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GRAO EN LINGUAS E LITERATURAS MODERNAS: ITALIANO

DA OVIDIO AD
ALFIERI:
METAMORFOSI DEL GENERE E INNOVAZIONE TEMATICA
NEL MITO DI MIRRA
AUTORA: YOLANDA BRUN CALVO
TITOR: PROF. JAVIER GUTIERREZ CAROU
CURSO 2017/2018

1
INDICE

1. Vittorio Alfieri: cenni biografici. 3

2. La tragedia dalla cultura grecolatina alla letteratura italiana del Settecento. 8

3. Il personaggio di Mirra nella letteratura italiana fino ad Alfieri. 13

4. Mirra: una lettura. 22

a. Riassunto dell’opera. 22

b. Tema dell’opera e struttura esterna. 23

c. Tempo e luogo. 24

d. Personaggi. 26

e. Didascalie. 36

5. Conclusioni 38

6. Bibliografia. 39

7. Apendice: le Metaformofosi di Ovidio (testo in latino e italiano) 41


1. VITTORIO ALFIERI: CENNI BIOGRAFICI.

Il 16 gennaio 1749 nacque il conte Vittorio Alfieri, da una famiglia di ricca nobiltà
terriera. Suo padre morì quando Vittorio era un bambino e la madre si sposò un’altra
volta con Giacinto Alfieri di Magliano. Vittorio visse con la nuova famiglia della madre
fino al 1758, quando entrò nella Reale Accademia di Torino, per volontà dello zio
Pellegrino Alfieri, da dove uscì nel 1766.
Anche se Vittorio mantenne buoni rapporti con la madre, fu sempre a distanza, e
questa situazione familiare insieme all’educazione nei primi anni e alla vita
nell’accademia, ebbe un peso decisivo nella formazione del suo carattere:
… nella sua infanzia e adolescenza ebbero origine la ricerca di affetti superiori ed eccezionali,
gli impulsi da ribelle, l’intolleranza verso le costrizioni sociali, le gerarchie militari e
l’assolutismo monarchico (il re di Sardegna manteneva un controllo assai stretto sulla vita e
sull’educazione dei giovani nobili).1

La formazione che Vittorio ricevette nell’accademia era legata a una cultura


formalistica senza rapporti con le nuove esigenze del mondo contemporaneo e con
letture ridotte e marginali.
Quando uscì dall’accademia, approfittando gli scarsi obblighi del suo titolo
militare e dai suoi ricchi mezzi finanziari, decise di cominciare una serie di viaggi
attraversando l’Italia e l’Europa:
Il peregrinare dell’Alfieri somiglia a quello di tanti nobili europei del Settecento; ma egli non
vive questi viaggi come occasione di formazione, in funzione di una futura, tranquilla esistenza
di nobile tutto preso dal proprio ruolo sociale; è guidato soprattutto da una smania di spostarsi e
di fuggire, da una irrequietezza che lo rende spesso indifferente ai paesi che attraversa. 2

A un certo punto si rende conto che l’unica maniera per affermare la propria
voce e la propria persona è quella della letteratura, per cui, dopo il suo ritorno a Torino
nel 1772, comincia a interessarsi al mondo letterario e teatrale. Nel 1773 compone in
francese l’Esquisse du jugement universel e, tra il 1774 e il 1775, redige un diario,
anche questo in francese. In questi anni compose la tragedia Antonio e Cleopatra, che fu
recitata al teatro Carignano di Torino nel 1775. Il successo che ebbe questa
rappresentazione incoraggiò Alfieri alla letteratura e alla scrittura tragica. Tra il 1775 e
il 1777 si definirono la sua vocazione letteraria e il suo sistema drammatico per
l’ideazione e scrittura delle sue tragedie, e si svolge anche il suo pensiero politico.

1
GIULIO FERRONI, Storia e testi della letteratura italiana. Voll. 2B: L’età della ragione e delle riforme.
La rivoluzione in Europa, Milano, Einaudi, 2003, p. 99.
2
Ivi, p. 100.

3
Per impadronirsi dei valori più sicuri della tradizione letteraria italiana e per costruirsi un
linguaggio capace di conquistare una piena cittadinanza culturale in tutta la penisola decide di
“spiemontizzarsi”.3

Per questo scelse di abbandonare il Regno di Sardegna e il francese, lingua in cui


era abituato a parlare e a scrivere fino a quel momento, e di trasferirsi in Toscana, dove
si dedica alla lettura di classici latini e italiani. Vittorio donò anche tutti i suoi beni
piemontesi alla sorella Giulia, riservandosi una rendita vitalizia che gli permettesse di
dedicarsi soltanto alla letteratura. Soggiornò a Pisa, Siena e Firenze, dove conobbe la
contessa d’Albany, sposata con Carlo Edoardo Stuart, con cui si legò sentimentalmente.
Nel 1780 fuggì con la donna amata a Roma, dove intrattenne rapporti con la
nobiltà internazionale che era attorno alla corte papale. A Roma organizzò una
rappresentazione della sua opera Antigone e scrisse anche la tragedia Saul. Nel 1783,
tuttavia, fu costretto a lasciare la città quando la sua relazione con la contessa diventò
troppo nota, vagando poi per l’Italia e la Francia. In questo tempo uscirono a Siena i
primi due volumi delle Tragedie.
Nel 1785 si stabilì in Alsazia con la contessa, che aveva ottenuto la separazione
del marito, e fino al 1792 alternò il soggiorno in Alsazia con lunghi periodi a Parigi e
altri viaggi:
In questo periodo svolse un lavoro molto intenso, curando la stesura e l’edizione di varie opere,
dal trattato Del principe e delle lettere al poema L’Etruria vendicata, alle Rime, alla Vita, a
traduzione da classici (Virgilio e Terenzio); a Parigi, dove più volte ebbe modo di incontrare il
Goldoni, curò tra il 1787 e l’89 la nuova edizione delle Tragedie.4

Alfieri visse le prime fasi della rivoluzione francese, ma dopo l’assalto alle
Tuileries in agosto 1792, fuggì con la sua amata stabilendosi a Firenze, dove restò fino
alla morte, accaduta nel 1803.
Quando Alfieri inizia la sua carriera letteraria sceglie la tragedia perché:
La tragedia comportava inoltre una comunicazione di tipo “nobile”, riservata agli animi di “forte
sentire”, e tale da escludere ogni complicità con quel pubblico borghese a cui si rivolgeva tanta
nuova letteratura del Settecento; le opposizioni e le tensioni che costituiscono il principio stesso
della tragedia, e che devono comunque condurre alla catastrofe finale, si incontravano poi con il
carattere conflittuale dell’Alfieri, con quell’impulso a contestare il mondo e la società che egli
aveva già avvertito nei suoi viaggi europei e nei suoi rapporti con l’ambiente piemontese. 5

Con il proposito di creare buone tragedie idea un metodo di lavoro che impiegò
in tutte le sue opere:

3
FERRONI, Storia e testi della letteratura italiana, cit., p. 101
4
Ibidem.
5
Ivi, p. 102.

4
E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo
sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle
mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben
ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi
si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il
numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena di
quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma
della traccia accennata ne riempo le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera,
senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere,
senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi
quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo
getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento
il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e
distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.6

Come abbiamo appena letto, questo metodo di lavoro aveva tre momenti diversi:
ideare, stendere e verseggiare. Durante l’ideare, Alfieri faceva una distribuzione della
storia in scene, e di queste scriveva un breve riassunto e ne fissava anche i personaggi.
Durante il secondo momento, lo stendere, scriveva i dialoghi dei personaggi in prosa, e
di solito in francese, e poi nell’ultima tappa, il verseggiare, convertiva questi dialoghi in
prosa in versi endecasillabi sciolti in italiano. Alfieri lasciava un tempo fra ciascuno dei
tre momenti, ripetendo l’ultima tappa fino a quando trovava il miglior risultato.
Per quanto riguarda le rappresentazioni, Alfieri non considerava necessario
arrivare a un ampio pubblico e per questo preferiva riservare per occasioni private le sue
tragedie.
Alcuni scritti dell’Alfieri danno una chiara esposizione delle idee che aveva sulla
struttura e lo stile delle sue tragedie, come per esempio le parole presenti in una lettera
destinata a Ranieri de’ Calzabigi:7
La tragedia di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli
personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per
quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per
quanto uso d’arte il comporti; tetra e feroce, per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in
me; questa è la tragedia, che io, se non ho espressa, avrò forse accennata, o certamente almeno
concepita.8

6
VITTORIO ALFIERI, Vita, a cura di Giulio Cattaneo, Milano, Garzanti, 1989, pp. 173-174, Epoca quarta,
capitolo IV.
7
«Letterato e avventuriero (Livorno 1714 – Napoli 1795). Da giovane, fu impiegato a Napoli; poi in
Francia si fece editore del Metastasio e, col Casanova, vi introdusse il gioco del lotto; espulso, nel 1761
era a Vienna, ove divenne consigliere dell’imperatore. Qui, incontratosi con Gluck, attuò quella riforma
del dramma musicale, per cui la musica non sopraffà la poesia, ma la asseconda. Nel 1774 si ritirò a Pisa;
nel 1780 a Napoli. Per il Gluck scrisse Orfeo ed Euridice (1762), Alceste (1766), Paride ed Elena (1769).
Lasciò inoltre commedie musicali (fra cui L’opera seria, 1769), scritti di critica, un poema eroicomico, la
Lulliade, tuttora inedito, e una raccolta di Poesie (2 voll., 1774)»; Enciclopedia Treccani
http://www.treccani.it/enciclopedia/ranieri-calzabigi/ (28/04/2018).
8
VITTORIO ALFIERI, Lettera a Ranieri de’ Calsabigi (sic) del 6 settembre 1783, in ID., Tragedie, Firenze,
Giuseppe Molini, 1821, vol. I, pp. 55-79: 56. Consultato online in
https://play.google.com/store/books/details?id=9GBDAAAAYAAJ

5
Alfieri definisce così le sue tragedie, che dovevano essere di cinque atti, una
lunghezza sufficiente per raccontare tutta la storia e senza necessità di includere
argomenti secondari che potessero distrarre gli spettatori, e con gli attori imprescindibili
per la storia. Per questo Alfieri seguiva la poetica oraziana: «Neue minor neu sit quinto
productior actu / fabula, quae posci uolt et spectanda reponi»9
Tra il 1775 e il 1782 Alfieri scrisse numerose tragedie. La prima pienamente
riconosciuta fu il Filippo, che tratta la vicenda d’amore del giovane Carlo di Spagna per
la matrigna Isabella. Scrisse dopo quattro tragedie di ispirazione greca, due sul ciclo
tragico di Edipo (Polinice e Antigone) e la altre due su quello di Oreste (Agamennone e
Oreste).
Di seguito compone le tre tragedie cosiddette “di libertà”, ambientate in scenari
del tutto diversi:
… dalla Grecia eroica del Timoleone, la più tesa ed efficace delle tre, ricavata da Plutarco, alla
Roma repubblicana, retorica e scultorea della Virginia, ricavata da Livio, per arrivare alla grigia
Firenze medicea della Congiura de’ Pazzi, ispirata da Machiavelli. Di scarso valore sono la
Rosmunda, che si svolge in un Medioevo dalle fosche tinte, e la Maria Stuarda, suggerita dalla
Stolberg, moglie di uno Stuart. Più interessante il Don Garzia, truce storia di assassini in
famiglia alla corte di Cosimo I de’ Medici.10

Scrisse anche tragedie centrate su figure femminili, anche di tema classico,


l’Ottavia e la Merope. Tuttavia, le tragedie più importanti dell’Alfieri furono il Saul e la
Mirra.
Alfieri scrisse il Saul prendendo un tema biblico: la figura del re che si ribella
contro Dio e non accetta il suo successore, David, marito della figlia, che aveva la
protezione divina. Alla fine va alla battaglia, all’incontro della morte, contro i Filistei:
La tragedia si costruisce tutta sui passaggi di Saul da un affetto al suo opposto, accompagnati da
una serie di oscillazioni tra il buio e la luce, e tra il luogo della scena e i luoghi da essa lontani. Il
ridursi del vigore e l’affiorare della stanchezza senile spingono il personaggio a investire
furiosamente, anche se con laceranti esitazioni, le energie che gli rimangono in oggetti che egli
identifica ora come positivi ora come negativi. David, immagine della bontà e della giustizia,
benedetto dal favore divino, gli appare il più inquietante di questi “oggetti” […] Gli affetti
familiari […] trattengono a lungo la furia di Saul, che si afferma in pieno come una scelta di
solitudine: con alcune decisioni “tiranniche” egli si allontana da tutti gli altri personaggi, per
risolvere la sua volontà di potenza e di gloria nel confronto con la morte. 11

9
Traduzione: «La obra que queira ser reclamada y puesta en escena que no sea más breve ni más larga
que cinco actos»; HORACIO, Epistola ad Pisones, in ANÍBAL GONZÁLEZ (edición de), Artes poéticas,
Madrid, Visor Libros, 2003, pp. 149-185: 164-165 (vv. 189-190).
10
FERRONI, Storia e testi della letteratura italiana, cit., p. 108.
11
FERRONI, Storia e testi della letteratura italiana, cit., pp. 108-109.

