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Che cos’è la verità?

Umberto Eco tra saggio e romanzo

1
INDICE
Introduzione……………………………………………………………………………1
1. Lo sfondo intellettuale: il concetto di verità tra decostruzionismo,
postmodernismo filosofico, pensiero debole e nuovo realismo………………4
1.1 Il postmodernismo filosofico………………………………………………...7
1.2 Rirchard Rorty e la trasformazione dell’epistemologia in ermeneutica……12
1.3 Gianni Vattimo e la “debolezza” del postmoderno italiano………………...17
2. Il problema della verità nei saggi di Eco…………………………………….23
2.1 Dalla semiotica come «teoria della menzogna» al modello «debole»
dell’enciclopedia………………………………………………………………..26
2.2 I limiti dell’interpretazione e il realismo negativo…………………………31
2.3 Il ruolo dei mondi narrativi per la ricerca della verità…………………...…37
3. La «messa in scena» della questione della verità: Il nome della rosa e Il
pendolo di Foucault……………………………………………………………42
3.1 Dal realismo minimo al romanzo postmoderno: perché l’Eco saggista non è
l’Eco narratore……………………………………………………………...43
3.2 Il pessimismo epistemologico del Nome della rosa………………………..50
3.2.1 Guglielmo come campione della ricerca congetturale della
verità…..53
3.2.2 Il fallimento di Guglielmo e la dissoluzione della verità…………….57
3.2.3 Cosa
rimane?.......................................................................................64
3.3 Cosa limita l’interpretazione? La non-risposta del Pendolo di Foucault…..70
3.3.1 Il Piano e la semiosi
ermetica………………………………………..74
3.3.2 La «passione per la verità», di nuovo, come causa della semiosi
ermetica…………………………………………………………….79
3.3.3 I due «no» di Belbo, il monologo finale di Casaubon e il senso comune
di Lia: la possibilità di distinguere tra interpretazione e sovra
interpretazione……………………………………………………...84
Conclusione……………………………………………………………………………92
INTRODUZIONE
Nel 1990, nell’ Autodizionario degli scrittori italiani Umberto Eco presenta un
interessante scorcio meta-riflessivo sul suo lavoro: «se cerco il filo rosso che unisce le
mie varie attività, mi ricordo di una frase udita, quando ero laureando, da Luigi Pareyson:
a un dipresso diceva che ciascuno di noi nasce con una sola idea in testa e per tutta la vita
non fa che girarvi intorno. Al momento questa mi era parsa una idea reazionaria […]. In
età matura mi sono accorto che Pereyson aveva ragione, e anche io in tutta la mia vita
non ho fatto che correre dietro, ossessivamente, a una stessa idea centrale»1. Occorrono
undici anni prima che Eco espliciti chiaramente in cosa consista questa idea ossessiva che
anima la sua attività, in occasione di un convegno sulla sua opera tenutosi a Cerisy:
«sospetto che l’idea abbia a che fare con la domanda se il mondo esista, e (di conseguenza)
con l’altra questione, quid sit veritas»2.
La semiotica, lo studio della comunicazione, le teorie della narrazione, l’estetica, i
romanzi: in tutte le sue poliedriche dimensioni Eco si è preoccupato di capire cosa sia la
verità. In questo lavoro, si vuole indagare la connessione tra l’attività saggistica e
narrativa di Eco alla luce del tema della verità, cercando di capire in che modo, con quali
fini, e operando quali trasformazioni Eco abbia trasportato nella finzione dei suoi romanzi
i temi e le questioni epistemologiche che affronta nei testi teorici. Questa indagine è
affrontata mantenendo salde due coordinate concettuali fondamentali. In primo luogo,
l’idea che la nozione di verità di Eco non possa essere ricostruita a prescindere dai contesti
intellettuali in cui si produce: il pensiero di Eco è intrinsecamente oscillatorio,
congetturale e compromissorio, e perciò sviluppato in controcanto alle tendenze e alle
voci che costituiscono il dibattito intellettuale del suo tempo.
Il primo capitolo è dunque dedicato a ricostruire il contesto intellettuale e filosofico
in cui s’inscrive il concetto echiano di verità, ovvero gli anni di ascesa e declino del
postmoderno, in cui il problema della verità si trasforma in un dibattito accanito e

1
ECO, 1990, pp. 151-152.
2
FABBRI - LORUSSO - PETITOT, 2001, p. 616.

1
dicotomico. In particolare, si vogliono offrire le coordinate essenziali del
decostruzionismo, del postmodernismo filosofico e della reazione realista da essi
suscitata, concentrandosi su quegli autori (Rorty, Derrida, Vattimo, Ferraris) con cui Eco
si confronta direttamente. Sulla base di questo sfondo, nel secondo capitolo viene
analizzato il lavoro saggistico di Eco, cercando di rilevarne la continuità rispetto alla
questione dell’essere e della verità. In particolare, è possibile identificare due momenti o
fasi nella produzione teorica di Eco, le cui diverse preoccupazioni e priorità si
rifletteranno nella cesura tra Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault. Nella prima fase,
che va da Opera aperta al contributo alla raccolta Il pensiero debole di Vattimo, Eco è
rivolto verso l’elaborazione di una teoria semiotica che sappia presentarsi come proposta
di rottura, mostrando la componente linguistica e culturale nell’elaborazione della verità;
nella seconda fase, invece, Eco in testi come I limiti dell’interpretazione e Kant e
l’ornitorinco ricalca le differenze che lo separano dal postmodernismo, insistendo
sull’esigenza di trovare limiti all’interpretazione e, infine, elaborando la sua idea di
“realismo minimo” per salvaguardare, almeno in negativo, la distinzione tra verità e
falsità.
La seconda coordinata concettuale che si trova alla base di questo lavoro, e che risulta
fondamentale per parlare del legame tra la teoria e la narrazione in Eco, è l’idea – che Eco
sviluppa in seguito alla stesura del Nome della rosa – che la teoria trovi solo nella
narrazione il suo reale completamento, perché «vi sono questioni che non possono essere
trattate nel modo assertorio del saggio, ma per così dire debbono essere messe in scena in
tutta la loro ambiguità e contraddittorietà»3. Sulla base di questa esplicitata e riconosciuta
connessione tra saggi e romanzi, nel terzo capitolo viene proposta una lettura delle opere
Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault per dimostrare come nel trasporre e
problematizzare l’idea di verità elaborata dall’attività saggistica, i due primi romanzi di
Eco riescano, soprattutto, a coglierne le insufficienze. La tesi alla base di questo lavoro è
che Eco utilizzi i suoi romanzi per inscenare e trasformare in piacere narrativo proprio le

3
ECO, 1990, p. 151.

2
aporie e le contraddizioni della sua nozione teorica di verità. In particolare, nel Nome
della rosa, mettendo in scena la dissoluzione prospettica di ogni verità, si vuole mostrare
come Eco tenti in modo non del tutto convincente di riscattare il potenziale nichilismo
del romanzo attraverso il potere demistificatore e costruttivo della semiotica e dell’ironia,
mentre nel Pendolo di Foucault cerchi di rendere conto dei rischi della proliferazione
indiscriminata dell’interpretazione, offrendo però deboli e frammentarie soluzioni per
contrastarli. Mostrando tutte le declinazioni echiane del discorso sulla verità – così
fondamentale, per sua stessa ammissione, nel decidere la direzione dei suoi interessi –, si
vuole dunque cercare di restituire la peculiarità dell’opera di Eco, più interessata a
saggiare e valorizzare gli strumenti intellettuali stessi, piuttosto che ad utilizzarli per
giungere a conclusioni definitive o per elaborare poetiche d’impegno e di critica del reale.

3
1. Il contesto intellettuale: il concetto di verità tra decostruzionismo,
postmodernismo filosofico, pensiero debole e nuovo realismo

Nell’agosto del 2011 esce su «la Repubblica» Il ritorno al pensiero forte4, articolo in cui
Maurizio Ferraris, adoperando toni enfatici da manifesto 5 , annuncia la prossima
realizzazione a Bonn di un convegno titolato New Realism. L’obiettivo del convegno, che
riunisce intellettuali e filosofi internazionali come Paul Boghossian, John Searle e
Umberto Eco, è di catturare «il carattere fondamentale della filosofia contemporanea»,
ovvero «una certa stanchezza nei confronti del postmodernismo» 6 , e di «restituire lo
spazio che si merita, in filosofia, in politica e nella vita quotidiana, a una nozione, quella
di "realismo", che nel mondo postmoderno è stata considerata una ingenuità filosofica e
una manifestazione di conservatorismo politico»7. Il progetto di Ferraris nasce quindi con
un intento eminentemente negativo, come reazione programmatica di rifiuto verso il
fenomeno che ha portato a inclinare il «pendolo» del pensiero novecentesco «verso
l’antirealismo nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmodernismo, “svolta linguistica”
ecc.)»8. Intorno a questo annuncio si sviluppa un’intensa discussione tanto nel discorso
pubblico quanto tra gli addetti ai mestieri 9 , che testimonia come, attraverso lo
sconvolgimento del senso comune suscitato dal decostruzionismo e dal postmodernismo
filosofico, il problema del significato e dello statuto dei concetti di verità e realtà fosse

4
FERRARIS, 2011.
5
«Uno spettro si aggira per l' Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare "New Realism", e che
dà il titolo a un convegno internazionale che si terrà a Bonn la primavera prossima». (FERRARIS, 2011)
6
FERRARIS, 2014, p. 30.
7
FERRARIS, 2011.
8
FERRARIS, 2012, p. 1.
9
Un’idea della portata culturale che ebbe la questione del superamento del postmodernismo filosofico in
Italia si può ricavare dal sito https://nuovorealismo.wordpress.com/, progetto a cura del Laboratorio di
Ontologia dell’Università degli Studi di Torino che si definisce «il sito ufficiale della rassegna del nuovo
realismo», in cui sono collezionati i numerosissimi interventi riguardanti la questione del nuovo realismo
emersi negli otto anni successivi al citato articolo di Ferraris su Repubblica del 2011.

4
divenuto – come recita il retro di copertina di Bentornata realtà 10 – «la questione
filosofica oggi più dibattuta»11.
Qualche mese dopo l’annuncio di Ferraris, in un articolo pubblicato su «la
Repubblica» nel marzo del 2012 Eco si impegna a chiarire la sua posizione nei confronti
del “nuovo realismo” e del dibattito ad esso correlato. «Ho letto in vari siti di internet o
in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi
chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in
posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta»12, scrive Eco. Prendendo le mosse
precisamente dall’idea, espressa da Eco stesso in queste righe, che il pensiero
epistemologico di Eco manifesti nel tempo una certa continuità e coerenza, questo lavoro
si propone di ricostruire l’evolversi della caratterizzazione di Eco dei concetti di verità e
realtà, indagando in che modo tali posizioni siano state incorporate, problematizzate, e
forse trasformate nei suoi romanzi.
La frase ironica con cui si apre l’articolo di Repubblica fa trasparire immediatamente
l’ambiguità dell’atteggiamento di Eco, che si dichiara alleato di Ferraris rimarcando al
tempo stesso la propria indipendenza intellettuale rispetto al suo progetto di
“rinnovamento” del realismo. Questa ambiguità nasce, in primo luogo, dal fatto che Eco
abbia portato avanti per decenni una posizione che contrasta con le tesi più radicali
dell’ermeneutica postmoderna americana e italiana, pur partecipando e contribuendo in
modo decisivo alla temperie culturale del postmodernismo, tanto nei saggi quanto nella
pratica di romanziere. Sebbene la posizione di Eco sia certamente peculiare, e non esente
da oscillazioni (anche se priva di ripensamenti), il suo duplice statuto di critico e fautore
del postmodernismo non è completamente contradditorio, poiché giustificato
dall’ambiguità intrinseca alla nozione stessa di postmoderno e alla sua vulgata.
Sotto le etichette di «postmoderno» e «postmodernismo», che cominciano a circolare

10
DE CARO, FERRARIS, 2012.
11
In Menzogna di D’Agostini, il periodo tra gli anni 2002-2012 è definito «truth decade» proprio per la
peculiare attenzione pubblica per la questione, anche filosofica, della verità, (D’AGOSTINI, 2012, p. 11).
12
ECO, 2012.

5
diffusamente all’inizio degli anni Settanta13, si sono depositati infatti significati così
ampi e variegati da risultare talvolta contradditori14. Il postmoderno è caratterizzabile
come una «mutazione antropologica» e una «rivoluzione mentale» che «ha trasformato
l’intero modo della vita, e perciò la cultura, le arti, la letteratura» 15 . Nel tentare di
spiegarne l’origine ci si confronta con fenomeni eterogenei, che vanno dalla percezione e
la risposta ai cambiamenti straordinari che stava subendo l’Occidente nei decenni del
dopoguerra16, alla reazione all’esaurimento delle forme espressive della modernità sotto
forma di un nuovo atteggiamento nell’architettura, nel design, nell’arte, nella letteratura17.
Come sintetizza acutamente Ceserani nel suo Raccontare il postmoderno, non esiste
consenso assoluto sui tratti salienti del postmodernismo: «qualcuno insisterà sul nuovo
modo di produzione, qualcun altro sulle molte novità tecnologiche, qualcun altro ancora
sulla rivoluzione dei mezzi di comunicazione, sulla loro forza di penetrazione, sulla
immaterialità dei messaggi e sulla nuova complicata retorica delle loro ridondanze e dei
loro silenzi e reticenze, e gli altri, via via, si soffermeranno sui comportamenti individuali
e collettivi, sui modi di fare politica, sulle tematiche prevalenti nell’immaginario, sui
nuovi canoni elaborati in letteratura, nel cinema, nelle altre forme di comunicazione»18.
Se per capire Umberto Eco come intellettuale, filosofo, semiologo e romanziere è
necessario comprendere il postmoderno come fenomeno culturale, come atmosfera e fase
storica, per cogliere il senso della sua concezione della verità e della realtà, che è una

13
CESERANI, 1997, p. 33.
14
Ceserani nel suo Raccontare il postmoderno ricostruisce quattro fasi della storia dei termini
“postmoderno” e “postmodernismo”, in cui queste nozioni sono usate alternativamente in accezione
negativa e positiva, in ambiti trasversali che vanno dalla storiografia alla critica letteraria, dalla filmografia
all’arte e alla musica, dall’architettura allo studio dei costumi (CESERANI, pp. 29-53).
15
DONNARUMMA, 2014, p. 23.
16
Ivi, p. 26; Per una trattazione di matrice marxista del postmoderno come attuazione della logica culturale
del tardo-capitalismo, cfr. JAMESON, 2007.
17
CESERANI, 1997, p. 31; DONNARUMMA; 2014, pp. 25-27; ECO, 2006, pp. 528-529.
18
CESERANI, 1997, p. 15.

6
delicata oscillazione19 dialettica tra l’idea di “semiosi illimitata”20 e quella di “realismo
negativo”21, è invece essenziale conoscere lo sfondo filosofico attraverso il quale e in
opposizione al quale la sua posizione si staglia. Ovvero, precisamente quel fenomeno
intellettuale che si sviluppa nelle accademie americane grazie all’influenza dei post-
strutturalisti francesi, che in Italia trova una rappresentanza nel “pensiero debole” di
Gianni Vattimo, e che diviene infine il bersaglio polemico del nuovo realismo di Ferraris:
il cosiddetto postmodernismo filosofico.
Obiettivo di questo capitolo non è tanto offrire una panoramica completa ed
esauriente delle teorie filosofiche postmoderne e dello sgretolamento del concetto
tradizionale di verità – sforzo che non può essere relegato a poche pagine – ma piuttosto
far emergere le posizioni di coloro con cui Eco si confronta criticamente, come Rorty e
Vattimo, poiché è proprio nel contesto del dissidio con questi filosofi che la posizione
specifica di Eco si fa più definita. Inoltre, analizzando da vicino i temi e le voci del
postmodernismo filosofico, è possibile far emergere alcuni temi e atteggiamenti che
saturano la letteratura di Eco, chiarendo così in che senso, al di là del suo dissidio
filosofico con le derive più radicali del postmodernismo, Eco sia un autore
consapevolmente postmoderno22.

1.1 Il postmodernismo filosofico


L’equivocità del postmoderno come etichetta generica persiste anche quando, dalla
congerie di fenomeni culturali e storici disparati che vi si riconoscono, si isola il solo
postmodernismo filosofico. Non è possibile identificare una teoria postmoderna univoca,
e nemmeno un insieme coerente di posizioni. Piuttosto, «si è colpiti dalle differenze tra
teorie spesso raggruppate come “postmoderne”, e dalla pluralità, spesso conflittuale, di

19
Nei Limiti dell’interpretazione Eco riassume gli sviluppi del suo pensiero epistemologico come un
tentativo di stabilire «l’ineliminabilità dell’oscillazione» tra libertà dell’interpretazione e i suoi stessi limiti
(ECO, 1990, p. 53).
20
ECO, 1979.
21
ECO, 2012.
22
Sulla “consapevolezza postmoderna” di Eco, cfr. CESERANI, 1997, p. 180-181.

7
posizioni postmoderne»23. L’idea del “postmoderno” come corrente o movimento nasce
nelle accademie americane a partire dagli anni Ottanta, nel momento in cui si diffondono
capillarmente le opere di autori francesi post-strutturalisti come Derrida, Foucault,
Deleuze, Guattari, Kristeva, Baudrillard e Lyotard24. Questi filosofi, pur non avendo mai
utilizzato personalmente il termine “postmoderno” nel corso degli anni Settanta per
definire l’indirizzo del loro lavoro25, hanno, come nota Ceserani, «contribuito in modo
sostanziale a creare i modi di pensiero e i metodi di osservazione necessari perché si
costruisse, in America, una teoria del postmoderno»26.
In particolare, è fondamentale per istituire un confronto con la semiotica
interpretativa di Eco comprendere la dialettica tra strutturalismo e decostruzione, e la
diversa concezione del rapporto tra linguaggio e realtà che la seconda istituisce in
opposizione al primo. La decostruzione critica la linguistica saussuriana per il suo
rimanere legata all’idea che il discorso possa presentificare il mondo, che il segno abbia
una relazione naturale immediata con il suo referente, e che il legame tra significante e
significato, seppure culturalmente arbitrario, sia unitario e stabile 27 . All’opposto, il
cosiddetto post-strutturalismo enfatizza in modo molto più radicale il carattere arbitrario,
differenziale e non-referenziale del segno, affermando la priorità del significante rispetto
al significato, e dunque il dinamismo del linguaggio e l’instabilità del significato: il
significato è solo un momento in un processo illimitato di significazione ed è prodotto
all’interno di un illimitato gioco intertestuale di significanti, piuttosto che attraverso una
relazione referenziale stabile tra soggetto e oggetto. Con le parole di Derrida, «il

23
BEST - KELLNER, 1991, p. 2.
24
Per una descrizione dettagliata del processo di penetrazione del pensiero francese in America, cfr.
CESERANI, 1997, pp. 54-62.
25
CESERANI, 1997, p. 54.
26
Ibidem. In particolare, Ceserani enfatizza il contributo di Derrida nell’elaborare temi come «la
molteplicità dei discorsi e dei soggetti, la pluralità dei linguaggi, la disseminazione dei significati», o
metafore come «l’opacità della scrittura, la différance, la rivalutazione dell’eterogeneo, il senso della fine
e dell’apocalisse» che «sono entrati a far parte in modo determinante delle tendenze sociali e culturali che
hanno costituito, nel dibattito americano, il discorso del postmoderno», Ivi, p. 59.
27
BEST - KELLNER, 1991, p. 20.

8
significato del significato è l’indefinito rinvio del significante al significato […] La sua
forza è una certa equivocità pura e infinita, che non concede riposo, non concede respiro
al significato, che continua sempre e ancora a significare e differenziarsi» 28 . Questa
produzione di significazione che resiste all’imposizione di limiti strutturali è definita da
Derrida “disseminazione”, concetto che condivide la stessa enfasi dinamica dell’idea di
desiderio di Deleuze e Gattari, della teoria dell’intensità di Lyotard, del concetto di
semiurgia di Baudrillard, e di quello di potere di Foucault29.
Inoltre, secondo i decostruzionisti lo strutturalismo è orientato verso obbiettivi
tipicamente moderni (la fondazione della conoscenza, la verità, l’oggettività, la
sistematicità), e mantiene l’idea umanistica di una stabilità della natura umana. Nel far
ciò, riproduce ciò che Derrida definisce «metafisica della presenza»30, ovvero una visione
fondazionalista del linguaggio e della conoscenza che rivendica per il soggetto la garanzia
di un accesso immediato alla realtà. La storia della metafisica occidentale è caratterizzata
dal postulato di un centro stabile, un’origine fissa, a cui il linguaggio si rifà: l’essenza,
l’esistenza, l’idea, l’essere, la sostanza, la trascendentalità, la coscienza, o Dio. Ma le
opposizioni binarie che governano questa metafisica della presenza (soggetto/oggetto,
apparenza/realtà, oralità/scrittura) producono delle gerarchie di valore discriminatorie,
che affermano e costruiscono la verità al prezzo dell’esclusione e svalutazione di uno dei
due termini; per questo gli autori decostruzionisti condividono l’idea della necessità di
decostruire la filosofia e la cultura occidentale fin dalle sue assunzioni di base, per
mostrarne l’arbitrarietà delle gerarchie.
Come riporta Boghossian nel suo Fear of Knowledge, è importante notare come il
decostruzionismo e il post-strutturalismo francese s’imposero come pensiero dominante
esclusivamente nei dipartimenti di scienze sociali e di studi umanistici e in particolare
letterari delle accademie americane, rimanendo perlopiù estranei, se non guardati con

28
DERRIDA, 2010, p. 58.
29
BEST - KELLNER, 1991, p. 21.
30
DERRIDA, 1998.

9
sospetto, nel «mainstream dei dipartimenti di filosofia analitica del mondo anglofono»31.
Questa «Science War» tra dipartimenti, che ha creato la mitologia americana di un
incolmabile divario e di una sostanziale impossibilità comunicativa tra filosofia “analitica”
e “continentale”32, è la ragione per cui, nonostante l’idea costruttivista che è alla base
della “teoria del postmoderno” americana derivi dalla filosofia francese, di fatto gran
parte degli autori che si sono occupati di postmodernità, o che ne hanno fatto proprio il
vessillo, sono studiosi di letteratura e di scienze sociali.
Nonostante ciò, la filosofia anglofona propriamente detta non rimane completamente
immune alla fascinazione del costruzionismo e alle sue conseguenze epistemologiche. Se
fin dagli anni sessanta filosofi della scienza come Kuhn e Feyerabend avevano mostrato
le contraddizioni delle pretese di oggettività della scienza come unica “verità” capace di
descrivere il reale, nei decenni successivi numerose voci (Dummet, Goodman, Davidson,
Carnap, Cartwright, la scuola wittgensteiniana, Van Fraassen, Hacking, Wright, Putnam,
Rorty 33 ), all’interno del “mainstream” della filosofia analitica, esprimono perplessità
rispetto ai concetti tradizionali dell’epistemologia. Il tratto comune che unisce gli autori
continentali che sono stati fondamentale fonte d’ispirazione del postmodernismo
filosofico (Nietzsche, Heidegger, Derrida, Focault, Lyotard, Baudrillard, Barthes e, per
l’influenza che ha avuto nel dibattito, l’analitico Wittgenstein) e i filosofi di formazione
analitica che in qualche modo parteciparono alla temperie postmoderna o risentirono dei
suoi effetti34, è la critica alla filosofia tradizionale per la sua ricerca razionalistica di una
fondazione della conoscenza, di verità apodittiche, e di rivendicazioni universali e
totalizzanti35. Questi autori, anche se in modi molto diversi, condividono la polemica
contro il razionalismo del pensiero tradizionale, il cui apice è rappresentato proprio dalla
modernità filosofica e dai suoi grandiosi progetti razionalistici, da Cartesio

31
BOGHOSSIAN, 2006, p. 7.
32
Boghossian parla di «crescente alienazione della filosofia accademica rispetto al resto delle scienze
umane e sociali», che porta ad «acrimonia e tensione nei campus americani», BOGHOSSIAN, 2006, p. 8.
33
FERRARIS, 2012, p. V.
34
Ibidem.
35
BEST - KELLNER, 1991, p. 4.

10
all’Illuminismo e al positivismo. Inoltre, sono accomunati dal rifiuto dell’idea che la
teoria possa riflettere direttamente la realtà; piuttosto, ritengono che la teoria sia in grado,
al meglio, di fornire prospettive parziali sui loro oggetti, e che tutte le rappresentazioni
della realtà che ci appaiono come cognitivamente immediate siano in realtà una
costruzione sociale, storica e linguistica. Ed è proprio in questo scenario, il «cosiddetto
postmodernismo filosofico», costituitosi «passando attraverso la decostruzione […] e le
forme del pensiero debole»36, che emerge quel «tratto molto riconoscibile» con il quale
Eco si confronta e in opposizione al quale Ferraris costruisce il suo nuovo realismo: la
tesi del «primato ermeneutico dell'interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono
fatti ma solo interpretazioni»37.
Gli autori più radicali del postmodernismo filosofico condividono con questo slogan
e con Su verità e menzogna in senso extramorale, il testo in cui Nietzsche ne
approfondisce il senso, sia l’idea della centralità del linguaggio nella costruzione della
verità sia gli esiti pragmatistici di questa posizione38. Se Nietzsche affermava che la verità
non è altro che «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi»39, autori
come Nelson Goodman, Richard Rorty e Hillary Putnam (il Putnam del realismo interno
di Models and Reality and Reason, Truth and History, non casualmente pubblicati nei
decenni di punta del postmodernismo 40) ritengono che non esistano fatti indipendenti
dalla descrizione linguistica, o dalla «versione» 41 che ne viene proposta. Così come
Nietzsche sosteneva che ciò che s’impone come verità è l’utile del più forte, così, in toni
più democratici ma comunque pragmatici, Goodman, Rorty e Putnam sostengono che il
linguaggio e lo schema concettuale che adottiamo per descrivere il mondo siano quelli

36
ECO, 2012.
37
Ibidem.
38
In tal modo rivelando la parentela tra il costruttivismo e il pluralismo di filosofi pragmatisti come
William James e John Dewey.
39
NIETZSCHE, 2015, p.
40
PUTNAM 1978, PUTNAM 1981; per una presentazione del percorso di Putnam tra realismo e anti-
realismo, cfr. DECARO, 1996.
41
GOODMAN, 1978, p. 94.

