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Giose Rimanelli

Tiro al piccione
romanzo
La prima stesura di Tiro al piccione è degli ultimi mesi del 1945. Giose
Rimanelli, molisano di vent’anni, reduce dalla guerra civile in cui aveva
militato per la Repubblica Sociale, e da cui era poi fuggito, era ancora troppo
vicino ai fatti e ai misfatti che lo avevano tanto colpito. Continuò a
rielaborare il testo che interessò i redattori della sede romana dell’Einaudi,
Carlo Muscetta, Natalino Sapegno e Carlo Levi. In occasione di un viaggio a
Roma all’inizio del 1950 (quello che sarebbe stato l’ultimo suo anno di vita),
Cesare Pavese sentí parlare di quella storia di un giovane che aveva visto la
Resistenza dalla parte sbagliata e successivamente lesse e apprezzò, pur tra
riserve, il romanzo. Nel maggio del 1950 Pavese informò Rimanelli che Tiro
al piccione sarebbe stato pubblicato. Quando Pavese si ammazzò, il romanzo
era già in tipografia, se ne ebbero le prime bozze, ma non se ne fece piú nulla.
Su consiglio di Elio Vittorini, Tiro al piccione uscí nella «Medusa degli
Italiani» di Mondadori invece che nei «Coralli» di Einaudi.
Il tema era per quei tempi arduo. Ma fu scelto per il film d’esordio di
Giuliano Montaldo che a ventinove anni, nel 1961, portò sullo schermo le
vicende di Marco Laudato, il protagonista problematico in cui Rimanelli si
era almeno in parte ritratto e identificato. Il film, con il quale la critica fu
piuttosto severa, varrebbe la pena di essere rivisto, come senz’altro vale la
pena di essere riletto, il romanzo. Che si consiglia alla lettura anche di chi
dalla guerra civile è lontano per nascita, per diverse convinzioni, o
semplicemente per indifferenza. – Forse ho anticipato troppo, – confessa
Montaldo, parlando del suo film del 1961. Figurarsi come aveva anticipato
Rimanelli nel romanzo che è del 1953, quanto a uscita, ma del 1945, quanto a
prima stesura.
La biografia di Giose Rimanelli (nato a Casacalenda nel Molise nel 1925)
sembra assemblata con i pezzi di vita di un «irregolare» del Cinquecento,
frammisti a quelli di un misfit otto-novecentesco, rimanendo assai distante dal
profilo del letterato italiano «sedentario» del Novecento. Una famiglia la sua,
segnata dall’emigrazione: la madre già cittadina canadese, il nonno Dominick
«vecchio pazzo ombrellaio e suonatore di jazz che avvolse di fantasmi e
miraggi, di lingue misteriose e richiami esoterici» 1 l’infanzia nel Molise. A
dieci anni Giose viene mandato in un seminario pugliese che abbandona nel
1940, avendo verificato che la «vocazione» non avrebbe potuto trovare
sistemazione nella sua vita. I tre anni successivi li trascorse a Casacalenda
«anni di penitenza, ignominia personale, meditazioni, letture» 2 che preludono
a una ineluttabile fuga: sale su un camion dei Tedeschi in ritirata dopo lo
sbarco degli Alleati a Salerno e si ritrova arruolato nella Repubblica Sociale.
Scampato alla guerra civile rientra in paese e vi rimane poco meno di un
anno, durante il quale la materia incandescente della vicenda appena vissuta
diventa il romanzo Tiro al piccione. Seguono anni di nomadismo povero:
Milano, Roma, Europa del Nord, Parigi e di nuovo Roma, anni però decisivi
per incontri e amicizie: Gaston Bachelard, André Martinet, Boris Vian,
Jovine, Alvaro, Muscetta, Pavese, Ungaretti, Carlo Levi, Ugo Moretti e
Scotellaro; letture: Cervantes, Goethe, Hemingway, Melville, Faulkner,
Tozzi, Pavese e Vittorini. Per sopravvivere scrive tesi di laurea a pagamento,
abita squallide pensioni, fa perfino lo sparring-partner in una palestra di
pugilato, ma nel 1948 riesce ad avere una prima collaborazione giornalistica
per «La Repubblica». Dattiloscrive sotto dettatura dell’autore Le terre del
Sacramento e collabora con Muscetta che sta lavorando al Padula. Tra il 1950
e il 1954 viaggia moltissimo in America e in Europa del Nord inviando
corrispondenze per «Epoca». In Canada si ferma alcuni mesi: a Montreal,
dirige «Il cittadino canadese», ma lavora anche con i raccoglitori di tabacco
nell’Ontario, esperienze che confluiranno in Biglietto di terza (Mondadori,
1958). Dal Canada agli Stati Uniti: a New Orleans visita la casa dove era nato
il nonno Dominick e conduce ricerche sull’eccidio del 1891, materiali che
utilizzerà nel romanzo Una posizione sociale (Vallecchi, 1959).
I primi anni Cinquanta sono anni di un consistente avvicinamento degli
scrittori al cinema e anche Rimanelli viene coinvolto da Carlo Ponti e Mario
Soldati: scrive per May Britt una sceneggiatura da La lupa di Verga e il
soggetto di Suor Letizia per Anna Magnani. Nel 1958 inizia la collaborazione
al settimanale «Lo Specchio», nel quale con lo pseudonimo di A.G. Solari
pubblica interventi sulla letteratura contemporanea e pezzi al vetriolo su
primari e comprimari dei salotti letterari romani che confluiranno poi in Il
mestiere del furbo (Sugar, 1959), il pamphlet con il quale Rimanelli firma il
suo «suicidio» nella società letteraria italiana. Nel 1960 va in volontario
«esilio» in America, dove ricercare una necessaria «uscita di sicurezza» a una
vita che, intrecciando livelli esistenziali, intellettuali, artistici, va a cacciarsi
continuamente in cunicoli accidentati. In America Rimanelli costruisce un
altro da sé insegnando in importanti università per un trentennio; si immerge
nella nuova realtà degli anni Sessanta – crogiuolo di accelerate
trasformazioni, segnato da grandi scontri sociali e razziali – che impregna le
pagine di Tragica America (Immordino, 1968). L’America gli offre anche lo
spazio vitale per un groviglio di esperienze artistiche, un universo di
possibilità estetiche. Si dispiega una grande macerazione di scrittura
testimoniata da opere solo in minima parte edite (Graffiti, Marinelli, 1977),
romanzi autonomi poi montati e fusi in La macchina paranoica, quindi di
nuovo smembrati, piegati a nuove possibili utilizzazioni; una secentesca
«fabbrica» narrativa, alimentata da una progettualità labirintica, frutto di
architetture e simbologie di meandri affettivi e ideologici, di sofferte
solitudini culturali ed esistenziali: il blocco tra due lingue e culture diverse,
divaricate e sovrapposte in canali mentali ed espressivi che amplificano la
dispersione e l’isolamento dello scrittore. Quasi solo alla poesia (Carmina
blabla, Monaci d’amore medievali, due raccolte apparse in Italia nel 1967)
sembrano affidati messaggi in bottiglia dal naufragio americano verso la
patria fuggita, «una terra lunnnnnnnga / da dimenticare», ma anche «una terra
lunnnnnnnga / da ricordare».