6
Nel Settecento si diffuse ampiamente il genere autobiografico, e anche Alfieri
decide di raccontare la sua vita, sotto il titolo di Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da
esso. L’autore fece un lungo lavoro di redazione e riscrittura fino agli ultimi anni della
sua vita. L’opera fu pubblicata in maniera postuma nel 1806:
Tutta la narrazione è orientata verso un punto centrale, il passaggio tra la terza e la quarta epoca,
in cui si svolge la “conversione” umana e letteraria. La Vita è così tutta proiettata a definire la
missione dello scrittore, a cercare dappertutto, anche in particolari marginali, gli annunci ancora
indeterminati di quell’energia interiore che ha portato l’autore alla letteratura. 12

12
Ivi p. 112.

7
2. LA TRAGEDIA DALLA CULTURA GRECOLATINA ALLA
LETTERATURA ITALIANA DEL SETTECENTO
La tragedia è una delle forme più antiche di teatro, nata nell’Antica Grecia intorno al
secolo VI a.C., nelle feste in onore del dio Dioniso.13 Il teatro in Grecia era organizzato
dallo stato e le recite più importanti avevano luogo ad Atene, dove si organizzava una
gara fra diversi autori. Queste recite combinavano declamazione, canto, musica e danza
e avevano luogo nel corso delle feste denominate Grandi Dionisie, in cui le
rappresentazioni si svolgevano in quattro giorni di seguito, dal mattino al tramonto.
Un aspetto importante di questo teatro greco è che in questi testi drammatici si
alternavano la recita (declamazione), la recita accompagnata di musica, il canto
solistico, il canto corale e la danza. Alla recita partecipavano soltanto uomini e anche il
pubblico si crede che fosse formato soltanto da uomini liberi, e gli attori, musicisti e
poeti erano tutti professionisti.
I primi tentativi di tragedia prevedevano soltanto l’intervento del coro, per poi
aggiungere i dialoghi tra il coro e il suo capo (corifeo) e poi l’aggiunta di un attore che
interpretava diversi personaggi. Si attribuisce a Eschilo l’introduzione del secondo
attore e a Sofocle il terzo.
La tragedia aveva la finalità di produrre una forte emozione psicologica che
producesse nel pubblico una purificazione (catarsi)14 delle emozioni simili a quelle viste
sulla scena:
Es, pues, la tragedia la imitación de una acción seria y completa, de cierta extensión, con un
lenguaje sazonado, empleado separadamente: cada tipo de sazonamiento en sus distintas partes,
de personajes que actúan y no a lo largo de un relato, y que a través de la compasión y el terror
lleva a término la expurgación de tales pasiones. 15

Il periodo di maggiore splendore della tragedia greca è il V secolo a.C., in cui ci


sono i tre più importanti tragediografi (Eschilo, Sofocle ed Euripide).16

13
«Dioniso era, en palabras de Eurípides, “el más amable y el más terrible”. Era el dios de la ilusión y el
disfraz, y se celebraban festivales teatrales en su honor»; ARTHUR COTTERELL (edición de), Enciclopedia
de Mitología Universal, Barcelona, Parragon, 2004, p. 66.
14
Nella religione greca, nella filosofia pitagorica e in quella platonica, indicava sia il rito magico della
purificazione, inteso a mondare il corpo contaminato, sia la liberazione dell’anima dall’irrazionale. In
partic., secondo Aristotele, la purificazione dalle passione, indotta negli spettatori dalla tragedia.
Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/catarsi/ (16/04/18).
15
Aristóteles, Poética, (traducción de Antonio López Eire), Madrid, Istmo, 2002, p. 45 (1449b).
16
Per tutta questa informazione furono consultate le dispense del corso di Teatro Italiano del prof. Javier
Gutiérrez Carou, a. a. 2017/2018.

8
L’azione della tragedia si svolge all’esterno, davanti a un palazzo o un tempio, e
in un ambiente cittadino. Le tragedie rispettano l’unità di azione e abitualmente, anche
le unità di spazio e di tempo.
L’amore non è mai l’argomento centrale; il soggetto di queste tragedie greche
gira attorno a temi di vendetta, di riconoscimento, di supplica, di lamento, di follia e di
sacrificio volontario.
Il teatro romano, come quello greco, era legato anche alle feste religiose, e
quelle più importanti erano i Ludi Romani, che si facevano in onore di Giove. Nel 364
a.C. si aggiungono ai festeggiamenti anche recite teatrali sotto forma di sature
(spettacoli di varietà con piccole scene di farsa, canti, danze e forse anche acrobazie). Il
primo spettacolo teatrale e letterario ebbe luogo nel 240 a.C., e fu un’opera di
argomento greco scritta da Livio Andronico.
Anche nel teatro romano la componente musicale era molto importante, e
inoltre intervenivano soltanto uomini e gli attori interpretavano più di un personaggio.
La grande differenza con il teatro greco fu che gli attori non adoperarono maschere
come si facevano nel teatro che si rappresentava prima della repubblica, e per questo la
mimica faciale sembra avere avuto un ruolo molto importante nelle recite.
Per quanto riguarda la tragedia romana, dobbiamo ricordare che questa poteva
svolgere argomenti e utilizzare costumi greci (tragedia cothurnata) o romani (tragedia
praetexta). La tragedia cothurnata recupera molti argomenti dei diversi cicli tragici
greci (tebano, troiano…); mentre quella praetexta ebbe un importante ruolo nella
creazione dell’identità romana poiché presentava argomenti presi dalla storia di Roma
(le guerre puniche, la monarchia o la nascita della repubblica).
Soltanto si conservano gli scritti completi di un unico tragediografo romano,
Seneca (4 a. C. - 65 d. C.), che svolse la sua attività sotto l’impero di Nerone. Le sue
tragedie si caratterizzavano dall’uso dell’orrore, di truculenze e di atroci violenze.
Sembra che lo scopo principale delle tragedie di Seneca sia esplorare il livello massimo
di malvagità che può raggiungere l’anima umana se si vede priva del controllo della
ragione e della legge umana e divina.
Alla fine della Repubblica romana, si osserva un chiaro disinteresse da parte del
pubblico verso il teatro, poiché preferiscono altri tipi di spettacoli come il circo. La
Chiesa vietò l’assistenza agli spettacoli nel IV secolo e questo fatto, insieme alla caduta
dell’Impero Romano d’Occidente (476 d. C.), che derivò in un cambiamento di

9
paradigma sociale, provocò una decadenza definitiva degli spettacoli e, dunque, del
teatro.
La caduta dell’Impero Romano di Occidente e la diffusione del cristianesimo
convertirono gli spettacoli e gli edifici utilizzati dai romani in immagini di una moralità
e di una religione che non era più accettata nella società, e per questo furono
abbandonati.
… la decadenza del teatro latino […] è determinata dalle censure della Chiesa; contro di esso la
patristica indirizza un’aspra polemica, prima di tutto in quanto prodotto di una società pagana
che ne aveva offerto esiti eccessivi e violenti (dai combattimenti dei gladiatori alle crocifissioni e
ai martìri rappresentati dal vivo, per illustrare magari episodi sadici della mitologia) e che
continuava a organizzarli in onore dei suoi dei falsi e bugiardi; ma anche per intrinseche ragioni
dottrinali. Nel meccanismo espressivo e comunicativo del teatro gli intellettuali cristiani
individuano una diabolica componente di seduzione: lo spettacolo è per loro soltanto una mera
apparenza, che si realizza attraverso la peccaminosa contraffazione del corpo dell’attore,
immagine di Dio a cui mai andrebbero sottratte integrità e dignità.17

Le uniche forme teatrali che sopravvissero furono le improvvisazioni


giullaresche, che avevano luogo in feste o fiere all’aperto, e alcune manifestazioni colte
di carattere letterario destinate solo alla lettura:
Della drammaturgia antica si perdono quasi le tracce: rimangono infatti in circolazione soltanto
le tragedie di Seneca, lette in chiave moralistica, e soprattutto le commedie di Terenzio,
apprezzate per la qualità dello stile.18

La cultura cristiana eredita una serie di simboli e motivi della cultura pagana radicatissimi nella
civiltà grecolatina, aggiornandoli e rielaborandoli in senso religioso; quest’operazione
contaminatoria comincia dal calendario: le principali scadenze dell’anno liturgico si
sovrappongono alle antiche feste, senza rescindere il loro originario rapporto con il ciclo delle
stagioni.19

Tra queste feste si trova l’antica festa di metà inverno, che era legata al dio
Bacco e ai lupercali, e che rimane come festa nel calendario cristiano, con il nome di
carnevale:
La realtà del carnevale è insomma tollerata dalle autorità come un’indispensabile valvola di
sicurezza sociale: è lo spazio della trasgressione, della derisione aggressiva e liberatoria, violenta
e grottesca, circoscritta a un periodo di tempo limitato e ufficiale e dunque, forse, più facilmente
controllabile […] I suoi unici portavoce, nei primi secoli di questa storia, sono gli attori che si
tramandano per via orale un patrimonio gestuale, recitativo e musicale di lontana ascendenza
classica […] Il nome più diffuso che li designa, «giullari», si connette con la radice di jocus, ma
essi sono oggetto di svariatissime denominazioni […] troviamo [il giullare] presso corti,
cattedrali e mercati che si esibisce per pubblici eterogenei, a cui vende spettacoli musicali,
mimici e recitativi […] Il nomadismo fa del giullare il custode di una cultura omogenea e
sovraregionale, in senso linguistico e ideologico, e gli consente di essere un importante veicolo

17
FRANCO BRIOSCHI – COSTANZO DI GIROLAMO (a cura di), Manuale di letteratura italiana. Storia per
generi e problemi, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, v. I, pp. 944-945.
18
Ivi, p. 947.
19
Ivi, p. 949.

10
di trasmissione di notizie e di idee, oltre che esercitare uno straordinario potere propagandistico e
pubblicitario […]20

Durante il Medioevo non esistevano edifici teatrali, e le uniche forme


drammatiche esistenti nacquero nelle chiese con il consenso delle autorità religiose, che
vedevano queste manifestazioni come un mezzo per diffondere la dottrina cristiana, per
educare e per dare un esempio di moralità ai fedeli.
Nella chiesa italiana furono creati i primi tentativi di liturgia drammatica. I testi,
che appartenevano agli uffici liturgici, si allungarono ad altri episodi della Bibbia e della
vita dei santi, dando luogo al sacro dramma, i cui generi principali erano: il dramma
liturgico, la lauda e la sacra rappresentazione.
Non si può parlare di nuovo di tragedia fino al Cinquecento, ma non nello stesso
senso dei greci o dei romani:
A fine Quattrocento si intendevano come “tragedie” quelle rappresentazioni di soggetto luttuoso
(e quasi sempre anche amoroso, secondo la lezione di Ovidio o del Boccaccio della quarta
giornata), dalla struttura aperta, che solennizzavano i carnevali cortigiani con qualche ambizione
in più rispetto alle egloghe o agli epitalami più consueti. Leggendo finalmente i greci si intuisce
invece, […] che la tragedia presuppone una forma specifica e unitaria e un linguaggio eletto. 21

Non troviamo i primi tentativi veri di tragedia fino ai primi trent’anni del
Cinquecento, poiché prima della diffusione della Poetica di Aristotele, che non accade
fino al 1428, non si aveva un’idea chiara del concetto di tragedia; fu necessaria la
diffusione. In questi primi anni, questo appassiona i circoli letterari delle grandi capitali
della filologia, Roma e Firenze. A Firenze lavorava un gruppo di giovani che volevano
creare una nuova letteratura in volgare. Nessuna delle tragedie scritte da questi giovani
scrittori, tuttavia, verrà mesa in scena: rimarranno inedite o saranno pubblicate molti
anni dopo la loro composizione.
In questi anni la tragedia acquista connotazioni politiche che, dopo gli anni
trenta, spariscono, per cui la tragedia «…si attesta subito su una formula rigorosamente
letteraria, trovando il suo primo modello veramente nazionale nell’opera di un
interlocutore privilegiato dei fiorentini, […] il vicentino Giangiorgio Trissino».22

20
BRIOSCHI – DI GIROLAMO, Manuale di letteratura italiana, cit., v. I, pp. 950-951.
21
Ivi, v. II, p. 811
22
Ivi, v. II, p. 813

11
Anche se Trissino ha il titolo di padre della tragedia italiana, quello che stabilì la
fortuna del genere tragico fu Giambattista Giraldi Cinzio, «che realizza audacemente
l’impresa di mettere d’accordo le regole aristoteliche con le ragioni dello spettacolo».23
Rigettando la formula ellenizzante del Trisino e dei toscani per un classicismo di tradizione
piuttosto latina, peculiarmente ferrarese, il Giraldi sperimenta un modello di tragedia orrida e
moralistica alla maniera senecana e lo impone con la fortunata rappresentazione dell’Orbecche
del 1541.24

Dagli anni quaranta del Cinquecento in poi si assiste a una grande apparizione di
tragedie, fondamentalmente di argomento politico, ispirate ai modelli ellenizzanti,
ambientate in mondi mitologici o nel Medioevo. Ciononostante, in molti casi queste
tragedie non sono rappresentate, soltanto lette pubblicamente.
La tragedia raggiunge la sua maturità nel Seicento, con le opere di Federico della
Valle e di Carlo de’ Dottori. Nella prima metà del Settecento furono i gesuiti a scrivere
tragedie; soltanto loro e gli attori, con poche eccezioni (Maffei, Merope), producevano
tragedie capaci di entrare nel circuito rappresentativo.
Quello del teatro gesuitico è un fenomeno originale e importante che trae origine da
un’indicazione della Ratio studiorum del 1586, il piano di studi previsto per le scuole gestite
dalla Compagnia di Gesù un po’ in tutta Europa, come un fondamentale strumento di
penetrazione della Controriforma presso le classi alte. Al suo interno sono compresi, nell’ambito
dell’insegnamento della lingua latina, saggi annuali di recitazione di testi drammatici da parte
degli allievi, come avveniva nelle antiche scuole di retorica. Quest’obbligo didattico sollecita,
all’interno dei collegi, un’intensa produzione di componimenti tragici di valore edificante in
latino e poi, visto il successo e la regolarità delle rappresentazioni, anche nei vari volgari
nazionali.25

Nella seconda metà del Settecento si registra una numerosa produzione di


tragedie, incentivata da diverse iniziative, come l’istituzione di un premio annuale per la
migliore tragedia durante il governo di Ferdinando di Borbone.26 È in questo periodo
quando Alfieri decide di dedicare la sua vita alla scrittura di tragedie.

23
BRIOSCHI – GIROLAMO, Manuale di letteratura italiana, cit., v. II, p. 813.
24
Ivi, v. II, p. 813.
25
Ivi, v. II, p. 833.
26
Ferdinando di Borbone, duca di Parma dal 1765 al 1802.

