Tiro al piccione
romanzo
La prima stesura di Tiro al piccione è degli ultimi mesi del 1945. Giose
Rimanelli, molisano di vent’anni, reduce dalla guerra civile in cui aveva
militato per la Repubblica Sociale, e da cui era poi fuggito, era ancora troppo
vicino ai fatti e ai misfatti che lo avevano tanto colpito. Continuò a
rielaborare il testo che interessò i redattori della sede romana dell’Einaudi,
Carlo Muscetta, Natalino Sapegno e Carlo Levi. In occasione di un viaggio a
Roma all’inizio del 1950 (quello che sarebbe stato l’ultimo suo anno di vita),
Cesare Pavese sentí parlare di quella storia di un giovane che aveva visto la
Resistenza dalla parte sbagliata e successivamente lesse e apprezzò, pur tra
riserve, il romanzo. Nel maggio del 1950 Pavese informò Rimanelli che Tiro
al piccione sarebbe stato pubblicato. Quando Pavese si ammazzò, il romanzo
era già in tipografia, se ne ebbero le prime bozze, ma non se ne fece piú nulla.
Su consiglio di Elio Vittorini, Tiro al piccione uscí nella «Medusa degli
Italiani» di Mondadori invece che nei «Coralli» di Einaudi.
Il tema era per quei tempi arduo. Ma fu scelto per il film d’esordio di
Giuliano Montaldo che a ventinove anni, nel 1961, portò sullo schermo le
vicende di Marco Laudato, il protagonista problematico in cui Rimanelli si
era almeno in parte ritratto e identificato. Il film, con il quale la critica fu
piuttosto severa, varrebbe la pena di essere rivisto, come senz’altro vale la
pena di essere riletto, il romanzo. Che si consiglia alla lettura anche di chi
dalla guerra civile è lontano per nascita, per diverse convinzioni, o
semplicemente per indifferenza. – Forse ho anticipato troppo, – confessa
Montaldo, parlando del suo film del 1961. Figurarsi come aveva anticipato
Rimanelli nel romanzo che è del 1953, quanto a uscita, ma del 1945, quanto a
prima stesura.
La biografia di Giose Rimanelli (nato a Casacalenda nel Molise nel 1925)
sembra assemblata con i pezzi di vita di un «irregolare» del Cinquecento,
frammisti a quelli di un misfit otto-novecentesco, rimanendo assai distante dal
profilo del letterato italiano «sedentario» del Novecento. Una famiglia la sua,
segnata dall’emigrazione: la madre già cittadina canadese, il nonno Dominick
«vecchio pazzo ombrellaio e suonatore di jazz che avvolse di fantasmi e
miraggi, di lingue misteriose e richiami esoterici» 1 l’infanzia nel Molise. A
dieci anni Giose viene mandato in un seminario pugliese che abbandona nel
1940, avendo verificato che la «vocazione» non avrebbe potuto trovare
sistemazione nella sua vita. I tre anni successivi li trascorse a Casacalenda
«anni di penitenza, ignominia personale, meditazioni, letture» 2 che preludono
a una ineluttabile fuga: sale su un camion dei Tedeschi in ritirata dopo lo
sbarco degli Alleati a Salerno e si ritrova arruolato nella Repubblica Sociale.
Scampato alla guerra civile rientra in paese e vi rimane poco meno di un
anno, durante il quale la materia incandescente della vicenda appena vissuta
diventa il romanzo Tiro al piccione. Seguono anni di nomadismo povero:
Milano, Roma, Europa del Nord, Parigi e di nuovo Roma, anni però decisivi
per incontri e amicizie: Gaston Bachelard, André Martinet, Boris Vian,
Jovine, Alvaro, Muscetta, Pavese, Ungaretti, Carlo Levi, Ugo Moretti e
Scotellaro; letture: Cervantes, Goethe, Hemingway, Melville, Faulkner,
Tozzi, Pavese e Vittorini. Per sopravvivere scrive tesi di laurea a pagamento,
abita squallide pensioni, fa perfino lo sparring-partner in una palestra di
pugilato, ma nel 1948 riesce ad avere una prima collaborazione giornalistica
per «La Repubblica». Dattiloscrive sotto dettatura dell’autore Le terre del
Sacramento e collabora con Muscetta che sta lavorando al Padula. Tra il 1950
e il 1954 viaggia moltissimo in America e in Europa del Nord inviando
corrispondenze per «Epoca». In Canada si ferma alcuni mesi: a Montreal,
dirige «Il cittadino canadese», ma lavora anche con i raccoglitori di tabacco
nell’Ontario, esperienze che confluiranno in Biglietto di terza (Mondadori,
1958). Dal Canada agli Stati Uniti: a New Orleans visita la casa dove era nato
il nonno Dominick e conduce ricerche sull’eccidio del 1891, materiali che
utilizzerà nel romanzo Una posizione sociale (Vallecchi, 1959).
I primi anni Cinquanta sono anni di un consistente avvicinamento degli
scrittori al cinema e anche Rimanelli viene coinvolto da Carlo Ponti e Mario
Soldati: scrive per May Britt una sceneggiatura da La lupa di Verga e il
soggetto di Suor Letizia per Anna Magnani. Nel 1958 inizia la collaborazione
al settimanale «Lo Specchio», nel quale con lo pseudonimo di A.G. Solari
pubblica interventi sulla letteratura contemporanea e pezzi al vetriolo su
primari e comprimari dei salotti letterari romani che confluiranno poi in Il
mestiere del furbo (Sugar, 1959), il pamphlet con il quale Rimanelli firma il
suo «suicidio» nella società letteraria italiana. Nel 1960 va in volontario
«esilio» in America, dove ricercare una necessaria «uscita di sicurezza» a una
vita che, intrecciando livelli esistenziali, intellettuali, artistici, va a cacciarsi
continuamente in cunicoli accidentati. In America Rimanelli costruisce un
altro da sé insegnando in importanti università per un trentennio; si immerge
nella nuova realtà degli anni Sessanta – crogiuolo di accelerate
trasformazioni, segnato da grandi scontri sociali e razziali – che impregna le
pagine di Tragica America (Immordino, 1968). L’America gli offre anche lo
spazio vitale per un groviglio di esperienze artistiche, un universo di
possibilità estetiche. Si dispiega una grande macerazione di scrittura
testimoniata da opere solo in minima parte edite (Graffiti, Marinelli, 1977),
romanzi autonomi poi montati e fusi in La macchina paranoica, quindi di
nuovo smembrati, piegati a nuove possibili utilizzazioni; una secentesca
«fabbrica» narrativa, alimentata da una progettualità labirintica, frutto di
architetture e simbologie di meandri affettivi e ideologici, di sofferte
solitudini culturali ed esistenziali: il blocco tra due lingue e culture diverse,
divaricate e sovrapposte in canali mentali ed espressivi che amplificano la
dispersione e l’isolamento dello scrittore. Quasi solo alla poesia (Carmina
blabla, Monaci d’amore medievali, due raccolte apparse in Italia nel 1967)
sembrano affidati messaggi in bottiglia dal naufragio americano verso la
patria fuggita, «una terra lunnnnnnnga / da dimenticare», ma anche «una terra
lunnnnnnnga / da ricordare».
Vedevo la sua massa nera e la linea delle gambe nel quadrato della porta,
all’inizio delle scale. Giulia scendeva sempre col venire del fresco. Metteva
la testa sulle ginocchia e guardava la gente sulla strada, oppure dormiva. Ma
spesso sedeva lí masticando un pezzo di pan secco, e i giovani del bar di
fronte le guardavano le gambe nude.
Giulia non si curava delle mosche che le giravano intorno. Tuttavia, di
tanto in tanto, sollevava nervosamente la mano percuotendo l’aria, e le
mosche, allora, sciamavano come impazzite. Giulia seguiva il loro volo con
occhi pesanti, annoiati; ma a volte ne afferrava due o tre col pugno chiuso,
poi le schiacciava contro il muro. Le mosche vi lasciavano virgole di sangue.
Ma quando il crepuscolo disperdeva l’ultima luce, anche le mosche
sparivano dal bianco. Giulia si alzava allora; volgeva le spalle alla strada che
rintronava dei primi rumori dei camion e saliva su adagio, muovendo le
anche con la solita pigrizia.
Dalla finestra osservavo tutto ciò che avveniva sulla strada. Vedevo il
distributore giallo e il prato verde ai piedi della collina; e potevo sentire la
voce cantante di Gino e il rimbalzare della palla sul selciato.
– Uno, due, tre e quattro, cinque e sette, dieci, quindici…
Gino saltabeccava nell’ultima striscia di sole con le mani intrecciate sulla
nuca. Ogni tanto però, fermava la palla sul ventre e strillava all’imbocco del
vicolo dei fornai:
– Davidee!
Un ragazzo grasso, dal naso rotto, faceva capolino tra lo zenzero d’una
finestra e scuoteva la testa, malinconicamente. Poi spariva. Gino, allora,
riprendeva a giocare da solo. Cantava:
– Uno, due, quattro e cinque, sette e nove, dieci, quindici…
Il buio entrava presto nei vicoli e i camion iniziavano la loro processione.
Gino tornava su e veniva alla finestra. Mi tirava per la giacca. Diceva:
– Marco, quante automobili, eh?
Poi:
– Mi dici dove vanno?
Io non rispondevo.
I camion passavano sotto le finestre tutte le notti fino all’alba. Le strade
nere del paese erano sconvolte dai rumori. Le vecchie case tremavano dalle
fondamenta. Era cosí quando tirava il vento. Una dietro l’altra le macchine
formavano lunghi serpenti neri, dagli occhi ciechi. Erano mimetizzate con
frasche e teli da tenda; ma alla luce di qualche cerino s’intravedevano i
Tedeschi nelle cabine, ammassati gli uni sugli altri, con l’elmetto calcato
sulla fronte.
Col naso appiccicato ai vetri guardavo quel traffico. Mia madre ciabattava
per la casa nella sua vestaglietta nera, ma infine, con la sua voce lontana,
diceva:
– Levati una buona volta da quei vetri. Sei come una statua, non fai che
guardare. Oh, mettiti seduto, almeno!
Non rispondevo. Sentivo, poi, il pianto di Gino che non voleva lavarsi i
piedi prima di andare a letto. Mia madre allora riprendeva:
– Dovresti farti vedere dal medico.
– Oh…!
– Stai diventando pazzo.
– Oh, ma’! Piantala!
Sentivo come ciabattava per la casa. Poi, quasi improvvisamente, gridava
con voce dura:
– Dovresti smetterla con Giulia.
Mi veniva quel nodo nella gola. Anche Pietro Laudato sapeva a memoria
la stessa frase, e me la ripeteva ogni volta che ci pensava. Tuttavia
rispondevo incollerito:
– Ma che c’entra Giulia? Oh, vorrei proprio che la piantaste di parlare di
Giulia.
Concetta Laudato era piccola, bruna, e a trentatre anni sembrava già
vecchia. Diceva che se ne sarebbe andata presto, come sua mamma Teresa,
perché il cuore era debole e non resisteva a tutte le nostre liti. Esclamava:
«Vorrei distendermi su questi mattoni e non alzarmi piú».
Quando rispondevo incollerito vedevo il suo viso farsi tetro, cascante. Mia
madre, allora, mi veniva vicino e diceva, guardandomi:
– Non gridare, Marco. Sentono i vicini. I vicini sanno tutti i fatti di casa
nostra.
Voleva piangere.
– È che non posso piú sopportare le critiche, io. E poi non voglio vederti
in quel modo. Mi gira la testa a vederti.
– Anch’io vorrei non vedermi, ma’.
– Allora devi incominciare col levarti dai vetri. Dio, come sono
sventurata! Prima te ne torni dal collegio. Dici che farti prete non ti va, dici
che hai perso la vocazione stando coi preti. Tuo padre si fa cattivo, grida e
insulta tutti. Ma adesso ci mancava la storia dei camion per completare
l’opera?
– Ma’, via, non essere cosí. Non mi fa niente sentire quei rumori. È come
un ritornello, ma’. Passano ogni notte. Ma non mi fanno niente quei rumori.
L’abbracciavo improvvisamente, le baciavo i capelli neri, sentivo il suo
cuore contro il mio petto. Lei si asciugava gli occhi con la mano rozza,
crepata per il lungo strofinio sui panni e i mattoni di casa. Era allora, con mia
madre che piangeva, che mi sentivo piú infelice e ingombrante. E quel
rumore di camion mi spaccava il cranio, mi pareva di ballare in un vuoto
d’aria, e sentivo piú insistente in me la voglia di seguire quei rumori.
Non riuscivo a staccarmi dalla finestra. La finestra era un ponte tra me e
quei rumori. Solo quando vedevo arrivare mio padre andavo nell’altra
camera, mi chiudevo dentro, mi mettevo a frugare tra la biancheria del comò
e nei cassetti, nella speranza di trovare la chiave della cantina. Da una
settimana mio padre l’aveva fatta sparire dal chiodo sulla porta della cucina,
dopo che s’era accorto quello che io e Giulia facevamo nei nostri incontri
notturni.
Giulia veniva sempre dopo le nove. Scendeva il vicolo nascosta nello
scialle e andava ad appiattarsi nell’ombra, aspettandomi. Appena dentro mi
buttava le braccia al collo, mi attirava sul pavimento, vicino a lei, stavamo
lungamente distesi. Giulia mi passava la sua mano pelle e ossa sulla faccia;
diceva che io avevo la pelle delicata e lei non avrebbe amato nessun altro
uomo come amava me.
Io facevo sí con la testa.
– Anch’io non amerò mai nessun’altra donna.
– Ma tu vuoi andartene, Marco.
Giulia mi parlava sui capelli.
– Forse, – io rispondevo. – Ma non amerò mai nessun’altra donna.
– Dovremmo fidanzarci, Marco.
– Sí, Giulia, – rispondevo.
Con gli occhi chiusi respiravo profondo e sentivo l’odore forte della stalla.
– E dovremmo sposarci, Marco. Io ho paura. Non riesco mai a dire tutto a
don Luciano. Oh, Marco, ho paura. Alla nostra età siamo già pieni di peccati.
La sua voce era grave, adulta. Ma stando cosí, a lungo andare, le veniva il
fiato corto. Cominciava a cantare lunghe nenie e io, allora, sentivo piú forte
l’odore della paglia e dell’urina.
– Tu sposerai Cocangelo, – dissi una volta. – Ho visto di nuovo il sensale
Picone, oggi. Si è fermato piú di mezz’ora.
– È venuto. E con questo? – disse Giulia, allarmata.
– Significa che lo sposi.
– Ho detto che non mi piace, quel tipo. Ma Picone insiste, – disse Giulia.
– Oh, ti piacerà, – dissi con cattiveria. – Cocangelo può darti una bella
casa e una serva. Con la posizione che ha tu saresti donna Giulia.
– Oh, sta’ zitto! Che me ne faccio se non mi piace?
Cocangelo era un uomo piccolo e pigro, venuto da una città dell’est. In
paese tutti lo chiamavano Cocangelo, anche i ragazzini che andavano a scuola
da lui. Si portava dietro una borsa di cuoio sempre piena zeppa dei compiti
degli scolari e faticava molto a reggerla in mano. Passava sotto la mia finestra
alle nove di mattina e all’una di pomeriggio, ma già alle nove di mattina
scoppiava dal caldo. Con gesti torpidi, lenti, si passava il fazzolettone a
quadri sulla testa pelata, per asciugarsi il sudore. Poteva avere trent’anni, e la
gente del paese diceva che si era pelato per il troppo studio.
Quando il sensale Picone andò in casa di Assunta Donato per dire che
Cocangelo, il maestro, era innamorato della figlia, la donna chiamò Giulia e
le disse:
– Si parla del tuo avvenire, figlia, perciò apri bene le orecchie. Un po’ di
dote ce l’hai e tutta la biancheria è nel comò. Ora ti hanno messo gli occhi
addosso. Ti piace il signor Cocangelo?
Giulia rispose subito:
– Il maestro? No, non mi piace.
– È un ottimo partito, – disse il sensale Picone.
Giulia guardò la faccia rossa del sensale e disse:
– Sono ancora ragazza. Non mi piace sposare da ragazza.
Assunta Donato voleva picchiarla, ma c’era il sensale Picone e cosí
rimandò per picchiarla. Tuttavia le gridò incollerita, senza che Picone
capisse:
– E per quel mascalzone non sei ragazza?
Giulia non fiatò. Allora l’uomo rosso tentò di ristabilire la pace e disse che
sarebbe tornato, per sentire se la ragazza avesse cambiato idea.
– E tu non hai cambiato idea? – dissi.
Giulia mi pizzicò sul petto, irritata; io scattai in piedi e l’afferrai per le
trecce, comprimendole la testa sulla paglia. Giulia mugolava per il dolore e,
nel buio, la sua bocca era una ferita bianca, anelante.
Ma adesso non veniva piú in cantina; a volte restava seduta sul caposcala
fino a quando non era mangiata completamente dall’ombra. Di lí, in ogni
modo, trovava sempre l’occasione per lanciarmi dei segni con la mano.
Se passava Pietro Laudato Giulia non si muoveva; con la testa sulle
ginocchia osservava le grandi gambe di mio padre, chiuse nella tuta sporca,
poi lo sentiva gridare in mezzo al pianto di Gino.
Pietro afferrava il figlio per un orecchio e quasi lo sollevava in aria,
mentre la palla seguitava a correre.
– Ihiiii! Ihiiii!
– Ti rompo la testa se ancora ti pesco sulla strada.
Potevo sentire le loro voci eccitate nel crepuscolo. Poi, mio padre entrava
dal sarto Valentino e Gino tornava su. Mio padre aveva il viso sempre tetro,
dopo che la milizia si era sfasciata e lui aveva perso il posto al Comando
legione di Larino. Era caposquadra e sperava congedarsi da maresciallo, per
avere una pensione piú forte. Invece era dovuto tornare sulla porca strada,
con i cantonieri e gli operai che erano i suoi vecchi compagni. La sera
tornava a casa rotto dalla stanchezza e con una gran voglia di dormire. Allora
si metteva in un canto e taceva. Mia madre gli andava vicino:
– Pietro, come va? – diceva.
– Va ancora, – diceva lui.
E restavano cosí: lui carezzando la testa nera, da passero, della moglie; lei
soffrendo adagio, senza parere, per la stanchezza del suo grosso uomo.
Ma adesso c’era disoccupazione e i compagni di mio padre stavano tutto il
giorno sdraiati sul muretto della chiesa, nel sole di settembre e nelle mosche.
Facevano sogni sui muretti, coi bambini nudi che gli saltavano intorno.
Cosí mio padre tornava tardi, la sera, per sapere in giro se c’era qualche
lavoro da fare. Gli operai si auguravano sempre che crollasse un tetto, o una
masseria, in campagna, o il terremoto venisse a spingere la frana sulla
camionale. Ma non accadeva mai nulla, e i loro sogni erano sempre gli stessi.
Mio padre, rincasando, saliva le scale lentamente, insieme a Michele che
aveva smesso dal sarto Valentino. Io li sentivo stando a letto. Essi, in cucina,
mangiavano la minestra in silenzio, poi parlavano un poco. L’argomento del
giorno erano i Tedeschi in fuga e gli Americani che bombardavano il porto di
Termoli. Poi, Michele, veniva a stendersi al mio fianco: odorava di carne
sudata.
Diceva:
– Senti, fatti piú in là.
Mi facevo vicino al muro; dal divisorio sentivo mio padre che si spogliava
spostando le sedie. Nel sonno, Gino, qualche volta strillava sentendo quei
rumori.
Io non parlavo mai volentieri con Michele. Michele era violento e
testardo. Né gli chiedevo come si sentisse dopo il lavoro. Tuttavia, a volte, mi
mettevo a parlargli senza accorgermene, per udirmi parlare, e sentivo sulla
mia pelle la sua carne ferma, che riposava.
L’ultima volta, però, gli chiesi:
– Sei stanco, Michele?
– Oh, senti! – lui rispose. – Mi prendi per scemo? Ho le spalle rotte e gli
occhi che non ne posso piú. Non mi chiamo Marco, io, per non lavorare.
– Non c’è lavoro, lo sai, – dissi tranquillamente, guardando i giornali del
soffitto.
– Ma quella te la lavori, mi pare.
Mi girai di scatto e gli misi una mano sulla faccia.
– Oh, piantala!
Michele non si mosse. Io tornai a stendermi e poi lo sentii, con la sua voce
soffiata in alto:
– Senti, – disse, prima piano, poi sempre piú furioso; – senti, viene
Pasquale Cionca e dice: «Bella, quella figliola, eh Michele? E che bravo
ragazzo Marco, eh Michele?»
