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Il novel 1

Il Settecento, lo si è già sottolineato, è il secolo della satira in versi e in prosa e della saggistica, ma è in
primo luogo il secolo che vede la nascita e il maturare del romanzo moderno inglese. Come precisa
Melchiori, la cui disamina seguiremo (Introduzione cit., pp. XV-XVIII), in italiano il termine romanzo ha un
valore estensivo e comprende qualsiasi forma narrativa lunga in prosa (per esempio il romanzo cavalleresco
o quello alessandrino), mentre la parola poema (epico, cavalleresco ecc.) copre le forme narrative in versi.
In inglese invece si distingue fra romance, ossia narrativa di carattere cavalleresco o fantastico, in prosa o in
versi (i poemi del Boiardo e dell’Ariosto, le storie della Tavola Rotonda e dei reali di Francia, rientrano in
questa categoria), e novel, che corrisponde alla narrativa in prosa di carattere sia picaresco che borghese. Il
novel si caratterizza appunto come anti-romance. È un luogo comune, ma conviene ripeterlo: il novel è
l’espressione letteraria dell’affermazione di una nuova borghesia consapevole della propria potenza. In
Inghilterra ha i suoi precedenti naturalmente nella novellistica d’importazione italiana e spagnola da una
parte, e dall’altra nei jest-books e nelle varie espressioni di un genere picaresco autoctono inteso a
celebrare, nel tardo Cinquecento, le virtù e le capacità della classe artigianale e mercantile – il ciabattino e il
piccolo commerciante che conquistano le cariche civiche e vantaggi economici grazie alla loro onesta
industriosità.

Ma è solo alla fine del Seicento, quando la classe borghese compie il salto di qualità, raggiungendo
l'approdo del “buon gusto”, che essa rivendica a una forma espressiva già sua la dignità di genere letterario.
La distinzione fra romance e novel viene infatti enunciata in Inghilterra da William Congreve, sulla scorta di
modelli francesi, nella prefazione alla sua Incognita (1691). Il criterio discriminante è quello della
"verosimiglianza", del “realismo”: I Romances – afferma Congreve – sono costituiti in genere dall’Amore
Costante e dal Coraggio Invincibile di Eroi, Eroine, Re e Regine, Mortali di eccelso Rango, e simili. Lì, il
Linguaggio elevato, gli Eventi miracolosi e le Imprese impossibili, catturano il lettore e lo sollevano a
vertiginose altezze di Piacere, ma lo fanno precipitare al suolo ogni volta che sospende la lettura, sì che si
irrita per essersi lasciato trasportare e divertire, per essersi preoccupato e afflitto per quanto ha letto [...],
convincendosi che son solo menzogne. I Novels, invece, hanno Natura più familiare; ci vengono vicini,
rappresentano Intrighi in atto, ci dilettano con Casi ed Eventi curiosi ma non del tutto inconsueti o senza
precedenti. «I Romances suscitano Meraviglia, i Novels Diletto».

La definizione non è immediatamente operante: Daniel Defoe riprende (e grazie al suo genio stilistico
reinventa) il filone della storia “vera” edificante e chiama, infatti, le sue narrazioni histories, rivolgendosi a
un pubblico meno scaltrito: quello il cui alfabetismo era determinato non da curiosità umanistiche o da
ambizioni di “gusto”, ma dalla necessità quotidiana delle attività commerciali e della lettura familiare del
Libro: la Bibbia inglese. È così che si viene formando – lo si ricordava in precedenza (vedi lezione 89) – un
preciso mercato per la narrativa in prosa, un mercato delimitato non soltanto dalla diffusione
dell’alfabetismo, ma anche dalla disponibilità di tempo per la lettura e dal costo comparativamente elevato
della pubblicazione. Il prezzo di un normale romanzo, in genere in tre o più volumi, corrispondeva alle
entrate settimanali dell’ottanta per cento della popolazione inglese in grado di leggere: l’artigiano e il
bottegaio, dunque, non potevano permettersi di acquistare altro che la Bibbia e opuscoli di carattere
informativo o devoto.

