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Quel libro di novellette che ora chiamiamo il Novellino, composto tra il 1280 e il 1300,
resta l’esempio d’una narrativa fatta con l’accumulo di pezzi di riporto, sparsi ed
eterogenei, collegati da nessun motivo oltre al gusto del narrare. Si è pensato a un
compilatore che disponesse d’una vasta biblioteca nel nord Italia, forse nella Marca
Trevigiana, perché il Novellino si distingue per la grande quantità di spunti presi
direttamente dai libri. Benché il suo titolo originale (Libro di novelle et di bel parlar
gientile) si inquadri in una tradizione già viva di raccolte novellistiche, questo libro
resta un unicum nel campo delle forme narrative. Perché è come un esperimento per
ridurre il fenomeno chiamato “raccontare storie” al suo nucleo minimo. Che cos’è una
storia? È un collegamento tra fatti antecedenti e conseguenti. Per gli antichi era una
specie di effetto ottico, definito post hoc propter hoc, per cui ciò che viene prima in un
racconto ci dà l’impressione d’essere la causa di ciò che viene dopo, anche, se non si
tratta d’una conseguenza logica. Tutto il narrare è un gioco di effetti illusori. Ma come
si produce l’effetto che una storia debba concludersi in punto preciso? L’interruzione
non è una conclusione. La conclusione giustifica il racconto, perché è il momento in cui
l’ascoltatore vede o crede di vedere il significato o la morale della storia. Nei ritagli nel
Novellino il modo usuale è quello di concludere la novella con un motto o con una
risposta arguta che risolve un contrasto. Anche dove si tratta di ritagli da romanzi
noti, come nella novellina LXV, che riassume un episodio del Roman de Tristan di
Béroul, la conclusione cade dove si ricompone un conflitto – e in questo caso si tratta
del conflitto tra Tristano e re Marco, ricomposto grazie ad un “savio avedimento”
(sotterfugio). La nota finale sul “savio avedimento”, che è l’inganno della regina Isotta
per nascondere al marito il proprio adulterio con Tristano, funge da morale e da
insegnamento. In questo senso produce l’effetto illusorio d’una conclusione.
Il carattere esemplare del Novellino sta in una fine arte del racconto scritto: arte del
ritaglio e della miniaturizzazione di episodi già narrati nei libri. Questi sono spunti che
(come dice il prologo) il lettore di “cuore nobile e intelligenzia sottile” può usare per
farne a sua volta dei racconti offerti a chi desidera istruirsi. Il fasto rituale delle
novellette sta in questo “sapere” racchiuso nell’involucro del “bel parlare”, come un
monile o un anello che racchiuda un motto sapienziale. La miniaturizzazione dei
racconti consiste nella loro brevità, che racchiude i “fiori del parlare”, le “belle
risposte” e le “cortesie” vantate nel prologo. Ecco il senso della riduzione d’ogni
frammento libresco a un nucleo minimo di parole, quelle strettamente necessarie per
creare l’effetto del racconto concluso. In alcuni casi basta addirittura una frase a far
tutto, come a esempio nella novella XVII: “Pietro tavoliere [mercante], fu grande
uomo d’avere [fu uomo molto ricco], e venne tanto misericordioso [e divenne così
caritatevole] che ‘mprima tutto l’avere dispese a’ poveri di Dio [che dapprima diede
tutte le sue ricchezze ai poveri], e poi, quando tutto ebbe dato, et elli si fece vendere
[dopo aver tutto dato, si mise in vendita come schiavo], e ‘l prezzo diede ai poveri
tutto” [e diede il ricavato ai poveri]. La consecuzione dei fatti qui culmina in ciò che
noi chiameremmo un colmo, il “più di così non si può”, ossia un comportamento
impensato o impensabile – il mercante che vende perfino se stesso per dare il
guadagno ai poveri. Il che fa l’effetto d’una conclusione, perché è come se il pensiero
non potesse procedere oltre e dovesse fermarsi a riflettere. Questo è un modo di
usare e incanalare sparsi pezzi di racconto, mescolando motivi che vengono da fonti
diverse, come succederà spesso nelle future novelle. Altrove può trattarsi d’un
paradosso, d’una burla, d’un inganno; ma l’arte novellistica dell’effetto conclusivo
tocca sempre qualcosa che dà l'idea dell’eccesso, del colmo, dell’imparagonabile, e
che ci lascia sospesi in uno stato di stupore o di meraviglia.