12
3. IL PERSONAGGIO DI MIRRA NELLA LETTERATURA
ITALIANA FINO AD ALFIERI.
Anche se Alfieri fu il primo a fare di Mirra la protagonista di una delle sue opere, prima
di lui ci sono stati altri autori italiani che l’hanno inclusa in alcuno dei loro scritti, ma
senza conferirle un vero statuto di personaggio. Tuttavia, prima di approfondire lo
studio di questi autori, dobbiamo rivolgerci alla fonte principale di Alfieri: Ovidio e le
sue Metamorfosi.
Nel libro X delle Metamorfosi si racconta la storia di Mirra, che Alfieri presse
come modello della sua tragedia,27 anche se ci sono diverse differenze argomentali fra i
due testi. Il contrasto più importante è che, nelle Metamorfosi, Mirra riesce ad avere un
rapporto sessuale con il padre, rimanendo incinta (di questa relazione incestuosa nacque
Adone), circostanza che Alfieri non include nella sua tragedia. Ci sono altre differenze
tra le due storie, che tratteremo in profondità di seguito.
Entrambi autori danno un’origine soprannaturale all’affiorare dei sentimenti
amorosi di Mirra. Ovidio afferma che questo innamoramento non è stato occasionato da
Cupido, ma che le vere colpevoli sono le Erinni:28
Ipse negat nocuisse tibi sua tela Cupido,
Myrrha, facesque suas a crimine uindicat isto:
stipite te Stygio tumidisque adflauit echidnis
e tribus una soror.29

Alfieri, invece, nella sua tragedia, converte in colpevole dell’innamoramento alla


dea Venere che decide di punire in questo modo la madre, Cecri, per il suo
comportamento vanitoso:
… Ah! Ben conosco,
cruda implacabil Venere, le atroci
tue vendette. Scontare, ecco, a me fai,
in questa guisa, il mio parlar superbo.
Ma, la mia figlia era innocente ; io sola,
l’audace io fui; la iniqua, io sola…30

27
Vedi nota 54.
28
«Las Erinias, fuerzas primitivas que moraban en los infiernos, son las encargadas de infligir los
castigos de todos los crímenes de sangre. Encarnan la venganza y son hijas de la discordia. Son tres:
Alecto, Tisífona y Megera. Se trata de genios alados de largas cabelleras entremezcladas con serpientes
que portan látigos y antorchas. Acosan a sus víctimas, se deleitan torturándolas y las hacen enloquecer»;
FERNAND COMPTE, Mitologías del mundo, Madrid, Larousse, 2006, p. 21.
29
PUBLIO OVIDIO-NASÓN, Metamorfosis, Madrid, CSIC, 1988, v. II, pp. 185-186, libro X, vv. 311-314
(d’ora in poi Metamorfosis, X, 311-314). Trad. italiana: «Cupido stesso nega, o Mirra, d’averti ferito con
le sue frecce e del tuo crimine scagiona le sue fiaccole. Con una torcia dello Stige e con serpenti velenosi
fu una Furia ad appestarti»; http://www.latin.it/autore/ovidio/metamorphoses/!10!liber_x/index.lat
(23/03/18).

13
Nelle Metamorfosi, Mirra consapevole dei suoi sentimenti incestuosi ma
sapendo che non può amare liberamente il padre, dopo un lungo dibattito interiore,
decide di uccidersi, ma la nutrice glielo impedisce e riesce, dopo molti tentativi, a farsi
dire dalla ragazza il motivo della sua sofferenza. Mirra sa che non dovrebbe avere questi
sentimenti per il padre, ma riconosce a sé stessa che tali sentimenti sono veri e che è
innamorata di lui. Nell’opera di Alfieri, tuttavia, Mirra non vuole ammettere e affrontare
queste emozioni che la turbano; infatti, non riesce ad accettare i suoi affetti fino alla fine,
quando confessa al padre i motivi della sua inquietudine, uccidendosi poi con la spada
del re. A un certo punto chiede aiuto alla sua nutrice per morire:
… Ti chieggo
di abbrevïar miei mali. A poco, a poco
strugger tu vedi il mio misero corpo;
il mio languir miei genitori uccide;
odïosa a me stessa, altrui dannosa,
scampar non posso: amor, pietà verace,
fia ’l procacciarmi morte; a te la chieggio… 31

ma poi si pente di farlo:


… Oimè! che dico?... –
Ma tu non m’odi?... Immobil,… muta,… appena
respiri! oh cielo!... Or, che ti dissi? io cieca
dal dolore,… nol so: deh! mi perdona;
deh! madre mia seconda, in te ritorna.32

Quando Mirra racconta alla nutrice, nelle Metamorfosi, cosa l’ha portata a volere
uccidersi, questa si mostra inorridita a causa di questi sentimenti incestuosi, ma decide
di aiutarla per tentare di evitare la morte: «“Viue”, ait haec “potiere tuo” et non ausa
“parente” dicere conticuit promissaque numine firmat». 33 Approfittando le feste in
onore della dea Cerere, nelle quali le donne non hanno relazioni con gli uomini, la
nutrice ha l’occasione di ottenere che il re s’interesse per una giovane ragazza che è
innamorata di lui. Questo non succede nel dramma di Alfieri, in cui la nutrice, che in
questo caso ha il nome di Euriclea (nelle Metamorfosi non ne appare mai il nome), non
scopre la verità del turbamento di Mirra fino alla fine della tragedia, quando la ragazza
si trafigge con la spada e sta per morire.
30
VITTORIO ALFIERI, Mirra, in ID., Tragedie, a cura di Bruno Maier, Milano, Garzanti, 1992, p. 500 (atto
III, scena 3; d’ora in poi Mirra, II.3). Le parole sono dette da Cecri, madre di Mirra, quando parla con il
marito, Ciniro, sulla figlia.
31
Mirra, II.4.
32
Ibidem.
33
Metamorfosis, X, 429-430. Traduzione: «“E vivi allora”, le dice, “avrai tuo…” e non osando dire
“padre”, si ammutolisce, ma conferma la promessa con un giuramento».
http://www.latin.it/autore/ovidio/metamorphoses/!10!liber_x/index.lat (23/03/18).

14
Un’altra differenza importante tra la Mirra di Ovidio e quella di Alfieri è che la
prima, anche se ha molti pretendenti, non è promessa a nessuno, come invece lo è la
seconda. Nel dramma di Alfieri, Mirra è promessa a Peréo, un principe che lei stessa ha
scelto come futuro marito e, anche se non lo ama, è decisa a sposarlo per fuggire dal
regno di suo padre e così non avere la necessità di affrontare questi sentimenti immorali
che sono affiorati in lei. Nonostante, questo pretendente si uccide dopo un attacco di
follia di Mirra durante la celebrazione delle nozze.

Dopo aver visto le differenze più importanti fra la fonte ovidiana e il testo di
Alfieri, vedremo ora i precedenti letterari italiani più significativi, per studiare com’è
stato affrontato il personaggio prima del drammaturgo piemontese.
Dante cita Mirra nel canto XXX dell’Inferno. In esso il protagonista della Divina
Commedia si trova nella decima bolgia dell’VIII cerchio, dove sono puniti diversi tipi di
falsari, tra cui quelli di persona, come nel caso di Mirra, che finge di essere un’altra
donna per avere un rapporto sessuale con il padre:
Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma…”.34

In questo cerchio dell’Inferno sono puniti i falsari di persona, di moneta e di


parola, e ognuno ha un castigo diverso. Mirra si trova nel gruppo dei falsari di persone e
questi «corren detrás de los que han cometido su mismo pecado, mordiéndolos con
avidez, con la misma rabia feroz che poseyeron en vida para fingirse otros».35
Nel canto V dell’Inferno, Dante personaggio si trova nel secondo cerchio, dove
sono puniti i lussuriosi. Sarebbe logico pensare che Mirra potesse essere in questo luogo
per il suo comportamento incestuoso, poiché il fiorentino parla di altre donne della
storia e la mitologia che, come lei, furono vittime della passione amorosa:
Una fila enorme de almas llama la atención de Dante, que le pregunta al maestro quiénes son y
por qué han sido castigados tan duramente. Virgilio va señalando con el dedo a Cleopatra, Elena,
Aquiles, Paris, Tristán y así hasta más de un millar de amantes famosos. 36

34
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, a cura di Tommaso Di Salvo, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 510,
Inf. XXX, vv. 37-41.
35
ISABEL GONZÁLEZ – JÚLIA BENAVENT, Guía a la lectura de la Divina Comedia, València, Institució
Alfons el Magnànim, 2007, p. 151.
36
Ivi, p. 50.

15
Queste donne che Dante menziona, Cleopatra37 Elena,38 insieme a Semiramide39
e Didone,40 furono conosciute dalla loro lussuria. Il fatto che Dante collochi i lussuriosi
in questo cerchio dell’inferno, subito dopo il limbo, suggerisce che per lui questo non
era uno dei peccati più gravi; e questo potrebbe essere il motivo per cui non vi ha
inserito Mirra con tutte queste donne. Dante considerava peggiore avere finto di essere
un’altra donna per riuscire ad avere una relazione con il padre, e non la passione in sé
stessa.
Quando Dante personaggio si trova nella decima bolgia dell’VIII cerchio vede
un’anima percorrendola e chiede a Virgilio, la sua guida, chi sia quest’anima. Mirra non
è rilevante per Dante, come altri personaggi, per cui non vuole parlare con lei, e così
Mirra appare nell’opera soltanto come una breve menzione e non come vero
personaggio della storia.
Petrarca è un altro autore che cita Mirra nella sua opera, non nel Canzoniere, ma
nei Trionfi, più esattamente nel Triumphus cupidinis (Trionfo d’Amore):
Vedi tre belle donne innamorate,
Procri, Artemisia con Deidamia,
et altrettante ardite e scelerate,
Semiramìs, Biblì e Mirra ria;
come ciascuna par che si vergogni
de la sua non concessa e torta via!41

37
«Amante prima di Cesare, che la pose sul trono d’Egitto dopo aver destituito il fratello di lei, e poi di
Antonio, che per lei si fecce assegnare il controllo della provincia d’Egitto ed abbandonò a Roma la
legittima moglie, utilizzò per tutta la sua vita la lussuria come strumento per raggiungere il potere.
Durante la battaglia di Azio tra Antonio ed Ottaviano Augusto, per non cadere prigioniera di questo
ultimo, saputo della morte dell’amante, si tolse la vita facendosi mordere da un serpente velenoso, un
aspide»; http://www.orlandofurioso.com/divina-commedia/divina-commedia-approfondimenti/710/i-
lussuriosi-nellinferno-della-divina-commedia/ (14/03/18).
38
«Elena, personaggio dell’Iliade e moglie di Menelao, uccisa da una donna greca che voleva vendicare
la morte del marito a Troia»; http://divinacommedia.weebly.com/lussuriosi-dannati.html (14/03/18).
39
«Semiramide è una leggendaria regina assiro-babilonese, moglie dell’altrettanto leggendario re Nino,
fondatore eponimo di Ninive. Semiramide sarebbe succeduta a Nino, morto in battaglia, assumendo la
reggenza per il figlio Nynias. Secondo diverse varianti, si sarebbe invece impadronita del potere con uno
stratagemma e avrebbe fatto incarcerare e poi uccidere il marito, allontanando il figlio dalla corte.
Secondo un altro racconto non avrebbe cacciato il figlio ma si sarebbe innamorata di lui, instaurando un
rapporto incestuoso. Sarebbe poi stata uccisa in seguito ad un complotto ordito dal figlio. Per gli scrittori
cristiani medioevali Semiramide assurge a simbolo dell’assolutismo pagano, crudele e licenzioso fino
all’incesto. Dante afferma che Semiramide era così lussuriosa che, per far in modo che il suo
comportamento risultasse “normale” agli occhi della popolazione, promosse una legge, attraverso la quale
tutti i sudditi dovevano essere altrettanto lussuriosi»; Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Semiramide
(14/03/2018)
40
«Si legò ad Enea rompendo così il patto di fedeltà con il marito defunto Sicheo, per togliersi infine la
vita quando il nuovo amante la abbandonò per continuare il viaggio indicatogli dagli dei»;
http://www.orlandofurioso.com/divina-commedia/divina-commedia-approfondimenti/710/i-lussuriosi-
nellinferno-della-divina-commedia/ (14/03/2018).
41
FRANCESCO PETRARCA, Rime e Trionfi, a cura di Ferdinando Neri, Torino, UTET, 1960, pp. 533 e 534,
Triumphus cupidinis, III, vv. 72-78.

16
Nel Triumphus Cupidinis si narra come, in un giorno di primavera, il poeta si
addormentò a Valchiusa e fece un sogno in cui vedeva la personificazione dell’Amore
passando su un carro trionfale, seguito da una schiera di seguaci che sono i vinti da lui.
Entrando nella schiera, il poeta vi riconosce numerosi personaggi illustri, storici,
letterari, mitologici, biblici… oltre a poeti antichi, medievali e trovatori.
Petrarca menziona Mirra nel canto terzo, insieme a Semiramide e Biblide, 42
mostrandola come una donna lussuriosa e incestuosa. Petrarca dice che tutte e tre si
vergognano dal loro comportamento: «come ciascuna par che si vergogni / de la sua non
concessa e torta via!». Inoltre, si noti, Mirra appare, un’altra volta, soltanto in una breve
citazione nel testo, e non come vero personaggio.
Possiamo vedere, anche come Ariosto cita Mirra in una delle sue opere.
Nell’Orlando furioso la menziona nel canto XXV, nell’ottava trentaseiesima, e, come
aveva fatto Petrarca, mettendola insieme ad altre donne che dimostrarono di aver avuto
un comportamento lussurioso e immorale, come Semiramide («La moglie del re Nino
ebbe disio, / il figlio amando») o Pasifae, che si fecce costruire una macchina che le
permettesse di avere un rapporto sessuale con il toro di Creta43 («e la Cretense il toro»):
In terra, in aria, in mar, sola son io
che patisco da te sì duro scempio;
e questo hai fatto acciò che l’error mio
sia ne l’imperio tuo l’ultimo esempio.
La moglie del re Nino ebbe disio,
il figlio amando, scelerato ed empio,
e Mirra il padre, e la Cretense il toro:
ma gli è più folle il mio, ch’alcun dei loro.44

In questa parte del canto si racconta la storia di Bradamante e Fiordispina.


Essendo stata ferita Bradamante nella testa, si vede nell’obbligo di tagliarsi i capelli per
così curarsi la ferita. Poi, arrivata a una fonte, si addormenta, e lì la trova Fiordispina,
che, vedendola con le armi, pensa si tratti di un cavaliere:
E quando ritrovò la mia sirocchia
tutta coperta d’arme, eccetto il viso,

42
«Nella mitologia greca, Biblide (o Bibli) era la figlia di Mileto e di Ciane. Biblide una volta cresciuta
provò un’attrazione innaturale per suo fratello Cauno, non riuscendo a resistere ai suoi sentimenti si
confessò e cercò di prendere con la forza il parente che rifiutava il suo amore. Cauno fuggì inseguito dalla
sorella, scappò per mari e per monti. Biblide lo inseguì in tanti paesi fra cui la Lidia, ma alla fine cadde
esausta in lacrime per non aver ricevuto l’amore sperato. Gli dei ebbero pietà della donna e la
trasformarono in una fonte»; Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Biblide (14/03/18)
43
«Minos […] pide a Poseidón que haga salir del mar un toro para que lo sacrifique al dios […] El toro
de Poseidón es un animal muy bello. Seduce a Minos, que no quiere perderlo […] Entonces Poseidón se
enfada, da al toro un salvajismo amenazador y lo convierte en objeto de los deseos irrefrenables de
Pasífae»; COMPTE, Mitologías, cit. p. 74.
44
LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di Remo Ceserani, Torino, Einaudi, 1966, v. II, p. 742,
canto XXV, ottava 36. (d’ora in poi, Orlando, XXV, 36.)

