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Orazio

Quinto Orazio Flacco visse nell’età di Augusto, in particolare tra il 65 e l’8 a.C. Sappiamo molto riguardo la
sua vita perché molte notizie ci arrivano dai carmina, in particolare dalle satire, nelle quali troviamo diverse
notizie riguardo i suoi amici e la sua famiglia. Nacque a Venosa, colonia romana, in Basilicata. Era di umili
origini, suo padre era un liberto ovvero uno schiavo che era riuscito ad ottenere la libertà, e traferitosi a
Roma, aveva intrapreso varie attività da poter mantenere in modo abbastanza agiato la sua famiglia.
Orazio andrà a scuola a Roma e poi ad Atene, dove studiò oratoria e filosofia. A Roma frequenta persone
di spicco, in particolare Bruto e Cassio, dai quali rimane affascinato, tanto da sostenerli partecipando alla
guerra di Filippi (42 a.C.). combatté come tribunus militum, e gli viene affidato il compito di guidare una
parte dell’esercito. Troviamo testimonianza di ciò negli Epòdi, e in particolare in un’ode nella quale
confessa di essere fuggito e di aver abbandonato lo scudo, riprendendo questo concetto dal poeta greco
Archiloco, anche se si presume che quest’ode potrebbe essere fittizia e abbia come intento solo quello di
richiamare il poeta greco. Persa la guerra Orazio rientrò a Roma dove cercò di mantenersi svolgendo dei
lavori nella burocrazia poco ambiti fino a quando nel 38 a.C. Orazio entrò a far parte nel circolo di
Mecenate grazie ai suoi amici, in particolare grazie a Virgilio. Nel circolo riuscì a stringere amicizia con
Mecenate e Augusto stesso, a cui dà la sua piena adesione come possiamo evincere da alcune sue opere.
Gran parte della sua produzione infatti è celebrativa, quindi celebra la grandezza e l’importanza di Augusto
e in parte di Roma. Scrisse varie Epistole per Augusto stesso e sono scritte come una forma d’arte, molto
lontane da quelle di Cicerone nelle quali lui aveva scritto anche le sue emozioni e le sue debolezze. Quelle
di Orazio erano destinate a persone importanti, una per Augusto per esempio. Augusto era molto grato ad
Orazio tanto che gli dà l’onore di comporre il Carmen Seculares nel 17 a.C. Questa era un’ode pubblica in
quanto veniva cantata da 27 fanciulli scelti dalle migliori famiglie durante i ludi seculares, ossia una
celebrazione religiosa in cui si festeggiava il passaggio da un secolo all’altro. Augusto era riconoscente ad
Orazio tanto che gli dà l’incarico di comporre quest’ode officiale, la cui composizione esalta Roma e
Augusto, in maniera molto celebrativa. Fra le odi celebrative ricordiamo sei odi che fanno parte del terzo
delle odi.

Le Satire
Le satire sono dei componimenti poetici in esametri, perché così prevedeva il genere letterario, e sono di
carattere narrativo o dialogico con una forte presenza soggettiva. In questi componimenti lui parte da un
evento personale dell’autore per fare poi un ragionamento più globale. Le satire affrontano varie tematiche
trattano di letteratura ma anche della propria vita, sono presenti invettive contro i suoi nemici, ma la
componente fondamentale è il fatto che siano soggettività. Non si riesce a trovare una tematica precisa,
infatti la caratteristica principale è la varietas, la grande varietà tematica, ma non stilistica. Uno degli
obiettivi della satira è quello di denunciare il vizio e il malcostume della società romana del tempo. Il retore
ed oratore Quintiliano definisce le satire come un’invenzione letteraria prettamente romana tanto che
afferma “satura tota nostra est”, secondo lui questo è l’unico genere in cui sono i romani a dettare le regole
e non i greci. L’etimologia della parola satira è incerta, e può essere ricondotta o al termine satura lanx,
ossia un piatto di primizie per gli dei, o la satura lex, ossia una legge che al suo interno conteneva varie
proposte. L’elemento comune di queste due teorie è la varietas, ma oggi si tende a collegare il termine
satira ai satiri perché la componente comica non è molto presente, quindi si ritengono più attendibili le
prime due. Il genere satirico si articola in due fasi: una prima poco nota, rappresentata da Ennio e Pacuvio,
che ha il suo elemento distintivo nella grande varietà di temi; una seconda fase, che inizia con Lucilio,
autore del II secolo a.C. Nelle sue opere è fondamentale l’aggressività, infatti sono ricche di invettive con
toni duri, la soggettività, la tendenza all’attacco personale è l’uso dell’esametro.