11
più utili alla luce dei nostri contingenti interessi e bisogni di esseri sociali. E che la “verità”
virgolettata è non solo illusoria, ma anche minacciosa, conservatrice e al limite oppressiva.
Dunque, se è possibile discriminare tra le descrizioni alternative del mondo sulla base di
un criterio di utilità storicamente e culturalmente determinato, non è possibile farlo in
termini assoluti, rifacendosi ad un principio di verità e falsità esterno al linguaggio e al
pensiero: essendo la verità una proprietà epistemica, tutte le descrizioni alternative della
realtà sono ugualmente valide anche se restituiscono “realtà” profondamente diverse.
Tra questi autori sussistono ovviamente delle divergenze importanti. Putnam, al di là
dei ripensamenti che l’hanno portato dal realismo metafisico, al realismo interno e al
realismo diretto, ha sempre mantenuto saldo un elemento di oggettività nelle sue teorie.
Se è vero che si può entrare in contatto con l’oggettività del reale «solo dopo aver adottato
un modo di parlare, un linguaggio, uno “schema concettuale”», perché «parlare di ‘fatti’
senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla», è anche
vero che per Putnam «noi possiamo e dobbiamo insistere nel dire che ci sono alcuni fatti,
non costituiti da noi, da scoprire»42. D’altro canto, invece, Goodman e Rorty – sebbene il
primo sia più interessato alle conseguenze del costruttivismo per la filosofia dell’arte e il
secondo a trasformare la filosofia in terapia edificante, e in ultima istanza democratica –
sono molto più radicali nel recidere ogni legame con l’idea che ci sia un modo in cui le
cose stiano a prescindere dal linguaggio che usiamo per costruirle. Ed è precisamente
questa «eresia»43 del pensiero occidentale che, in particolare nel pensiero di Rorty e nella
sua ricezione italiana ad opera di Vattimo, costituisce uno iato tra la posizione di Eco e il
postmodernismo filosofico.

1.2 Rirchard Rorty e la trasformazione dell’epistemologia in


ermeneutica
A partire dalla pubblicazione del volume La filosofia e lo specchio della natura nel 1979,

42
PUTNAM, 1987, pp. 50-51.
43
ECO, 2012.

12
Richard Rorty ha intrapreso una straordinaria campagna per sancire la fine della filosofia
come la si è sempre concepita, ovvero come ricerca di un fondamento di verità sul quale
si potesse costruire la legittimità di tutte le altre discipline, e per proporre una nuova
filosofia libera dall’obbiettivo univoco di conoscere la verità. Il tratto straordinario di
questo progetto è la sua capacità di far dialogare ironicamente fonti tra loro disparate,
svuotando la filosofia del suo ruolo secolare dall’interno, attraverso le voci dei filosofi
stessi. Rorty è infatti un filosofo di formazione analitica, che usa gli argomenti della stessa
tradizione analitica (Quine, Sellers, Kuhn, Feyrebeden e Davidson), combinandoli con le
istanze anti-epistemologiche della filosofia continentale (Heidegger, Gadamer, Sartre e
Derrida) per mostrare come la filosofia analitica contemporanea si sia trasformata in pura
epistemologia dalle aspirazioni fondazionaliste.
Alla base del pensiero di Rorty si trova un’intuizione storiografica: la filosofia
occidentale è ossessionata dal problema del fondamento di una conoscenza vera del
mondo esterno a partire dall’invenzione cartesiana del concetto di mente come una sorta
di “occhio” che ha un accesso indubitabile solo alla propria interiorità. In tal modo si crea
il problema epistemologico di giustificare la conoscenza del mondo esterno,
incessantemente dubitabile, sulla base di un’interiorità certa, vera e fondata. La filosofia,
presentandosi come scienza della conoscenza e del modo in cui la mente si forma
rappresentazioni, si arroga un ruolo fondazionale nei confronti delle altre discipline, come
«teoria in grado di dividere la cultura nelle aree che rappresentano bene la realtà, in quelle
che la rappresentano meno bene, e in quelle che non la rappresentano affatto (malgrado
la loro pretesa di riuscirci)» 44 . Per decostruire questa pretesa della filosofia, Rorty
argomenta che noi non conosciamo oggetti, come la metafora della mente come occhio o
specchio sembra suggerire, ma solo proposizioni che parlano del mondo, lo descrivono e
lo ridescrivono secondo linguaggi sempre nuovi. I concetti di “verità”, “mente”, “realtà
esterna”, non sono dunque altro che «modi di raggruppare una serie di nozioni piuttosto
eterogenee», costruzioni linguistiche che, in termini ironici, «si adeguavano agli scopi di

44
RORTY, 2004, p. 318.

13
Cartesio»45
Secondo Rorty, dunque, non dovremmo più considerare la filosofia come
un’indagine sul modo in cui le cose sono veramente, come un tentativo di “rispecchiare”
la natura – e dunque come il fondamento di tutte le altre discipline - ma piuttosto come
uno tra gli innumerevoli contributi ad una conversazione culturale perenne, in cui
vocabolari e descrizioni diverse s’impongono nell’uso solo nella misura in cui sono utili
a scopi contingenti. In questo senso l’epistemologia, intesa come tendenza
fondazionalistica che ha dominato la filosofia europea da Platone al pensiero analitico
contemporaneo, deve essere sostituita da una nuova forma di filosofia priva di presupposti
stipulati e di pretese di oggettività: l’ermeneutica. Se da una parte Rorty s’ispira all’idea
di ermeneutica continentale, richiamandosi soprattutto a Heidegger e Gadamer (Il
giudizio negativo di Rorty rispetto all’epistemologia è essenzialmente il giudizio di
Heidegger rispetto alla metafisica)46, dall’altra, attingendo dalla sua formazione analitica
e sulle istanze pragmatistiche di cui è corroborato il suo pensiero, si pone criticamente
anche nei confronti della tradizione ermeneutica europea e della sua fissazione per la
questione dell’essere. Come sintetizza efficacemente Vattimo nella sua prefazione a La
filosofia e lo specchio della natura, «l’approdo di Rorty all’ermeneutica è dunque ben
lontano dal configurarsi come una abiura e una conversione, e si presenta invece come
una specifica proposta di declinazione dell’ermeneutica stessa che apre la via a sviluppi
originali»47.
L’ermeneutica di Rorty è in primo luogo edificante48 invece che istruttiva; è una

45
Ivi, p. 125.
46
Per Heidegger lo «scandalo della filosofia» come metafisica non consiste, come credeva Kant, nel fatto
che non si sia ancora trovata una prova dell’esistenza del mondo esterno, ma nel fatto che «che tali prove
siano ancora attese e ricercate» (HEIDEGGER, 1976, p. 190).
47
VATTIMO, 2004, p. XXVII.
48
Rorty usa il termine « edification » (edificazione in italiano) per definire la pars construens del suo
progetto ermeneutico: «Userò “edificazione” per indicare questo progetto per la scoperta di maniere di
parlare nuove, migliori, più interessanti e più fruttuose. Il tentativo di edificare (noi stessi o altri) può
consistere nell’attività ermeneutica di operare connessioni tra la nostra propria cultura e qualche cultura
esotica o un qualche periodo storico, oppure tra la nostra disciplina e un’altra disciplina che sembri

14
ricerca di nuovi linguaggi, nuovi vocabolari e nuove forme di vita e di pensiero che
rinuncia alle costrizioni e alla parvenza di autorità di una “disciplina”. Non può essere,
ovviamente, “superiore” all’epistemologia in quanto più aderente ad una verità sul
conoscere o sull’uomo, ma può essere liberatoria perché, rifiutando l’idea di un’essenza
dell’uomo, «ci trae fuori dai nostri vecchi io con la forza dell’estraneità, e ci aiuta a
diventare esseri nuovi»49.
Per chiarire lo scopo e la sostanza dell’ermeneutica come post-filosofia, Rorty
associa l’epistemologia al «discorso normale» nel senso adoperato da Thomas Khun per
distinguere tra «scienza normale» e «rivoluzionaria». Il discorso normale, proprio
dell’epistemologia, è «quello che viene condotto all’interno di un insieme concordato di
convenzioni, su quel che vale come contributo rilevante, su cosa sia la risposta a una
domanda, su cosa significhi disporre di un buon argomento» 50 . L’atteggiamento
epistemologico, dunque, dinnanzi a qualcosa che si conosce, è «l’esigenza di codificarlo
per ampliarlo, o irrobustirlo, o insegnarlo, o fondarlo»51. Al contrario, l’ermeneutica si
occupa di produrre un discorso anormale, che è «quello che ha luogo quando qualcuno
entra nel discorso, ignorando queste convenzioni o avendole messe da parte»; il prodotto
del discorso anormale, inoltre, «può essere qualsiasi cosa, dal nonsense alla rivoluzione
scientifica, e non c’è nessuna disciplina in grado di descriverlo, proprio come non c’è
nessuna disciplina che si possa dedicare allo studio dell’imprevedibile e della creatività»52.
È evidente come trasformando la filosofia in un discorso che, per non irrigimentarsi in
qualche verità, finisce per essere un continuo tentativo di riscrittura del discorso normale,
Rorty stia eliminando la possibilità di distinguere tra letteratura e filosofia. O, forse, sta

perseguire scopi incommensurabili in un vocabolario incommensurabile» (RORTY, 2004, p. 360). Rorty


spiega di aver preferito questo termine, nonostante l’infelice connotazione negativa, perché la Bildung di
Gadamer e della cultura tedesca gli sembrava troppo straniera e il termine «educazione» aveva troppe
connotazioni rigide.
49
RORTY, 2004, p. 360.
50
Ivi, p. 234.
51
Ibidem.
52
Ivi, p. 235.

15
auspicando la trasformazione della filosofia in un testo letterario postmoderno,
ironicamente consapevole di sé e dell’impossibilità di dire qualcosa che graffi un qualche
sostrato di realtà esterno al testo. In ogni caso, in Contingency, Irony and Solidarity del
1989 Rorty arriva ad affermare esplicitamente in toni nietzschiani che i diversi vocabolari
creati per veicolare divergenti descrizioni del mondo non sono altro che «successi
poetici»53, e che la filosofia va considerata come un «genere letterario»54.
Un’altra caratteristica eccezionale della filosofia di Rorty, che ha contribuito
all’imporsi della sua figura di filosofo del postmoderno al di fuori della sola filosofia, è
la sua inesausta e meticolosa impresa di trasformazione e interrogazione del linguaggio.
O meglio, il suo tentativo costante di trasformare il discorso in un meta-discorso, per far
sì che ogni parola pungoli il lettore a soppesare gli assunti e i sottotesti del linguaggio che
usa. Rorty insegna che ciò che ci dà la parvenza di una verità stabile e oggettiva è proprio
un uso irriflesso del linguaggio: le parole che si usano per giustificare le proprie azioni,
credenze e vite (innanzitutto “vero”, “buono”, “giusto” e “bello”) sono un «vocabolario
finale», nel senso che «se viene messo in dubbio il valore di queste parole, coloro che le
utilizzano possono fare ricorso solo ad argomenti circolari» 55. Dalla singola parola al
sistema filosofico, ogni unità linguistica in Rorty perde al tempo stesso il suo peso e la
sua innocenza, perché rivela la sua capacità di confermare, fingendo di rappresentarle,
versioni della verità che è il linguaggio stesso a creare; una lezione metalinguistica che
non è affatto estranea alla pratica letteraria del postmoderno, e ad Eco in particolare.
Infine, nel già citato Contingency, Irony and Solidarity, testo dedicato a chiarire in
cosa consista la proposta filosofica positiva di Rorty, e in che modo essa possa sfociare
in un progetto umano liberale e democratico basato sulla solidarietà reciproca e sul libero
dialogo, Rorty chiarisce il ruolo sostanziale dell’ironia come strumento contro un uso
inconsapevole del linguaggio e dunque contro il sedimentarsi di verità oppressive. Per
Rorty il filosofo metafisico deve trasformarsi in un «ironista», ovvero qualcuno che

53
RORTY, 1989, p. 74.
54
Ivi, p. 79.
55
Ivi, p. 73.

16
continua a dubitare del suo vocabolario finale, non ritenendolo più vicino alla realtà di
altri disponibili, e che si rende conto che il suo vocabolario non è in grado di dissolvere
in modo non-circolare questi dubbi. L’ironista, per il fatto di sapere «che qualsiasi cosa
può essere fatta sembrare buona o cattiva semplicemente ridescrivendola», si pone nella
posizione che Sartre chiamava “metastabilità”56: «incapace di prendersi sul serio perché
sempre consapevole che i termini con cui descrive se stesso sono soggetti a cambiamento,
sempre consapevole della contingenza e fragilità del suo vocabolario finale, e dunque del
suo stesso sé» 57 . Le pagine che Rorty dedica all’ironia come modus vivendi e
atteggiamento liberatorio e liberale 58 sono chiaramente finalizzate a scongiurare la
possibilità che il suo progetto post-filosofico possa essere interpretato come una forma
irresponsabile e nichilista di relativismo. Nonostante ciò, l’ironia del postmoderno, di cui
Rorty è un sensibile teorizzatore, assume in altre forme del pensiero e nella pratica
artistica e letteraria postmoderna un’inevitabile connotazione di amara leggerezza,
disimpegno, e arrendevolezza dinnanzi all’impossibilità del discorso di dire il vero.

1.3 Gianni Vattimo e la “debolezza” del postmoderno italiano


In un articolo sulla «Stampa» del 2007, scritto per ricordare la straordinarietà intellettuale
di Rorty nel momento della sua morte, Vattimo omaggia il filosofo sostenendo che il
progetto del “pensiero debole” sia nato anche per effetto dei loro incontri, in anni di

56
In modo non canonico, Rorty considera Sartre come un filosofo ermeneutico da cui trarre ispirazione
per la sua ermeneutica edificante e pragmatica. In particolare, ammira in Sarte l’idea che l’uomo non abbia
un essenza, e che dunque debba assumersi infondatamente la sua radicale responsabilità. Il filosofo
“epistemologo”, fondando il sapere e l’agire sull’essenza dell’uomo e del mondo, rivela la sua «forma di
malafede specifica», ovvero «il suo speciale modo di sostituire uno pseudo atto di conoscenza alla scelta
morale» (RORTY, 1994, p. 383), mentre il filosofo “ermeneutico” apre la possibilità metastabile «di una
vita umana come fatto poetico piuttosto che puramente contemplativo» (RORTY, 2004, pp. 388-389).
57
Ivi, pp. 73-74.
58
Liberali, per Rorty, sono «coloro per cui la crudeltà è la cosa peggiore che si possa fare» (RORTY, 1994,
p. 74). In questo senso, dunque, un ironista liberale, pur non ritenendo il proprio vocabolario e dunque la
propria descrizione del mondo conclusiva, opera per creare e promuovere l’ideale di una società
democratica e libera.

17
«dialogo continuo e sintonia crescente» 59. Nonostante ciò, sussistono delle importanti
differenze tra la filosofia di Rorty e quella di Vattimo, l’analisi delle quali può essere utile
per capire il modo peculiare in cui il fenomeno del postmoderno è penetrato nella cultura
italiana. Gianni Vattimo ha dato il più importante e coerente contributo italiano alla
filosofia del postmodernismo, al tempo stesso sviluppando un pensiero originale,
autonomo, rigoroso, e privo della radicalità o del disimpegno di altri autori che hanno
affermato in quegli anni la dissoluzione del concetto di verità. Se Rorty ha cercato di
decostruire la filosofia analitica con i suoi stessi strumenti, criticando il concetto di analisi
filosofica 60 o la teoria del riferimento di Kripke e Putnam 61 , Vattimo si muove
esclusivamente nell’orizzonte e attraverso il lessico dell’ermeneutica continentale, e di
Nietzsche e Heidegger in particolare.
Alla base del suo progetto di “pensiero debole”, infatti, si trova la convinzione che
l’idea di superamento che la nozione di “postmoderno” esprime sia «proprio
l’atteggiamento che, in termini diversi, […] Nietzsche e Heidegger hanno cercato di
costruire nei confronti dell’eredità del pensiero europeo, che essi hanno messo
radicalmente in discussione» 62 . L’annuncio nietzschiano della morte di Dio segnala,
secondo Vattimo, il venire meno degli assoluti metafisici che caratterizza il passaggio alla
post-modernità, in cui vengono decostruite roccaforti oppressive del «pensiero forte»
come «l’idea di una totalità del mondo, di un senso unitario della storia, di un soggetto
auto centrato capace eventualmente di appropriarsene» 63 . In questo senso Vattimo fa
coincidere, con Lyotard64, il postmoderno con la «fine della storia», intesa come caduta
dell’idea di progresso e unità del passato, e accettazione della coesistenza di infinite
versioni dei fatti e storie individuali e incommensurabili, rappresentate al meglio dal

59
VATTIMO, 2007.
60
RORTY, 2004, p. 335 e sgg.
61
Ivi, pp. 573-594.
62
VATTIMO, 1998, p. 10.
63
VATTIMO, 1995, p. 18.
64
LYOTARD, 2014.

18
caotico sovrapporsi di notizie e fili narrativi che producono i media contemporanei65.
Da Heidegger, invece, Vattimo mutua soprattutto la concezione epocale dell'essere,
cioè la tesi secondo cui l'essere non è, ma accade; la verità non è dunque un insieme di
enti, di presenze, a cui l’uomo possa approssimarsi con l’uso della ragione, ma l’aprirsi
di orizzonti di senso linguistici e temporalizzati, ovvero storicamente e culturalmente
qualificati. L’uomo, da sempre “gettato” in questi orizzonti di senso che appartengono in
modo costitutivo al suo essere, non può studiarli da un punto di vista esterno o dedurne
le condizioni trascendentali dell’esperienza «mediante una qualche riduzione o epoché
che sospenda la sua adesione a orizzonti storico-culturali, linguistici, categoriali»66, ma
può solo abitarli, e, in quanto filosofo, interpretarli. Abitare la verità di un orizzonte di
senso, dunque, «implica un’appartenenza interpretativa, che comporta sia il consenso sia
la possibilità di articolazione critica»67.
Per Vattimo la trasformazione della filosofia “forte” e fondazionalista in
ermeneutica significa dunque qualcosa di più limitato e “debole” dello sfrenato gioco di
vocabolari dell’ironista di Rorty: «l’ermeneutica, se vuole essere coerente con il proprio
rifiuto della metafisica, non può che presentarsi come l’interpretazione filosofica più
persuasiva di una situazione, di un’epoca, e dunque, necessariamente, di una
provenienza» 68 , scrive Vattimo in Oltre l’interpretazione. L’ermeneutica dunque è un
tentativo di render conto di un orizzonte situato e parziale attraverso gli strumenti
interpretativi che esso ci mette a disposizione. È la filosofia che accetta di confrontarsi
con l’essere «come traccia, ricordo, essere consumato e indebolito (e per questo soltanto
degno di attenzione)» 69 Il valore argomentativo della tesi ermeneutica, che pur non
volendosi proporre come vera in senso assoluto non rinuncia a presentarsi come cogente,
risiede dunque nella sua «capacità di dar luogo a un quadro coerente e condivisibile»,

65
Sulla questione del rapporto tra media e postmoderno, cfr. in particolare La società trasparente
(VATTIMO, 1989).
66
VATTIMO 1995, p. 13.
67
VATTIMO, 1994, p. 104.
68
Ivi, p. 15.
69
VATTIMO, 1995, p. 27.

19
quindi ad una serie di verità locali, di natura consapevolmente stipulativa. Vattimo fa uso,
a questo proposito, della metafora – topos diffusissimo dopo Borges – della biblioteca,
che, tramite l’affine concetto echiano di Enciclopedia, si ritroverà nel labirinto del Nome
della Rosa come spazio di costruzione, nascondimento e scoperta della verità: la verità
dell’ermeneutica «è la competenza del bibliotecario, che non possiede interamente, in un
puntuale atto di comprensione trasparente, la totalità dei contenuti dei libri tra i quali vive,
e nemmeno i principi primi da cui tali contenuti dipendono;[…]la competenza
biblioteconomica […]sa dove cercare perché conosce le collocazioni dei volumi e ha,
anche, una certa idea del catalogo a soggetto»70.
Altre declinazioni del pensiero di Vattimo che contribuiscono a rendere la sua
ermeneutica meno radicale e ironica di quella di Rorty sono, per esempio, la sua aderenza
ad un cristianesimo paolino e incentrato sul concetto di kenosis, di abbassamento del dio
trascendente e metafisico in uomo particolare e debole71, o la sua visione, non canonica
per un fautore del postmoderno, della scienza come «apertura di un orizzonte di verità»
nel passaggio da un paradigma all’altro72; concetto espresso in termini heideggeriani ma
in piena contraddizione con l’ atteggiamento antiscientifico e antitecnologico di
Heiddeger secondo cui «la scienza non pensa»73. Inoltre, una caratteristica essenziale e
non convenzionale della sua ermeneutica è l’atteggiamento che secondo Vattimo il
filosofo postmoderno deve assumere nei confronti del passato, inteso soprattutto come
tradizione metafisica che è stata decostruita, e che descrive attraverso un termine preso a
prestito dal lessico di Heidegger: Verwindung. Per Vattimo Verwindung significa, in virtù
della famiglia di significati cui rimanda (guarigione, accettazione, rassegnazione,
svuotamento, distorsione, alleggerimento), «rimettersi» alla tradizione nel senso duplice

70
VATTIMO, 1994, p. 112.
71
In particolare in Credere di credere (VATTIMO,1996), e in Il futuro della religione (VATTIMO, 2003),
testo in cui Vattimo si confronta direttamente con Rorty sul tema della religione, accostando la propria idea
di caritas come virtù “nichilista” del cristianesimo debole alla nozione di solidarietà centrale nel pensiero
di Rorty.
72
VATTIMO, 1994.
73
HEIDEGGER, 1988, p. 41.

20
di affidarvisi e guarire da una malattia (in questo caso: la metafisica o il passato), nella
rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce.
Tracce che si manifestano nel fatto che, sebbene si assista ad un processo di
indebolimento dell’essere e di svuotamento della metafisica, «poiché non disponiamo di
un accesso precategoriale o trans categoriale all’essere, che smentisca e esautori le
categorie oggettivanti della metafisica, non possiamo far altro che prende queste categorie
per “buone”»74 All'idea di Verwindung è legata un'altra nozione che Vattimo desume da
Heidegger: quella di Andenken (rimemorazione). L'atteggiamento rimemorante nei
confronti della metafisica non scaturisce da un sentimento nostalgico o reattivo, ma
dalla pietas nei riguardi del passato, cioè dall' «amore per il vivente e le sue tracce»75.
Verwindung, Andenken e pietas significano dunque che siamo legati al passato da una
sorta di cordone ombelicale ermeneutico. Un cordone che possiamo attenuare o distorcere,
ma non annullare come vorrebbe l’ironia di Rorty.
L’originalità del pensiero debole di Vattimo consiste in un sincero e accorato tentativo
di dare un volto, una struttura, un progetto, alla filosofia post-metafisica, privata di
fondamenti e verità stabili. Vattimo, pur avendo per tutta la sua carriera promosso l’uso
del termine “postmoderno” per esprimere un mutamento epocale della filosofia, riconosce
nel postmoderno filosofico e letterario e in alcune manifestazioni della decostruzione
derridiana 76 la «mancanza di un autentico progetto proprio, il puro ripercorrimento
parassitario di ciò che è già stato pensato, con un proposito sostanzialmente edificante»77
e di «degustazione estetica» 78 . Al contrario, Vattimo vuole dimostrare che il pensiero
debole non è «debolezza» nel senso «dell’accettazione dell’esistente», di «incapacità di
critica sia teorica che pratica», e di «diminuita forza progettuale»79: la debolezza della
nuova ermeneutica schiude, assieme ad una maggiore complessità, e quindi difficoltà,

74
VATTIMO, 1995, p. 22.
75
Ivi, p. 22.
76
VATTIMO, 1981, p. 27.
77
Ivi, p. 23.
78
Ivi, p. 27.
79
Ibidem.

21
dell’esistente, una prospettiva di emancipazione e liberazione. Il nichilismo “debole” di
cui Vattimo si fa orgoglioso promotore non è né nostalgico né dimostrativo o aggressivo,
ma è uno sforzo etico di apertura al diverso, alla pluralità, a tutto ciò che nella luce della
ragione e della storia rimaneva inavvertito o inintelligibile. La pietas nei confronti del
passato, dunque, è anche «l’ascolto di una sterminata quantità di messaggi, che la
tradizione invia a noi, e che può essere di nuovo ascoltata da un orecchio che si è reso
disponibile»80 : solo nel momento in cui termina la storia come «storia di ciò che ha
vinto»81, è possibile ridare voce e riscattare gli oppressi, gli esclusi e i dimenticati, senza
doverne trasformare le prerogative in “nuova verità” come vorrebbe la dialettica “forte”
e violenta del marxismo classico82. E l’accesso che l’ermeneutica permette a queste nuove
voci può rendere più libera e stratificata la vita e l’etica dell’uomo postmoderno: «ora che
Dio è morto», scrive Vattimo, «vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci muovere
liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili - di
abbigliamento, di vita, di arte, di etica - vivendo come un autentico dovere etico e
religioso la 'thlipsis', il tormento della molteplicità»83 .

