Voglio parlare della scoperta che l’io fa dell’altro. L’argomento è vastissimo. Non appena lo
abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie
e diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno
di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l’io:
l’io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il
mio punto di vista – per il quale tutti sono laggiù mentre io sono qui – separa e distingue realmente
da me. Posso concepire questi altri come un’astrazione, come un’istanza della configurazione
psichica di ciascun individuo, come l’Altro, l’altro o l’altrui in rapporto a me; oppure come un
gruppo sociale concreto al quale noi non apparteniamo. Questo gruppo, a sua volta, può essere
interno alla società: le donne per gli uomini, i ricchi per i poveri, i pazzi per i “normali”: ovvero può
esserle esterno, può consistere in un’altra società, che sarà – a seconda dei casi – vicina o lontana:
degli essere vicinissimi a noi sul piano culturale, morale, storico, oppure degli sconosciuti, degli
estranei, di cui non comprendiamo né la lingua né i costumi, così estranei che stentiamo, al limite, a
riconoscere la nostra comune appartenenza ad una medesima specie. Scelgo questa problematica
dell’altro esterno e lontano, un po’ arbitrariamente e perché non si può parlare di tutto in una sola
volta, per cominciare una ricerca che non potrà mai essere conclusa.
Ma come parlarne? […] Ho scelto di raccontare una storia. Più vicina al mito che
all’argomentazione logica, essa tuttavia se ne distingue sotto due aspetti. Prima di tutto perché è una
storia vera, e in secondo luogo perché il mio principale interesse è più quello di un moralista, che di
uno storico: il presente mi importa assai più del passato. Alla domanda: come comportarsi nei
confronti dell’altro? Non sono in grado di rispondere se non narrando una storia esemplare (è il
genere da me scelto), una storia – dunque – quanto più vera è possibile, ma della quale cecherò di
non perdere mai di vista quel che gli esegeti della Bibbia chiamavano il senso tropologico o morale.
In questo mio libro si alterneranno, un po’ come in un romanzo, le sintesi o vedute d’insieme
sommarie, le scene, o analisi particolari gremite di citazioni; le pause nel corso delle quali l’autore
commenta quanto è accaduto; non mancheranno neppure frequenti ellissi od omissioni: ma non è
questo il punto di partenza di ogni storia?
Delle numerose narrazioni che ci si offrono ne ho scelta una: quella della scoperta e della conquista
dell’America. […] Due ragioni hanno giustificato, a cose fatte, la scelta di questo tema come primo
passo nel mondo della scoperta dell’altro. Anzitutto, la scoperta dell’America, o meglio degli
americani, è l’incontro più straordinario della nostra storia. Nella “scoperta” degli altri continenti e
degli altri uomini non vi fu un vero e proprio sentimento di estraneità radicale: gli europei non
avevano mai del tutto ignorato l’esistenza dell’Africa, dell’India, o della Cina: il ricordo di esse fu
sempre presente, fin dalle origini. […] All’inizio del XVI secolo gli indioamericani sono, invece,
ben presenti, ma si ignora tutto di loro, benché – come c’era da aspettarsi – sugli essere appena
scoperti vengano proiettate immagini e idee relative ad altre popolazioni lontane. L’incontro non
raggiungerà mai più una simile intensità. […]
Ma non solo perché si trattò di un incontro estremo ed esemplare la scoperta dell’America
costituisce un fatto essenziale per noi oggi: insieme a questo valore paradigmatico, essa ne possiede
un altro, direttamente causale. La storia del globo è fatta, certo, di conquiste e di sconfitte, di
colonizzazioni e di scoperte dell’altro; ma è proprio la conquista dell’America che annuncia e fonda
la nostra attuale identità; anche se ogni data con la quale si cerchi di separare due epoche è
arbitraria, nessuna è più adatta a contrassegnare l’inizio dell’era moderna dell’anno 1492, l’anno in
cui Colombo attraversa l’Oceano Atlantico. Noi siamo tutti discendenti diretti di Colombo; con lui
ha inizio la nostra genealogia, nella misura in cui la parola inizio ha un senso.
La città è stata definita “uno stanziamento relativamente grande, denso e permanente di individui
socialmente eterogenei”. Primo requisito, la “grandezza”, vale a dire il numero degli abitanti:
sembra non si debba scendere al di sotto delle 2000 unità. Ma il numero dice poco; esistono, infatti,
agglomerati anche grossi con marcati caratteri rurali; l’importante è il numero e la qualità dei
rapporti tra le persone, che sono frequenti e ravvicinati, ma poco intensi, nel senso che i legami
secondari (contrattuali, formali, istituzionali) tendono a prevalere su quelli primari della parentela e
del vicinato. Infine, l’eterogeneità, cioè la specializzazione e la divisione del lavoro. Un
insediamento siffatto deve essere dotato di ordinamenti direzionali ed è centro erogatore di servizi
commerciali e culturali che non sono presenti nel territorio circostante, territorio con il quale la città
può intrattenere una molteplicità di relazioni.