– Io sto zitto e seguito a cucire a macchina, facendo rumore col pedale per
non sentirlo. Ma lui riprende: «E si sposeranno, eh Michele? Quel Cocangelo
ha fatto proprio un buco nell’acqua».
– Senti, io non parlo ancora, ma tutti quelli che stanno nella bottega
ridono, e poi attacca Rocco Mansueto. Dice: «Non sembra, ma c’è proprio
uscita una bella troietta, eh?» Io, allora, mi volto e gli sbatto in faccia il
vestito che cucio. Gli dico: «Tu sei un porco che va a letto con Giuseppina
Thomass e lascia i figli a crepare di fame!» Rocco non parla piú e si fa rosso
per la rabbia. Ma in quel momento Valentino si mette a strillare da dietro al
banco e dice: «Andate a farvi ammazzare tutti quanti. Che è diventata una
bettola, la bottega?» Io mi rimetto alla macchina, ma ormai ho i nervi per le
braccia e non combino piú niente. Sbaglio a cucire per i nervi che ho nelle
braccia e nelle gambe. Quando Valentino se ne accorge gira intorno al banco,
si pianta dietro le mie spalle e mi dice: «Senti, Michele, fatti una passeggiata
fino al mercato. Torna quando sei calmo». Io mi sento la rabbia dentro il
petto, ma esco lo stesso. Ed ecco che, fuori, vedo Giulia sul caposcala, come
un cane in mezzo alle mosche. Poi, mi fermo al distributore e tu stai dietro la
finestra. Oh, senti, io me ne fotto di voi e di tutti.
– Zitto, Michele, – dissi. – Penso che andrò via. Penso sempre che da qui
bisogna andar via.
– Oh, via! Tu starai qui fin quando campi. È una parola andar via.
Pietro Laudato gridò dal divisorio:
– È mezzanotte, state un po’ zitti? – Michele respirava leggermente; con
gli occhi piccoli, grigi, fissava i giornali del soffitto.
– Non arrabbiarti, Michele. Non serve, – dissi.
– Senti, romperei la faccia a tutti, io, e per te.
– Sí, Michele. Ma adesso dormiamo. Buona notte.
Fino a tardi restammo a guardare i giornali; i caratteri ingrandivano e
rimpiccolivano. Formavano una nuvola nera nel soffitto.
II.
Karl era taciturno, sospettoso; col viso lungo, incavato sotto il labbro
inferiore, pareva una scultura ben modellata. Come per antica abitudine si
ravviava i capelli gialli sulla fronte con gesti or lenti ora rabbiosi.
Karl non amava la conversazione, era un tipo piuttosto meditativo e le sue
idee dovevano oziare intorno a problemi astratti. Di notte, con la testa fuori
dello sportello, egli inseguiva la parabola discendente di un bengala, che
appariva simile a un palloncino bizzarro lanciato in alto, molto in alto, come
avviene nelle feste campagnole. Ma, di solito, il cielo era una fioritura di
bengala. Allora, Hans, spingeva la macchina in un fosso, si tagliavano frasche
ai margini della strada e si copriva la cappotta: noi, lunghi distesi sotto il
camion, i pugni chiusi sulla faccia, sentivamo il fischiare degli spezzoni
nell’aria e il ronzio alto, tremante, dei bombardieri.
Ma il caporale era ciarliero. Aveva improvvisi scoppi di allegria e
altrettanto rapide malinconie. Egli dimenava il testone calvo quando cantava,
e le venuzze del suo cranio avevano colori verdognoli. La sera, fermata la
macchina presso una fattoria, fra mete di paglia marcia e pannocchie di
granoturco, restavamo per delle ore immobili, seduti sull’erba, contemplando
i barattoli vuoti della carne. Allora Hans andava a prendere il portafogli a
mantice nello zainetto e, tornando, mi sciorinava davanti agli occhi le
fotografie della famiglia. La moglie una bionda grassa, dagli occhi chiari, e le
figlie due pupattole di stoppa molto alte, con petto abbondante e prive di
fianchi.
Hans, fra loro e nel vestito civile, sembrava un birraio della vecchia
Berlino.
Dopo qualche giorno eravamo riusciti a intenderci io e Hans. A
conclusione di ogni nostro sforzo poi mi batteva il suo manone di scimmia
sulla spalla e diceva:
– Na, ausgezeichnet, Mensch!
I due italiani fuggiaschi se ne erano andati. Quello con la benda
sull’occhio mi lasciò una valigetta, se mai potesse servirmi per il viaggio,
disse. Ma non mi serviva. Tuttavia, ad averci qualcosa per le mani, mi
sembrava d’essere meno nudo.
Attraversavamo paesi e città senza fermarci; molte case erano crollate,
tagliate a metà come fette di prosciutto; avevano le persiane pendenti, buchi
enormi nella pancia e, le travi spezzate, nella sera, sembravano mani di morti.
In una casa a tre piani, senza piú il muro che guardava la strada, si vedeva
una tromba di scale stroncata; la spalliera di un letto ballava nel vuoto al
vento di scirocco, e un quadro della Madonna con il vetro rotto si reggeva su
di un pitale di maiolica molto grande, lucido come pulito di recente. Il
bombardamento era passato di notte su quella casa.
Per diversi giorni, davanti ai miei occhi non abituati, fuggivano e si
presentavano teorie di case distrutte e città come sepolcri. Piú si andava a
nord e piú la desolazione aumentava. Contadini e ragazze erano per i campi.
Guardavano i camion con i pneumatici che friggevano sull’asfalto.
I Tedeschi mi lasciarono a Padova. Gli avevo detto che andavo a Venezia,
mentre loro proseguivano per Bassano del Grappa. Ma prima di salutarci
andammo alla ricerca di una casa. In un vicolo sporco, con carta immondizia
e gatti fra lo sporco, trovammo la porticina ad arco, in marmo liscio, dov’era
la scritta: AVANTI .
La vecchia di guardia cuciva con un gatto sui piedi. Alzando gli occhi mi
scrutò lungamente. Poi disse:
– È riservato ai militari tedeschi.
Non protestai. Mi buttai a sedere su di una panca, all’ingresso, aspettando
che tornasse Hans.
La donna mi lanciava occhiate.
– Anche tu sei soldato?
– No, – dissi.
– Ti portano via? – chiese, alludendo ad Hans col quale mi aveva visto
prima.
– No, – dissi. – Quello è un amico di viaggio.
– Bell’amico, – la vecchia borbottò; in quel momento rispedí fuori un
militare italiano sopraggiunto.
Poi Hans tornò. Aveva la faccia infiammata e la vecchia, vedendolo, gli
fece una smorfia, come una risata. Hans divenne timido, salutò. La vecchia si
sollevò il gatto sul grembo e disse a me, cantando:
– Auguri, cocchetto.
Io dissi:
– Grazie.
Fuori prendemmo un cognac. Frizzava. In un bar vicino prendemmo un
altro cognac. Al camion ci salutammo. Karl mi tese la mano, Hans mi
abbracciò. Mi teneva per il busto e i suoi occhi di birraio mi guardavano il
naso. Mi infilò nelle tasche un pacchetto di trinciato dolce e dei sigari.
– Prendere, – disse. – Prendere, Mensch!
Gironzolai a caso per la città, perché il treno per Venezia partiva tardi.
Sant’Antonio di Padova. Sant’Antonio di Padova e Giotto. «A Padova c’è
Giotto e Sant’Antonio» diceva don Luciano ai pellegrini che volevano
partire. Sant’Antonio di Padova. Guardavo le insegne dei negozi e i semafori,
i fili del telefono e le donne. Sant’Antonio di Padova e Giotto. Le case erano
alte e strette, foglie d’insalata e cani erano sulla strada. Sant’Antonio di
Padova.
Mi venne fame. Frugandomi per le tasche vi rinvenni un gettone da due
lire. Sotto le dita il gettone era lucido. Toccavo i baffi di Vittorio Emanuele.
In un crocicchio con della gente buttai il gettone a una ragazza col canestro
sotto il braccio. Quella mi diede delle patate americane abbrustolite. Le patate
erano dolci e si spappolavano sotto il palato. Alla stazione visitai le latrine.
Un uomo col berretto nero in testa mi prese per un braccio e disse che dovevo
girare l’angolo. Una signora grassa, con una borsa nera sul ventre, entrò dove
io ero entrato. Richiuse la porta di colpo.
Quando arrivò il treno cacciai le patate nella valigia. La valigia faceva
unò, dué, nella mano. Pensavo ai balilla che facevano unò–dué sulla strada
della fontana. Cocangelo era capomanipolo e strillava unò–dué con la gola
rauca. I balilla ridevano. Gli avanguardisti portavano il fiocco dentro il collo
e il fucile appiccicato all’occhio. Unò–dué.
Riuscii a trovare un posto vicino al finestrino; deposi la valigia sotto il
sedile davanti e vi posai su i piedi. Poi la signora grassa della latrina, sempre
con la sua borsa di vernice nera sul ventre, mi chiese il posto per piacere sa
scusi tanto vicino al finestrino e io scambiai di nuovo la valigia. Era ancora
chiaro.
Quando venne il controllore finsi di dormire. Un uomo nero, secco, con la
lanterna cieca in mano. Le facce dei passeggeri diventavano verdi con quella
luce davanti; essi si chinavano da una parte, si frugavano addosso, poi
consegnavano un coso rettangolare all’uomo nero. Le loro facce, dopo,
tornavano bianche nel buio.
Quasi subito me lo sentii dietro le spalle. Mi batté sul gomito con un dito
enorme, come un lombrico. Poi parlò:
– Biglietto, signore!
Una sensazione di freddo mi prese alle viscere. Ma non mi mossi. Il dito
dell’uomo riprese il suo viaggio sulle mie spalle, saltellando e battendo:
– Signore, biglietto!
Potevo vedere la mia faccia verde, rossa presso le orecchie dove batteva la
luce rossa dell’altra facciata della lanterna, ma non mi mossi. Infine la
signora della latrina disse con voce dolce:
– Lo lasci stare, povero figliolo. Non vede che è un reduce?
Il controllore esitò, poi mi sentii la spalla leggera e la voce monotona
dell’uomo mi giunse da molto piú lontano, smorzata dall’aria che fischiava
tra le carrozze.
A Venezia i passeggeri imboccarono l’uscita consegnando i biglietti al
ferroviere. Era buio, adesso. Io me ne andai nella sala di terza classe, per
aspettare il giorno. Tutt’intorno, sulle panche, erano sdraiati uomini e donne e
bambini che aspettavano il treno del mattino. C’era freddo, lí dentro.
Mi accomodai in un angolo, aspettando di dormire. Una ragazza andava su
e giú per la sala con la borsetta rossa, scorticata, buttata sulle spalle.
Sorrideva tra i denti. Spesso usciva fuori, sotto la pensilina, e tornava. Le
donne che aspettavano il treno la guardavano con occhi infossati, severi. La
ragazza aveva gambe da cavallo. Poi la vidi attraverso i vetri della porta con
un ferroviere piccolo, fuori. Udii le loro risate. Poi non la vidi piú. Tornò
forse dopo mezz’ora, con la cipria sugli occhi e riprese la passeggiata
sbadigliando. Quando venne una guardia la ragazza cavò dalla borsetta il
permesso giallo e la guardia s’inchinò. Poi la dimenticai perché avevo sonno.
Al mattino scesi verso piazza San Marco. Guardavo in giro; la laguna non
mi piaceva, né il freddo che inseguiva la gente lungo i canali, né quei ponti
continui, né quell’odore di algamarina e sarde, che veniva dal basso. Poi
sorse il sole dietro le case nere dei vicoli, e quando giunsi in piazza San
Marco il sole era pieno e il mare luminoso. La gente si trovava tutta lí e la
basilica era coperta con una impalcatura. La gente entrava e usciva dalla
basilica. Gli ufficiali tedeschi camminavano rigidi e impettiti tra la gente,
battendo i tacchi degli stivali. Avevano placche di cuoio sulle chiappe, come i
cavallerizzi. Gli ufficiali tedeschi entravano in un grande albergo sulla riva
degli Schiavoni e si portavano dentro la loro ombra. Sulla porta due sentinelle
scattavano come molle e si rigiravano il moschetto fra le mani, in diversi
esercizi. Avevano in testa grossi elmi, ed erano rigide e serie come
marionette.
– Questo è il ponte dei Sospiri, – disse una ragazza al suo ragazzo. Il
ragazzo sorrise e guardò in alto, i Piombi, il cui tetto di lamiera brillava sotto
il sole.
Mi appoggiai al muretto del ponte guardando le sentinelle. Il sole mi
scaldava la nuca e io non pensai piú d’essere felice. Contemplavo le placche
di cuoio sul deretano degli ufficiali. Filippo Abrupto. Che nome brutto; glielo
dicevo sempre. Lui rideva col naso. Filippo Abrupto. Diceva che con la
guerra, be’, chi ti va a ricercare con la guerra? Diceva che l’avrebbe attirato
sotto il ponte facendogli capire che c’era la ragazza. Lí l’avrebbe fatto sul
colpo. Lui voleva i suoi pantaloni con il cuoio sulle chiappe.
Gli ufficiali entravano e uscivano. Infine sulla porta dell’albergo comparve
un soldato con l’elmetto in testa, e lui guardava dalla mia parte e sbirciava
ora me ora la valigetta che avevo in mano. Doveva essere il capoposto.
Dopo un poco la valigetta divenne pesante, cosí me l’adagiai ai piedi. Il
capoposto rientrò e tornò con un ufficiale in elmetto, e anche lui prese a
guardarmi. Doveva essere l’ufficiale di picchetto. Poi anche le sentinelle
presero a guardarmi e io non capivo perché mi guardassero. A un tratto mi
prese una irragionevole paura. Di scatto raccolsi la valigetta e mi staccai dal
ponte per andarmene, ma la paura mi crebbe allorché lo vidi lasciare la porta
e venire verso di me. Volevo correre, ma il soldato gridò: – Ehi, tu! Uno
momento.
Mi fermai sulle scale senza voltarmi. Sentii il fiato corto del tedesco dietro
le spalle, poi me lo vidi a lato, alto, con la placca nera del cinturone contro il
mio braccio. Che significa Gott Mit Uns? Guardavo la placca del cinturone.
Mi strappò di mano la valigetta, l’aprí di colpo, sulle scale rotolarono le
patate. Filippo Abrupto! Una strana confusa espressione allargò le rughe sul
volto del tedesco che non trovava, ora, le parole da dire. Guardava correre le
patate. Filippo Abrupto! Poi, di colpo, mi ricacciò in mano la valigetta e
brontolò: – Ich bedaure.
Fece dietro front sui tacchi, camminò nel sole fino alle sentinelle che,
adesso, guardavano altrove. Anche l’ufficiale di picchetto era sparito e, sulla
porta dell’albergo, era come se si fosse fatto subito un gran vuoto.
«Mi hanno preso per uno che porta le bombe», dissi fra me.
Raccolsi le patate, una per volta e le ricacciai nella valigetta. Poi corsi a
cercare la gente per nascondermi. Camminavo senza voltarmi indietro,
aprendomi il passaggio a colpi di spalla. lo farei sul colpo mi sentirei proprio
quel cuoio lo vedo anche la notte sul culo eh senti direi che c’è la donna
sotto il ponte e lo farei sul colpo lí nessuno lo saprà e i pantaloni mi
andranno. Quando arrivai ai rifugi ripresi a camminare piano, per calmare
anche l’affanno che mi era venuto. Filippo Abrupto! C’erano poche persone
ai rifugi. Bambini e vecchie signore sedevano sulle panchine di pietra, di
fronte al mare e al sole in quell’ora calda prima di mezzogiorno. Le vecchie
parlavano inutilmente ai bambini e spesso pronunciavano la parola amore. I
bambini non capivano, ma ridevano e sgambettavano.
Le vecchie mi guardarono un attimo appena comparvi nella loro aria e mi
osservarono. Poi, in loro, cadde anche l’interesse e tornarono a chiacchierare,
sporgendo in fuori un pezzo di lingua. La lingua se la passavano sulle labbra
sottili, tinte appena di rossetto.
Andai piú su verso la riva libera. I vaporetti attraccavano a San Zaccaria e
ripartivano. Il fischio dei vaporetti era come imbottigliato dentro una galleria,
ma i passeggeri e le persone sulle rive non vi facevano caso. Forse per
l’abitudine.
Oltre i rifugi c’era una scaletta di pietra che immetteva nell’acqua. Lo
scalino, nell’acqua, sembrava di vetro liquido. Ai pali si dondolavano le
gondole. Poi un paron con la maglietta a righe bianche, lungo e secco come
quei pali conficcati nell’acqua, mi chiese se dovevo attraversare. Gli sorrisi.
No, non dovevo attraversare. Andai piú su. Pestavo le gambe della mia
ombra. In un luogo in cui non c’era nessuno aprii la valigetta e scaricai le
patate in mare. Fecero: pluc, pluc! Adesso la valigetta era piú leggera. anche
tu sei scappato dal fronte eh vedi un maledetto filo di ferro tieni ti potrà
servire per il viaggio io mi chiamo… Me la rigirai tra le mani e strappai una
striscia di cartone. Faceva il rumore della pelle d’asino che si scortica. non
vale molto non vale niente anzi ma sai per il viaggio scusa non faccio per
liberarmene… La buttai giú. Fece: pluff! rimbalzando come una palla di
gomma. Scomparve dopo alcuni sballottamenti, aperta e piena d’acqua,
assorbita dalla corrente del canale. In quel momento suonò la sirena di
mezzogiorno.
Tornai indietro, le mani affondate nelle tasche. Non sapevo mai dove
mettere le mie lunghe mani. E non riuscivo a liberarmi della tristezza che mi
aveva preso fin dalla notte prima nella terza classe della stazione, fra la gente
in attesa del treno e la prostituta. Ora camminavo lentamente, a vuoto, e
pensavo che è una cosa buffa crescere.
Adesso le vecchie s’erano alzate, tenendo i bambini per mano. Se ne
andarono col loro passo adattato a quello dei bambini, sempre discorrendo
vuotamente, delle loro piccole cose. Mi buttai a sedere dove loro erano state
sedute, di fronte al mare. L’ombra mi sedeva sotto. Isole di case sorgevano in
mezzo alla laguna. In quell’ora nebbiosa e solare quelle case assumevano
l’aspetto di castelli di pan grattato.
V.
Ora faceva meno fresco. Non sapevo dove andare, per cui presi a girare a
caso. Davanti a una vetrina di calze contai i soldi che mi restavano. Era
ancora lo stipendio dei Tedeschi che non avevo potuto spendere.
Ottocentosessantacinque lire. Spendendoli con criterio potevo camparci
quindici giorni.
– Bene, alla faccia dei Tedeschi, – dissi felice.
Entrai da un barbiere. Barba, capelli e schampoo. Il barbiere era anziano,
gentile. Questi barbieri sono quasi dei gentiluomini e non assomigliano
affatto a quelli dei paesi. Mi diede da leggere il «Corriere della Sera» e
cominciò a sforbiciare.
Il giornale parlava del nostro strenuo coraggio in linea e delle incursioni
che subivano le città italiane. Diceva che il popolo italiano non si
demoralizza per le incursioni che, anzi, rafforzano il suo coraggio e la sua
volontà di vincere. Nettuno intanto era caduta e gli Alleati picchiavano forte
su Cassino. Ma Cassino non sarebbe caduta. E se anche Cassino fosse caduta,
l’armata del generale Clark non sarebbe mai entrata a Roma. Roma era
imprendibile. Oppure l’avrebbero dichiarata Città Aperta. Diamine, bisogna
avere un po’ di rispetto per le opere d’arte e per San Pietro! Ma gli Alleati ne
avevano già troppo di rispetto per San Pietro. Il Vaticano non faceva la loro
politica? E aveva riconosciuto, il Vaticano, la Repubblica Sociale? Il
Vaticano non l’aveva riconosciuta, quindi faceva la politica del nemico.
Allora bisogna dargli una lezione. Bene, se vinciamo, come è certo che
vinciamo, prenderemo Pio XII per la tonaca e lo porteremo a Campo de’
Fiori, sul rogo che fu di Giordano Bruno. Buttai il giornale sull’altra poltrona.
Il barbiere mi chiese se preferivo un po’ di colonia, oppure una frizione dopo
lo schampoo. Io dissi:
– Tutto quello che volete.
Poi uscii. Andai al Luna Park. Soldati portavano il fez nero in testa,
pugnali e mitra. Con quelle giacche senza colletto assomigliavano ai
paracadutisti della Folgore. Le ragazze facevano udire le loro risate squillanti
mentre andavano sulle montagne russe e sulle automobiline. I soldati del
vecchio esercito, con i gladi al posto delle stellette, e insaccati dentro divise
da magazzino, sembravano i parenti poveri in mezzo alla famiglia degli altri
soldati.