17
ch’avea la spada in luogo di conocchia,
le fu vedere un cavalliero aviso.45

Fiordispina s’innamora di Bradamante, le confessa il suo amore e la dà un bacio.


Bradamante, imbarazzata, chiarisce subito la sua identità per mostrate l’errore compiuto
dalla donna. Nonostante la confessione, Fiordispina continua, però, ad ardere d’amore
per Bradamante, disperandosi per non poter sfogare la propria passione amorosa e
addolorandosi per il proprio folle sentimento. In questa situazione si parla di Mirra e
anche di Semiramide, poiché, anche loro, hanno avuto una passione amorosa proibita,
come quella di Fiordispina.
Ariosto menziona Mirra come un esempio di amore innaturale che, tuttavia, alla
fine, la ragazza riesce a soddisfare. In questo modo vediamo come un altro autore
soltanto la cita, senza darle un particolare rilievo come personaggio.
L’ultimo autore di cui parleremo in questa sezione sarà Marino che, nell’Adone,
cita più volte Mirra. Secondo la mitologia e la storia raccontata da Ovidio nelle
Metamorfosi, 46 dalla relazione incestuosa tra Mirra e il padre nasce Adone. Marino
rispetta questa genealogia e, anche se Mirra non appare come personaggio nel suo
poema, sì la menziona come madre del protagonista. Il napoletano cita Mirra undici
volte in sei canti diversi lungo tutto il poema:
Il mio volere al voler vostro è presto
tanto che quasi in me nulla n’avanza.
Lo stato mio, s’a tutti è manifesto,
come a voi di celarlo avrei baldanza?
Mirra, dirollo, il cui nefando incesto
la vergogna rinova ala membranza,
fu la mia genitrice e da colui
che generolla, generato io fui.

Ed ella allor: - Che tu ti sia, mia vita,


esperto arcier, saettatore accorto,
altra prova non vo’che la ferita,
che’n mezzo al petto immedicabil porto.
Ma d’aver tal beltà mai partorita,
Mirra, credilo a me, si vanta a torto,
perché fra l’ombre il sol non si produce,
né può la notte generar la luce.

Così l’arcier, che di Ciprigna nacque,


venia di Mirra al bel figliuol parlando;
e perch’assai d’udirlo ci si compiacque,
ale sue note attenzion mostrando,
il dir riprese e, poich’alquanto tacque,
non però già di passeggiar lasciando,
nel grazioso Adon gli occhi converse

45
Orlando, XXV, 28, p. 740.
46
OVIDIO, Metamorfosis, cit., vv. 298-518, pp. 185-194.

18
e’n più lungo parlar le labra aperse.47

* * *

Fumante il sacro incenso erutta quivi


d’alito peregrin grati vapori;
scioglie il balsamo pigro in dolci rivi
i preziosi e nobili sudori;
stilla in tenere gomme e’n pianti vivi
i suoi viscosi e non caduchi umori
Mirra, del bell’Adon la madre istessa,
e’l bel pianto raddoppia, orch’ei s’appressa.

Ma più d’ogni altro ambizioso il giglio


qual re sublime in maestà sorgea
e, con scorno del bianco e del vermiglio,
in alto il gambo insuperbito ergea;
dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio
segnollo a dito e’l salutò la dea:
- Salve (gli disse) o sacra, o regia, o degna
del maggior gallo e fortunata insegna. 48

* * *

- Dela bella armonia (di Mirra al figlio


disse il figlio di Maia) è questi il duce;
anch’ei dela tua dea servo e famiglio
al piacer del’udire altrui conduce.
Né fatto è senza provido consiglio
Ch’alberghi con Amor chi amor produce,
poiché non è degli amorosi metri
cosa in amor che maggior grazia impetri. 49

* * *

Io di vietato amor nefande prede


trassi Mirra a rapir dal padre istesso.
Al’inganno amoroso ardir mi diede
pietà del suo languir; l’error confesso.
Ma se quando dal male il ben procede
suol perdonarsi ogni più grave eccesso,
ben può, d’effetto buon ministra ria,
perdono meritar la colpa mia.50

* * *

Chi dunque stupirà che del fratello


ardesse Bibli con infame ardore?
e Mirra, di cui nacque Adone il bello,
ad amar s’accendesse il genitore?
Qual meraviglia fia che questo e quello
per la propria sua specie infiammi Amore,
se nel cor d’una fera ebbe ancor loco
sì violento e mostruoso foco?

47
GIOVAN BATTISTA MARINO, Adone, Milano, Adelphi, 1988, pp. 179 e 186, canto III, ottave 144, 147,
175 (d’ora in poi, Adone, III, 144, 147, 175).
48
Adone, VI, 129, 135.
49
Ivi, VII, 9.
50
Adone, XVI, 234.

19
Sei tu, dimmelo Adon, l’idol mio caro?
Tant’osa e tanto può morte superba?
Dov’è dele tue stelle il lume chiaro?
a che fiera tragedia il ciel mi serba?
O già sì dolce, or dolcemente amaro,
com’ogni mia dolcezza hai fatta acerba!
Ben a Mirra sei tu simile intutto,
nato d’amara pianta amaro frutto.

Pregisi che per lui piangan le dive


Adon tra le miserie anco beato.
Morì quanto ala vita, al’onor vive,
mortal fu il corpo, il nome è immortalato.
Piagne colà d’Arabia insu le rive
Mirra vie più costui che’l suo peccato.
Piangon gli Amori in Cipro, i bronchi, i dumi
distillan pianto e corron pianto i fiumi. 51

* * *

Presso ala pianta, apiè del’alta cassa,


tutto del bel garzone in doppio ovato
di mezzo intaglio e di scultura bassa
il natal con la morte è rilevato.
Quinci Mirra si vede afflitta e lassa
frondoso divenir legno odorato
e dopo lungo affanno alfin sofferto
il fanciullo sbucciar dal tronco aperto.52

Tutti gli autori ricordati finora citano Mirra insieme ad altre donne che sono
conosciute dalla loro lussuria.53 Nonostante, non si ripete l’ordine in cui sono state
nominate in nessun autore e nemmeno indicano le stese donne.
Dante, Petrarca e Ariosto menzionano Semiramide come donna lussuriosa e
incestuosa, ma questa è l’unica coincidenza fra i tre autori. Le altre donne citate da
Dante non appaiono nell’opera di Petrarca né in quella di Ariosto. D’altra parte, Ariosto
è l’unico autore che nomina Pasifae, che a sua volta è l’unica che, anche se fu lussuriosa,
non commesse il peccato dell’incesto, come sì fecero le altre donne. In questo elenco di
“donne lussuriose” si ripete un’altra donna, Bibli, che appare menzionata da Petrarca e
da Marino, e lo stesso Alfieri la menziona nella Vita quando parla di Mirra.
Alfieri non aveva mai pensato di fare una tragedia con un argomento sull’incesto
come quello di Mirra o di Bibli, ma dopo aver letto le Metamorfosi di Ovidio, si

51
Ivi, XVIII, 86, 177, 223.
52
Ivi, XIX, 344.
53
Anche se Dante non menziona Mirra nel canto V con le altre donne lussuriose, poiché lei aveva
commesso un peccato ancora più grave, sì menziona Semiramide, personaggio che altri autori hanno
messo insieme a Mirra nelle loro opere.

20
commosse con la storia di Mirra e decide di convertirla in una tragedia, ma escludendo
la parte immorale della storia:
A Mirra non avea pensato mai; ed anzi, essa non meno che Bibli, e così ogni altro incestuoso
amore, mi si erano sempre mostrate come soggetti non tragediabili. Mi capitò alle mani nelle
Metamorfosi di Ovidio quella caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei
nutrice, la quale mi fece prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l’idea di
porla in tragedia.54

Non c’è nessun autore che ripeta né l’ordine né le donne citate dai suoi
precedenti letterari; tutti hanno deciso di includere Mirra in un elenco di donne
lussuriose appartenenti tutte alla tradizione culturale antica.
Possiamo vedere così che lungo la letteratura italiana, almeno fra gli scrittori più
rilevanti, non c’è stato nessuno che volesse fare di Mirra la protagonista di una delle sue
opere e nemmeno un semplice personaggio secondario. Quelli che hanno parlato di lei,
l’hanno fatto solo in maniera generica e sempre dando risalto al suo comportamento
lussurioso e incestuoso, come già abbiamo detto, inserendola in questi elenchi con altre
donne che avevano avuto un atteggiamento immorale simile. Per tale motivo si può
apprezzare meglio la novità nella Mirra di Alfieri, poiché per l’autore non è solo la
protagonista dell’opera, ma dimentica il suo comportamento lussurioso e la fa diventare
una vittima dei propri sentimenti, di cui si vergogna fino al punto di non voler
riconoscerli.

54
ALFIERI, Vita, cit., p. 233, Epoca quarta, capitolo XIV.

21
4. MIRRA: UNA LETTURA
a. RIASSUNTO DELL’OPERA

ATTO I
La regina, Cecri, ed Euriclea (nutrice di Mirra) parlano dei turbamenti di Mirra, che,
anche se è fidanzata con Peréo, principe dell’Epiro e grande uomo, non è felice.
Euriclea dice alla regina che forse Mirra non riesce ad amarlo.
Cecri parla con Ciniro (il re), che decide che, sebbene debba farsi amico del re di
Epiro per questioni di stato, non può obbligare la figlia a sposare un uomo che non ama,
e chiede a Cecri di dirlo alla figlia.

ATTO II
Ciniro fa chiamare Peréo e gli chiede se è convinto dei sentimenti di Mirra. Peréo gli
descrive lo strano comportamento di lei, che a volte sembra decisa a sposarsi e altre
volte vuole annullare le nozze senza giustificazioni. Peréo dice di essere disposto a
rinunciare al suo matrimonio, anziché vedere infelice Mirra, se lei non lo ama.
Quando Mirra e Peréo s’incontrano, si mette in evidenza il comportamento
vacillante di lei, ma la ragazza afferma che si sposerà con lui, e gli chiede che il
matrimonio abbia luogo immediatamente e che lascino il paese il giorno seguente.
Di seguito, Euriclea racconta a Mirra che è stata al tempio di Venere per
invocare aiuto per la ragazza e che gli è sembrato che la dea rifiutasse i suoi voti. Mirra
conferma che vuole sposare Peréo, ma che sente che la sua fine si avvicina e che morirà
fra poco.

ATTO III
Mirra ha una conversazione con i suoi genitori nella quale continua a manifestarsi
turbata dai suoi tormenti, ma li assicura che sposerà Peréo e ottiene il loro
consentimento per lasciare il paese il giorno dopo il matrimonio.
Cecri racconta a Ciniro l’offesa che ha fatto alla dea Venere e come da quel
giorno in poi cominciarono i turbamenti di Mirra.
Ciniro è convinto che l’unica salvezza per Mirra sia abbandonare il paese e lo
dice a Peréo. Lui si sente inquieto con l’idea di questa partenza ma, alla fine, si lascia
convincere.

22
ATTO IV
Mirra parla con Euriclea e si lamenta di non poterla portare con sé. Poi parla con Peréo
e gli dice che, dopo avere abbandonato il paese, non deve menzionare mai più né Cipro,
né i suoi genitori, e così lei potrà essere felice.
Comincia la cerimonia in cui si cantano alcuni inni durante i quali Mirra inizia a
dire parole insensate e proclama che le furie si sono appropriate di lei. Dopo queste
parole, Peréo annuncia la fine del loro compromesso e fugge.
Quando Mirra è sola con la madre, accusa Cecri di essere la causa di tutti i suoi
tormenti e della sua infelicità, per cui dovrebbe aiutarla a uccidersi, ma di seguito gliene
chiede perdono.

ATTO V
Anche se il fatto non avviene sul palcoscenico, Peréo si uccide tra la fine dell’atto
quarto e l’inizio dell’atto quinto. Ciniro addolorato dalla morte di Peréo, racconta a
Mirra che questo si è ucciso. Ciniro, convinto che Mirra sia innamorata di qualcun altro,
tenta di fare confessare la figlia, dicendo che consentirà il matrimonio con chiunque sia
il suo innamorato. Mirra risponde in maniera confusa cercando di non scoprire il suo
segreto ma, alla fine, esausta, confessa a Ciniro che il suo innamorato in realtà è lui, per
poi uccidersi con la sua spada.
Appaiono Cecri ed Euriclea che ascoltano inorriditi Ciniro che racconta loro
quanto è successo. Mirra muore rimproverando Euriclea di non averla aiutata a
uccidersi prima e così morire innocente e non empia, come ha fatto alla fine.

b. TEMA DELL’OPERA E STRUTTURA ESTERNA

Alfieri considerava che la divisione perfetta di una tragedia predeva cinque atti, poiché
questo numero era sufficiente per raccontare tutto l’argomento, che doveva essere
uniforme. Si doveva riferire soltanto una linea argomentale e non aggiungere vicende
secondarie che potessero ostacolare la storia principale e distrarre gli spettatori.
Alfieri era convinto che il soggetto delle sue tragedie doveva appartenere a un
repertorio già definito, che poteva essere letterario o storico, ma doveva introdurre
situazioni nuove.