D’altra parte, con l’eccezione degli uomini di lettere, gli esponenti maschili dell’aristocrazia e della gentry
agiata erano troppo impegnati nei doveri mondani e negli affari per dedicarsi a certe letture, ma non le
facevano però mancare nelle loro dimore. Il pubblico dunque del romanzo inglese settecentesco è
costituito dalle grandi “famiglie” dell’aristocrazia e dell’alta borghesia – e nella famiglia sono compresi i
numerosissimi dipendenti. Ad avere tempo disponibile per dedicarsi alla lettura era così essenzialmente la
donna: la dama e la sua cameriera. Non è un caso che il primo best-seller della nuova narrativa inglese, il
romanzo epistolare di Samuel Richardson: Pamela, o la virtù ricompensata (1740), che è anche il primo
romanzo “psicologico” dell’età moderna, sia la storia di una cameriera. Scritto da un tipografo – e cioè da
una persona ai margini della “società” che conta, e letterato solo per motivi di mestiere –, Pamela, se da
una parte assicura definitivamente la popolarità di un “genere” consacrando l’esistenza di un suo preciso
mercato di consumo, dall’altra inizialmente rifiuta proprio la definizione di “genere letterario” , ponendosi
nella scia delle opere di carattere didattico e edificante.

Nella codificazione della nuova forma romanzesca, Pamela costituisce un punto di svolta. Pur
nell’apparente conformismo, nel moralismo esasperato, nel riconoscimento della gerarchia sociale
consacrata, e nella sua insistenza sui “doveri” nei confronti degli altri, Pamela è, infatti, opera sottilmente
sovversiva: l’adozione totale del criterio del merito o della virtù porta all’abbattimento delle barriere sociali,
tanto che la cameriera può sposare il padrone senza che ci sia bisogno di agnizione finale (come invece
accadrà nella commedia di Goldoni da essa ispirata) per stabilire che anche lei ha sangue nobile nelle vene.
Per la prima volta il principio della “nobiltà naturale”, riconosciuto in teoria già da un paio di secoli, trova la
sua dimostrazione pratica. Ed è giusto che ciò avvenga non soltanto in un romanzo borghese, ma in un
romanzo scritto da un piccolo borghese, da un escluso dalla classe dominante. E infatti una reazione c'è,
immediata. Henry Fielding, cadetto di una famiglia che vanta qualche parte di nobiltà, nel suo Joseph
Andrews (1742) corre ai ripari in due maniere: non soltanto denuncia Pamela come una piccola ipocrita
arrivista, ma, in un’elaborata prefazione, presenta il suo romanzo appunto come opera di “letteratura”,
rivendicando, con l’iscriverlo nella rubrica di «poema eroicomico in prosa», la qualità culturale elitaria del
nuovo genere di estrazione borghese.

L’operazione di recupero fatta da Fielding è condotta ad alto livello: a una «Odissea eroicomica» (Joseph
Andrews) egli fa seguire l’«Iliade eroicomica»,Tom Jones, in cui l’assunzione delle strutture della narrativa
picaresca (e perciò di estrazione piccolo borghese e non priva di spunti critico-sociali) negli schemi stilistici
neo-classici si realizza senza residui. Il romanzo moderno inglese ha la sua consacrazione formale: il
paradigma proposto è quello, picaresco, realistico e topico, della “Vita e Avventure” dell’Eroe borghese.
Pure l’altro grande romanziere del periodo, Tobias Smollett, non a caso intitolerà i suoi libri Le avventure di
Roderick Random (1748), Le avventure di Peregrine Pickle (1751) e così via, e anch’egli premetterà al primo
di essi un’introduzione in cui, a sostegno della dignità letteraria del genere romanzesco, ne traccerà una sia
pur arbitraria genealogia. E come Fielding aveva aggiunto al titolo del suo novel – La storia e le avventure di
Joseph Andrews e del suo amico Mr. Abraham Adams – la significativa specificazione: scritto a imitazione
della maniera del Cervantes, così Smollett è nel Don Chisciotte (di cui fornì anche una traduzione inglese)
che individua l’atto di nascita del romanzo moderno.