Quando a metà del 1945, scampato al «carnaio» della guerra civile,


Rimanelli rientra al paese nel Molise, si ritrova nello stesso clima soffocante
che lo aveva determinato alla fuga: c’è un rancore moltiplicato del padre che
non gli perdonava di essere scappato via nel settembre del ’43 e di aver
dovuto vedere sua moglie vestita a lutto che piangeva il figlio impiccato dai
Tedeschi. Ma di quel nido dopo tanta sofferenza Rimanelli non poteva fare a
meno: la scrittura allora diventa vitale e funzionale, perché gli consente di
essere in mezzo ai famigliari e nello stesso tempo isolato da loro, e poi,
soprattutto, gli serve come «medicina» per liberarsi della tragica storia che
aveva vissuto.
La prima stesura del romanzo risale proprio ai mesi seguiti al suo rientro,
settembre-dicembre 1945: il flusso narrativo è impetuoso, quasi un torrente in
piena che si espande a inglobare spazi ben al di là delle vicende che piú
urgono. Infatti la narrazione parte dall’infanzia al paese, per poi proseguire
nel seminario pugliese, quindi l’abbandono dopo l’esaurirsi della vocazione.
Insomma si profilava un libro-saga, un non programmato Bildungsroman,
troppo dilatato in deviazioni e superfetazioni senza ancora una forma e una
lingua adeguate. Forse anche per questo Rimanelli di tanto in tanto su fogli
sparsi butta giú appunti per un altro romanzo che poi sarebbe diventato
Peccato originale (Mondadori, 1954): è un recupero dello spazio
adolescenziale, immerso nel mondo arcaico delle origini, una sorta di discesa
agli Inferi lungo il crinale della osmotica emersione del proprio «sottosuolo»
sublimato nella dimensione mitico-letteraria. A Una posizione sociale invece
affiderà il recupero della memoria dell’infanzia che, fondendosi con un
immaginario frenato, fa acquistare uno stile confessionale, diaristico.
Per quasi tutto il 1946 viaggia per l’Italia, morso da quell’aspide del
nomadismo che rimane una delle costanti della sua personalità. Di ritorno al
paese trascorre i primi mesi del 1947 impegnato nella riscrittura del romanzo;
deciso a non seguire i genitori sulla via dell’emigrazione riprende a fuggire
per l’Europa per poi fermarsi a Roma dove alla fine del 1947 conosce il
corregionale Francesco Jovine. Durante i due anni successivi di stabile
permanenza a Roma in condizioni di vita poverissima, Giose comincia a
frequentare con assiduità Jovine e Muscetta coi quali nel frattempo sono nati
rapporti di amicizia. Nel 1949 Jovine legge Tiro al piccione e consiglia
all’autore di sfoltirlo, concentrando la narrazione sull’ultima parte; Rimanelli
accetta le indicazioni e opera tagli consistenti, con riscrittura del primo e
dell’ultimo capitolo, prosciugando cosí notevolmente il romanzo, che
acquista quella compattezza strutturale e linguistica che emergerà come una
delle caratteristiche pregevoli del libro. Tiro al piccione, in questa nuova
stesura, viene letto da Muscetta, Sapegno e Carlo Levi. Muscetta, allora
redattore della Einaudi nella sede di Roma, decide di patrocinarne la
pubblicazione, ma per ragioni legate agli alterni rapporti tra la sede romana e
Torino ne ritarda l’invio. Nel gennaio del 1950 a Pavese che scende a Roma,
in un incontro quasi casuale, Rimanelli parla del suo romanzo come «la storia
di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte sbagliata».
Pavese si mostra interessato. Anche su ulteriore sollecitazione di Jovine,
Muscetta spedisce il romanzo a Pavese, il quale, con lettera dell’11 maggio
1950, esprime parere favorevole alla pubblicazione, aggiungendo però che
bisognava «fare i conti» con Vittorini e Calvino 3; il suo orientamento è per
una collocazione nei «Gettoni», a cagione dello «sperimentalismo» e
«sensualismo» il romanzo non risulterebbe adatto alle collane dei «Coralli» e
della PBSL . Nella stessa data Calvino invia il manoscritto del romanzo a
Vittorini con una lettera di accompagnamento, nella quale, insieme a una
evidenziazione in positivo della rappresentazione «quasi completamente nei
fatti, senza troppe divagazioni e commenti», esprime anche delle riserve:
«Rimanelli è molto, molto acerbo, come scrittura e come umanità e come
gusto. Però il suo libro è una cronaca molto viva e che ti prende e che
raggiunge il suo effetto d’orrore e schifo come poche. È un carnaio tremendo,
pieno di cose truculente e oscenità. Noi siamo incerti. Se va, va nella tua
collana. Ci rimettiamo al tuo giudizio» 4. In data 17 maggio 1950, Calvino
informa anche Rimanelli: «Ho letto Tiro al piccione d’un fiato, con un
interesse che non esiterei a definire “morboso”. Perché il sapore e
l’ossessione di quei terribili venti mesi nel tuo libro ci sono in pieno. Tanto
che non saprei darti un vero giudizio di valore del libro: è certo una delle
cronache piú vive che si siano scritte su quei tempi, con tutto quanto d’acerbo
c’è (e che riconosco bene perché è un “acerbo” attraverso cui sono passato, e
probabilmente sto ancora passando, anch’io) nel linguaggio e nella presa di
contatto con la realtà. Rimane questo senso di carnaio spietato e osceno e del
suo schifo, e questo è un risultato ottenuto attraverso mezzi narrativi, è un
risultato poetico» 5. Come si vede, le riserve sono quasi scomparse e Calvino
si rimette al giudizio di Vittorini il quale si dichiara d’accordo, lasciando però
in sospeso la collocazione del romanzo. Rimanelli riceve regolare contratto
dalla Einaudi con indicazione della collana, «I coralli», in cui verrà inserito.
La morte di Pavese, il cui giudizio era stato determinante per la pubblicazione
del romanzo, sembra in un primo momento non modificare il corso delle
cose, tanto che Rimanelli, dopo aver scritto una prefazione richiestagli dalla
redazione, riceve le prime bozze. Ma i tempi cominciavano ad allungarsi:
prevista già per l’autunno del 1950, l’uscita del romanzo viene spostata agli
inizi dell’anno successivo, come testimoniano le seconde bozze che nel
frattempo ha ricevuto e rispedito con le poche correzioni residue.
L’inevitabile ristrutturazione redazionale della Casa torinese è segnata da
opzioni politiche marcate che non consentono piú mediazioni e aperture, la
morte di Pavese ha rotto l’equilibrio «capace di preservare la linea
culturale» 6.
In questo nuovo clima il destino di Tiro al piccione è segnato: non poteva
piú trovare posto un romanzo che è la storia travagliata di una involontaria
scelta politica sbagliata, per giunta descritta senza reticenze, ma «cronaca
viva», con un suo straordinario «effetto d’orrore e schifo» come aveva notato
Calvino. Né a cambiare le cose può servire la richiesta prefazione che
Rimanelli scrive e che anzi, risultando totalmente sfalsata rispetto ai livelli
ideologici e poetici del romanzo, deve aver procurato un effetto contrario. Vi
è rimarcato il taglio autobiografico del libro con una confessione di fascismo
involontario che cosí decontestualizzata falsifica la condizione esistenziale
del protagonista e appare una excusatio petita o meglio una sorta di
pedagogica autocritica per allinearsi alle direttive dell’impegno e di una
letteratura teleologica: «Oggi ho ventiquattro anni e se pubblico questo libro
non sono spinto tanto dall’ambizione, ma dalla speranza che esso possa
servire a quei giovani che, come me, sono stati travolti dalla ventata nera e
ancor oggi per debolezza e vigliaccheria, sentimentalismo e ignoranza,
s’inginocchiano davanti ai vergognosi miti del fascismo che fecero la
disgrazia della nostra generazione». Una ingenua retorica professione di
antifascismo, che quasi sembra voler accumulare tutti gli stereotipi della
vulgata neorealistica, estranea anch’essa in gran parte al romanzo: «Mi
sarebbe piaciuto di piú parlare di contadini e gente di provincia. Io sono nato
in mezzo a loro, ho vissuto per i campi e sulle strade maestre dietro mio
padre operaio». Questa prefazione, regolarmente composta e impaginata,
avrebbe dovuto bilanciare la narrazione a rischio del Marco Laudato-Giose
Rimanelli, far superare nella redazione le «incertezze», già accennate da
Calvino, e che ora sono diventate avversioni; la vicenda editoriale si trascina
per diversi mesi, fino alla decisione ultima di bloccare la pubblicazione e
annullare il contratto: vi entrano, oltre a Calvino, Bruno Fonzi, Felice Balbo,
Natalia Ginzburg, Paolo Serini. Sarà lo stesso Vittorini a suggerire nei mesi
successivi a Rimanelli di rivolgersi a suo nome a Remo Cantoni della
Mondadori. Tiro al piccione, accolto nella «Medusa», uscirà nella primavera
del 1953 7.
Il romanzo si apre su un angolo di Molise arcaico dove si consumano i
giorni del protagonista diciottenne, animale in gabbia, pronto a fuggire alla
prima occasione. Nell’ambiente in cui Marco Laudato vive, tutto è segnato
dal bisogno, soffocato, pietrificato dal tempo senza storia della civiltà
contadina, attraversato da una violenza sotterranea, ramificata anche nei
rapporti familiari, il padre, e in quelli amorosi, Giulia, la ragazza del vicinato
con la quale vive un amore acerbo, «senza felicità», che alimenta la «voglia
di cose nuove, delicate», ma gli rivela anche le zone oscure della propria
psiche e del rapporto con l’altro sesso. Solo un’epoca di sconvolgente
interregno, quella che si apre con l’8 settembre 1943, può mettere in
circolazione schegge dirompenti anche in una società immobile come quella
meridionale uscita dal fascismo, che a un giovane come Marco non aveva
consentito alcuna sintonizzazione sul tempo storico effettuale e tantomeno sul
campo di tensioni (politica, ideologia, libertà, giustizia sociale) che avrebbe
alimentato le scelte al bivio degli avvenimenti che stavano maturando. I
camion tedeschi in ritirata non hanno bandiera ma sono solo «lunghi serpenti
neri» che emettono un rumore «rotolante», «rugginoso» come una sorta di
ineluttabile richiamo a rompere le catene che lo tengono legato al mondo
chiuso del paese. Sarà il caso ora a guidare il suo itinerario attraverso
un’Italia sconvolta dalla guerra, con le sue città «come sepolcri» fino a
Venezia, che nei giorni invernali appare una città nordica, immersa in un
clima ovattato e caliginoso. Qui Marco incappa in una retata e viene trasferito
in un campo di lavoro dei Tedeschi a Villafranca, dal quale riesce però a
fuggire approdando a Milano. Preso dalle Brigate Nere viene processato ed
evita la fucilazione arruolandosi nella Repubblica Sociale, ritrovandosi subito
a combattere in Valsesia. Fin qui il filo della narrazione si distende quasi
completamente sul piano autobiografico, e ancora: la ferita in un’imboscata,
la fucilazione del disertore, la ritirata sulla montagna di Zone, il capraio
Simone, Ida e il sergente Elia, il suicidio del tenente Mazzoni, la resa sul
Mortirolo in Valcamonica, la prigionia in una baracca sull’Aprica, il
partigiano Maurizio, l’arrivo degli Alleati, il campo di Coltano-San Rossore,
la tradotta alleata che porta i prigionieri da Livorno a Napoli, la fuga da Cava