23
Tutto questo si può vedere in quest’opera, scritta in cinque atti, che soltanto
presenta la storia di Mirra e i suoi tormenti per il suo amore incestuoso.
Alfieri sceglie come fonte, in questo caso, le Metamorfosi di Ovidio, dove si
racconta la storia di Mirra che, amando segretamente il suo padre, riesce ad avere
relazioni con lui dando come risultato il figlio Adone. Nonostante, la storia di Mirra che
Alfieri presenta è un po’ diversa di quella di Ovidio. Alfieri ci presenta una Mirra
tormentata dai propri sentimenti, che non vuole riconoscere neanche a sé stessa. Questa
è la situazione nuova che Alfieri introduce in questa storia della mitologia classica.

c. TEMPO E LUOGO

Secondo il canone drammaturgico aristotelico i drammi devono rispettare la regola delle


tre unità: tempo, luogo e azione. L’unità di luogo stipula che l’azione si deve svolgere in
un unico luogo, nel quale i personaggi possano muoversi e raccontare le vicende che
succedono; secondo l’unità di tempo, l’azione deve svolgersi in un’unica giornata:
La epopeya, ciertamente, discurrió a la par con la tragedia sólo hasta el punto de ser ambas
imitaciones de individuos moralmente serios hechas con discurso y en verso. Pero difieren en
que la primera posee un verso uniforme y es un relato. Se diferencian además por su extensión,
pues la una trata lo más posible de cumplirse en una sola revolución del sol o exceder en poco
los límites de esta duración, mientras que la epopeya es ilimitada en el tiempo, aunque al
principio los poetas hacían esto de manera similar en las tragedias y en las epopeyas.55

L’unità d’azione afferma che il dramma deve comprendere un unico filo


argomentale:
El más importante de estos elementos es el entramado de las acciones, pues la tragedia es
imitación no de hombre, sino de una acción y de una vida; así pues, los personajes no actúan
para imitar los caracteres, sino que los caracteres se los van adaptando a causa de sus acciones.
De manera que las acciones y el argumento son el fin de la tragedia y el fin es lo más importante
de todo.56

La tragedia es la imitación de una acción acabada y completa que posee una cierta extensión;
pues puede darse una cosa entera que carezca de extensión. Completo es lo que tiene principio,
medio y fin […] en el ámbito de los argumentos es menester que éstos tengan una extensión pero
que ésta sea abarcable por la memoria. 57

Así pues, al igual que en las demás artes de imitación la unidad de la imitación resulta de la
unidad de su objeto, así también es preciso que el argumento, puesto que es imitación de una sola
acción, lo sea de una sola y que ésta sea completa, y que las partes de las acciones estén de tal

55
ARISTÓTELES, Poética, cit., p. 43 (1449b). In questo frammento possiamo vedere la spiegazione
dell’unità di tempo.
56
Ivi, p. 45 (1450a).
57
Ivi, p. 49, 51 (1450a, 1451a).

24
modo ensambladas entre sí, que, si se cambia de lugar o se suprime una de ellas, se altere y
conmueva también el conjunto.58

Alfieri rispettava queste unità nelle sue tragedie. Abbiamo visto anteriormente
come mantiene l’unità d’azione raccontando soltanto la storia di Mirra, senza
aggiungere trame secondarie e adesso vedremo come rispetta le altre due unità.
Il luogo in cui si svolge l’azione di Mirra è il palazzo reale di Cipro. Nel
dramatis personae viene sottolineato che la scena si svolge nella reggia di Cipro. In
nessun momento si dice che i personaggi si spostino, e perfino le nozze si celebrano
nella reggia e non nel tempio:
… Dal gran tempio all’ara,
a Cipro tutta in facci andar non vuolsi;
che il troppo lungo rito al partir ratto
ostacol fora. In questa reggia, gl’inni
d’Imenèo canteremo.59

Ciniro, parlando con Peréo e Cecri decide di celebrare le nozze nella reggia,
poiché considera che non sarebbe opportuno recarsi davanti a tutto il popolo di Cipro.
«Ecco venirne / già i sacerdoti, e la festosa turba, / e i cari nostri genitori»,60 sono i
sacerdoti e il popolo quelli che si spostano nel palazzo per la celebrazione delle nozze.
Questo era abituale nel teatro greco, poiché era difficile rappresentare diversi
luoghi scenografici nell’epoca. Come afferma Aristotele nella Poetica: “la función del
poeta no es contar lo sucedido, sino lo que podría suceder y lo posible en virtud de la
verosimilitud o la necesidad”.61 Aristotele non parla esplicitamente dell’unità di luogo,
ma quello che si rappresentava doveva essere verosimile, e adeguarsi al luogo in cui era
messa in scena la tragedia. Per questo l’azione veniva rappresentata in un unico luogo
nel quale si incontrano e parlano i personaggi.
Per quanto riguarda l’unità di tempo, la storia si svolge nel periodo di un giorno.
Non ci sono vere precisazioni temporali nell’opera, ma in due occasioni si danno dati
del momento del giorno in cui si svolge l’azione. Sappiamo che la storia comincia la
notte precedente alla celebrazione delle nozze fra Mirra e Peréo: «e questa notte,
ch’ultima precede».62 L’altra indicazione temporale che troviamo appare nell’atto terzo,
scena seconda, quando Ciniro, parlando con Mirra, dice: «Ad eternare il marital tuo

58
ARISTÓTELES, Poética, cit., pp. 51-53 (1451a).
59
Mirra, III, 4, p. 504.
60
Ivi, IV, 3, p. 510. Queste parole sono dette da Peréo prima della celebrazione delle nozze.
61
ARISTÓTELES, Poética, cit., p. 53 (1451a).
62
Mirra, I, 1, p. 462 (parole dette da Euriclea quando parla con Cecri sui tormenti di Mirra).

25
nodo / manca omai solo un’ora». Anche se non sappiamo esattamente il momento in cui
si svolge la cerimonia delle nozze, possiamo assumere che tutta l’azione della tragedia
si svolge nel periodo di un giorno, e che Alfieri rispettò anche l’unità di tempo come
fecce con le altre unità aristoteliche.

d. PERSONAGGI.

Alfieri affermava che nelle tragedie non dovevano essere presenti personaggi che non
fossero fondamentali per la storia.
In questo caso, Mirra ha un elenco di cinque personaggi: Mirra, la protagonista;
Ciniro e Cecri, i genitori di Mirra; Euriclea, la nutrice di Mirra e Peréo, il fidanzato.
Inoltre a questi personaggi appare anche il popolo, diviso in fanciulli, vecchi e donzelle,
e anche il coro, elemento di grande importanza nella tragedia greca:
Las partes de la tragedia […] son éstas: prólogo, episodio, éxodo y parte coral. Y de ésta hay dos
variedades: párodo y estásimo. Estas partes son comunes a todas las tragedias […] De la parte
coral, la párodo es la primera elocución completa del coro. El estásimo es el canto del coro sin
anapestos ni troqueos.63

Per Aristotele il coro era un elemento di grande importanza nelle tragedie: «Y al


coro hay que concebirlo como uno de los actores, y debe ser una parte del conjunto e
intervenir en la acción».64
Nelle tragedie del teatro greco, originalmente, il coro:
Está compuesto por un grupo de hombres o mujeres que suelen ser amigos o compañeros del
protagonista de la obra, a quien normalmente aconseja para que ceda en su comportamiento o
deponga su obstinación; otras veces le reconforta, consuela, alienta o incluso amonesta, siempre
con cariño.65

Si poteva osservare, anche, una differenza sociale tra i personaggi della tragedia
e i componenti del coro:
Its main characters were noble, although they might be disguised as beggars or enslaved.
Choruses, who could participate in the action by, for example, revealing secrets, could not stop
an act of violence, so they were often women, slaves, or old men. 66

Di seguito vediamo una tabella in cui troviamo tutti gli interventi dei personaggi
che appaiono nell’opera, e che analizzeremo di seguito:

63
ARISTOTELES, Poética, cit., p. 59 (1452b)
64
Ivi, p. 79.
65
ANTONIO GUZMÁN GUERRA, Introducción al teatro griego, Madrid, Alianza, 2005, p. 45.
66
RUTH SCODEL, An Introduction to Greek Tragedy, New York, Cambridge University Press, 2010, p. 5.

26
Numero di interventi dei personaggi
Atto I Atto II Atto III Atto IV Atto V Totale
Mirra 18 12 20 20 70
Ciniro 2 4 18 6 25 56
Cecri 9 20 10 8 47
Euriclea 5 11 11 1 28
Peréo 10 4 6 20
Popolo 6 6
Coro 5 5

MIRRA
È la protagonista e, anche se il suo primo intervento non si produce fino al secondo atto,
è il personaggio che più volte interviene in tutta la tragedia, il che conferma il suo posto
di protagonista del testo. La tragedia è costruita intorno al suo silenzio e al suo rifiuto a
confessare qual è la causa dei suoi tormenti e turbamenti.
Non è il tipico eroe delle tragedie di Alfieri, poiché non c’è uno scontro fra eroe
negativo e positivo:
La situazione base della tragedia dell’Alfieri può essere schematicamente riassunta in uno
scontro tra eroi “positivi”, che incarnano la “virtù” politica o valori di giustizia, fedeltà e
dolcezza, ed eroi “negativi”, che schiacciano ogni valore umano sotto la tirannica brama del
potere. A queste figure centrali, che nelle tragedie politiche si identificano direttamente con
l’uomo libero e con il tiranno, si aggiungono personaggi che complicano i loro rapporti […]
Tiranno e uomo libero hanno infatti bisogno l’uno dell’altro, e nessuno dei due può imporre i
propri gesti e la propria voce senza i gesti e la voce dell’avversario […] A tali contrasti si
sovrappone una catena di rapporti familiari, che quasi sempre legano tra loro l’eroe e l’antieroe e
chiamano in causa altri personaggi: il conflitto, traducendosi in tragedia familiare, diventa così
molto più complicato e ambiguo.67

Possiamo osservare un esempio di questo tipo nella tragedia Saul, nella quale
l’eroe positivo (Davide) deve mettersi di fronte all’eroe negativo (Saul) che, in questo
caso, è il suo re ma anche suo suocero. Nel caso di Mirra lo scontro accade all’interno
del proprio personaggio, che deve lottare contro i suoi sentimenti, i quali dall’altra parte,
si rifiuta di riconoscere perfino a sé stessa.
Lungo tutta la tragedia possiamo vedere la turbazione di cui è preda Mirra, e
anche se non appare nel primo atto, gli altri personaggi parlano dei suoi problemi e del
suo turbamento, presentando così il tema principale di tutto il dramma. Nella prima
scena dell’atto primo, Cecri, madre di Mirra, parla con Euriclea, la nutrice, sulla figlia e
sul motivo che causa il suo turbamento: «Or, della figlia nostra / misera tanto, a me
narrar puoi tutto» (I.1). Con queste parole Cecri chiede a Euriclea che le dica cosa sa

67
FERRONI, Storia e testi della letteratura italiana, cit., pp. 106-107.

27
della figlia, e perché è così turbata. Cecri afferma che da tempo vede nella figlia «una
ostinata ed alta / malinconia mortale» (I.1) ma che a lei non vuole raccontare niente:
E invan l’abbraccio; e le chieggo, e richieggo,
invano ognor, che il suo dolor mi sveli:
niega ella il duo; mentre di giorno in giorno
io dal dolor strugger la veggio. (I.1)

Possiamo osservare già la negativa di Mirra ad ammettere i suoi sentimenti: non


vuole raccontare nulla alla madre o alla nutrice perché non riesce ad accettare quello che
sente.
La prima apparizione di Mirra si verifica nella seconda scena del secondo atto,
in cui parla con Peréo, il suo fidanzato. Peréo mostra i suoi dubbi poiché è sicuro che
Mirra non vuole quel matrimonio e non la vede felice, ma lei tenta di convincerlo del
suo desiderio di sposarlo:
… Questo alle nozze
è il convenuto giorno; io presta vengo
a compierle; e di me dubita intanto
il da me scelto sposo? … (II.2)

È in questo momento quando chiede a Peréo di lasciare il regno il giorno dopo:


No; questo è il giorno; ed oggi
sarò tua sposa. – Ma, doman le vele
daremo ai venti, e lascerem per sempre
dietro noi queste rive. (II.2)

Anche se Mirra non vuole riconoscere quello che sente, sa che deve allontanarsi
dalla sua città, e dai suoi genitori, e già in questo momento comincia a parlare della sua
morte:
... Il vo’;… per sempre
abbandonarli;… e morir… di dolore… (II.2)

Mirra ammette davanti a Peréo che un grande dolore la distrugge, ma non vuole
dire qual è la causa di tale soffrimento:
... Dolore immenso
mi tragge, è ver… Ma no, nol creder. (II.2)

Anche quando Mirra è con Euriclea parla della morte e di morire:


... Il dolor pria
ucciderammi, spero… Ma no; breve
fia troppo il tempo;… ucciderammi poscia,
ed in non molto… Morire, morire,
null’altro io bramo;… e sol morire, io merto. (II.4)

28
Mirra pensa che l’unica soluzione per quello che sente e l’unico fine che merita
sia la morte, e spera che questa avvenga presto. Lei sa che quello che sente è
un’emozione contro natura e per questo dice «aperto è il mio petto all’Erinni» (II.4), le
dee della vendetta, che perseguitavano coloro che erano colpevoli di qualsiasi
violazione dell’ordine morale e che, come già abbiamo visto precedentemente, sono le
causanti dell’innamoramento di Mirra secondo Ovidio.68
La prima volta che la protagonista si trova con il padre è nel terzo atto, scena
seconda, quando è davanti ai genitori che vogliono sapere cosa le succede, ma lei
all’inizio ha difficoltà per parlare davanti al padre e tenta di infondersi coraggio:
O Mirra, è questo
l’ultimo sforzo. – Alma, coraggio… (III.2)

Davanti ai genitori Mirra afferma che il suo turbamento è causato dalla


vicinanza delle nozze ma che, in realtà, si sente felice di sposare Peréo:
… Da che ferma,
Peréo scegliendo, ebbi mia sorte io stessa,
meno affannosa rimaner mi parve,
da prima, è ver; ma, quando poi più il giorno
del nodo indissolubil si appressava,
vie più forti le smanie entro al mio cuore
ridestavansi; a tal, ch’io ben tre volte
pregarvi osai di allontanarlo.
[…] Oggi a Peréo son io
sposa, o questo esser demmi il giorno estremo. (III.2)

Già nella celebrazione delle nozze, nell’atto quarto, scena terza, Mirra è preda di
un attacco di follia nel momento in cui il coro e il popolo pronunciano gli inni nuziali:
Che dite voi? già nel mio cor, già tutte
le Furie ho in me tremende. Eccole; intorno
col vipereo flagello e l’atre face
stan le rabide Erinni: ecco quai merta
questo imenèo le faci… (IV.3)

Ma sembra che dopo dire questo non ricorda niente:


Ma che? già taccion gl’inni?...
Chi al sen mi stringe? Ove son io? Che dissi?
Son io già sposa? Oimè!... (IV.3)

Dopo l’interruzione delle nozze, Mirra si trova con i genitori e la nutrice, e


chiede a suo padre che la uccida:
… Entro al mio petto vibra
quella che al fianco cingi ultrice spada:

68
Vedi il punto 3: Il personaggio di Mirra nella letteratura italiana fino ad Alfieri.

29
tu questa vita misera, abborrita,
davi a me già; tu me la togli: ed ecco
l’ultimo dono, ond’io ti prego… (IV.5)

Si vede anche il turbamento di Mirra quando parla con la madre, prima non
volendo il suo contatto e poi pentendosi del suo comportamento e il suo linguaggio con
lei, e anche a lei chiede la morte:
Ah! Troppo
dolor mi accresce anco il vederti: il cuore,
nell’abbracciarmi tu, vieppiù mi squarci…
Ma… oimè!... che dico?... Ahi madre!... Ingrata, iniqua,
figlia indegna son io, che amor non merto.
Al mio destino orribile me lascia;…
o se di me vera pietà tu senti,
io tel ridico, uccidimi. (IV.7)

Non è fino alla fine che Mirra confessa i suoi sentimenti, davanti al padre, dopo
molti dubbi, e con molta insistenza da parte di lui, che vuole sapere cosa tormenta la
figlia.