6. Giochi di variazioni.
Il carattere misto dei materiali novellistici, senza limiti precisi tra la forma scritta e
orale, è stata la grande spinta vitale della novella; perché attraverso i motivi narrabili
che passavano da un narratore all’altro senza nessuna sorveglianza nascevano
variazioni imprevedibili. Un motivo novellistico tra i più diffusi è quello della donna
malmaritata. con marito stupido e geloso, la quale risolve la situazione accoppiandosi
con un amante simpatico. Questo tema trova una notevole variante in una novella di
Sermini, dove la donna per sottrarsi al marito beve una pozione che la fa sembrare
morta (Novelle, 1). Qualche decennio più tardi ritroviamo il motivo della pozione in
una novella di Masuccio, ma applicata a un altro tema diffuso, quello dei due
innamorati ostacolati dalle famiglie (Novellino, 33). Nel secolo seguente il racconto è
rielaborato da Luigi Da Porto, nella lunga novella di Giulietta e Romeo (Storia di due
nobili amanti): novella poi ripresa da Bandello (Novelle, II, 9), per finire attraverso
altri passaggi nella mani di Shakespeare. L’esempio mostra come un motivo narrabile
si ri-orienti di continuo, perché il fatto stesso di circolare lo traduce in una serie di
variazioni di cui non conosciamo i margini precisi – infatti niente ci assicura che non ci
fossero versioni orali con orientamenti ancora diversi, rispetto a quelli noti. Tutto
questo è lontano dal nostro modo di pensare, perché per noi ogni racconto
corrisponde necessariamente ad un testo unico, chiuso entro i limiti dello spazio
scritto. La novella invece si dichiara sempre come racconto d’un racconto, udito dal
narratore che lo ripete per noi. Questa è la differenza della novella rispetto ai racconti
moderni: nella novella non esiste l’idea del racconto originale, il racconto d’autore
come lo intendiamo ora, bensì quella d‘una ripetizione con continue varianti. Ed è
come in musica: un motivo implica sempre certe variazioni secondo lo stile di chi lo
esegue. Viceversa, i racconti moderni sono concepiti come parte di una testualità
fissa, in cui parrebbe che la lingua si fosse già tutta oggettivata e purificata nella
scrittura. Il risultato è un narrare chiuso, come immunizzato e sottratto
all’incontrollabile circolazione delle parole.
7. La compagnia d’ascolto.
Nell’anonimo Novellino duecentesco si legge che il libro tratta di “fiori del parlare, di
belle cortesie e belle risposte”. La novella nasce come sviluppo di cerimonie cortesi ed
è largamente modellata sui modi del dialogo nei testi medievali. Boccaccio ha
elaborato quei cerimoniali con la cornice in cui sono incassati i racconti: ossia la storia
di sette donzelle e tre giovani fiorentini che vanno in campagna per sfuggire alla peste
e si raccontano novelle a turno per dieci giorni. Quella è la compagnia d’ascolto, da cui
si sviluppano dialoghi e commenti alle storie narrate; e che ci dà il senso d’entrare in
un luogo di amichevoli conversarî, dove il dialogo cortese si mescola alla
conversazione urbana, arguta, libera da censure dogmatiche. L’innovazione di
Boccaccio sta nell’usare gli schemi di conversazione per amalgamare materiali
narrativi eterogenei sul filo del discorso. E come avviene nelle conversazioni, anche
qui ognuno ha un turno di parola per raccontare una storia; poi ogni storia fa venire in
mente qualcosa di simile a un altro narratore e si creano catene di storie su temi
simili. Dopo Boccaccio, è Masuccio Salernitano che porta l’impianto conversativo delle
novelle alla forma più stilizzata. Il suo Novellino distingue le fasi del turno di parola,
dividendole in un esordio sotto forma di presentazione oratoria della novella per
definirne il tema o lo scopo morale, in una narrazione e infine in un commento
conclusivo dell’autore. È un modo per presentare gli schemi di conversazione come un
cerimoniale, con cui la merce pregiata dei racconti trova un fasto che li esalta,
portandoli all’altezza dei romanzi cortesi, con racconti che sembrano imitare le
illustrazioni miniate di quei libri. E già nel prologo, detto Parlamento de lo autore al
libro suo, l’immagine del libro di novelle come una nave incantata ricorda la nef de
joie e de deport dei romanzi arturiani, scena d’una conversazione favolosa su temi
d’amore e di svago.