Andai al tiro a segno. Sparava un soldato biondo, bravissimo. Ogni volta
che il colpo andava bene una macchina scattava ed egli rimaneva fotografato
con tutti i soldati che gli stavano intorno. Io gli vedevo la nuca pallida e un
angolo della bocca che sorrideva alla ragazza rossa del baraccone. Poi mi feci
avanti a colpi di spalla per provare s’ero capace con quella carabina. Ma un
soldato grasso, che urlava e diceva: «Bravo, Keller!», ogni volta che il
ragazzo biondo faceva centro, disse sulle voci di tutti:
– Adesso basta, Keller, facciamo provare a lui.
Il ragazzo del tiro a segno si voltò e disse:
– Oh, guarda. Poi rise.
– Lo conosci quest’imboscato? – gridò il soldato grasso.
– Perbacco, – disse il ragazzo biondo. – Non è un imboscato, camerati.
Anche lui ce l’ha una divisa.
Il soldato grasso disse ridendo:
– E se l’è venduta, adesso, la divisa?
Keller rise e mi guardò. Disse:
– Via, lavativi.
Pagò e mi venne incontro tra la calca. Insieme uscimmo nel viale. Lui
sorrideva. Disse:
– Volevi sparare? Sono dei cretini, quelli. Credono che chiunque porti
abiti civili sia imboscato. Ma come hai fatto a capitare da quell’ebreo di
Samuele Chonn? Sei scappato dal fronte?
– Sono in licenza, – dissi.
– E sei parente di Samuele Chonn?
– Ma fammi il piacere! Chi lo conosce Samuele Chonn? Sono passato di là
a bere, poi mi ha prestato un vestito borghese. Vuoi che passi la licenza con
quella sporca divisa?
– Oh, bene, bene, – fece Keller. – Se vuoi saperlo a me non importa un
cavolo se sei in licenza o sei scappato.
Camminavamo per il viale. Keller salutò una ragazza e quella tirò fuori la
lingua.
– Chissà cosa avrai pensato di me quando mi hai visto con quel pacco, –
disse.
– Mah, non ho pensato niente, – dissi.
– Bell’affare! – lui fece. – Trecento lire una coperta a due piazze. Sono
tutti ladri fottuti, specialmente quell’ebreo. Ma perché non l’ha voluta mi
pare ancora un mistero.
– Doveva averci le sue ragioni, – dissi.
– Ragioni un cavolo! Se mi capita a tiro gli farò vedere le sue ragioni. Mi
ha preso per scemo. «Non compriamo roba. Questo è un bar.» Che porco! È
l’uomo piú porco che io abbia conosciuto. «Vi sbagliate. Noi non facciamo
contrabbando.» Capisci com’è insultante? È un lurido partigiano, quello. Ma
se mi capita a tiro…
Camminavamo lungo la fiera. Sul principio del viale una ronda italiana
fermò un soldato. Il soldato scattò sull’attenti.
– Si è fatto fregare senza fez, – disse Keller. – Senti, leviamoci di mezzo.
Io non posso digerire le pattuglie. Sono sempre dei piantagrane.
Scendemmo la scarpata. Prendemmo a camminare lungo i carrozzoni della
fiera. La ronda non si vide piú.
– Perché ti chiami Keller?
– Oh, non proprio Keller. Mi chiamo Kellermann. Sono oriundo tedesco,
ma in Germania non ci sono mai stato. E non desidero andarvi. Dicono che si
stia maluccio ora che c’è la guerra.
– Tu sei volontario nelle Brigate Nere?
– Certo. Ma mi faranno ufficiale.
I carrozzoni avevano le persiane verdi e le stanghe in giú. In un carrozzone
una donna cantava e su quello c’era scritto in grande CIRCO TOGNI. Era
venuto buio e la musica della fiera, in quel punto, giungeva appena. Ma si
vedevano le altalene e i carrelli frenetici delle montagne russe. Da lontano, gli
uomini nei carrelli, sembravano cartoni animati.
Voltandomi vidi la ronda di prima venire per la strada dei carrozzoni e i
tre soldati che la componevano camminavano lentamente. Sembrava che non
avessero fretta.
– Pare che ci pedini, – dissi a Kellermann. Kellermann si girò a guardare
ed ebbe un moto di fastidio.
– Buttiamoci nei vicoli, – disse. – Conosco un luogo dove la ronda non
entra mai. Hai fame, tu?
– Io sí. Tu non mangi in caserma?
– Ho il permesso di ventiquattro ore. Vedrai, sarai contento di questo
posto.
Ci internammo in una viuzza che, per un buon tratto, costeggiò il giardino
zoologico. Non avevo ancora fiducia di Kellermann. Tuttavia mi facevo
trascinare. Quando riprendemmo per una strada nuda, fra alte case nere,
Kellermann disse:
– Ci siamo.
A una trattoria sormontata da un giglio in ferro battuto, Kellermann spinse
la porta. Ci investí un tanfo di fumo e salsa. Sedemmo a un tavolo in
penombra, dietro a uno spigolo. Il cameriere venne presto; era un uomo in
marsina, confidenziale.
– Non c’è Eleonora, Peppino? – chiese Kellermann.
– Nossignore. Non è venuta ancora, dottore. Però c’è Rita, la Tripolina e
Dodò.
– La Tripolina, Peppino, – disse Kellermann. – Fa venire la Tripolina e
portaci un fiasco bianco e due asciutte. A me col burro come al solito, non
posso ancora mangiare rosso.
– Molto bene, dottore, – disse il cameriere, e s’inchinò.
Era un ambiente curioso. I tavoli erano nascosti dietro gli spigoli e la
grande sala sembrava fatta di vuoti e di sporgenze. Le voci che riempivano il
locale erano discrete, basse, ma non si vedeva chi parlava. Si udivano le risate
delle donne tra le pareti bianche, con degli stucchi da teatro.
Tornò il cameriere con gli spaghetti.
– È un vostro amico? – chiese indicandomi con un sorriso.
– Sí, è dei nostri; non pianta grane. E la Tripolina?
– Eccola che viene, – disse Peppino girandosi a guardare. – Naturalmente
appena vedo Eleonora ve la mando, dottore.
Se ne andò. La donna era alta e delicata e vestiva di scuro. Rise felice
vedendo Kellermann. Aveva un dente di metallo nel sorriso.
– Ciao, gioia, – fece Kellermann. – Ti ho portato un amico.
– Grazie, caro, – fece la donna. Mi guardò: – Ciao! – disse. – Hai una
sigaretta?
Le diedi la sigaretta.
– Oh, una tedesca. Sei tedesco anche tu?
– Senti, Trí, prenditi il bicchiere e bevi, – disse Kellermann. – Non è
tedesco il mio amico, e neanche io. Vorrei sapere cos’hai da dire sui
Tedeschi.
– Hai un buffo nome, tu, – disse la ragazza.
Alzammo i bicchieri e Keller fece il brindisi. Disse dei versi sconci, poi
toccammo i bicchieri e bevemmo. La ragazza se ne versò ancora, piú volte. Si
accostò di piú e io sentii il caldo della sua coscia contro il mio ginocchio. Le
versai ancora da bere.
Il cameriere portò una bistecca. La ragazza ne tagliò un buon pezzo e lo
inghiottí.
– Hai fame?
– Macché, – disse. Con la forchetta prese a pizzicare nel piatto
dell’insalata. Poi bevve ancora. Infine si buttò indietro sulla sedia e rise.
Guardava con occhi lucidi.
– Non sarai mica sbronza, no? – chiese Kellermann.
La donna appoggiò la testa sulla mia spalla e rise ancora fra i denti.
– Baciami, – disse.
La baciai.
– Ancora.
– Senti, è sbronza, – disse Keller. – Portatela via presto.
Mangiavo l’ultimo pezzo di formaggio.
– È sbronza, – ripeté Kellermann. – Prendila per la vita se non vuoi che ti
caschi.
– Non sparlare di me tu, dottore, – fece la donna a labbra socchiuse. – Ma
perché ti fai chiamare dottore? Sei proprio dottore, tu? Tu sei un ragazzo e
non un dottore.
Kellermann allungò il braccio sul tavolo.
– Metti le mani fra le gambe, dottore. E tirale fuori quando viene Eleonora
–. Poi, rivolta a me, la ragazza disse: – E tu perché mi guardi e non gli fai
mettere a posto le mani? Siete proprio come tanti ragazzini, voi uomini.
Diedi i soldi a Kellermann perché pagasse anche per me.
– Non preoccuparti, – egli disse. – Eleonora ha la stanza accanto alla
vostra. Io credo che verrà presto.
– Bene, allora. Ciao.
– Ciao, – fece Kellermann. Ci sorrise. Io non badai al suo sorriso. – Ciao.
E divertiti, – aggiunse. Si abbandonò tutto contro lo schienale e accavallò le
gambe.
Camminammo per lo strano laberinto degli spigoli e delle sporgenze. Alla
cassa la ragazza ritirò una chiave. Un caporale della guardia repubblicana, in
una nicchia, aveva il pugnale fra due donne.
– Quale di voi due? – andava dicendo. – Quale di voi due sarà la mia
Isotta?
Prendemmo per delle scale rischiarate da una luce pallida, azzurra, che
pioveva dall’alto. Davanti a una porta, sul pianerottolo del secondo piano, la
ragazza disse ansimando:
– È questa.
Dentro c’era aria calda che sapeva di cipria e lavabo. Pochi oggetti erano
sparsi sul comò e la toletta. Sul comò c’era la fotografia d’un sergente dalla
faccia di bambino. Poi altre fotografie della Tripolina infilate nella cornice
dello specchio.
– Spogliati presto, caro. Ho un sonno!
Presi a spogliarmi adagio, guardandola. Infine mi cacciai sotto le lenzuola
e battei un po’ i denti. Poi mi venne caldo.
Odorava di vino. Me ne andai all’estremità del letto. Nel buio sentivo il
gocciolare dell’acqua nel lavandino. Ombre nere si staccavano dal muro e mi
venivano in faccia, poi si allontanavano. sono tanto infelice Marco, ma tu
vuoi andartene ascolta Marco Marco… Ficcai la testa sotto il cuscino.
Marco sei cattivo sai ti voglio tanto bene io… Accesi la luce. La donna
russava con la bocca aperta, il viso stirato e grasso. Nella bolla di bava
all’angolo della bocca il dente d’ottone era bianco. Spensi di nuovo. gli ho
detto che non mi piace quel tipo oh ti piacerà con la posizione che ha può
darti una bella casa e una serva saresti Donna Giulia…
Venne un gran colpo alla porta. La ragazza balzò a sedere sul letto e gridò:
– Chi è?
– Polizia. Aprite!
La ragazza ebbe un tremito, cercò la peretta e accese la luce. Poi disse
angosciata:
– Oh, Dio! La polizia! E che vuole la polizia? Vai ad aprire tu, corri! Se no
sfondano la porta.
Quelli, fuori, battevano con i calci dei fucili.
– Fate presto! O vi buttiamo giú la porta, – disse uno di fuori.
Il tremito prese anche me. Cercai le brache, le infilai.
Infilai anche le scarpe, la camicia, mi diedi una pettinata.
– Ecco che veniamo, – disse la ragazza e, intanto, s’era tutta rannicchiata
nelle coperte. Andai ad aprire. La ronda del Luna Park era sulla soglia; i
soldati avevano i mitra puntati contro di me. Entrarono.
– Ma che volete, voi? – strillò la ragazza.
– Sta’ zitta tu, puttana! – disse il sergente. Poi a me:
– Tu sei quello che è scappato dai Tedeschi? Sí, sei tu, si vede. Il ragazzo
giú ha detto che eri alto e magro.
– Kellermann? – chiesi. – È stato Kellermann?
– Cerca di far poche chiacchiere e rivestiti presto, capito? – disse il
sergente con voce dura. – Lo sai cosa succede ai disertori?
– Ma fatemi il piacere! – allora dissi. – Non sono un disertore.
Il soldato di destra mi diede una botta sulla spalla.
– Non lo toccare, Cimmin, – disse il sergente. – Allora non sei un
disertore?
– Oh, che razza di balle…
Il soldato di destra mi diede un’altra botta.
– Cimmin, non lo toccare! – gridò il sergente. Poi aggiunse: – Sicché noi ti
raccontiamo delle balle, eh?
Poi gridò:
– Avanti, porco. Rivestiti alla svelta. Non se l’aspettava lui, eh? Non se
l’aspettava.
Tremavo per il nervosismo.
– Fifoso stupido, – disse il sergente vedendomi tremare. – E tu mosca,
bellezza! Potremmo portar dentro anche te.
– Ma che c’entro io?
– Facevi l’amore con un traditore della Patria, – disse il sergente pieno di
sdegno. – Ciò può essere sufficiente per spedirti a San Vittore.
– Oh, Dio! – fece la ragazza. – E che ne sapevo io che è un traditore,
quello? E chi l’ha mai visto ’sto tipo? Me l’ha presentato uno dei vostri, io
che c’entro?
– Lo sappiamo, lo sappiamo, – disse l’altro soldato, con sufficienza.
– Avanti, allora, – disse il sergente spingendomi verso la porta. – A donne
ci verrai un’altra volta… se ne avrai tempo.
I soldati si chiusero dietro la porta. Sul pianerottolo mi spinsero con i
mitra alle spalle. C’era uno strano silenzio. Forse le donne delle altre camere
stavano ascoltando. In quel momento, dal fondo delle scale saliva
Kellermann con un donnone biondo. Appena ci raggiunse mi guardò
ironicamente, con quella sua scintilla nell’occhio.
Mi venne una voglia pazza di prendermelo nelle mani. Ma un soldato mi
trattenne per la giacca.
– Sta’ fermo, – disse il sergente, e Cimmin mi diede la solita botta alle
reni. Poi il sergente disse a Kellermann:
– Grazie, camerata. È un bel colpo.
– Lo credo, – rispose quello. – Ho fatto solo il mio dovere.
Scendemmo ancora. Udii Eleonora chiedere al ragazzo:
– Chi è quel tipo?
– Un disertore. Ho dovuto faticare per farlo acchiappare.
– Poverino! – fece la donna.
I soldati cercarono un’altra porticina per uscire, senza passare per il
ristorante. Poi udii gridare dal pianerottolo, in alto:
– Perché hai scelto proprio me per ’st’affare sporco?
– Non fare la cattiva, cara, – fece una voce di uomo.
– Noi facciamo la guerra e in qualche modo anche voi do…
– Sei un vigliacco, dottore dei miei stivali, – gridò la donna, e richiuse la
porta con rabbia.
Noi uscimmo nell’aria fredda della notte.
X.
è un povero ragazzo tenente non vive nel nostro mondo dovrà pur viverci
Cristo
è scappato di casa cercando chissà cosa fuori
Ora il freddo era sceso e con esso anche la tregua in Val Sesia. Si
aspettava la primavera, ma la tregua puzzava d’insidia. La notte, di pattuglia,
s’udiva qualche rara fucilata sparata a caso dai nostri.
Il sergente Elia bestemmiava contro la porca guerra.
– Sono stato in Africa e ho visto la paura a Bir-el-Gobi, – diceva con una
certa stizza. – Ma una schifezza di guerra come questa non l’ho vista mai.
Elia era un giovane dal pelo di corvo, un meridionale angoloso e ruvido
che da civile faceva il mercante di olio. Sotto le armi aveva letto a caso dei
libri e si era preso un’infarinata di roba classica che rimestava sempre nel
cervello. Ma dopo tante esperienze pareva diventato cattivo e miserabile
come gli altri. Tuttavia, a forza di stare insieme, eravamo diventati amici e ci
confidavamo molte cose.
Per tre mesi, da quando eravamo giunti come rinforzi alla legione, i ribelli
s’erano divertiti notte e giorno a pizzicare sempre qualcuno. Poi ci
abituammo e anche i morti non li contammo piú. Essi erano registrati solo nei
comandi e nelle furerie. I loro posti venivano rimpiazzati da altri giovani che
venivano dalla città, senza che sapessero nulla della guerra e della guerriglia.
E anche per questi c’erano serbate le medaglie, perché decoravano al valore
chiunque moriva, anche se si facevano accoppare da poveri esaltati. Ma i
morti casuali c’erano senza che la legione s’impegnasse a fondo in una
azione, perché i ribelli ci sparavano dalle fratte e dai borri, alle spalle, senza
che noi riuscissimo a vedere i loro visi. I ribelli erano irraggiungibili. Si
dileguavano sui versanti delle montagne e nei pozzi che solo loro
conoscevano, senza lasciar perdite, e forse ridendo del nostro ottuso coraggio.
Avevamo facce paonazze e i fucili ci tremavano nelle mani; a volte
qualcuno di noi cadeva, colpito al petto proprio mentr’era occupato a
ricaricare l’otturatore, e il fucile gli sbatteva sulla fronte già fredda.
– Noi siamo nati per fare questa guerra, – diceva il sergente Elia, – e per
morire in questa guerra.
– Da fessi, – io rispondevo.
– Ragazzo, tu non sai quel che dici, – egli esclamava. E aggiungeva: –
Cosa credi che conti la nostra vita, domani, da grassi borghesi? Nulla conta,
Marco. Essa ha un valore oggi che la Patria ce la chiede.
– Ma qual è la nostra Patria, sergente? – io gli chiedevo.
Elia si toccava la barba pensierosissimo, poi sbottava:
– Ma… a questo punto siamo con l’istruzione? Eppure sei stato in
collegio, tu.
– Credo di essere molto asino, sergente.
– Quanti anni hai, Marco?
– Diciannove, sergente. Sono partito di casa che ne avevo diciotto. E sono
molto asino.
– Ne dimostri di piú. Ma non sembra che tu sia tanto asino.
Si tirava su i pantaloni che minacciavano sempre di cadergli, data la sua
spaventosa magrezza, e poi si fregava le mani su e giú sul di dietro:
– Di’ la verità, Marco. A te non piace questa sporca cosa.
– Che cosa?
– La nostra guerra. Non ti piace?
– Uh, uh.
– Allora sei solo un ragazzo. Ma bisogna che ti piaccia, tanto ci sei dentro.
– E non se ne potrebbe uscire?
– Per farti ammazzare da noi stessi?
Elia voleva portarmi sulla sua strada. Era invasato di patriottismo, ma
davanti ai morti che ogni giorno avevamo egli stesso restava muto.
Prima che scendesse la tregua ci venne l’ordine di stanare i ribelli a
qualunque costo e pulire le montagne. Dovevamo fare questo per l’onore
della divisa che indossavamo, perché era la divisa dei battaglioni «M» che si
erano distinti in tante battaglie – cosí ci disse in un suo discorso il colonnello.
E noi cominciammo a perlustrare le montagne, i borri, le scarpate, i nidi
d’aquila. Ma i ribelli ci crescevano davanti come termiti, e le ossa rotte, a
casa, eravamo sempre noi a riportarle. Invano speravamo in un incontro a
faccia a faccia; il nemico era sempre invisibile, e le fucilate ci coglievano alle
spalle e di fianco e non si sapeva mai da dove venivano. Ciò ci rendeva
furiosi e l’odio, dentro, ci cresceva in modo opprimente. Noi eravamo
sopraffatti e rattristati dall’odio.
I ribelli lasciavano fuochi spenti e barattoli di carne semivuoti ai posti di
bivacco, senza mostrarsi mai. Attaccavano solo quando eran ben certi di
essere di numero superiore; allora ci facevano fuori con facilità. Noi avevamo
la consegna di non mollare e morire sull’arma. E molti morivano sull’arma, e
solo quand’eravamo decimati e stanchi gli ufficiali dicevano di ritirarci.
Ci riportavamo sempre i morti sulle spalle. Chi aveva voglia di cantare
diceva la nostra preghiera. Attaccava: «Signore che accendi ogni fiamma e
riscaldi ogni cuore, rinnova l’amor mio per l’Italia…» Presto anche gli altri
cominciavano a cantare con le voci cavernose e, solo allora, io credo, si
rivolgeva il pensiero a Dio e alla nostra morte, e cadeva anche la baldanza di
uccidere, e si pensava alle nostre famiglie che non avremmo riviste mai piú.
Una sera trovammo un ferito sulla strada del ritorno. I soldati scendevano
dalle montagne con la rabbia che gli mangiava il fegato. In quelle condizioni
di abbattimento avrebbero desiderato incendiare villaggi e ammazzare anche
gente innocente, per la soddisfazione di veder spisciolare il sangue degli altri,
dato che noi, ogni giorno pagavamo la somma del nostro sangue. Il sangue
dei nostri correva sempre, ed erano ragazzi dai sedici ai vent’anni che la
Patria mandava a morire.