Orazio scrisse due libri di satire il primo di carattere narrativo mentre il secondo di carattere dialogico. Nel
primo libro c’è il racconto e il poeta parla in prima persona esponendo i propri giudizi con eleganza, nel
secondo c’è un dialogo tra vari personaggi, lui compreso. Il punto di vista del poeta nelle ultime satire del
libro II è sempre meno chiaro perché la sua figura tende a scomparire, quindi ci sono i vari personaggi che
discutono e Orazio rimane nell’ombra per far sì che il pubblico riesca a riflettere tramite le posizioni dei
personaggi ma i dialoghi hanno sempre un tono garbato. Orazio crede che l’inventore del genere satirico
sia Lucilio, che a sua volta prende spunto dalla commedia greca, riproponendo delle caratteristiche quali la
denuncia dei costumi e l’attacco nei confronti di un vizio non solo in generale, ma anche nei confronti delle
singole persone, spesso influenti dell’epoca. Delle opere di Lucio Orazio apprezza la sincerità, la
franchezza con cui denunciava anche dei personaggi pubblici e la semplicità nel comunicare con il suo
pubblico ma ne critica alcuni aspetti quali la componente aggressiva e lo stile che per lui era come un
fiume in piena. Lo stile di Lucilio infatti definisce lutulentus, ossia un fiume minaccioso che porta con sé dei
detriti, che sta ad indicare come il suo stile non fosse elaborato, manca il labor limae. Nelle satire, Orazio
resta distaccato e non c’è indignazione, o aggressività, lui stesso afferma di castigare ridendo mores,
ovvero di denunciare i costumi corrotti con un tono scherzoso e bonario, con spesso autoironia. Orazio non
si pone come giudice intransigente che giudica dall’alto ma si rende conto di star progredendo verso la
perfezione morale senza averla ancora raggiunta, quindi anche lui capisce di essere in difetto perché non
ha raggiunto a pieno i suoi ideali.
La presenza dell’unione di serio, cioè la denuncia, e faceto, ovvero la componente ironica nell’affrontare i
costumi per poter non tediare il pubblico, era già presente nella diatriba cinica, ovvero una discussione del
cinismo. Il cinismo era una corrente filosofica greca che voleva diffondere i propri dogmi tramite il dibattito,
e i cinici volevano coinvolgere il pubblico tramite un dialogo anche leggero. Lo stesso Orazio definisce le
sue satire “sermones” ovvero conversazione, inserendo per dar maggiore risalto alla derivazione della
diatriba cinica, aneddoti ed elementi ironici. L’origine della satira e lo stile delle satire le scrive in quelle
meta-letterarie, dove descrive le caratteristiche di una satira. Nelle satire meta-poetiche (IV, X del primo
libro, I del secondo libro) si può capire anche il destinatario della sua poesia, che avendo come modello la
poesia alessandrina, come Callimaco, che aveva come pubblico quello elitario, era il suo circolo, quello di
mecenate.
Nelle satire lui denuncia il vizio, non attaccando mai una persona in particolare, ma sempre in generale.
Probabilmente fece così perché aveva delle umili origini, non poteva attaccare delle persone nobili, se non
qualche volta attaccando però persone umili, così non c’era il pericolo di ritorsione nei suoi confronti. I suoi
personaggi però impersonificano un vizio vero e proprio. Nelle opere si partiva da un evento soggettivo per
poi spostarsi ad uno più generico, raccontato con distacco ed ironia, e con uno stile elegante.

Primo libro
Il libro primo contiene dieci satire, quattro narrative e quattro discorsive, ma in generale ha come tematica il
concetto di metriotes, ovvero la celebre ode detta aurea mediocritas. La metriotes (giusto mezzo) è propria
di diversi correnti filosofiche e afferma di non eccedere mai mantenendo il giusto equilibrio senza lasciarsi
andare al lusso, ma anche all’eccessiva austeritas, bisogna accontentarsi. (pag 213) est modus in rebus
“c’è sempre una misura nelle cose”. La tematica fondamentale nella satira I è l’insoddisfazione, tramite una
serie di esempi di categorie di persone che vorrebbero scambiare la propria vita con quella degli altri che
tanto individuano, esprime questo concetto. Gli uomini però sarebbero stati insoddisfatti anche se Giove
avesse fatto ciò che gli uomini volevano. Il dio non fa ciò che gli uomini gli chiedono ed anzi si adira perché
tanto sa che questi sarebbero comunque insoddisfatti. L’altro vizio che emerge con il paragone della
formica, è l’avidità. Infatti uomini già ricchi sono incontentabili e guardano coloro che sono più ricchi. Essi
sono talmente avidi che voglio fare un mucchio di soldi, per questo fa un paragone con la formica che però
ad un certo punto si accontenta e si gode quello che ha, mentre gli uomini ricchi vogliono sempre di più. La
ricchezza è inutile se si vive secondo natura, quindi accontentandosi della giusta misura e a tal proposito fa
degli esempi. Afferma come se ci si accontenta di un po’ di grano è inutile ammucchiare continuamente
grano, ed è anche inutile attingere acqua direttamente dal fiume, che potrebbe essere pericoloso e pieno
di acqua sporca, come invece fa l’avido, ma si può bere anche un poco da un bicchiere, oppure da una
piccola sorgente d’acqua. L’essere ricchi porta più problemi che vantaggi, in quanto l’unico obiettivo è
accumulare ricchezze senza interessarsi delle relazioni personali. A tal proposito fa due esempi uno del più