9. Shahrazad
Le novelle iniziavano sempre con tempi indefiniti come l’imperfetto, che è una
temporalità di scorcio, nel vago della lontananza: “Fu già in Siena uno dipintore, che
avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana…” (Sacchetti,
Trecentonovelle, 84). E' la forma più antica di racconto, ed è il tipico attacco delle
fiabe: “C’era una volta…” L’imperfetto sospende tutto nell’atto del dire, del narrare, ed
è questo che produce un alone immaginativo nelle parole; una specie di in illo
tempore come quello dei racconti mitici. Le novelle passano ai tempi puntuali quando
si tratta d’un fatto che rompe un tran tran consueto: “Avvenne un giorno che…” Ma
anche le vicende intermedie hanno una temporalità di scorcio, finché si arriva al punto
memorabile della storia. Questo è sempre presentato con un tempo puntuale, il
passato remoto, passato assoluto che accentua la tensione del racconto. Andreuccio
da Perugia, ingannato dalla Siciliana, caduto nella discarica di escrementi, si ritrova di
notte nel vicolo e “cominciò a batter l’uscio e gridare; e tanto fece così che molti
circostanti vicini desti, si levarono.”(Dec. II, 5). Con questo tempo verbale il racconto
diventa più teso; ma è una scena dove niente è spiegato, niente descritto; l’azione in
corso è appena accennata; e qui “immaginare” vuol dire più che altro riconoscere un
movimento di ombre verso cui la nostra attenzione è attratta, e con cui si produce una
sospensione più netta del tempo vissuto – dove il telefono non suona più per noi, e
rumori del traffico nella strada accanto non arrivano più al nostro orecchio. Altro
esempio: la scena dove Nastagio degli Onesti vede sopraggiungere la donna ignuda
attaccata dai cani e dal cavaliere nero nella pineta di Ravenna (Decamerone, V,8):
quella pineta è un “là” ipotetico che ci costringe a uno sforzo immaginativo per
figurarci l’improvviso confluire dell’aldilà e della vita terrena in un’unica scena. Non c’è
nessuna descrizione d’ambiente; c’è solo lo slancio del dire, del narrare, che crea una
sospensione dove balenano fantasmi imprecisati, ma sufficienti per produrre
quell’altra sospensione che consiste nel dimenticare se stessi.
I racconti che mirano alla sospensione del tempo hanno bisogno di cerimonie d’avvio,
con l’anda d’un bel parlare che crea l’effetto d’un tempo indefinito - non il tempo dei
fatti, ma quello del dire e del narrare. Nella novella di tipo boccaccesco, era questa la
funzione dell’esordio, sempre stilisticamente elevato, che creava l’atmosfera del
racconto: “Ornate donne e amorosi giovani, io voglio, [in] scambio di ridere, farvi con
la mia favola meravigliare” (Grazzini, Cene, 9). L’esordio serviva a mettere
l’ascoltatore al corrente del tenore della novella narrata, colmando le distanze - come
quando s’invita qualcuno a casa propria e la cerimonia dell'accoglimento abolisce
l’estraneità. Le narrative moderne aboliscono i cerimoniali e fanno un lavoro inverso:
partono da un'estraneità del lettore, che dovrà scoprire da solo di cosa si parla e cosa
succede, come se si ritrovasse di colpo in un paese sconosciuto. Ad esempio il Mastro-
don Gesualdo di Verga (1889), tra i più grandi romanzi europei del suo secolo,
comincia con il fuoco nella notte in casa Trao: le urla, il subbuglio, i vicini che
accorrono, i salvataggi. Ma noi non sappiamo chi siano questi Trao, non sappiamo
niente dell'ambiente e della storia. E' vero che poi tutto sarà chiarito, gli antecedenti
saranno dipanati; ma davanti a quell'inizio il lettore si trova come se piombasse in uno
stato d’emergenza. Non viene guidato cerimonialmente nel racconto, ma catapultato
nei fatti. L’inizio di Mastro-don Gesualdo è uno straordinario esempio di narrativa
moderna che porta in sé qualcosa vicino a una sintomatologia d’origine: quella
dell’estraneità dell’individuo moderno rispetto al proprio ambiente. In ciò si vede il
segno della vita urbana, degli individui che si sfiorano per strada in mutua lontananza,
ognuno chiuso nel proprio guscio. La situazione in cui piomba il lettore con il fuoco in
casa Trao dà subito l’idea d'una dimensione di vita dove tutti diventeranno estranei
rispetto a tutti gli altri. Premonizione formidabile sui tempi a venire, fino all'immagine
di don Gesualdo solo nella sua stanza, malato, isolato, che ascolta da lontano le voci
del mondo.
Due cose adunano lo sparso mondo delle novelle, facendone una narrativa senza
precedenti: il Decamerone, lettura di riferimento per più di tre secoli, e la passione del
dialogo e dello scambio, propria d’una classe dedita agli scambi, quella dei mercanti.