Tutti questi elementi configurano un tipo particolare di comunità, la quale, se per un verso consiste
in uno speciale modo di stare assieme e comporta un sentimento di affinità e di “patriottismo” (si
pensi alle città greche), per un altro può determinare competizione sociale, emarginazione,
segregazione e, con la segmentazione dei ruoli e la frammentazione delle attività di uno stesso
individuo (lavoro, residenza, tempo libero, servizi, ecc.), superficialità nei rapporti sociali, senso di
isolamento e anonimato (come nelle metropoli contemporanee).
La città è il luogo di confronto e competizione, che da una parte stimolano l’innovazione, dall’altra
educano alla tolleranza; il cittadino dovrebbe infatti essere per definizione aperto e disponibile. La
città è il simbolo della civiltà; non a caso i due termini, città e civiltà, hanno matrice comune (la
civitas latina, la convivenza civile come forma naturale della vita associata), quasi a suggerire che
tutte le altre forme di vita associativa sono, se non proprio incivili, comunque rustiche o rozze.
Fino al Settecento la città è l’eccezione, il tasso di urbanizzazione non supera il 10%. Le cose
cominciano a cambiare nell’Ottocento per i paesi in via di industrializzazione, nel Novecento per i
paesi in via di sviluppo; si prevede che nel 2000 oltre la metà della popolazione mondiale vivrà in
città di almeno 5000 abitanti. Le funzioni della città sono molteplici: politica, religiosa, culturale,
commerciale, industriale, residenziale, turistica; tutte queste funzioni possono combinarsi in
maniera diversa, da rendere vana la ricerca in un comune denominatore.
(R. Marchese, B. Mancini, D. Greco, L. Assini, Stato e società, Firenze, La Nuova Italia, 1991)
6) Nella frase “non a caso i due termini, città e civiltà, hanno matrice comune”, con quale
termine può essere sostituito matrice?
a) Radice
b) Definizione
c) Significato
d) Formazione
10) Quale delle seguenti affermazione ti sembra incompatibile con le riflessioni di fondo
dell’autore?
a) La città è caratterizzata da una molteplicità di funzioni e pratiche che permettono lo sviluppo
di un’individualità tollerante e aperta al prossimo
b) La città costituisce un elemento di arricchimento rispetto alle altre forme di vita associativa,
nonostante fenomeni dolorosi come l’emarginazione o la frammentazione della vita
individuale in molteplici sfere differenti
c) La città è una comunità per la cui definizione non è decisiva la modalità di organizzazione
del lavoro, bensì il numero e la qualità dei rapporti tra le persone
d) La città si è evoluta ed è diventata la modalità prevalente di vita associativa a causa dello
sviluppo e dell’industrializzazione
11) Quale delle seguenti considerazioni ti sembra corrispondere al significato globale del
testo?
a) La grandezza dell’agglomerato urbano, la tipologia di rapporto tra le persone e
l’eterogeneità delle funzioni svolte da una città sono alla base dei comportamenti
contrapposti che in essa coesistono
b) Il numero di abitanti di una città (non al di sotto delle 2000 unità), la densità di popolazione
e l’omogeneità culturale e geografica degli abitanti permettono di definire un agglomerato
urbano come città
c) Le molteplici funzioni di una città (politica, religiosa, commerciale, industriale) rendono
vana la ricerca di una definizione unitaria e definitiva del fenomeno città
d) La competizione sociale, il senso di anonimato dell’individuo emarginato e il logoramento
degli affetti primari sono il prezzo necessario che la civiltà deve pagare per garantirsi
un’elevata qualità materiale della vita
13) Da un punto di vista sintattico come è strutturato il periodo “Sembra non si debba
scendere sotto le 2000 unità”?
a) Principale e soggettiva
b) Principale e oggettiva
c) Principale e dichiarativa
d) Principale implicita
14) A che tipologia appartiene il “che” presente all’inizio del terzo capoverso?
a) Congiunzione subordinativa che introduce una soggettiva
b) Congiunzione subordinativa che introduce una oggettiva
c) Pronome relativo
d) Congiunzione subordinativa che introduce una dichiarativa
15) Che tipo di proposizione è “da rendere vana la ricerca in un comune denominatore”?
a) Finale
b) Causale
c) Limitativa
d) Consecutiva
16) Nella frase “Esistono, infatti, agglomerati anche grossi con marcati caratteri rurali”
che funzione logica svolge “agglomerati anche grossi”?