In verità il Don Chisciotte – citato, imitato, parodiato e perfino trasposto al femminile – rimane il nume
tutelare del romanzo inglese del Settecento, il modello strutturale cui rifarsi, magari contaminandolo, sul
piano della scrittura, con il più scaltrito e in apparenza più elegante Gil Blas (1715-1735) di Lesage (sia
Fielding che Smollett lo citano, non sapendo sottrarsi alle lusinghe del “gusto”, che in Francia è di casa). Ma
a parte la sua funzione di modello, con le novelle inserite, le interruzioni e gli interventi continui sia
dell'autore sia dei personaggi nella sequenza narrativa, con le divagazioni critiche e parascientifiche, gli
scrittori del Settecento vedono nel Don Chisciotte il primo compiuto anti-romance, la demistificazione della
tradizione narrativa cavalleresca e cortese, e perciò, implicitamente, la prima affermazione ideologica della
nuova classe. Cervantes, nel suo tempo, rivelava la non operatività di codici linguistici e di comportamento
che esercitavano ancora la loro egemonia culturale, benché ormai privi di contenuto, di sostanza e
sopravvissuti soltanto come estrema difesa formale di privilegi perduti.

A loro volta, più di un secolo dopo, i romanzieri in Francia e in Inghilterra, muovendo dal Don Chisciotte,
erano arrivati a definire altri codici altrettanto rigorosi di quelli che Cervantes aveva messo in crisi, per
instaurare e rendere egemonica la prima forma letteraria autenticamente borghese. Essi edificano la nuova
Arcadia urbana e salottiera, l’Eldorado delle locande, delle diligenze e delle strade maestre, con ricche
dimore di campagna al posto dei castelli, banditi di strada in vece dei draghi, e il successo economico o il
matrimonio vantaggioso come santo Graal. Laurence Sterne si affaccia sulla scena letteraria quando quel
codice è ormai in vigore: Richardson, Fielding, Smollett hanno portato a termine la loro opera di
instauratori del nuovo ordine (Smollett, a dire il vero, riprenderà la sua attività di romanziere dopo una
lunga pausa, con un libro, Humphry Clinker (1771), che costituisce un ulteriore, inatteso punto di partenza
per lui, dopo l’esperienza sterniana). Emblematicamente il Tristram Shandy (1759-1767) di Sterne si
proporrà di compiere, nei confronti dei suoi predecessori inglesi, quella medesima opera di demistificazione
delle convenzioni del novel che Cervantes e i suoi successori avevano operato nei confronti del codice
cavalleresco-cortese.

E allora, se il Don Chisciotte è il prototipo dell’anti-romance, il Tristram Shandy, dice Melchiori, ricorrendo a
una etichetta che sa di gioco di parole, ma che sintetizza perfettamente il senso dell’operazione sterniana,
lo sarà dell’anti-anti-romance. E diviene tale non ponendosi in contrasto polemico con l’opera di Cervantes,
ma anzi facendo propria la sua strategia narrativa, i moduli linguistici e le tecniche strutturali che i
cervantiani francesi e inglesi, ansiosi di raggiungere un felice compromesso con un ideale gusto neoclassico,
non avevano saputo raccogliere. Sta di fatto che, pur rappresentando una fase di rottura proprio rispetto
alla tradizione ispirata dal Don Chisciotte, il Tristram Shandy è a esso più vicino di qualunque altra opera
narrativa prodotta dalla cultura europea. Perché, insieme appunto a Rabelais, a Cervantes e a Joyce, Sterne
è uno dei rarissimi scrittori che abbiano compiuto un’esplorazione integrale della nozione stessa di
linguaggio, riportando la scrittura al suo grado zero.

Gargantua et Pantagruel, Don Chisciotte, Tristram Shandy, Ulysses e Finnegans Wake vengono spesso e
variamente accostati dai critici, dato che la più elementare indagine operata sulle loro strutture non può
che rivelarne le ovvie affinità. Sarebbe comunque ingiusto considerarli “monumenti” supremi o “pietre
miliari” nella storia letteraria europea, poiché proprio per loro natura rifiutano ogni classificazione,
soprattutto se in funzione celebrativa, e ogni tentativo di storicizzazione. Sono in effetti qualcosa di più:
ciascuno è summa di un’intera cultura e annullamento di quella cultura nella riscoperta e nel ritorno alle
sue prime radici linguistiche.