ricco uomo ateniese e Tantalo, re della Lidia, che aveva imbandito un banchetto con la carne del figlio per
gli dei al fine di vedere se fossero onniscienti. Poiché ha ingannato gli dei viene condannato agli inferi dove
era immerso in un fiume d’acqua mentre cercava di attingere ad essa, l’acqua defluiva via, essendo perciò
condannato ad una eterna sete. Tantalo simboleggia il desiderio inappagato, è l’emblema dell’avaro; infatti
nello stesso modo in cui lui voleva bere ma non ci riusciva, l’avaro vuole tante ricchezze ma non sarà mai
soddisfatto volendone sempre di più. Quando si è avidi, Orazio afferma come si trascurino gli affetti, e
come sul punto di morte l’avaro non abbia nessuno con cui stare, perché l’avido tende a non guardare chi
sta peggio ma piuttosto chi sta meglio ed è più ricco di lui. Poi grazie all’esempio di Nevio e Nomentano,
due opposti, il primo è uno scialacquatore, mentre il secondo è avidissimo, afferma come sia necessario
avere una misura alle cose. Grazie alla struttura ad anello torna al primo argomento, quello
dell’insoddisfazione, affermando come l’uomo non sia mai contento della propria sorte; invece di guardare
chi sta peggio, l’uomo ricco guarda chi ha più denaro come l’auriga che non guarda chi ha dietro di sé ma
chi deve superare. Infine, affermando di non voler diventare come Crispino il cisposo, un filosofo che
termina la sua satira, cerca di non essere ridondante. Nella quinta satira racconta un viaggio da Roma a
Brindisi che aveva intrapreso con i suoi amici (il fatto di raccontare un viaggio diventa un topos all’interno
delle satire). La satira sesta sia nel primo che nel secondo libro, è di carattere autobiografico, infatti ci
racconta della sua fanciullezza, dei suoi studi, del rapporto con il padre che ringrazia, del suo incontro con
mecenate con cui all’inizio riuscì solo a balbettare e dal quale non si aspettava di essere chiamato nel suo
circolo. Infatti entrare a far parte di questo per Orazio significò dedicarsi solo alla poesia vivendo in modo
tranquillo, infatti si svegliava tardi e si dedicava alla lettura e vedeva gli amici. La satira nona è quella dello
scocciatore; Orazio durante una passeggiata incontra un seccatore, un uomo che si millantava come un
grande poeta e voleva far parte del circolo, ma che tutti i componenti di questo tenevano lontano. Il
personaggio vede Orazio e approfitta la situazione per essere introdotto nel circolo, seminando zizzania tra
i componenti del circolo ma Orazio, che cerca di attaccare discorso con i passanti, viene salvato da un
uomo che lo riporta in tribunale. (pag 220) Si nota la bassezza morale del seccatore che dice ad Orazio
che all’interno del circolo di Mecenate c’era un clima di astio, e che se lo avesse fatto entrare lui lo avrebbe
sostenuto e gli avrebbe fatto raggiungere la più grande fama. Orazio usa ancora più l’ironia quando
incontra un amico che pur avendo capito che Orazio volesse andarsene, fa finta di non capire. L’amico
afferma come non potessero parlare perché quel giorno era un giorno sacro per i Giudei circoncisi, anche
se a Roma questi non erano per niente presi in considerazione.

Secondo libro
Nel II libro accentua la sua sorridente autoironia, rifiutando la parte del protagonista e calandosi tra i
comprimari. La satira sesta, essendo autobiografica, è un monologo in cui Mecenate viene ringraziato per il
dono della grande villa Sabina. Questo dà modo ad Orazio per celebrare la vita di campagna, una vita che
può essere condotta all’insegna dell’austerità e dà modo all’uomo di perseguire la sua virtù, in
contrapposizione alla città che pullula di vizi. La campagna dà modo di raggiungere l’autarcheia, ovvero
l'autosufficienza poichè il saggio deve essere indipendente da tutto ciò che lo circonda, bastandosi su sè
stesso senza farsi influenzare da condizionamenti esterni raggiungendo l’imperturbabilità. Come immagine
di questa vita in campagna cita la favola del topo di campagna e del topo di città. Questa favola narra di un
topo di campagna che invita un topo di città, quest’ultimo che era stato accolto anche se il cibo non era
particolarmente prelibato ne disprezza la semplicità, invece quando il topo di campagna viene invitato da
quello di città, che offre cibi buonissimi. Però poi questi cibi attirano un cane, quindi percependo il pericolo,
il topo di campagna afferma di preferire una vita austera che una vissuta in continuo pericolo. Nella satira
settima, come spesso succede nelle satire, usa l’ironia in modo molto eclatante. La satira ha un impianto
dialogico ed il protagonista è il servo Davo. Quest’ultimo parla in prima persona, durante i saturnalia,
ovvero delle feste in onore di Saturno durante il quale veniva data piena facoltà agli schiavi di parlare male
dei propri padroni sovvertendo i ruoli sociali. Davo apostrofa in modo poco positivo il suo padrone
affermando che Orazio è una persona viziosa che vuole vivere la vita in modo austero ma in realtà non
adempie a questa vita perché è dedito al lusso, che parla male della città ed elogia la campagna ma poi
quando è in quei posti non vede l’ora di tornare alla vita sfrenata di città. Per Davo Orazio è schiavo delle
passioni senza riuscire a liberarsi dalle passioni come predicava. La satira termina con Orazio che
rimprovera Davo, minacciando di bastonarlo.