80
VATTIMO, 1995, p. 11.
81
Ivi, p. 15.
82
Ivi, pp. 14-18.
83
VATTIMO, 2006, p. 178.

22
2 Il problema della verità nei saggi di Eco
La ricostruzione del postmodernismo filosofico e del pensiero di coloro con cui Eco più
direttamente si confronta risulta fondamentale per inquadrare la nozione di verità di Eco,
poiché il suo pensiero si muove in un costante tentativo di compromesso nei confronti
della cultura e delle vicende intellettuali del suo tempo, e per questo risulterebbe
incompleto e privo di coordinate se letto isolatamente. All’interno dello stratificato
dibattito che si è creato intorno al concetto di verità tra la fine degli anni settanta ai primi
decenni del duemila, infatti, Eco ha elaborato una serie di posizioni di cui ha sempre
rivendicato la coerenza, ma che sono parse ammiccare, in momenti diversi, a fazioni rivali
della querelle. In effetti, un tratto che contraddistingue significativamente pressoché tutti
gli interventi di Eco sull’argomento è il suo porsi sulla difensiva, chiarendo i
fraintendimenti originatesi dai suoi testi precedenti, e smentendo il suo pieno
coinvolgimento con movimenti, teorie o autori a cui è stato accostato.
Da una parte, i saggi che vanno da Opera aperta ai primi lavori di semiotica (La
struttura assente, Lector in fabula, Il trattato di semiotica generale, Semiotica e filosofia
del linguaggio) 84
sono stati interpretati come panegirici della liberazione
dell’interpretazione (e dunque della conoscenza) dalle limitazioni di strutture forti, spesso
radicalizzandone eccessivamente, nei decenni seguenti, l’affinità con il postmodernismo
filosofico. Si pensi per esempio all’introduzione alla seconda edizione di Opera aperta
del 1967, in cui Eco deve chiarire che il riferimento nella prima introduzione alla «rottura
di un Ordine tradizionale, che l’uomo occidentale credeva immutabile e identificava con
la struttura oggettiva del mondo» 85 andava inteso in senso metaforico («si deve
ammettere che, in materia così delicata di rapporti tra diversi universi disciplinari, di
"analogie" tra modi di operare, un discorso metaforico rischia di essere inteso, malgrado
ogni cautela, come un discorso metafisico» 86
). Allo stesso modo, nei Limiti

84
ECO, 1968; ECO 1979; ECO, 1994; ECO, 1984.
85
ECO, 1997, p. 2.
86
Ivi, p. 17.

23
dell’interpretazione o in Interpretazione e sovrainterpretazione87 Eco segnala come «nel
corso delle ultime decadi», nella lettura di Opera Aperta «i diritti dell’interprete siano
stati eccessivamente enfatizzati»88. Lo stesso fenomeno si verifica per i saggi scritti in
sintonia con il pensiero debole: ancora nel 1997 (Kant e l’ornitorinco) e nel 2007 (The
Weak thought and the limits of interpretation) Eco è costretto specificare che l’antologia
di Vattimo e Rovatti non fosse un manifesto come credevano diversi lettori («in generale,
coloro che non leggono i libri ma solo il loro titolo») e che dunque non fosse corretto
includere Eco «tra i teorizzatori del pensiero debole»89. D’altra parte, invece, la stagione
più cauta che va dai Limiti dell’interpretazione a Kant e l’ornitorinco e agli interventi in
sintonia con il nuovo realismo di Ferraris ha generato l’idea di una ritrattazione, di
un’abiura del postmodernismo filosofico nella sua declinazione italiana, a cui Eco
risponde, da una parte, enfatizzando la continuità del suo pensiero («parrebbe infatti che,
mentre allora celebravo un’interpretazione “aperta” delle opere d’arte, ammesso che
quella fosse una provocazione “rivoluzionaria”, oggi mi arrocchi su posizioni
conservatrici. Non penso che sia così» 90 ), e, dall’altra, preoccupandosi di non essere
scambiato per un sostenitore del nuovo realismo («il poco che ho da dire per questo
dibattito sul nuovo realismo mi dà l’impressione di ripetere il già detto»91).
Questa continua necessità di svincolare le proprie posizioni da linee di pensiero
esterne, tra cui il suo pensiero sembra costantemente oscillare, può avere due
giustificazioni In primo luogo, come scrive Paolucci nel suo saggio dedicato a Eco,
«l’essenza stessa del pensiero di Eco consiste nel tenere insieme paradigmi e domini
eterogenei, facendoli comunicare attraverso una mediazione tra essi»92. In secondo luogo,
si può intuire come il pensiero eterogeneo e versatile di Eco potesse essere così

87
ECO, 1990; ECO, 1992.
88
ECO, 1992, p. 23. Nei limiti dell’interpretazione (ECO, 1990) Eco esprime lo stesso concetto a pagina
52-53 e a pagina 70.
89
ECO, 2007, p.42.
90
ECO, 2016, p. 52.
91
ECO, 2012, p. 93.
92
PAOLUCCI, 2017, p. 116.

24
sistematicamente frainteso considerando l’atmosfera culturale nei decenni di ascesa e
declino del postmoderno che si è cercato di delineare nel primo capitolo, ovvero un’epoca
in cui la questione della verità diviene al tempo stesso sovraesposta e fortemente
dicotomica.
L’unico modo per salvaguardare, seguendo le indicazioni dello stesso Eco, l’idea di
una coerenza e continuità nel suo pensiero riguardo alla questione della verità è dunque
affermare che nei cinquant’anni di produzione saggistica che prendiamo in
considerazione Eco non cambi direzione, ma piuttosto si adatti alle trasformazioni della
cultura con cui le sue posizioni si confrontano, modellando il suo punto di vista sulla base
dell’andamento del più ampio dibattito in cui sono contestualizzate. I primi due paragrafi
di questo capitolo, che si occupano delle due “fasi” in cui è possibile dividere il pensiero
epistemologico di Eco, intendono precisamente rendere conto di questa trasformazione
prospettica. Se in una prima fase, animata da un intento di svecchiamento della cultura
italiana, per Eco si trattava di rendere evidente quanto di culturale ci fosse anche a livello
percettivo e nel presunto “dato naturale”, dagli anni ottanta in poi si tratta invece di
ricordare, nel pieno della frenesia oltranzista del postmoderno, che non tutto è costruzione
culturale. Detto in termini semiotici: se nel Trattato di semiotica generale del 1975 Eco
rifletteva su come i segni possano dire la realtà di cui parlano, cioè concependo l’essere
come termine ad quem, in Kant e l’ornitorinco del 1997, scritto dopo l’imperversare del
costruttivismo in epistemologia ed ermeneutica, Eco affronta la questione di come la
realtà (come termine a quo) condiziona il modo in cui parliamo e avvia il processo di
semiosi. Ciò che si modifica dunque, più che la posizione di Eco (che di certo si aggiusta,
si fa meno ingenua e provocatoria e, soprattutto dal punto di vista semiotico, più
approfondita), è il sistema culturale con cui le sue posizioni interagiscono, e il «cambio
di paradigma»93 che investe le questione della verità e dell’interpretazione.
Nell’ultimo paragrafo, infine, ci si occupa di un frangente del pensiero teorico di Eco

93
«Se in clima strutturalistico si privilegiava l’analisi del testo come oggetto dotato di caratteri strutturali
propri, descrivibili attraverso un formalismo più o meno rigoroso, in seguito si è orientate la discussione
verso una pragmatica della lettura», ECO, 1990, p. 57.

25
– ovvero l’idea che la narrazione possa dire e inscenare problematiche che al discorso
saggistico rimangono precluse – per utilizzarlo come collegamento concettuale tra la
questione della verità per l’Eco teorico e la sua trasposizione finzionale nell’opera
dell’Eco romanziere. Si vuole infatti mostrare come lo sviluppo della posizione
epistemologica di Eco porti ad un vicolo cieco, ad un punto morto e forse contradditorio,
che Eco traspone e rappresenta nei romanzi. Il noto aforisma per cui «ciò che non si può
teorizzare lo si deve narrare»94, dunque, verrà interpretato non come celebrazione del
potere conoscitivo e esplicativo della letteratura, ma piuttosto come istituzione di un
collegamento tra il riconoscimento dei limiti della nozione teorica di verità di Eco e la
capacità dei suoi romanzi di mettere in scena e problematizzare questi limiti.

2.1 Dalla semiotica come «teoria della menzogna» al modello «debole»


dell’enciclopedia
Ciò che di sicuro rimane solido nel modo in cui Eco concepisce il problema della
verità fin dalle prime opere di semiotica, è l’eredità intellettuale di Charles Sanders Peirce.
Da Pierce eredita, innanzitutto, il problema del rapporto linguistico e pre-linguistico con
le cose come «base stessa della teoria semiotica, cognitiva e metafisica al tempo stesso»95.
La semiotica peirciana, infatti, non è soltanto studio dei segni e del modo in cui usiamo il
linguaggio, ma anche teoria della conoscenza e modello della realtà: strumento ideale per
un intellettuale poliedrico che vuole collegare l’opera d’arte alla cultura di massa, si
occupa di comunicazione, interviene nelle dispute ontologiche e lavora estesamente sulla
letteratura. Da Peirce, inoltre, Eco trae soprattutto la concezione del segno come struttura
aperta triadica, in cui un’espressione ossia un representamen, che sta per un oggetto – che
non è solo un Oggetto Dinamico (ciò a cui il representamen si riferisce), ma anche un
Oggetto immediato (ciò che il representamen esprime o significa) – evoca nella mente di
chi lo interpreta un terzo termine, l’Interpretante. L’interpretante, a sua volta, genera un

94
ECO, 2006.
95
ECO, 1997, p. 14.

26
altro segno triadico, e così all’infinito: per questo la semiosi di Peirce ed Eco è “illimitata”,
e implica l’idea che conoscere sia interpretare, ovvero muoversi in un orizzonte di segni
infiniti che costituiscono il materiale, la mediazione continua, sulla base del quale cercare
di dare un senso alla realtà.
Il fatto che all’Oggetto Dinamico, ciò che origina i segni e ciò a cui i segni si
riferiscono, non ci si possa riferire se non attraverso l’intermediazione di un suo
significato pregresso, implica che non esista nel linguaggio e nel pensiero qualcosa che
non sia semiosi, e dunque qualcosa che possa funzionare da criterio per distinguere, tra
l’infinita catena di segni, quali interpretino in modo più corretto. Come spiega Eco,
l’Oggetto Dinamico rimane rispetto alle nostre facoltà conoscitive l’equivalente di una
kantiana Cosa in sé 96 . La catena interpretativa inizia sin dal livello percettivo della
conoscenza: anche la percezione «è interrogativa e condizionale», poiché «retta sempre
(anche quando non ci se ne rende conto) da un principio di scommessa»97. Tale principio
di scommessa, che si ripresenta in ogni fase e forma della conoscenza – dalla percezione
alla memoria, dalla comunicazione intersoggettiva alla scoperta scientifica – è
l'abduzione, altro concetto fondamentale che Eco eredita da Pierce e inscrive in profondità
nel proprio universo teorico. L’abduzione è un’inferenza sintetica e creativa che, dinnanzi
ad un fatto sorprendente, ipotizza in modo intuitivo e immaginativo che esso possa essere
il caso in cui viene applicata una certa regola. Per la semiosi, dunque, l’abduzione
«rappresenta il disegno, il tentativo azzardato di un sistema di regole di significazione
alla luce delle quali un segno acquisterà il proprio significato» 98 . Il fatto che
l’interpretazione semiotica si regga sull’abduzione è al cuore del cosiddetto fallibilismo
peirciano99 abbracciato da Eco: i segni interpretano, stanno al posto dei loro oggetti e
costruiscono versioni possibili della realtà. Per questo la conoscenza è sempre fallibile e

96
ECO, 1997, p. 15.
97
ECO, 1984, p.36.
98
ECO, 1984, p. 42.
99
«Il fallibilismo è la teoria secondo cui la nostra conoscenza non è mai assoluta ma nuota, per così dire,
in un continuum di incertezza e indeterminazione» (PEIRCE, 1958, V. 1, p.171)

27
rivedibile, e le interpretazioni segniche non possono essere necessarie, assolutamente vere
e del tutto certe.
In questo senso, nel suo Trattato di semiotica generale Eco definisce ironicamente
la semiotica come «la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire» o
«teoria della menzogna» 100 , e parla di «forza del falso» 101 . Il meccanismo della
menzogna è lo stesso del segno, ovvero la costruzione di una superficie significante che
sta al posto di un oggetto. La menzogna è tale perché nell’interpretare l’oggetto lo mostra
in un sistema eterogeneo, alternativo a quello della realtà. Di principio, però, il processo
congetturale con cui interpretiamo i segni non fornisce alcuna garanzia di non fornire,
involontariamente, una versione del mondo inconsistente quanto quella della menzogna.
Da qui l’idea fondamentale di Eco, che per tutto questo capitolo sarà proposta come
chiave interpretativa delle sue posizioni, che la semiotica, non potendo spiegare come si
dice il vero, possa più limitatamente proporsi come teoria di ciò che avviene quando si
dice volontariamente il falso. Sebbene tale modo di porre la questione tradisca
evidentemente un presupposto realista, è intuibile come il concetto di semiosi illimitata
potesse essere frainteso, nella smania postmoderna degli anni settanta e ottanta, con il
testualismo102, e come la libertà che viene data dalla semiotica interpretativa di Eco al
soggetto conoscente (e in Opera aperta e in Lector in fabula al lettore) nel produrre
porzioni di conoscenza costantemente rivedibili e sostituibili potesse essere scambiata per
una formulazione semiotica delle teorie di Derrida o Rorty.
Un altro concetto che ricorre fin dai primi saggi nella teoria della conoscenza di Eco,
e che contribuisce a creare l’idea che Eco sia un fautore del postmodernismo filosofico,
è la sua nozione della conoscenza come Enciclopedia. Per Peirce ed Eco usare un
linguaggio e conoscere significa, secondo una metafora ironica, «entrare al cinema col
film già iniziato» 103 , ovvero interpretare il mondo attraverso un linguaggio, delle

100
ECO, 1994, p. 17.
101
A cui dedica anche un saggio in Sulla letteratura (ECO, 2008, pp. 292-323)
102
Eco confuta proprio questo fraintendimento nei Limiti dell’interpretazione (ECO, 211-213)
103
ECO, 2014.

28
categorie, degli schemi storici che sono già lì, e che costituiscono lo sfondo e la sostanza
al tempo stesso della nostra percezione del reale. La conoscenza del mondo avviene
attraverso la mediazione di tutta una serie di conoscenze precedenti che circolano nello
spazio aperto della cultura, tra i soggetti di una comunità di interpreti. La conoscenza,
dunque, funziona secondo il modello e il «postulato semiotico» 104 dell’Enciclopedia,
intesa come «archivio audiovisivo della cultura» 105 , «insieme registrato di tutte le
interpretazioni»106, «spazio del già-detto»107.
L’idea insita nel concetto di Enciclopedia che la conoscenza sia sempre già mediata
da un linguaggio mostra un’affinità con l’idea rortyana di “vocabolario finale” e con
quella di Vattimo (mutuata da Heidegger) di accadere di orizzonti di senso. In questo
senso si può intuire in che termini l’Antiporfirio, saggio sulla questione dell’ Enciclopedia
con cui Eco contribuisce al progetto del Pensiero debole del 1983, sia stato erroneamente
interpretato come una prova dell’appartenenza di Eco al postmodernismo filosofico.
Nell’Antiporfirio Eco sostiene che l’Enciclopedia sia un modello «debole» del pensiero
perché si oppone al tentativo del «pensiero forte» di costruire «una semantica a
dizionario»108, struttura chiusa che cerca di trovare un’omologia diretta tra la realtà e le
parole usate per renderne conto. Nell’Antiporfirio Eco chiarisce che ciò che rende
«fruttuosamente debole» l’Enciclopedia è il fatto che «sottomette le leggi della
significazione alla determinazione continua del contesto e delle circostanze»109, fornendo
sempre una prospettiva limitata e locale piuttosto che globale e fondazionalista. Del tutto
in sintonia con le istanze anti-metafisiche che proliferavano negli anni Ottanta (e di
conseguenza, nel pensiero debole di Vattimo), Eco afferma che l’Enciclopedia non
fornisce un modello completo di razionalità, ovvero «non rispecchia in modo univoco un
universo ordinato», ma fornisce regole di ragionevolezza, che servono a «contrattare ad

104
ECO, 1984, p. 109.
105
Ibidem.
106
Ibidem.
107
ECO, 2007.
108
ECO, 1995, p. 56.
109
Ivi, p. 75.

29
ogni passo le condizioni che ci consentono di usare il linguaggio per rendere ragione –
secondo un criterio provvisorio di ordine – di un mondo disordinato»110.
Per descrive metaforicamente il funzionamento dell’Enciclopedia Eco si serve di una
nozione tipicamente postmoderna, ovvero il labirinto a rizoma di Deleuze e Guattari111.
Infinitamente estendibile, nel labirinto a rizoma ogni punto può essere connesso ad un
altro punto senza gerarchie e genealogie. Inoltre, poiché si può descrivere un rizoma solo
da una prospettiva locale, da un punto interno al rizoma stesso, in questo modello di
conoscenza si possono dare, e anzi sono «incoraggiate» 112 , le contraddizioni. Questa
definizione di Enciclopedia come rizoma infinitamente estendibile e privo di centro, che
si oppone alla struttura chiusa e ontologizzante del dizionario, riecheggia – e per questo
è erroneamente equiparato ad esse – simili dicotomie elaborate in quegli anni per
affermare il superamento di un modello chiuso, fondato e oggettivo di conoscenza che
rivendica di rispecchiare l’ordine del mondo. Si pensi alle già citate opposizioni tra
epistemologia ed ermeneutica in Rorty e tra metafisica ed ermeneutica in Vattimo, o allo
scarto dallo strutturalismo espresso dall’opposizione tra l’idea di Libro e l’écriture di
Derrida113, e tra l’idea di opera e di testo in Barthes114.
Come si vedrà nel prossimo paragrafo, anche nel momento in cui Eco scrive questi
testi il suo pensiero si distingue da quello di Vattimo e Rorty per la convinzione che, al di
là del carattere fallibile, congetturale, e non limitabile della semiosi interpretativa, essa
non di meno sia rivolta verso l’accrescimento della conoscenza, in virtù dell’ Oggetto
Dinamico da cui si origina e a cui attinge. Ciononostante, il vocabolario e lo spirito
intellettuale di questa prima fase del pensiero di Eco condivide molto con il
postmodernismo filosofico. Non stupisce, infatti, che nel confronto critico tra Eco e Rorty
del 1990, quest’ultimo si sia riferito al concetto di Enciclopedia per suggerire il carattere

110
Ibidem.
111
DELEUZE-GATTARI, 1976.
112
ECO 1995, p. 78.
113
DERRIDA, 1998, pp. 6-26.
114
BARTHES, 1988, pp. 73-81.

30
potenzialmente postmoderno del pensiero di Eco, sostenendo che «il suggerimento di Eco
di concepire la semiotica in termini di relazioni inferenziali labirintiche all’interno di un’
enciclopedia, piuttosto che in termini di relazioni di equivalenza tra segno e cosa
significata in stile da dizionario, mi sembrava indirizzarsi verso la corretta direzione
olistica e davidsoniana»115.

2.2 I limiti dell’interpretazione e il realismo negativo


In risposta sia alla diffusione capillare e spesso inconsulta delle idee del postmodernismo,
sia al massiccio fraintendimento del suo lavoro e del pensiero di Peirce, Eco pubblica a
partire dalla metà degli anni Ottanta una serie di saggi in cui si dissocia apertamente
dall’idea anti-oggetivista della verità che caratterizza il pensiero debole e il
postmodernismo filosofico. Il fulcro teorico di questi lavori (Brevi cenni sull’essere, I
limiti dell’interpretazione, Interpretazione e sovra interpretazione, Kant e l’ornitorinco)
116
confluirà nel 2012 in Di un realismo negativo, contributo di Eco a Bentornata realtà,
la raccolta di saggi con cui Ferraris sviluppa un dialogo intorno al suo nuovo realismo.
Questa seconda fase dell’opera di Eco è caratterizzata da un confronto serrato con le
posizioni e gli autori (Rorty, Derrida, Vattimo) con cui il suo pensiero si era
involontariamente mimetizzato tra gli anni sessanta e i primi anni ottanta. In particolare,
l’obbiettivo di Eco è dimostrare come la semiosi illimitata peirciana non autorizzi la
deriva decostruzionista secondo la quale non esiste una realtà indipendente dall’attività
interpretativa, e dunque ogni interpretazione è ugualmente valida117. In primo luogo, la
semiotica di Peirce è orientata da uno scopo conoscitivo preciso, dato dal fatto che «un
segno è qualcosa conoscendo il quale conosciamo qualcosa in più» 118
, perché
«procedendo nella semiosi illimitata, l’interpretazione si avvicina, anche se in modo

115
RORTY, 2002, p. 110.
116
ECO, 1985;ECO 1990; ECO, 2002; ECO 1997.
117
La semiosi illimitata peirciana, sotiene Eco ne I limiti dell’interpretazione, «viene spesso citata a
proposito di un’altra forma di deriva, quella celebrata dalla decostruzione», ECO,1990, p.206.
118
PEIRCE, 1958, V.8 p. 332.

31
asintotico, all’interpretante logico finale», facendo sì che si riesca ad ottenere «una
conoscenza maggiore del contenuto del representamen da cui la catena interpretativa
aveva preso avvio»119.
Questa conoscenza maggiore, sebbene fallibile e congetturale, ha una prospettiva di
miglioramento in virtù di una sorta di «principio popperiano»120 che Eco istituisce come
limite della catena (virtualmente) infinita di segni e interpretanti: se anche non ci sono
regole che permettano di accertare quali interpretazioni siano le “migliori”, come
riconoscono Rorty, Derrida e Vattimo, c’è per lo meno una regola per accertare quali siano
“cattive” interpretazioni. Ovvero, una volta riconosciuto, con il decostruzionismo, che «il
paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace» e che «il mondo quale ce
lo rappresentiamo è un effetto di interpretazione», esiste comunque un criterio condiviso
«che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico […],
e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda» 121 .
Sussiste, quindi, una differenza tra interpretazioni e sovrainterpretazioni, tra
interpretazioni riconosciute ragionevoli a livello intersoggettivo e “usi” scriteriati
dell’esperienza (come del testo) per produrre nozioni false. Secondo Eco – che in
Interpretazione e sovrainterpretazione si confronta con Rorty proprio su questa questione
non riuscendo a trovare un punto di accordo – la possibilità di poter distinguere tra delirio
e interpretazione è talmente palese che persino Derrida, in Della grammatologia, scrive
che la conoscenza intersoggettiva costituisce un indispensabile guard-rail contro la
possibilità di sostenere legittimamente qualunque cosa122. Il “falsificazionismo” di Eco è
quindi ispirato, innanzitutto, da una ragionevole idea di senso comune: «vi sono pur
sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che
viviamo non all’esterno bensì all’interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che
si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall’uomo - e a

119
ECO, 1990, p. 205.
120
ECO, 2002, p. 52.
121
ECO, 1997, p. 45.
122
ECO, 1990, p. 209.

32
essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico
onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili»123.
Come si può notare, se in Semiotica e filosofia del linguaggio o nell’ Antiporfirio Eco,
presentando il modello di conoscenza enciclopedica, ne enfatizzava l’apertura, la libertà,
la non riducibilità a strutture chiuse, in questa seconda fase sembra più interessato ad
un’idea di enciclopedia come contrattazione intersoggettiva, come impresa collettiva
inspirata da un ragionevole senso comune. Il «già detto», quindi, non è più soltanto
l’orizzonte storico da cui la conoscenza e il linguaggio non possono svincolarsi per
attingere direttamente all’essere, ma soprattutto un bacino di esperienza che aiuta a
distinguere buone e cattive interpretazioni. «La garanzia che le nostre ipotesi siano giuste
(o almeno accettabili come tali sino a prova contraria)», scrive Eco nel 1997, «non sarà
più cercata nell’a priori dell’intelletto puro […], bensì nel consenso, storico, progressivo,
temporale anch’esso, della Comunità. Di fronte al rischio del fallibilismo anche il
trascendentale si storicizza, diventa un accumulo di interpretazioni accettate, e accettate
dopo un processo di discussione, selezione, ripudio». In accordo con questa declinazione
comunitaria dell’idea di enciclopedia, in Kant e l’ornitorinco Eco definisce la sua
posizione come «realismo contrattuale»124, e sostiene che tale soluzione proponga una
terza via tra il costruttivismo postmoderno e il realismo strictu senso (che è poi quello di
Ferraris).
Ovviamente, se il criterio in base a cui la comunità esclude le interpretazioni sbagliate
all’interno della propria enciclopedia fosse una mera questione pragmatica di utilità, non
ci sarebbe sostanziale differenza con le posizioni di Rorty e Vattimo. In Kant e
l’ornitorinco, dunque, Eco chiarisce definitivamente l’incompatibilità della sua semiotica
peirciana con l’essere «tarlato e friabile» 125 di Vattimo, o con la realtà come
«caleidoscopio di verità che formuliamo cercando di nominarla»126 di Rorty. L’ontologia

123
ECO, 1997, p. 46.
124
ECO, 1997, p. 6.
125
Ivi, p. 41.
126
Ibidem.

33
dell’attualità di Vattimo, basata sulla pura idea di consenso e carità, viene presentata in
questa opera come incapace di evitare il relativismo e di impedire che l’essere coincida
con «lo stesso processo di decostruzione continua in cui parlandone lo rendiamo sempre
più fluido, malleabile, sfuggevole»127. Per poter effettivamente emancipare il suo pensiero
dall’idea della verità come flatus vocis, Eco in quest’opera affronta per la prima volta in
modo diretto la questione dell’essere e della verità.
Il risultato è ciò che lui stesso, negli anni di Bentornata Realtà, chiamerà realismo
«minimo» o «negativo»128. Ovvero, la tesi per cui esista qualcosa come «uno zoccolo
duro dell’essere»129, inteso non come ciò che si può scoprire scavando a fondo (idea con
cui la semiosi illimitata sarebbe in piena contraddizione), ma piuttosto «come una serie
di linee di resistenza, magari mobili, vaganti, che producono un ingripparsi del discorso,
così che pur nell’assenza di ogni regola precedente sorga, nel discorso, il fantasma, il
sospetto di un anacoluto, o il blocco di un’afasia» 130 . Eco caratterizza questo essere
negativo e che pone resistenza in modo alquanto confuso e ambiguo, non uscendo mai
veramente da una serie di metafore che gli permettono di non assumersi, per davvero, un
impegno ontologico. L’essere consiste innanzitutto nei limiti che troviamo nella nostra
esperienza cosmologica quotidiana: le «tendenze stabili» della natura, «il calare e il
sorgere del sole, la gravità, l’esistenza oggettiva delle specie», intesa come
consapevolezza del fatto che «se uniamo un cane con un gatto non ne nasce nulla»131.
Dopo questi esempi poco convincenti, Eco introduce, per parlare dell’essere, la metafora
di una «pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni»,
che definisce anche come «continuum», ovvero «tutto l’esperibile, il dicibile, il
pensabile»132. In seguito, parla di «linee di resistenza» e di «tendenza» che si pongono su

127
Ibidem.
128
ECO, 2012.
129
ECO, 1997, p. 47.
130
Ibidem.
131
Ivi, p. 48.
132
ECO, 1997, p. 49. Interessante notare come questa «pasta amorfa» di cui parla Eco abbia grandi affinità
con quella posizione che Boghossian in Fear of Knowledge definiva in termini canzonatori «cookie-cutter

34
questo continuum, come «delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole
tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra»133. Quindi, conclude Eco, «l’essere può
non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi
vietati»134. Per Eco, dunque, sostenere che vi sia una realtà indipendente dalla mente
significa, essenzialmente, affermare che «ci sono delle cose che non si possono dire»135,
ovvero che nel libero proliferare delle interpretazioni la realtà interviene, come un
ostacolo o un vicolo cieco, non tanto per indicare la via corretta, ma per rendere palese
quella sbagliata.
Una panoramica della “teoria dell’essere” che Eco espone in Kant e l’ornitorinco, e
che ripropone in diversi interventi saggistici successivi (Ci sono cose che non si possono
dire, Di un realismo minimo, Weak thought and the limits of interpretation) permette
finalmente di trovare una giusta collocazione alla posizione di Eco sulla verità tra pensiero
debole e nuovo realismo. Da una parte, si è visto come avvicinandosi alla semiotica
peirciana Eco ponga uno iato non contrattabile tra il proprio pensiero e il nichilismo
d’ispirazione neitzschiana/ heideggeriana di Vattimo. D’altra parte, però, per molti versi
sembra ancora più decisiva la distanza che lo separa dal progetto di Ferraris. Ferraris
ritiene che gli intellettuali debbano usare la loro testimonianza personale, dunque la loro
conoscenza della realtà ottenuta attraverso l’esperienza e la ricerca, per costruire un
discorso pubblico che contrasti le meta-narrazioni distorte del postmoderno e ristabilisca
la verità. Se nell’introduzione di Bentornata realtà, Ferraris ha ragione di annoverare Eco
tra coloro che «concepiscono il realismo come una istanza ontologica che blocca il
proliferare indiscriminato delle interpretazioni» 136, in nessun modo può considerare il
fallibilismo echiano simpatetico con la sua idea di una responsabilità personale degli
intellettuali per rimettere in auge la verità. Per Eco gli intellettuali dovrebbero usare le

constructivism» (BOGHOSSIAN, p. 38), imputandola a Putnam e Goodman.