Trovarci un ribelle tra le zampe ci fece mugolare di gioia. Egli era vestito
con roba inglese, ed era giovane. Ma aveva la barba di piú giorni e una
grande disperazione sugli occhi. Si nascondeva in un cespuglio perché non
poteva camminare con una gamba lacerata. Appena ci vide implorò il colpo
alla nuca.
– Il colpo alla nuca? – grugní il capitano Mattei. Avrebbe voluto strozzarlo
con le sue mani. Il ferito, allora, incominciò a lamentarsi. I lamenti
accendevano il sangue negli uomini. Gli uomini smaniavano e volevano
finirlo coi pugnali. Volevano un pezzo per ciascuno del ferito. Allora il
capitano Mattei chiamò Pavan, la sua ordinanza con una mano mozza, e gli
disse queste parole:
– Desidero che te lo lavori per benino.
– È affar mio, capitano, – disse Pavan.
Al primo colpo di pistola il ferito si mosse come un rettile, portandosi la
mano al fianco. Era il primo buco.
– Figli di puttane! – gridò il ferito. – Disgraziati figli di puttane!
Pavan gli sparava colpi isolati ai piedi, alle mani, alle cosce e il ferito
urlava sempre il suo insulto.
– Grida viva il Duce! – gli disse il capitano Mattei.
– Figli di puttane! – rispose il ferito, piú forte. – Disgraziati figli di
puttane!
I soldati si erano messi intorno all’uomo che faceva sangue da tutte le
parti, e mugolavano come animali a ogni colpo. Ma dopo un poco il capitano
cominciò a stancarsi degli insulti del ferito.
– Chiudigli la bocca, boccia! – gridò all’attendente.
Ma Pavan disse:
– Cristo, capitano! Ancora un momento, vi pare?
I soldati tutt’intorno gridarono:
– Sotto, Pavan!
– Figli di puttane! – disse il ferito ancora piú forte, rauco.
– Finiscilo, boccia, – il capitano gridò per la seconda volta, furioso.
– Figli dii…putt…tà-ne… – brontolò ancora il ferito, bucato come un
colabrodo. Allora il capitano saltò addosso all’ordinanza e gli strappò la
pistola dalle mani. Prese il ferito per la testa e i piedi e lo rotolò da una balza,
ancora vivo. Restò un attimo sull’orlo del precipizio, a guardare. Poi sospirò:
– Era duro, quel dannato.
– Non voleva proprio crepare, eh capitano? – fece Pavan.
I soldati, allora, lo guardarono con angoscia, perché ora avevano paura di
Pavan.
Mi venne il voltastomaco. In caserma Elia mi guardò in faccia; dovevo
essere stravolto.
– Che ti piglia? – disse.
Scossi la testa, senza guardarlo, ma Elia capí e s’irritò. Disse: – Lo capisci,
imbecille, che se queste canaglie prendono uno di noi ne fanno una pizza?
– Si contenteranno d’ammazzarlo, – dissi. – Non si trova un’altra iena
come Pavan.
– Illuso, – fece Elia. Poi, forte: – Secondo te esistono le morti semplici, le
morti comode? Qui si muore a pezzi, caro mio.
Scuotevo il capo.
– Senti, prendono te, – disse Elia. – Si capisce, faccio per dire. Ebbene,
t’impacchettano come un salame. Ti portano con loro. Intorno al fuoco, al
posto di bivacco, ti inchiodano a un palo come Cristo e incominciano le
operazioni. Diciamole con ordine: a) ti tagliano la lingua – fanno cosí per non
farti urlare; b) ti cavano un occhio…
– Oh, piantala! – gridai. – Se non la pianti…
– Se non la pianto? – fece Elia.
Sentii il mento sotto la barba, quasi debole, quando lo colpii. Il sergente
Elia sbarrò gli occhi smisuratamente, ma non reagí. Disse:
– Non dovevi farlo, Marco.
– Ebbene l’ho fatto, – dissi. – Scusami.
– Non dovevi farlo, Marco, – Elia ripeté. – Proprio non dovevi farlo.
Andò a stendersi sulla branda, toccandosi il mento. Io smontai il fucile,
estrassi l’otturatore, feci saltare sulla coperta i sei pezzi dell’otturatore e poi
infilai lo straccetto legato all’asticciola nella canna. Infine rimontai e misi da
parte il fucile. Elia mi guardava sempre coi suoi occhi bianchi, un po’ tristi.
XIII.
Ora che i partigiani non si facevano piú vedere, gli uomini della
compagnia avevano perso la baldanza. Tutti i giorni cantavano canzoni a
mamma e si facevano prendere dalle malinconie. Scrivevano lunghissime
lettere alle madrine di guerra, poi piangevano segretamente quando non
ricevevano posta. Io non ricevevo posta da nessuno, e nemmeno il sergente
Elia riceveva posta da nessuno. Tuttavia quando arrivava Bruno, l’ordinanza
del tenente Mazzoni, che faceva servizio anche da postino, andavamo a
mischiarci in mezzo agli altri, in piazza d’armi, come se anche noi
aspettassimo posta. Alla fine ci pareva di restare con la bocca amara; poi ci
guardavamo in faccia sconcertati:
– ’mbè? – faceva Elia. – Cos’hai da guardare?
Bruno consegnava sempre per ultimo la lettera a Pasquini; era una lettera
azzurra, che arrivava puntualmente ogni due giorni. Pasquini se ne stava
sdraiato sotto il muro, sicuro del fatto suo, poi Bruno gli andava vicino e gli
diceva:
– Boccia, c’è odore di donna, qui dentro!
– Va all’inferno! – diceva Pasquini. Gli strappava di mano la lettera e
faceva saltare la busta con un colpo d’unghia. Qualche volta, però, chiamava
il postino per fargli sentire quello che la ragazza mandava a dire. Bruno
rideva:
– Sei un uomo fortunato, tu.
– E perché?
– Hai una donna che ti vuol bene.
– Mah, un bene relativo.
Pasquini se ne stava sotto il muro, le gambe lunghissime accavallate, con
la testa ficcata in quelle due pagine azzurre, scritte fitto fitto.
Un giorno che stavo in cucina, per il servizio di corvée, venne una banda
di ragazzi a trovarmi. Erano capeggiati dal postino.
– Dobbiamo andare dal capitano, – incominciò quello. – Dobbiamo dirgli
che ce ne fotte dei ribelli e di questa sporca guerra che non vale nulla.
– Noi ci siamo arruolati per andare contro gli Inglesi, – disse Nic
Belvedere.
– E intanto vediamo che tutti gli altri reparti vengono mandati al fronte, –
disse Medori. – E noi no, invece. Noi dobbiamo scuoiare i ribelli e lasciarci
scuoiare. Sai dirmi tu che schifosa cosa è questa?
– Io penso che è rivoltante spararsi fra Italiani. Può essere divertente in
principio. Ma dopo scoccia, – disse il soldato Gennari. Mi guardò per avere
un cenno d’approvazione.
Io smisi di raschiare il grasso della marmitta e li guardai. Dissi: –
Certamente. Queste ragioni sono buone ragioni.
Mi pulii le mani con lo straccio e mi osservai le unghie.
– Andate dal capitano e ditegli che ve ne fotte della guerriglia. Ma io che
debbo fare?
– Questo è il punto, – disse il postino. – Devi venire anche tu e spiegare a
quello le ragioni come stanno.
– E voi non sapete parlare?
– Non è questione di saper parlare, – disse Pasquini. – Abbiamo pensato
che tu saresti stato dei nostri e avresti potuto fare la faccia piú di noi.
Veramente mi stupiva questo loro modo di parlare. Perché avrei potuto
fare la faccia piú di loro? Ma non ebbi il tempo di rispondere che il capitano
Mattei spuntò dal cancello di entrata e venne a piantarsi in mezzo a noi.
– Perché state qui e non in caserma? – disse.
– Dovevamo venire da voi tutti assieme, – io risposi. – Stavamo
prendendo gli accordi.
Il capitano fece la faccia buia. Disse:
– Va bene, sentiamo di che si tratta.
Incominciò a parlare Bruno, appena il primo momento d’imbarazzo se ne
fu andato, poi Nic Belvedere, Pasquini e in ultimo io. Il capitano faceva gli
occhi piú grandi di quanto non li avesse e, mentre gli uomini parlavano, si
agitava inutilmente. Riuscí, con grande sforzo, a non interrompere mai. Io
dissi piú chiaro che eravamo stufi della guerriglia e che volevamo andare al
fronte, contro gli Inglesi, perché qui avevamo morti senza ragione. Alla fine
il capitano sbottò:
– Voi non capite un’acca della guerra e della nostra missione, perciò
parlate a vanvera e vi confondete le idee. Noi non abbiamo bisogno di andare
al fronte. Questo dove siamo è un fronte regolare, molto piú importante
dell’altro. Il compito che ci è stato assegnato è di difenderci le spalle dal
nostro nemico piú prossimo, che è questo che combattiamo. Non abbiate
vuoti sentimentalismi, perché i ribelli sono Italiani solo di nome. In effetti
essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi dobbiamo sterminarli perché
rappresentano la parte peggiore della nostra gente. Quindi, fin quando tutte le
montagne non saranno ripulite, il nostro posto è questo. Inoltre, non dovete
impressionarvi per le perdite che subiamo. In guerra è necessario aver
perdite, anzi è inevitabile. Ma in estate… Pensate che fra poco viene l’estate,
e allora sarà la volta nostra di vincere sulla canaglia. Non avremo piú tante
perdite, allora. Comunque… se proprio ci tenete a far la conoscenza con i
Neozelandesi e i Marocchini, io non vi dico che è impossibile. Solo bisogna
aspettare. Lasciare il tempo al tempo.
– Ma è una cosa che durerà molto? – disse Pasquini.
– Non so quanto possa durare questa nostra guerra, – disse il capitano. –
Ora che il Duce è stato salvato e ha ripreso il suo posto di lavoro, saprà ben
lui come ci dobbiamo comportare. Ma non bisogna star lí a pensare.
– Però gli Alleati vengono su ogni giorno, – fece Nic.
– E lasciali venire, – disse irritato il capitano. – Nella Valle Padana
troveranno che non si potrà passare, il Duce è stato esplicito nel dirlo.
Intanto… be’ ecco, vi debbo dare una notizia poco allegra. Ve la dò
unicamente per riscaldare in tutti voi l’odio che abbiamo per i traditori della
Patria. Ottobrini è morto stanotte all’ospedale, in seguito alle ferite. La sua
mitraglia la prende Laudato. Mi pare che ci abbia una predisposizione per la
Breda. Capito, Laudato?
– Signorsí, – dissi.
– Mettiti sull’attenti quando parli con me. Capito, Laudato?
– Signorsí, – dissi di nuovo.
Il capitano Mattei girò sui tacchi. Poi, fatti alcuni passi, si voltò ancora e
disse:
– Tornatevene in caserma. E ricordate sempre cosa dice il nostro Vangelo:
«Tutti i morti che lasciamo qui, chiedono di essere vendicati».
In mezzo a noi era scesa un’improvvisa tristezza. Ora i soldati si
guardavano negli occhi e non avevano piú parole da dire. Nic era stato amico
di Ottobrini, e adesso non sapeva se piangere o urlare o tacere solamente.
Tenne la testa sul petto per un lungo periodo di tempo, poi ci voltò le spalle e
andò via, per non piangere davanti a noi.
Allora Bruno quasi urlò una bestemmia. Disse:
– Cristo che sei nei cieli, te li prendi tutti, uno alla volta, e tutti i compagni
migliori!
– È un fatto però, – disse Medori, riflettendo su quelle cose che
accadevano. – Tutti i mitraglieri muoiono. Sono morti Gusto, Foresi,
Briganti, Buongiorno ed ora Ottobrini. Erano bravi mitraglieri… e ora sono
morti.
– Toccherà anche a Laudato, questa è la trafila, – disse Pasquini, senza
scherzare.
Allora ci guardammo bene negli occhi, e io vidi negli occhi dei miei
compagni un odio senza fine, che toglieva anche la voglia di parlare. Quelli
poi mi lasciarono. Prima di varcare il cancello della palestra Bruno
incominciò a cantare sottovoce, poi a voce piú forte:
Lui sogghignò.
una coda una coda lunga… i lampioni del paese erano spenti luccicavano di
ombre sotto il vento una lunga coda sotto il vento e i fuochi ancora sulla
collina….
L’estate era venuta in ritardo, quasi che avesse avuto paura di scoprire i
morti sulle montagne. L’aria era grassa verso sera e un po’ nera. Mi veniva
voglia di correre e liberarmi del pigiama, ma le grucce mi tenevano
inchiodato al pezzo d’erba che dovevo conquistare con passi di lumaca. Per la
prima volta, nella mia vita, mi trovavo con le grucce sotto le ascelle, e a esse
mi abbracciavo come a due alberi. Il sudore mi ricamava perle salate sulla
fronte, e queste poi scendevano correndo sulla barba tenera e si fermavano
agli angoli della bocca. Tiravo fuori la lingua – una lingua, pastosa come
cioccolata – e bevevo il bagnato per sentirmelo cuocere in bocca.
Guardavo il cielo verso sud. Era tenero da potersi stracciare. Mi fermavo
stanchissimo in mezzo al giardino, dopo aver percorso pochi metri a stento, e
guardavo il cielo con una specie di disperazione appollaiato sulle grucce, la
testa rincagnata nelle spalle appuntite. Lo sforzo di camminare era enorme e
mi procurava dolore, ma era piú doloroso pensare. Appena raggiungevo la
panchina in mezzo agli alberi mi ci abbandonavo lentamente, mentre il cuore
non mi reggeva piú per l’affanno. Stendevo le gambe. Avevo paura di
osservarmele, tuttavia i lunghi pantaloni del pigiama disegnavano la loro
linea e, a guardare cosí il loro corso non era nulla. Però sapevo che la gamba
sinistra era piú secca e non aveva quasi piú polpaccio. Sembrava uno stecco,
ma avrei voluto osservarmi nudo davanti a uno specchio. Il dottore vecchio
mi disse che non sarei rimasto zoppo, però la carne al polpaccio non sarebbe
piú ricresciuta, e una brutta cucitura violetta avrebbe indicato l’osso, e a
stendere la gamba a letto avrei sentito in quel posto il vuoto.
Quando l’infermiera era da qualche parte e momentaneamente non mi
sorvegliava, lanciavo gridi che non trovavano parole corrispondenti, perché la
convalescenza del ferito è disperata. È come mettersi a letto con tutte le ossa
a posto e poi svegliarsi, al mattino, mutilato in una parte del corpo.
Alcuni feriti erano ciechi e domandavano:
– Oggi com’è il cielo?
Se c’era il sole i ciechi lo sentivano battere contro le porte chiuse dei loro
occhi, e io, invece, spalancavo gli occhi piú che potevo e lo guardavo, il sole.
I ciechi poi si rosolavano, abbracciati come mummie agli alberi, oppure si
chinavano a toccar l’erba.
– È verde! – dicevano, e i loro polpastrelli non ancora avvezzi provavano
una sofferenza nuova in quel continuo cercar di riconoscere l’oggetto, e
indovinarne persino il colore.
Altri compagni erano monchi di braccia o di gambe. Arrancavano come
forsennati. Allora avrei voluto salire su d’un albero per gridare a tutta quella
turba di uomini mollicci e stanchi, principianti nei movimenti come i
bambini:
– Idioti, siamo tutti degli idioti! È la Patria che ci ha ridotti cosí, la Patria
ci ha uccisi, ci ha atterrati come rettili.
Anna si spaventava. Mi diceva:
– Per carità, Marco. Sta’ zitto! Non diventar pazzo.
– E che debbo fare?
– Ci vuole rassegnazione, Marco. Un po’ di cristiana rassegnazione.
Allora la prendevo per le braccia, gliele stringevo forte. La guardavo
fissamente negli occhi, e il mio odio per lei avrebbe voluto distruggere il suo
fisico armonioso, pieno di vita. Poi abbandonavo la stretta, perché le facevo
molto male, ed era come se crollassi davanti ai suoi occhi devoti, alla sua
docile passività.
«Dio» mi dicevo «ma non potevi uccidermi insieme al conte, a Berti e a
quell’altro e a quegli altri che mi hanno messo davanti come nemici?»
Anna mi accompagnava nelle passeggiate e mi trattava amorevolmente e
con sottomissione come se fossi un bambino prepotente. A volte le dicevo:
– Fammi poggiare la testa su di te.
Allora Anna mi frugava il petto e i capelli come un tempo faceva Giulia, e
diceva con tristezza:
– Sei un bambino, sei proprio un bambino. Avanti, metti la testa giú e non
fare i capricci proprio come fanno i bambini.
– Raccontami delle storie, – le dicevo.
Aveva qualcosa della passività di Giulia. Ma mi spaventava la sua
maturità, la sua materna saggezza. Soltanto la notte, ora che ero rimasto solo,
avevo il coraggio di sognarmela al mio fianco. E talune volte mi veniva una
voglia irrefrenabile di piangere sul suo petto, e dirle la mia infelicità d’essere
storpio a diciannove anni, ed essere molto solo in mezzo a una guerra che non
capivo.
Avevo voglia di dirle che avevo bisogno di lei per il mio cuore vuoto.
Avevo un cuore vuoto e amaro e bambino. (Chissà, poi, perché l’ammalato
adulto si debba sentire molto prossimo al bambino.) Ma non piangevo mai, e
non le dicevo niente di tutto quello che mi passava per la testa. Almeno mi
avesse capito in quei momenti disperati! Mi avesse lisciato il volto con le sue
mani di medico, fini e dolci! Anna restava rigida e assente, come se la mia
testa, sul suo petto, ci dovesse stare per un dovere che rientrava nel suo
servizio d’infermiera. «E allora perché non te ne vai e mi lasci disperato
come i ciechi?» Cosí volevo gridarle.
Mi raccontava delle storie. Una volta mi disse d’una ragazza bella, ma
timida, che odiava l’amore. Aveva degli assurdi preconcetti sull’amore, e
diceva che l’amore sporca. Però la ossessionavano gli uomini. A volte sentiva
una voglia prepotente di offrirsi a tutti loro, ma poi avrebbe voluto uccidere
tutti quegli uomini ai quali si era data. Quando però stava lí lí per commettere
la «sciocchezza» con gli uomini, la prendeva una improvvisa paura e le
saltava davanti agli occhi lo sporco. Gli uomini, diceva la ragazza, sono
sudici. Ma un giorno si diede a un autista di piazza, e poi ad altri uomini, ora
che aveva incominciato. La strozzò un ubriaco.
– Era una scema, – dissi quando Anna ebbe finito di raccontare.
La donna sorrise misteriosamente.
– Senti, perché non ricambi il bacio, se ti bacio? – dissi.
Ero stupido. Lei restava rigida, come inanimata, e io non osavo baciarla.
«Questa qui, ma che razza di donna è questa qui?» mi chiedevo. «Se le
strappo le vesti questa qui si lascerà fare senza muoversi, come fosse una
statua.» Mi irritava la sua freddezza.
Un giorno che eravamo soli nel parco dell’ospedale e nessuno dei due
aveva ancora parlato, presi la donna fra le braccia e la baciai. Lei non rispose
al bacio, ma ebbe un lungo fremito. Poi, alzando gli occhi stupito, incontrai
quelli dell’infermiera fissi sul mio volto, immobili e profondi come stagni.
Dovetti girarmi a guardare altrove, perché come lei alcune volte mi fissava
mia madre. Poi mi prese uno scatto d’ira. Incollai la mia bocca sulla sua e con
la lingua feci forza perché aprisse i denti. «E bacia!» volevo gridarle. «Che
male c’è se baci?» Allora piano piano anche la sua bocca si aprí; incontrai la
sua lingua sul principio del palato. Dalla finestra dell’ospedale s’affacciò
un’altra infermiera, la Cilla, la quale gridò:
– Ehi, voi! Vi divertite tanto?
Allora Anna, come se fosse stata eccitata da quella voce, ricambiò il bacio
e m’afferrò forte alle spalle. Continuò tanto che a poco alla volta cominciò a
mancarmi il respiro.
– Mamma mia! – dissi quando si staccò di colpo.
Era tutta sbiancata. Aveva ancora delle macchie brune tra le labbra e il
mento, e aspirava forte con le narici.
– L’hai voluto tu, – disse infine. – Io ho fatto il possibile, ora non dipende
piú da me.
– Anna! – esclamai allora. – Sospettavo che…
– Sei un idiota! – lei disse irritata. – Credevi che non me ne fossi accorta?