Protagonisti di centinaia di novelle, i mercanti sono una razza di gente pratica, pronta
a tutti gli incontri, che sa aderire all’eterogenea sostanza del mondo. “Conviene nella
moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi”, dice Boccaccio a conclusione
del Decamerone. È il principio dell’ibridismo novellistico, e va assieme a un’idea della
vita terrena come variabilità e mutevolezza, che richiede perpetui adattamenti,
negoziati e scambi. Questo si applica alle trame novellistiche, dove la sorpresa viene
dall’eterogeneità degli incontri e casi, che producono continui ribaltamenti delle
situazioni. Lo schema elementare nelle favole e novelle consiste nel porre una
situazione e ribaltarla. Poi possono esserci due ribaltamenti, in andata e in ritorno,
come nella novella di Andreuccio, che va a Napoli per affari; è truffato dalla Siciliana,
perde i soldi; ma nell’avventura notturna trova l’anello dell’arcivescovo, recupera i
soldi e torna a casa ricco. Possono esserci ribaltamenti plurimi: Landolfo Rufolo, ricco
mercante, parte per fare affari, questi vanno male; allora lui si fa corsaro; di nuovo
ricco; catturato dai genovesi, di nuovo in disgrazia; ma la nave fa naufragio; lui si
trova a galleggiare su una cassa di gioielli, di nuovo ricco (Dec. II, 4). Può esserci il
ribaltamento paradossale: Ser Ciappelletto, ateo, ladro, sodomita, bugiardo, alla fine
fatto santo (Decamerone, I, 1). L’eterogeneità dei casi si coniuga con una ontologia
del mutevole, cioè con l’idea d’una perpetua instabilità negli stati di cose. “Considero
le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma essere sempre in mutamento”
(Decamerone, Conclusione). Questa concezione è la molla di tutti gli alti e bassi che
animano le trame novellistiche. La minaccia del mutevole incombe sulle ricchezze,
sugli amori, sugli affari, ed è personificata dalla figura mitologica della Fortuna: “Ma la
fortuna, nemica de’ beni umani, disturbatrice dei piaceri terreni, contraria alle voglie
dei mortali…” (Grazzini, Cene, II, 6). Al centro di questo universo sempre in altalena,
c’è il simbolo della Ruota del Tempo, dove ciò che è in alto è destinato a cadere in
basso, e viceversa: “Mirabile certamente è la instabil varietà del corso della nostra vita
[… ] Vedrai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai
caduto con rovina ne l’abisso delle estreme miserie” (Bandello, Novelle, III. 68).
Questo è un mondo dove, nell’eterogeneo flusso di situazioni e casi disparati
(“l’instabil varietà”, dice Bandello), niente è mai del tutto in salvo; dunque un mondo
con un alto tasso di imprevedibile. Il che ha una conseguenza sulle trame: quella degli
effetti di meraviglia, prodotti dai prodigi, dalla violenza o dalle stranezze del fato.
Le sorprese con meraviglia sono punti con un tacito risvolto numinoso, come
paradossi della sorte, esempi dell’instabile Ruota del Tempo che porta con sé
l’impensato o l’impensabile. In una novella alla quarta giornata del Decamerone, c’è la
ragazza Isabetta innamorata del suo Lorenzo. Poi i suoi fratelli glielo uccidono, allora
lei prende la testa di Lorenzo e la mette in un vaso assieme a una pianta di basilico,
pianta che ogni giorno irrora con le sue lacrime. Dopo di che: “Il basilico divenne
bellissimo e odorifero molto” E’ un passaggio che ricorda i crolli patologici con
fissazioni ossessive, ma anche le forme di destino tragico con metamorfosi nei miti
greci: come il destino di Dafne, di Progne e Filomela, che l’eccesso del soffrire
trasforma in un lauro, in una rondine e in un usignolo. Simile è la metamorfosi dove
Isabetta, da normale ragazza innamorata si trasforma in un mostro del dolore; dopo
di che fa fiorire il basilico con le sue lacrime. Altro eccesso del soffrire che produce una
mutazione naturale impensata. La meraviglia riflette un colmo emozionale, un
traboccamento verso la dismisura, verso la soglia del non umano o d’una follia
arcaica, con il senso dell’uomo travolto dalla violenza inconsulta del fato. L’effetto di
meraviglia esiste anche sul versante comico. La prima novella del Decamerone, quella
su Ser Ciappelletto, concentra il gioco delle sorprese precisamente su un effetto di
meraviglia. Le attese dipendono dalla presentazione di Ser Ciappelletto come
bugiardo, ateo, falsario, ladro, bestemmiatore, assassino e sodomita; mentre la
sorpresa spunta a metà racconto, nella sua confessione col frate, dove il suddetto si
spaccia per ferventissimo credente. Questo diventa poco a poco un punto d'eccesso,
perchè ad ogni battuta di Ser Ciappelletto si va oltre tutte le aspettative, e ogni volta
spalanchiamo gli occhi per il crescendo delle sue invenzioni da falsario, fin quando
sappiamo che è diventato un santo del luogo. E’ il colmo che un tipo come lui sia
canonizzato come santo, ed è un punto d'eccesso paradossale che corrisponde sul lato
comico all’eccesso del dolore di Isabetta. Le sorprese con meraviglia hanno questo
tacito risvolto: come mutazioni paradossali che portano verso un divenire impensato o
impensabile. La novella non sorprende con i fatti narrati ma con le metamorfosi
dell'impensato. Ricordo quella novella di Basile, nella prima giornata del Cunto de li
cunti, dove la moglie del re riesce a ingravidarsi con una pozione magica, ma per i
fumi della pozione si ingravida anche la serva, e si ingravidano perfino i mobili, i
tavoli, gli armadi, che partoriscono degli armadietti e dei tavolini. Questa mi sembra la
sintesi paradossale degli effetti impensati di meraviglia, una tendenza al
metamorfismo generale.