133
Ivi, p. 48.
134
Ibidem.
135
Ivi, p. 49.
136
FERRARIS, 2012, p. IX.

35
loro intuizioni critiche sulla realtà non per propagandare nuove verità, ma piuttosto per
insegnare ai lettori a sviluppare la propria abilità di discriminare tra la proliferazione di
segni e interpretazioni. È questa l’idea di «guerriglia semiologica», molto più affine al
progetto democratico, comunitario e caritatevole di Vattimo, che Eco sviluppa in testi
come Sette anni di desiderio137, Diario minimo138, Costume di casa139, o in La bustina di
Minerva140.
Inoltre Eco, a differenza di Ferraris, non vuole rigettare in toto il postmoderno e le
trasformazioni che ha portato: Eco si riconosce ed opera all’interno di un modo di fare
cultura che è postmoderno, i cui tratti distintivi sono la contaminazione tra cultura alta e
cultura bassa, il riutilizzo labirintico dell’enciclopedia comune, e, soprattutto, la
frammentazione ironica della verità. La verità, dunque, per Eco non è né l’impegno
ontologico di Ferraris né la parola virgolettata di Vattimo, ma una pluralità di
interpretazioni che non sono state ancora falsificate, salvaguardate, in modo molto
indefinito in realtà, dal reale come garanzia del carattere cumulativo della conoscenza:
«alcuni sono pronti a obiettare che tra dire che non vi è alcuna verità e dire che ve ne sono
molte (fosse anche soltanto una semplicissima doppia verità) non ci sia alcuna differenza.
Ma si potrebbe parimenti obiettare che questo eccesso di verità è transitorio, è effetto del
nostro procedere a tentoni, indica tra tentativi ed erranze un limite oltre il quale queste
prospettive diverse (tutte parzialmente vere) si potrebbero un giorno comporre in sistema;
e che in fondo il nostro rinnovarsi continuo della domanda sulla verità dipende proprio
da questo eccesso...»141.

2.3 Il ruolo dei mondi narrativi per la ricerca della verità


I paragrafi precedenti hanno rivelato una peculiarità inconfondibile degli interventi

137
ECO, 1983.
138
ECO, 1963
139
ECO, 1973.
140
ECO, 1999.
141
ECO, 1997, p. 40-41.

36
di Eco riguardo al problema della verità e della realtà. Nel corso delle opere di Eco, la
linea argomentativa procede spesso di pari passo nel dimostrare che c’è qualcosa di
inamovibile nel testo che vale come pietra di paragone per porre un limite al proliferare
incontrollato dell’interpretazione letteraria, e nel dimostrare che c’è uno «zoccolo duro
dell’essere» che rende sensato parlare di verità. Nella pletora di esempi con cui Eco
tipicamente accompagna e sostiene i suoi argomenti, il testo e l’Essere sono spesso
intercambiabili, dando così per scontato che la deriva postmoderna e decostruzionista li
abbia contagiati entrambi con la medesima malattia. In tal modo Eco riesce allo stesso
tempo, con economia argomentativa, a intervenire nel dibattito prettamente filosofico ed
epistemologico sulla demistificazione del concetto di verità (Rorty, Vattimo, Ferraris), e
a rifiutare le posizioni della critica letteraria americana di ispirazione derridiana (Miller,
De Man, Hartman). Ma ciò che questa versatilità nel passare dall’interpretazione del testo
all’interpretazione del mondo sottende, in piena coerenza d’altronde con la sua semiotica
peirciana142, è di fatto l’idea di un’omogeneità tra testo e realtà che riecheggia la vulgata
postmoderna143. È vero che Eco non crede, come Derrida, che non esista nient’altro che
testo; ma ciononostante, ritiene che gli strumenti conoscitivi e semiotici per conoscere il
mondo e il testo siano i medesimi. Ma non solo: in seguito alla stesura del Nome della
rosa Eco sviluppa l’idea che il mondo del testo vanti addirittura un privilegio, rispetto
alla realtà, nel fornire un modello di verità.
Si tocca così un tema importantissimo per indagare il legame tra i saggi e i romanzi
di Eco a proposito della questione della verità144. Nel saggio A response by Eco del 2004
Eco scrive a riguardo che «gli universi narrativi ci permettono una nozione di verità che

142
Nel 2017, nella collezione di saggi in onore di Vattimo curate da Zabala, Eco descrive così l’intersecarsi
della questione del testo e di quella dell’essere: «such had been my position about the interpretation of texts.
But these convictions could only bring me to widen this vision of the interpretation of texts to the world in
general. And, moreover, I could not do otherwise because I was becoming closer (at least from the beginning
of the seventies) to Peirce’s theory of interpretation» (ECO, 2007, p 41).
143
Più come atteggiamento intellettuale, come si vedrà nel prossimo paragrafo, che come adesione ad un
postmodernismo filosofico come quello di Rorty.
144
Su questo tema, sono debitrice in particolare al capitolo “Quid sit veritas. Di ciò di cui non si può
teorizzare si deve narrare in PAOLUCCI, 2017.

37
è confortevole e sicura; il mondo invece non lo fa. Per questo siamo portati a interpretare
il mondo come se fosse una grande storia, al fine di trovarci una qualche coerenza»145.
Per comprendere al meglio queste affermazioni, è indispensabile proprio la nozione di
realismo negativo tratteggiata nel paragrafo precedente: se l’essere e la verità sono mere
forme di resistenza all’interpretazione semiotica e alla congettura abduttiva, e mai loro
configurazioni definitive e positive, è perché per Eco l’ordine e le connessioni che
s’instaurano a livello interpretativo sono sostanzialmente diverse da quelle a livello
ontologico. Per quanto l’idea regolativa della conoscenza sia l’enciclopedia e il rizoma,
di fatto l’interpretazione semiotica non può fare altro che costruire strutture di conoscenza
chiuse e locali, che si scontrano con il fatto che l’ordine ontologico del mondo non
coincide con un’organizzazione particolare del sapere. Il che significa che «non c’è
nessun isomorfismo tra la forma semiotica dell’interpretazione e la forma ontologica
dello zoccolo duro dell’essere»146, per definizione inafferrabile se non sotto forma di un
«NO». Dunque, non è possibile pensare alla verità come alla corrispondenza tra l’ordine
semiotico e quello dell’essere.
La teoria arriva quindi ad un’ impasse, ad un vicolo cieco: è possibile per la semiotica
descrivere minuziosamente il procedimento per cui, attraverso i segni, l’uomo si dedica
all’avventura sisifica di interpretare e conoscere il mondo, ma non è possibile trovare una
struttura comune – uno schema kantiano – tra ordine semiotico dell’interpretazione e
ordine ontologico del mondo. Ed è proprio per colmare questa afasia della teoria che,
secondo Eco, deve intervenire la narrazione, secondo la nota rielaborazione dell’aforisma
di Wittgenstein per cui «ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare» 147 . Nelle

145
ECO, 2004, p. 193.
146
PAOLUCCI, 2017, p. 218. Paolucci nota giustamente come la negazione di un isomorfismo tra struttura
dell’interpretazione e struttura del mondo sia il punto più significativo di distacco di Eco dal sinechismo di
Peirce, secondo il quale la mente è in accordo naturale con le cose, e tramite questo “lume naturale”
l’interpretazione, sulla lunga distanza, si approssima alla verità (PAOLUCCI, 2017, p 220). In questo senso
la semiotica peirciana rappresenterebbe uno dei due modi “irrealizzabili” di fare semiotica descritti
nell’Antiporfirio (ECO, 1985, p . 334-339).
147
ECO, 2006.

38
narrazioni, che sono per Eco un «faccenda cosmologica»148 dotata, come la realtà stessa,
di limiti e linee di resistenza149, si verifica quello che non si verifica nella realtà – che a
differenza del testo, è sprovvista di autore – , ovvero una corrispondenza certa tra le
congetture dell’interpretazione e il mondo modello. Per questo «il mondo non è un
parametro in funzione del quale giudicare gli universi narrativi; sono gli universi narrativi
ad essere il parametro che ci consente di giudicare le nostre interpretazioni del mondo»150;
e ciò non significa, come vorrebbe Derrida, «che il mondo è un testo o una storia»;
piuttosto, «significa che noi dobbiamo interpretarlo come se lo fosse»151, poiché solo il
testo è in grado di offrire un modello cogente di ricerca della verità con il quale rendere
conto dei nostri tentativi congetturali di distinguere il vero dal falso.
Ugualmente, è importante distinguere questa posizione di Eco dal progetto
ermeneutico di Rorty, che afferma la sostanziale indifferenza tra filosofia e letteratura dal
momento che non esiste un qualche discorso o una qualche parte della cultura che sia «in
contatto più stretto col mondo, che le si adatti meglio di qualunque altro discorso»152. La
posizione di Eco, infatti, è per certi versi diametralmente opposta: il motivo per cui la
narrazione entra in soccorso della teoria è proprio il rapporto radicalmente diverso che le
due forme discorsive intrattengono con il mondo. La teoria cerca di descrivere il
funzionamento del linguaggio e della conoscenza, e, soprattutto, lavora instancabilmente
per cercare di dimostrare quali interpretazioni subiscano il rifiuto da parte delle «linee di
resistenza» dell’Essere: in quest’ottica si spiega il continuo confronto di Eco con i
pensatori del suo tempo, l’idea che la semiotica debba studiare «la forza del falso», o il
progetto di «guerriglia semiologica» 153 , intesa come alfabetizzazione semiotica delle
masse per insegnare loro a distinguere le cattive interpretazioni. Se la teoria non può dire

148
Ivi, p. 513.
149
«Occorre crearsi delle costrizioni, per poter inventare liberamente. […] In narrativa la costrizione è data
dal mondo sottostante» (Ivi, p. 514).
150
ECO, 2004, p. 194.
151
Ibidem.
152
ENGEL-RORTY, 2007, p. 54.
153
ECO, 1973,

39
“la verità”, o non può spiegare come essa si produca, è perché non esiste per Eco un punto
di riferimento extralinguistico rispetto al quale l’interpretante possa commisurare il valore
di verità del discorso. In questo senso, il realismo negativo echiano ha sicuramente poca
cogenza argomentativa e scarso potere esplicativo, se non addirittura una certa
contraddittorietà. Riconoscere che gli universi narrativi possano offrire un modello per
capire come l’interpretazione semiotica possa essere, nonostante tutto, orientata alla
verità, significa dunque per Eco prendere atto dei limiti della sua stessa teoria, piuttosto
che abdicare all’indifferenza di tutti i discorsi.
Questo lavoro è più interessato a vedere come i romanzi di Eco problematizzino e
inscenino la nozione di verità che emerge dai suoi lavori saggistici e dal loro confronto
con il clima intellettuale e filosofico in cui si sviluppano, piuttosto che a ricercare una
sorta di “messaggio teorico” che Eco avrebbe lasciato nei suoi romanzi, non potendone
parlare in forma saggistica. In primo luogo, perché sarebbe un’operazione inconcludente
e rientrerebbe in un “uso” della sua opera che va contro l’intentio operis: a questo si
riferisce il retro di copertina del Nome della rosa, dicendo che se Eco «avesse voluto
sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto)»154. Ai fini di
questo lavoro, dunque, il dato più interessante consiste nel fatto che Eco sviluppi
quest’idea della necessità di un compendio narrativo alla teoria solo in seguito alla
pubblicazione del Nome della rosa (1880). Nel 1990, nell’Autodizionario degli scrittori
italiani Eco parla di se stesso in terza persona spiegando come nel pubblicare il primo
romanzo era convinto di «aver fatto qualche cosa di totalmente estraneo ai suoi interessi
di semiologo»155, per poi rendersi conto di come «anche far narrativa sia un momento
della sua attività filosofica, perché vi sono questioni che non possono essere trattate nel
modo assertorio del saggio, ma per così dire debbono essere messe in scena in tutta la
loro ambiguità e contraddittorietà»; lezione che «Eco non ha più potuto ignorare
scrivendo il secondo romanzo»156. Dunque, la lettura dei due primi romanzi di Eco offerta

154
ECO, 2006.
155
ECO, 1990, p. 151.
156
Ibidem.

40
nel prossimo capitolo sarà condotta alla luce di questa fondamentale coordinata: nel Nome
della rosa Eco si confronta, anche se forse non del tutto coscientemente, con le aporie e i
vicoli ciechi della sua nozione semiologica di verità, mentre nel Pendolo di Foucault
(1988) Eco adopera consapevolmente la capacità del romanzo di «mettere in scena» il
problema della verità. Che rimane, come il percorso compiuto finora ha cercato di
suggerire, una tensione irrisolta tra infinita possibilità d’interpretazione ed inemendabilità
dell’essere.

41
3. La «messa in scena» della questione della verità: Il nome della rosa

e Il pendolo di Foucault
Si è visto come sia possibile identificare nei lavori di Eco l’idea di un’interazione
reciproca tra mondo della teoria e mondo della narrazione. Come scrive Paolucci, «la
teoria nutre la narrazione che a sua volta nutre la teoria. I due regni si mimano, si citano,
si rimandano l’un l’altro, ma non hanno né la stessa forma né si occupano degli stessi
problemi, per quanto affrontino continuamente gli stessi temi»157. In questo capitolo si
vuole mettere in luce l’interazione tra i saggi e i romanzi di Eco in rapporto al tema della
verità, allo stesso tempo ipotizzando che sia stata proprio la questione della verità, per i
problemi che genera all’interno dei romanzi, a far intuire al loro autore un possibile
legame di complementarietà tra teoria e narrazione. Al fine di illuminare il ruolo dei testi
narrativi come compendio della semiotica risultano particolarmente adatti i primi due
romanzi di Eco, Il nome della rosa del 1983 e Il pendolo di Foucault del 1988, perché
scritti proprio negli anni in cui il pensiero teorico di Eco si fa più strutturato e sistematico,
e dunque permeati dalle preoccupazioni che l’Eco saggista ha affrontato in quel
determinante periodo.
Nel primo paragrafo sarà introdotto il passaggio dalle posizioni teoriche di Eco ai
suoi romanzi, mettendo in luce come la trasposizione finzionale della semiotica
interpretativa e del cosiddetto realismo negativo produca uno dei caratteri più
riconosciutamente postmoderni della letteratura di Eco: ovvero, quella ritrosia nel
confrontarsi con la realtà del suo tempo, con gli eventi del presente e le loro
contraddizioni, che ha contraddistinto la declinazione italiana del postmodernismo
letterario. Da una parte, s’intende dunque mostrare come il passaggio da
saggista/semiologo a narratore comporti un forte indebolimento della capacità di Eco di
impegnarsi nel presente e svolgere un ruolo intellettuale di responsabilità nei confronti
del suo pubblico. Quella dimensione di critica e militanza che caratterizza la semiotica

157
PAOLUCCI, 2017, p. 187.

42
echiana come «teoria della menzogna» svanisce nelle pagine ironiche, intertestuali e
labirintiche dei suoi romanzi. D’altra parte, si vuole chiarire come la letteratura echiana
non riesca a supportare alcun progetto critico e trasformativo del presente proprio in virtù
della nozione debole e ambigua di verità che emerge dai suoi lavori saggistici.
In tal modo si ribadisce e si specifica la chiave interpretativa con cui saranno letti Il
nome della rosa e Il pendolo di Foucault nei due paragrafi successivi: come testi che
testimoniano i punti deboli della nozione di verità dell’Eco saggista, rendendola evidente
piuttosto che risolvendola a livello narrativo. In particolare, si vuole mostrare come nel
romanzo Il nome della rosa la questione della verità sia affrontata attraverso le
preoccupazioni e gli strumenti di quella che nel secondo capitolo è stata definita la prima
fase del suo pensiero, caratterizzata da un maggiore impulso innovativo e da una
maggiore volontà di rottura con i modelli e i vocabolari del passato, mentre attraverso Il
pendolo di Foucault Eco mette in scena il problema dei limiti dell’interpretazione, che
anima la seconda fase del suo pensiero e lo conduce al realismo negativo.

3.1 Dal realismo minimo al romanzo postmoderno: perché l’Eco saggista non è l’Eco
narratore
Prima di procedere ad una lettura dei testi di Eco alla luce della nozione di verità che
si è andata delineando, è necessario fornire delle osservazioni preliminari sullo iato che
sussiste tra il lavoro e l’atteggiamento di Eco come filosofo, semiologo e accademico da
una parte, e come narratore dall’altra. Nello scorso capitolo si è voluto mostrare non solo
come Eco abbia fatto delle importanti concessioni al realismo (o, considerando che il
termine realismo torna in auge solo attraverso la filosofia di Ferraris, si potrebbe dire che
abbia fatto delle concessioni al progetto di Bentornata realtà), ma come, in quanto
semiologo, si sia anche impegnato in prima persona in una sorta di progetto pedagogico
di educazione ed emancipazione del suo pubblico, animato da un’attitudine critica e
trasformativa nei confronti del reale. Si pensi ad interventi come “L’illusione della

43
verità”158, in cui Eco mette in guardia il pubblico dal mito dell’obbiettività giornalistica,
si pensi alla “guerriglia semiologica, il cui scopo è smascherare la manipolazione
ideologica che si nasconde nei messaggi mediatici.
Il problema è che le dimensioni di militanza e impegno politico (seppur sempre
attenuate dalla sua costante, pervasiva ironia) che caratterizzano Eco come semiologo e
intellettuale non trovano una controparte a livello narrativo: i romanzi di Eco non riescono,
o non vogliono, graffiare esplicitamente e direttamente la realtà attraverso una critica del
presente o proporre al lettore un esempio etico costruttivo. Nel delineare questa differenza
risulta essenziale proprio la nozione echiana di verità che si è delineata nello scorso
capitolo. Abbiamo visto come il valore «cosmogonico» del testo lo renda capace di
sviluppare un mondo modello in cui l’ordine delle idee corrisponde all’ordine delle cose.
Ma se i mondi di finzione diventano gli unici luoghi in cui è possibile trovare un ordine,
in che modo e in base a quale presupposto la letteratura può porsi in un confronto critico,
e costruttivo, con il disordine della realtà stessa? Il problema che questa domanda fa
emergere costituisce uno dei caratteri più riconoscibilmente postmoderni della
produzione letteraria di Eco. Se l’Eco saggista, come abbiamo visto, sviluppa
gradualmente l’esigenza di elaborare una difesa teorica dei concetti di verità e realtà dal
“dileguamento” dell’essere propugnato dal postmodernismo filosofico, nella sua attività
di romanziere vige una disconnessione tra realtà e testo che non soltanto rende conto dei
punti deboli del realismo della teoria di Eco, ma permette di cogliere quell’atteggiamento
verso il reale che Eco condivide con gli autori definiti postmoderni, in particolare italiani.
Per capire questa distinzione, può essere utile definire la pratica letteraria
postmoderna in opposizione al realismo letterario, inteso come meccanismo retorico del
«contingentemente reale»159, che ha come scopo non solo la rappresentazione della realtà,
ma anche la capacità di fare presa su di essa, di costruire un’identità attraverso
l’identificazione, di insegnare a vivere creando «schemi d’interpretazione della vita

158
ECO, 1973.
159
DONNARUMMA, 2014, p. 206.

44
morale e interiore» 160 . La letteratura postmoderna, per non essere un’etichetta che
raggruppa fenomeni eccessivamente eterogenei, può infatti essere efficacemente
concettualizzata in opposizione al realismo, e al legame che esso intrattiene con il mondo
della vita e la realtà.
Scrive per esempio Ceserani che gli studiosi della produzione letteraria postmoderna
«non devono cadere nel facile tranello di cercare di identificare la letteratura postmoderna
con una precisa poetica, un sistema retorico coerente e stringente, uno stile, una modalità
di scrittura tipica e individuante». La differenza specifica, la cesura con il passato della
letteratura postmoderna 161 consiste «in una diversa funzionalità dell’intera pratica
intertestuale», che «si inserisce in un processo, di tipo epistemologico, che ha schiacciato
e ridotto il “mondo” a testo, lo ha testualizzato, ha interposto fra testo e mondo una serie
di intertesti che lo rendono forse più enigmatico e incomprensibile, forse,
paradossalmente, solo dopo lunghi esercizi interpretativi, “leggibile”» 162 . Questo
significa che nella letteratura postmoderna, come scrive Donnarumma, «cade la
metafisica del realismo»163, ovvero l’idea che, sebbene il dispositivo retorico che produce
l’effetto di reale 164
proprio del realismo sia riconosciutamente artificiale, esso
nondimeno possa per il lettore rendersi trasparente, svanire nel mostrare il suo contenuto.
La letteratura postmoderna, invece, vede solo l’artificialità del manufatto testuale e non
la sua trasparenza, e si serra in una pratica discorsiva ironica e autoreferenziale che
rinuncia a parlare della realtà (perché è troppo complessa, o è ridotta a testo), e dunque a
fare del testo uno strumento di analisi e denuncia del presente, che abbia un impatto sulla
dimensione pubblica.

160
Ivi, p. 208.
161
«Non è forse l’Ulisse di Joyce un testo costruito sul telaio di un sottotesto continuo come il poema
omerico, come tale denunciato già dal titolo? Non è il Don Chisciotte sistematicamente costruito su una
serie di sottotesti come i romanzi di cavalleria? Non sono in fondo dei sottotesti quelli che si colgono dietro
testi come l’Orlando Furioso, il Morgante, addirittura la Divina commedia?», CESERANI, 1997, p. 144.
162
Ibidem.
163
DONNARUMMA; 2014, pp. 205-208.
164
BARTHES, 1982.

45
Si può quindi intuire come la cifra peculiarmente postmoderna della scrittura di Eco
sia il rovescio della medaglia del suo “realismo negativo”, la spia del suo inesistente
impatto trasformativo. Se, come crede Eco, gli universi narrativi ci permettono una
nozione di verità che è «confortevole e sicura», mentre «il mondo invece non lo fa»165, il
mondo del testo diviene in qualche modo un rifugio rispetto ad una realtà che per la teoria
è divenuta irrappresentabile e ingestibile. La sconfitta dell’interpretazione nel rendere
conto in modo sistematico della realtà diventa, a livello del romanzo, una letteratura che
«può dire qualcosa sul mondo, quanto più riflette su se stessa»166, quanto più diviene
intertestuale, labirintica, più interessata a far proliferare interpretazioni che a parlare della
realtà. La letteratura di Eco appartiene al postmoderno precisamente perché, sebbene veda
nel mondo del testo un modello di verità che fa gola al reale, non è interessata alla
costruzione artificiale di una “realtà” che possa essere comunicata, discussa, proposta; e
per questo «si chiude in sé, si alimenta da sé, trova in sé la propria forza e il proprio
tutto»167.
Con il postmoderno letterario, in particolare nella sua declinazione italiana, Eco
condivide inoltre la volontà di non affrontare tramite il mezzo letterario il presente e le
sue vicende politiche. Il postmoderno letterario italiano, che nasce precisamente al
tramonto delle grandi ideologie e poetiche dell’impegno 168 , non riesce a istituire un
confronto diretto con il presente, la politica e la storia; piuttosto li elude, li trasfigura
figurativamente, ne allude rendendoli irriconoscibili169. In autori come Eco, Calvino o

165
ECO, 2004, p. 193.
166
DONNARUMMA; 2014, p. 52.
167
Ivi, p. 34.
168
Ivi, p. 51.
169
Questa posizione è sostenuta per esempio nella Fine del postmoderno di Romano Luperini (LUPERINI,
2005). Ci sono critici, al contrario, che hanno cercato di rovesciare il giudizio negativo sul disimpegno e
l’incapacità di affrontare la storia e il presente degli scrittori postmoderni italiani. Autrici come Cristina
Della Coletta, Margherita Ganeri e Ruth Glynn (DELLA COLETTA, 1996; GANERI, 2012; GLYNN,
2005), volendo estendere anche al postmoderno italiano le analisi sull’ historiographic metafiction di Linda
Hutcheon e sul metahistorical romance di Amy Elias (HUTCHEON, 1989; ELIAS, 2005), hanno rifiutato
l’idea che la metafiction postmoderna sia contraddistinta da una poetica della nostalgia e dall’evasione dalla
realtà che priva la storia della capacità di contrastare la frammentazione sociale; piuttosto, esse vedono nel

46
Tabucchi, la meta-discorsività ironica diventa inconciliabile con l’impegno verso il reale:
ciò che gli scrittori postmoderni italiani raccontano, «è l’impredicabilità del presente con
le parole del presente, la solitudine di chi lo osserva, la sfiducia nella possibilità di
mutarlo»170.
Si pensi per esempio al rapporto di Eco con la storia, che è protagonista e fondale di
tutti i suoi romanzi. Nelle Postille al Nome della rosa Eco affronta «la più oziosa» delle
questioni che gli vengono poste, ovvero se raccontare del passato sia un modo per sfuggire
al presente. «È probabile, rispondo, se Manzoni ha raccontato del Seicento perché non gli
interessava dell’Ottocento, e il Sant’Ambrogio di giusti parla agli austriaci del suo tempo
mentre il Giuramento di Pontida di Berchet parla di favole del tempo che fu» 171. La
risposta ironica, che mostra efficacemente come la questione sia «oziosa» perché
presuppone il problema che cerca di indagare, non cancella la spia del disagio che il
confronto con il reale rappresenta nella produzione di Eco.
Eco stesso nelle Postille racconta di aver iniziato a scrivere nel marzo del 1978,
quindi nei mesi in cui Aldo Moro viene rapito e ucciso dalle Brigate Rosse 172 .
Inizialmente la vicenda doveva ambientarsi nella contemporaneità, e avere come
protagonista un monaco di sinistra («pensavo a un monaco investigatore che leggeva “il
Manifesto”» 173 ). La ragione che Eco adduce per il trasferimento del romanzo nel
Medioevo è rivelatrice nel suo essere troppo sbrigativa e ironica («Il presente lo conosco
solo attraverso lo schermo televisivo mentre del Medio Evo ho una conoscenza
diretta»174); come ipotizza Pischedda, è da supporre che «man mano che l’autore viene a

postmoderno letterario italiano il desiderio di trovare nuove interpretazioni del passato che sappiano
elaborare nuovi significati per il presente, senza ristabilire una visione egemonica e illusoria della storia
(DI MARTINO, 2012, p. 206).
170
DONNARUMMA, 2014, p 53.
171
ECO, 2006, p.41.
172
In un’intervista del 1983, Eco collega esplicitamente la stesura del romanzo allo choc per le azioni
terroristiche, di cui intravede «l’impressionante continuità di comportamenti e problemi» con i movimenti
apocalittici medievali (SPINAZZOLA, 1983, pp. 44-45)
173
Ivi, p. 510.
174
Ibidem.