Ma io non sono di legno; ho resistito, ho fatto il possibile, ma tu mi diventavi
pazzo. Non capisci che sono donna anch’io?
– Dio, Anna…! Non avevo capito niente. Ma sono pazzo perché ti amo.
Credevo di non poterti avere mai, perciò mi eccitavo e diventavo impaziente.
Ma tu perché non volevi?
– Sono piú vecchia di te di almeno dieci anni, – disse. – E ho un figlio
grande. Ho paura che tutto sia uno scherzo.
– Ti amo molto, non ho mai amato cosí, non ho mai detto di amare cosí,
nemmeno a Giulia. Ora è come se mi fossi liberato d’una montagna.
Passammo il tempo a sbaciucchiarci. Anna era esperta. Frugandomi con la
mano sul petto, al di sopra delle fasciature, mi strappava brividi secchi. Dopo
un poco prese a dolermi la ferita. Avevo paura di svenire, ma non volevo
dirlo a lei, perché sentivo distintamente che Anna avrebbe voluto essere
amata da un uomo forte. Invece ero convalescente, un uomo ancor debole, e
potevo svenirle addosso da un momento all’altro, e cosí distruggere tutto
quanto avevo creato da lungo tempo. Baciandola, adesso, la mia bocca non
faceva piú presa, e temevo che la ferita scoppiasse a fiottare sangue. Divenni
pallidissimo.
– Mio Dio, Marco! – lei disse spaventata. – Ti senti male?
– No, non è niente. Sto bene, Anna, e vorrei che tu mi amassi sempre.
Anna si fece dura, poi mi lasciai portare sorretto da lei. Credevo di non
farcela a salire le scale dell’ospedale; avevo sempre un male tremendo alla
ferita e trattenevo il fiato per non ansimare troppo. Ma le scale mi parevano
troppo ripide e lunghe. A metà dello scalone mi abbandonai senza piú forza
nelle braccia della donna.
– Portatemi aiuto! Venite ad aiutarmi! – gridò Anna spaventata.
Vennero delle infermiere. Mi sollevarono, mi portarono nella mia camera,
mi misero a letto. Venne il dottor giovane.
– Forse gli si è aperta la ferita, – disse Anna, angosciata.
Il dottor giovane fece sí con la testa e cominciò a sfasciare. Quand’ebbe
finito diede uno strappo piú forte, e allora svenni per il dolore.
XX.
Anna aveva una voce rotonda e calda; cantava con gli occhi chiusi. I
soldati si dondolavano col treno e avevano fatto un circolo intorno a noi.
Anche i due borghesi che sedevano di fronte sorridevano e dondolavano la
testa. Anna mi diede una scossa leggera:
– Canta anche tu, – disse.
Feci no con la testa. La canzone e l’allegria dei soldati mi rendevano
inquieto. Guardavo fuori del finestrino la notte piena di stelle. Andavo in
licenza di convalescenza ed ero un eroe. Un altro sarebbe stato soddisfatto di
andare in licenza di convalescenza e di essere un eroe. A me dava ai nervi.
Avevo desiderio solamente di arrivare in quel paesetto che aveva scelto
Anna, e passare il mio tempo senza vedere soldati, né divise, né sentire
parlare di guerra.
Il facchino col berretto come gli ufficiali francesi rispose alla donna:
– Per la Val Camonica si parte alle sei.
La donna sorrise e tornò a sedere sulla panchina della stazione. Era
vecchia e aveva un’aria rassegnata. Si capiva che avrebbe atteso con
pazienza. La risposta valeva anche per me, e subito mi accorsi dell’inutilità di
stare lí ad aspettare. La mano che reggeva la valigia mi si era intorpidita per il
freddo, e anche col naso tiravo su. Non avevo voglia di estrarre il fazzoletto
dalla tasca.
Camminai tra le macerie della stazione. Due o tre uffici erano
completamente distrutti; c’era solo un oscuro botteghino pieno di polvere e
calcinacci, dove i viaggiatori facevano il biglietto. Anche la fontanella col
rubinetto era guasta; l’acqua saltava dallo squarcio della ghisa con violenza, e
per terra formava una pozza tra i mattoni rossi. Il fattorino di prima m’indicò
il bagagliaio e l’uomo di guardia mi diede un tagliando giallo.
– Non perdetelo, – disse l’uomo.
– Grazie, non lo perderò.
Camminavo per una strada larga e storta, con ai bordi radi alberi senza piú
foglie. Le foglie secche scricchiolavano sotto i piedi, e il vento le sollevava
con pesantezza. Le foglie ricadevano piú in là, sulla strada tutta gialla.
Nel centro c’era piú gente. Gli uomini si muovevano con precisione, come
se esattamente sapessero dove andare; soffiavano il fiato caldo nei baveri
degli impermeabili, come se fumassero. Molti soldati, e anche donne
ausiliarie si distribuivano liberamente in giro, però non riuscivo a guardarli,
né mi chiedevo la ragione della loro allegria. Le ausiliarie, passandomi
accanto, ridevano e parlavano in fretta. Erano ragazze generalmente con le
gambe troppo grosse e rosse per il freddo, che non ispiravano nessun
desiderio.
Entrai in un bar in piazza Zanardelli e bevvi un cognac. Soldati anche qui,
armati di mitra. Risalii per i portici. Davanti a un’edicola due ragazze presero
un giornale e filarono via. Le seguii automaticamente. Una era troppo magra,
l’altra troppo grassa. Ma essendo di uguale statura la ragazza magra sembrava
una bambina. Le ragazze si voltavano spesso, prima una, poi l’altra. Ma
quando si accorsero che le seguivo svoltarono per delle vie laterali. Con
questo esercizio mi riscaldavo, tuttavia non pensavo alle ragazze che avevo
davanti, pur osservando che il sedere della ragazza grassa si muoveva troppo.
Forse doveva pesarle, ma io la vedevo come attraverso i fori di un binocolo
rovesciato.
Poi le ragazze entrarono in un gran portone dove c’era molta gente e, in
cima alle prime scale, un usciere in camicia nera, alto e calvo, chiedeva i
lasciapassare. A un certo momento la ragazza grassa fece dietro front e mi
venne incontro con un piglio aggressivo. Quel piglio sembrava falso sulla sua
faccia a mela. Disse la ragazza:
– Quando la smettete di seguirci?
Anche l’altra ragazza si era fatta seria seria e mi guardava dai primi due
scalini. Accanto all’usciere alto e calvo sembrava una nana. Forse la ragazza
grassa aveva gridato troppo forte, perché quelle persone che aspettavano si
voltarono a guardarmi, e poi risero. Io non dissi nulla e guardai imbambolato
la gente che rideva. Avevo il cervello ancora pieno del fragore del treno. Poi
qualcuno rise forte dietro la mia nuca, e anche la ragazza grassa scoppiò a
ridere. Rideva come se stesse al mercato, con le mani sulle anche. Quello che
mi rise sulla nuca mi toccò la spalla e disse: – Sei proprio tu?
Michele Lopez, il corrispondente, fece un passo avanti e mi si piantò di
fronte. Anche le sue verruche ridevano. Allora le due ausiliarie se ne
andarono, scomparvero dietro l’usciere alto e calvo.
Michele Lopez mi prese sotto il braccio:
– Cos’è questo palazzo? – chiesi.
– È la redazione di «Camicia Nera» – disse il corrispondente – e questa
gente viene a chiedere notizie.
– «Camicia Nera» si stampa a Brescia?
– Certo, perché c’è il Comando generale della guardia.
Uscimmo sulla strada. Poco dopo m’accorsi di rifare la strada larga di
prima. Il giornalista mi faceva molte domande. Saputo che rientravo in
compagnia si felicitò molto e disse che avremmo fatto un pezzo di viaggio
insieme, perché lui scendeva a Marone, dalla II compagnia.
– Avete infronzolito troppo quell’articolo, – dissi.
– Il nostro mestiere esige molta fantasia, – disse Lopez, con enfasi. – Ho
raccontato quel fatto anche per Radio Fante. Di questi tempi bisogna montare
le azioni eroiche, perché i soldati siano presi dall’emulazione.
– Voi volete gli eroi a tutti i costi, – dissi, e Lopez non si offese.
Dondolava una piccola borsa di pelle, con la cerniera lampo intorno come
certe borse di avvocati. Un paio di volte, Lopez disse «porco il freddo»
toccandosi la rossa punta del naso.
– Quella infermiera bionda, quella che ti curava, non ne sai niente come
sia finita?
– È andata via dall’ospedale e si è congedata, – dissi.
– Ah, mi spiego, ora, – disse Lopez, pensieroso. – Ho scritto l’articolo su
lei, l’ho pubblicato su «Sveglia»; sai, quella rivista delle forze armate, però
non mi ha mai risposto.
– Non abbiamo ricevuto il giornale, – dissi. – Noi siamo partiti ai primi di
agosto. Anna aveva un bambino troppo malato.
Il corrispondente mi guardò interrogativamente.
– Allora vi siete innamorati? – disse sempre dubbioso. – Avevo sospettato
qualcosa, ma speravo d’ingannarmi.
– E perché volevate ingannarvi?
– Cosí, – egli disse, e mi guardò attentamente. – In fondo, – aggiunse, – tu
non hai niente di speciale, ma va un po’ a capire le donne!
– Che volete dire, tenente?
Lopez rise:
– Be’, era proprio una bella donna. Dove ve la siete spassata?
– A Recoaro.
– Posti magnifici. Sono stato varie volte a Valdagno, la città di Marzotto.
Ci tornerei volentieri.
Nella stazione era già pronto il treno per la Val Camonica. Dissi a Lopez
che ci saremmo rivisti in vettura, perché andavo a ritirare la valigia. Ci
ritrovammo in vettura. Lopez frugava tra le carte della borsa.
– Vuoi sentire il mio ultimo articolo sull’azione del monte Grappa?
– C’è stata un’azione sul monte Grappa?
– Brillante, – disse Lopez. – È stato un inferno lassú, ne abbiamo
accoppati un paio di cento.
Rividi la colonna di camion nella pioggia, quel giorno nel bosco di pini,
presso Schio.
– E voi siete contento di quell’azione?
– Dio, e non vuoi essere contento? Il Grappa era un covo di ribelli e di
Americani paracadutati. Di là partivano tutti i sabotaggi contro le nostre
truppe. Facevano saltare i ponti e le nostre caserme. Allora vuoi sentire?
– Grazie, tenente, adesso sono un po’ stanco. Ma lo leggerò dopo.
I movimenti del treno mi procurarono la sonnolenza. Lopez mi offrí da
fumare e riprese a parlare dell’azione del Grappa. Si faceva buio e il treno
s’infilava dentro piccole gallerie, poi riprendeva a fiancheggiare le montagne.
Infine corse lungo i margini del lago e Lopez disse che eravamo arrivati.
Saltò a terra come un ragazzo discolo. Mi accompagnò per un tratto, poi mi
indicò una via che saliva per la montagna.
– La I compagnia è in quel paese lassú, – disse il corrispondente. – Se
cammini svelto ci arriverai in mezz’ora.
Mi strinse la mano.
– Mi auguro di rivederci presto, sergente, – disse Lopez. – E mi dài tanti
saluti al capitano Mattei.
Quella parola «sergente» mi fece un certo effetto. Ma non vi prestai molta
attenzione.
– Tanti auguri per il vostro lavoro, tenente, – gli dissi.
– Grazie. Ma senza rastrellamenti il mio lavoro non vale un cavolo. Io non
posso scrivere «pezzi» di colore.
Lopez se ne andò, dondolando la sua borsa.
La mulattiera s’incassava fra i sassi e saliva zigzagando. Incontravo e
perdevo la strada provinciale. Di tanto in tanto castagne secche, cadute dagli
alberi, mi rotolavano sotto i piedi. Al ponte, sulla strada pianeggiante prima
del paese, mi fermai per riprendere fiato. C’era un silenzio da congiura nel
buio della sera. Il paese voltava le spalle alle montagne alte, e le montagne lo
chiudevano a ferro di cavallo. Ma, di faccia, la collina scendeva a ruzzoloni
sul lago e, con la nebbia che copriva la vallata, era come vedere un altro
cielo, sotto il quale stavano le case degli uomini.
Alle porte del paese incontrai Gennari. Usciva dall’osteria. Il piccolo
soldato era imbarazzato, ora, se chiamarmi sergente oppure per nome, come
una volta. Ma parve molto felice di rivedermi.
– Vai a donne? – gli chiesi.
Gennari rise, diventando rosso:
– Queste montanare hanno la pelle nera e debbono essere sporche, – disse.
– Però si conservano sott’olio, noi non possiamo farci nulla.
Mi tirò per il braccio.
– Vedi quella casa verde? – disse indicandomi una specie di grotta a pochi
metri dall’osteria. – C’è una mezza scema lí, una vecchia di cinquant’anni
che aspetta ancora il suo fidanzato dalla grande guerra mondiale. La sera
viene all’osteria e i soldati le offrono da bere; lei dice a tutti che aspetta il suo
fidanzato dalla grande guerra mondiale. Qualche volta noi andiamo da lei, ha
la fotografia del fidanzato sul tavolo della cucina. Poi saliamo la scala di
legno che porta in soffitta, dove ha il letto. Facciamo la coda, uno per volta.
Tanto, nel buio chi la vede che è vecchia?
– E gli ufficiali non sanno niente? – chiesi.
– Oh, gli ufficiali! Quelli se la spassano con delle sfollate. A quelli non
mancano mai le donne.
Salivamo per una stradetta piena di fango e sassi. Davanti a un albergo
modesto, recintato di canne, Gennari mi salutò.
– Sono qui, – disse. – Qui hanno la mensa.
– E perché fanno questo baccano?
– Oggi è il compleanno del capitano, – disse Gennari. – Faranno baldoria
fino a domani.
Gennari scese di nuovo la stradetta e tornò all’osteria. Quando spinsi la
prima porta, di là del bar dell’entrata, mi trovai in un corridoio lungo, nero,
dal soffitto basso come un sotterraneo. Le voci venivano dalle pareti. Poi
cozzai contro un’altra porta, in fondo, e questa si aprí. La sala larga, lunga,
era illuminata con delle candele. Gli ufficiali, i sottufficiali e gli attendenti
degli ufficiali schiamazzavano intorno a un piano a coda, che veniva pestato
dal tenente Giordano. «O capitano, c’è un uomo in mezzo al mare…»
cantavano, ubriachi marci. Giordano, ogni tanto, chiedeva un bacio
propiziatorio alla donnina con la sigaretta che era seduta sul coperchio del
pianoforte. «… venitelo a salva-areee…» continuava il canto. Il capitano
Mattei pontificava in fondo al tavolo ancor tutto ingombro di piatti. Un
sorriso beato gli errava sulle labbra. Un’altra donna, che indossava un
pullover rosso gli sedeva accanto, con i gomiti poggiati sul tavolo, e
dimenava il capo al ritmo della canzone.
Quando Giordano mi scorse sulla porta, con la valigia ancora in mano,
smise di suonare. Gridò, indicandomi:
– Buttate fuori quel cadavere!
Fecero silenzio. Poi uno gridò:
– Ué, è il nuovo sergente.
Il can-can riprese. Adesso volevano che pagassi da bere. Il sergente furiere
mi condusse dal capitano; Mattei non si mosse, mi tese la mano inerte e disse:
– Sei tornato tardi, ma non ci sono punizioni, oggi. Sai che è la mia festa?
– L’ho saputo venendo qua.
La donna col pullover rosso mi aprí i suoi occhi umidi sul volto. Poi diede
una gomitata al capitano Mattei:
– Non mi presenti, Niní? – disse.
Il capitano ebbe un piccolo rutto.
– Sí, certamente, – disse.
Anche gli altri vennero al tavolo del capitano, cosí m’accorsi che le donne
erano tre. Il capitano me le presentò: Giovanna era quella col pullover, Lulú
la ragazza che cantava seduta sul coperchio del pianoforte, e Nora una
ragazza robusta, con denti cavallini, amica del maresciallo Bassan.
– Vogliamo bere, furiere! – gridò la ragazza del pianoforte.
– Ora tocca al morto resuscitato, – disse sguaiatamente il sergente furiere,
un uomo alto, con la testa secca, lucida in superficie come un fiammifero
svedese.
– Bisogna bagnare i galloni, – disse una voce.
– E la medaglia, anche, – disse il maresciallo Bassan, frugando sul petto
della ragazza robusta.
– Va bene, – allora dissi al furiere. – Mi metterai in conto le spese.
Il furiere allargò le braccia felicissimo, e iniziò il solito scherzo cantando
il mottetto «beato il fesso che ha pagato». Prese a girarmi intorno con tutta la
processione degli ubriachi. Poi tornarono vicino al pianoforte e io mi trovai in
un angolo della sala, nel buio, seduto su di una sedia rovesciata.
Mi sforzavo di cercare Elia in quella confusione, ma non mi riusciva di
distinguere niente. Cominciò a mancarmi l’aria, tuttavia non mi muovevo e
guardavo i tre candelieri che rovesciavano sui muri una luce fosca. Gli angoli
delle pareti erano mangiati dall’ombra.
Gli uomini ballavano a gambe larghe, e le loro ombre si proiettavano
immense contro i muri. La donna col pullover rosso si staccò dal capitano e
raggiunse gli altri. Poi tutti fecero silenzio e Lulú cominciò a cantare con
voce rauca, accompagnata al piano da Giordano:
Appartengo agli uomini della guerra
e non posso pentirmi se ho peccato;
il mio cuore è un grumo che non ha piú sangue
e ha preso a vivere da solo, fuori del corpo.
Perciò mi sono data agli uomini della guerra,
sono ragazzi senza pretese…
Quando sgelò la prima neve, il giorno delle ceneri, e sul Guglielmo era
cessata la tormenta che aveva sepolto due montanari nel rifugio, Anna arrivò
a Z. Comparve insaccata in una pelliccia bianca che la faceva apparire piú
alta e col viso assai scarno. Entrando in casa di Abele buttò le valige sul
pavimento e disse con acredine: – Questo paese è un punto nella Siberia.
Ma la sera, dopo essersi riposata, Anna fu cordiale coi miei nuovi amici.
Mi disse che accettava le circostanze, solo che dovevo lasciarle il tempo
necessario per acclimatarsi.
Tuttavia, quella sera, Simone attaccò un discorso sulla guerra. Parlava
calmo, piano, ma le cose che diceva irritavano me ed Elia, e Anna tormentava
il fazzolettino, irrequieta. Simone non badava a noi; fissava ostinatamente un
punto nella brace, e il suo monologo senza interruzioni era lungo, contorto.
Diceva che la lotta civile sarebbe annegata nel sangue, come era cominciata.
E concluse:
– A me non garbano queste cose. Ah, è uno strano mondo il nostro, e io
vorrei capirlo. Ma come si fa a capirlo?
Il vecchio, poi, si chiuse la testa fra le mani e non diede piú fastidio, e
forse si era addormentato. Noi incominciammo a parlare in fretta, di cose
diverse, ricordando fatti che ci erano accaduti prima della guerra. Era chiaro
che volevamo disperdere il disagio che ci aveva presi.
Quando Anna mi si avvicinò chiese:
– È partigiano quel vecchio? – Io dissi di no, ma ero inquieto. Adesso
avevo paura che Simone parlasse fuori. Temevo per lui, sapendo cosa gli
sarebbe potuto capitare.
Anna e la signora Ida strinsero presto amicizia. Ogni sera ci lasciavano la
chiave sotto la buca delle gatte. Io ed Elia salivamo le scalette della terrazza
senza far rumore, sempre alla stessa ora della notte, con la paura di essere
visti da qualcuno. Nella cucina grande, coi mobili di noce antico che, nel
buio, ci venivano incontro come tanti catafalchi, ci dicevamo addio con una
stretta di mano. Elia girava la maniglia bianca di una porta che non aveva
rilievi nel muro, e presto era dentro. Io seguitavo ad andare sino in fondo,
evitando di cozzare contro le sedie; ormai conoscevo bene la strada da fare
per essere nella camera di Anna.
Pensavo che nulla era mutato in lei e nel suo amore. Mi accoglieva con un
sorriso, e mi tempestava di vezzeggiativi che mal sopportavo. Ma spesse
volte Anna dormiva. Allora non la svegliavo. Me ne tornavo in caserma
evitando d’incontrare la ronda.
A volte Anna mi sentiva arrivare, riconosceva la mia pedata. Vedevo,
attraverso le sconnessure della porta, la luce che si accendeva. Poi vedevo i
suoi occhi liquidi, profondi, e mi pregava di restare un poco da lei. Mi
stendevo tutto vestito sulle coperte, e Anna diceva saggiamente: – Stasera
dobbiamo fare i buoni.