Lo spirito della novella è lo spirito della beffa, e la beffa, la burla, l’inganno sono
innanzi tutto racconti per corbellare qualcuno. Calandrino è la figura boccaccesca del
corbellato per eccellenza, e appena sente dire che nel paese di Bengodi v’è una
montagna di parmigiano e un fiume di vernaccia, è subito preso all’amo dalle parole.
Poi va in cerca della pietra che rende invisibili, con i suoi soci beffardi Bruno e
Buffalmacco, i quali fingono di non vederlo più; sicché lui, credendosi invisibile,
quando torna a casa e s’accorge che sua moglie lo vede benissimo, la vuole
ammazzare di botte perché crede gli abbia rovinato la magia (Decamerone, VIII, 3). Il
centro di questi racconti è l’eccesso di stupidità, che si porta dietro la profanazione
comica di ciò che la stupidità accetta supinamente. Ad esempio: Puccio, a forza di
sentir prediche, vuole diventare santo; al che un monaco promette di aiutarlo e gli
prescrive certe penitenze, dove Puccio si consuma in digiuni, mentre il monaco in
un’altra stanza prende piacere con sua moglie (Decamerone, III, 4). Lo spirito della
novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su un generale inganno: l’inganno
delle parole per spacciare come dogmi le rimasticature di ciarle, i castelli di panzane, i
panegirici di frottole, le prediche dei preti per inebetire le folle o le invenzioni dei frati
per sfogare le voglie carnali. Ed ecco una storia su questi temi: un abate convince
Ferondo di esser morto e già arrivato in purgatorio, dove lo trattiene per un po’ con
belle invenzioni, per godersi intanto sua moglie. Quando poi Ferondo miracolosamente
resuscita, va in giro a raccontar alla gente “novelle sulle anime dei loro parenti” e “le
più belle favole del mondo de’ fatti del purgatorio”, e “la rivelazione statagli fatta per
la bocca del Ragnolo Braghiello [L’angiolo Gabriello]” (Decamerone, III, 8). Sono
esempi di inganni delle parole, dove non c’è più divario tra ingannatore e ingannato:
le fole dell’uno producono le panzane dell’altro, e tutto scivola nella generale tendenza
degli uomini ad essere presi all’amo dalle chiacchiere. Questa vertigine generalizzata
produce mostri, perchè il mondo così pesantemente inquadrato dalle ciarle è simile a
quello di Ferondo quando parla del purgatorio, e ogni ciarla diventa un raggiro del
proprio simile, rintontito dalle parole.
Nel Decamerone una buona metà delle novelle parla di inganni, raggiri, eccessi di
stupidità, effetti comici delle burle. Questa è materia privilegiata di racconto, quasi
l’immaginario allo stato puro, paragonabile solo a quello dei poemi cavallereschi, come
volo di testa. Ma la massa dei creduli e ottusi che popolano queste novelle fa anche
pensare a uno stato di idiozia diffusa nell’umanità. Dante parlava della “mente” come
parte superiore dell’anima, dove si colloca la virtù intellettiva; e diceva che molti
paiono essere del tutto privi di tale facoltà, perciò sono chiamati “amenti e dementi”
(Convivio, III, ii, 19). Va anche ricordata la novella boccacesca su Guido Cavalcanti, il
quale, trovandosi un giorno presso una chiesa dove sono delle arche sepolcrali,
accerchiato da una banda d’amici intenzionati a trascinarlo con loro, risponde: “Voi mi
potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. Poi, con un salto da “uomo leggerissimo”,
scavalca l’arca e se ne va. La sua battuta viene spiegata dal capo brigata così: egli ha
voluto dire che “noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazione di lui
e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo [presso
le arche sepolcrali], siamo a casa nostra” (Decamerone,VI, 9). La nozione di “uomini
morti” è simile a quella di Dante, il quale, parlando di chi non segue nessuno studio o
disciplina, diceva: “è morto [come uomo] ed è rimasto bestia” (Convivio, IV, vii, 14).