47
confrontarsi con i nuclei più incandescenti del dibattito politico e ideologico che travaglia
il Paese, subentra il distanziamento difensivo, la mascheratura (come egli stesso la
chiama)»175. Eco, nonostante si sia nascosto dietro alla maschera del romanzo storico,
parla a livello allusivo e metaforico del presente e degli eventi sanguinosi e
ideologicamente sovraccarichi degli anni settanta176. Il problema è lo spessore del filtro
che utilizza per rappresentarli, che finisce per renderli irriconoscibili, e l’angosciosa
insicurezza, l’atteggiamento tentennante coperto a malapena dall’ironia, con cui Eco se
ne distanzia rifiutandosi di prendere apertamente posizione.
A tradire il disagio di quest’incapacità di confronto, contribuiscono sia la prefazione
del Nome della rosa, in cui Eco fa ironia sul fatto che la sua epoca gli permetta
fortunatamente di scrivere «per puro amor di scrittura» e non per impegnarsi sul presente,
per «cambiare il mondo» come era richiesto dieci anni prima, sia il retro di copertina della
prima edizione del Nome della rosa, in cui Eco anticipa il fatto che il suo romanzo si
presti a letture e interpretazioni multiple: se «la prima categoria di lettori sarà avvinta
dalla trama e dai colpi di scena, e accetterà anche le lunghe discussioni libresche, e i
dialoghi filosofici, perché avvertirà che proprio in quelle pagine svagate si annidano i
segni, le tracce, i sintomi rivelatori», «la seconda categoria si appassionerà al dibattito di
idee, e tenterà connessioni (che l'autore si rifiuta di autorizzare) con la nostra attualità»177.
In questa distinzione tra categorie di lettori sono contenute precisamente le due prime
caratterizzazioni del rapporto della letteratura di Eco con la verità e la realtà che si sono
cercate di delineare. I suoi romanzi, in linea con le posizioni esposte nel secondo capitolo,
si prestano a problematizzare la questione della verità, come dilemma ampliamente
teorico e astratto, e a renderne conto. La stessa cosa non avviene nei confronti della realtà
presente, della storia e della politica. Se anche i romanzi autorizzano connessioni con la

175
PISCHEDDA, 1994, p. 90.
176
Al fatto che Il nome della rosa sia un’«allegoria degli anni settanta» Pischedda dedica un intero
paragrafo del suo saggio sul romanzo di Eco (PISCHEDDA, 1994, pp. 88-98)
177
ECO, 2006.

48
contemporaneità 178 , non soltanto sono allusive ed ermetiche, ma l’autore si rifiuta di
tematizzarle e di assumersene la responsabilità. L’intellettuale, come Guglielmo nel Nome
della rosa, è sconfitto dinnanzi alla possibilità di rendere conto e risolvere le tragedie e le
contraddizioni della storia. In questo senso il romanzo storico in Eco rivela «la volontà di
non parlare del presente con le parole presente», «la necessità di schermarlo, di
mascherarlo, di proteggersene»179.
In quest’ottica, si intuisce perché gli oppositori del postmodernismo filosofico e gli
antagonisti del postmoderno letterario in Italia condividano lo stesso vocabolario, e
spesso lo stesso obbiettivo polemico. Quando Ferraris sostiene che gli intellettuali devono
avere il coraggio di affermare le loro verità e di usare la loro «testimonianza personale»
per bloccare l’ideologia dell’ anything goes e per affermare un verità positiva e
promuovere la giustizia sociale, ha un preciso modello d’intellettuale in mente: un
parresiasta simile a quello descritto dall’ultimo Foucault 180 . Questa descrizione del
filosofo è molto simile, per esempio, alla descrizione del nuovo modello di scrittore
proposto (non senza una certa incoerenza con la pratica letteraria dei membri del gruppo)
dal memorandum New Italian Epic 181 del gruppo Wu Ming, secondo i quali con la
Seconda Repubblica sono emersi una serie di autori socialmente impegnati che hanno
superato il postmodernismo letterario: questa nuova figura, traendo estesamente da
materiali documentari e non-finzionali, come ricerche d’archivio o esperienze di vita
personali, reclama a gran voce una più forte autenticità del narrato e cerca di creare verità
alternative che abbiano un impatto mitopoietico sulla comunità182.

178
Giustamente, come si chiede Donnarumma: «quanti lettori si sono accorti che Il nome della rosa
nasceva dall’angoscia per il rapimento e l’uccisione di Moro, e che istituiva un’analogia tra francescani e
dolciniani da una parte, comunisti e brigatisti dall’altra?», DONNARUMMA; 2014, p. 52.
179
DONNARUMMA, 2014, p. 203.
180
FERRARIS, 2012, p. 111.
181
WU MING, 2009.
182
In realtà, come nota Donnarumma, al di là dell’enfasi rinnovatrice con cui è scritto New Italian Epic gli
scrittori di Wu Ming aderiscono nei loro primi romanzi al modello echiano: «i loro romanzi storici o pseudo-
storici o para-fantascientifici alludono a ossesioni presenti, e razziano dal serbatoio della cultura di massa,
ibridato con letture da specialismo universitario», DONNARUMMA, 2014, p. 66.

49
Se l’Eco saggista può collaborare al progetto di Ferraris ma sicuramente non
incarnarlo, l’Eco narratore non ha niente a che spartire con la figura del nuovo scrittore
impegnato propagandato dal gruppo Wu Ming. Tutto ciò che Eco può contrastare, sulla
base dei suoi presupposti teorici, è al più la «forza del falso», che sarà in effetti
protagonista della maggior parte dei suoi romanzi. Se per l’Eco saggista, esperto di
comunicazione e di nuovi media, questo «spazio delimitato di testimonianza scettica»183
può avere un impatto di critica e di emancipazione, per trarre dai romanzi un dipinto
critico del presente e l’offerta di strumenti per affrontarlo, parlarne e cambiarlo, occorre
operare un’esegesi forzata e concettosa del testo.

3.2 Il pessimismo epistemologico de Il nome della rosa


Si è visto come i romanzi di Eco condividano con le opere postmoderne italiane una certa
riluttanza a parlare del presente e ad affrontare i problemi del reale. I testi di Eco, inoltre,
possono essere definiti postmoderni in virtù di alcune loro caratteristiche formali e
contenutistiche. È in quest’ottica che Ceserani afferma che con la pubblicazione del Nome
della rosa nel 1980 la letteratura italiana assiste «alla prima, consapevole produzione di
un romanzo postmoderno»184. Come Eco spiega dettagliatamente nelle Postille a Il nome
della rosa, il romanzo nasce precisamente come tentativo di superare lo sperimentalismo
dell’avanguardia, arrivato al punto morto in cui il suo messaggio inaccettabile è divenuto
godibile, producendo un «romanzo non consolatorio, abbastanza problematico, e tuttavia
piacevole» 185
. La chiave della produzione di questo oggetto letterario post-
avanguardistico, e dunque postmoderno, consiste secondo Eco nella riabilitazione
dell’intreccio, anche se «sotto forma di citazione di altri intrecci», e nell’istituire un
rapporto di rivisitazione del passato, «visto che non può essere distrutto», che lo sappia
rimaneggiare e chiamare in causa «con ironia, in modo non innocente»186. Dimostrandosi

183
PISCHEDDA, 1994, p. 28.
184
CESERANI, 1997, p. 181.
185
ECO, 2006, p. 528.
186
Ivi, p. 529.

50
ben informato del fenomeno del postmodernismo americano187, Eco riproduce nel suo
romanzo molti dei temi e dei procedimenti che sono convenzionalmente definiti
postmoderni: l’uso del pastiche (come «parodia bianca, statua dalle orbite vuote»188), «la
mescolanza di generi e trame che mettono insieme romanzo giallo, romanzo gotico,
romanzo storico conte philosophique e romanzo enciclopedico», l’uso dell’intertestualità,
del citazionismo e dei sottotesti, «i temi del complotto, della dimensione oppressiva e
foucaultiana del potere e dei limiti delle nostre conoscenze, la rivisitazione della storia
come consumo culturale e come affresco decorativo, il gusto dei misteri e degli
enigmi»189.
Il modo in cui Eco nel Nome della rosa mette in scena il problema della verità è
inscindibile dalle caratteristiche più peculiarmente postmoderne dell’opera. Il romanzo è
un vero e proprio labirinto di citazioni di testi, teorie e generi, che esibisce
incessantemente al lettore modello la propria artificialità, spezzando radicalmente ogni
possibilità di realismo. All’interno di questa costruzione stratificata e multidimensionale,
il problema della verità è posto (almeno) su tre piani diversi. In primo luogo, più
esplicitamente, nei dialoghi, che vedono il colto e dubbioso Guglielmo intraprendere
continui dibattiti di metafisica e filosofia del linguaggio con gli altri monaci o con il suo
discepolo Adso. In secondo luogo, attraverso la strutturazione del romanzo secondo il
modello del genere giallo. I romanzi gialli sono essenzialmente la storia della ricerca di
una verità; decostruendo progressivamente la struttura del suo stesso giallo, Eco istituisce
un discorso meta-narrativo sulla ricerca della verità che assume sempre più peso nella
trama, fino a coincidere, nel finale, con la crisi personale di Guglielmo. Infine, Eco pone
il problema della verità in modo molto più nascosto, ammiccando al lettore esperto
attraverso una fitta rete di citazioni e riferimenti intertestuali che chiamano in causa le
voci di filosofi antichi, medievali e moderni. Non soltanto in questo collage filosofico
Eco riesce a produrre l’impressione – ovviamente falsata – che nel corso della storia i

187
CESERANI, 1997, p. 181.
188
JAMESON, 1984, p. 37.
189
CESERANI, 1997, p. 184.

51
termini e le fazioni del dibattito sulla verità siano in qualche modo rimaste immutate, in
tal modo dunque trasmettendo una visione pessimista della possibilità di risoluzione del
dibattito. Inoltre, Eco trasporta sulla pagina, anche se attraverso il linguaggio e
l’atteggiamento di monaci medievali, il dibattito a lui contemporaneo. E, come vedremo,
ne mostra il fallimento più che la risoluzione.
Lo scopo di questo paragrafo è render conto dell’intersezione di questo triplice livello
di discussione del tema della verità, allo stesso tempo mostrando la trasposizione
finzionale nel testo degli strumenti teorici e delle priorità che caratterizzavano la prima
fase del pensiero di Eco, ovvero la capacità della semiotica di rivelare la matrice culturale
e linguistica delle nostre conoscenze, la distinzione tra enciclopedia e dizionario, il
fallibilismo conoscitivo. A questo fine, si analizzerà il romanzo da tre prospettive
differenti. Innanzitutto, concentrandosi sulla figura positiva di Guglielmo, che riassume
in sé tutte le caratteristiche che il genere giallistico, così come il senso comune, ritengono
necessarie e sufficienti per la risoluzione di un mistero e la scoperta della verità.
Guglielmo, dunque, nella sua dimensione di superuomo della modernità, in anticipo sui
tempi, che mostra ad un medioevo ancora buio lo straordinario potere della scienza dei
segni per la ricerca della verità. In secondo luogo, si mostrerà il fallimento della semiotica
e della ragionevolezza di Guglielmo, e della sua impresa di detective, esplicitando il
messaggio del romanzo: la verità è sempre prospettica, e non esiste al di fuori dei contesti
che la producono. Infine, si analizzerà l’effetto sul mondo del testo di questa sconvolgente
rivelazione sulla natura culturale e interpretativa della verità. La «morte di Dio» ha nel
mondo de Il nome della rosa (che non è, ricordiamo, la teoria di Eco) un effetto
catastrofico, per lo meno nel senso che diviene arduo per i personaggi (Adso in particolare)
distinguere tra bene e male, tra vero e falso: a differenza dei decostruzionisti e i
postmodernisti, di Rorty e Vattimo, Eco non sembra capace, nel suo romanzo, di
salvaguardare il senso dell’impresa conoscitiva e dell’impegno sociale dinnanzi al
dissolvimento della verità, se non nella forma della debole proposta di continuare a
credere nella scienza dei segni per la sua capacità di «far ridere la verità». In tal modo,

52
risulterà chiaro il motivo per cui la nozione di verità che emerge dal Nome della rosa non
può che portare all’atteggiamento postmoderno analizzato nel primo paragrafo:
l’incapacità del romanzo di confrontarsi criticamente e direttamente con la realtà esterna
al testo e con i suoi problemi.

3.2.1 Guglielmo come campione della ricerca congetturale della verità


Sin dal primo capitolo del romanzo, Eco costruisce il personaggio di Guglielmo da
Baskerville sul topos giallistico del detective infallibile, capace di usare il lume della
ragione per ricostruire lo svolgimento degli accadimenti sulla base di dettagli che gli
uomini normali, i Watson o gli Adso, non notano neanche. Il romanzo si apre su uno
strabiliante successo investigativo del francescano, ovvero il ritrovamento del cavallo
Brunello, che Guglielmo sa descrivere, nominare e rintracciare prima ancora che i monaci
e gli stallieri possano riferire l’accaduto: se il lettore colto può riconoscere l’episodio del
«cane e del cavallo» dello Zadig o il destino di Voltaire (testo di cui Eco si occupa
estesamente nel saggio I limiti dell’interpretazione), qualunque lettore riconosce la
citazione del Mastino dei Baskerville di Conan Doyle. Identificato Guglielmo con
Sherlock Holmes, il romanzo ha già strutturato le aspettative del lettore, che è certo
(erroneamente) che si presenterà un mistero che Guglielmo risolverà in extremis,
ricostruendo una trama inaspettata i cui indizi erano sapientemente disseminati. In questo
senso nelle Postille Eco nota che il romanzo può perfettamente continuare «a illudere il
lettore ingenuo sino alla fine, così che il lettore ingenuo può ancora non accorgersi che si
tratta di un giallo in cui si scopre assai poco, e dove il detective viene sconfitto»190: la
cogenza del topos e della citazione intertestuale è così forte che fino alle ultime pagine
Guglielmo manterrà un’aura rassicurante di saggezza e razionalità.
Guglielmo è l’unico personaggio interamente positivo del romanzo, come nota
Pischedda un vero e proprio superuomo gramsciano o supereroe della cultura di massa

190
ECO, 2006, p. 524.

53
novecentesca191, sulle cui spalle Eco fa ricadere il compito di incarnare e comunicare il
messaggio costruttivo del romanzo, sia a livello etico che conoscitivo. Il personaggio di
Guglielmo ha un duplice significato, costruito da Eco sovrapponendo e contaminando
pensiero medievale e pensiero contemporaneo. Da una parte, «analogamente a Holmes,
nutrito di positivismo ottocentesco, Guglielmo può giustificarsi sulla pagina quale
antesignano medievale del metodo sperimentale» 192 , in ragione degli insegnamenti
derivatigli da Ruggero Bacone. Da Bacone Guglielmo apprende un’attitudine scientifico-
sperimentale che precorre i tempi (la scienza è una «magia divina che serve a trasformare
la natura»193) e la fascinazione per la tecnica e i macchinari («Ruggero Bacone, che io
venero come maestro, ci ha insegnato che un giorno il piano divino passerà per la scienza
delle macchine»194). Guglielmo rappresenta, da questo punto di vista, «un intellettuale
empirista in anticipo sui tempi»195 che precorre la rivoluzione scientifica e la modernità.
Eco suggerisce così una dicotomia (volutamente) trita e nota a qualsiasi lettore tra il
medioevo oscurantista e fanatico di Bernardo Gui o di Jorge e la preannunciata modernità
razionale, illuminata e scientifica di Guglielmo.
D’altra parte, Guglielmo rappresenta il moderno semiologo, che fa dell’intrigo giallo
lo spazio privilegiato dove sperimentare la scienza dei segni. Nuovamente, interviene una
fonte filosofica medievale a legittimare (un po’ forzatamente) le consapevoli capacità
abduttive di Guglielmo: non solo Eco ci ricorda che tra gli occamisti era possibile trovare
«una teoria sviluppata dei segni» 196 , ma da Ockham Guglielmo impara anche il
nominalismo, l’idea che si possa conoscere solo realtà individuali e che l’ordine logico
causale dell’universo rimanga precluso – non si danno strutture conoscitive chiuse che
riflettono la struttura del reale –, e che la scienza verta solo sull’uso di proposizioni («la
scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose

191
PISCHEDDA, 1994, p. 54.
192
Ibidem.
193
ECO, 2006, p. 95.
194
Ivi, p. 25.
195
PISCHEDDA, p. 75.
196
ECO, 2006, p. 515.

54
singolari»197). Quando Adso, che spesso nel romanzo presta la voce ad una forma ingenua
di realismo, gli chiede se, parlando sempre «di qualcosa che parla di qualcos’altro e via
di seguito», sia possibile identificare «il qualcosa finale, quello vero»198, Guglielmo, da
buon nominalista, risponde che il «qualcosa finale» e «vero» è l’individuale, testimoniato
dall’empiria.
A differenza di Holmes, dunque, Guglielmo sa che risolvere gli enigmi significa
«allineare tanti elementi sconnessi e fingere delle ipotesi» 199 , ovvero, con le parole
dell’Eco saggista, costruire un «mondo testuale possibile» che ipotizzi uno svolgimento
dei fatti che spieghi il «fatto sorprendente» con cui si confronta, e decidere che
«l’universo possibile delineato dalle nostre abduzioni sia lo stesso universo della nostra
esperienza»200. Dall’episodio di Brunello in poi, Guglielmo riesce molte volte ad usare
quel «meccanismo codificatore di mondi»201 che è l’abduzione per approssimarsi alla
verità; per esempio, ipotizzando che Adelmo si fosse effettivamente suicidato, che
Venanzio non fosse annegato nei bagni, che il libro misterioso fosse la Poetica, o intuendo
il funzionamento del labirinto e il modo per accedervi. Non solo: la fiducia di Guglielmo
nel fatto che i segni siano «la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo»202
è anche alla base della sua grande umanità, che cerca di opporre al fanatismo dei monaci
dell’abbazia, che agisce secondo il manicheismo dei metodi dell’Inquisizione, un
atteggiamento costantemente congetturale, dubitante, consapevole dei limiti della ragione
umana.
In questo senso Il nome della rosa propone un’acuta trasposizione metaforica,
all’interno del mondo fittizio dell’abbazia, dell’opposizione echiana tra enciclopedia e
dizionario, che ricalca asimmetricamente, perché destinata ad un altro tipo di lettore,
l’opposizione tra medioevo ed incipiente modernità che si notava precedentemente.

197
Ivi, p. 24.
198
ECO, 2006, p. 320.
199
Ivi, p. 308.
200
ECO, 1990, p. 175.
201
Ibidem.
202
ECO, 2006, p. 495.

55
Guglielmo è un empirista, studioso della natura e dei segni, convinto, come Ockham, che
la logica sia uno strumento utile «a condizione di entrarci e poi uscirci» 203 perché è
impossibile stabilire un rapporto necessario tra schemi logico-mentali e mondo reale.
Conseguentemente, manifesta un cauto pluralismo (quando Adso parla del Corano come
di un «libro perverso», Guglielmo ribatte che «è un libro che contiene una saggezza
diversa dalla nostra»204) e una spiccata apertura nell’interpretazione dei segni: per questo
per lui l’universo semantico è un’enciclopedia, virtualmente infinita perché tiene conto
delle multiple interpretazioni di diverse culture, e perché al suo interno – come ben
dimostrano le dispute che Guglielmo intraprende con gli altri monaci – esistono discorsi
che mettono in dubbio parti dell’enciclopedia stessa205.
All’opposto, i monaci con cui si confronta hanno un’immagine stabile, univoca, del
linguaggio e dell’universo che tale linguaggio ha la pretesa di riflettere: Bernardo Gui
rivendica di saper «distinguere la vipera dell’eresia ovunque essa possa insediarsi»206,
Ubertino è fanaticamente convinto della sua capacità di distinguere tra l’ardore impuro e
quello pio207, l’abate afferma di sapere per mezzo della «regola»208 cosa sia un eretico.
In particolare, è proprio il più evidente “cattivo” con cui il supereroe Guglielmo si
confronta ad incarnare all’estremo la concezione della conoscenza come dizionario e le
sue pericolose e violente degenerazioni: il bibliotecario Jorge, che ligio alla regola
benedettina per cui parlando si rischia di aggiungere qualcosa di eccessivo e sbagliato ad
una verità che è da sempre esistente, chiusa e perfetta in sé, afferma nel suo sermone che
compito del monaco è «la custodia, non la ricerca della conoscenza», perché «non vi è
progresso, non vi è rivoluzione di evi, nella vicenda del sapere, ma al massimo continua
e sublime ricapitolazione», e dunque «non vi è più nulla da dire»209.

203
Ivi, p. 266.
204
Ivi, p. 315.
205
ECO, 1984, p. 86.
206
ECO, 2006, p. 385
207
Ivi, p. 58.
208
Ivi, p. 153.
209
Ivi, p. 402.

56
Il romanzo di Eco ha dunque tutti gli strumenti perché Guglielmo possa rappresentare
la vittoria dell’interpretazione aperta sull’oscurantismo e la devozione per il bacino
chiuso e statico dell’autorità, incarnando quelli che Pischedda definisce gli «strumenti
logico-razionali e umanamente positivi che possono additare una via di fuga da una tanto
opprimente cappa di fanatismo apocalittico e pulsioni autodistruttive » 210 . Inoltre,
Guglielmo si presenta come eroe positivo sia nella sua significazione medievale, come
soggetto che precorre la modernità scientifica e razionale, sia nella sua significazione più
arguta di semiotico novecentesco che si oppone alla conoscenza “a dizionario”, al
pensiero assertivo e sistematico che gerarchizza la molteplicità irriducibile del reale.
Ciononostante, il romanzo decostruisce progressivamente la superiorità conoscitiva di
Guglielmo, la sua abilità di detective e di maestro, la sua capacità di opporre al fanatismo
e al potere oppressivo la ragionevolezza della sua conoscenza enciclopedica, facendo
piombare il francescano in una crisi sulle sue stesse convinzioni. E questo, in virtù del
fatto che gli strumenti conoscitivi di cui si serve sono, come la semiotica peirciana insegna,
costitutivamente limitati, congetturali e fallibili.

3.2.2 Il fallimento di Guglielmo e la dissoluzione della verità


Il fallimento di Guglielmo come eroe della ricerca semiotica della verità si consuma ad
un triplice livello: non è in grado, se non parzialmente e aiutato dal caso, di risolvere il
mistero dell’abbazia, non è in grado di render conto della differenza tra santità ed eresia,
e dunque di opporre la sua ragionevolezza al fanatismo di Bernardo Gui, e non è in grado
di trasmettere ad Adso le sue conoscenze e di portarne a termine la formazione. Man mano
che si rendono evidenti questi insuccessi, Guglielmo si trasforma da compiaciuto
campione della scienza a personaggio sempre più autocritico, scettico, e, infine sconfitto.
Il suo primo fallimento si origina dal problema che si è già incontrato nello scorso
capitolo come limite stesso della semiotica interpretativa, ovvero il mancato isomorfismo
tra ordine dei segni e ordine del mondo, che costituisce il carattere congetturale e fallibile

210
PISCHEDDA, 1994, p. 40.

57
della semiotica. Come si è visto, Guglielmo per compiere le sue argute detection deve
decidere che l’universo possibile delineato dalle sue abduzioni creative coincida con la
realtà; dunque, in termini medievali, deve avere fede nella possibilità di adaequatio
intellectus ad rem. Guglielmo congettura che i diversi delitti dell’abbazia avvengano
secondo un ordine preciso, ovvero il piano dell’Apocalisse, per poi scoprire non soltanto
che tale trama esisteva solo nella sua interpretazione, ma che Jorge se n’è servito per
depistarlo ulteriormente.
Nello scoprire che lo schema criminale apocalittico a cui aveva ricondotto tutti i dati
empirici non esiste, Guglielmo è colto da una vertigine di sconforto e scetticismo: se
anche i segni dicono la verità, perché rimandano come tracce ad un oggetto empirico, la
relazione tra i segni può perennemente sfuggire all’intelletto umano perché «non vi è un
ordine nell’universo» 211 . Come nota Pischedda, il riconoscimento degli errori di
Guglielmo nell’indagine porta i protagonisti a ricavare conclusioni su un piano
eminentemente metafisico: «un ordine nell’universo non c’è, e ne risultano in questione
lo stesso Senso, la Verità, l’esistenza di una Volontà superiore che lo governa»212. Citando
il Wittgenstein del Tractatus, Guglielmo identifica la ragione del suo insuccesso proprio
nella fallacia, nel vicolo cieco della conoscenza enciclopedica: «L’ordine che la nostra
mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa.
Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso
[…] Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare» 213 . Ovvero: qualunque
struttura chiusa e ordinata si utilizzi a livello locale per orientarsi tra i segni, essa è del
tutto inadeguata alla molteplicità dell’esistente, e in nessun modo può essere valida a
livello globale, come sistema. Da questa amara constatazione, che impedisce all’uomo
ragionevole di aspirare ad una conoscenza vera e oggettiva se non di porzioni minime e
temporanee dell’essere, deriva lo slogan postmoderno del romanzo, per cui «l’unica verità

211
ECO, 2006, p. 495.
212
PISCHEDDA, 1994, p. 44.
213
ECO, 2006, p. 495.

58
è imparare a liberarci della passione insana per la verità»214.
Questa constatazione scettica fornisce la chiave di lettura del secondo fallimento di
Guglielmo, che si sviluppa all’interno della discussione sul tema dell’eresia e dei
movimenti pseudo-apostolici. Questa questione emerge in modo del tutto collaterale alla
trama principale del romanzo e risulta ininfluente allo svolgimento degli omicidi;
ciononostante, questa serie di digressioni risulta fondamentale per la pregnanza filosofica
delle discussioni che Guglielmo intrattiene a riguardo, e che permettono ad Eco di
elaborare alcune riflessioni di natura linguistica e interpretativa. Guglielmo, infatti,
dimostra nel corso del romanzo che dalle vicende ereticali è possibile trarre un’importante,
anche se sconfortante, lezione semiotica: non esiste ontologicamente distinzione tra gli
eretici e i santi, i predicatori riconosciuti dalla curia e gli pseudo-apostoli, perché la
differenza è una pura costruzione linguistica del potere.
Le basi di questo problema sono poste nel corso del primo colloquio che Guglielmo
intrattiene con Ubertino all’abbazia, in cui emerge la ragione per cui il francescano ha
abbandonato il suo ruolo di inquisitore. Il suo pio ma dogmatico amico voleva
convincerlo a mandare al rogo tre minoriti che appartenevano al gruppo di Santa Chiara
da Montefalco, ma Guglielmo, non riuscendo a cogliere la differenza tra la «visione
estatica» della santa e la «frenesia di peccato»215 dei presunti eretici, decide di rinunciare
ai panni dell’inquisitore. La questione è di natura squisitamente semiotica, perché ha che
fare con l’elaborazione di interpretazioni contraddittorie sulla base della stessa tipologia
di segni. Nel momento in cui Guglielmo mostra ad Ubertino come sia impossibile
differenziare gli atteggiamenti ferventi dei santi e degli eretici, quest’ultimo risponde
appellandosi a malefatte terribili che i condannati hanno confessato sotto tortura; ma,
come riconosce Guglielmo, non si tratta d’altro che di leggende sul satanismo che
circolano da centinaia di anni, e che la violenza inquisitoria è riuscita a inscrivere
forzatamente nelle confessioni dei torturati.