Il novel 2

Cerchiamo, ora, di illustrare più nel dettaglio le convenzioni della nuova forma romanzesca, così come si
definisce e organizza nel Settecento. Le opere di Defoe, Richardson e Fielding, se mostrano di avere degli
elementi in comune, a una analisi più attenta risultano di natura assai diversa. Non è quindi facile
individuare immediatamente i tratti che caratterizzano il novel. Il termine che comunemente viene
associato alla nuova forma di narrativa, lo si accennava già all’inizio della precedente lezione, è “realismo”.
Un termine sul quale torneremo più avanti, anche perché estremamente complesso e sdrucciolevole. Basti
pensare che in filosofia esso veniva inizialmente utilizzato per descrivere una visione del mondo
diametralmente opposta a quella del senso comune. Si riferiva cioè alla concezione della Scolastica
medievale secondo cui le vere “realtà” erano gli universali, le classi, le astrazioni, non gli oggetti concreti e
particolari della percezione individuale. Occorreva uno scarto per avvicinarsi a ciò che ordinariamente
immaginiamo quando parliamo di realismo, uno scarto che attiene al concetto di “individuo”. Il realismo
moderno inizia con l’affermazione che la verità può essere scoperta dall’individuo mediante i sensi e ha le
sue origini in Cartesio e Locke. Il novel riflette questo cambiamento: più precisamente era necessario che
tale mutata prospettiva si determinasse perché maturassero le condizioni atte alla nascita di un nuovo
modo di scrivere.

Cartesio, con il celebre «Cogito ergo sum» porta all’interno dell’individuo il principio di realtà. Locke,
nell’Essay Concerning Human Understanding (1690), ridefinisce l’uomo a partire da una analisi del
funzionamento della mente e di come essa conosce. Abbandonando tanto le idee innate platoniche quanto
le idee chiare per sé di Cartesio, Locke afferma che la sola conoscenza possibile è quella acquisita attraverso
l’esperienza, cioè attraverso i sensi. La mente non ha nulla da pensare se prima l’esperienza non le fornisce
le idee su cui riflettere. L’esperienza è il fondamento di ogni conoscenza e il metro con cui essa giudica i
saperi che di volta in volta consegue (deve pertanto porsi all’inizio, ma anche alla fine del processo
conoscitivo). Ciò che osserviamo, sia esternamente (gli oggetti esteriori e sensibili), sia internamente (le
operazioni della nostra mente), rappresenta il materiale di cui l’intelletto si serve per la conoscenza. Le idee
sono tutto ciò che l’individuo pensa, vale a dire ogni contenuto della mente: siano essi concetti o immagini
sensibili. Se le cose stanno così, ne discende che anche sulla natura del pensiero non ci è possibile
affermare nulla in astratto e questo chiama in causa la definizione stessa della identità individuale,
personale.

Per Locke l’identità non risiede in alcuna proprietà del corpo o del pensiero in quanto tali, ma nella
continuity of consciousness. L’io è il risultato di una continuità vissuta di coscienza e memoria. Laurence
Sterne nel Tristram Shandy darà una definizione dell’Essay di Locke straordinaria e illuminante nella sua
semplicità: è «la storia di ciò che passa nella mente di un uomo». Un uomo: la storia di ciò che passa nella
sua mente. In effetti, e in un senso più ampio, questa nuova lettura della soggettività avrà conseguenze
notevoli in ambito letterario, spingendo verso una visione ravvicinata del quotidiano e dell’individuo che
quel quotidiano esperisce. Tale passaggio, fondamentale per la conoscenza del mondo, lo è anche – dunque
– per spiegare la nascita della nuova forma narrativa, la quale doveva esprimere la presa individuale sulla
realtà. Per fare ciò, occorreva che gli attori e la scena delle loro azioni fossero guardati da una prospettiva
diversa. Nello specifico: l’intreccio doveva avere come protagonisti delle persone particolari in circostanze
particolari, invece che, come per lo più in precedenza, dei tipi umani generali in situazioni determinate dalle
convenzioni letterarie.