a) Soggetto e apposizione
b) Soggetto e attributo
c) Complemento oggetto e attributo
d) Predicativo del soggetto
17) Che figura retorica formano nella loro disposizione le parole “confronto e
competizione” e “innovazione e tolleranza”?
a) Iperbato
b) Anastrofe
c) Parallelismo
d) Chiasmo
18) Cosa indicano i due punti in “Le funzioni della città sono molteplici: politica, religiosa,
culturale, commerciale…”?
a) Una spiegazione
b) Un’opposizione
c) Una esemplificazione
d) Una deduzione
19) Nella frase iniziale del brano, che funzione logica svolge “uno stanziamento
relativamente grande, denso e permanente”?
a) Predicativo del soggetto
b) Predicativo dell’oggetto
c) Parte nominale
d) Complemento oggetto
ESERCIZIO 4
1) Che cosa vuole indicare l’autore attraverso le parole del sociologo Durkheim (rr. 2-4) a
proposito dell’oggetto dell’educazione, usando l’immagine della costruzione di “una
sorta di polarità dell’anima”?
a) L’oggetto dell’educazione deve essere la costruzione di un sistema di saperi basati su
argomenti (poli) contrapposti, in modo che l’allievo si abitui a considerare fondamentale
non l’informazione che apprende, ma il processo riflessivo sottostante (la conoscenza).
b) L’anima ha bisogno di un valore morale centrale che le faccia da guida per trasformare le
informazioni in sapienza di vita, e ciò può avvenire con un’educazione orientata secondo la
morale.
c) È possibile costruire nell’anima, con l’educazione, un’attitudine metodologica di fondo che
le permetta di acquisire, a partire da questo “polo” interiore, la maggior quantità di
conoscenze possibili.
d) L’anima ha bisogno di una sorta di centro magnetico e di un equilibrio che le permettano di
affrontare la vita, e tale centro deve essere formato con una opportuna educazione.
2) In che senso si parla di “trasformazione, nel proprio essere mentale, della conoscenza
acquisita in sapienza” (r. 5)?
a) La conoscenza, dopo un’adeguata verifica empirica, può essere detta “sapienza”.
b) La conoscenza, che ha carattere solo teorico, deve invece divenire una sorta di saggezza in
grado di direzionare l’anima nella vita di tutti i giorni.
c) La conoscenza, una volta acquisita, deve solidificarsi nel centro dell’anima, in modo da non
poter più essere dimenticata e divenire così “sapienza”, cioè bagaglio culturale inteso come
possesso permanente dell’individuo.
d) La conoscenza non deve essere soltanto vissuta come il momento dello studio, ma deve
essere incorporata nella propria vita tramite la poesia, l’arte, il cinema ecc.
3) Che cosa significa che letteratura, poesia e cinema devono essere considerati “scuole di
vita” (r. 15)?
a) Essi devono essere analizzati con metodo scientifico, in modo da far emergere la struttura
logica intrinseca all’opera d’arte.
b) Si tratta di discipline che servono al processo di crescita e trasformazione dell’individualità.
c) Devono essere finalizzate alla formazione di un’intelligenza non solo nozionistica o
disciplinare, ma capace di operare e comprendere problemi di qualsiasi sfera del sapere.
d) Risultano utili alla vita dell’individuo, poiché la semplificazione della complessità della vita
umana, operata grazie alla sua riproduzione condensata nell’opera d’arte, risulta
fondamentale per permettere un solido orientamento nella vita stessa.
4) Quale delle seguenti sintesi è pertinente rispetto ai contenuti del capoverso sulle
“Scuole della comprensione umana” (rr. 43-50)?
a) Mentre nella vita quotidiana comprendiamo le persone soltanto oggettivamente, attraverso i
personaggi del cinema e dei romanzi percepiamo tutta la complessità dell’anima, ovvero
l’aspetto soggettivo degli altri.
b) Attraverso film e romanzi, a differenza della superficiale percezione degli altri che abbiamo
quotidianamente, riusciamo a comprendere le persone sia nella loro complessa interiorità sia
nel loro agire sociale.
c) Attraverso film e romanzi comprendiamo l’aspetto soggettivo e oggettivo delle persone, nel
senso che ci possiamo mettere dal loro punto di vista (soggettività), anche se i personaggi
sono pur sempre oggetti di fronte allo spettatore o al lettore (oggettività).
d) Mentre nella vita quotidiana si percepiscono, se pur esteriormente, le persone reali, nelle arti
si comprendono l’aspetto soggettivo e quello oggettivo dei personaggi, che però non
rappresentano la realtà umana bensì una proiezione virtuale.