La battuta ha senso anche in rapporto alla filosofia averroista di cui Guido è stato
studioso, e dove uno dei punti critici era la proposizione “Homo non intelligit” – da
intendere: chi comprende non è il singolo, ma l’intelletto generale che raduna tutti gli
uomini. Ciò implica che dove non vi sia uno sviluppo mentale per risalire dai propri
fantasmi immaginativi alle forme dell’intelletto generale, l’uomo resta un “uomo
materiale”, “semplice” o “grosso”, come si diceva nelle novelle. Dai “dementi” di
Dante agli “uomini morti” di Guido c’è la linea d’un dubbio sulle facoltà umane, che
tocca una vasta zona del pensiero d’epoca. È anche il senso riposto delle beffe: come
è possibile che un Calandrino sia detto uomo razionale? Lo spirito della novella ha
l’aria d’un umanesimo ribaltato, che anziché convincerci che umanità e razionalità
sono la stessa cosa, ci mette nella posizione di cogliere la formula della loro massima
distanza (“Homo non intelligit”).
La figura comica più proverbiale nella storia della novella è Calandrino: “uom
semplice”, con una “semplicità” da cui da cui Bruno e Buffalmacco “gran festa
prendevano”. Il semplice deriva dalla figura evangelica dei poveri di spirito destinati al
regno dei cieli, ma qui assume il ruolo di zimbello degli uomini di mente sottile. Sullo
sfondo di queste implicazioni, si profila una strana novella di Sercambi – quella su
Ganfo pellicciaio,“omo materiale e grosso di pasta”, altro semplice tra i più memorabili
(Novelle, 2). Dunque Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve entrare
in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a riconoscermi?” Allora
si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua guarda il segno e si dice:
“Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo segno di croce e lo deposita su
un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e io son tu”. E l’altro per mandarlo al
diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al che Ganfo si crede morto, torna a casa,
si stende sul letto, si lascia mettere nella bara. (Ganfo è sempre come se obbedisse
agli ordini o alle ingiunzioni delle parole, prendendo tutto alla lettera). Poi, mentre lo
portano al cimitero, per strada una cliente gli manda una maledizione, perché gli
aveva portato una pelliccia da riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo
risponde nella bara: “Se io fossi vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”.
Racconto d‘una idiozia misteriosa e assoluta, che ricorda le comiche del cinema muto;
ma dà anche l’idea d’un paradiso dei semplici, essendo peraltro intitolato De
simplicitate. Niente qui indica che l’uomo sia uomo in quanto creatura razionale; al
contrario, c’è una viva incertezza su cosa sia la razionalità, e su quella coincidenza con
se stessi che chiamiamo “io”, nonché sui segni che ci mettiamo addosso per
distinguerci dagli gli altri – parodia dell’identità razionale che tutti perpetuiamo.
Uno degli sviluppi più sintomatici delle burle novellistiche non va cercato nei testi
letterari, bensì nella voga delle beffe cittadine. Erano beffe architettate da artisti d’un
genere quasi teatrale, perché implicavano una messinscena e una recita delle parti per
ingannare la vittima designata. L’esempio più celebre è una beffa organizzata a
Firenze nell’anno 1409, architettata da Filippo Brunelleschi, con una brigata d’artisti e
artigiani fiorentini, e un vasto concorso di comparse. La beffa sarà narrata in molte
versioni, tra cui la più ampia è attribuita ad Antonio Manetti, redatta attorno al 1446,
a cui si dà il titolo di La novella del Grasso legniaiuolo. Vittima designata: “il Grasso”,
artigiano intagliatore, che “aveva un poco del semplice”. Si tratta d’una recita
collettiva per far sì che il Grasso creda d’essere diventato un tal Matteo. Dunque,
quando torna a casa alla sera, una voce che sembra la sua gli grida da dentro:
“Matteo vai via che ho da fare”. Passa un amico e lo saluta: “Buonasera Matteo”. Lui
va in piazza ed è arrestato su denuncia d’un creditore che lo identifica come Matteo.