Mi parlava di Franco, delle sue speranze future. Pensava a quando sarebbe
finita la guerra. Lei non aveva impieghi, non sapeva come avrebbe vissuto, e
l’incertezza del domani la rendeva inquieta. In alcuni momenti di inconsueta
riflessione diceva che diventava vecchia, e sentiva di avere troppo peso
dentro. Quei suoi ragionamenti mi turbavano, e solo allora, ma segretamente,
mi chiedevo se per me ci sarebbe stato un domani.
Ma Anna si riprendeva presto, scrollava la testa quando era troppo carica
di quelle riflessioni. E allora esclamava, quasi con impazienza: – Che vale
pensare? Viviamo giorno per giorno. Che m’importa di quello che sarà?
Pensavo che nulla era mutato in lei e nel suo amore. Ma dopo un po’ di
tempo divenni sospettoso, controllavo le sue azioni, le chiedevo
insistentemente come passava le giornate e se si era vista col capitano Mattei.
Quando il capitano rivide Anna la guardò ammirato; pur concedendosi, nei
riguardi della donna, una certa aria spaccona, di marca militare. La invitava
spesso alla mensa, e io soffrivo vedendola mischiata a Lulú, la cantante
sentimentale, e alle altre donne.
Quando poi ballavano il capitano era galante con Anna, la preferiva alle
altre e le parlava con le labbra presso l’orecchio, raccontandole cose spiritose.
Io sentivo la risata spensierata di Anna; quella risata mi risuonava nella testa,
accresceva il mio dolore interno e mi rendeva triste, oppure ingenuamente
furioso.
A volte Anna mi sorprendeva con questa tristezza. Mi diceva:
– A cosa pensi, Marco?
Io non sapevo rispondere, la guardavo con umiltà; a volte avevo il
presentimento che non rappresentassi nulla per lei. Arrivavo a credere che
tutto ciò che era avvenuto fra noi, e che tuttavia seguitava ad avvenire, fosse
un sogno o qualcosa di simile.
Forse la venuta di Anna a Z. contribuí ad acuire la mia avversione per il
capitano Mattei e per la mia vita di soldato. Mi sentivo infelice in una
maniera sconosciuta, mai provata prima.
Ora che la neve se ne era andata ed era cessato anche il vento, un pallido
sole ci accompagnava nelle istruzioni. Marzo era mite, faceva ben pensare
della vicina primavera. A volte Anna veniva col capitano nella nostra area
presso il ponte, e insieme assistevano alla marcia dei soldati. Il capitano
arcuava le gambe e s’impettiva per mostrare i nastrini delle guerre. Spiegava
la balistica alla donna. Poi seguitavano la passeggiata sulla strada che
scendeva a Marone, e si perdevano fra i grandi alberi di castagni.
La notte, adesso, Anna mi riceveva con meno interesse. Diceva sempre di
essere stanca, annoiata. Era disgustata della guerra che non consentiva a
nessuno di vivere una vita tranquilla, libera. Tornava a parlare di Franco;
diceva che l’aveva trascurato in passato, quasi non accorgendosi di possedere
un figlio. E adesso l’idea di avere un figlio grande la spaventava, la metteva
di fronte a delle responsabilità nuove, alle quali non aveva mai pensato
seriamente.
Una mattina, sulla strada che scendeva al lago, passò la macchina scoperta
del capitano con a bordo Anna, Giovanna e Lulú. La Nora, che era la donna
del maresciallo Bassan, era sparita misteriosamente qualche giorno prima. Le
donne ridevano e cantavano. Anna mi mandò un bacio sulla punta delle dita,
ma io restai impalato presso gli uomini, come una statua di pietra, e poi fu il
rifornitore Pasquini a scuotermi. Disse Pasquini:
– Be’, riprendiamo queste istruzioni?
Merlini si sporse dalla terziglia e mi gridò:
– Vanno a spasso, sergente, e a noi tocca cacciare sangue dai piedi.
Le parole di Merlini erano dette in un certo modo irritante. Allora gli dissi
con ira:
– Tu pensa a essere sempre un bravo coglione. E se parli ancora ti rompo
la faccia.
Merlini non parlò piú, ma seguitò a guardarmi male. Allora presi a
comandare gli uomini con stizza, avanti e indietro sulla strada del ponte. Li
obbligavo a correre, a fare gli esercizi coi fucili, senza riposarli. Provavo
gioia quando vedevo qualcuno dei piú giovani trascinare i piedi con
pesantezza e impallidire. Estrassi il pugnale e presi a punzecchiare quelli che
mollavano; li punzecchiavo alle spalle e al sedere. Quelli saltavano e
gridavano per il dolore. Gioioso, il ragazzo di sedici anni, alla fine cadde
sfinito in mezzo alla strada. I compagni lo scartarono col piede e quello rotolò
nel fosso. Poco dopo Merlini uscí dalle file e si piantò a gambe larghe sulla
strada. Disse che non ce la faceva piú.
– Rientra nel rango, – gli dissi.
– Sergente, non ce la faccio piú, – ripeté Merlini.
– Me ne frego che tu non ce la fai, – urlai. – Rientra ed è meglio per te.
– No, – disse Merlini – perché non ce la faccio piú.
Quando presi a schiaffeggiarlo, Merlini oppose debole resistenza. Presto
due fettucce rosse gli uscirono dal naso e poi lo vidi ruzzolare per terra. Sentii
scattare la sicura del fucile e la canna salí dalla polvere, fino al mio petto. Ma
quando gli fui nuovamente addosso il fucile cadde da una parte e sentii i piedi
di Merlini raspare per terra, in quella polvere. E intanto ripeteva:
– Cornuto, cornuto fesso!
Poi Jadisernia e Pasquini mi saltarono addosso e tutti gli uomini mi
chiusero in mezzo. Cortini si fece avanti e disse:
– Senti, noi non vogliamo piú obbedire alle tue vigliaccate. Se ti risenti per
le corna va a sparare il capitano Mattei. Devi vedertela col capitano Mattei,
non con noi. Cosa c’entriamo noi coi tuoi fatti d’amore?
Gli uomini si riunirono e Cortini, che era caporale, li rimise in riga. Due
uomini presero sulle spalle il ragazzo Gioioso e cosí tornarono in caserma,
senza marciare.
Io stetti ancora in mezzo alla strada, guardando il fosso dove il ragazzo
Gioioso era stato a lamentarsi. Poi, lentamente, me ne tornai verso il paese,
con la testa bassa e senza pensare a nulla. Entrai nel portico della casa di
Abele e salii le scale della terrazza. La signora Ida era stesa nella sdraio, di
fronte al sole, con gli occhi chiusi. Non mi sentí arrivare. Poi udí il mio
respiro e disse senza aprire gli occhi:
– Sei tu, Andrea?
Non risposi.
– Andrea, perché non rispondi? – chiese ancora la signora Ida. Poi aprí gli
occhi e mi vide in quello stato. Gridò di spavento: – Marco, cos’hai fatto?
Si alzò, mi circondò la vita con un braccio e io la guardai con
riconoscenza. Mi fece sedere nella sdraio mentre lei andava a prendere la
grappa. Tornò con la bottiglia e presi a bere. La grappa mi bruciava le
viscere, ma non scacciava quel gran freddo che mi sentivo dentro. La donna
mi si mise vicino e cominciò a domandare; ma io aguzzavo gli occhi e
guardavo lontano, oltre i tetti e gli alberi di castagni che si vedevano sulla
strada del ponte. Poi venne Elia, di corsa; mi prese per il petto e cominciò a
gridarmi in viso:
– Disgraziato pazzo, cos’hai fatto agli uomini?
Elia mi scuoteva e io non parlavo. Ero diventato inerte e non mi sentivo
nemmeno la forza di difendermi dalle sue prepotenze.
– Imbecille, rispondi almeno, – Elia continuò. – Dimmi cosa hai fatto agli
uomini. Vuoi rispondere?
La signora Ida temeva che succedesse qualcosa di irreparabile. Si attaccò
alla spalla di Elia, come a un gancio, e cominciò a pregarlo di non gridare e di
non farmi male per amor suo. Elia mi lasciò ricadere nella sdraio. Poi lui si
sedé per terra, con la testa fra le gambe.
– Cosa è successo, Andrea? Perché non mi dici cosa è successo? –
chiedeva la signora Ida.
– Questo pazzo è diventato cieco di gelosia, – disse Elia con collera. –
Massacra gli uomini e poi li pungola col pugnale, perché è geloso che Anna
va in macchina con quel bestione del capitano Mattei. Dio, come è diventato
idiota!
Io restavo lí, sempre inerte, e a malapena intravedevo la signora Ida andare
intorno con le mani sulla testa. Il dolore al cuore, adesso, era diventato quasi
una cosa dolce.
– Vuol farsi degradare, – ripeté Elia, come una cantilena. – Questo pazzo
vuol farsi degradare, e perché poi? Perché una donna se ne va a spasso e lui
scoppia di gelosia, e perciò massacra gli uomini e vuol farsi degradare.
Infine mi alzai e scesi giú. Anche Abele, che aveva sentito gridare, era
sulla porta di casa, e mi lanciò un grido. Io non salutai Abele e me ne tornai
in caserma. Gli uomini erano stesi sui pagliericci, e quando mi videro entrare
nessuno parlò piú. Andai a vedere come stava il ragazzo Gioioso, ma Gioioso
stava molto meglio. Gli lisciai la testa. Il ragazzo allora sorrise. Disse:
– Sergente, proprio non ce la facevo piú e sono caduto.
Gli lisciai ancora la testa e volevo chiedere scusa al ragazzo, ma non seppi
dirgli nulla; cosí andai alla mia branda e mi distesi. Gli uomini mi
guardavano sempre e non dicevano nulla. Non parlarono fino all’ora del
rancio, quando tornarono gli altri uomini dalle istruzioni.
Non scesi per il rancio e restai sdraiato nella mia branda. Solo verso le tre
venne il tenente Mazzoni e mi disse che ero agli arresti. Il maresciallo Bassan
mi portò, piú tardi, le istruzioni. In quei giorni non vidi nessuno, nemmeno
Elia. Poi, qualche giorno prima che finisse la sala di rigore, venne il tenente
Mazzoni a dirmi che si usciva per i rastrellamenti.
Era di mattino presto. Elia mi cercò fra gli uomini e mi disse: – Anna ti
aspetta. Vieni a salutarla.
– No, dille che non mi serve e che non voglio piú vederla, – dissi.
– Vieni giú un momento, – insistette Elia. – Oggi ci uccideranno in
montagna. Può darsi che la vedi per l’ultima volta.
Seguii Elia. Sotto il portico della casa di Abele, Anna mi aspettava.
Tremava di freddo sotto la vestaglia. Appena mi vide mi si buttò tra le
braccia.
– È colpa mia, Marco. È tutta colpa mia, – disse. – Ma non ho fatto niente
di male, Marco.
Adesso, con Anna fra le braccia, mi era caduta tutta la violenza. Presi a
baciarla sui capelli.
– Tu non capisci quanto ti voglia bene, – disse Anna. – Ma ora giurami
che non farai piú male agli altri, Marco. Guardami bene. Dimmi che non farai
piú pazzie.
– Oggi ci uccideranno, – dissi guardando oltre la sua spalla. Vedevo Elia e
la signora Ida che si baciavano.
– Marco! – implorò Anna.
– Non sei stanca di questo amore? – chiesi sempre guardando la signora
Ida.
Anna non rispose. Odorava di lenzuola e di freddo. Poi disse, baciandomi
sulla guancia:
– Ti aspetterò, Marco. E pregherò per te.
Poco dopo Elia mi tirò per la manica.
– Andiamo, – disse.
Seguii Elia. Le due donne alzarono le mani. Le vedemmo cosí fino a
quando richiudemmo il portone dietro le nostre spalle.
XXVII.
Lo zaino delle munizioni cominciò a pesare sulle spalle. Gli uomini erano
sfiancati. Per ogni quattro chilometri di montagna c’erano dieci minuti di
riposo. Gli uomini si buttavano per terra e non avevano piú voglia di alzarsi.
Il tenente Mazzoni ripeteva agli uomini:
– Ragazzi, è meglio che non fumiate.
Era sorto il sole sulle montagne. Incominciava la primavera e il sole ci
fasciava come in un panno caldo. Si abbandonavano i dorsi dei monti aguzzi
e si scendeva a valle di sguincio; a valle incontravamo corsi d’acqua limpida
e alberi stroncati. Poi si risaliva per i sentieri dei montanari. Mazzoni
bestemmiava continuamente che non s’incontrava nessuno. Cominciammo
col frugare le baite e i rifugi, e le baite erano vuote e senza bestiame, e i rifugi
chiusi.
Ora si marciava quasi in silenzio e la tristezza prese gli uomini di faccia.
Elia non aveva parlato dal mattino. Io m’incollavo sulle spalle la piastra della
Breda, e andavo con la testa rincagnata sotto. In questo modo facevamo il
cambio con gli uomini piú robusti del plotone.
Verso sera ci fermammo. La cena con carne secca presso il bivacco largo
della valle si prolungò piú del solito, perché gli uomini mangiavano con
pigrizia, e solo qualcuno aveva il fiato di raccontare storielle senza
importanza. Alla fine il tenente Giordano prese a suonare un’aria di soldati
con l’armonica da bocca, ma poi smise e si coricò sulle foglie.
Elia venne a stendersi al mio fianco.
Guardavo gli alberi fitti che partivano dalla valle e salivano lungo la
montagna; pareva che si sdoppiassero e vivessero sotto la luna. Su e giú, a
cinquanta metri dal bivacco, le sentinelle vigilavano. Tutte le armi avevano la
pallottola in canna. Le mitraglie arcuavano le zampe con le bocche nere
aperte contro l’invisibile, e dai loro fianchi i nastri metallici s’allungavano
come budella.
Elia si accostò ancora, nella coperta, e mi diede un colpettino con la testa.
– Come va? – chiese.
Aveva la barba puntata contro il cielo bianco.
– Senti, voglio raccontarti una storia, – disse Elia. – Vuoi?
– Va’ all’inferno, – risposi sgarbatamente.
Elia si girò dall’altro lato, dentro la coperta, e non parlò piú. Io non
dormii, incantato dalla luna sugli alberi.
All’alba riprendemmo la marcia. Verso mezzogiorno raggiungemmo il
posto di concentramento con la II e III compagnia. Il capitano Mattei non
c’era. Nemmeno la II e la III compagnia avevano trovato niente sulle
montagne.
– Questi ribelli si sono volatilizzati, – disse il capitano della II compagnia.
Il tenente Mazzoni disse:
– Io non sono del tuo parere: le informazioni erano esatte.
– Finisce che dobbiamo rientrare – disse Giordano.
– Io farò un’altra battuta, – disse Mazzoni. – E se i viveri non ci bastassero
me li cercherò per strada.
Gli ufficiali delle tre compagnie segnarono alcuni punti sulla carta
militare, e si divisero le zone. Cosí riprendemmo a salire. Presto incontrammo
una radura e poi un folto d’alberi, infine una montagna brulla e rasa come un
cocomero. Camminavamo sulle creste dei monti. Ma prima che il sole si
spappolasse in chiazze d’uovo incontrammo un capraio. Il tenente Mazzoni
gli sparò dietro e il capraio si fermò.
– Perché scappavi? – gli disse Mazzoni.
– Pppaura! – disse il capraio, e la paura gli era fra i denti.
Era un ragazzo con poca barba e occhi larghi, azzurri. Mazzoni gli frugò
nel petto e nelle tasche, e il capraio batteva sempre i denti come se avesse
freddo. Poi un liquido gli bagnò i pantaloni. Il ragazzo se ne accorse con
terrore.
– Si fa addosso, – disse il tenente Giordano, ridendo.
Il ragazzo poi cominciò a dire parole sconnesse, guardando i fucili che gli
stavano contro il petto. Disse che era renitente di leva, ma non partigiano, e
aggiunse di avere la mamma vecchia e due sorelle. Non era andato soldato
perché doveva pensare alla mamma vecchia e maritare le due sorelle.
– Non hai letto il bando contro i renitenti? – gli chiese Mazzoni.
– Signore, non so leggere né scrivere, e non ho colpa di niente. Con questa
guerra dicono che non è obbligatorio fare il soldato. Dicono che chi si sente
ci va. Io non sapevo che era obbligatorio.
– Senti, – gli disse Mazzoni, – se vuoi riportare la pelle a tua madre devi
dirci dove sono i partigiani.
– Non li conosco, – gemé il capraio. – Non so dove si trovano.
Giordano disse al tenente Mazzoni:
– Non gli caveremo niente. Mandalo via, Gianni.
– Sí, credo che bisognerà mandarlo via, – disse Mazzoni cupamente.
Allora il ragazzo gli si buttò tra i piedi e disse:
– Grazie, io non ho colpa di niente. Mazzoni lo sollevò per un braccio e
disse:
– Cammina davanti a me, sul sentiero.
Le capre si erano raccolte in gruppo sulla montagna e ci guardavano con
occhi dubbiosi. Le loro groppe tremavano. Il capraio saltellava giú per il
sentiero, e presto incontrammo i primi campi di grano verde. Ai fianchi
c’erano le abetaie e spacchi di cielo chiaro nelle insenature dei monti.
Voltandomi indietro vedevo che il gruppo delle capre ci seguiva a distanza, e
innanzi a tutte c’era un becco con la testa bassa e le grandi corna nodose.
Il capraio, adesso, non piangeva piú e forse si era rassicurato. Mazzoni
aspettò che avanzasse ancora di cinque passi. Poi gli sparò alle spalle tutto il
caricatore del mitra. Il capraio ruzzolò per il sentiero come una palla,
arenandosi infine in mezzo al grano. Bocca aperta e gambe larghe e occhi
pazzi spalancati al cielo.
– Qualcuno lo troverà, – disse Mazzoni, rinnestando un altro caricatore.
Continuammo a scendere. Prima di perdere la linea azzurra delle
montagne mi voltai ancora a guardare su. Le capre scendevano sempre piú
lentamente verso il loro padrone morto. Poi si raccolsero in cerchio intorno al
capraio e presero ad annusargli il viso. Qualcuna ci seguiva ancora coi suoi
occhi liquidi e spaventati.
Nella valle ci fermammo a bere al ruscello e poi lo seguimmo. Nel cielo
era rimasta un’ultima striscia di luce. Elia a un tratto mi strinse il braccio e io
lo guardai senza rispondere. Poi Elia sputò sulla foglia verde ai suoi piedi,
come se provasse schifo di qualcosa. Disse:
– Farà una bella notte. Dalle mie parti, con queste notti, si caccia in palude
–. Sputò ancora, e aveva le labbra secche.
– Ed è bello, con queste notti, – seguitò Elia. – Uno le punta i fari negli
occhi e l’altro la prende. La rana schizza un poco nel pugno, poi tu stringi col
pollice alla base del collo oppure la sbatti contro i tronchi, tenendola per le
giunture delle gambe. Ne prendevamo sempre parecchie, in palude.
XXVIII.
Quando Elia fu sicuro che tutto era in ordine nella camerata, e gli uomini
dormivano, disse che potevo andare, perché lui avrebbe fatto il mio servizio.
Nemmeno alla mensa avevo visto il capitano Mattei, perciò chiesi a Elia dove
fosse il capitano Mattei, come se Elia fosse tenuto a sapere ogni cosa. Elia
allargò piú volte le braccia e ripeté che non sapeva dove fosse il capitano
Mattei. Infine disse:
– Vai, e cerca di fare una cosa alla svelta.
Scesi il vicolo stretto davanti alla caserma, ma solo quando fui
nell’androne della casa di Abele mi accorsi che avevo corso. Respirai piú in
fretta per calmare l’affanno. Poi spinsi la vetrina e fui dentro.
Nessuno si volse a guardarmi. Abele non c’era e nemmeno la moglie e il
ragazzotto rosso erano davanti al fuoco. Davanti al fuoco quasi spento la
signora Ida aveva la testa sulle ginocchia, e di dietro le vedevo la nuca
bianca.
Simone parlò per primo. Disse:
– Ti abbiamo conservato le castagne.
Io non guardai Simone, ma chiesi subito alla signora Ida:
– Dov’è Anna?
La donna non si mosse e io chiesi piú forte:
– Dov’è Anna?
Allora la signora Ida sollevò nella luce il suo viso asciutto e disse:
– È andata via, Anna.
Volevo parlare ancora, ma le parole non vennero.
Rigido in mezzo alla stanza aspettavo che la donna riprendesse a parlare.
Poi dissi quasi gridando:
– Aveva detto che mi aspettava. Non può essere andata via.
– È andata via, – ripeté la signora Ida, tenendo sempre la testa sulle
ginocchia.