Lo stile
La Satira, come genere, non presenta un linguaggio aulico o ridondante, ma un linguaggio colloquiale,
come fa Lucilio. Orazio in realtà cura molto il suo stile che non è ricercato, ma elegante grazie ad un ottimo
labor limae. Non usa dei grecismi perché la satira è prettamente romana.
Gli Epodi
Gli Epodi sono una raccolta di versi composti in metro giambico, che comprende 17 componimenti, che
vengono composti contemporaneamente alle satire, nel 41-30 a.C. Il nome “epodo” viene dato dalla
tradizione, in quanto Orazio chiamava i suoi componimenti iambi. La caratteristica principale riguarda la
scelta metrica ossia il metro giambico, da un tipo di ritmo recitativo ed ascendente, più vicino alla lingua
parlata. Epodi sviluppano tematiche varie, ma quella più significativa, poiché il giambo veniva usato
nell’invettiva, è l’aggressività, l’attacco alle persone. Questa tematica deriva dai due più grandi giambografi
ossia Archiloco e Ipponatte le cui opere erano caratterizzate dall’aggressività, tanto che coloro che vennero
attaccati, rispettivamente Bupalo e Bicande, si diedero alla morte (iambike idea). Se Archiloco e Ipponatte
utilizzavano rancore, livore, ferocismo contro i personaggi che attaccavano, in Orazio questa componente
manca, perché il suo stile è sempre molto composto, anche se Orazio si lega direttamente ad Archiloco,
affermando in un’epistola prenderlo come modello. Manca nelle sue opere il tono passionale e rancoroso
del modello, perché manca l’invettiva ad personam. Mentre Archiloco e Ipponatte facevano i nomi delle
persone che attaccavano, in Orazio questi mancano, solo una volta fa un nome, ma questo tale è uno del
popolo, non ha nobili origini o discendenze compromettenti. Orazio attacca non il singolo ma il vizio, che
era presente nella società, quindi uomini usurai, donne libidinose. Rispetto alle satire però la componente
aggressiva è più forte.
Le tematiche sono varie, non è presente solo l’idea dell’attacco e dell’aggressività, ma anche altre
tematiche, essendo Orazio influenzato da Callimaco, e dalla poesia ellenistica. Gli epodi sono caratterizzati
dalla parietas, ossia la varietà delle tematiche. Callimaco nelle sue opere infatti rivendicava la libertà del
poeta di variare nel metro e nei temi, come lo stesso Orazio afferma, come per esempio l’eros, raffigurato
come un amore, che tormenta, che fa soffrire, che porta dolore e frustrazione nell’uomo. Nelle sue opere
compaiono personaggi singolari come una vecchia libidinosa, che voleva consumare in qualsiasi modo un
sentimento carnale con Orazio, il quale schifato mette in risalto il vizio e la vecchiaia della donna. Un
elemento fondamentale era la tendenza al realismo, infatti l’anziana viene descritta sottolineandone la
bruttezza, la grossezza. Infatti il macabro il brutto era una caratteristica della poesia ellenistica. Ci anche
sono epodi civili, che hanno un carattere politico. Orazio, appoggiava il progetto di Ottaviano, ma avendo
partecipato alla battaglia di Filippi tra Bruto e Cassio, dalla parte dei cesaricidi, aveva composto vari epodi
riguardanti questa battaglia. In questo testo non si schiera politicamente, ma sottolinea solo la follia
fratricida dei romani che si sono trovati in guerra tra loro, sottolineando la brutalità della guerra. Afferma
come la guerra sia brutale, come questa sia dolorosa e sanguinaria, soprattutto perché si scontrano
cittadini dello stesso paese. Troviamo inoltre degli epodi riguardanti la battaglia di Azio, prima che questa si
svolgesse, nei quali si mostra fedele ad Ottaviano, lo celebra, afferma come sicuramente andrà in contro
alla vittoria, e successivamente grazie a ciò si brinderà per la vittoria.
Il decimo epodo, è l’unico a contenere un’invettiva in cui il bersaglio sia indicato per nome: si tratta di
Mevio, un poeta odiato anche da Virgilio. L’attacco personale si esprime rovesciando il modulo del
propemptikon, ossia un componimento dedicato ad un amico in partenza, al quale si augurava un viaggio
fortunato. Il poeta in questo passo al contrario augura tutto il male possibile al nemico, spera che Mevio,
che viene definito fetido, possa avere la peggior sorte del mondo. Gli augura che l’Austro, un vento che
spira da sud, Euro, un vento di sud-est e Aquilone, un vento che spira da nord, possano abbattersi sulla
sua nave, e possano capovolgerla. Spera che nessuna costellazione possa guidare il suo cammino e
quindi che lui si perda in mezzo al mare. Gli augura di trovare delle acque così alte e in tempesta, come
quelle che avevano colpito Aiace mandate da Atena, per vendicare l’atto empio nei danni di Cassandra, e
dagli dei, dopo che, salvatosi su uno scoglio, si era vantato di essere più potente degli dei. Spera che lui
dopo aver fatto naufragio muoia sulla spiaggia e che il suo corpo sia mangiato dagli smerghi, uccelli voraci
e necrofagi. Alla fine Orazio afferma che se tutto ciò fosse accaduto, lui stesso avrebbe immolato un
agnello.