Si chiede: “Sono forse Calandrino a esser diventato un altro senza accorgermene?” Il
Grasso vede l’ombra della beffa, ma trovando mezza città concorde nel prenderlo per
Matteo smette di far resistenza, per non essere trattato da scemo. Ciò non toglie che
sia travagliato dall’idea d’una possibile metamorfosi di se stesso, e che a momenti
cominci a crederci, stimolato dalle chiacchiere dei suoi persecutori. A un certo punto
gli organizzatori della beffa mandano un prete, ignaro dello scherzo, per convincere il
Grasso a smetterla di credersi il Grasso; e questo prete lo rimprovera per la sua
ostinazione, perché si fa ridere dietro come strambo. Secondo il prete la stramberia si
cura con i buoni esempi: esempi dei “valenti uomini” che con “lo scudo della pazienza”
superano ogni avversità. Qui la beffa retroagisce dalla burla al sempliciotto alla
caricatura di untuose figure delle morale: quelli che incarnano una sicura coincidenza
con sé stessi, ciò che loro chiamano coscienza - col motto incosciente di Ganfo: “io
sono proprio io”. Nella storia del Grasso c’è il senso di un’incursione da parte dei
fantasmi pubblici della morale, i fantasmi d’un “dover essere”, che sconvolgono il
luogo delle immagini della mente e vi impiantano i segni d’un ordine coercitivo
esterno. In realtà è la storia di un’incertezza fondamentale che riguarda tutti, tra
l’idea d’una coincidenza con se stessi e il senso d’una estraneità a se stessi: incertezza
disonorevole, da tenere sempre nascosta, perché somiglia alla pazzia.
Nella schiera dei semplici va inscritto il Mariotto di Grazzini, che faceva ridere tutti con
le sue castronerie, perché “credeva in cose tanto sciocche e goffe” da sembrare
piuttosto una bestia addomesticata che un uomo vero e proprio (Cene, II, 2). E come
il Puccio boccaccesco a forza di ascoltare i frati voleva diventare santo, così Mariotto a
forza di ascoltare prediche non vedeva l’ora di morire - perché gli era stato detto che
“questa vita non era vita, anzi una vera morte“, e invece “chi moriva, di là cominciava
a vivere una vita senza affanni”. Questo è l’avvio del racconto. Dopo di che sua moglie
si prende nel letto un amante; e i due assorti nell’acre piacere dello spasmo genitale
sono seccati dal grullo Mariotto che invoca la morte, per cui decidono di metterlo in
una bara e spedirlo al cimitero. Potrebbe essere una comica come quella di Ganfo, se
non fosse per come si risolve. Grazzini segue la filosofia boccaccesca d’un
determinismo naturale, come quello che produce l’attrazione tra i sessi. Ma in Grazzini
il determinismo tocca tutti i comportamenti umani, come esempi d’una natura
indifferente a qualsiasi ordine morale. E non ci sono santi né eroi; ci sono solo trucidi
e sciocchi; e una vita governata da scelleratezze e sordide mene Ma ecco allora che il
semplice non è più come Calandrino, un balordo marginale rispetto al saldo mondo dei
Bruno e Buffalmacco. Mariotto incarna l’essenza pura della bestialità di questo mondo,
dove niente ha la salda trama del reale, tutto pare un incubo di fantasmi posticci.
Come quando sulla via del cimitero, dopo essersi cacato addosso, lui salta fuori dalla
bara; e a quel punto si capisce che niente è controllabile, tutto svaria e tracolla
nell’insensato. L’acqua dell’Arno prende fuoco, lui resta bruciato in Arno, quasi
obbedendo a un detto popolare fiorentino; e dopo non somiglia più a un uomo, ma ad
un “ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio”. Proprio quella morte comica fa di lui
una figura che spicca tra tutte le maschere d’una bestialità nascosta dietro le norme
dei traffici quotidiani; mentre lui, fin dall’inizio vicino all’essenza della pura bestialità,
morendo regredisce a purissima materia vegetale, come quella da cui nascerà
Pinocchio. E questa mi sembra la conclusione ideale di tutte le leggende novellistiche
sull’idiozia dei “semplici”.