CINIRO
È il re di Cipro, padre di Mirra e l’oggetto del suo amore incestuoso. Possiamo vedere
che è l’unico personaggio che interviene nei cinque atti della tragedia e il secondo con il
numero più alto d’interventi; in questo modo si vede sottolineata l’importanza che ha
nello svolgimento della tragedia, come oggetto dell’amore incestuoso della figlia.
Il suo primo intervento si riscontra nel primo atto, scena terza, quando parla con
Cecri sulla figlia. Ciniro è disposto ad annullare il matrimonio di Mirra se così può
aiutare la ragazza, poichè per lui è più importante la felicità della figlia che il regno:
Ah! Mille volte prima morir vorrei,
che all’adorata nostra unica figlia
far forza io mai. Chi pur creduto avrebbe,
che trarla a tal dovessero le nozze
chieste da lei? Ma, rompansi. La vita
nulla mi cal, nulla il mio regno, e nulla
la gloria mia pur anco, ov’io non vegga
felice appien la nostra unica prole. (I.3)

… Io t’apro il mio frattanto;


e dico, e giuro, che il pensier mio primo
è la mia figlia. (I.3)

… Padre, mi fea natura;


il caso, re. Ciò che ragion di stato
chiaman gli altri miei pari, e a cui son usi
pospor l’affetto natural, non fia
nel mio paterno seno mai bastante

30
contra un solo sospiro della figlia. (I.3)

Ciniro sente una grande estima per Peréo, il fidanzato della figlia, e chiede a lui
di scoprire cosa succede a Mirra, particolarmente se è pentita della decisione di
scegliere Peréo come promesso sposo:
… Non la cred’io pentita;
(chi il fora, conoscendoti?) ma trarle
potrai dal petto la cagion tu forse
Del nascosto suo male. (II.1)

Ciniro, insieme alla moglie, si preoccupa molto per la situazione di Mirra e


vuole sapere qual sia la causa del suo turbamento:
Or, per ultima prova, udiam noi stessi
dal di lei labro il vero. In nome tuo
ingiunger già le ho fatto, che a te venga.
Nessun di noi forza vuol farle, in somma:
quanto l’amiamo, il sa ben ella, a cui
non siam men cari noi. Ch’ella omai chiuda
in ciò il suo core a noi, del tutto parmi
impossibile; a noi, che di noi stessi,
non che di sé, la femmo arbitra e donna. (III.1)

In un certo momento offre a Mirra la possibilità di cancellare il matrimonio, se


lei così lo desidera:
Ad eternare il marital tuo nodo
manca omai sola un’ora; il tien ciascuno
per certa cosa: ma, se pur tu fossi
cangiata mai; se t’increscesse al core
la data fé; se la spontanea tua
libera scelta or ti spiacesse; ardisci,
non temer cosa al mondo, a noi la svela.
Non sei tenuta a nulla; e noi primieri
te ne sciogliam, noi stessi; e di te degno,
generoso ti scioglie anco Peréo. (III.2)

Alla fine della tragedia, Ciniro tenta che Mirra confesse qual è la vera causa del
suo turbamento e del suo attacco di follia durante la celebrazione delle nozze. All’inizio
si mostra come un padre comprensivo e dice a Mirra che, se ama un’altra persona,
permetterà tale matrimonio, chiunque sia il ragazzo:
Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ‘l vo’ far tuo.
Stolto orgoglio di re strappar non puote
il vero amor di padre dal mio petto.
Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,
cangiar ben ponno ogni persona umìle
in alta e grande: e, ancor che umìl, son certo,
che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami. (V.2)

31
Alla fine, tuttavia, dedica dure parole alla figlia dopo la confessione di questa:
Ingrata: omai
col disperarmi co’ tuoi modi, e farti
del mio dolore gioco, omai per sempre
perduto hai tu l’amore del padre. (V.2)

Dopo il suicidio di Mirra con la sua spada, c’è in Ciniro un cumulo di emozioni,
si inorridisce e sente ira per la confessione di quel amore immorale che la figlia nutriva
per lui, ma allo stesso tempo prova pietà poiché era ancora la sua figlia:
…Io… di spavento,…
e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,…
immobil resto. (V.2)

CECRI
Cecri è la regina e la madre di Mirra e, anche lei, si mostra come una progenitrice
attenta che si preoccupa per la figlia e vuole sapere cosa la turba:
Ma, che mai fia? Già l’anno or volge quasi,
ch’io con lei mi consumo; e neppur traccia
della cagion del suo dolor ritrovo! (I.3)

Cecri si rende conto che la figlia non ama Peréo, per cui non si dovrebbe sposare,
perché non sarebbe buono per lei:
Dubbio non v’ha; benché non sia per anco
venuto a noi Peréo, scontento appieno
fu dei sensi di Mirra. Ella non l’ama;
certezze io n’ebbi; e andando ella a tai nozze,
corre (pur troppo!) ad infallibil morte. (III.1)

Cecri sarebbe stata la causante dello stato di Mirra, dopo essere stata irrispettosa
con la dea Venere che, come vendetta, avrebbe provocato l’innamoramento di Mirra dal
padre:
Odi il mio fallo, o Ciniro. – In vedermi
moglie adorata del più amabil sposo,
del più avvenente infra i mortali, e madre
per lui d’unica figlia (unica al mondo
per leggiadria, beltà, modestia, e senno)
ebra, il confesso, di mia sorte, osava
negar io sola a Venere gl’incensi.
Vuoi più? folle, orgogliosa, a insania tanta
(ahi sconsigliata!) io giunsi, che dal labro
io sfuggir mi lasciava; che più gente
tratta è di Grecia e d’Orïente omai
dalla famosa alta beltà di Mirra,
che non mai tratta per l’addietro in Cipro

32
dal sacro culto della Dea ne fosse. (III.3)

Cecri dice di essersi resa conto che da quel giorno in poi la figlia non è felice e
che non ha pace, e che tentò di placare la dea senza conseguirlo:
... Ecco, dal giorno in poi,
Mirra più pace non aver; sua vita,
e sua beltà, qual debil cera al fuoco,
lentamente distruggersi; e niun bene
non v’esser più per noi. Che non fec’io,
per placar poi la Dea? quanti non porsi
e preghi, e incensi, e pianti? indarno sempre. (III.3)

Alla fine, quando vede Mirra moribonda, vuole andare insieme a lei, ma Ciniro
lo impedisce e le racconta cosa è successo, per cui Cecri parte con lui, spaventata dal
comportamento immorale della figlia.

EURICLEA
È la nutrice di Mirra, che considera sua figlia. È lei la prima a rendersi conto che Mirra
non ama Peréo e che il suo tormento non è per amore, che c’è un’altra ragione per il suo
comportamento:
… D’amor non nasce
il disperato dolor suo; tel giuro.
Da me sempr’era custodita; e il core
a passïon nessuna aprir potea,
ch’io non vedessi. (I.1)

Euriclea racconta Mirra lo sdegno della dea Venere nel momento in cui la
nutrice le chiede aiuto per Mirra:
... È ver, mal feci:
la Dea sdegnava i voti miei; gl’incensi
ardeano a stento, e in giù ritorno il fumo
sovra il canuto mio capo cadeva.
Vuoi più? gli occhi alla immagine tremanti
alzar mi attento, e da’ suoi piè mi parve
con minacciosi sguardi me cacciasse,
orribilmente di furore accesa,
la Diva stessa. Con tremuli passi,
inorridita, esco del tempio… Io sento
dal terrore arricciarmisi di nuovo,
in ciò narrar, le chiome. (II.4)

È a Euriclea che Mirra chiede aiuto per morire:


… Ti chieggo

33
di abbrevïar miei mali. A poco, a poco
strugger tu vedi il mio misero corpo;
il mio languir miei genitori uccide;
odïosa a me stessa, altrui dannosa,
scampar non posso: amor, pietà verace,
fia ’l procacciarmi morte; a te la chieggio… (II.4)

anche se poi se ne pente:


… Oimè! che dico?... –
Ma tu non m’odi?... Immobil,… muta,… appena
respiri! oh cielo!... Or, che ti dissi? io cieca
dal dolore,… nol so: deh! mi perdona;
deh! madre mia seconda, in te ritorna (II.4)
Sebbene alla fine, quando è già per soccombere, rimprovera Euriclea di non
averla aiutata prima quando poteva morire innocente e non empia:
... Quand’io… tel… chiesi,…
Darmi… allora,… Euriclèa, dovevi il ferro…
io moriva… innocente;… empia… ora… muoio… (V.4)

PERÉO
È il fidanzato, presentato come un grand’uomo pieno di virtù. Fu la stessa Mirra a
sceglierlo come futuro marito, anche se non lo ama:
… Ma, poiché tolta
ogni contesa ebbe Peréo, di Epìro
l’erede; a cui, per nobiltà, possanza,
valor, beltade, giovinezza, e senno,
nullo omai si agguagliava; … (I.1)

Peréo, innamorato di Mirra, soltanto vuole che lei sia felice:


… A me fia dolce
Anco il morir, pur ch’ella sia felice. (II.1)

Lui ama Mirra veramente, e anche se sapeva che lei non lo amava, sperava che
non lo detestasse, ma alla fine si è convinto che lei lo odia:
T’incresco; il veggo a espressi segni. Amarmi,
io sapea che nol puoi; lusinga stolta
nell’infermo mio core entrata m’era,
che tu almen non mi odiassi: in tempo ancora,
per la tua pace e per la mia, mi avveggio
ch’io m’ingannava. (II.2)

Peréo si sente colpevole della tristezza di Mirra e del suo turbamento:


... No, Mirra:
io la cagione, io ‘l son (benché innocente)

34
della orribil tempesta, onde agitato,
lacerato è il tuo core. (II.2)

Alla fine, dopo il comportamento folle di Mirra nella celebrazione delle nozze,
Peréo cancella il matrimonio:
... Sposa non sei,
Mirra; né mai tu di Peréo, tel giuro,
sposa sarai. (IV.3)

Peréo se ne va e sappiamo dopo, detto da Ciniro, che si è ucciso:


Oh, sventurato, oh misero Peréo!
Troppo verace amante!... Ah! s’io più ratto
Al giunger era, il crudo acciaro forse
Tu non vibravi entro al tuo petto. (V.1)

CORO e POPOLO
Nell’atto IV, scena terza, appaiono il coro e il popolo, durante la celebrazione delle
nozze. Sappiamo che nel teatro dell’antica Grecia il coro aveva un ruolo fondamentale
nella recita, infatti, all’inizio c’era soltanto il coro nelle rappresentazioni teatrale e i
primi dialoghi che si inserirono nelle rappresentazioni furono tra il coro e il corifeo.
Si può osservare che in questo caso Alfieri decise di mantenere la presenza del
coro, elemento fondamentale del teatro classico, nella sua tragedia, conferendogli la
funzione di officiare le nozze fra Mirra e Peréo, invocando alla dea Venere e ai suoi
figli per consacrare il matrimonio:
O tu, che noi mortali egri conforte,
fratel d’Amor, dolce Imenèo, bel Nume;
deh! Fausto scendi; = e del tuo puro lume
fra i lieti sposi accendi
fiamma, cui nulla estingua, altro che morte. (IV.3)

Gli interventi del popolo sono sei, ma si dividono, a due a due, in interventi di
fanciulli, di vecchi e di donzelle, e, anche se appaiono divisi in popolo e coro, svolgono
lo stesso ruolo. Inoltre gli inni sono recitati fra tutti, completando ognuno quello che ha
detto il precedente:
FANCIULLI
Benigno a noi, lieto Imenèo, deh! Vola
del tuo german su i vanni;
DONZELLE
e co’ suoi stessi inganni
a lui tu l’arco, = e la farétra invola:

35
VECCHI
ma scendi scarco
di sue lunghe querele e tristi affanni:
CORO
de’ nodi tuoi, bello Imenèo giocondo,
stringi la degna coppia unica al mondo. (IV.3)

e. DIDASCALIE.

Come abbiamo già ricordato prima, Alfieri si rifiutò sempre di tentare di arrivare a un
pubblico ampio, e riservò le sue tragedie per rappresentazioni private, nelle quali lui
stesso partecipava. Questa potrebbe essere la causa per cui le sue opere non hanno
didascalie che servissero agli attori e gli dessero indicazioni di come dovevano
comportarsi, perché l’autore gli dava le indicazioni opportune nel momento della recita.
Dopo aver analizzato diverse opere di Alfieri, è interessante il fatto che non
esistano didascalie in altre tragedie, come Saul, Antigone, Filippo o Oreste, e che invece
sì appaiano quattro didascalie nella tragedia di Mirra. È anche notevole che le uniche
didascalie dell’opera siano presenti alla fine della tragedia, negli atti IV e V,
cominciando nelle nozze quando il coro fa la sua apparizione.
La prima didascalia appare nell’atto quarto, scena terza, quando il coro fa il suo
primo intervento: «Ove il coro non cantasse, precederà ad ogni stanza una breve
sinfonia adattata alle parole, che stanno per recitarsi poi». In questa didascalia possiamo
osservare le reminiscenze del teatro classico, non solo per l’apparizione del coro,
elemento fondamentale della tragedia greca, ma anche per la componente musicale che
avevano queste rappresentazioni nelle recite greche dell’antichità.
Le altre tre didascalie dell’opera appaiono tutte nell’ultimo atto, dopo il suicidio
di Mirra, che si trafigge con la spada del padre dopo la sua confessione.
La seconda didascalia appare nell’atto quinto, scena seconda:
«Rapidissimamente avventatasi al brando del padre, se ne trafigge». Tutta la tragedia si
svolge in ritmo lento e pausato, mentre invece qui, Alfieri vuole risaltare la rapidità dei
movimenti di Mirra, che riesce a trafiggersi con la spada senza che il padre possa
evitarlo.
La terza didascalia compare, anche nell’atto quinto, scena terza, quando Cecri
vede la figlia morente, e Ciniro le impedisce di avvicinarsi a lei: «Corre incontro a Cecri,
e impedendole d’inoltrarsi, le toglie la vista di Mirra morente». Anche se Ciniro a
questo punto, dopo la confessione di Mirra, si sente inorridito per quello che gli ha

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raccontato, vuole evitare che la moglie si trovi nella stessa situazione e che veda la figlia
morire.
L’ultima didascalia appare alla fine della stessa scena, per indicare che Ciniro
conduce Crecri fuori di scena: «Viene strascinata fuori da Ciniro». Il re vuole
allontanare la moglie da Mirra, mostrando così il suo rifiuto a questa, e al suo
comportamento immorale.