Orazio in un altro epodo si scaglia con violenza contro un ex schiavo arricchito, il parvenu, che nonostante
la sua origine, di cui porta ancora segni visibili sul corpo, siede nelle prime file del teatro fra i cavalieri.
(collega con lotta di classe, società). Da Orazio questo genere di persone vengono spesso attaccate, per la
loro origine bassa, e per la loro successiva ricchezza improvvisa. Caratteristica è la loro ignoranza, la loro
mancanza di buon gusto, la mancanza di cultura. I parvenu non sono raffinati e tendono ad ostentare le
loro ricchezze, vogliono mettersi in mostra (in petronio indossano anelli). Orazio colpisce quest’uomo
perché vuole occupare i primi posti a teatro nonostante abbia basse origini, e poiché passa nella via sacra
di Roma facendo sfoggio della sua ricchezza. Orazio descrive il personaggio dicendo che porta ancora sul
corpo le cicatrici delle fruste e delle catene, di quando era ancora schiavo, e che indossa una toga
esageratamente larga. Afferma lo sdegno che provano le persone libere quando lo vedono passare.
Afferma come lui ora invece abbia una casa in campagna e una carrozza con cavalli pregiati e si sieda a
teatro nei posti dove non deve, deridendo Otone colui che aveva promulgato quella legge. Allora cosa
serve combattere contro pirati e schivi se poi uno schiavo diventa il pericolo della società?

Le Epistole
Orazio le compone in contemporanea alle Odi dal 20-13 a.C. Sono delle epistole in versi, in esametri e
sono divise in due libri. Il primo contiene 20 componimenti, il secondo invece due epistole entrambe di
carattere letterario. C’è poi un’epistola che si chiama epistulam ad pisones perché il destinatario è la nobile
famiglia Pisoni; essa è conosciuta anche come ars poetica, poiché tratta delle peculiarità della poesia e del
ruolo del poeta. Le epistole sono la prima raccolta nota di epistole in versi; infatti sappiamo che Lucilio
aveva composto una satira impostata come un’epistola, e non delle vere epistole, Orazio quindi è ritenuto il
primo compositore di epistole. L’autore non differenziava questo genere delle satire, tanto che le chiamava
sermones. Anche se ci sono molti punti di contatto, esistono delle differenze che già avevano notato gli
antichi grammatici, che le avevano chiamate epistole. Le caratteristiche tipiche sono:
• il destinatario, sia esso fittizio o reale. Le lettere di Orazio erano destinate alla pubblicazione, quindi
la lettura di questa nel circolo; i destinatari ci sono anche se Orazio prevedeva che queste epistole
fossero pubblicate. Non ci sono delle confidenze o sfoghi, sono estremamente studiate, con uno
stile ricercato se non molto elevato.
• le tipiche forme di saluto e commiato all’inizio e alla fine.
• il legame con un’occasione precisa. Orazio molto spesso parte nelle sue lettere da un
ringraziamento, o da un invito a cena, volendosi accertare della salute dell’amico. Dopo ciò
passava ad una considerazione più generale, affrontando tematiche più generali simili a quelle
delle satire.
• non c’è un dialogo ma le lettere si articolano come dei monologhi, sebbene a volte Orazio ipotizzi la
risposta del destinatario.
Troviamo poi delle analogie con le satire come la componente morale e il carattere didattico. Il fine morale
era, come quello delle satire, come l’αυτάρκεια, l’autosufficienza, svincolarsi dai beni terreni e la μετριοτης.