dei Tirreni, l’operaio delle 50 lire di occupazione, il rientro, il risveglio la
mattina dopo nella sua casa. Questi segmenti autobiografici si fondono con
altri inventati o reinventati in rapporto a esperienze di vita, «storie capitate ad
altri, raccolte dal mio orecchio e rivissute dalla mia penna», o a esigenze
letterarie: le due figure femminili, Giulia e Anna, l’ebreo Chonn a Milano, il
ristorante-bordello di Porta Venezia a Milano, l’evirazione del caporale in
Valsesia, la spia Katia, i due feriti assassinati in ospedale, il giornalista
Lopez, l’uccisione del capraio da parte di Mazzoni, la morte sulla baionetta
del capitano Mattei, i ragazzi morti di cui parla la madre ecc. Figure ed
episodi per i quali ci può essere anche una matrice letteraria piú scoperta: la
relazione tra il protagonista e l’infermiera Anna Toffoli può dare
l’impressione di una replicazione della storia d’amore di Frederic e Catherine
in Addio alle armi di Hemingway. In questa combinazione di materiali
autobiografici, cronaca e tradizione orale, referenti letterari, il romanzo non si
discosta dalla narrativa resistenziale e neorealistica dell’immediato
dopoguerra. Ma da essa si distanzia per l’assenza di molte delle costanti
denotative di quella letteratura: la suggestione mitopoietica, la visione eroica
e celebrativa, la carica evocativa, la tipologia oppositiva buono-cattivo, la
consapevolezza politica, l’ottimismo ideologico e il senso della collettività,
una «tavola di valori» organici. Una acerba ma forte coscienza letteraria gli
rende estranei cronache, memorie, diari, autobiografie o racconti prodotti
dalla stagione e dalla memoria resistenziale, facendo propria la distanza
pavesiana: «altro è far cronaca, altro fare romanzo». Ma risultano anche
estranei i romanzi a tesi commemorativo-pedagogici e quelli sovraccaricati di
populismo e di «impulso moralistico e ideologico» 8, di programmato
engagement. Né possiamo immaginare un romanzo resistenziale piú distante
dai modelli alti di Calvino e di Fenoglio: la «favola di bosco» calviniana e
l’epos colto e aristocratico fenogliano muovevano da una coscienza
ideologica e letteraria antropologicamente estranea a quella che il ventenne
Rimanelli aveva potuto maturare in un seminario pugliese e tra i vicoli stretti
del paese molisano. Nella lettera a Muscetta, Pavese aveva notato che il
romanzo di Rimanelli non è «un libro politico – non vi esiste il caso del
fascista che si disgusta o converte, bensí il giovane traviato, preso nel gorgo
del sangue, senza un’idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad
ascoltare altre voci». Un giudizio acuto e insuperato che centra il nucleo
portante del romanzo e che si palesa chiaramente già nei primi scontri in
montagna: «non capivo ancora perché mi avessero mandato là, e perché
dovessi combattere contro ombre inafferrabili». I partigiani nemici sono
ombre, non hanno volti diversi o sminuiti dallo sguardo del protagonista che
combatte dall’altra parte, quando si rivelano hanno gli stessi lineamenti di
morte che li accomunano a quelli dei fascisti caduti. Neppure il realismo
crudo delle scene di guerriglia e di morte, di imboscate ed esecuzioni, che in
alcuni passaggi diventano raccapriccianti, modifica le stratificazioni
ideologiche ed esistenziali che si aggrovigliano nel cervello del protagonista.
Del Marco rimanelliano si potrebbe dire quanto Paolo Milano scrisse del
Johnny fenogliano: «l’ultimo erede di quella tradizione del “combattente
circondato d’irreale”» 9, dal Fabrizio del Dongo della Chartreuse al principe
Andrea di Guerra e pace, al Robert Jordan di Per chi suona la campana.
Anche per Marco la morte diviene il macrosegno della realtà, specola di
identificazione di compagni e nemici che cadono, mentre egli dirige lo
sguardo e il filo del pensiero verso altri territori e nuove consapevolezze:
«Hanno raccolta la polvere antica e ce l’hanno buttata addosso, e di noi
hanno fatto le nuove legioni: ci hanno riempita la bocca di canti e ci hanno
detto di andare. Andare! Ma andare dove? Non abbiamo mai saputo dove
dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, a morire massacrati, tutti
insieme». Interrogativi che entrano ai bordi di un campo di tensioni quasi a
prefigurare un itinerario verso una coscienza politica, anche se lí dove essa
vuole diventare piú esplicita, come nell’episodio finale del tentativo di
strangolamento dell’ex segretario del Fascio, mostra una sua forzatura
ideologica e letteraria lungo il crinale del romanzo neorealistico di
formazione. Significativamente questa scena fu sottolineata da certa critica
piú impegnata sul versante della pedagogia realistica quale esempio di
«illuminazione», di rifiuto del passato, di «riscatto» 10. Ma la centralità
letteraria e ideologica del romanzo è altrove, è nell’itinerario di paura, odio,
morte, un laboratorio in cui insieme a tanti altri giovani, il protagonista si
sente come una cavia; un itinerario lungo il quale scopre il vittoriniano
sentimento dell’«offesa», e la pavesiana trasfigurazione del nemico il cui
sangue sparso va «placato» e gli va data «una voce». Come vuole fare Marco
seppellendo i partigiani ammazzati, un impulso antropologico che gli viene
dalla cultura del padre, la stessa che contempla nei suoi codici la necessità del
sangue. Una ambivalenza, un mancato scioglimento dei nodi esistenziali e
ideologici stratificati nella sua geologia profonda che aggregano la verità-
realtà del protagonista: affratellato con tutti senza essere fratello di nessuno,
che avverte calore umano sia verso i suoi, i repubblichini, sia verso i
partigiani nemici, ma che non sa e non vuole afferrare i fili di Arianna che la
storia distribuisce lungo il suo cammino. Il fine della narrazione «non è la
testimonianza (politica e sociale) della guerra ma dell’io, del “se stesso” in
questa guerra» 11; un eroe negativo, in cui, insieme ad altro, si sono trasfuse
l’«innocenza» e «vulnerabilità» dello scrittore. La storia è altrove, non è
neppure sul Mortirolo dove si combatte l’ultima battaglia con implacabile
«tiro al piccione» che decima il plotone di Marco Laudato. L’ultimo
spargimento di sangue calato nella scrittura con immagini forti di violenza e
di morte ha il sapore di un ineluttabile rituale, un sacrificio che va consumato
fino in fondo, anche se inutile, poiché la guerra è finita, c’è già stato il 25
aprile. L’epilogo del romanzo con il ritorno a casa e la fuga dal treno che lo
porta prigioniero in Africa, è incastonato tra la voglia di gettarsi alle spalle il
peso della tragica esperienza vissuta e la speranza enunciata di un’Italia
diversa, anche nella terra d’origine. E invece quel mondo delle origini sembra
richiudersi come una cappa sopra di lui, procurandogli infelicità e
disperazione, nella solitudine che la vicenda vissuta ha amplificato. Marco
scopre ora che la Storia Grande può passarti accanto senza sfiorarti, ma la
privata storia di vita ti lascia addosso ferite aperte e non cicatrizzabili; ciò
anche se il romanzo si chiude sotto il segno della madre che tenta di ricucire
il lacerato rapporto del figlio con la realtà: «Lascia, figlio […] Quello che è
stato è stato». Nel segno della madre può trovare domesticazione il lutto per
«tutti i giovani morti della guerra che non avrebbero piú ritrovato il sentiero
di casa» e anche il superamento della «crisi della presenza» 12 per il figlio
perduto e ritrovato: «Dovrai salutare la gente con la faccia pulita. – Sí, ma’, –
allora dissi, e adesso sapevo che era necessario tornare in mezzo alla gente,
vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una ragione».
Nella citata lettera a Muscetta, Pavese non manca di sottolineare che
Rimanelli nella prosa di Tiro al piccione «ha sparso il pepe del turpiloquio
neorealistico» e suggerisce al giovane autore di leggersi «i maestri
dell’understatement: Stendhal, Hemingway, Pavese». Tre scrittori che in
realtà Rimanelli aveva già letto e non ignorato nella seconda stesura del
romanzo; come non aveva ignorato il Remarque di Niente di nuovo sul fronte
occidentale, il Céline di Viaggio al termine della notte e, soprattutto, Il segno
rosso del coraggio di Stephen Crane. La lettura di Paesi tuoi era stata
rivelatrice: Pavese gli aveva mostrato la possibilità di trasformare in scrittura,
spezzando il «cerchio magico delle convenzioni», gli istinti e il
«primitivismo», il «mostruoso» e il «sentirsi sradicati e primordiali»; una
scrittura come «magra auscultazione delle proprie perplessità e velleità», non
«doppione della vita» ma che la vita deve possedere 13. Evidentemente Pavese
non scorgeva del tutto realizzate nel romanzo di Rimanelli queste indicazioni,
trovando ancora da «potare, sfrondare, neutralizzare, verniciare», insomma
una dose superiore di oggettività e di attenuazione stilistica per una prosa che
in alcuni punti rivelava qualche ridondanza, veicolata dalle tensioni tematiche
e dalla mancata fusione dei codici linguistici (lingua comune media, italiano
regionale, dialetto, lingua letteraria) in linea del resto con quella alterna
«creolizzazione» 14 tipica della prosa neorealistica, e in linea con la prosa
neorealistica è anche il privilegiamento del dialogato «macrostruttura formale
portante […] il segnale della non finzione» dei romanzi e racconti neorealisti.
Ma queste ineludibili sintonizzazioni sulla lunghezza d’onda del neorealismo
non esauriscono certo le peculiarità formali e strutturali di Tiro al piccione,
come mostra l’uso frequente della struttura binaria, poi largamente adoperata
in Peccato originale, per la quale alcuni segmenti di monologo sono in
corsivo e spesso senza punteggiatura, quasi a materializzare nella scrittura il
flusso di coscienza. Una tecnica appresa dal Faulkner de L’urlo e il furore e
già sperimentata in parte da Vittorini in Uomini e no. Un uso della paratassi
parsimonioso che non diventa maniera, e altrettanto dicasi per lo stile
nominale; un modello sintattico che non si esaurisce in quello pavesiano: il
perfetto è il tempo della rappresentazione del reale; l’imperfetto è il tempo
del reale visto dal protagonista; il presente è il tempo del campo interiore in
particolare nei monologhi per i quali opziona il discorso diretto. Ma
increspature, scarti dalla norma, contaminazioni (perfino la ballata alla
maniera della Harlem Renaissance 15), e anche notevoli e frequenti acerbità,
vanno a comporre uno stile di notevole forza espressiva difficile da
ingabbiare nelle formule e nelle codificazioni neorealistiche. Pure difficile è
determinare un sicuro palinsesto dei tracciati letterari che hanno influito sul
romanzo rimanelliano e che comunque non limitano la qualità di una scrittura
dalla originale sperimentazione realistica, unica nel panorama letterario
italiano dell’immediato dopoguerra, alimentata da una «forza inventiva
naturale» che afferra la propria tranche de vie e lo spazio-tempo di una
generazione a un passaggio epocale.
SEBASTIANO MARTELLI