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5. CONCLUSIONI.

Abbiamo cominciato questo lavoro con un piccolo riassunto della vita di Alfieri, di
come decise di imprendere la scrittura di tragedie e di come organizzava il suo processo
creativo e di elaborazione; e anche abbiamo accennato i temi che sceglie per i suoi
scritti.

Poi, abbiamo parlato della storia della tragedia nella letteratura, cominciando
nell’antichità, con la tragedia greca e latina, e lungo tutta la storia della letteratura
italiana, fino ad Alfieri, per mostrare come durante un periodo di tempo la tragedia non
fu quello che conosciamo adesso e, nemmeno, quello che scriveva Alfieri, per così
mostrare la sua innovazione letteraria.

Abbiamo continuato parlando del personaggio di Mirra, protagonista dell’opera


di Alfieri e protagonista, anche, di questo lavoro. Cominciando con Ovidio e il suo
racconto di Mirra nelle Metamorfosi, abbiamo visto come si è sviluppato il personaggio
lungo tutta la storia della letteratura italiana e com’è stato affrontato da grandi autori
della letteratura, come Dante, Petrarca, Ariosto o Marino, fino ad Alfieri e come lui ha
dato un nuovo significato al personaggio.

Con l’elaborazione di un commento dell’opera di Alfieri abbiamo analizzato


diversi aspetti della tragedia, come il tema che tratta e la struttura esterna dell’opera.
Abbiamo visto anche come Alfieri rispetta le regole aristoteliche analizzando il tempo e
il luogo nel testo. E abbiamo analizzato anche i diversi personaggi presenti nell’opera,
fermandoci specialmente nei turbamenti della protagonista e nella sua negativa a
riconoscere i suoi sentimenti.

Alfieri non solo fece di Mirra la sua protagonista, ma ci mostra la sua storia di
una maniera diversa, svelando i suoi tormenti interiori, e il suo rifiuto a quei sentimenti
che, di maniera divina, sono accesi in lei.

Quella di Alfieri fu una vera innovazione, poiché come abbiamo visto nessun
autore aveva mai considerato di convertire Mirra, non solo in protagonista di un’opera,
ma in una ragazza innocente che rifiutava i suoi sentimenti e che perfino finisce per
uccidersi dopo avere confessato il suo secreto.

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6. BIBLIOGRAFIA

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Google Books, https://play.google.com/store/books/details?id=9GBDAAAAYAAJ
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1987.
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italiana. Storia per generi e problemi, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
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delle riforme. La rivoluzione in Europa, Milano, Einaudi, 2003.
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València, Institució Alfons el Magnànim, 2007.
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OVIDIO-NASÓN, PUBLIO, Metamorfosis, traducción de Bartolomé Segura Ramos,
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PETRARCA, FRANCESCO, Rime e Trionfi, a cura di Ferdinando Neri, Torino, UTET, 1960.

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Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Semiramide (14/03/2018).

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7. APENDICE: LE METAFORMOFOSI DI OVIDIO (TESTO IN
LATINO E ITALIANO)

LATINO ITALIANO
Editus hac ille est, qui, si sine prole fuisset, Da Pafo nacque Cinira che, se fosse rimasto senza
inter felices Cinyras potuisset haberi. prole, si sarebbe potuto annoverare fra le persone
Dira canam: procul hinc natae, procul este felici.
parentes, Cose orrende canterò. Allontanatevi, figlie, e voi,
aut, mea si uestras mulcebunt carmina mentes, padri.
desit in hac mihi parte fides, nec credite factum; Ma se allettati dal mio canto voi restate, voglio che
uel, si credetis, facti quoque credite poeman. non mi prestiate fede, che non crediate a ciò che vi
Si tamen admissum sinit hoc natura uideri, racconto, o, se volete credervi, che anche al castigo
gentibus Ismariis et nostro gratulor orbi, voi crediate.
gratulor huic terrae, quod abest regionibus illis, Se poi natura permette che si assista a un tale
quae tantum genuere nefas: sit diues amomo, misfatto, io mi congratulo con le genti di Tracia e
cinnamaque costumque suum sudataque lingo il nostro mondo, mi congratulo con questa terra per
tura ferat floresque alios Panchaia tellus, essere distante dalle contrade che produssero tanta
dum ferat et myrrham, tanti noua non fuit arbor. empietà. Sia pure ricca di amomo la terra di
Ipse negat nocuisse tibi sua tela Cupido, Pancaia, produca, sì cannella, profumi, incenso che
Myrrha, facesque suas a crimine uindicat isto: trasuda dal legno, e tutti i fiori che vuole; ma la
stipite te Stygio tumidisque adflauit echdnis mirra, perché? Quest’albero strano non meritava
e tribus una soror. Scelus est odisse parentem; tanto.
hic amor est odio maius scelus. Vndique lecti Cupido stesso nega, o Mirra, d’averti ferito con le
te cupiunt proceres, totoque oriente iuuenta sue frecce e del tuo crimine scagiona le sue
ad thalami certamen adest. Ex ómnibus unus. fiaccole.
Illa quidem sentit foedoque repugnat amori Con una torcia dello Stige e con serpenti velenosi
et secum ‘quo mente feror? Quid molior?’ inquit fu una Furia ad appestarti. Delitto è odiare il padre,
‘Di, precor, et Pietas sacrataque iura parentum, ma questo amore è delitto peggiore dell’odio.
hoc prohibete nefas scelerique resistite nostro, Patrizi e nobili d’ogni luogo ti desiderano, giovani
si tamen hoc scelus est. Sed enim damnare negatur di tutto l’Oriente vengono a contendersi la tua
hanc Venerem Pietas, coeuntque animalia nullo mano. Scegline uno fra questi, Mirra, ma che non
cetera dilectu, nec habetur turpe iuueneae sia quell’uno solo che vuoi per marito!
ferre patrem tergo; fit equo sua filia coniunx, Lei se ne rende conto e cerca di vincere
quasque creauit est, ex illo concipit ales. quell’amore infame, dicendo fra sé: “Dove mi
porta l’indole? Cosa sto facendo?
O dei, pietà filiale, vincoli sacri dei parenti, vi
supplico: impedite quest’empietà, opponetevi al
mio crimine,
ammesso che sia un crimine. Ma non pare che il
rispetto condanni questa unione. Gli altri animali si
accoppiano senza pensarci e non si ritiene turpe
che una giovenca si faccia montare dal padre; il
cavallo sposa la figlia, il capro si unisce alle capre
che ha generato e la stessa femmina degli uccelli
concepisce da chi l’ha concepita.

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LATINO ITALIANO
Felices, quibus ista licent. Humana malignas Felici loro, che possono farlo! Gli scrupoli umani
cura dedit leges, et, quod natura remittit, hanno creato leggi perfide e princìpi astiosi vietano
inuida iura negant. Gentes tamen esse feruntur, ciò che natura ammette. Eppure si racconta che vi
in quibus et nato genetrix et nata parenti siano genti
iungitur, ut pietas geminatio crescat amore. tra cui la madre si accoppia al figlio, la figlia al
Me miseram, quod nasci mihi contigit illic padre,
fortunaque loci laedor! Quid in ista reuoluor? e l’affetto tra i congiunti cresce per questo
Spes interdictae discedite. Dignus amari sommarsi d’amore.
ille sed ut pater, est. Ergo si filia magni Misera me, che non ho avuto in sorte nascere lì,
non essem Cinyrae, Cinyrae concumbere possem; ma dove non ho pace. Una continua ossessione,
nune, quia iam meus est, non est meus, ipsaque perché?
damno Via, via, sogni proibiti! Cinira è degno, sì,
est mihi proximitas: aliena potentior essem. d’essere amato, ma come padre. Se non ne fossi
Ire libet procul hinc patriaeque relinquere fines, dunque
dum scelus effugiam Cinyram tangamque la figlia, potrei giacere accanto a lui; ora invece,
loquarque poiché liu è mio, mio non può essere: nasce da
osculaque admoueam, si nil conceditur ultra; questo legame
ultra autem sperare aliquid potes, inpia uirgo, di sangue la mia sventura. Se fossi di un altro,
nec quot confundas et iura et nomina, sentis? sarei più libera.
Tune eris et matris paelex et adultera patris? Vorrei andarmene di qui, lasciare il suolo della
Tune soror nati genetrixque uocabere fratris? patria,
Nec metues atro crinitas angue sórores, per sottrarmi all’infamia, ma l’ardore del mio male
quas facibus saeuis oculus atque ora petentes mi trattiene,
noxia corda uident? At tu, dum corpore non es perché con tutto il mio amore io possa guardare
passa nefas, animo ne concipe, neue potentis Cinira, toccarlo,
concubitu uetito naturae pollue foedus. parlargli e baciarlo, se altro non mi è concesso.
Velle puta: res ipsa uetat. Pius ille memorque est Perché? Oseresti, vergine empia, sperare forse di
moris, et o uellem similis furor esset in illo! più?
Dixerat, at Cinyras, quem copia digna Ti rendi conto quante leggi e norme tu sovverti?
procorum, Vuoi essere rivale di tua madre e amante di tuo
quid faciat, dubitare facit, scitatur ab ipsa padre?
nominibus dictis, cuius uelit esse martiri; Esser chiamata sorella di tuo figlio e madre di tuo
illa silet primo patriisque in uultibus haerens fratello?
aestuat et tepido suffundit lumina rore. Non hai timore delle Furie con le chiome nere di
serpenti,
che appaiono a chi è in colpa e con torce crudeli si
avventano
contro gli occhi e il viso? Ma, visto che il tuo
corpo è ancora puro,
non concepire empietà con la mente e non violare
con un amplesso vietato le leggi che ha imposto
natura.
Se anche lo volessi, la realtà lo vieta, perché lui è
pio,
virtuoso. Oh, come vorrei che il mio stesso furore
vibrasse in lui”.
Si era sfogata; ed ecco che Cinira in dubbio sul da
farsi,
tanti sono i pretendenti degni di lei, le chiede,
dopo averle elencato i nomi, di chi vuol essere
sposa.
Lei sulle prime tace e, fissando il volto del padre
Col cuore in fiamme, gli occhi le si velano di calde
lacrime.

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LATINO ITALIANO
Virginei Cinyras haec credens esse timoris Cinira, credendo che ciò sia dovuto a verginale
fiere uetat siccatque genas atque oscula iungit; pudore,
Myrrha datis nimium gaudet consultaque, qualem l’esorta a non piangere, le asciuga le guance e
optet habere uirum, ‘similem tibi’ dixit, a tille s’accosta a baciarla.
non intellectam uocem conlaudat et ‘esto Troppo ne gode Mirra, e alla domanda come
tam pia semper’ ait. Pietatis nomine dicto vorrebbe che fosse
demisit uultus sceleris sibi conscia uirgo. Suo marito, “Uguale a te” risponde. Lui l’elogia
Noctis erat medium, curasque et corpora per ciò che dice,
somnus non comprendendone il senso riposto: “resta
soluerat, at uirgo Cinyreïa peruigil igni sempre
carpitur indómito furiosaque uota retractat così rispettosa!”. Sentendo nominare il rispetto
et modo desperat, modo uult temptare, pudetque filiale,
et cupit et, quid agat, non inuenit, utque securi la vergine, sapendosi colpevole, abbassa lo
saucia trabs ingens, ubi plaga nouissima restat, sguardo.
sic qnimus uario labefactus uulnere nutat Nel cuore della notte corpi e pensieri sono placati
huc leuis atque illuc momentaque sumit utroque. dal sonno. Ma non dorme la figlia di Cinira, che,
Nec modus et requies, nisi mors reperitur amoris: rosa
mors placet.erigitur laqueoque innectere fauces da un fuoco implacabile, è ripresa dalle sue folli
destinat et zona summon de poste reuincta smanie,
‘care uale Cinyra causamque intellegre mortis’ e ora si dispera, ora è decisa a tentare, si vergogna
Dixit et aptabat pallenti uiincula collo. e brama, senza trovar soluzione. Come un grosso
Murmura uerborum fidas nutricis ad aures tronco
Peruenisse ferunt limen seruantis alumnae; centrato dalla scure, quando non resta che il colpo
surgit anus reseratque fores mortisque paratae estremo,
instrumenta uidens spatio conclamat eodem non si sa dove cada, disseminando il terrore,
seque ferit scinditque sinus ereptaque collo così la sua mente, fiaccata da tanti tormenti, oscilla
uincula dilaniat. Tum denique fiere uacauit, nei dubbi qua e là in balia ora di un senso ora
tum dare complexus laqueique requirere causam. dell’altro.
E altro freno all’amore, altra requie non vede che
la morte.
Ecco, la morte: si alza e decide di porre la gola in
un laccio.
Dopo aver sistemata la cintura alla sommità dello
stipite:
“Addio, amato Cinira, e chiaro t’appaia perché
sono morta!”
dice, e al suo collo esangue adatta il cappio.
Si racconta che il suo mormorio giungesse alle
orecchie attente
della nutrice, che sorvegliava la soglia della sua
pupilla.
Balza in piedi la vecchia, spalanca la porta, e come
vede
quei preparativi di morte, lancia un grido e la un
tempo
si percuote, si strappa la veste, sfila il collo dal
cappio,
fa a pezzi il laccio. Sollo allora si abbandona al
pianto,
la stringe fra le braccia, domandandole il motivo di
quel cappio.