Solo mediante la μετριοτης e il vivere secondo natura si può raggiungere la felicità. La ricerca della
serenità è una caratteristica tipica, anche perché specialmente le ultime epistole, sono scritte quando lui
era in età avanzata. Orazio infatti sentiva molto pressante il peso del tempo che passava e della
giovinezza che si allontanava e quindi della morte sempre più vicina. Per placare questa sua angoscia
interiore ed esistenziale nei confronti della morte, Orazio cerca delle risposte consapevole del fatto che la
giovinezza però sia passata. La giovinezza che per lui è rappresentata dall’amore e della poesia,
contrapposta alla vecchiaia che è invece l’età della saggezza dove l’uomo deve trovare un equilibrio
interiore. Orazio è alla costante e incessante ricerca della sapientia. I principi che troviamo all’interno delle
sue opere quindi sono quelli della filosofia epicurea, poiché Orazio era un epicureo, ma nonostante ciò
attinge anche da altre filosofie (eclettismo) che si accostano alla sua visione della vita. Lui stesso nelle
epistole si definisce “maiale del branco di Epicuro”, perché a quel tempo si pensava che gli epicurei si
dedicassero al soddisfacimento dei piaceri in maniera sfrenata anche se non era così, e perciò erano
spesso assimilati ai maiali. Orazio è caratterizzato quindi dall’inquietudine anche perché sa di non vivere la
sua vita né rettamente né piacevolmente come prevedeva Epicuro. La sua ricerca è quindi una ricerca
affannosa, che non riesce a placare il suo tedium vitae, la sua angoscia, la sua inquietudine. Il suo stato
d’animo però è molto altalenante, infatti in altre epistole si definisce felice come un “maiale florido, grasso,
panciuto e roseo”, in questi passi sembrerebbe aver raggiunto l’αυτάρκεια, anche grazie al principio di
lathe biosas, ossia “vivi nascosto”. Infatti Orazio trascorrere molto tempo nella sua villa di campagna
perchè lì riusciva a dedicarsi alla vita meditativa, lontano dalla vita politica o da tutti quei contesti che gli
avrebbero arrecato inquietudine. In un’epistola rivendica la sua necessità e libertà di vivere lontano e
nascosto, rispondendo ad un pressante invito di Mecenate, che lo aveva invitato a trascorrere del tempo a
Roma. Porta avanti quest’idea affermando di voler vivere in questo contesto agreste favorevole alla vita
contemplativa, rispetto alla vita caotica cittadina. Un altro modo per affrontare il tormento, è quello di vivere
a pieno il presente, soddisfatti di ciò che si ha e di come si vive. Poiché è impossibile fare delle lunghe
previsioni, bisogna godere solo del presente, essendo l’unico momento che l’uomo può dominare.
Le epistole di argomento letterario sono quelle che si trovano nel secondo libro. La prima epistola è
indirizzata ad Augusto in quale si dibatte sulla superiorità degli autori antichi e moderni; Augusto aveva
chiesto l’opinione di Orazio, opinione che influenzava molto il pensiero comune, poiché tenuta in grande
considerazione, soprattutto in ambito letterario. Secondo Orazio c’è una superiorità dei moderni sugli
antichi a causa dello stile, e del labor limae, che faceva sì che la poesia dei moderni fosse più elevata,
elegante ed ordinata. Gli antichi utilizzavano un linguaggio diverso, ricco di arcaismi, rozzo, rudimentale
che rendeva la poesia meno elegante, sebbene l’opinione comune non fosse questa, perché gli antichi
erano un modello dal punto di vista del contenuto, ma non sullo stile. Nella stessa epistola troviamo la
recusatio, ossia un pretesto di non poter iniziare la stesura di un’opera fingendo di non essere degni
dell’incarico, in particolare rifiuta la richiesta di scrivere un poema epico che avrebbe dovuto esaltare la
stirpe di Augusto; invito che è stato colto da Virgilio ma che Orazio rifiuta. Augusto voleva inoltre che
fossero scritte delle tragedie, che sarebbero state poi rappresentate a teatro, perché riteneva che con il
teatro si potesse raggiungere un vasto pubblico, e fare quindi propaganda al suo progetto politico. Il
genere tragico in quel periodo era in decadenza ed Orazio si esprime contro questa richiesta preferendo la
produzione di una poesia destinata ad un circolo ristretto, l’elitè. Si tratta quindi di una poesia colta, elitaria
ed elevata. L’ars poetica, la seconda epistola di carattere letterario, tratta invece di tematiche quali l’arte e
la poesia. Per lui la poesia deve sempre restare vincolata alla realtà, poiché anche la poesia deve essere
caratterizzata dalla verosimiglianza; l’arte deve essere quindi imitazione della realtà. Per Orazio il teatro è il
genere letterario che più si avvicina alla realtà; il dramma e soprattutto la commedia, rappresentano la vita
dei personaggi. Ciò lo esprime mediante l’immagine del pittore, che deve dipingere quello che vede, poiché
se non lo facesse susciterebbe solo ilarità. Per affermare ciò immagina anche come i lettori potrebbero
confutare quello che lui sta dicendo. Secondo Orazio il poeta deve possedere l’ingenum, ossia il talento
naturale, in particolare in questo caso la capacità poetica, e l’ars, ossia la capacità di elaborare
stilisticamente un testo perfetto. Per lui è necessario possedere entrambe le cose poiché possedere solo
ars, sarebbe come avere un contenitore vuoto, e quindi l’una senza l’altra non darebbe come prodotto una
poesia apprezzabile. Successivamente ci parla delle caratteristiche stilistiche della poesia, ossia il labor
limae, e la callida iuncuta, ossia un “ignegnoso accostamento”. Si tratta di un accostamento non usuale di
ermini, già esistenti nella lingua latina, che riescono a dare al testo una sfumatura particolare. Ad esempio
il titolo di un’ode “aurea mediocritas”, qui la mediocrità viene definita aurea per evidenziare l’importanza del
giusto mezzo dà ad esso la sfumatura di aure, per simboleggiare qualcosa di prezioso. I neologismi sono
ammessi da Orazio, nonostante ci fossero delle correnti di pensiero che vietassero l’utilizzo dei neologismi.