214
Ivi, p. 494.
215
ECO, 2006, p. 65.

59
Lo stesso tema ricorre in un momento in cui Guglielmo racconta ad Adso come,
confrontandosi con i dolciniani in quanto inquisitore, il francescano si fosse reso conto
con turbamento della sua «stessa incapacità di giudicare», data dal fatto che Dolcino è
«un uomo che fece cose molto dissennate perché aveva messo in pratica ciò che gli
avevano predicato i santi»: «ad un certo punto non ho più capito di chi fosse la colpa»,
confessa Guglielmo al suo discepolo, «sono stato come…obnubilato da un’aria di
famiglia che spirava dai due campi avversi»216. Questi discorsi confondono moltissimo il
povero Adso, che al terzo giorno si presenta dal suo maestro affermando, in termini che
Eco utilizza per citare ironicamente Derrida (così rivelando lo statuto moderno e
linguistico del problema), «di essere afflitto dal problema stesso della differenza»217.
Guglielmo gli risponde, confondendolo ancora di più, con una lunga disamina sul
fatto che i movimenti ereticali si costituiscano sulla base di complicate contaminazioni
tra predicazioni diverse, così che la dottrina degli ortodossi diviene la pratica degli eretici,
finché una nuova ortodossia riesce ad ottenere abbastanza potere per trasformare in eresia
ciò che prima era accettato, e perseguitarla. L’unica differenza che si può porre all’interno
di questo «fiume ereticale»218è quella tra gli inermi, affamati ed emarginati e i ricchi e i
potenti. La Curia interpreta la povertà secondo i propri interessi, sostenendo i movimenti
nati dalla miseria finché servono ai loro scopi, e condannandoli come eretici quando
divengono troppo potenti, per le stesse identiche azioni che compievano sotto la loro
benedizione. La differenza tra santi ed eretici è dunque l’invenzione di un potere fanatico
che costituisce il suo “altro” pescando indifferentemente dal magma degli oppressi, dei
poveri, degli insipienti. Come Guglielmo spiega al suo discepolo, questa ingiustizia si
origina dall’ assoluta flessibilità dell’interpretazione e dal potere e dal pericolo che
derivano dalla convenzionalità dei segni; cosicché è impossibile distinguere realmente tra
eresia ed ortodossia, perché «tutti avevano la loro ragione, tutti hanno sbagliato»219.

216
ECO, 2006, p. 126.
217
Ivi, p. 199.
218
Ivi, p. 199.
219
Ivi, p. 207.

60
Il meccanismo di funzionamento di questa costruzione nietzschiana dell’eresia e
dell’ortodossia viene esemplificato nel romanzo dall’operato del personaggio
dell’inquisitore Bernardo Gui. Egli riesce a costruire attraverso la sua violenza
manipolatoria e foucaultiana la verità che gli è più politicamente comoda, letteralmente
plasmando nelle parole di tre innocenti la loro colpevolezza come assassini e adoratori
del diavolo. La ragionevolezza di Guglielmo è del tutto insufficiente dinnanzi alla
capacità della violenza di Gui di creare l’eresia solo nominandola. Abbandonando ogni
distinzione dogmatica tra bene e male, rifiutando ogni manicheismo autoritario, di fatto
Guglielmo, nel momento in cui lascia il suo ruolo di inquisitore, sceglie di non scegliere.
Anche su questo piano, dunque, Guglielmo fallisce, rivelandosi incapace di usare la
sua ragione e la sua umanità per assumersi una responsabilità interpretativa e distinguere
il vero dal falso, il bene dal male. E non per mancanza di coraggio o risolutezza personale,
ma perché prigioniero delle proprie premesse scettiche e congetturali. La rabbia di Adso,
che chiede «in un impeto di ribellione» al suo maestro «perché non prendete posizione?
Perché non mi dite dove sta la verità?»220, non è soltanto la caricatura di un pensiero
ostinatamente realista che non riesce a concepire la realtà se non incentrata su un perno
che ne permetta un’interpretazione univoca. Adso, con la sua impazienza adolescenziale
e il suo ingenuo senso di giustizia, rivela di fatto la fallacia nel fallibilismo del suo maestro,
ciò che lo rende eticamente inerme e teoricamente incompleto: la sua totale incapacità di
contrastare narrazioni sicure di sé e non contaminate dal dubbio come quella di Gui.
È proprio nei confronti di Adso, infine, che si realizza il terzo fallimento di Guglielmo.
Adso è un giovane novizio benedettino educatosi, come Jorge, con l’idea che «solo del
vero si sa fin dall’inizio», e che dunque la curiosità intellettuale sia «una passione
dell’animo concupiscibile»221. Tra lui e il suo maestro Guglielmo si crea un legame di
affetto e ammirazione: Adso è fiero di avere un maestro così dotto e geniale, e lo interroga
continuamente per trovare risposta ai suoi dubbi. Come osserva Pischedda «ci sarebbero

220
ECO, 2006, p. 207.
221
Ivi, p. 23.

61
insomma le condizioni più favorevoli per una formazione positiva del giovane
benedettino»222; per una trasmissione dei saperi di Guglielmo che permetta ad Adso di
scoprire la razionalità della logica abduttiva e l’apertura del pensiero enciclopedico. Ma
il tarlo dell’angoscia e del dubbio che corrode Guglielmo dinnanzi alla consapevolezza
della natura prospettica della verità diviene per Adso una reale fonte di turbamento e
confusione. Non soltanto il discepolo si dimostra molto spesso dubbioso e frustrato
dinnanzi agli insegnamenti del suo maestro, che non è in grado di dargli risposte definitive
e assertorie. Tra Adso e Guglielmo pare crearsi addirittura una sorta di impossibilità
comunicativa, data dal fatto che Guglielmo stesso, in primis, sembra incapace di
orientarsi nella sua enciclopedia. Il sapere di Guglielmo non può essere trasmesso perché,
secondo la prospettiva di un novizio benedettino, eccessivamente contradditorio: quella
che per Guglielmo è un’oscillazione intellettuale tra congetture, per il suo discepolo è
pura confusione. Dinnanzi agli avvenimenti dell’abbazia, Adso afferma infatti che «non
aveva più le idee chiare» perché «tutto sembrava uguale a tutto»223.
Nelle Postille al nome della rosa Eco chiarisce come la difficoltà di Adso nel
decifrare ciò che gli accade e ciò di cui sente parlare sia anche una strategia narrativa:
dando modo anche al lettore di non sentirsi inadeguato se, come Adso, non capisce ciò
che gli accade intorno, Eco ha permesso la leggibilità del romanzo. Ma ciò che colpisce
di più in Adso non è tanto il fatto che, in quanto adolescente inesperto, non capisca gli
eventi della sua giovinezza mentre li sta vivendo, quanto il fatto che anche l’Adso maturo,
che parla nella cornice e negli interstizi degli eventi, dimostri di non aver compreso e
introiettato gli insegnamenti del suo maestro. In questo senso Eco, dopo aver suggerito le
premesse per fare di Adso il personaggio di un romanzo di formazione, ne scarta
immediatamente l’ipotesi: gli eventi dell’abbazia sono troppo rapidi e disordinati, e tutte
le esperienze di crescita in cui incorre (l’incontro con la sessualità, l’introduzione alla
semiotica e all’empiria nominalista di Guglielmo), entrano in contraddizione con la sua

222
PISCHEDDA, 1994, p. 61.
223
ECO, 2006, p. 62.

62
educazione e le sue convinzioni, e sono per questo negate. Sopraffatto da stimoli che non
riesce a capire e introiettare, Adso nel breve periodo che passa all’abbazia viene
«sollecitato verso un’impossibile Bildung»224. La cornice del testo, scritta da un Adso in
età molto avanzata, rende conto perfettamente di questo insuccesso formativo. Adso dal
giorno in cui si separa dal suo maestro s’impegna a «seguire con scrupolo ed umiltà la
regola» senza «porsi altre domande» 225 : rifiuta in toto, dunque, l’esortazione di
Guglielmo a conoscere il mondo e a carpirne i segreti, retrocedendo in una posizione di
negazione, in cui, esprimendosi con il lessico della teologia negativa di Meister Eckhart226,
riconosce «nella scissione ascetica e nella contemplazione dell’inesprimibile»227 l’unica
risposta al caos imperante.
Nel monologo finale, Adso sembra a tal punto smarrito tra i due paradigmi che gli
sono stati proposti nel corso della sua esistenza – quello semiotico di Gugliemo e quello
benedettino – che sembra interpretare entrambi in modo radicale, il primo come
nichilismo e il secondo come speculazione apofantica, che riconosce l’incapacità della
ragione di parlare dell’essere e di Dio. Di conseguenza, il vecchio Adso non sa come
interpretare i brandelli di libro che ha recuperato dalle macerie della biblioteca: «più
rileggo questo elenco e più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun
messaggio», sostiene Adso, per poi confessare di aver spesso consultato quelle pagine
monche «come un oracolo» 228 . Infine, nelle sue ultime parole, in cui questa indebita
sovrapposizione tra nichilismo contemporaneo e irrazionalismo cristiano (il brano
riprende in modo quasi letterale l’ Opus tripartitum di Eckhart) giunge al suo culmine,
Eco sembra fornire delle ragioni per la regressione psicologica e conoscitiva del discepolo
di Guglielmo: «Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in un’unione
ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza,

224
PISCHEDDA, 1994, p.52.
225
ECO, 2006, p. 189.
226
PISCHEDDA, 1994, pp. 64-65.
227
Ivi, p. 64.
228
Ivi, p. 502.

63
e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il
disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze»229. La causa della sconfitta
e del ripiegamento di Adso nell’ineffabilità pare svelata: ritorna infatti la questione
anacronisticamente derridiana della differenza, portando con sé l’eco delle dispute
sull’impossibilità di distinguere tra santità ed eresia. Alla base della Bildung impossibile
di Adso, dunque, sembra trovarsi il trauma della decostruzione della verità univoca e
chiusa, e della mancata capacità di Guglielmo di offrirne un degno sostituto.

3.2.3 Cosa rimane?


Il finale de Il nome della rosa consegna l’immagine della biblioteca in fiamme e di un
Adso rinunciatario, ancora incapace di orientarsi tra la sua educazione benedettina e
l’atteggiamento scettico a cui l’ha educato Guglielmo. Come nota giustamente Pischedda,
«se osservato dal lato delle sequenze conclusive il romanzo denuncia indubbiamente un
pessimismo incupito e persino catastrofico», poiché «dal superomismo promesso a inizio
lettura, arriviamo addirittura alle soglie dell’impotenza, se non addirittura
dell’inettitudine», e «siamo infine restituiti alle fonti mai dissecate di un novecentismo
scettico e sconfortato» 230 . Nel far seguire alla realizzazione della natura puramente
prospettica e linguistica della verità uno scenario apocalittico, con l’astuto detective
ridotto ad una «povera allegoria dell’impotenza»231, Eco segnala chiaramente la distanza
incolmabile che lo separa dal decostruzionismo o dal postmodernismo filosofico. La
«morte di Dio» sembra portare più al caos, all’invalidazione della razionalità umana e
della tradizione in cui essa si esplica – la biblioteca – piuttosto che all’emancipazione
umana dalla verità oppressiva e discriminatoria auspicata dal decostruzionismo o alla
responsabilizzazione democratica di cui parlano Rorty e Vattimo.
È indubbio che nel finale Eco giochi pericolosamente con la fascinazione

229
Ivi, p. 503.
230
PISCHEDDA, 1994, p. 39.
231
ECO, 2006, p. 490.

64
catastrofista232 suggerita dal collasso di ogni verità; allo stesso tempo, però, solo una
lettura ingenua può credere che il romanzo trasmetta volontariamente un messaggio
nichilista, e che il vecchio Adso delle ultime pagine corrisponda alla voce dell’autore. Il
romanzo sembra comunque voler offrire un ritratto positivo, e apologetico, della
conoscenza razionale, e lo fa proprio nel soffermarsi «su modalità ed errori, sviamenti e
ritardi nell’inchiesta» 233 , ovvero servendosi dell’andatura della trama giallistica per
mostrare, e insegnare, lo studio dei segni e la sua razionalità congetturale. Il primo
elemento che evita al romanzo un esito nichilista, e che d’altronde corrisponde a ciò che,
come si è visto, ha sempre distinto Eco dal decostruzionismo, è quindi l’ostinazione con
cui Eco/Guglielmo difendono il metodo semiotico. «Non ho mai dubitato della verità dei
segni Adso, sono l’unica cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo», afferma
Guglielmo nello stesso momento in cui, dinnanzi alla biblioteca in fiamme, annuncia che
«non c’è un ordine nell’universo» 234 . Ma a cosa conduce la verità dei segni? Che
miglioramento conoscitivo può produrre? Il messaggio resistenziale della semiotica è
abbastanza debole: dinnanzi alla già citata richiesta pressante di Adso di sapere «dove sta
la verità», Guglielmo, dopo essere rimasto «alquanto in silenzio»235chiede ad Adso di
guardare un arnese attraverso una lente, per poi concludere: «ecco, il massimo che si può
fare è guardare meglio» 236 . La semiotica, nemica di quella «fretta» che Guglielmo
riconosce come la più spaventosa caratteristica della «purezza»237, non può, come si è
visto nello scorso capitolo, che lavorare in negativo, affinando lentamente la capacità di
distinguere le cattive interpretazioni. Comprensibile, dunque, che dinnanzi alle tragedie
che sconvolgono l’abbazia e l’Europa medievale, Adso esclami: «ma non basta!».
Accanto alla celebrazione della semiotica, un secondo elemento interviene a
compensare il pessimismo epistemologico del romanzo: come sintetizza acutamente

232
PISCHEDDA, 1994, p. 40.
233
Ivi, p. 39.
234
ECO, 2006, p. 495.
235
Ivi, p. 207.
236
Ivi, p. 208.
237
ECO, 2006, p. 388.

65
Ceserani, «quell’elemento di dubbio e malinconia intellettuale a me pare sia fortemente
riscattato nel romanzo dalla presenza di frequenti registri ironici e anche addirittura di un
bisogno dichiarato (che addirittura è tematizzato nella trama) di una teoria generale del
comico»238. Che siano l’ironia e la «teoria del riso» che Eco attribuisce ad Aristotele a
riabilitare l’esito catastrofista dell’opera, è evidente anche solo dall’effetto che si ricava
alla lettura: Il nome della rosa è un romanzo che arricchisce a tal punto le sue pagine di
dettagli raffinatamente comici – i titoli dei paragrafi, i patimenti sentimentali di Adso, la
parlata magniloquente e impastata di metafisica medievale dei personaggi, le citazioni
anacronistiche – da prendere le distanze dal suo stesso messaggio angoscioso, in qualche
modo rendendolo trasparente alla lettura. Letteralmente sdrammatizzandolo.
Il problema è cercare di capire in cosa consistano l’ironia e il comico proposti da Eco,
e in che termini abbiano un impatto critico e trasformativo. Giustamente nota Pischedda
come il discorso sul comico nel Nome della rosa esibisca un’intrinseca contraddittorietà
testuale. In diversi punti del romanzo, infatti, come la discussione sui marginalia di
Adelmo o certe digressioni sugli aspetti buffoneschi dell’ordine francescano e dei
movimenti ereticali, Guglielmo sembra difendere un’idea carnevalesca del comico, come
sovversione grottesca delle gerarchie e celebrazione del «mondo sotto-sopra»; concetto
che però non trova nel romanzo un’incarnazione completa, anche in personaggi, come
Salvatore, che potevano prestarsi a esemplificare un’espressività carnevalesca. Ma questa
visione contrasta sia con le teorizzazioni del comico di Eco (Il comico e la regola, Elogio
di Franti, The frames of comic “freedom”)239, sia con il contenuto della disputatio sul
riso conclusiva tra Guglielmo e Jorge, vero e proprio agone in cui si giocano le sorti della
conoscenza e della verità nel romanzo. La teorizzazione del comico in chiave semiotica
di Eco, infatti, rifiuta l’idea che il carnevale possa costituire una reale liberazione: «il
carnevale richiede la parodia delle regole e dei rituali, e che tali regole e rituali siano già
riconosciuti e rispettati. È necessario sapere fino a che livello certi comportamenti sono

238
CESERANI, 1997, 191.
239
ECO, 1983; ECO 1978; ECO 1984.

66
proibiti, e bisogna percepire la sovranità della legge che proibisce, per apprezzare la sua
trasgressione […] Il carnevale esiste solo come trasgressione autorizzata»240. Per questo
per Eco, in piena polemica anti-bachtiana, sia il carnevale sia il comico in generale
«rappresentano importantissimi esempi di applicazione delle regole», poiché «sono solo
uno strumento di controllo sociale e non possono mai essere una forma di critica
sociale»241. Anche Jorge è pienamente consapevole del fatto che il riso carnevalesco e
grottesco degli umili non rappresenta una minaccia per la sua verità dogmatica, poiché
costituisce il necessario polo inferiore della dicotomia tra basso e alto, profano e sacro,
riso e serietà, insipienza e verità. Il riso «è il sollazzo per il contadino, la licenza per
l’avvinazzato», difatti «anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della
festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli uomini e trattiene
da altri desideri e da altre ambizioni»242.
Il riso come dissacrante antidoto contro «la legge che s’impone con la paura»243, «la
verità che non viene mai presa dal dubbio» e «la fede senza sorriso»244 di Jorge (radicali
eccessi del pensiero a dizionario) non è dunque il comico carnevalesco, ma ciò di cui
parla il testo di Aristotele nella ricostruzione di Guglielmo: «una forza buona, che può
avere anche un valore conoscitivo, quando attraverso enigmi arguti e metafore inattese,
pur dicendoci le cose diverse da ciò che sono, come se mentisse, di fatto ci obbliga a
guardarle meglio»245. Questa definizione sembra ricalcare la nozione di semiotica che
percorre tutto il romanzo, in primis attraverso il medesimo uso della metafora visiva
utilizzata da Guglielmo nel passo citato pocanzi («il massimo che si può fare è guardare
meglio»). Altri indizi per configurare in positivo la teoria del riso del Nome della rosa
sono le osservazioni di Eco sul comico, in cui, prendendo come esempio proprio «il
comico verbale, l’umorismo, i sofisticati giochi linguistici» di cui Aristotele parla nella

240
ECO, 1984, p. 6.
241
Ibidem.
242
ECO, 2006, p. 477.
243
Ivi, p. 478.
244
Ivi, p. 481.
245
Ivi, p. 475.

67
Retorica, ci dice che «l’umorismo è sempre meta-semiotico: attraverso il linguaggio
verbale o altri sistemi segnici mette in dubbio i codici culturali. Per questo, se c’è una
possibilità di trasgressione, essa coincide con l’umorismo piuttosto che con il comico»246
«Far ridere la verità» significa dunque metterne a nudo le contraddizioni
attraverso un gioco di segni che lavora sulla differenza e sulla somiglianza; dunque
decostruirla da dentro, attraverso lo stesso linguaggio che la costituisce. In questo senso
Paolucci afferma che il riso per Eco «serve a istallarsi all’interno di un ordine dentro cui
si vive, che non si rifiuta a priori né contro cui necessariamente ci si batte, ma di cui si
percepiscono alcuni limiti che si vuole rinnovare. Il riso testa l’ordine dato e ne mostra
forze e debolezze attraverso una sua deformazione»247. Nuovamente, considerando che a
questo dispositivo di «deformazione dell’ordine dato» Eco assegna il compito di riscattare
il pessimismo epistemologico ed etico del romanzo, verrebbe da esclamare «ma non
basta!» insieme ad Adso.
Un paragone può essere utile a evidenziare questa insufficienza: si pensi per esempio
a Rorty, che, sulla base dell’accettazione senza compromessi del carattere illusorio della
verità, costruisce una radicale teoria dell’ironia come incessante gioco meta-linguistico,
che aspira ad una continua rivoluzione creativa del vocabolario e dunque del mondo. Per
Rorty l’ironia è la costruzione instancabile di nuove realtà e nuove esperienze, è la
contaminazione assoluta tra discipline e vocabolari, che ha come scopo diretto il
miglioramento del mondo attraverso un tipo di rispetto interculturale, di democrazia e di
solidarietà che solo l’abbattimento di ogni verità può generare. Non si tratta di valutare la
plausibilità del progetto rortiano, ma di osservare attraverso il paragone come l’ironia
echiana, che è, al più, strumento che metto in dubbio l’esistente, il già dato, sia
completamente priva di un elemento creativo e costruttivo che possa colmare il vuoto
lasciato dalla verità.

246
ECO, 1984, p. 8.
247
PAOLUCCI, 2017, p. 182. Questa analisi è svolta da Paolucci proprio in riferimento al tema del riso ne
Il nome della rosa, anche se condotta soprattutto confrontando il romanzo con la teoria del comico esposta
ne L’elogio di Franti.

68
L’ironia – proprio per il suo essere troppo affine alla semiotica – non riesce dunque
a risolvere i problemi epistemologici posti dal romanzo: la sostanziale insufficienza degli
strumenti conoscitivi della modernità dinnanzi al problema radicale della mancata
adeguazione tra il mondo dei segni e la realtà, l’impossibilità di distinguere tra santi ed
eretici, di salvaguardare i deboli da una verità che ne costruisce le colpe e per tali colpe li
annichilisce, di arginare il costituirsi di verità violente e discriminatorie. Se nel Nome
della rosa, dunque, sussiste uno spazio di resistenza contro la dissoluzione di ogni verità
costituito dalla certezza nel potere della scienza dei segni e dell’ironia come sua arma, di
fatto tale messaggio non è sufficiente a rispondere alla domanda angosciata (ed è
un’angoscia laica e novecentesca) «perché non prendete posizione, perché non mi dite
dove sta la verità?» del giovane Adso. Io credo che il romanzo tematizzi, anche
consapevolmente, l’insufficienza teorica del suo messaggio positivo, che è poi
l’insufficienza della nozione echiana di verità, che non accetta la decostruzione ma non è
autenticamente realista, che non nega la vertigine nichilista della morte di Dio ma si rifiuta
di dire, se non metaforicamente e ironicamente, cosa garantisca la bontà e verità delle
nostre interpretazioni. Quando Adso si congratula per la bontà della sua filosofia,
Guglielmo risponde che «non è la mia, e non so neppure se sia quella buona» 248 :
ammirevolmente priva di radicalismo, la nozione echiana di verità oscilla all’interno di
uno spazio indefinito di indeterminatezza e dubbio che, pur accontentando il desiderio di
malinconia ironica e disincanto culturale dei letterati italiani dell’epoca, finisce per
scontentare tutti sul piano filosofico.