Adesso potevo sentire il fuoco e il respiro del vecchio. Mi cercai una sedia
e presi le castagne nel paniere, automaticamente. La signora Ida continuò: – È
andata via nel pomeriggio. Ha detto che tu sapevi che andava via.
– Ma perché, perché se n’è andata? – chiesi ancora come un bambino, e
subito mi venne una gran voglia di piangere e rompere qualcosa. Ma la
signora Ida ripeté monotonamente, con la faccia contro il fuoco:
– Ha detto che tu sapevi che andava via.
Passò del tempo. Poi la donna aggiunse, con voce piú calda:
– Elia è tornato?
– Tutti, siamo tornati tutti, ed era mille volte meglio se non tornava
nessuno, – dissi.
Capivo che mi esaltavo inutilmente, ma volevo fare qualcosa per impedire
che quel pugno, internamente, mi stringesse forte. Poi chiusi gli occhi, per
sentire piú netto quel male interno, finché non vidi molti dischi rossi davanti
a me, da quella parte dove ascoltavo il fuoco.
Infine la signora Ida si alzò dal suo posto e uscí senza far rumore. Potevo
udirla come saliva le scale, strisciando i piedi come se fosse diventata
pesante, e poi il suo passo si perse sulla terrazza.
Potevo udire il fuoco e il soffitto.
Dopo qualche tempo mi scossi dal dormiveglia in cui ero caduto, sentendo
il freddo alle reni. Allora Simone riattizzò il fuoco, vi buttò delle strisce di
legna secca e delle frasche. La legna crepitò e la fiamma prese a lambire la
catena fuligginosa del camino. Alla fiamma i nostri volti si fecero rossi.
– Le volevi molto bene?
La voce di Simone veniva dal fuoco. Avvicinai di piú il volto alla fiamma,
senza rispondergli. Potevo vedere il fuoco nei miei occhi. Lingue bianche e
azzurre tremavano sui carboni piú bassi.
– Io sapevo che se ne sarebbe andata. Dal primo giorno che la vidi sapevo
che se ne sarebbe andata.
Potevo sentire il fuoco e il soffitto.
– Succede sempre che una persona alla quale si vuol bene se ne vada. E
noi soffriamo molto allora, e poi non possiamo fare niente contro il nostro
dolore.
Potevo sentire i mobili e il soffitto. Era di tavole il soffitto e, ogni tanto,
scricchiolava.
– Ma è meglio che se ne sia andata, perché ha visto nel tempo. Il male di
donna è male che guarisce, ma il nostro pensiero vede sempre quel male, e
cosí il dolore è sempre piú forte.
Sentivo il fuoco e i carboni che ruzzolavano.
– Ma è meglio che se ne sia andata. Il tuo male guarirà incontrando
un’altra donna, perché tutti i sentimenti si ripetono, e nessuno è profondo nel
modo di distruggere.
Simone riaccostò col piede dei carboni dirupati dal mucchio, ne prese uno
nella mano, lo fece ballonzolare nel palmo, poi lo gettò nuovamente nel
fuoco.
– Era una bella donna, e ha amato una stagione, – continuò il vecchio,
come parlando a se stesso. – E ora se n’è andata per non essere scacciata. Ha
saputo misurare il suo amore, accorgendosi di quando doveva andarsene. Sai,
è come uno che si uccide prima che gli altri lo portino alla forca. Già, credo
che sia proprio cosí.
– Il dolore, adesso, è soltanto mio, perché chi amava di piú ero io, – dissi
guardando il fuoco.
Simone sospirò. Disse:
– Durerà poco. Non è il dolore di donna che risolve. Noi ci accasciamo
davanti a questo male di passaggio, e non abbiamo cuore per i dolori piú
grandi.
– Oh, Simone! – dissi seccato.
Mi alzai e raccolsi la bustina sulla sedia. Guardavo l’aquila d’argento sulla
bustina.
– Vuoi andartene? – chiese Simone fissandomi coi suoi occhi rossi,
incassati nelle rughe. – Non mi saluti nemmeno, figliolo?
Mi rigiravo la bustina tra le mani e sentivo ancora il fuoco e il soffitto.
– Domani all’alba salirò verso le baite con tutte le mie capre, forse non ci
rivedremo piú. Perciò volevo salutarti.
– Perché non ci rivedremo piú? – dissi. – Quando scenderai noi saremo
ancora qui.
– Chissà dove sarete voi! – disse il vecchio. – Pensi che la guerra non
dovrà finire?
Simone si alzò e mi prese per il braccio.
– A maggio, forse, sarà tutto finito. Ma voi non sarete piú qui, né altrove.
Forse non ci saranno piú guerre. Forse potremo vivere in pace i giorni che ci
restano.
– Simone, non capisco. Non ti riesco a capire. Cosa vuoi dire che non
saremo piú qui, né altrove? Spiegami, Simone, – dissi.
– Tu sei un ragazzo, – disse Simone – e non capiresti. Mi dispiace, sai, dei
ragazzi come te. Siete nati un po’ male, voi.
– Simone, spiegati per favore, – dissi.
– Niente, niente. Andiamo via, – disse il vecchio. – Se tu fossi meno
ingenuo ti proporrei di venire con me. Sai, potremmo raggiungere presto i
rifugi piú alti, con le strade che so io.
– Ma che vuoi, Simone? Perché non ti spieghi meglio? – dissi
stringendogli il braccio.
– Tu non capisci, perciò è tutto inutile che mi spieghi meglio, – disse
Simone. – E anche se ti dicessi che la guerra l’avete persa, che fra qualche
mese sarete massacrati, che molti di voi non rivedranno le mamme, tu
seguiteresti a non capire. Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che
commettete contro la gente, ma non riesci a capire come stanno le cose. Non
riesci a vedere chiaro. Perciò resti solo un ragazzo, figliolo, e ti costerà caro
essere stato ragazzo in una guerra come questa.
Uscimmo sotto il portico e, nella casa di Abele, Simone spense la luce.
Avevo la testa piena di parole del vecchio, ma da un pezzo non lo sentivo piú.
Pensavo sempre alla maniera canaglia come una donna mi aveva piantato.
C’era una luna grande nel cielo, fra bianche macchie di nuvole. Davanti al
portone il vecchio mi strinse la mano, con calore. Poi disse guardandomi
negli occhi: – Che Iddio ti riporti a mamma tua, figliolo. Se poi le cose si
mettono a posto anche per te, scrivimi qualche volta. Sarò contento di sapere
che sei vivo.
Simone scese lentamente il vicolo, rasentando il muro, e anch’io risalii.
Nel chiaro di luna, tornando in caserma, sapevo che anche nel Molise, lí a
Provvidenti, era bello cacciar rane in palude…
XXIX.
Fu quando sparammo i primi colpi che Elia disse: – Questa volta ci siamo.
Poi, tra una scarica e l’altra, mi dettò il suo indirizzo. Disse:
– Il mio paese si chiama San Merano di San Giuseppe, e resta in provincia
di Taranto. Se faccio il buco quassú e tu no, riporta il mio berretto a casa.
Io gli dettai il mio indirizzo.
L’azione incominciò come una semplice scaramuccia, ma quando
prendemmo la casamatta fuori della boscaglia, ci apparve il Mortirolo come
un cocomero bianco, e la neve lí raggiungeva i due metri. Sulla cresta del
cocomero c’erano le postazioni nemiche; di lí scendevano raffiche e
valanghe. A 2800 metri sentivamo un freddo da polo. Ma presto passò anche
il freddo, perché la demenza in cui eravamo caduti ci inebriava di calore.
Ormai era già una settimana che volevamo prendere il cocomero, e quelli di
lassú ci dicevano di no. I soldati dicevano, sfiduciati:
– Ci vorrebbero tre Spitfire con qualche bombetta fatta bene, ché noi non
ci possiamo far niente con questi dannati. Perciò ci vorrebbero tre Spitfire, e
forse anche qualcuno in piú.
Quelli del cocomero avevano pezzi da 81 e una mitraglia per trincea.
Sparavano con calma. Sparavano, mangiavano e facevano i bisogni. Spesso
dicevano, per sfottere:
– Non venite su, leoni?
Sparavano giú raffiche che era un’ira di Dio, e ridevano. Si udivano
distinte le loro risate fredde, nelle pause del fuoco. Fra le loro voci una era
piú reboante. Diceva con ira:
– Tirate al piccione!
E il tenente Giordano era morto, subito dopo che quella voce aveva
gridato. Ed era morto il sergente Berneschi di Firenze, il maresciallo Bassan,
ed era morto il sergente Elia. Tutti colpiti alla testa dal cecchino infallibile. Il
loro berretto con l’aquila sulla visiera era rotolato sulla neve.
– Sergente, sei ferito anche tu? – gridò il rifornitore Pasquini.
– No, non ancora, – risposi. – Elia è morto?
– Pare di sí, sergente, – disse Pasquini.
– Ti va di andargli a prendere il berretto?
Pasquini non rispose subito. Poi gridò:
– Bene, speriamo che non mi freghino.
Sgusciò fra le pallottole fino al cadavere di Andrea Elia, e gli prese il
berretto bucato. Tornò strisciando.
– Eccoti la reliquia, sergente, – disse.
Il berretto di Elia era macchiato di sangue e di cervello. Me lo infilai nella
cintura dei pantaloni e continuai a sparare, senza nemmeno ringraziare il
rifornitore per la sua bravura.
Di tanto in tanto le mitraglie s’inceppavano; qualcuno pisciava nel carrello
perché era finito l’olio. Il capitano Mattei era sempre dietro i soldati, col
binocolo e la pistola in pugno come un eroe di celluloide. Gridava:
– Cantate, ragazzi! Fate sentire che avete ancora fiato.
I soldati attaccavano rabbiosamente:
A noi la morte non ci fa paura
ci si fidanza e ci si fa all’amor,
se poi ci avvince e ci porta al cimitero
si accende un cero – e non se ne parla piú.
Mi svegliai ancora con quel dolore nei fianchi. Il letto era duro, di tavole.
Ma ricordando che mi trovavo in casa mia mi calmai subito.
– Il letto di casa mia, – sospirai.
Il sole saltava sulla coperta del letto passando per la finestrella del
divisorio. Il vino del bottiglione era verde cupo col sole che batteva sul vetro,
e l’oliva secca, sparsa sotto il muro, mostrava lo sporco lucente che aveva
nelle pieghe.
Quando sentii girare la chiave chiusi gli occhi, fingendo di dormire. Ma tra
la rete delle ciglia potevo vedere mia madre che entrava silenziosamente,
portando una tazza fra le mani. Depositò la tazza sulla sedia e mi guardò.
Vedevo il suo viso stanco, vizzo, devastato dalle rughe, e la sua testa di
passero non era piú alta e bella come una volta. Adesso era dominata da un
tic appena visibile, leggerissimo, ed era diventata pesante sul collo troppo
lungo.
Volevo gridarle:
– Ma’, perché non mi baci?
Restai con gli occhi socchiusi, fingendo di dormire. Lei mi guardava
sempre con la sua indefinibile aria triste, pensando chissà quali cose, poi uscí
come era entrata, silenziosamente. La stanza, senza piú lei, si fece vuota.
Adesso potevo udire meglio i rumori della strada. Macchine pesanti e
suoni di clackson. Ma le grida della strada erano sempre distinte e vibranti, e
davano l’idea di una moltitudine. Alle grida era confuso lo stridere delle
raganelle pasquali. Potevo figurarmi gli ordigni di legno che vorticavano
pazzamente nelle mani dei ragazzi, cacciando quel suono lacerante, allegro.
Mi chinai un poco da un lato e presi la tazza. Assaggiai il latte, ma lo
stomaco non voleva riceverlo.
– Non posso, – dissi. – Non mi va.
Rumori rotondi mi spinsero su le budella in piccole masse dure, e mi
pareva che il ventre dovesse aprirsi per farle uscire. Rimisi giú la tazza.
– Non mangio da… non mangio da due giorni, ma non mi va lo stesso…
non posso berlo.
Mi rigirai nel letto due o tre volte, cercando di essere completamente
sveglio e ricordare. Ma non potevo ancora ricordare e mi sentivo debole
come un malato convalescente.
– Il letto di casa mia, – dissi. Tesi l’orecchio ai rumori della strada.
Sospirai: – Oh, il letto di casa mia.
Le voci della strada erano forti, poi risalirono la collina e si persero sulla
via del fiume.
– Il letto di casa mia, – ripetei.
In quel momento il raggio di sole camminò ancora sulla parete, quasi
guardingo. Vedevo la macchia chiara che si lasciava dietro, con in mezzo i
moscerini ubriachi. Poi, di colpo, la luce si conficcò nel muro dove dormiva
il ragno. Quello balzò sulla tela e la percorse rapidamente, le girò tutt’intorno
come un cieco, poi tornò al suo centro e vi si accovacciò. Il sole gli
illuminava il dorso peloso e la tela era cenere filamentosa nell’angolo del
muro.
In quel momento le voci ridiscesero la collina e si fermarono davanti al
sarto. Potevo vedere Valentino con la squadra in mano, dietro al banco di
noce, che osservava quella gente sulla porta della bottega. Ero quasi certo che
diceva: «È diventata una bettola, la bottega? Andate a gridare altrove». Ero
quasi certo che diceva queste parole. Poi il ragno si mosse dietro a una mosca
e sparí nel buco del muro. Allora anche le voci crebbero tra le raffiche delle
raganelle e tornarono verso la collina. Sulla collina si dispersero, si
affievolirono e, sul brusio appena udibile, avanzò rapido il nitrito dei cavalli.
– Forse è giorno di festa, – dissi ad alta voce, per sentire la mia voce, e
guardavo sempre la tela del ragno invasa dal sole, mentre ricordavo.
Adesso potevo ricordare ogni cosa, tutto quello che era successo, e potevo
ancora sentire le voci ubriache degli uomini e vedere don Diego Scrocca e il
prete. Potevo ancora annusare il puzzo degli uomini seduti intorno alle
fiasche di vino, e vedere quegli occhi pazzeschi, quasi vuoti, che stavano per
saltarmi sul petto.
– Dio! – dissi. – Dio mio!
Disteso sul letto, completamente immerso nel caldo rettangolo di sole,
avevo la sensazione che qualcuno mi tirasse per i piedi, per condurmi in un
luogo che non conoscevo. Ma anche nel sonno pensavo che non sarei dovuto
tornare, e rimpiangevo i morti che c’erano stati. Tutti i morti della guerra. Oh,
quelli non sarebbero tornati!
In quel momento entrò dalla finestra un rombo di campane e gli uccelli del
mandorlo vennero a gridare sul balcone.
– Oggi è domenica, – dissi.
Pensavo alla gente che stava in chiesa, pregava con la schiena curva sul
pavimento, e Giulia era in qualche fila di banchi insieme a Cocangelo suo
marito, e ora sapevo che anche Giulia era morta definitivamente per me.
Della vecchia vita non mi rimaneva piú nessuno, ormai, e avrei dovuto
ricominciare da solo se volevo. Ma avevo cosí poche speranze, cosí poca
fiducia anche in me stesso che ancora mi chiedevo cosa stavo a fare lí, in casa
mia, e perché ero tornato.
Il ragno uscí dal buco nero e ripercorse la tela. Poi si spenzolò, veloce.
Pensavo che stesse per cadere, ma restò sospeso a un filo lucido, lungo, che
aveva piccole vibrazioni nel sole. Il ragno rimase con la testa in giú per un
attimo, guardando le mosche che correvano sul pavimento della stanza. Poi
risalí. Un altro filo, parallelo al primo, dal basso tornò su dietro le zampette
del ragno che tesseva.
Guardavo le operazioni del ragno e non lo vidi entrare. Ma egli camminò
rasentando la parete e si fermò nell’ombra. Poi vidi che guardava la tela alta,
luminosa, e sentii la sua voce soffiata verso quella parte del muro dove il
ragno tesseva.
– Salve, – disse. – Come va?
Masticava la gomma ed era piú alto, piú duro in quella divisa. – Dicono in
giro che volevi ammazzarlo, – disse. – In fondo non ci avresti rimesso un
gran che, se lo facevi giusto.
– Sí, – dissi. – Non ci avrei rimesso un gran che.
Michele sputò la gomma sulle olive secche sotto il muro. Disse: – Vuoi
fumare?
Mi tese il pacchetto rosso sulle coperte.
– No, grazie, – risposi.
Poi:
– Michele?
– Sí, – fece. Ma accorgendosi del latte nella tazza disse sorpreso: – Toh,
perché non l’hai bevuto?
– Lascia stare. Non sono malato, – dissi. – Senti…
– Ti sto a sentire, – disse Michele. Venne a sedersi su di una sedia e accese
una sigaretta.
Adesso io volevo chiedergli delle cose, ma il suo modo di fare mi
intimidiva un po’. Sapevo bene che non era piú il ragazzo che avevo lasciato.
Michele era molto piú sicuro di sé, per cui lo stesso desiderio di fargli delle
domande, sapere come viveva e perché portava quella divisa, mi sfumò
subito. Ero ripreso dalla stanchezza, da quella passività che mi diceva «vada
tutto come vuole andare. Io non farò nulla per salvarmi».
– Be’, allora? – fece Michele. Guardò l’orologio al polso e disse in fretta:
– Senti, bisogna che ti sbrighi. Ho un affare da combinare.
Dal fondo della mia inerzia qualcosa mi spinse a reagire. Dissi:
– Affare? Che affari fai, Michele?
Guardavo come soffiava il fumo della sigaretta. Oh, sí. Anche lui era
cresciuto. Forse era cresciuto troppo per i suoi anni.
– Fai degli affari, Michele? – ripetei.
– Un po’ di copertoni e bidoni di benzina, – disse lui, col suo mezzo
sorriso all’angolo del labbro dove teneva la sigaretta. – Io non traffico con gli
indumenti. Lascio quel lavoro ai pidocchiosi. Non rende quel che mi basta.
– Oh! – feci. – E per questo porti quella divisa?
– Senti, non sfottere, – disse Michele. – Tutti sanno che faccio l’attendente
a un capitano americano e quello mi ha fatto un permesso per portare la
divisa. Ci sto bene, no?
– Uh, ci stai bene, – dissi. Mi vennero dei brividi come se avessi freddo.
Tuttavia gli dissi: – Con quella divisa, in ogni modo, ti è piú facile fare il
ladro. Non è questa la vera ragione?
Michele scattò in piedi col pugno alzato contro la mia faccia. Io chiusi gli
occhi vedendolo arrivare. Ma il pugno di Michele restò sospeso. Poi sentii la
sua voce rabbiosa:
– Senti tu, io faccio il ladro e in qualche modo sfamo la famiglia. Papà è
disoccupato e di lavori non se ne parla. Da Valentino non alzavo una lira.
Lavoravo gratis. Ma gratis nessuno ti dà da mangiare. Ora faccio il ladro con
gli Americani. Hanno un sacco di roba. Tutti quanti si arrangiano, di questi
tempi. Io faccio quello che posso. Ma tu, Cristo, hai fatto cose piú belle, tu?
– Oh, basta, Michele!
– Be’, non volevi sentire? E allora perché ti vieni ad attaccare a me? Pensi
che la gente, ora, ti accolga a braccia aperte, ti dica bravo, Marco, hai fatto
bene quello che hai fatto?
– Senti, se non la pianti con queste cose…
– Lascia, non mi fai piú paura, – disse Michele. Aveva gli occhi lucidi,
fitti e piccoli come acini d’uva. La sigaretta gli pendeva dall’angolo della
bocca e il fumo gli nascondeva la faccia.
In quel momento le voci della strada ridiscesero la collina e i cavalli
nitrirono piú forte. Michele sorrise brevemente. Disse:
– Senti queste voci? Immagino che vuoi sapere perché gridano. Bene,
sono i cafoni di Ripa venuti per la fiera. Ma in mezzo a loro ci sono i cafoni
del paese, quelli che hanno patito e ora vogliono guardarti in faccia.
– E che c’entro, io?
– Tu non c’entri, ma vogliono guardarti in faccia lo stesso, – disse
Michele. – Lo sai che Ranuccio Jasenza è morto, e Tommaso Giammaria è
morto, e Guido Mairana è morto?
– Morti? – dissi mettendomi seduto sul letto. – Che vuoi dire, Michele?