Per Orazio il linguaggio viene paragonato alle foglie che si rigenerano automaticamente; la lingua parlata
secondo lui cambia, è in continuo divenire, e quindi deve essere rinnovata. Miscere utile dulci, un’altra
caratteristica fondamentale della poesia di Orazio, che ritiene che questa debba essere edificante, che
debba avere un contenuto che arricchisca, che insegni qualcosa (intento didattico). Ma allo stesso tempo
l’opera deve essere avvincente, deve essere piacevole da leggere, deve attrarre il lettore per la struttura e
l’utilizzo dei termini.

Le odi
Scrive le odi tra il 30 e 13. Sono divise in 4 libri, i primi tre libri sono stati composti dal 30 al 23, mentre il
quarto arriva fino al 13 a.C. Le odi sono delle poesie, scritte in versi, che propongono differenti schemi
metrici. Hanno uno stile controllato a raffinato, anche perché vige sempre il labor limae. Orazio cerca di
imitare, cercando di raggiungere la loro percezione formale, i modelli a cui si ispira ossia i lirici greci
dell’isola di lesbo. In particolare Saffo per le liriche erotiche, Alceo per le politiche. Nelle odi troviamo
l’impostazione allocutiva, il cui termine deriva da loquor, che prevede un destinatario a cui il poeta si rivolge
con un’apostrofe diretta, anche se poi l’ode viene strutturata come un monologo. Questi destinatari
possono essere o il simposiarca, o altri personaggi. Anche se non Orazio non li considera come il suo vero
modello si ispira ai poeti ellenistici, in particolare a Callimaco. Questo lo possiamo dedurre da molti
elementi; quali il labor limae, la scelta del pubblico, che è un pubblico elitario, e la presenza di riferimenti
dotti, che solo un pubblico elevato poteva conoscere, Molte di queste odi sono definite metapoetiche, ossia
dedicate alla poesia, nelle quali Orazio spiega le sue scelte poetiche e parla del ruolo del poeta. È chiaro il
riferimento ai lirici, poiché Orazio intraprende una sorta di gara con i suoi modelli. È presente una sorta di
aemulatio, poiché Orazio cerca di imitare il modello per poi superarlo. Partendo dallo spunto metrico e
tematico, poi se ne distacca per sviluppare le odi in modo personale e, attraverso l’inserimento dei vari
luoghi, delle tradizioni e dei culti tipici romani, cerca di avvicinarle alla cultura romana. Il modello è
facilmente riconoscibile nei primi versi, tanto che alcuni hanno definito questa tecnica come tecnica del
motto. All’inizio dell’ode troviamo quindi un’espressione che richiama il modello; a volte quest’espressione
è proprio un modello, ad esempio un’ode inizia con “adesso bisogna bere, che è la traduzione di un’opera
di Alceo. Per la tematica amorosa i modelli sono Anacreonte, lirico greco, e Saffo. Saffo dipingeva l’amore
in maniera negativa, come una forza devastante che arrecava sofferenza fisica, una forza incontrollabile e
inevitabile; Orazio nonostante si ispiri non dipinge l’amore in questo modo. Nei carmi amorosi infatti lui è
pacato, distaccato, non è passionale, i versi sono sempre scritti con eleganza e senza un coinvolgimento
amoroso. Non c’è una donna prevalente in Orazio, vengono descritte varie donne, e sembrerebbe che
Orazio non provi questa travolgente passione per nessuna. Ci sono delle rievocazioni nostalgiche, qualche
verso che riprende la bellezza di alcune di queste donne, ma con sempre un tono particolarmente
distaccato. L’altro grande modello a cui Orazio si ispira è Pindaro, autore di lirica tra il VI e V secolo,
famoso per aver scritto molti Epinici, carmini che presentavano quelli che vincevano agli agoni. È famoso
anche per i cosiddetti voli pindarici, ossia per quei passaggi tematici bruschi da un contesto all’altro il cui
collegamento è difficile da trovare. Lui passa infatti in maniera imprevista da una tematica all’altra,
trovando dei collegamenti stravaganti. Orazio è consapevole della difficoltà di imitare Pindaro, tanto che lui
sviluppa un’immagine in cui paragona Pindaro ad un cigno tebano che grazie al soffio di vento, che
simboleggia l’ispirazione poetica, riesce a librarsi nell’aria, fino a raggiungere le vette più alte e le nubi, e
chi tenta il suo volo, rischia di cadere in modo rovinoso. Orazio quindi, non potendo raggiungere le vette, e
si paragona ad un’ape laboriosa che raccoglie con fatica il frutto del timo per produrre miele molto dolce e
apprezzato. Perciò Pindaro è la rappresentazione delle doti naturali eccezionali, di una poesia ispirata e
non imitabile, Orazio invece rappresenta la laboriosità, che è riconoscibile nel labor limae, nella
collocazione attenta delle parole, e nella scelta di quest’ultime. La poesia di Orazio è apprezzabile
soprattutto per questo. Nonostante questa finta modestia, Orazio è consapevole del valore della sua
opera, e dell’eccezionalità della sua arta, che è talmente grande che lo renderà immortale, tanto che in più
componimenti afferma di aver eretto un monumento perenne. Oppure l’eternità può essere trasmessa a ciò
che lui canta, per esempio lui è consapevole che la fonte di Bambusa, verrà ricordata nei secoli perché l’ha
cantata lui. Il suo ruolo è quello di poeta vate, ovvero un poeta che aveva uno stretto legame con la divinità
perché è seguace di quest’ultime, per cui è protetto da queste. Lui in quanto poeta aveva un ruolo tale, da
ritenersi quasi immortale e intangibile nella vita, tanto che un lupo incontrandolo lo lascia illeso. Aveva
anche un ruolo di superiorità, grazie all’investitura poetica, tutto ciò che cantava quindi doveva essere vero,
perché ispirato dalla divinità, per cui lui rivelava delle verità assolute inconoscibili agli altri.