3.3 Cosa limita l’interpretazione? La non-risposta del romanzo Il pendolo di


Foucault
Come si è visto nel secondo capitolo, solo in seguito alla stesura del Nome della rosa Eco
si rende conto della capacità della narrazione di mettere in scena e problematizzare ciò di
cui la teoria non riesce a parlare. Se nello scrivere Il nome della rosa Eco credeva di «aver

248
ECO, 2006, p. 200.

69
fatto qualche cosa di totalmente estraneo ai suoi interessi di semiologo», nella stesura del
Pendolo di Foucault «non ha più potuto ignorare» 249 il collegamento, la feconda
intersezione, tra teoria e narrazione. La consapevolezza di Eco di star mettendo a punto,
anche se in forma narrativa, un compendio della teoria che può illuminarne le
contraddizioni (in primo luogo agli occhi del suo stesso autore) potrebbe spiegare la più
vistosa differenza tra i due romanzi: l’ampio margine di attenzione che Eco aveva
dedicato nel primo romanzo al lettore ingenuo – fornendogli un intreccio coinvolgente,
un ritmo incalzante e un protagonista smarrito nei dilemmi metafisici e politici con cui
identificarsi – sparisce quasi del tutto nel Pendolo. Il secondo romanzo di Eco si svolge,
piuttosto che in un’abbazia nel corso di una settimana, dal 1970 al 1980 tra Milano, il
Brasile, Parigi e il Piemonte, e continua a sovrapporre e confondere i suoi diversi piani
spazio-temporali attraverso un complesso sistema di flashback, anticipazioni e salti
temporali. La maggiore complessità di struttura si riflette anche nei temi: come nota Lidia
Hutcheon, interessata ad identificare gli aspetti più peculiarmente postmoderni del
romanzo, Il pendolo di Foucault supera Il nome della rosa quanto ad auto-riflessività
ironica e labirintica, che si dipana attraverso una densa, quasi impenetrabile rete
intertestuale250.
Coerentemente con l’idea che Eco dopo Il nome della rosa abbia notato ed esplorato
il rapporto tra saggi e romanzi, nel Pendolo si rende molto più evidente il legame con i
temi e le preoccupazioni con cui il semiologo si confrontava in quegli anni. Nel 1985,
forse proprio per rimediare a quell’aporia del concetto di verità che emerge nel Nome
della rosa, Eco scrive il saggio Brevi cenni sull’essere, in cui inizia a delineare i temi e
gli scopi di quella fase della sua produzione che sfocerà nell’elaborazione del realismo
minimo, caratterizzata da un più esplicito interesse per la questione della verità – intesa
come criterio per limitare il proliferare indiscriminato dell’interpretazione – e dunque un
più piccato rifiuto delle teorie del postmodernismo. Inoltre, nel 1986-87 Eco tiene

249
ECO, 1990, 151.
250
HUTCHEON, 1992.

70
all’Università di Bologna un corso monografico sulla semiosi ermetica, ovvero «su quella
pratica interpretativa del mondo e dei testi basata sull’individuazione dei rapporti di
simpatia che legano reciprocamente micro e macrocosmo» 251 . Sul piano teorico sono
dunque già presenti, ed esplicite, le coordinate fondamentali del romanzo del 1988, i cui
temi principali animeranno anche le opere successive (I limiti dell’interpretazione,
Interpretazione e sovra interpretazione, e Kant e l’ornitorinco). Il pendolo di Foucault,
dunque, è un romanzo che molto più esplicitamente del Nome della rosa si occupa di
conoscenza e verità: Ceserani parla a riguardo di «esplorazioni e rappresentazioni di
alcuni grandi problemi conoscitivi» 252 , Hutcheon di «problemi epistemologici tuttora
vivissimi»253, McHale di «problemi ontologici»254.
Per introdurre la nozione di verità che emerge da questo romanzo, e il suo essenziale
legame con la cornice filosofica esaminata nel primo capitolo, risulta sorprendentemente
utile l’interpretazione del Pendolo di Foucault proposta da Richard Rorty nel suo
intervento alle Tanner Lectures svoltesi a Cambridge nel 1990, e confluite nel volume
Interpretazione e sovrainterpretazione. Richard Rorty racconta di aver frainteso il
romanzo, convincendosi di trovarsi dinnanzi alla prova che Eco avesse «rinunciato allo
strutturalismo e abiurato alla tassonomia», divenendo, come Rorty, un pragmatista
consapevole che ogni tentativo di conoscere la Verità ha uguale validità, in quanto
costruzione linguistica che riflette interessi contingenti. «Quando ho letto Il pendolo di
Foucault del Professor Eco», riporta Rorty, «ho deciso che Eco stava facendo una satira
del modo in cui scienziati, critici e filosofi pensano di star decifrando codici, rimuovendo
gli accidenti per rivelare l’essenza, denudando veli di apparenza per rivelare la realtà. Ho
letto il romanzo come una polemica anti-essenzialista, come una parodia della metafora
della profondità – della nozione che ci sono significati profondi nascosti dalla volgarità,
significati che solo coloro sufficientemente fortunati da aver decifrato un codice

251
ECO, 1990, p. 43.
252
CESERANI, 1997, p. 193.
253
HUTCHEON, 1992, p. 11.
254
MCHALE, 1987.

71
veramente difficile possono conoscere»255. Confrontando il romanzo con il Trattato di
semiotica, un testo in cui Eco cerca di «decifrare il codice dei codici, rivelare la struttura
universale delle strutture», Rorty ha concluso che «Il pendolo di Foucault stesse al
Trattato di semiotica come le Ricerche filosofiche di Wittgenstein al suo precedente
Tractatus Logico-Philosophicus»256. Rorty trova conferma della sua interpretazione nelle
ultime pagine del romanzo, in cui Casaubon, riportando alla memoria in un’epifania
proustiana il sapore delle pesche che mangiava da piccolo, dice che «come Belbo nel
momento in cui suonava la tromba, quando davo un morso alle pesche capivo il Regno
ed ero tutt’uno con lui […] Ho capito. La certezza è che non vi era nulla da capire»257.
Per Rorty questo passaggio descrive un momento affine a quello in cui «Wittgenstein si
rende conto che la cosa più importante è la capacità di smettere di fare filosofia quando
lo si vuole»: «Eco, ho deciso, ci sta dicendo che è ora capace di godersi i dinosauri, le
pesche, i bambini, i simboli e le metafore senza bisogno di incidere i loro fianchi morbidi
alla ricerca di armature nascoste. Finalmente, Eco vuole abbandonare la sua lunga ricerca
del Piano, del codice dei codici»258.
Per quanto difficilmente si possa condividere la sovrapposizione radicale della
semiotica interpretativa echiana con il Piano delirante dei tre editori della Garamond,
frutto delle randomizzazioni di un computer, la lettura di Rorty del Pendolo coglie
perfettamente l’appiattimento ironico di tutti i discorsi che pervade il romanzo, rendendo
molto difficile rintracciarvi la rappresentazione di paradigmi positivi e validi di
conoscenza. Eco stesso, rispondendo a Rorty in quell’occasione, riconosce che
l’interpretazione di Rorty è «molto profonda e percettiva»259, anche se inficiata dalla sua
parzialità. Rorty infatti si è concentrato solo «sulla pars destruens del romanzo»260, che
inscena effettivamente la difficoltà di distinguere tra buone e cattive interpretazioni; ma

255
RORTY, 1992, p. 89.
256
Ibidem.
257
ECO, 1988, p. 508.
258
RORTY, 1992, p. 91.
259
RORTY, 1992, p. 141.
260
Ibidem.

72
questo tema non esaurisce i messaggi che è possibile ricavare dal Pendolo, ed Eco per
spiegarlo ricorre nuovamente all’idea della distinta ma complementare natura di teoria e
narrazione. Se scrivendo un testo teorico Eco cerca di pervenire «ad una conclusione
coerente», nello scrivere un romanzo, al contrario, si rende conto che non sta cercando
«di imporre una conclusione», ma piuttosto di mettere in scena «un gioco di
contraddizioni» 261
. Ci sono «molte conclusioni possibili (ognuna delle quali è
frequentemente impersonata da uno o diversi personaggi)», e, dinnanzi alla volontà di
Eco di non prendere posizione per «mostrare la pluralità contraddittoria delle conclusioni
del testo» 262 , il lettore è libero di scegliere. In questo senso Rorty ha ridotto l’intero
Pendolo ad una sola delle sue conclusioni, «passando sotto silenzio il fatto testuale che
nel romanzo, accanto al delirio interpretativo dei monomaniaci, ci sono due altri esempi
di interpretazione, l’interpretazione di Lia e quella finale di Casaubon, che giungono alla
conclusione che vi sia stato un eccesso d’interpretazione»263.
In questo paragrafo saranno ricostruite proprio le due visioni radicalmente diverse
della verità e della conoscenza che, per ammissione di Eco stesso, sussistono e
s’intrecciano nel Pendolo di Foucault. In primo luogo, si vuole render conto di quella
“pars destruens” che aveva così tanto affascinato Rorty, in cui Eco, mostrando la
proliferazione delirante che si origina dalla semiosi ermetica, sembra, con le parole di
Rorty, riconoscere la determinante somiglianza «tra Robert Fludd e Aristotele – o, più in
generale, tra i libri che si trovano nelle sezioni “Occulte” delle librerie e quelli che si
trovano nelle sezioni di “Filosofia”» 264 . In secondo luogo, saranno analizzati quei
momenti di lucidità interpretativa del romanzo – attribuibili al senso comune di Lia, al
“duplice no” che Belbo pronuncia in punto di morte, e al monologo finale di Casaubon –
in cui sembra possibile identificare un modo per porre dei limiti all’interpretazione
cancerogena e totalizzante della semiosi ermetica.

261
ECO, 1992, p. 140.
262
Ibidem.
263
Ivi, p. 142.
264
RORTY, 1992, p. 89.

73
In tal modo, dovrebbe risultare chiaro che tipo di legame (a mio parere) intrattengano
i primi due romanzi di Eco rispetto al tema della verità: se Il nome della rosa fa emergere
un’incapacità della semiotica di Eco di gestire in modo convincente la dissoluzione della
metafisica tradizionale e del concetto di verità, Il Pendolo di Foucault è precisamente un
tentativo di affrontare e «rielaborare angosciosamente»265 il disagio teorico che Il nome
della rosa aveva, inavvertitamente, messo in luce, mostrando «l’inquietante sbandamento
ideologico cui è destinata a soggiacere una società che abbia smarrito ogni orientamento
positivo»266.

3.3.1 Il Piano e la semiosi ermetica


Nel Nome della rosa Eco usava la decostruzione del genere giallistico per inscenare la
difficoltà dell’interpretazione e la frammentazione prospettica della verità; nel Pendolo
di Foucault si assiste ad un vero e proprio rovesciamento parodico del genere giallistico,
che di fatto ne annichilisce in partenza le condizioni di possibilità: i tre editori giocano a
fare i detective (Casaubon è definito più volte come il «Sam Spade della cultura»), ma
piuttosto che raccogliere tracce empiriche per risolvere un mistero, essi combinano fatti
storici e interpretazioni azzardate di soggetti ossessionati da complotti ermetici per creare
un mistero, il così detto Piano. Ponendo a confronto il modo in cui Guglielmo ricostruisce
– attraverso una congettura sbagliata – il piano dell’Apocalisse come trama degli omicidi,
e il modo in cui Belbo, Diotallevi e Casaubon costruiscono il Piano per divertimento
goliardico ed erudito, risulta evidente come il Pendolo di Foucault abbia introiettato la
lezione, o la sconfitta, del Nome della Rosa. Il primo romanzo ci diceva che, poiché non
c’è adeguazione tra il mondo e la mente, il detective non può che produrre ordini fittizi
che hanno un valore contestuale e temporaneo, e che possono rivelarsi eventualmente
inutili. Guglielmo fallisce perché in nessun modo la ragione umana può assicurare la
correttezza della «relazione tra i segni»267 che il detective ipotizza. I tre protagonisti del

265
PISCHEDDA, 1994, p. 46.
266
Ibidem.
267
ECO, 2006, p. 495.

74
Pendolo, che, come si vedrà, parla degli effetti tragici della sete inappagata di Verità,
evitano d’incorrere nel drammatico errore di Guglielmo attraverso un escamotage che è
una fuga dalla realtà, un tentativo controproducente di deresponsabilizzazione: le
relazioni tra i segni che costituiscono il loro Piano sono generate casualmente da Abulafia,
il word processor di Belbo.
Nel procedere «per associazioni indebite, cortocircuiti straordinari, a cui ci saremmo
vergognati di prestar fede»268, i tre editori voglio parodiare la logica anti-scientifica e
credulona dei loro clienti ossessionati dall’occultismo, i cosiddetti “diabolici”. Ma di fatto
non soltanto finiscono per convincere tutti i diabolici della veridicità del Piano, ma essi
stessi, abusando dell’«etichetta dell’ironia» che impone di non esplicitare lo scherzo,
iniziano gradualmente a credere al loro stesso costrutto, smarrendo «quel lume
intellettuale che ci fa sempre distinguere il simile dall’identico, la metafora dalle cose»269.
Nel primo incontro tra Belbo e Casaubon il primo spiega al secondo, in un celebre brano
di sagace ironia, la differenza tra imbecilli, stupidi e matti: il matto «procede per
cortocircuiti», perché «tutto per lui dimostra tutto», e «lo riconosci dalla libertà che si
prende nei confronti del dovere di prova, dalla disponibilità a trovare illuminazioni»270.
La differenza tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere è però così sottile che
i tre dotti protagonisti, a furia di scimmiottare la logica dei matti, finiscono lentamente
per assomigliare sempre di più alla definizione satirica di Belbo. Eco esplicita questo
collegamento in una delle ultime scene, quando Casaubon, in seguito alle sue
rocambolesche avventure parigine, s’intestardisce nel voler raccontare l’accaduto ad uno
psicanalista; dopo «dieci, quindici minuti di silenzio», lo psicanalista sentenzia la sua
diagnosi: «monsieur, vous êtes fou»271.
La logica folle che contraddistingue il pensiero dei diabolici, e che finisce per imporsi
anche nelle vite dei protagonisti, è ciò che Eco negli anni di stesura del romanzo definisce

268
ECO, 1988, p. 367.
269
Ivi, p. 367.
270
Ivi, pp. 60-61.
271
Ivi, p. 485.

75
semiosi ermetica, cuore di ogni occultismo, esoterismo e complottismo. Nel saggio Il
limiti dell’interpretazione Eco sostiene che alla base del razionalismo che da Platone e
Aristotele conduce alla filosofia occidentale vi è, «se non il riconoscimento di un ordine
fisso del mondo, almeno un contratto sociale»272 che espliciti dei limiti ragionevoli e
intersoggettivi dell’interpretazione. La semiosi ermetica, che nasce nel II secolo quando
l’Impero romano è un miscuglio di razze, lingue, religioni e credenze, e che si sviluppa
attraverso la contaminazione delle dottrine neoplatoniche e gnostiche, mette in dubbio
sistematicamente tali limiti in funzione del «demone della somiglianza». Generatosi in
una dimensione sincretica, l’ermetismo immagina che ogni parte della caotica
enciclopedia culturale «contenga una scintilla di verità, e che tutte si riconfermino tra di
loro»273. L’universo della semiosi ermetica, nutrito dall’idea neoplatonica che la realtà sia
l’ emanazione di un Dio inconoscibile che è sede stessa della contraddizione, diventa così
«un grande teatro degli specchi dove qualsiasi cosa riflette e significa tutte le altre»274.
Vengono meno, in tal modo, due dei limiti fondamentali del modello razionale greco,
ovvero il principio di identità e del terzo escluso: in un universo dominato dalla simpatia
e dalla somiglianza universale «molte cose possono essere vere nello stesso momento,
anche se si contraddicono fra loro. Ma se i libri dicono la verità anche quando si
contraddicono, allora ogni loro parola è un’allusione, un’allegoria. Essi dicono altro che
quello che sembrano dire. Ciascuno di essi contiene un messaggio che nessuno di essi, da
solo, potrà mai rivelare» 275 . La verità diviene dunque per definizione qualcosa di
enigmatico, cifrato, e segreto; qualcosa che permette di spiegare l’universo intero
ripercorrendo la catena di somiglianze ma che si è dimenticato, e di cui rimangono
esclusivamente tracce occulte. Ma ogni segreto rivelato rimanda infallibilmente verso un
segreto ancora più profondo e occulto: «l’universo della simpatia è un labirinto di azioni
reciproche, in cui ogni evento segue una sorta di logica spiraliforme dove entra in crisi

272
ECO, 1990, p. 121.
273
Ivi, p.124.
274
Ivi, p. 128.
275
Ivi, p. 130.

76
l’idea di una linearità, ordinata temporalmente, delle cause e degli effetti»276. Per questo
non ci può essere un segreto finale, e il segreto ermetico, come esemplifica perfettamente
la storia del Piano dei tre editori, deve essere un segreto vuoto.
Come conseguenza il pensiero ermetico, nel tentativo di dare forma ad un senso ultimo
e inarrivabile, sancisce l’infinità dell’interpretazione e lo slittamento inarrestabile del
senso. Eco sia nel romanzo sia nei saggi utilizza una metafora di grande impatto per
render conto di questa folle proliferazione del senso alla ricerca di un ulteriore segreto:
se nei Limiti dell’interpretazione leggiamo che la deriva ermetica può essere definita
come un «caso di neoplasma connotativo», di «crescita connotativa di tipo canceroso»,
nel Pendolo il carattere degenerativo della semiosi ermetica trova una tragica
rappresentazione nel cancro che uccide il personaggio Diotallevi (collegamento forse
esageratamente melodrammatico, ma comunque utile per chiarire quanto Eco sia
negativamente colpito dal potere della semiosi ermetica). «Sto sperimentando nel mio
corpo quello che noi abbiamo fatto per gioco nel piano», spiega Diotallevi nel letto di
ospedale. Le sue cellule «invertono, traspongono, alternano, permutano, creano cellule
mai viste e senza senso, o con sensi contrari a quello giusto». E conclude, formulando
l’interrogativo angoscioso che anima l’intero romanzo: «ma ci deve essere un senso
giusto, e dei sensi sbagliati, altrimenti si muore»277.
Uno dei temi del romanzo in cui traspare più evidentemente l’angoscia per la capacità
cancerosa della semiosi ermetica di contaminare ogni ambito dell’esistente è la questione
della differenza tra scienza e occultismo. Come nota Hutcheon, il romanzo è dominato da
un paradigma di «pensiero pendolare, che oscilla tra opposti»278, e che gioca volutamente
a contaminare ambiti eterogenei e dicotomici. Il pendolo stesso, «presentato con un
linguaggio sia mistico sia scientifico, sia eccessivo sia preciso», segnala l’oscillazione
«tra magia e ragione»279. La stessa valenza metaforica è assunta nel romanzo dal luogo

276
ECO, 1990, p. 129.
277
Ivi, p. 447.
278
HUTCHEON, 1992, p. 6.
279
Ibidem.

77
che ospita il pendolo, il Conservatorio delle Arti e dei Mestieri di Parigi, che è un
malmesso museo dell’industria e della tecnologia all’interno di un monastero gotico, che
celebra la scienza e la tecnica e diviene sede di rituali occulti. Ma dietro a questi paradossi
ironici, a questa attenzione estetica per la riproduzione linguistica e semantica
dell’oscillazione del pendolo, il romanzo nasconde un reale problema conoscitivo.
Già nella ricostruzione della storia dell’ermetismo che Eco fornisce nel saggio I limiti
dell’interpretazione si affronta questo problema: «la storiografia ci ha insegnato che non
possiamo separare il filone ermetico dal filone scientifico, Paracelso da Galileo». Il sapere
ermetico influenza Bacone, Copernico Keplero, Newton proprio nella loro attitudine
rivoluzionaria e progressista, poiché «il modello ermetico suggeriva l’idea che l’ordine
dell’universo descritto dal razionalismo greco poteva essere sovvertito, e che era possibile
scoprire nell’universo nuovi nessi, nuovi rapporti che avrebbero permesso all’uomo di
agire sulla natura e di alterarne il corso» 280 . Queste lucide constatazioni producono,
trasposte nella finzione romanzesca, un effetto di inquietante e paranoica sensazione
d’indistinzione. Nel corso delle sue ricerche, Causabon ritrova «i personaggi storici
portatori della luce matematica e fisica in mezzo alle tenebre della superstizione» e scopre
che «avevano lavorato con un piede nella Cabala e l’altro in laboratorio». In «testi
insospettabili» legge di come «i fisici positivisti appena usciti dall’università andassero a
pasticciare per sedute medianiche e cenacoli astrologici, e come Newton fosse arrivato
alle leggi della gravitazione universale perché credeva esistessero forze occulte» 281 .
Come avveniva a Guglielmo dinnanzi all’eresia e all’ortodossia, anche Casaubon inizia a
trovare «sempre più difficile districare il mondo della magia da quello che noi oggi
chiamiamo l’universo della precisione» 282 . Ovviamente, se nel Nome della rosa
l’indistinguibilità tra santità ed eresia poteva essere un abissale problema conoscitivo per
un monaco medievale, ma una (banale) questione di costruzione discorsiva foucaultiana
per il lettore contemporaneo, l’idea che scienza e occultismo siano entrambi prodotti della

280
ECO, 1990, p. 133.
281
Ivi, p. 286.
282
Ibidem.

78
medesima proliferazione discorsiva non è un dato che Eco può tranquillamente esimersi
dallo smentire (cosa che di fatto fa). In questo caso, dunque, l’interpretazione di Rorty
colpisce nel segno, poiché, come si vedrà, anche nella pars construens del romanzo
l’identificazione di una somiglianza essenziale tra pensiero razionale e pensiero ermetico
non trova un riassorbimento, un controbilanciamento. Se per Rorty l’impossibilità di
tracciare un confine netto tra scienza ed ermetismo è il segnale positivo della vanità di
tutti i sistemi che si credono oggettivi e definitivi, nel romanzo di Eco si configura
effettivamente come un problema non risolto.

3.3.2 La «passione per la verità», di nuovo, come causa della semiosi ermetica
Ma se il gioco della semiosi ermetica è così pericoloso da divenire mortale, perché
sussiste per secoli come rovescio della medaglia del razionalismo e, in seguito, del
positivismo scientifico, esercitando un’attrazione fatale anche ai giorni nostri? La risposta
del romanzo è la medesima «passione per la verità» del Nome della rosa, ma declinata in
modo più contemporaneo e malinconico. Se nel primo romanzo la Verità era lo strumento
coercitivo e chiuso del dogmatismo, nel secondo romanzo diviene soprattutto uno
stratagemma per contrastare, anche se in modo palliativo, la minaccia della mancanza di
ordine e dell’indifferenza di tutti i discorsi. La semiosi ermetica nasce come ansia del
vuoto, dell’insensatezza, dell’assenza di una ragione e di un fine per l’esistente. Poiché la
conoscenza e l’etica, come insegna Il nome della rosa, sono imprese che si scontrano
costantemente con l’assenza d’ordine e di senso definitivo dell’universo, l’occultismo
permette all’uomo di vincere la propria oscura frustrazione e angoscia nei confronti del
caos e dell’insensatezza: come osserva intelligentemente Casaubon, «non ci sarebbe
fallimento se davvero ci fosse un Piano»283.
Inoltre, secondo una visione della realtà ermetica «non ti lamenti di essere mortale,
preda di mille organismi che non domini, non sei responsabile dei tuoi piedi poco prensili,
della scomparsa della coda, dei capelli e dei denti che non ricrescono, dei neuroni che

283
ECO, 1988, p. 490.

79
semini strada facendo […] sono gli Angeli Invidiosi»284. Si esplicita così il legame tra la
semiosi ermetica e il tema tipicamente postmoderno del complotto: per la gnosi e
l’ermetismo l’uomo è vittima di un complotto cosmico, che permette agli individui di non
sentirsi responsabili per tutto il male, il disordine e l’inspiegabile che li circonda. Il
complottismo è dunque una forma radicale di ricerca della verità, e di una trama in cui
inserirla, finalizzata alla massima semplificazione di ciò che causa dolore, confusione,
fallimento, e alla deresponsabilizzazione degli individui a riguardo. Se nell’antichità,
come nota Popper, «tutto ciò che accadeva alla pianura davanti a Troia costituiva soltanto
un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo», con il venir meno del
riferimento a Dio la teoria sociale della cospirazione occupa il suo posto «con diversi
uomini e gruppi potenti, a cui attribuisce una specie di personalità di gruppo, come se
fossero singoli individui», e che sono concepiti come «sinistri gruppi di pressione cui si
può imputare di aver organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo»285.
Nel Pendolo di Foucault, inoltre, Eco istituisce un legame diretto tra la rinnovata
diffusione dell’ermetismo negli anni Ottanta e la fine delle ideologie e delle grandi
narrazioni, suggerendo quindi che la ricerca di una verità segreta nasca dal fatto che quella
pubblica, condivisa, si sia sistematicamente dimostrata fallimentare. Nel momento in cui
Eco incappa nella possibilità di parlare dei temi scottanti del presente, ne prende
immediatamente le distanze: il narratore Casaubon passa in Brasile gli anni caldi del
terrorismo, dove «anche le vicende italiane pervenivano alonate di leggenda» 286 ,
apprende la notizia dell’omicidio di Moro da un giornale in portoghese («la didascalia
diceva: “O homen que matou Moro”»287), e fornisce al lettore solo allusioni degli eventi.
Casubon degli anni del terrorismo dice (secondo una strategia narrativa di alleggerimento
del contenuto che ricorda la confusione di Adso) di aver «capito molto poco» 288 ; ha

284
Ivi, p. 491.
285
POPPER, 1969, p. 213.
286
ECO, 1988, p. 176.
287
Ibidem.
288
Ivi, p. 176.

80
lasciato l’Italia «sull’orlo di grandi mutamenti»289, mentre è via viene a sapere che i suoi
antichi compagni «sparavano nella nuca a chi non era d’accordo con loro»290, e quando
torna scopre che i vecchi militanti di sinistra «avevano ormai aperto scuole di meditazione
trascendentale e ristoranti macrobiotici»291, e al posto delle «opere del Che, ora offrivano
erboristeria, buddhismo, astrologia» 292 . Il mutamento di paradigma è avvenuto, e le
librerie che vendevano «testi anarchici, rivoluzionari, tupamari, terroristi, marxisti» ora
si occupano di studi ermetici e occultisti. Il primo a cogliere le potenzialità economiche
della nuova passione per l’esoterismo e l’ermetismo (ma che poi ne sarà una zelante
vittima), è l’editore Garamond, che così parafrasa la sua voglia di speculare sulla
confusione culturale: «non sono un benefattore per vocazione, ma in questi tempi così bui
offrire a qualcuno una fede, uno spiraglio sul sovrannaturale..»293.
Se Eco dissemina per tutto il romanzo spunti, spesso ironici, per chiarire come la
semiosi ermetica sia un rimedio alla fine delle convinzioni, delle idee, dei progetti utopici,
nel personaggio di Jacobo Belbo questo concetto viene messo in scena con toccante e
acuta efficacia. Innanzitutto, il personaggio di Belbo sembra incarnare il fallimento
dell’ironia – tanto magnificata nel Nome della rosa – come strumento per far valere l’uso
della ragione dinnanzi alla natura prospettica, e strumentale, della verità. Di Belbo è detto
che «la sua dote più autentica […] è il senso del ridicolo»294, e che la sua ironia aveva «la
capacità di farti percepire la vanità del tutto»295. Eppure, il disincanto di Belbo è in realtà
«una forma di malinconia», e il suo «depresso libertinismo intellettuale celava una
disperata sete di assoluto»296. Nota Casaubon, dopo aver letto i diari virtuali del suo amico,
che «vederlo così entusiasticamente loquace nel costruire la sua Sorbona rabelaisiana

289
Ibidem.
290
Ivi, p. 140.
291
Ivi, p.177.
292
Ivi, p. 178.
293
Ivi, p. 209.
294
ECO, 1988, p. 470.
295
Ivi, p. 51.
296
Ibidem.

81
impediva di capire come esso soffrisse il suo esilio dalla facoltà di teologia, quella
vera»297: più che una strategia intellettuale vincente per sopperire alla mancanza di verità,
l’ironia di Belbo ne è un sintomo pericoloso, che rivela una mancanza, una nostalgia, che
porterà il dotto piemontese a rimanere irrimediabilmente invischiato nelle lusinghe della
semiosi ermetica.
La ragione per cui Belbo, più dei suoi amici, finisce per credere nel Piano, saldando
irrimediabilmente quel complotto delirante alle sue sconfitte personali, è complessa e
fondamentale per capire la possibilità del Pendolo di Foucault di salvare, in extremis, i
limiti dell’interpretazione. Giustamente Hutcheon riconosce nella fittissima ironia
intertestuale che caratterizza la parlata e gli scritti intimi di Belbo un riferimento al
modernismo298: Belbo cita ricorrentemente Eliot, Conrad, Joyce e Proust, e proprio a
quest’ultimo si rifà nel suo ossessivo esercizio di svisceramento delle memorie d’infanzia,
alla ricerca di una parvenza d’identità e significato per il suo presente. In quanto (anti)eroe
della modernità, Belbo non subisce l’effetto di un trauma personale – come lui crede,
biasimandosi tutta la vita per aver perso l’Occasione e per essere sempre stato uno
spettatore –, ma storico. Il contrasto tra la sua infanzia in Piemonte, in cui ha conosciuto
sia il fascismo che la Resistenza, e in cui la «cavalleria spirituale» consisteva nel dire
«Patria con la P maiuscola»299, e la degenerazione e implosione di tutte le ideologie a cui
ha assistito nella sua vita adulta, si trasforma in Belbo in una sfiducia amara verso la verità
e l’essere. I suoi ricordi d’infanzia «erano dolci perché gli parlavano dell’unica verità che
aveva conosciuto, e solo dopo era iniziato il dubbio»; solo nei ricordi d’infanzia, infatti,
Belbo trova «un mondo in cui una pallottola è una pallottola, o ti scansi o la prendi, e le
due parti si stagliavano l’una di fronte all’altra, contrassegnate dai loro colori, il rosso e
il nero, o il cachi e il grigio, senza equivoci»300.
Se Belbo è l’emblema della modernità, allora la sua paralisi scettica nei confronti del

297
Ivi,p. 52.
298
HUTCHEON, 1992, p. 12.
299
ECO, 1988, p. 236.
300
Ivi, p. 259.

82
presente, la sua ossessione per il non poter essere un autore ma solo un editore di materiali
già scritti, rappresentano un’incapacità di affrontare e trovare un proprio posto nella
postmodernità, che ha consumato il senso delle gesta eroiche, della creazione originale e
dell’appartenenza univoca. Belbo è una vittima della derealizzazione postmoderna, e in
essa si muove spaesato, solido solo nella sua sprezzante e amara ironia. Il Piano, dunque,
non gli promette di ritornare alla sovrabbondanza di essere e verità dell’infanzia – di cui
è troppo intelligente per non percepire la natura nostalgica e prospettica – ma di rovesciare
drasticamente e in modo consapevolmente grottesco il paradigma della postmodernità.
Un brano del saggio I limiti dell’interpretazione spiega perfettamente questo
rovesciamento. Il pensiero postmoderno ha sicuramente delle somiglianze con la semiosi
ermetica, in primis il fatto che entrambi trasformano «l’intero teatro del mondo in
fenomeno linguistico, e contemporaneamente sottraggono al linguaggio ogni potere
comunicativo»301. Nonostante ciò, essi differiscono per un aspetto fondamentale: se il
postmodernismo «asserisce l’assenza di un significato universale univoco e
trascendentale», la semiosi ermetica «assume che qualsiasi cosa può rimandare a qualsiasi
altra cosa, proprio perché c’è un soggetto trascendente forte»302, l’Uno neoplatonico o il
complotto cosmico; «sembra così che la semiosi ermetica identifichi in ogni testo, così
come nel Grande Testo del Mondo, la Pienezza del Significato, non la sua assenza»303. La
contemporaneità ha tolto a Belbo proprio la pienezza del significato, e la possibilità della
narrazione di attribuire, ingenuamente, un ordine e un senso alla realtà. Il Piano, dunque,
è per Belbo un grottesco e autodistruttivo modo per tacitare la postmodernità e la sua
aridità semantica, sentimentale ed etica. «se il problema è questa assenza di essere»,
scrive Belbo in uno dei suoi file più deliranti, «se l’essere è ciò che si dice in molti modi,
più parliamo più essere c’è». Per questo «inventare, forsennatamente inventare, senza
badare ai nessi» diviene per Belbo – che è un Proust mancato – l’unico modo per
controbattere all’idea postmoderna che tutto sia già stato detto, e che non rimanga che

301
ECO, 1990, p. 173.
302
Ivi, p. 881.
303
Ibidem.

83
ripetere e parodiare l’esistente.