1. G. Rimanelli, Molise Molise, Marinelli, Isernia 1979, p. 125.


2. Ivi, p. XVII .
3. C. Pavese, Lettere 1926-1950, vol. II , a cura di L. Mondo e I. Calvino, Einaudi, Torino
1966, p. 725.
4. I. Calvino, I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, p. 21.
5. Ivi, p. 22.
6. G. Turi, Casa Einaudi, Il Mulino, Bologna 1990, p. 168.
7. Nell’edizione mondadoriana è naturalmente scomparsa la Prefazione, mentre è rimasta la
dedica a «Francesco Jovine e all’operaio sconosciuto di Cava dei Tirreni che ai primi di
giugno ’45 mi accolse in casa sua salvandomi da altre sciagure». L’assenza di varianti
tra l’ultima stesura (1947-1949), poi in bozze da Einaudi, e il testo pubblicato da
Mondadori, testimonia della totale ininfluenza di letture degli anni 1949-1953, spesso
invece richiamate dalla critica.
8. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi, Torino 1988, p. 134.
9. P. Milano, Il partigiano che pensava in inglese, in «L’Espresso», 11 agosto 1968.
10. L. Lombardo Radice, Il passato di tutti, in «L’Unità», 7 luglio 1953.
11. G.B. Faralli, Antologia delle opere narrative di Giose Rimanelli, Marinelli, Isernia
1982, p. 25.
12. E. De Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino 1975, pp. 12-56.
13. A.G. Solari [G. Rimanelli], Il mestiere del furbo, Sugar, Milano 1959, pp. 51-57.
14. M. Corti, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1987, pp. 97-98.
15. M. Tedeschi, Resistenza e guerra partigiana: testimonianze, in Dal fascismo alla
Resistenza, LIL 64, Laterza, Bari 1980, p. 205.
Tiro al piccione

Dedicato alla memoria dello


scrittore Francesco Jovine e
all’operaio sconosciuto di Cava
dei Tirreni che ai primi di
giugno ’45 mi accolse in casa sua
salvandomi da altre sciagure.
Parte prima
I.