Le odi affrontano tematiche varie come quelle amorose o religiose, infatti ci sono molte odi che celebrano
la divinità, nonostante Orazio sia epicureo. Quest’ultimo infatti aderendo al progetto politico di Augusto e
facendo parte del ciclo di Mecenate, non poteva far altro che celebrare le divinità tradizionali. Per cui molte
odi sono in realtà degli inni, in cui vengono celebrate le divinità tradizionali del panteon latino. Orazio
mostra una predilezione per divinità minori, e per le festività popolari, per esempio vengono citate le feste
fontanalia, ovvero dei piccoli riti che fanno riferimento a divinità minori venerate nei piccoli centri. Ci sono
poi le odi civili e quelle politiche, per le quali prende ispirazione da Alceo anche se la loro situazione è
diversa. Alceo, scriveva per il simposio, in maniera particolare per l’eteria, un gruppo di uomini che
condivideva ideali politici, inoltre partecipava attivamente alla vita politica di Mitilene. Orazio invece si
mantiene distaccato anche dalla politica, ma, facendo parte del circo di mecenate, appoggiava Augusto e
la politica. Esalta il periodo di pace che Augusto aveva mantenuto, condanna le lotte e cita come esempi di
virtus alcuni consoli del passato come Attilio Regolo, che era stato mandato in Africa per guidare le truppe
contro i Cartaginesi. Quest’ultimi dopo averlo catturato, lo mandarono a Roma per ottenere un trattato di
pace, ma lui, arrivato a Roma incita il Senato a combattere contro i cartaginesi perché questi erano in
difficoltà. Successivamente verrà ucciso dai Cartaginesi, quando tornerà in Africa, ma resterà l’emblema di
virtus e lealtà perché per mantenere la parola data ai Cartaginesi si fa uccidere. Le odi politiche sono le
prime 6 odi del III libro, dette odi romane, e tutto il IV libro, che è quello meno apprezzato di Orazio perchè
lui si lascia andare all’enfasi, risultando ridondate nel celebrare la grandezza di Roma, anche perché cerca
di imitare Pindaro perdendo però di eleganza. Scrisse anche odi convivali, dove ha come modello Alceo,
ed erano destinate al banchetto, perciò celebrano il banchetto in sé. Ci sono delle descrizioni di varie fasi
del banchetto, come invito di mescere il vino e di cingersi il capo con ghirlande o con pelli di lana, quando
faceva troppo freddo (=come in Alceo). All’interno di queste odi possiamo trovare anche degli spunti erotici.
Le odi conviviali sono le più interessanti perché, come in Alceo, vengono inserite delle considerazioni
morali generali, sulla vita. Solitamente al centro dei quelle di Alceo c’era la gnome, una massima
sapienzale, che doveva aiutare gli uomini ad affrontare la vita in modo più sereno. Orazio anche in queste
odi tratta della sua inquietudine nei confronti dello scorrere veloce del tempo, di quanto lui sia impotente
davanti al defluire di quest’ultimi. La vita viene spesso descritta come brevis e fugas, per indicare il passare
del tempo e l’angoscia che lui prova nei confronti di questo. L’unico mezzo per sottrarsi all’angoscia è
quella di vivere il momento, ossia il “carpe diem”. Il momento è rappresentato dal banchetto, che diventa
un angulus, ossia un rifugio, un luogo dove si incontrano gli amici e si condividono i valori e gli affetti.
Rifugio in cui l’uomo dovrebbe sentire meno il tempo che scorre, poiché il tempo è come se venisse
cristallizzato. Bisogna apprezzare ciò che si ha, ma godere di ciò con moderazione anche durante i
banchetti, bisogna apprezzare la semplicità dei momenti. Questo godere di ciò che si ha è il frui parati,
ossia godere di ciò che c’è, di ciò che la natura offre, senza desiderare quello che non si può avere. Il
rifugio nella filosofia è l’autarchia che si raggiunge con la metriotes

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