3.3.3. I due «no» di Belbo, il monologo finale di Casaubon e il senso comune di


Lia: la possibilità di distinguere tra interpretazione e sovrainterpretazione

Rimane solo da chiedersi in che modo Il pendolo di Foucault riesca a riscattare questo
ritratto sconfitto della modernità, e la correlata incapacità di distinguere tra scienza e
occultismo, tra progresso della conoscenza e connotazione cancerosa. Nel momento di
massima implosione del romanzo, quando Casaubon sperso per Parigi inizia a dubitare
sistematicamente del confine tra verità e delirio, e dunque della sua affidabilità come
narratore, egli formula l’interrogativo chiave per decidere dei problemi conoscitivi
esposti nel romanzo: «Ma allora», si chiede, «se l’essere è così vuoto e fragile da
sostenersi solo sull’illusione di coloro che cercano il suo segreto, davvero […] non c’è
redenzione, siamo tutti degli schiavi, dateci un padrone, ce lo meritiamo» 304 . Ma
immediatamente frena questa deriva, trovando nella storia che ha raccontato almeno due
punti fermi, due ragioni per sostenere che l’essere è qualcosa di indipendente dalla ricerca
abissale del suo segreto: «Non è possibile. Non è possibile perché Lia mi ha insegnato
che c’è altro […]. Non è possibile perché Belbo ha detto due volte no»305. Per ricostruire
quell’interpretazione possibile che Rorty ha trascurato, e che permette di affermare che
per Eco esiste, ed è identificabile, un limite all’interpretazione forsennata e monomaniaca,
sono dunque fondamentali due spunti offerti dal testo, che, come si vedrà, riscattano
l’anything goes del romanzo in due modi essenzialmente diversi: il modo in cui Casaubon
interpreta gli ultimi momenti di Belbo e il personaggio di Lia.
Innanzitutto, alla fine del romanzo Belbo riesce agli occhi del suo amico Casaubon a
riabilitarsi in extremis, affrancandosi poco prima di morire dalla sua perdizione nella
parvenza di consistenza ontologica della semiosi ermetica. Dopo aver usato la semiosi
ermetica per placare il suo desiderio di pienezza e assoluto, Belbo scopre, nel momento

304
Ivi, p. 493.
305
Ibidem.

84
in cui si trova in pericolo di morte per un segreto che non esiste, la falla nel sistema
dell’ermetismo, ciò che lo rende tanto sterile e arido quanto lo svuotamento di senso
postmoderno da cui Belbo cerca di fuggire: dietro all’infinito riflesso delle somiglianze
cosmiche, si nasconde un segreto vuoto, e «quanto più Belbo si rifiutava di rivelarlo, tanto
più essi credevano che il segreto fosse grande, e quanto più lui giurava di possederlo,
tanto più erano convinti che lo possedesse, e che fosse un segreto vero, perché se fosse
stato falso l’avrebbe rivelato»306.
È dinnanzi a questa rivelazione che Belbo «dice due volte no». In primis, scegliendo
la parola “no” come password del suo archivio di files. L’aneddoto è banale: la macchina
chiede «hai la parola d’ordine?», e «la risposta, la chiave del sapere era “no”»307. Ritorna
dunque quella concezione negativa della verità che è sicuramente la posizione
epistemologica più coerente del pensiero di Eco; se Il nome della rosa ci diceva che
«l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana per la verità», Casaubon nelle
ultime pagine del romanzo produce dinnanzi alla parabola di Belbo tutta una serie di
slogan affini: «c’è qualcosa di vero, ed è che non solo la parola magica non c’è, ma
neppure la sappiamo» 308 , oppure «ho capito. La certezza è che non vi era nulla da
capire» 309 . Ma, come si è già notato per il Nome della rosa, l’acquisizione della
consapevolezza che ogni Piano che cerchi di spiegare la realtà in modo univoco sia una
costruzione linguistica non è sufficiente a distinguere tra verità scientifica e occultismo,
e a restituire la cogenza dell’essere necessaria per una valutazione etica delle
interpretazioni e degli interpretanti.
Il secondo “no” di Belbo, anche se epistemologicamente più promettente, risulta
nell’analisi postuma di Casaubon altrettanto poco convincente. Belbo dice “no” la notte
in cui si consuma il rito occultistico al Conservatorio, dinnanzi alla possibilità di salvezza
che gli viene offerta quando i fanatici dell’ermetismo vogliono da lui la mappa per

306
ECO, 1988, p. 492.
307
Ivi, p. 493.
308
Ibidem.
309
Ivi, p. 508.

85
risolvere il mistero dei Templari. «Avrebbe potuto inventare una mappa qualsiasi» 310,
continuando ad assecondare il gioco folle della semiosi ermetica, e a prendersene gioco.
Belbo, invece, non si piega, e preferisce morire: «non è che non abbia voluto piegarsi alla
foia del potere, non ha voluto piegarsi al non senso. E questo vuol dire che egli in qualche
modo sapeva che, per fragile che l’essere sia, per infinita e senza scopo sia la nostra
interrogazione del mondo, c’è qualcosa che ha più senso del resto»311. In questo “no” di
Belbo è racchiuso il significato di tutta la seconda fase del pensiero di Eco, di tutti i suoi
lavori sul limite dell’interpretazione e sulla resistenza dell’essere al falso. Solo una
qualche verità stabile, un punto fermo come il Pendolo – che nel pensiero pendolare del
romanzo rappresenta talvolta lo «zoccolo duro dell’essere» - può dimostrare che «tutto
quanto avveniva nel Conservatoire fosse irrimediabilmente stupido» 312 , e dunque
riabilitare insieme all’interpretazione anche l’ironia, come demistificazione della
stupidità e della follia.
Casaubon, però, non è in grado di suggerire una soluzione persuasiva per identificare
questo «qualcosa che ha più senso del resto». La soluzione si trova nel cosiddetto «Testo
Chiave»313, che racconta come Belbo, convinto tutta la vita di non aver mai scelto, di aver
perso la sua Occasione, abbia in realtà vissuto il suo «momento decisivo, quello che
giustifica la nascita e la morte», «irreversibilmente pieno, sfolgorante e generoso come
ogni rivelazione» 314 . In modo a mio parere non del tutto giustificabile, la Verità che
permette di salvaguardare i limiti dell’interpretazione viene presentata da Eco nelle ultime
pagine del romanzo come una sorta di epifania modernista, che rivela il vero significato
della vita e dell’esistenza in un momento irripetibile e soggettivo. Come Belbo «aveva
fissato negli occhi la Verità» in un momento epifanico in cui aveva suonato la tromba ad
un funerale partigiano, ed era «l’unica verità che gli sarebbe stata concessa, perché la

310
Ivi, p. 493.
311
Ivi, p. 494.
312
Ibidem.
313
Ivi, p. 495.
314
Ivi, p. 501.

86
verità che stava apprendendo è che la verità è brevissima (dopo è solo commento)»315,
allo stesso modo Casaubon, riportando alla memoria il già citato ricordo infantile delle
pesche, «capisce il Regno» ed era «tutt’uno con lui. Dopo, solo arguzia»316.
Il monologo finale del romanzo, dunque, si configura a mio parere (ma anche Rorty,
con intento opposto, dice la medesima cosa) come una falsa pista per tentare di fermare
il continuo moto oscillatorio del romanzo tra paradigmi, concetti e valori opposti e
indecidibili. L’ultima conclusione alternativa che è possibile trarre dal romanzo, secondo
il suggerimento di Eco stesso, è impersonata dal personaggio di Lia, che fin dall’inizio
sospetta dell’ossessione mascherata da ironia che i tre editori sviluppano per l’occultismo
e per il Piano. Nel romanzo il personaggio di Lia assume una duplice valenza. Innanzitutto,
rappresenta quel sano senso comune che nella seconda fase del pensiero di Eco, in
particolare in Kant e l’ornitorinco, diventa il punto di riferimento epistemologico della
semiotica contrattuale echiana,. in cui il modello dell’Enciclopedia si attenua in un
progetto intersoggettivo basato su regole di ragionevolezza riconosciute dalla comunità.
Lia risolve il grande dilemma conoscitivo del romanzo quasi trecento pagine prima del
drammatico, epifanico monologo finale di Belbo, pronunciato quando ormai la folle
ricerca del segreto dei Templari ad opera dei diabolici è stata messa in moto. «Non c’è
nulla da capire», dice Lia; ma non nel senso che ogni verità è vana, ma nel senso che la
verità è così intuitiva da essere evidente, e non nasconde nessun segreto, nessuna metafora,
nessuna allegoria ulteriore. «La sinarchia è Dio»: «l’umanità non sopporta il pensiero che
il mondo sia nato per caso, per sbaglio, solo perché atomi scriteriati si sono tamponati
sull’autostrada bagnata. E allora occorre trovare un complotto cosmico, Dio, gli angeli o
i diavoli. La sinarchia svolge la stessa funzione su dimensioni più ridotte»317. È lo stesso
ragionevole buonsenso che conduce Lia, in un paio di giorni, a dimostrare che il
documento segreto di Provins non è altro che la nota di una lavandaia318. Questa scena

315
Ibidem.
316
Ivi, p. 508.
317
ECO, 1988, p. 253.
318
Ivi, p. 421.

87
chiarisce in modo molto efficace come il buon senso promosso da Eco a valore positivo
non sia ingenuità intellettuale – Lia per decifrare il documento ricostruisce testimonianze
dell’epoca con una capacità di selezione e sintesi delle fonti empiriche degna di una
professionista – ma piuttosto una forma di ragionamento rigoroso ma semplice, che
preferisce il verosimile banale all’inverosimile strabiliante e rivelatorio.
In secondo luogo, il personaggio di Lia assume una valenza conoscitiva positiva nel
romanzo in virtù del suo accesso «alla saggezza di chi sa dove nasce la vita» 319 . La
maternità di Lia è ciò che le permette di mantenere i piedi per terra, di tutelare la gerarchia
delle priorità a prescindere dalle lusinghe di un segreto che può spiegare l’universo intero.
Tutto il romanzo è animato da questa oscillazione tra la maternità di Lia – sana, naturale,
semplice – e la paternità dei tre editori nei confronti del piano – morbosa, artificiale,
complicata dall’ambiguo intrecciarsi di ironia incredula e credulità invincibile. Causabon
perde il momento del parto di Lia perché sta parlando del complotto della metro di Parigi
con un occultista, e per tutto il romanzo si rende conto di trascurare suo figlio quanto più
si occupa del Piano, per poi capire che «la lettura della vita non celava alcun senso riposto,
e che tutto era lì, nelle pance di tutte le Lie del mondo, nelle camere delle cliniche, […] e
che le pietre che escono dall’esilio e il santo Graal altro non sono che scimmiette che
gridano col cordone ombelicale che gli sballonzola e il dottore che gli dà schiaffi sul
culo»320.
Rispetto alla valenza positiva di Lia come senso comune, questa identificazione al
femminile della Verità con il “miracolo” della riproduzione e con l’impulso etico
dell’amore figliale sembrerebbe molto più banale e filosoficamente inconsistente. In
primo luogo, perché basata su uno stereotipo tanto datato e irrazionale quanto le credenze
occultiste, ovvero la supposta maggiore confidenza del femminino con la natura, la vita,
la fertilità («la saggezza della Terra» è «la saggezza di Lia»321, viene detto nel monologo
finale di Casaubon). Ciò che riscatta la seconda valenza del personaggio di Lia, e che

319
Ivi, p. 290.
320
ECO, 1988, p. 346.
321
Ivi, p. 507.

88
permette di interpretare questa opposizione tra maschile e femminile come un’allegoria
asimmetrica e poco azzeccata, è il fatto che attraverso la sua «saggezza pacata che la
illuminava di autorità matriarcale» Lia identifica il limite dell’interpretazione con
argomentazioni che precorrono quelle che negli anni seguenti Eco utilizzerà per difendere
il suo realismo minimo. E che, sono, essenzialmente, argomentazioni di senso comune
che riflettono in modo ragionevole sulla verità del corpo umano e del contesto naturale in
cui s’inserisce.
Il problema che si pone il realismo minimo è il medesimo che anima Il pendolo di
Foucault, ovvero «quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo
paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione
dell'impossibile»322. La soluzione di Lia è ricordare a Casaubon che alla base di ogni
metafora, interpretazione allegorica e simbolismo vi sia la realtà del corpo, con le sue
gerarchie, i suoi numeri, le sue debolezze e i suoi limiti invalicabili. «Pim, non ci sono gli
archetipi, c’è il corpo», sostiene Lia. Ed effettivamente, per spiegare come lo «zoccolo
duro dell’essere» non possa essere altro che una serie di linee di resistenza che si
oppongono alle interpretazioni deliranti, Eco utilizza soprattutto metafore che giocano
sull’idea di limiti fisici di senso comune. Nella discussione contro Rorty
sull’interpretabilità illimitata delle affordances Eco usa l’esempio di un cacciavite che
non può essere usato per scavare in un orecchio («c'è dunque qualcosa sia nella
conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di
interpretare quest'ultimo a capriccio»323), nell’articolo Il realismo minimo nota che tra le
infinite interpretazioni che si possono dare di un trompe l’oeil che rappresenta una porta,
«se l'interpreto come vera porta aperta e cerco di attraversarla, batto il naso contro il
muro»324; metafora che ritorna in Kant e l’ornitorinco, quando Eco afferma che «ci sono
delle cose che non si possono dire. Non importa che queste cose siano state dette un tempo.
In seguito abbiamo per così dire “sbattuto la testa” contro qualche evidenza che ci ha

322
ECO, 2012.
323
ECO, 2012.
324
Ibidem.

89
convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima»325. Inoltre, l’essere per
Eco consiste innanzitutto nei limiti che troviamo nella nostra esperienza cosmologica
quotidiana, e che corrispondo alle esperienze fisiche banali che elenca Lia per svelare il
segreto dell’occultismo: le «tendenze stabili» della natura, «il calare e il sorgere del sole,
la gravità, l’esistenza oggettiva delle specie», intesa come consapevolezza del fatto che
«se uniamo un cane con un gatto non ne nasce nulla»326. Infine, secondo Eco è proprio la
fisicità ad introdurre nell’impresa conoscitiva il precedente innegabile di un limite che
non si può contrattare: «noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di
fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l'esperienza della Morte»327.
Il personaggio di Lia è quindi capace di farsi portatrice del realismo negativo echiano
in virtù del suo solido senso comune, rinforzato da un rapporto più attento di quello dei
tre editori con la realtà del corpo e delle sue ovvietà. Rimane, ovviamente, da chiedersi
se il messaggio positivo di Lia sia sufficiente per contrastare i demoni conoscitivi che
abitano il romanzo. Il realismo minimo e la concezione della verità come stipulazione
comunitaria sulla base di un ragionevole senso comune sono soluzioni compromissorie
che possono apparire sicuramente sensate, e contingentemente utili, come avviene nei
saggi di Eco, per giungere a «conclusioni coerenti». Il problema è che, come Il Pendolo
di Foucault mostra con incredibile efficacia, queste soluzioni non riescono a sostenere il
confronto con i fantasmi della decostruzione, della semiosi ermetica, della vanità ed
equiparabilità di tutti i discorsi. «Il mondo è un enigma benigno, che la nostra follia rende
terribile perché pretende d’interpretarlo secondo la propria verità»328, dice Casaubon. Ma
cosa permetta di riconoscere e isolare questa follia, e condannare con sicurezza la
proliferazione cancerosa dell’interpretazione, non è chiaro né nei saggi né tantomeno nei
romanzi di Eco.

325
ECO, 1997, p. 50.
326
Ivi, p. 48.
327
ECO, 2012.
328
ECO, 1988, p. 82.

90
91
Conclusione
Eco affermava che «ciò che non si può teorizzare, lo si deve narrare», perché un
saggio serve a produrre delle conclusioni, mentre un romanzo a mettere in scena delle
contraddizioni. In questo lavoro ho sostenuto che ci sia un rapporto diretto tra le aporie
delle conclusioni prodotte dai saggi di Eco riguardo al concetto di verità, e le
contraddizioni messe in scena nei romanzi Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault.
Ovvero, credo che i romanzi di Eco siano catalogabili come opere aperte – ovvero come
opere che si prestano ad infinite interpretazioni e chiedono al lettore di riempire i vuoti –
proprio perché si prestano a problematizzare più agevolmente di un saggio un concetto
poroso e indefinito, al limite contradditorio, come la nozione di verità prodotta dai saggi
di Eco.
Non avendo mai assunto prospettive radicali, Eco è stato un autore ampiamente
frainteso, e spesso ha giocato sul carattere compromissorio del suo pensiero per potersi
svincolare facilmente dalle affiliazioni che non gradiva. Eco tende a porsi sempre in una
posizione mediana, che evita e dunque sembra voler conciliare i poli più estremi del
dibattito: in questo senso nel 1977 sulle pagine di «Diacritics» il suo Trattato di semiotica
veniva definito un «campo teorico che unifica lo strutturalismo, il post-strutturalismo e la
semiotica»329; definizione che, seppure a mio parere inesatta, rende conto della tendenza
del pensiero di Eco di dialogare con tutti, senza schierarsi con nessuno. È molto facile
identificare in cosa Eco non si riconosca: in qualsiasi posizione, come direbbe lui
“manicheista”, che accoglie solo una delle due prospettive antitetiche e trascura di farsi
contaminare dalla possibilità dell’errore. Credo che in questa tesi sia emerso come proprio
alla luce del problema della verità, la mancanza di una presa di posizione salda,
positivamente radicale, possa condurre ad un’impasse. Eco decostruisce la Verità della
filosofia tradizionale e dello strutturalismo insieme a Derrida, Rorty e Vattimo, ma non si
compromette fino ad affermare che non ci sia nulla di solidamente oggettivo a
salvaguardare la distinzione tra vero e falso, al tempo stesso però rifiutando i realismi

329
MCCANLES, 1977, pp. 54-55.

92
categorici di Peirce e Ferraris. Anche se rattoppato a livello teorico in modo alquanto
goffo con l’idea di “realismo negativo”, il problema della verità in Eco non è risolto, e i
due romanzi analizzati sono proprio la testimonianza di questo buco teorico all’interno
del suo lavoro.
Se c’è qualcosa che Eco non riesce a teorizzare ma deve narrare, è proprio
l’incapacità della sua teoria nel pervenire ad una nozione di verità che abbia una
qualsivoglia presa – teorica o pratica – nella definizione di ciò che sia reale e di ciò che
non lo sia. Nel momento in cui la pluralità di verità echiane non definisce il suo rapporto
col reale in termini più risolutivi, il suo pensiero non può che condurre ad una forma di
pessimismo epistemologico e di nichilismo dell’interpretazione; cosa che i romanzi
mostrano chiaramente, quantunque la saggistica cercasse di negarlo. In questo senso
risulta ancora una volta evidente la necessità di istituire un confronto tra Eco e pensatori
come Rorty e Vattimo, che pur rinunciando definitivamente al concetto tradizionale di
verità (cosa che Eco non può fare del tutto, finché crede che ci siano interpretazioni
sbagliate perché lo dice l’Essere), sembrano pervenire a progetti linguistici, etici, e politici
più ottimisti e trasformativi di ciò che traspare dai romanzi di Eco. Il rifiuto echiano del
radicalismo sembra portarlo ad una visione delle nostre possibilità conoscitive molto più
radicalmente negativa – perché indecidibile, e quindi priva di costruttività – di quelle
proposte dai postmoderni Vattimo e Rorty. L’ottimismo epistemologico e la fiducia nella
semiotica che animano i saggi, pur essendo alla lettura convincenti e istruttivi, non sono
dunque filosoficamente giustificati; contraddizione che i romanzi drammatizzano
efficacemente.
In secondo luogo, la lettura comparata dei saggi e dei romanzi di Eco condotta in
questo lavoro permette di articolare un ulteriore collegamento tra le due dimensioni.
Questo lavoro si basa sull’idea che per capire cosa sia la verità nell’opera di Umberto Eco
non si possa prescindere dai contesti intellettuali in cui il suo pensiero di sviluppa. Come
si è visto, Eco modifica moltissimo l’impostazione del suo lavoro sulla base del sistema
differenziale in cui esso è inserito: la cesella per attenuare ogni eccessiva somiglianza,

93
per prendere le distanze da ogni posizione massimalista, per mantenere intatto il suo
atteggiamento congetturale, dubitativo, oscillatorio. Si è dunque cercato di mostrare come
l’ininterrotta conversazione che le opere di Eco intrattengono con altri testi e altri autori
non sia un elemento secondario e accessorio del suo pensiero epistemologico, ma
piuttosto ne sia il momento costitutivo. La nozione di verità di Eco emerge proprio in un
rapporto di dialogo e differenziazione rispetto alla semiotica peirciana, allo strutturalismo,
al pensiero debole, al postmodernismo americano, alla decostruzione, e infine al nuovo
realismo, e non potrebbe essere concettualizzata al di fuori di esso.
Leggendo in parallelo i saggi e i romanzi di Eco, ritengo che emerga come la nozione
di verità messa in scena dal Nome della rosa e dal Pendolo di Foucault costituisca proprio
una trasposizione finzionale di questo ininterrotto confronto con il pensiero altrui. Eco ha
riconosciuto che i diversi personaggi, attraverso il loro pensiero, linguaggio e
comportamento, rappresentano le «conclusioni possibili» 330 dei romanzi; la cosa
interessante è che tali conclusioni, come è emerso dalla lettura dei testi condotta
nell’ultimo capitolo, sono tendenzialmente posizioni epistemologiche alternative.
Praticamente ogni personaggio di Eco prende una posizione esplicita riguardo a cosa sia
la verità, spesso suggerita o rinforzata ironicamente dalle citazioni intertestuali di autori
contemporanei nascoste nelle pieghe dei dialoghi. Oppure, i personaggi nel corso del
romanzo cambiano prospettiva, o scoprono fino in fondo le conseguenze delle loro
premesse teoriche (il Guglielmo baldanzosamente razionalista dei primi capitoli diviene
un campione del fallibilismo, il sincretismo di Casaubon lascia il passo ad un panegirico
delle intermittenze del cuore di sapore bergsoniano), così inscenando la
problematizzazione congetturale della verità all’interno della loro stessa coscienza o
psicologia. In tal modo, Eco orchestra una magistrale allegoria della filosofia e del
pensiero, nutrita di riferimenti, citazioni, sottotesti ironici, in cui può divertirsi a mostrare
le debolezze di ogni posizione, e a condurre i personaggi che le impersonano in dei vicoli
ciechi etici e intellettuali. Ciò che Eco definisce l’apertura di un’opera, il suo non prestarsi

330
ECO, 1992, p. 140.

94
ad interpretazioni conclusive o a messaggi didattici univoci, nei romanzi, impregnati di
problemi conoscitivi e linguistici, diviene una perfetta rappresentazione del suo modo
dialogico, oscillatorio, e fortemente metaforico di parlare di verità in ambito saggistico.
Nei romanzi, Eco trova uno spazio privilegiato dove giocare con la verità, mostrare i limiti
di ogni radicalismo ed evitare senza sensi di colpa di prendere una posizione.
Ma nel mettere in scena teorie della verità che si dimostrano contraddittorie e
parziali, Eco riesce ad estetizzare ciò che nella teoria erige ad unico criterio (negativo) di
verità, ovvero l’interpretazione evidentemente sbagliata. La trama dei romanzi analizzati,
e la loro godibilità, consiste essenzialmente nella sperimentazione di ciò che accade
intraprendendo labirintici, stratificati percorsi d’interpretazione sbagliata. Addirittura, i
più eclatanti colpi di scena dei romanzi (si pensi al piano dell’apocalisse a cui Jorge si
adatta, così come al piano di Belbo e Casaubon che viene preso sul serio dai diabolici)
avvengono quando le interpretazioni sbagliate contaminano la realtà e finiscono per
costituirla: Eco non è capace, forse, di parlare del vero in modo convincente a livello
teorico, ma sa trasformare la «forza del falso», e la natura problematica della ricerca della
verità, in piacere narrativo. Credo, in conclusione, che in questa capacità si riveli la più
interessante caratteristica della nozione echiana di verità. Eco non fornisce ai suoi lettori
un concetto forte, e pragmaticamente utile, di verità, ma sa mostrare quanto può essere
coinvolgente e piacevole preoccuparsene. L’erudizione, l’ironia, la congettura creativa,
sembra dirci Eco, possono valere valore estetico in se stesse anche se non saranno mai in
grado di stabilire in modo assoluto what is the case. Trasformando l’epistemologia in
gioco e in narrazione, Eco sicuramente non contribuisce a risolverne i problemi, ma ne
esplicita il fascino, e la bellezza.

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