Vedevo la sua massa nera e la linea delle gambe nel quadrato della porta,
all’inizio delle scale. Giulia scendeva sempre col venire del fresco. Metteva
la testa sulle ginocchia e guardava la gente sulla strada, oppure dormiva. Ma
spesso sedeva lí masticando un pezzo di pan secco, e i giovani del bar di
fronte le guardavano le gambe nude.
Giulia non si curava delle mosche che le giravano intorno. Tuttavia, di
tanto in tanto, sollevava nervosamente la mano percuotendo l’aria, e le
mosche, allora, sciamavano come impazzite. Giulia seguiva il loro volo con
occhi pesanti, annoiati; ma a volte ne afferrava due o tre col pugno chiuso,
poi le schiacciava contro il muro. Le mosche vi lasciavano virgole di sangue.
Ma quando il crepuscolo disperdeva l’ultima luce, anche le mosche
sparivano dal bianco. Giulia si alzava allora; volgeva le spalle alla strada che
rintronava dei primi rumori dei camion e saliva su adagio, muovendo le
anche con la solita pigrizia.
Dalla finestra osservavo tutto ciò che avveniva sulla strada. Vedevo il
distributore giallo e il prato verde ai piedi della collina; e potevo sentire la
voce cantante di Gino e il rimbalzare della palla sul selciato.
– Uno, due, tre e quattro, cinque e sette, dieci, quindici…
Gino saltabeccava nell’ultima striscia di sole con le mani intrecciate sulla
nuca. Ogni tanto però, fermava la palla sul ventre e strillava all’imbocco del
vicolo dei fornai:
– Davidee!
Un ragazzo grasso, dal naso rotto, faceva capolino tra lo zenzero d’una
finestra e scuoteva la testa, malinconicamente. Poi spariva. Gino, allora,
riprendeva a giocare da solo. Cantava:
– Uno, due, quattro e cinque, sette e nove, dieci, quindici…
Il buio entrava presto nei vicoli e i camion iniziavano la loro processione.
Gino tornava su e veniva alla finestra. Mi tirava per la giacca. Diceva:
– Marco, quante automobili, eh?
Poi:
– Mi dici dove vanno?
Io non rispondevo.
I camion passavano sotto le finestre tutte le notti fino all’alba. Le strade
nere del paese erano sconvolte dai rumori. Le vecchie case tremavano dalle
fondamenta. Era cosí quando tirava il vento. Una dietro l’altra le macchine
formavano lunghi serpenti neri, dagli occhi ciechi. Erano mimetizzate con
frasche e teli da tenda; ma alla luce di qualche cerino s’intravedevano i
Tedeschi nelle cabine, ammassati gli uni sugli altri, con l’elmetto calcato
sulla fronte.
Col naso appiccicato ai vetri guardavo quel traffico. Mia madre ciabattava
per la casa nella sua vestaglietta nera, ma infine, con la sua voce lontana,
diceva:
– Levati una buona volta da quei vetri. Sei come una statua, non fai che
guardare. Oh, mettiti seduto, almeno!
Non rispondevo. Sentivo, poi, il pianto di Gino che non voleva lavarsi i
piedi prima di andare a letto. Mia madre allora riprendeva:
– Dovresti farti vedere dal medico.
– Oh…!
– Stai diventando pazzo.
– Oh, ma’! Piantala!
Sentivo come ciabattava per la casa. Poi, quasi improvvisamente, gridava
con voce dura:
– Dovresti smetterla con Giulia.
Mi veniva quel nodo nella gola. Anche Pietro Laudato sapeva a memoria
la stessa frase, e me la ripeteva ogni volta che ci pensava. Tuttavia
rispondevo incollerito:
– Ma che c’entra Giulia? Oh, vorrei proprio che la piantaste di parlare di
Giulia.
Concetta Laudato era piccola, bruna, e a trentatre anni sembrava già
vecchia. Diceva che se ne sarebbe andata presto, come sua mamma Teresa,
perché il cuore era debole e non resisteva a tutte le nostre liti. Esclamava:
«Vorrei distendermi su questi mattoni e non alzarmi piú».
Quando rispondevo incollerito vedevo il suo viso farsi tetro, cascante. Mia
madre, allora, mi veniva vicino e diceva, guardandomi:
– Non gridare, Marco. Sentono i vicini. I vicini sanno tutti i fatti di casa
nostra.
Voleva piangere.
– È che non posso piú sopportare le critiche, io. E poi non voglio vederti
in quel modo. Mi gira la testa a vederti.
– Anch’io vorrei non vedermi, ma’.
– Allora devi incominciare col levarti dai vetri. Dio, come sono
sventurata! Prima te ne torni dal collegio. Dici che farti prete non ti va, dici
che hai perso la vocazione stando coi preti. Tuo padre si fa cattivo, grida e
insulta tutti. Ma adesso ci mancava la storia dei camion per completare
l’opera?
– Ma’, via, non essere cosí. Non mi fa niente sentire quei rumori. È come
un ritornello, ma’. Passano ogni notte. Ma non mi fanno niente quei rumori.
L’abbracciavo improvvisamente, le baciavo i capelli neri, sentivo il suo
cuore contro il mio petto. Lei si asciugava gli occhi con la mano rozza,
crepata per il lungo strofinio sui panni e i mattoni di casa. Era allora, con mia
madre che piangeva, che mi sentivo piú infelice e ingombrante. E quel
rumore di camion mi spaccava il cranio, mi pareva di ballare in un vuoto
d’aria, e sentivo piú insistente in me la voglia di seguire quei rumori.
Non riuscivo a staccarmi dalla finestra. La finestra era un ponte tra me e
quei rumori. Solo quando vedevo arrivare mio padre andavo nell’altra
camera, mi chiudevo dentro, mi mettevo a frugare tra la biancheria del comò
e nei cassetti, nella speranza di trovare la chiave della cantina. Da una
settimana mio padre l’aveva fatta sparire dal chiodo sulla porta della cucina,
dopo che s’era accorto quello che io e Giulia facevamo nei nostri incontri
notturni.
Giulia veniva sempre dopo le nove. Scendeva il vicolo nascosta nello
scialle e andava ad appiattarsi nell’ombra, aspettandomi. Appena dentro mi
buttava le braccia al collo, mi attirava sul pavimento, vicino a lei, stavamo
lungamente distesi. Giulia mi passava la sua mano pelle e ossa sulla faccia;
diceva che io avevo la pelle delicata e lei non avrebbe amato nessun altro
uomo come amava me.
Io facevo sí con la testa.
– Anch’io non amerò mai nessun’altra donna.
– Ma tu vuoi andartene, Marco.
Giulia mi parlava sui capelli.
– Forse, – io rispondevo. – Ma non amerò mai nessun’altra donna.
– Dovremmo fidanzarci, Marco.
– Sí, Giulia, – rispondevo.
Con gli occhi chiusi respiravo profondo e sentivo l’odore forte della stalla.
– E dovremmo sposarci, Marco. Io ho paura. Non riesco mai a dire tutto a
don Luciano. Oh, Marco, ho paura. Alla nostra età siamo già pieni di peccati.
La sua voce era grave, adulta. Ma stando cosí, a lungo andare, le veniva il
fiato corto. Cominciava a cantare lunghe nenie e io, allora, sentivo piú forte
l’odore della paglia e dell’urina.
– Tu sposerai Cocangelo, – dissi una volta. – Ho visto di nuovo il sensale
Picone, oggi. Si è fermato piú di mezz’ora.
– È venuto. E con questo? – disse Giulia, allarmata.
– Significa che lo sposi.
– Ho detto che non mi piace, quel tipo. Ma Picone insiste, – disse Giulia.
– Oh, ti piacerà, – dissi con cattiveria. – Cocangelo può darti una bella
casa e una serva. Con la posizione che ha tu saresti donna Giulia.
– Oh, sta’ zitto! Che me ne faccio se non mi piace?
Cocangelo era un uomo piccolo e pigro, venuto da una città dell’est. In
paese tutti lo chiamavano Cocangelo, anche i ragazzini che andavano a scuola
da lui. Si portava dietro una borsa di cuoio sempre piena zeppa dei compiti
degli scolari e faticava molto a reggerla in mano. Passava sotto la mia finestra
alle nove di mattina e all’una di pomeriggio, ma già alle nove di mattina
scoppiava dal caldo. Con gesti torpidi, lenti, si passava il fazzolettone a
quadri sulla testa pelata, per asciugarsi il sudore. Poteva avere trent’anni, e la
gente del paese diceva che si era pelato per il troppo studio.
Quando il sensale Picone andò in casa di Assunta Donato per dire che
Cocangelo, il maestro, era innamorato della figlia, la donna chiamò Giulia e
le disse:
– Si parla del tuo avvenire, figlia, perciò apri bene le orecchie. Un po’ di
dote ce l’hai e tutta la biancheria è nel comò. Ora ti hanno messo gli occhi
addosso. Ti piace il signor Cocangelo?
Giulia rispose subito:
– Il maestro? No, non mi piace.
– È un ottimo partito, – disse il sensale Picone.
Giulia guardò la faccia rossa del sensale e disse:
– Sono ancora ragazza. Non mi piace sposare da ragazza.
Assunta Donato voleva picchiarla, ma c’era il sensale Picone e cosí
rimandò per picchiarla. Tuttavia le gridò incollerita, senza che Picone
capisse:
– E per quel mascalzone non sei ragazza?
Giulia non fiatò. Allora l’uomo rosso tentò di ristabilire la pace e disse che
sarebbe tornato, per sentire se la ragazza avesse cambiato idea.
– E tu non hai cambiato idea? – dissi.
Giulia mi pizzicò sul petto, irritata; io scattai in piedi e l’afferrai per le
trecce, comprimendole la testa sulla paglia. Giulia mugolava per il dolore e,
nel buio, la sua bocca era una ferita bianca, anelante.
Ma adesso non veniva piú in cantina; a volte restava seduta sul caposcala
fino a quando non era mangiata completamente dall’ombra. Di lí, in ogni
modo, trovava sempre l’occasione per lanciarmi dei segni con la mano.
Se passava Pietro Laudato Giulia non si muoveva; con la testa sulle
ginocchia osservava le grandi gambe di mio padre, chiuse nella tuta sporca,
poi lo sentiva gridare in mezzo al pianto di Gino.
Pietro afferrava il figlio per un orecchio e quasi lo sollevava in aria,
mentre la palla seguitava a correre.
– Ihiiii! Ihiiii!
– Ti rompo la testa se ancora ti pesco sulla strada.
Potevo sentire le loro voci eccitate nel crepuscolo. Poi, mio padre entrava
dal sarto Valentino e Gino tornava su. Mio padre aveva il viso sempre tetro,
dopo che la milizia si era sfasciata e lui aveva perso il posto al Comando
legione di Larino. Era caposquadra e sperava congedarsi da maresciallo, per
avere una pensione piú forte. Invece era dovuto tornare sulla porca strada,
con i cantonieri e gli operai che erano i suoi vecchi compagni. La sera
tornava a casa rotto dalla stanchezza e con una gran voglia di dormire. Allora
si metteva in un canto e taceva. Mia madre gli andava vicino:
– Pietro, come va? – diceva.
– Va ancora, – diceva lui.
E restavano cosí: lui carezzando la testa nera, da passero, della moglie; lei
soffrendo adagio, senza parere, per la stanchezza del suo grosso uomo.
Ma adesso c’era disoccupazione e i compagni di mio padre stavano tutto il
giorno sdraiati sul muretto della chiesa, nel sole di settembre e nelle mosche.
Facevano sogni sui muretti, coi bambini nudi che gli saltavano intorno.
Cosí mio padre tornava tardi, la sera, per sapere in giro se c’era qualche
lavoro da fare. Gli operai si auguravano sempre che crollasse un tetto, o una
masseria, in campagna, o il terremoto venisse a spingere la frana sulla
camionale. Ma non accadeva mai nulla, e i loro sogni erano sempre gli stessi.
Mio padre, rincasando, saliva le scale lentamente, insieme a Michele che
aveva smesso dal sarto Valentino. Io li sentivo stando a letto. Essi, in cucina,
mangiavano la minestra in silenzio, poi parlavano un poco. L’argomento del
giorno erano i Tedeschi in fuga e gli Americani che bombardavano il porto di
Termoli. Poi, Michele, veniva a stendersi al mio fianco: odorava di carne
sudata.
Diceva:
– Senti, fatti piú in là.
Mi facevo vicino al muro; dal divisorio sentivo mio padre che si spogliava
spostando le sedie. Nel sonno, Gino, qualche volta strillava sentendo quei
rumori.
Io non parlavo mai volentieri con Michele. Michele era violento e
testardo. Né gli chiedevo come si sentisse dopo il lavoro. Tuttavia, a volte, mi
mettevo a parlargli senza accorgermene, per udirmi parlare, e sentivo sulla
mia pelle la sua carne ferma, che riposava.
L’ultima volta, però, gli chiesi:
– Sei stanco, Michele?
– Oh, senti! – lui rispose. – Mi prendi per scemo? Ho le spalle rotte e gli
occhi che non ne posso piú. Non mi chiamo Marco, io, per non lavorare.
– Non c’è lavoro, lo sai, – dissi tranquillamente, guardando i giornali del
soffitto.
– Ma quella te la lavori, mi pare.
Mi girai di scatto e gli misi una mano sulla faccia.
– Oh, piantala!
Michele non si mosse. Io tornai a stendermi e poi lo sentii, con la sua voce
soffiata in alto:
– Senti, – disse, prima piano, poi sempre piú furioso; – senti, viene
Pasquale Cionca e dice: «Bella, quella figliola, eh Michele? E che bravo
ragazzo Marco, eh Michele?»
– Io sto zitto e seguito a cucire a macchina, facendo rumore col pedale per
non sentirlo. Ma lui riprende: «E si sposeranno, eh Michele? Quel Cocangelo
ha fatto proprio un buco nell’acqua».
– Senti, io non parlo ancora, ma tutti quelli che stanno nella bottega
ridono, e poi attacca Rocco Mansueto. Dice: «Non sembra, ma c’è proprio
uscita una bella troietta, eh?» Io, allora, mi volto e gli sbatto in faccia il
vestito che cucio. Gli dico: «Tu sei un porco che va a letto con Giuseppina
Thomass e lascia i figli a crepare di fame!» Rocco non parla piú e si fa rosso
per la rabbia. Ma in quel momento Valentino si mette a strillare da dietro al
banco e dice: «Andate a farvi ammazzare tutti quanti. Che è diventata una
bettola, la bottega?» Io mi rimetto alla macchina, ma ormai ho i nervi per le
braccia e non combino piú niente. Sbaglio a cucire per i nervi che ho nelle
braccia e nelle gambe. Quando Valentino se ne accorge gira intorno al banco,
si pianta dietro le mie spalle e mi dice: «Senti, Michele, fatti una passeggiata
fino al mercato. Torna quando sei calmo». Io mi sento la rabbia dentro il
petto, ma esco lo stesso. Ed ecco che, fuori, vedo Giulia sul caposcala, come
un cane in mezzo alle mosche. Poi, mi fermo al distributore e tu stai dietro la
finestra. Oh, senti, io me ne fotto di voi e di tutti.
– Zitto, Michele, – dissi. – Penso che andrò via. Penso sempre che da qui
bisogna andar via.
– Oh, via! Tu starai qui fin quando campi. È una parola andar via.
Pietro Laudato gridò dal divisorio:
– È mezzanotte, state un po’ zitti? – Michele respirava leggermente; con
gli occhi piccoli, grigi, fissava i giornali del soffitto.
– Non arrabbiarti, Michele. Non serve, – dissi.
– Senti, romperei la faccia a tutti, io, e per te.
– Sí, Michele. Ma adesso dormiamo. Buona notte.
Fino a tardi restammo a guardare i giornali; i caratteri ingrandivano e
rimpiccolivano. Formavano una nuvola nera nel soffitto.
II.

