine. La sua persona sembrava fatta d’ombra; v’era a stento quel tanto di
corpo che occorreva perché vi fosse un sesso, un po’ di materia che conteneva un
barlume di luce, un paio d’occhiali sempre bassi: il pretesto di un’anima per
restar sulla terra.
La signora Magloire era una vecchietta bianca, grassa, rotondetta e sempre
ansimante, prima, per la sua attività, e poi per l’asma.
Mo
iNdice
l’autore: victor hugo 3
le opere 7
l’opera: i miserabili 10
personaggi principali 14
la lingua e lo stile 17
il piacere – riassunto dell’opera
parte prima 19
libro i - Un giusto 19
libro ii - la caduta 24
libro iii - Nell’anno 1817 29
libro iv - Qualche volta affidare è abbandonare 29
libro v - la discesa 30
libro vi - Javert 36
libro vii - il processo champmathieu 37
libro viii - contraccolpo 39
parte seconda 43
libro i - Waterloo 43
libro ii - il vascello “orione” 45
libro iii - la promessa fatta alla morta 46
libro iv - la topaia gorbeau 50
libro v - la caccia oscura muta e silenziosa 52
libro vi - il piccolo picpus 55
libro vii - parentesi 55

atto
libro viii - i cimiteri prendono ciò che si dà loro 57
parte terza 59
caG
libro i - parigi studiata nel suo atomo 59
libro ii - il gran borghese 60
ni

libro iii - Nonno e nipote 61


Mo

libro iv - gli amici dell’abc 67


libro v - Domina la sventura 69
libro vi - Due stelle si incontrano 70
libro vii - “patron Minette” 72
libro viii - il povero malvagio 73
parte Quarta 83
libro i - poche pagina di storia 83
libro ii - eponina 84
libro iii - la casa di via plumet 85
libro iv - soccorso dal basso può essere soccorso dall’alto 88
libro v - la fine non somiglia al principio 90
libro vi - il piccolo gavroche 92
M libro vii - il gergo 93
on libro viii - incanti e desolazioni 94
libro iX - Dove vanno? 97
ica
Ga libro X - il 5 giugno 1832 98
tto libro Xi - l’atomo s’affratella con l’uragano 98
libro Xii - corinto 99
libro Xiii - Mario entra nell’ombra 99
libro Xiv - le grandezze della disperazione 101
libro Xv - la via dell’uomo armato 103
parte Quinta 107
libro i - guerra fra quattro mura 107
libro ii - le budella del leviatano 112
libro iii - Fango, ma anima 113
libro iv - Javert fuori strada 117
libro v - il nipote e il nonno 119
libro vi - la notte insonne 120
libro vii - l’ultimo sorso del calice 121
libro viii - Decrescenza crepuscolare 124
libro iX - ombra suprema, suprema aurora 124
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