5) Quale delle seguenti affermazioni ti sembra conforme al pensiero di Morin?
a) Le conoscenze disciplinari specifiche costituiscono l’unica via percorribile dall’uomo
odierno per poter affrontare la complessità della vita.
b) La conoscenza pertinente è quella che progredisce scientificamente attraverso la
formalizzazione e l’astrazione.
c) Ovunque, nelle scienze come nei media, siamo sommersi dalle informazioni; la gigantesca
proliferazione di conoscenza sfugge al controllo umano, che in realtà ha bisogno di
formazione più che di informazione.
d) La cultura umanistica è spesso ornamento: pur comportando la percezione del lato
soggettivo e oggettivo delle altre persone, resta incapace di sviluppare l’intelligenza
generale che la mente umana applica ai casi particolari.
6) La proposizione “Scuole della lingua, che rivela tutta la sua qualità e possibilità
attraverso le opere di scrittori e poeti” (rr. 16-18), in rapporto alla parte di testo che la
precede
a) Risulta in contraddizione, in quanto si dichiara che l’adolescente deve appropriarsi del
linguaggio delle arti, dopo che è stato affermato che le arti non devono essere considerate
come analisi del linguaggio.
b) Risulta la conclusione del seguente ragionamento: devono esistere scuole umanistiche
centrate sul linguaggio, perciò devono esistere “scuole della lingua”.
c) Esplicita i molteplici sensi di un approccio alle arti volto non alla conoscenza ma alla
sapienza.
d) Declina un primo significato dell’espressione “scuole di vita”.
7) Cosa introducono i due punti del r. 11 rispetto alla frase precedente?
a) Una spiegazione
b) Un elenco
c) Una deduzione
d) Un’induzione
8) Qual è il significato dell’espressione “emozione estetica” (r. 19)?
a) Sentimento suscitato dalla bellezza e atto a comprendere poeticamente la vita.
b) Sensazione di compenetrazione con la totalità delle cose, suscitata da letteratura e cinema.
c) Senso di compenetrazione con l’opera d’arte che provoca una sensazione fisica nel fruitore.
d) Sensazione data dall’intuizione intellettuale del significato dell’opera d’arte.
9) Perché l’autore mette tra virgolette l’espressione “esperienze di verità” (r. 23)?
a) Per sottolineare la labilità del concetto
b) Per esprimere l’ironia implicita nell’idea che le arti possano condurre alla verità.
c) Per specificare il significato della proposizione precedente
d) Per sottolineare che effettive “esperienze di verità” si possono dare solo in senso metaforico
10) Che cosa significa la parola “semiotica” (r. 14)?
a) Scienza delle lingue semitiche
b) Scienza dei segni che servono per la comunicazione
c) Metodo di analisi delle proposizioni intese come “semi” di una totalità che è il testo
d) Metodo d’analisi sintattica proprio della scienza filologica
11) Quale accorgimento retorico è attuato nella sequenza di frasi che costituiscono il corpo
centrale del capoverso dedicato alle “Scuole della complessità umana” (rr. 27-42)?
a) Anafora
b) Parallelismo
c) Accumulazione
d) Perifrasi
12) Quale fenomeno linguistico è presente nella forma “qual è” (rr. 6-7)?
a) Apocope
b) Elisione
c) Ellissi
d) Assimilazione
13) Cos’è da un punto di vista di analisi del periodo la frase: “per illuminare ciascuno sulla
propria vita” (rr. 40-41)?
a) Consecutiva
b) Finale
c) Causale
d) Strumentale
14) Che funzione sintattica ha il “che” del penultimo rigo?
a) Soggettiva
b) Relativa
c) Dichiarativa
d) Oggettiva
15) Nella frase “La cultura umanistica deve divenire una preparazione alla vita”, quale
funzione logica svolge “una preparazione”?
a) Complemento oggetto
b) Complemento predicativo del soggetto
c) Complemento predicativo dell’oggetto
d) Complemento di qualità
16) Che preciso significato ha il verbo “inizia” del r. 28?
a) Cominciare
b) Aiutare
c) Introdurre
d) Favorire
17) Al r. 39 si trova la parola “scacco”: cosa significa?
a) Sconfitta
b) Vergogna
c) Umiliazione
d) Offesa
18) Che funzione grammaticale ha il “si” in “si riconoscono” del r. 33?
a) Riflessiva
b) Passivante
c) Impersonale
d) Pronominale
19) Cos’è grammaticalmente “devono essere considerati” del r. 13?
a) Un verbo servile con un infinito presente passivo
b) Un verbo fraseologico con un infinito passato passivo
c) Un verbo servile con un infinito passato attivo
d) Un verbo fraseologico con un participio passato
20) A quale tipologia testuale appartiene il presente brano?
a) Testo narrativo
b) Testo argomentativo
c) Testo descrittivo
d) Testo normativo