Alla fine di settembre il sole divenne debole. C’erano giornate corte in


paese, con i cani e i muratori addormentati lungo i muri. La notte veniva dal
mare, cancellava vicoli e strade, addossava le case nell’ombra.
Ogni sera, all’ora del bagno, Gino piangeva. Ma adesso aveva smesso e
dormiva con la bocca semiaperta, la testa bionda appoggiata alla spalliera
della sedia e la palla sul grembo. Mamma terminava di lavargli i piedi,
mentre Pietro Laudato, seduto al grande tavolo della cucina, sotto la lampada
schermata, preparava una lettera per la ditta Javarone & C. di Campobasso.
La pregava di voler presto riprendere i lavori alla cava, in modo da occupare i
primi trenta braccianti disoccupati. Scriveva con una penna d’istrice, riportata
dall’Africa, ma ogni tanto cancellava nervosamente.
Sentivo lo sciacquio lento, piovigginoso, nel bacile, insieme al respiro di
Gino. Mio padre, quando smetteva, mi guardava la nuca. Sentivo i suoi occhi
piccoli, appuntiti, dietro la mia nuca; ma non mi voltavo. Aspettavo che
parlasse; con un brivido lungo nelle reni aspettavo di udire la sua voce
pesante, netta nel silenzio. Invece la penna riprendeva a grattare sul foglio e il
suo ronzio si confondeva al rumore grosso, rotolante dei camion che
passavano sulla strada.
Dopo un poco mamma andò in camera da letto per coricare Gino. Anche i
rumori dei camion, in quel momento, si spensero. La colonna era passata. Io,
tuttavia, rimanevo incollato agli scuri chiusi. I camion, di solito, passavano in
colonna di dieci o dodici, accompagnati dal frastuono dei vetri e dalle scosse
dei pavimenti delle case che minacciavano sempre di crollare. Dopo il loro
passaggio seguivano lunghi periodi di silenzio.
Infine mio padre strappò il foglio e gridò:
– Vuoi toglierti da quei vetri?
Aspettavo quelle parole con una specie di paura a fior di pelle, ma ora che
erano state dette, mi meravigliai di non provare alcun dolore.
– Maledizione ai figli che diventano bastardi, – egli disse. Con un calcio
spostò indietro la sedia e si alzò.
Allora mi staccai dalla finestra. Camminai per la stanza guardando la
chiave della cantina appesa al chiodo presso la porta. Era un tubo nero nella
luce. Ma quando gli fui davanti, mio padre mi afferrò per i risvolti della
giacca, mi scosse ripetutamente, nervosamente. Mi guardava diritto nelle
pupille coi suoi occhi scuri, senza bagliori. Poi mi spinse via; andai a cadere
su d’una sedia e stetti lí, senza muovermi. Guardavo sempre la chiave della
cantina.
Mio padre ancora gridò:
– Vorrei svegliarti io, sai? Ti farei passare la voglia delle puttane e la
malattia dei camion.
Le parole di mio padre rintronavano stranamente nella stanza. Egli era
violento, e Michele gli assomigliava. Andava su e giú, con le mani in tasca,
sbuffando come se il suo petto non potesse contenergli tutta la collera. Poi
disse ancora, ma quasi con amarezza:
– Ti ho fatto per primo, e per arrivare a questa bella conclusione: non sei
né baccalà, né stocco. Non sei niente. Niente! Fuorché un porco. Un porco
che ha incominciato coi preti. Ha incominciato col farmi spendere soldi e poi
essere cacciato.
Camminò ancora. Poi sentii la porta sbattere e, di là, mi giunse la sua voce
che gridava con mia madre. Allora mi alzai. Staccai la chiave e scesi le scale
adagio, senza far rumore. Ma adesso sentivo un male strano alle tempie,
come se avessi un cerchio di ferro.
Giú mi avvolse un odore di polvere bruciata, ferma all’altezza delle case.
Nella finestra di Giulia c’era buio. Rivolto alla finestra fischiai tre volte,
appiattato contro un portone. Poi la camera di Giulia si illuminò, quindi la
luce si spense. Attesi. In quel momento passò un’altra colonna di camion. Era
una piccola colonna che subito sparí nel buio. Speravo che ne passassero
ancora, per colmare quel vuoto e quel silenzio della strada; invece s’udí
l’uggiolare lungo di un cane chiuso in un portone.
Trascorse del tempo. Il pattuglione apparve sul vicolo dei fornai; il
brigadiere lanciò un sasso che rimbalzò sulle pietre lisce del vicolo. Le due
ombre che gli stavano a lato risero. Poi la ronda andò oltre, rasentando i muri.
Finalmente Giulia si disegnò sulla porta, nascosta dallo scialle. Si guardò
in giro per un attimo, poi attraversò di corsa la strada. Insieme scendemmo il
vicolo e, appena nella cantina, Giulia buttò via lo scialle e sospirò:
– Come ti è venuto in mente?
– Ssss! Non parlare.
Giulia mi si appese al collo.
– Chiudiamo del tutto?
– Sí, – disse Giulia.
Andai a mettere il paletto.
– Cosí va bene, – lei disse.
– Vuoi che accendiamo la lanterna?
Giulia mi baciò; faceva no con la testa.
– Non mi piace quando c’è luce, – disse.
– Hai vergogna?
– Oh, sí.
Uniti, sentimmo la paglia calda sotto i piedi e, poi, ritti contro il muro, le
sporgenze delle pietre nei fianchi.
– Sono tanto infelice, – lei mormorò sulla mia faccia.
– Ma quando sono con te cambia tutto.
Il muro era tutto irto di punte e lei non si ribellava al dolore. Stringeva i
denti, graffiava, ma le piaceva soffrire in quel modo. A volte però mi
spaventava, vedevo i suoi occhi farsi chiari, verdi e rossi come i riflessi del
vetro cotto. Allora gridavo:
– Giulia, che ti prende per fare in quel modo?
Lei seguitava a mugolare.
– Giulia, piantala! – gridavo ancora spaventato. Mi prendeva un po’ il
tremito, sbattevo le palpebre e sentivo sempre come lei mugolava e diceva le
sue strambe parole amorose. Allora non resistevo e mi facevo prendere dalla
violenza. La staccavo dal muro, la battevo selvaggiamente sul ventre e sulle
gambe.
Giulia smetteva di colpo.
– Oh, Marco! Marco che ti ho fatto? – la sentivo gridare.
Si metteva a mugolare. Non capiva perché la battessi e il suo pianto era
monco, perplesso. A lei sembrava naturale fare in quel modo. Perciò diceva:
– Marco, oh Marco! Perché…?
Io provavo solamente dolore e vergogna di me quando picchiavo Giulia.
Ricordavo le liti di quando eravamo ragazzi. Camminavamo nel freddo sotto
il suo scialle e io facevo il cieco e lei mi portava. Ma quando avvertivo sul
braccio le sue mammelle che spuntavano allora, mi sentivo rimescolare
dentro e gliele prendevo con rabbia e lei si metteva a gridare che le facevo
male. Avevo paura, allora, d’essere abbandonato bambino mentre lei
cresceva. E adesso, quando si metteva a fare in quel modo strano e ronzante
con la bocca mentre il corpo le si piegava tutto, io avevo ancora paura, la
stessa paura infantile mista a vergogna.
Giulia si accoccolava ai miei piedi, mi prendeva le mani, le baciava.
Chiedeva perdono di ogni cosa, purché non la battessi piú.
– Non mi ammazzare, Marco, – implorava. – Non mi ammazzare e io non
lo farò piú. Non lo farò piú!
Piangeva come un cucciolo. Vedendola in quel modo anche la mia furia
passava; allora mi sedevo accanto a lei, le prendevo le gambe magre e vi
appoggiavo su la testa. Mi sentivo improvvisamente stanco e senza gioia;
avevo voglia di cose nuove, delicate; e poi mi piaceva chiudere gli occhi fra
le mani di Giulia. Lei mi mordeva i capelli e la faccia quasi per vendicarsi. E
poi diceva, ancora con dei singhiozzi monchi:
– Marco, sei cattivo, sai?
– Non so, Giulia. Perdonami; io non so, divento pazzo.
– Oh, Marco, non dire cosí. Ti voglio tanto bene, io.
Anch’io le volevo bene, ma senza felicità. Giulia, dopo, era piú morbida e
calda. Si addormentava col suo pianto di cucciolo nella gola.