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LATINO ITALIANO
Muta silet uirgo terramque inmota tuetur La fanciulla non fiata, immobile fissa il suolo,
et deprensa dolet tardae conamina mortis; angosciata
instat anus canosque suos et inania nudans che per gli indugi il tentativo di darsi la morte sia
uvera per cunas alimentaque prima precatur, fallito.
ut sibi committat, quidquid dolet: illa rogantem La vecchia insiste e, scoprendosi la canizie e il
auersata gemit; certa est exquirere nutrix seno esausto,
nec solam spondere fidem. ‘Dic’ inquit ‘opemque la scongiura, per averla nutrita nella culla, di
me sine ferre tibi; non est mea pigra senectur: svelarle
seu furor est, habeo, quae carmine sanet et herbis; la sua pena, qualunque sia. Ma lei elude le
siue aliquis nocuit, magico lustrabere ritu; domande
ira deum siue est, sacris placabilis ira. girandosi e gemendo. La nutrice però è decisa a
Quid rear ulterius? Certe fortuna domusque sapere
sospes et in cursu est: uiuit genetrixque paterque’. e non si limita a promettere discrezione. “Parla”, le
Myrrha patre audito suspiria duxit ab imo dice,
pectore, nec nutrix etiamnum concipit ullum “lascia ch’io t’aiuti. Sono vecchia, è vero, ma non
mente nefas aliquemque est, orat, ut ipsi inutile:
indicet, et gremio lacrimantem tollit anili se è follia, conosco una donna che la guarisce con
atque ita conplectens infirmis menbra lacertis erbe e incanti;
‘sensimus’, inquit ‘amas; et in hoc mea (pone se t’hanno fatto il malocchio, un rito magico te
timorem) l’annullerà;
Sedulitas erit apta tibi, nec sentient umquam se collera è dei numi, con sacrifici si può placare.
Hoc pater’. Exsiluit gremio furibunda torumque Cos’altro posso supporre? Nulla ti manca e in casa
Ore premens ‘discede, precor, miseroque pudori tua
parce’ ait; instant ‘discede, aut desine’ dixit tutto procede per il meglio, tua madre è viva e così
‘quaerere, quid doleam: scelus est, quod scire tuo padre.”
laboras’. Mirra, alla parola padre, dal petto emette un
profondo sospiro;
eppure la nutrice è ancora lungi dal supporre
un crimine, malgrado intuisca che d’amore si
tratta.
Ostinata, la sprona a rivelarle il suo tormento,
qualunque cosa sia, la prende lacrimante in
grembo
e stringendola fra le sue deboli vecchie braccia:
“Capisco, sei innamorata”, le dice; “ ma non
temere,
la mia premura di sarà d’aiuto, e nulla mai saprà
tuo padre”. Furibonda insorge Mirra: “Vattene, ti
prego, abbi
pietà della vergogna che soffro”, le grida, col viso
premuto
sui cuscini. Ma lei non le dà tregua. “Vattene,”
ripete, “o smetti
di chiedere cosa mi strazia! È un’empietà, ciò che
tu vuoi sapere.”

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LATINO ITALIANO
Horret anus tremulasque manus annisque metuque La vecchia inorridisce, tende le mani tremanti
tendit et ante pedes supplex procumbit alumnae d’anni
et modo blanditur, modo si non conscia fiat, e sgomento, si accascia supplice ai piedi della
terret et indicium laquei coeptaeque minatur fanciulla,
mortis et officium commisso spondet amori. e ora la blandisce, ora la spaventa perché lei
Extulit illa caput lacrimisque inpleuit obortis confessi,
pectora nutricis conataque saepe fateri minacciando di rivelare il suo tentativo di uccidersi
saepe tenet uocem pudicundaque uestibus ora col cappio, promettendo di aiutarla se le confida
texit et ‘o’ dixit ‘felicem coniuge matrem!’ chi ama.
Hactenus, et gemuit. Gelidus nutricis in artus Mirra solleva il capo e inonda il petto della sua
ossaque (sensit enim)penetrat tremor, albaque toto nutrice
uertice canities rigidis stetit hirta capillis, con un mare di lacrime; più volte è sul punto di
multaque, ut excuteret diros, si posset, amores, confessare,
addidit; at uirgo scit se non falsa moneri, e altrettante si trattiene; poi, nascondendo il volto
certa mori tamen est, si non potiatur amore. con la veste
‘Viue’, ait haec ‘potiere tuo’ et non ausa ‘parente’ per la vergogna, sospira: “Beata te, mamma, che
dicere conticuit promissaque numine firmat. l’hai sposato1”.
Festa piae Cereris celebrabant annua Non dice altro e geme. Un brivido di gelo corre per
matres il corpo
illa, quibus niuea uelatae corpora ueste della nutrice, che ormai ha capito, fin dentro le
primitias frugum dant specea serta suarum ossa e sul capo
perque nouem noctes Venerem tactusque uiriles le si rizzano i capelli, arruffando, se può, quella
in uetitis numerant. Turba Cenchreis in illa scellerata
regis adest coniux arcanaque sacra frequentat. passione: la fanciulla sa che quegli ammonimenti
Ergo, legitima aucuus dum coniuge lectus, sono giusti,
nacta grauem uino Cinyram male sedula nutrix ma è pur decisa a morire, se non può soddisfare
nomine mentito ueros exponit amores quell’amore.
et faciem Laudat; quaesitis uirginis annis “E vivi allora,” le dice, “avrai tuo…” e non osando
‘par’ ait ‘est Myrrhae’. Quam postquam adducer dire ‘padre’,
iussa est si ammutolisce, ma conferma la promessa con un
Utque domun rediit, ‘gaude, mea’ dixit ‘alumna: giuramento.
uicimus’. Infelix non toto pectore sentit Le donne del luogo stavano celebrando devote le
laetitiam uirgo, praesagaque pectora maerent, feste
sed tamen et gaudet: tanta est discordia mentis. di Cerere, in cui ogni anno, avvolte in vesti
bianche come neve,
offrono alla dea le primizie dei loro raccolti, serti
di spighe, e per nove notti considerano vietato
l’amore
e il contatto con l’uomo. Tra la folla vi è
Cencreide,
la moglie del re: anche lei partecipa ai sacri
misteri.
Ed ecco che, mentre la legittima consorte diserta il
letto,
la nutrice con sciagurato zelo scova Cinira stordito
dal vino, gli rivela tutto di quell’amore, omettendo
il nome, e
vanta la bellezza della fanciulla. Alla domanda di
quant’anni
abbia: “L’età di Mirra” risponde, e all’ordine di
condurla,
corre da lei esclamando: “Gioisci, figlia mia,
abbiamo vinto!”.
Non è gioia piena quella che prova l’infelice
Vergine: in cuore è presa da un triste
presentimento,
ma pur anche gioisce, tanto discordi sono i suoi
sentimenti.

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LATINO ITALIANO
Tempus erat, quo cuncta silent interque Triones Era l’ora in cui tutto tace e, tra le stesse dell’Orsa,
Flexerat obliquo temone plaustra Bootes: Boòte,
ad facinus uenit illa suum. Fugit aurea caelo volgendo il timone, aveva inclinato il corso del suo
luna, tegunt nigrae latitantia sidera nubes, carro.
nox caret igne suo; primus tegis, Icare, uultus Mirra si avvia al misfatto. Fugge dal cielo la luna
Erigoneque pio sacrata parentis amore. dorata,
Ter pedis offensi signo est reuocata, ter omen nuvole plumbee coprono le stesse che dileguano,
Funereus bubo letali carmine fecit: priva di luci è la notte. E Icario, con Erìgone
it tamen; et tenebrae minuunt noxque atra immortalata
pudorem, per l’amore filiale che gli portò, fu il primo a
nutricisque manum laeua tenet, altera motu nascondere il volto.
caecum iter explorat. Thalami iam limina tangit, Per tre volte il piede, inciampando, l’ammonisce di
iamque fores aperit, iam ducitur intus; a tilli ritrarsi,
poplote succiduo genua intremuere, fugitque per tre volte il funebre gufo l’avverte co suo verso
et color et sanguis animusque relinquit euntem; di morte.
quoque suo propior sceleri est, magis horret; et Ma lei va: le tenebre della notte attenuano la sua
ausi vergogna.
paenitet et uellet non cognita posse reuerti. Con la sinistra stringe la mano della nutrice, con la
Cunctantem longaeua manu deducit et alto destra
Admotam lecto cum traderet, ‘accipe’, dixit esplora a tentoni il buio cammino. E già alla soglia
‘ista tua est, Cinyra’ deuotaque corpora iunxit. della camera
Accipit obsceno genitor sua uiscera lecto è giunta, apre la porta, viene introdotta; e a lei
Uirgineosque metus leuat hortaturque timentem. tremano
Forsitan aetatis quoque nomine ‘filia’ dixit: le gambe, mancano le ginocchia, dal volto vita
dixit et illa ‘pater’, sveleri ne nomina desint. e sangue si dileguano e, mentre avanza, il coraggio
Plena patris thalamis excedit et inpia diro l’abbandona.
Semina fert utero conceptaque crimina portat. Più si avvicina all’infamia, più rabbrividisce, si
pente
Della sua audacia e vorrebbe non cista potersene
fuggire.
Esita, ma la vecchia la tira per la mano e
accostandola
al grande letto, nel darla al padre, dice: “Prendila,
Cinira:
ecco, è tua”; e unisce i due corpi nella dannazione.
Lui in quel letto immondo accoglie la carne della
sua carne,
e rincuorandola l’aiuta a vincere i suoi timori di
vergine.
Forse anche per la sua tenera età, la chiama
‘figlia’,
e lei ‘padre’, perché all’incesto nulla mancasse,
nemmeno i nomi.
Gravida di suo padre uscì Mirra da quel letto,
portandosi
nel ventre maledetto l’empio seme, il frutto della
colpa.

46
LATINO ITALIANO
Postera nox facinus geminat, nec finis in illa est; La notte successiva l’infamia si ripetè, e ancora,
cum tandem Cinyras auidus cognoscere amantem ancora,
post tot concubitus inlato lumine uidit finché Cinira, ansioso di vedere chi fosse l’amante
et scelus et natam uerbisque dolore retentis dopo tanti amplessi, accostò una lampada e
pendenti nitidum uagina deripit ensem; insieme scoprì
Myrrha fugit tenebrisque et caecae munere noctis la figlia e il crimine commesso: ammutolito dal
intercepta neci est latosque uagata per agros dolore,
palmiferos Arabas Panchaeaque rura reliquit dal fodero appeso accanto in un lampo sguainò la
perque nouem errault redeuntis cornua lunae, spada.
cum tándem terra requieuit fessa Sabaea; Fuggì Mirra, e col favore delle tenebre a notte
unixque uteri portabat onus. Tum nescia uoti fonda
atque inter mortisque metus et taedia uitae potè sottrarsi alla morte. Vagando in aperta
est tales conplexa preces: ‘O si qua patetis campagna
numina confessis, merui nec triste recuso lasciò l’Arabia ricca di palme e le contrade della
supplicium. Sed ne uiolem uiuosque superstes Pancaia.
mortuaque extinctos, ambobus pellite regnis Nove volte riapparve la falce della luna mentre
mutataeque mihi iutamque necemque negate’. fuggiva,
numen confessis aliquod patet: ultima certe finchè alla fine si fermò sfinita in terra di Saba,
uota suoss habuere deos; nam crura loquentis reggendo
terra superuenit, ruptosque obliqua per ungues a stento il peso del suo ventre. E allora non
porrigitur radix, longi firmamina trunci, sapendo a chi votarsi,
ossaque robur agunt, mediaque manente medulla combattuta tra il timore della morte e il disgusto
sanguis it in sucos, in magnos bracchia ramos, della vita,
in paruos digiti; duratur cortice pellis. formulò questa preghiera: “Se c’è un dio che
Iamque grauem crescens uterum perstrinxerat ascolta chi ammette
arbor le proprie colpe, questa è, sì, la fine angosciosa che
Peetoraque obruerat collumque operire parabat: merito,
non tuli tilla moram uenientique obuia ligno e non la rifiuto. Ma perché io non profani vivendo
subsedit mersitque suos in cortice uultus. i vivi
e morta i trapassati, cacciatemi dal regno di
entrami:
fate di me un’altra cosa, negandomi vita e morte!”.
Un dio che ascolta i rei confessi c’è; o almeno un
nume che esaudì
l’ultima parte dei suoi voti. Mentre ancora parla,
la terra avvolge le sue gambe, le unghie dei piedi si
fendono,
diramandosi in radici contorte, a sostegno di un
lungo fusto;
le ossa si mutano in legno e, restando all’interno il
midollo,
il sangue diventa linfa, le braccia grandi rami,
le dita ramoscelli; la pelle si fa dura corteccia.
E già, crescendo, la pianta ha fasciato il ventre
gravido,
ha sommerso il petto e sta per coprirle il collo:
non tollerando indugi, lei si china incontro al legno
che sale e il suo volto scompare sollo la corteccia.

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LATINO ITALIANO
Quae quamquam amisit ueteres cum corpore Ma benché col corpo abbia perduto la sensibilità di
sensus, un tempo,
flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae. continua a piangere e dalla pianta trasudano tiepide
Est honor et lacrimis, stillataque robore myrrha gocce.
nomen erile tenet nulloque tacebitur aeuo. Lacrime che le rendono onore: la mirra, che stilla
Al male conceptus sub robore creuerat dal tronco,
infans da lei ha nome, un nome che mai il tempo potrà
Quaerebatque uiam, qua se genetrice relicta dimenticare.
exsereret; media grauidus tumet arbore uenter, Ma sotto il legno la creatura mal concepita era
tendit onus matrem, neque habent sua uerba cresciuta
dolores, e cercava una via per districarsi e lasciare la
nee Lucina potest parientis uoce uocari. madre.
Nitenti tamen est similis curuataque crebros A metà del tronco il ventre della madre si gonfia,
dat gemitus arbor lacrimisque cadentibus umet. tutto teso dal peso del feto. Ma il dolore non ha
Constitit ad ramos mitis Lucina dolentes parole,
admouitque manus et uerba puerpera dixit. la partoriente non ha voce per invocare Lucina.
Arbor agit rimas et fissa cortice uiuum Tuttavia la pianta sembra avere le doglie, curva su
reddit onus, uagitque puer; quem mollibus herbis di sé
Naides inpositum lacrimis unxere parentis. Manda fitti gemiti e tutta è imperlata di stille.
Lucina, impietosita, si ferma davanti a quei rami
dolenti,
accosta le sue mani e pronuncia la formula del
parto.
Si apre una crepa e dalla corteccia squarciata
l’albero fa nascere
Un essere vivo, un bimbo che piange: le Naiadi lo
depongono
su un letto d’erba e lo ungono con le lacrime della
madre.

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