Nel prologo alla prima giornata del Decamerone, Boccaccio annuncia lo scopo delle
sue cento novelle. Queste sono narrate per dare sollievo a chi ne ha bisogno, dice, ma
in particolare alle donne con amori segreti, costrette a nascondere le loro fiamme
amorose e perciò tanto più assillate dai pensieri. Che il narrare sia una cura contro le
tristezze e gli affanni è un’idea antica, che in qualche modo associava l’arte narrativa
a un sapere medico di tipo ippocratico. La novità nell’annuncio di Boccaccio sta
nell’indicare una cura non più rivolta a pratiche e usi esterni, ma alla dimensione dei
pensieri intimi e delle fantasie incontrollabili. La familiarità con tale dimensione è
attribuita soprattutto alle donne, perché più soggette alla reclusione nell’ambito
familiare. Le donne, soggette ai “comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’
mariti,”, chiuse nelle loro stanze, dice l’autore, rimuginano pensieri facilmente inclini
alla malinconia, quando siano mossi o insidiati da forti desideri. Queste turbe sono
l’oggetto della cura novellistica e anche il punto d’intesa con le donne amorose a cui il
libro si rivolge. È un punto d’intesa che si colloca nella sfera intima dei fantasmi
amorosi; ciò che Dante chiama “la secretissima camera de lo cuore”: ossia l’interiorità
come luogo completamente immaginario, e proprio perciò sede di tutti i tremori ed
emozioni del corpo. Nei suoi cenni introduttivi Boccaccio sembra ripercorrere la via dei
poeti provenzali, che usavano la poesia come alleanza segreta con la donna, segno di
amori da tenere nascosti nel luogo immaginario dell’interiorità. Ed ecco le donne con
amori segreti a cui è destinato il libro, che fanno pensare a casi simili nelle storie dei
poeti provenzali, ma anche ai modi di devozione alla donna sviluppate nella lirica
italiana: modi che lo stesso Boccaccio ha ripreso ed esaltato nelle sue precedenti
opere e nei suoi versi. Così il Decamerone recupera la ricerca dei poeti provenzali,
d’un contatto tra genere maschile e femminile che non sia esteriore come quello del
matrimonio. Il mezzo di contatto per i poeti provenzali era la poesia, come alleanza
segreta e intima con la donna, e qui sono queste “cento novelle, o favole o parabole o
istorie che dire le vogliamo” – che nell’ultima pagina l’autore chiama “le mie novelle
per cacciar la malinconia delle femmine”.
Nella novella di Masetto da Lamporecchio, due novizie parlano dell’amore e una dice di
aver udito “che tutte le altre dolcezze del mondo sono una beffa rispetto a quella
quando la femina usa con l’uomo” (Dec. III, 1). Si capisce l’insistenza di Boccaccio
nell’evocare il piacere carnale provato dalle donne. È un richiamo alle “leggi di natura”
da cui il corpo è regolato, e all’amore come una potenza di natura che è “vano voler
contrastare” (Decamerone, IV, introduz.) L’amore visto come “legge di natura”
giustifica l’arbitrarietà degli impulsi sessuali, e di conseguenza giustifica anche le
mogli che sfogano quegli impulsi fuori dal matrimonio. Ad esempio, Madonna Filippa,
denunciata per adulterio, convince i giudici di non aver fatto niente di male, in base a
questo ragionamento: che lei non si è mai negata al marito, ma avendo in corpo
qualche bisogno in più, e non volendo gettarlo ai cani, le è parso giusto prendersi un
amante (Decamerone, VI, 7). In realtà, a una veduta d’insieme, parrebbe che gli
sfoghi carnali delle mogli abbiano poco sapore senza l’inganno ai mariti; perché un
buon venti per cento di novelle presentano mogli che optano per le “dilettose gioie”
con l’amante, mentre il numero di mogli non adultere è veramente minimo in tutto il
libro. Certo, la moglie che gabba il marito con una frottola mentre gode con l’amante,
è un motivo tra i più ricorrenti in tutta la nostra novellistica; ma in Boccaccio prende
un sapore diverso dal solito. Anche nei racconti più vicini alla farsa sessuale popolare,
gli amori muliebri extramatrimoniali nel Decamerone prendono il senso d’una
sovranità che si realizza tramite l’arbitrio; perché i sotterfugi, gli inganni, i
nascondimenti, realizzano l’arbitrio d’un piacere carnale senza più le sorveglianze di
marito o famiglia (Decamerone, VII, 2, 4, 9). Cito la novella di quel marito che si
spaccia da confessore per cogliere in fallo la moglie; ma la moglie gli ribalta l’inganno,
lo mette dalla parte del torto e lo tradisce a piacimento: “Per che la savia donna, quasi
licenziata a’ suoi piaceri [divenuta libera nei suoi piaceri]”, “poi più volte con lui [con
l’amante] buon tempo e lieta vita si diede” (Decamerone, VII, 5). Conclusione con una
strana leggerezza, dove l’arbitrio del piacere sembra l’adesione ad una amicizia tra i
sessi che non ha più niente di esteriore. Ci sono altre novelle che andrebbero studiate
da questo punto di vista. Il piacere degli amanti diventa una sovranità intima,
sottratta alle censure della consapevolezza, per il sotterfugio che rende segreto il loro
piacere. Come nell’esempio di Tristano e Isotta: tenuta segreta, l’amicizia tra uomo e
donna si realizza nella dimensione più immaginaria possibile, che è anche la più
impenetrabile, e perciò ha l’aspetto d’una piena sovranità. Anche questo fa parte dello
spirito della novella, come residuo d’un esperimento mentale tentato dai provenzali, di
cui restano tracce fino alla storia della Montanina di Sermini (Novelle, 1), quella di
Mariotto e Ganozza di Masuccio (Novellino, 33), di Giulietta e Romeo di Da Porto, e
fino a Shakespeare.
24. Coda.