Sulla paglia, vicino al muro, restavano le impronte profonde delle mie


scarpe. Quando Giulia si staccò dal suo posto, tenendosi la schiena nelle
mani, andò a sedere sul truogolo del maiale. Nel buio era un’ombra nera, una
pallottola di carne nera raggomitolata su se stessa. Aveva ancora tutte le vesti
in disordine e non si curava di rimetterle a posto. Forse non ci pensava.
– Vieni vicino a me, Marco, – lei chiamò.
Andai a sedere vicino a lei, ma subito mi attirò fra le sue gambe, sul
pavimento, e mi adagiò la testa sul grembo. Sentivo il suo respiro lungo sulla
mia testa. Giulia aveva una mano leggera, scarna, e le sue carezze mi
invitavano a dimenticare tutte le cose.
In quel momento, sulla strada, ripresero a rotolare i camion. Era un rumore
massiccio, rugginoso; le bottiglie di conserva, allineate sulla mensoletta in
una parte del muro, si toccavano fra loro, creavano una musica nella stalla.
– Cos’hai, Marco? – chiese Giulia, di nuovo allarmata.
M’ero alzato sul busto; quel cerchio di ferro, alla testa, mi strinse forte,
lungamente, poi cessò. Quando Giulia mi attirò nuovamente giú credevo che i
camion passassero sul tetto alto della casa.
– Ascolta, – dissi.
– Sono i Tedeschi, – disse Giulia. – Sono molti. Sai dove vanno, Marco?
– Verso il mare. A Salerno sono sbarcati gli Americani, perciò i Tedeschi
si ritirano da questa parte. Fra poco la guerra sarà qui.
– Perché ti preoccupi? A noi proprio non c’importa niente della guerra.
Il rumore dei camion era diminuito, sfumava in lontananza. Giulia mi
frugava tra la camicia e il petto, tranquilla. Perciò ripeté:
– A noi proprio non c’importa niente della guerra.
Il rumore dei camion era cessato. A labbra strette Giulia attaccò una
cantilena. Si dondolava leggermente, cantando, e mi costringeva a seguirla in
quel suo moto ondulatorio. Io sentivo che la testa mi si svuotava.
Dopo un poco i camion, sulla casa, ripresero a correre piú rapidamente:
facevano un rumore di catene trascinate su d’una lamiera di ferro. E le
bottiglie di conserva ripresero il loro tic tic, tic tic, sulla mensola a muro.
Mi venne un’improvvisa voglia di piangere forte, con le mani sugli occhi.
Ma il pianto non veniva e solo gli occhi mi bruciavano. Mi sentivo male per
quel rumore continuo dei camion e per quella nenia che Giulia cantava. Era
triste, lunga; la cantavano sempre i carrettieri e le donne al raccolto delle
olive. In altre occasioni era bella. Ma adesso…
M’alzai di scatto e gridai:
– Piantala con questa canzone!
Giulia non cantò piú. Poi chiese:
– Perché non vuoi?
– Oh, smettila di seccarmi. Smettila!
Andai alla porta e tolsi il paletto. Allora Giulia mi corse dietro,
m’abbracciò alle spalle e disse:
– Non andartene, Marco. Stiamo ancora un poco assieme.
Giulia era tra me e il vicolo, nell’arco della porta e, in pieno, c’investiva la
luce della luna che scavalcava il mandorlo dell’orto. Giulia mi guardava coi
suoi occhi di gatto spaurito, e batteva un poco i denti.
– Tu vuoi andartene, Marco. Perché sei stufo di me e di tutto vuoi
andartene. Marco, Marco ascolta. Ascoltami un poco, Marco!
Il rumore dei camion, adesso, era vicinissimo. Mi pareva che la casa
dovesse crollare. Allora spinsi Giulia da parte; lei cadde in ginocchio, mi
afferrò per una gamba.
– Sei pazzo, Marco. Non andar via, ti prego. Ascolta, Marco…
Mi tirava giú per la gamba.
– Fallo per me, Marco. Sono tanto infelice…
Il rumore dei camion era di nuovo diminuito. Senza riflettere la presi per
la testa e picchiai giú, piú volte.
– Marco!!!
Aveva la gola piena, gorgogliante. Quando sentii il cranio battere sulle
pietre mi tirai su, invaso da un puerile terrore. Giulia era un pugno di panni
neri sotto il muro, nella luce della luna. Io guardavo il mandorlo nell’orto e la
luce della luna. Poi, sentendo il suo pianto fitto, mugolato, presi a fuggire per
i vicoli.
III.

Raggiunsi a salti la camionale, dopo aver aggirato il paese dalla parte


bassa. Lontano, appoggiati contro la saracinesca di un negozio, i carabinieri
del pattuglione aspettavano il cambio di mezzanotte. Scantonai ancora nei
vicoli, poi risalii sulla strada. Passarono tre camion. Il soldato che guidava
quello di coda si sporse dal finestrino e buttò sulla strada una cicca di sigaro,
quasi contro la mia persona.
Mi lasciavo il paese alle spalle. I tre camion sparvero dietro la fontana, nel
polverone nero. Mi prese il dolore al fianco. Correvo saltellando, con la mano
sullo stomaco. Poi rallentai e presi al passo. C’era della breccia grossa nelle
buche della camionale: lunghe strisce di breccia e polvere densa, che si
alzava sotto le scarpe e ricadeva. Ma appena girato la fontana vidi l’ombra
del camion fermo presso l’argine della strada, a una trentina di metri. Alle
ruote di dietro era accesa una pila, una specie di occhio luminoso. Riaccelerai
il passo, ma a mano a mano che mi avvicinavo tornavo lento, sempre piú
lento, appena trascinavo i piedi. Cercavo di ricacciare giú il fiato corto e
sentivo, sotto il cavo della mano, il battito forte, irregolare, del cuore.
Il soldato di prima, quello che buttò il sigaro sulla strada, era curvo presso
la macchina. Cambiava una gomma. L’altro reggeva la lampadina. Il soldato
di prima, avvertendo la mia presenza, mi lanciò un’occhiata distratta, poi
volse nuovamente la testa verso la gomma e non badò piú a me. Ora avvitava
i bulloni con un grosso ferro traforato. Aveva una testa grande, rapata, con
delle venuzze gonfie alla superficie. E lui stesso era grasso di corpo, stretto
nella divisa grigioazzurra, attillata. Il suo giacchettino lasciava vedere, alle
spalle presso le bretelle, la camicia kaki e una striscia delle mutande. Sulle
braccia aveva delle V. Forse un caporale. L’altro, invece, era un pezzo di
giovane alto, biondo sulle ciglia, con l’elmetto col sottogola e il pistolone sul
fianco.
Guardandomi da sotto l’elmo il soldato disse:
– Was ẅunschen Sie?
Non compresi e girai gli occhi verso le siepi, afferrato alle viscere da
un’improvvisa paura. Anche il caporale, allora, tornò a guardarmi. Poi s’alzò,
era tarchiato. Diede due calci alla gomma col tacco dello stivale, per provare
s’era ben gonfia, poi mi venne vicino. Mi arrivava al mento. L’altro mi drizzò
la lampadina sulla faccia.
– Italien, – disse il caporale.
Improvvisamente mi fece scendere le sue grosse mani sul corpo,
frugandomi nelle tasche della giacca e dei pantaloni. Capii che voleva
perquisirmi e alzai le mani.
– Ach nichts! – disse il caporale. – Voi dove andare.
Feci un segno vago, in direzione del mare che non si vedeva. Il caporale
annuí. Poi si rivolse al compagno e disse delle parole nella sua lingua. L’altro
rispose:
– Von mir aus…
Allora il caporale m’indicò il telone del camion e disse:
– Auf. Salire.
– Grazie, – dissi.
Il tedesco dimenò il testone. Disse:
– Ach nicht, Mensch!
I due tornarono in cabina e misero in moto. Appena il camion cominciò a
muoversi mi afferrai alla sponda e saltai dentro. C’erano casse di gallette,
qualche bidone di benzina e gli zaini dei due soldati. Faceva fresco.
Il camion correva senza fischiare troppo. Dallo spioncino vedevo la
piccola luce della cabina in mezzo ai congegni di comando. Essi parlavano.
Dalle parole intesi che il caporale si chiamava Hans, l’altro Karl. Hans, ogni
tanto, guardava dallo spioncino, ma io stavo sempre rigido al mio posto,
appoggiato al telone con la schiena curva. Davanti a me, verso il fondo, c’era
una barella larga, coperta con un telo da tenda. Alla sua estremità sbucavano
due paia di stivali, con le punte in su. Alle scosse del camion gli stivali
battevano fra loro, battevano continuamente, avevano torno torno alle suole
grumi di terra secca, bianca come calce.
Dopo alcuni chilometri, dalla cabina giunse il ronfo del soldato Karl,
mentre Hans incominciò a cantare. Diceva: «Am Brunnen vor dem Tore – Da
steht ein Lii–indenbaum …» Guardai dallo spioncino. Karl dormiva con
l’elmetto sugli occhi e Hans dimenava il testone, cantando. Mi riadagiai sulla
cassa, con gli occhi che mi bruciavano per la polvere. Il camion fischiava e
saltava nelle buche e gli stivali, giú in fondo, battevano sempre. Facevano:
toc, toc – toc, toc… Guardavo gli stivali come battevano.
Dopo qualche tempo Hans picchiò sul telone; la sua faccia, per un
secondo, saltò bianca nel quadrato dello spioncino. Poi infilò la mano, lasciò
cadere qualcosa. Mi chinai e raccolsi il sigaro. Ma Hans disse:
– Nicht die Leichen verbrennen!
Non capii. Poi accesi il sigaro, era dolce. Nel silenzio della notte c’erano
la strada bianca e il ronzare del camion, il ronfo del soldato Karl, la canzone
di Hans e il battere degli stivali. Era una musica quel toc–toc, come il battere
delle bottiglie nella cantina. Era una musica che mi chiudeva gli occhi. Mi
addormentai.
A una svolta picchiai la testa contro una cassa. Sentivo freddo. Per terra,
sotto i piedi, pestai forte sul mozzicone del sigaro. Mi sfregai gli occhi e
cercai di veder qualcosa nel polverone. Adesso si attraversava un paese, sentii
l’acqua d’una fontana nella vasca. Annusavo la polvere, ma gli occhi li
tenevo sempre fissi alla barella. Pensavo cosa ci poteva essere sotto. Quegli
stivali erano la continuazione di quattro gambe, pensavo. Di questo ne ero
sicuro. Poi mi passò un brivido nella schiena e dissi «no» a me stesso. Dissi
no piú volte, per negare a me stesso un pensiero certo, che mi spaventava.
Tuttavia mi alzai da sedere, come se fossi stato spinto da una molla
automatica. Cautamente strisciai fra le casse e i bidoni fino alla barella. Mi
inginocchiai, piano feci scorrere la mano sul telo, senza calcare troppo, poi la
feci scivolare sotto. La mano si irrigidí su di un volto freddo, dalla barba
ispida. Scostai il telo di colpo e il sudore, dalla mia fronte, piovve giú. I due
soldati morti erano legati l’uno all’altro con uno spago di luce elettrica.
Quello di sinistra aveva un occhio aperto, bianco, appannato come i vetri
delle finestre in autunno.
Riaccostai il telo e mi alzai. Curvo tornai al mio posto sulla cassetta,
presso lo spioncino della cabina, con una sensazione di spavento nella
schiena.
Passò molto tempo. Hans non cantava piú e la campagna schiariva.
Vedevo la strada uscire da sotto le ruote del camion e la luna, ora, calava
verso sud.
A un posto di blocco la macchina fermò. Sentii parlare in tedesco, poi
ombre nere girarono intorno al camion. Due uomini con l’elmetto e il
sottogola abbassarono la sponda e tirarono giú la barella. Poi vennero altri ad
aiutarli. Portarono via i morti e il camion ripartí con un balzo.
Con l’alba apparve il mare. Con un tuffo l’aria fresca del mare mi aprí il
petto. Da bambino avevo sognato sempre di vedere il mare, e pregavo di
crescere presto e partire soldato. E ora vedevo il mare grande, increspato, che
sbatteva a riva a tre metri dalla strada nazionale.
Il camion, adesso, correva piú liberamente sul litorale adriatico. Altre
macchine di Tedeschi si accodavano alla nostra, altre ancora ci sorpassavano.
In una città sul mare raggiungemmo i due camion della sera prima, e Hans
gridò con un compagno perché non l’avevano aspettato mentre cambiava la
gomma. Poi, Hans, corse alla fontanella appiccicata a un palazzo e vi cacciò
sotto la testa. Tornando mangiò della marmellata e del pane nero con Karl.
Quando ebbero finito Hans si stiracchiò, alzò i pugni nell’aria e mormorò
sbadigliando:
– Jetzt will ich doch ein wenig schlafen!
Si addormentò sul parafango della macchina.
A mezzogiorno il sole era alto, lungo. Prima di ripartire a bordo
montarono altri due uomini. Facevano chiasso ed erano vestiti male. Quello
col fazzoletto bianco sull’occhio disse allegramente, guardandomi:
– Mi sono mezzo accecato, stanotte. Un maledetto filo di ferro.
Io sorrisi.
– Senti, noi freghiamo un passaggio anche a questi rognosi, pur di
raggiungere casa, – continuò quello con la benda.
– Be’, per forza, – fece il compagno. – Da Salerno chi ce la faceva a
venire a piedi?
Continuai a sorridere, facendo sí con la testa. Annusavo il liquido acre, di
pianto, che mi sentivo per il naso. Potevo vedere quei due in un altro posto e
con altri panni. Ma sbattevo sempre le palpebre e sorridevo. Poi quello con la
benda, mi batté allegramente sul ginocchio e disse:
– Di’ la verità, anche tu sei scappato dal fronte, eh?
Allora mi voltai da una parte e, improvvisamente, scoppiai a piangere.
IV.