La definizione che meglio sintetizza la natura e la novità delle scelte che codificheranno il nuovo genere
resta quella fornita da Ian Watt, nel suo fondamentale studio The Rise of the Novel (1957, trad. it. Le Origini
del romanzo borghese. Saggi su Defoe, Richardson e Fielding, Bompiani, Milano 1994). Secondo Watt il
«metodo narrativo mediante il quale il romanzo esprime l’atteggiamento circostanziato verso la vita può
essere definito realismo formale» (p. 28). In questa definizione, precisa Watt, il termine “realismo” (e
questo ci aiuta a circoscrivere l’ambito di pertinenza, anche in relazione alle cautele prima espresse), non si
riferisce ad «alcun proposito o dottrina letteraria particolare, ma solamente a un insieme di procedure
narrative che vengono usate così spesso nel romanzo e così raramente in altri generi da poter essere
considerate tipiche del primo». Il realismo formale è dunque l’espressione di una premessa, vale a dire che
«il romanzo è un rapporto autentico e completo su una esperienza umana e ha quindi l’obbligo di
soddisfare i suoi lettori fornendo loro dettagli sulla personalità degli attori e sulle circostanze di tempo e
luogo delle loro azioni, dettagli presentati usando il linguaggio in modo ampiamente referenziale» (p. 29).

Novel: trame, personaggi, ambientazioni. Le forme narrative che precedono il novel riflettono
l’orientamento generale di una cultura che considerava la conformità alle pratiche tradizionali come prova
di verità. Le trame dell’epoca classica e rinascimentale erano basate su storie del passato o su favole. I
meriti dell’autore erano così, in larga misura, commisurati al decoro letterario raggiunto, decoro
dipendente dall’accettazione del modello. L’assunto culturale su cui ciò si fondava era quello secondo cui la
Natura era in sé completa e immutabile e quindi la sua descrizione, sotto forma di leggende, resoconti
storici, miti, costituiva un repertorio definitivo dell’esperienza umana. Questo “tradizionalismo” fu sfidato
dal novel, che assunse come criterio fondamentale quello della verità in relazione all’esperienza individuale,
sempre unica e nuova. Il romanziere doveva dare l’impressione di riprodurre fedelmente quell’esperienza
umana. Il romanzo è, dunque, l’espressione di una cultura che privilegia il valore dell’originalità.

sintomatico che la parola “originalità” abbia assunto il suo significato moderno proprio nel diciottesimo
secolo, sulla scia di tale istanza di novità. Il termine “originale”, che nel Medioevo indicava “esistente
dall’origine”, viene dunque a denotare: “non derivato da altro”; “di prima mano”; “nuovo”. E «genio morale
e originale» sarà appunto definito Richardson – in Conjectures on Original Compositions (1759) – da
Edward Young, l’ammirato autore del lungo componimento poetico in blank verse Night Thoughts (1742-
45). Nel romanzo questa tendenza si manifesta in prima istanza sul piano della trama. L’insistenza sulla
novità e l’individualità fa sì che nel novel si determini la totale subordinazione della trama al modello della
“memoria” o della “registrazione” autobiografica. Di qui le numerosissime Life and Adventures of, in una
linea che da Defoe arriva a Fielding, a Smollet e poi a Sterne. Oppure, si assiste al resoconto minuzioso di un
“momento” di una biografia, di una tranche de vie, scelta fatta da Richardson, in Pamela e Clarissa, e che
avrà anch’essa infiniti imitatori e prosecutori. Oltre alla trama, alla tipologia e alle modalità dell’intreccio, il
cambio di prospettiva riguarda, soprattutto, gli attori e la scena delle loro azioni, in altre parole: la
caratterizzazione dei personaggi e la presentazione d’ambiente.

Ciò che distingue il novel è sicuramente l’attenzione posta alla individualizzazione dei personaggi e alla
presentazione dettagliata dell’ambiente. Per dirla in modo semplice, il novel palesa la sua intenzione di
presentare un personaggio come individuo dandogli un nome e un cognome in tutto simili a quelli delle
persone che si incontrano nella vita di tutti i giorni. Anche nelle precedenti forme letterarie i personaggi, è
ovvio, ricevevano un nome proprio, ma questo non era scelto per proporli come unità individualizzate. Si
trattava per lo più di nomi storici o tipici, nomi caratteristici che richiamavano o identificavano valori e
ideali. I primi romanzieri rompono con la tradizione e nominano i personaggi in modo da suggerire che essi
dovevano essere considerati individui particolari nel contesto sociale contemporaneo. Fielding da questo
punto di vista potrebbe apparire, in una certa misura, non in linea, perché spesso i suoi sono nomi
“parlanti”, esprimono cioè la qualità dominante del personaggio. Questo, come vedremo, corrisponde alla
sua idea di voler scrivere una sorta di commedia umana, di storia del genere umano, di rappresentare non
l’uomo ma l’umanità.