– Niente. Ti informo, ti dico quello che è accaduto quando tu non c’eri, –
disse Michele. – Gli ultimi Tedeschi ci dissero buona sera sparando dai
camion. Tu sei scappato coi Tedeschi, in paese dopo quei fatti dicevano che
tu avevi simpatia per i Tedeschi. E i Tedeschi spaccarono tutto. Presero porci,
muli e uomini. Loro dovevano ritirarsi bene e gli uomini che presero gli
servivano a qualche cosa. Ranuccio, Tommaso e Guido scapparono e i
Tedeschi li fecero secchi sul colpo, senza pensare. Quelli facevano sul serio;
e miravano bene. Filippo Abrupto riportò a casa il sedere pieno di buchi e
nessuno voleva curarlo, perché si erano nascosti tutti. C’era una paura… Poi
Filippo Abrupto mi fece ridere coi suoi pianti, quando l’andai a trovare. Lui
voleva i pantaloni col cuoio, se ti ricordi. Odiava quella gente e diceva che
avrebbe preso i pantaloni col cuoio.
Michele rise tra i denti.
– Ah, Filippo Abrupto! – disse. – Era un altro mezzo pazzo che non valeva
un cavolo.
Avevo sempre i brividi. Ma chiesi:
– E poi, cosa è successo, poi?
– Niente, finí la guerra, – disse Michele. – Gli Americani portarono la roba
a grascia e si poteva rubare.
– Ma che c’entro io con quelli uccisi dai Tedeschi?
– Niente, niente, fratello, – disse Michele, sempre col suo mezzo sorriso
all’angolo del labbro. – Ma Guido ti era amico e tutti lo sapevano. È tornato
dai preti insieme con te. Stavate sempre insieme. Pasquale il barbiere vi
chiamava «gli abati». Eravate proprio due buoni amici.
– Oh, spiegati meglio, Michele! – dissi, ma i brividi mi tagliavano il
corpo.
– Senti, c’è poco da spiegare. La madre di Guido un giorno disse a nostra
madre, mentre tornavano dalla messa: «Hanno ucciso mio figlio che non
c’entrava. Debbono fare la stessa cosa col tuo». Disse cosí la madre di Guido.
Gridava in mezzo al mercato come quando gli riportarono il figlio morto sulle
braccia. Poi tutto il paese voleva che tu fossi morto ammazzato.
Michele mi guardò ancora tra il fumo della sigaretta. Poi uscí sbattendo la
porta, come era sua abitudine.
Adesso sapevo di averci i panni bagnati, attaccati sulla carne come in quel
giorno lontano quando Glauco, il dottorino, mi cercava la pallottola e
l’anestetico non aveva preso. Una nebbia densa e bianca, bianca e fluttuante
come i moscerini nel sole, mi girava torno torno alla testa.
– Il mio amico Guido, – dicevo.
Fu lui a spaccarmi il naso con un mattone, una volta. Prima che andassimo
via dal collegio fu lui a confidarmi per la prima volta che non poteva resistere
al diavolo. Diceva: «Viene ogni notte, Marco. Mi porta ora Giuseppina
Thomass e ora quella ballerina che abbiamo visto sul manifesto quando
accompagnammo il morto, ricordi?» E io dicevo sí a Guido e volevo
confessargli che il diavolo veniva anche da me. «Ma che ci stiamo a fare
qui?» diceva lui, e quasi aveva vergogna per quel che diceva. «Senti,»
gridava. «Io scrivo a casa. Non m’importa piú di niente. Io qui non ci sto».
Si tormentava, Guido. Ed era un ragazzo piccolo, grasso, portava le unghie
sempre pulite e leggeva bene al refettorio, e noi sentivamo come leggeva
cercando di non far rumore coi piatti. Ce ne andammo insieme, lo stesso
giorno, e pensavamo a ciò che avremmo detto a casa. Io dicevo: «Non posso
raccontare queste cose a mio padre. Mi ammazzerà di botte».
Le voci della strada tornarono ancora verso la collina e si spensero dalla
parte del fiume. Ma io ripetevo sempre: – Il mio amico Guido…
Poi vennero ancora nitriti di cavallo e una raffica di raganella proprio sul
pianerottolo di casa. Potevo vedere Gino che manovrava nell’aria lo
strumento di legno. Poi Gino richiuse la porta della cucina e tornò giú. Si fece
silenzio anche sul balcone dove cantavano gli uccelli, e io non mi accorgevo
di ripetere ad alta voce, col viso pieno di lacrime: – Guido, Guido, Guido…
Quando mia madre tornò dalla messa e mi vide in quel modo disperato,
venne a sedere sul letto, nel rettangolo di sole, e disse:
– Cos’hai? Che ti prende, adesso?
Sentivo sui miei capelli la sua mano ruvida, scarna, e le lacrime non
cessavano di scendermi sul viso.
– Su, su, – disse mia madre, come si dice a un bambino. – Pensi ancora a
ieri sera?
– Macché, macché…
Sentivo la sua mano sui capelli.
– Ci sono altre cose, ma’, – dissi. – Altre cose che non posso mandar giú.
Sentivo la sua mano sui capelli.
– Passerà. Passerà tutto, – disse con un sospiro. – Tutto dovrà passare. E tu
non devi fare cosí. Alla tua età non si piange.
Le lacrime scesero piú in fretta, ma già non piangevo piú. Mi bastava che
lei stesse lí, mi parlasse in quel modo. Anch’io, mentre lei parlava, soffrivo
meno.
– Mi fa bene, – dissi, – mi fa bene sentirti, ma’. Ma ci sono ancora delle
cose…
– Tutti abbiamo dovuto sopportare delle cose. Abbiamo visto brutte cose
con la guerra, – disse lei, lisciandomi i capelli, come si fa con un bambino. –
Ma ogni cosa dovrà cambiare. Anche tu cambierai, sarai diverso. Ma ci vuole
tempo, speranza…
Mi lisciava i capelli e parlava piano, guardando verso la finestra dalla
quale veniva il sole. Poi disse, sempre guardando da quella parte dove veniva
il sole:
– Dovrai alzarti e uscire. È una bella giornata, oggi.
– Oh, ma’, – dissi. Pensavo a quando sarei uscito e tutti mi avrebbero visto
e guardato. Nicola Bissi aveva detto: «Gli domanderemo com’è stata la
guerra, da loro». E io sapevo che non avrei potuto rispondere, ma loro
avrebbero insistito per portarmi alla disperazione.
– Ho paura di qualche cosa, ma’, – dissi.
Ma lei non mi sentí. Disse:
– C’è ancora il vestito di due anni fa. L’ho conservato insieme alla camicia
bianca. Adesso ti andrà un po’ corto… sei cresciuto durante questo tempo.
– Oh, non importa, – dissi. – Andrà bene lo stesso.
Mia madre andò a prendere il vestito nel cassettone e lo posò sul letto. Vi
mise su la camicia bianca e la cravatta.
– Non ho pensato che dovevo farlo aggiustare, – disse. – Prima ci pensavo
qualche volta, poi dissi che poteva stare lí se non lo metteva piú nessuno.
– Mamma! – dissi afferrandole la mano. – Anche tu credevi che non
l’avrei piú messo?
Accomodò il vestito sul letto; lo spolverava con gesti minuti, amorevoli.
Vedevo come le tremava la sua grigia testa di passero, e mi sentivo stringere,
come da una mano.
Mia madre guardò la cravatta e disse:
– È stato mezz’anno fa, alla fiera di Guardia. C’era Rosa Mileto e
Giovannina Frezza. Loro volevano riportare qualcosa ai loro uomini e cosí
presero una cravatta ciascuno. «E tu, Concetta, non prendi una cravatta?»
disse Giovannina. «Vanno tanto adesso, le portano tutti.» Io guardavo la fiera
e pensavo che avrei dovuto prendere, come loro, una cravatta buona, che
potesse stare su questo vestito. E cosí presi la cravatta e Rosa disse: «Hai
scelto un colore acceso, Concetta. Pietro non la metterà. Questa è cravatta di
giovane». E io dissi a Rosa Mileto: «Questa è per il mio figlio giovane,
quello che adesso non c’è».
– E cosí ho preso la cravatta accesa e l’ho riposta col vestito e la camicia.
Tu non avevi mai portato una cravatta prima, ma io dicevo, quando la
riponevo: «Questo è il regalo per il mio figlio uomo».
– Dicevo cosí e piangevo come una stupida, e quando piangevo non mi
giovava pensare che avevo altri due figli vivi e che potevo vederli come
crescevano.
Sentivo la mano scarna di mia madre sopra i capelli, e potevo capire i suoi
sforzi per non piangere. Poi disse:
– Dovrai vestirti e uscire. Oggi è festa, ritroverai i tuoi compagni.
– Oh!… Non ritroverò i miei compagni, – dissi pensando a Guido e avrei
voluto che Cocca, sua madre, adesso sapesse com’era stata triste e ingiusta la
guerra anche per me. Dissi a mia madre: – Non mi hai domandato cosa ho
fatto tutto questo tempo, lontano di casa. Non mi hai domandato niente,
ma’…
– Lascia, figlio, – disse mia madre. – Quello che è stato è stato, e per te,
come per noi, non è stato una bella cosa.
Mi lisciava i capelli.
– Io, per molti giorni, per molti mesi, avevo la mia forza per aspettare. Poi,
quando i giorni cominciarono a essere uguali ai mesi, e non riuscivo piú a
distinguere l’ora di notte dal mattutino, io dissi che mi stavo abituando, come
si abituava Cocca Divota per la morte di Guido.
– Ma adesso sono qua, mamma, sono vivo, – dissi.
Mi lisciava i capelli con la sua mano rozza, scarna, e disse:
– Sí, figlio, ti vedo e ti tocco e mi dico che non è un inganno. Ti tocco e ti
vedo, ma non capisco perché sento ancora paura, come se mi stesse
mangiando il ventre una banda di cani.
– Mamma, non dire cosí, – dissi. – Non voglio che parli cosí.
– Non parlerò piú cosí, – disse lei. – Ma ora capisco perché ho dovuto
piangere da sola. E ho pianto e mi sono presa tutte le ingiurie e le male
parole. Quando mi dicevano: «Concetta, dov’è andato tuo figlio?» io dicevo
che mio figlio era andato con la sua mala fortuna. «È andato a sparare contro
di noi, Concetta,» dicevano i vecchi della Società Operaia. Tuo padre
diventava pazzo con quelle voci nel paese. Ma io rispondevo: «Lo sa Iddio se
mio figlio spara contro di noi. Io non gli compravo fucili, da ragazzo.
Famiglia d’operai non compra fucili ai figli. Lui, quand’era qui, non sapeva
sparare che col legno di sambuco».
– Ma quelli parlavano come se ti vedessero.
– Oh, mamma! Quello è stato un tempo pazzo, per me, – dissi. – Io sono
andato dove non dovevo andare, e ho imparato tante cose. Ho imparato anche
come si spara. C’erano tanti come me e piú giovani di me, e tutti abbiamo
imparato presto come si spara. Era come il tiro a segno, e campava chi
sparava prima, ma’…
Mia madre mi teneva la mano sulla testa e guardava dalla parte della
finestra, davanti a sé, da dove veniva il sole. E io aggiunsi:
– Era fatta cosí quella guerra, e io sparavo contro quelli che mi sparavano.
Era come se fossi ubriaco, e non avevo molto tempo per pensare a come
soffrivo. Elia sapeva come soffrivo… Mi chiamava salame. Poi ci è rimasto.
Ci è rimasto quando cominciava a soffrire anche lui. Lui aveva fatto altre
guerre… ma adesso cominciava a soffrire e voleva che gli riportassi il
berretto…
Mi asciugai gli occhi col lenzuolo e strinsi i denti. Mi dissi: «Che ti
prende, che piangi come un cretino?»
Sollevai la testa per guardarla in viso. Mia madre chiuse gli occhi come se
volesse disperdere un colpo di vertigine. Poi disse:
– Tu hai fatto quello che hai voluto e quello che non volevi. Tante cose hai
fatto senza riflettere. Non riflettesti il giorno che tornasti dal collegio. «Non
ci resistevo,» dicesti. E io non ti capivo, ma poi dissi che saresti stato un
uomo giusto anche senza farti prete. Poi te ne sei andato, sei finito in guerra e
non so cosa hai fatto in guerra. Io non so se hai colpa o no. Io non so niente.
Ma ho dovuto piangerti morto e portarti morto nel cuore. Quando Cocca mi
disse certe cose… quando lei piangeva per il figlio morto e non capiva niente
del mio dolore, io non sapevo se mio figlio era colpevole o no. Io senz’altro
dicevo di no. Sapevo solo che dovevo piangere e basta, come piangeva
Cocca, perché ci colpiva la stessa sventura.
Sentivo la sua mano sui capelli, percorsa dai tremiti. Poi continuò, piú
calma:
– Tu sei stato uno che è voluto andare e ti sei perso nella guerra. Non era
una guerra che volevamo noi, ma tu ti ci sei perso lo stesso. Hai fatto tante
cose… che ne so? Ma a Cocca Divota non potevo rispondere niente.
– Sí, ma’, – dissi. – Non potevi rispondere niente.
– Eri un ragazzo, anche Guido era un ragazzo. Lo ricordo ancora quando
veniva a chiamarti e io strillavo che andavate per male vie. Poi tu sei sparito,
sei andato a conoscere il mondo… Oh, adesso ti guardo e ti tocco e sono
contenta che ti ho riavuto. Ma penso a tutti quelli che non sono tornati, io.
Debbono essere molti quelli che non sono tornati.
Mia madre era nel rettangolo di sole, ancora con la sua mano sui miei
capelli, guardando davanti a sé. Io ripensai alla vecchia di Cava, la madre
dell’uomo con la casa sulla palude. Era contenta che io tornassi a casa,
riscaldò i maccheroni e preparò il letto pulito, ma anche lei pensava a quelli
che non sarebbero piú tornati, a tutti i morti della guerra che non avrebbero
piú ritrovato il sentiero di casa. Sí, pensavo, le madri non si domanderanno
mai se i figli sono morti per una ragione. Esse sanno solo che debbono
piangere e maledire, perché i figli morti pesano sul cuore piú dei figli vivi.
Mia madre mi lisciava i capelli, ma pensava a quelli che non sarebbero piú
tornati. Forse pensava a Cocca Divota e al mio compagno Guido. Guido
Mairana era un poco anche suo figlio, come io ero un poco figlio a Cocca
Divota. Mia madre pensava a queste cose, perciò la sua gioia nel vedermi
vivo accanto a lei, in casa sua come un tempo, non poteva essere gioia piena,
e le rughe non sarebbero mai piú sparite dal suo viso.
Poi mia madre si scosse dal torpore. Uscí dal rettangolo di sole. Disse:
– Dovrai farti la barba. Dovrai salutare la gente con la faccia pulita.
– Sí, ma’, – allora dissi, e adesso sapevo che era necessario tornare in
mezzo alla gente, vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una
ragione.
gennaio-febbraio 1947.
Assonanze
Tiro al piccione (1961)
Genere: di guerra.
Regia: Giuliano Montaldo.
Soggetto: dal romanzo omonimo di Giose Rimanelli.
Sceneggiatura: Ennio De Concini, Fabrizio Onofri, Luciano Martino.
Fotografia: Carlo Di Palma.
Musica: Carlo Rustichelli.
Scenografia: Carlo Egidi.
Montaggio: Nino Baragli.
Interpreti: Jacques Charrier, Eleonora Rossi Drago, Francisco Rabal, Sergio Fantoni,
Carlo D’Angelo.
Produzione: Ajace Cinematografica.
Da: Vent’anni di cinema italiano, tutti i film dal 1945 al 1965. Catalogo Bolaffi del
cinema, diretto da G. Rondolino, a cura di O. Levi, G. Bolaffi editore, Torino 1967.
Testimonianza di un regista
di Giuliano Montaldo
La fine degli anni Cinquanta ha segnato l’esordio di un numero nutrito di registi. Questo
è avvenuto anche perché prima di registi ce n’erano pochi in rapporto alle possibilità del
mercato, perché per un lungo periodo di tempo gli esordi erano stati soffocati da un cinema
consuetudinario e fiacco. Tra la fine del neorealismo e gli anni Sessanta c’è stato un
periodo magari di maestri operanti, ma non di grosse rivelazioni. Invece poi ci furono gli
esordi di Pasolini, Olmi, De Seta, Petri, Damiani, eccetera. Il pubblico tornava ad andare al
cinema, e cosí anche i produttori hanno avuto voglia di continuare una certa esplorazione
anche con gente nuova. Ebbi qualche difficoltà nel senso che la produzione, la Ajace di
Cervi e Jacovoni, volle in qualche modo impormi un attore francese, Charrier, mentre io
avevo un piccolo gruppo di attori con cui mi sentivo in grado di lavorare. Ho pagato la mia
piccola esperienza, e dovevo probabilmente impormi di piú, ma tutto sommato l’esordio
non l’avevo cercato, mi veniva offerto… Avevo ventinove anni e mi sembrava che poteva
andar bene lo stesso. Cosí ho fatto Tiro al piccione.
Se non era facile trovare produttori per film come Tiro al piccione, lo è stato però anche
di piú negli anni successivi a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, e personalmente ho fatto
molta piú fatica a montare i progetti di Sacco e Vanzetti, di Giordano Bruno… Infatti film
come Kapò, come La lunga notte del ’43, avevano avuto un buon successo di pubblico e
avevano spinto i produttori alla ricerca di esordienti, in quei primi anni Sessanta. I
produttori mi avevano imposto un attore francese, Jacques Charrier, che non mi pareva
andasse bene: il ruolo era difficile, quello molto scabroso di un milite repubblichino.
Avevo letto il romanzo di Giose Rimanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e
appassionato questa storia «vista dall’altra parte», la storia di un giovane che in quegli anni
aveva fatto la scelta sbagliata.
Personalmente non ebbi un’esperienza molto simpatica della politica culturale del Pci.
Forse, facendo un film cosí «diverso», avrei dovuto rivolgermi con ancora maggiore
attenzione, con maggiore senso documentario a quelle che erano le mie sensazioni e
impressioni. Mi chiesero di vederlo, mi chiese Alicata di vederlo, e c’era già un’aria di
sospetto che io non avvertii, forse perché non ero legato a clan o gruppi e allora nessuno mi
ha consigliato. Era un po’ una chiesa, quel gruppo, e io ero uno strano credente perché
infine in chiesa non ci sono andato e questo poté essere un boomerang. Il film trovò tutti
impreparati e accigliati…
Poi il film andò a Venezia in un anno in cui Pasolini arrivava con Accattone, con un
linguaggio piú moderno, piú nuovo. Io avevo tanto frugato, avendo già fatto film sulla
Resistenza (G.M. era stato attore e organizzatore in film come Achtung, banditi! di Carlo
Lizzani, 1951 e Gli sbandati di Francesco Maselli, 1945, n.d.r.), avevo maturato l’idea che
bisognava rivisitare anche le altre parti della guerra. Forse ho anticipato troppo… Ma il
film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che mi brucia ancora è questa, perché
non era vero, e piú tardi alcuni mi hanno riconfermato in questo, ma allora sono rimasto tre
anni senza lavorare perché mi dicevo: «non riesco a esprimermi, a farmi capire», anche se
avevo attestati dal pubblico. Quello che mi ha imbarazzato di piú è stata l’accoglienza di
certi miei amici, di quella parte che avrebbe dovuto capire il film e sostenerlo. Allora erano
ancora stalinisti, c’era il rifiuto di capire l’altra parte, di tendere la mano… di qui l’accusa
di ambiguità. Cosí mi chiusi in me stesso, restando senza lavorare, finché non mi sono
accorto che dovevo ricominciare daccapo.
Da: L’avventurosa storia del cinema italiano, 1960-1969, a cura di F. Faldini e G. Fofi,
Feltrinelli, Milano 1981.
Il libro
«La storia di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte
sbagliata», cosí Rimanelli presentava a Cesare Pavese, nel 1950, il romanzo
che sarebbe poi stato pubblicato da Mondadori. Sullo sfondo di un Molise
arcaico, segnato dal bisogno e attraversato da una violenza sotterranea,
Marco Laudato, il giovane protagonista, viene coinvolto nell’agonia della
Repubblica sociale spinto da deboli motivazioni patriottiche che lo
porteranno a scontrarsi con il fanatismo dei gerarchi e le disillusioni
personali.
Descrivendo con un flusso narrativo impetuoso i venti mesi di orrore
della guerra civile, Tiro al piccione si delinea come una delle poche
testimonianze su vicende, passioni e confusioni di allora che ancora oggi
conservano un’innegabile autenticità. Da questo romanzo è stato tratto
l’omonimo film di Giuliano Montaldo (1961).
GIOSE RIMANELLI (Casacalenda 1926) vive negli Stati Uniti dal 1960. È
professore di Italiano e Letteratura comparata all’Università di Stato di New
York ad Albany. Tra le sue opere segnaliamo Peccato originale (1954),
Biglietto di terza (1958), Molise Molise (1979), Arcano (1990), Moliseide
(1992), Benedetta in Guysterland (1993).
© 1991 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
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