Va però detto che i suoi nomi, anche quando sono “parlanti”, hanno comunque un suono familiare, sono
credibili, per quanto chiaramente siano una versione moderna del nome tipico: Allworthy, Square, Heartfire
ecc. Inoltre, a loro sono sempre accostati altri personaggi dai nomi decisamente contemporanei: Tom
Jones, Sophia Adams, Joseph Andrews. Possiamo dunque ribadire che il personaggio del novel è,
sostanzialmente, una persona particolare e non un tipo, e anche quando presenta tratti tipici ciò avviene a
partire da una sua precisa individualizzazione come persona. Accanto alla prevalenza dei nomi propri
contemporanei, si assiste a un importante processo di particolarizzazione anche rispetto alle dimensioni
fondamentali dello spazio e del tempo. Una delle specificità del romanzo borghese, come è stato affermato
da alcuni studiosi, è quella di ritrarre «la vita nel tempo», rompendo con una tradizione che usava storie
fuori del tempo per dimostrare verità morali immutevoli. Con il romanzo assume valore centrale il principio
di causalità per cui le esperienze del passato sono la causa di azioni nel presente. La connessione causale
operante nel tempo sostituisce l’uso precedente di coincidenze e camuffamenti.

Nella letteratura antica, medievale e rinascimentale, in accordo con una visione fondata sugli universali, si
riteneva che la verità sull’esistenza umana potesse essere colta in un giorno così come nell’arco di una vita.
Nel novel i personaggi sono invece saldamente ancorati a una dimensione temporale prossima o
contemporanea, addirittura con Richardson abbiamo precise indicazioni sul mese, sul giorno, sull’ora in cui
si verificano determinati avvenimenti, o in cui Pamela o Clarissa scrivono. Stesso discorso vale per l’altra
dimensione connessa inscindibilmente col tempo: lo spazio. Non più ambientazioni vaghe, generiche, ma
luoghi precisi e riconoscibili. Dei quali, però, e questo è un elemento fondamentale da sottolineare, nel
Settecento non si ha una descrizione distesa: non abbiamo pause descrittive, ma una presentazione
dettagliata, o meglio, per dettagli, largamente metonimica. Un oggetto, un tavolo, un camino “stanno per”,
“indicano”, “alludono a” uno spazio generale: in questo, una modernizzazione del rapporto scena-pubblico
tipico del teatro elisabettiano.

Ciò spiega perché si abbiano pochi affreschi naturali, ma minuziose presentazioni di interni e di ambienti. I
luoghi non sono raccontati, ma ce ne viene fornito il nome, la collocazione geografica o topografica. Non si
descrive la casa, ma abbiamo dettagli minuti sulla tappezzeria di una poltrona, sul ricamo di una tovaglia,
sull’intarsio di un mobile, sulla stoffa di un abito e sul suo disegno particolare. La lingua asseconda tale
processo. Con il novel si registra, infatti, un uso quasi esclusivamente denotativo del linguaggio, per arrivare
a ottenere immediatezza e aderenza del testo a quanto viene narrato. Non c’è più il problema antico del
decoro, dell’adeguatezza al soggetto, ma un uso della lingua come puro medium referenziale. Per
riassumere, della nuova forma romanzesca che nel Settecento si codifica come genere, con una sua dignità
e autonomia, i tratti fondamentali sono: il personaggio come individuo comune; la durata narrativa
misurata sul tempo vitale (la forma biografica, come narrazione di una vita o di una sua parte); il racconto
dettagliato e per dettagli di vicende e peripezie credibili; l’emergenza in letteratura del mondo
contemporaneo riconoscibile e verosimile (il così detto effetto di verosimiglianza o di realismo).

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