Karl era taciturno, sospettoso; col viso lungo, incavato sotto il labbro
inferiore, pareva una scultura ben modellata. Come per antica abitudine si
ravviava i capelli gialli sulla fronte con gesti or lenti ora rabbiosi.
Karl non amava la conversazione, era un tipo piuttosto meditativo e le sue
idee dovevano oziare intorno a problemi astratti. Di notte, con la testa fuori
dello sportello, egli inseguiva la parabola discendente di un bengala, che
appariva simile a un palloncino bizzarro lanciato in alto, molto in alto, come
avviene nelle feste campagnole. Ma, di solito, il cielo era una fioritura di
bengala. Allora, Hans, spingeva la macchina in un fosso, si tagliavano frasche
ai margini della strada e si copriva la cappotta: noi, lunghi distesi sotto il
camion, i pugni chiusi sulla faccia, sentivamo il fischiare degli spezzoni
nell’aria e il ronzio alto, tremante, dei bombardieri.
Ma il caporale era ciarliero. Aveva improvvisi scoppi di allegria e
altrettanto rapide malinconie. Egli dimenava il testone calvo quando cantava,
e le venuzze del suo cranio avevano colori verdognoli. La sera, fermata la
macchina presso una fattoria, fra mete di paglia marcia e pannocchie di
granoturco, restavamo per delle ore immobili, seduti sull’erba, contemplando
i barattoli vuoti della carne. Allora Hans andava a prendere il portafogli a
mantice nello zainetto e, tornando, mi sciorinava davanti agli occhi le
fotografie della famiglia. La moglie una bionda grassa, dagli occhi chiari, e le
figlie due pupattole di stoppa molto alte, con petto abbondante e prive di
fianchi.
Hans, fra loro e nel vestito civile, sembrava un birraio della vecchia
Berlino.
Dopo qualche giorno eravamo riusciti a intenderci io e Hans. A
conclusione di ogni nostro sforzo poi mi batteva il suo manone di scimmia
sulla spalla e diceva:
– Na, ausgezeichnet, Mensch!
I due italiani fuggiaschi se ne erano andati. Quello con la benda
sull’occhio mi lasciò una valigetta, se mai potesse servirmi per il viaggio,
disse. Ma non mi serviva. Tuttavia, ad averci qualcosa per le mani, mi
sembrava d’essere meno nudo.
Attraversavamo paesi e città senza fermarci; molte case erano crollate,
tagliate a metà come fette di prosciutto; avevano le persiane pendenti, buchi
enormi nella pancia e, le travi spezzate, nella sera, sembravano mani di morti.
In una casa a tre piani, senza piú il muro che guardava la strada, si vedeva
una tromba di scale stroncata; la spalliera di un letto ballava nel vuoto al
vento di scirocco, e un quadro della Madonna con il vetro rotto si reggeva su
di un pitale di maiolica molto grande, lucido come pulito di recente. Il
bombardamento era passato di notte su quella casa.
Per diversi giorni, davanti ai miei occhi non abituati, fuggivano e si
presentavano teorie di case distrutte e città come sepolcri. Piú si andava a
nord e piú la desolazione aumentava. Contadini e ragazze erano per i campi.
Guardavano i camion con i pneumatici che friggevano sull’asfalto.
I Tedeschi mi lasciarono a Padova. Gli avevo detto che andavo a Venezia,
mentre loro proseguivano per Bassano del Grappa. Ma prima di salutarci
andammo alla ricerca di una casa. In un vicolo sporco, con carta immondizia
e gatti fra lo sporco, trovammo la porticina ad arco, in marmo liscio, dov’era
la scritta: AVANTI .
La vecchia di guardia cuciva con un gatto sui piedi. Alzando gli occhi mi
scrutò lungamente. Poi disse:
– È riservato ai militari tedeschi.
Non protestai. Mi buttai a sedere su di una panca, all’ingresso, aspettando
che tornasse Hans.
La donna mi lanciava occhiate.
– Anche tu sei soldato?
– No, – dissi.
– Ti portano via? – chiese, alludendo ad Hans col quale mi aveva visto
prima.
– No, – dissi. – Quello è un amico di viaggio.
– Bell’amico, – la vecchia borbottò; in quel momento rispedí fuori un
militare italiano sopraggiunto.
Poi Hans tornò. Aveva la faccia infiammata e la vecchia, vedendolo, gli
fece una smorfia, come una risata. Hans divenne timido, salutò. La vecchia si
sollevò il gatto sul grembo e disse a me, cantando:
– Auguri, cocchetto.
Io dissi:
– Grazie.
Fuori prendemmo un cognac. Frizzava. In un bar vicino prendemmo un
altro cognac. Al camion ci salutammo. Karl mi tese la mano, Hans mi
abbracciò. Mi teneva per il busto e i suoi occhi di birraio mi guardavano il
naso. Mi infilò nelle tasche un pacchetto di trinciato dolce e dei sigari.
– Prendere, – disse. – Prendere, Mensch!
Gironzolai a caso per la città, perché il treno per Venezia partiva tardi.
Sant’Antonio di Padova. Sant’Antonio di Padova e Giotto. «A Padova c’è
Giotto e Sant’Antonio» diceva don Luciano ai pellegrini che volevano
partire. Sant’Antonio di Padova. Guardavo le insegne dei negozi e i semafori,
i fili del telefono e le donne. Sant’Antonio di Padova e Giotto. Le case erano
alte e strette, foglie d’insalata e cani erano sulla strada. Sant’Antonio di
Padova.
Mi venne fame. Frugandomi per le tasche vi rinvenni un gettone da due
lire. Sotto le dita il gettone era lucido. Toccavo i baffi di Vittorio Emanuele.
In un crocicchio con della gente buttai il gettone a una ragazza col canestro
sotto il braccio. Quella mi diede delle patate americane abbrustolite. Le patate
erano dolci e si spappolavano sotto il palato. Alla stazione visitai le latrine.
Un uomo col berretto nero in testa mi prese per un braccio e disse che dovevo
girare l’angolo. Una signora grassa, con una borsa nera sul ventre, entrò dove
io ero entrato. Richiuse la porta di colpo.
Quando arrivò il treno cacciai le patate nella valigia. La valigia faceva
unò, dué, nella mano. Pensavo ai balilla che facevano unò–dué sulla strada
della fontana. Cocangelo era capomanipolo e strillava unò–dué con la gola
rauca. I balilla ridevano. Gli avanguardisti portavano il fiocco dentro il collo
e il fucile appiccicato all’occhio. Unò–dué.
Riuscii a trovare un posto vicino al finestrino; deposi la valigia sotto il
sedile davanti e vi posai su i piedi. Poi la signora grassa della latrina, sempre
con la sua borsa di vernice nera sul ventre, mi chiese il posto per piacere sa
scusi tanto vicino al finestrino e io scambiai di nuovo la valigia. Era ancora
chiaro.
Quando venne il controllore finsi di dormire. Un uomo nero, secco, con la
lanterna cieca in mano. Le facce dei passeggeri diventavano verdi con quella
luce davanti; essi si chinavano da una parte, si frugavano addosso, poi
consegnavano un coso rettangolare all’uomo nero. Le loro facce, dopo,
tornavano bianche nel buio.
Quasi subito me lo sentii dietro le spalle. Mi batté sul gomito con un dito
enorme, come un lombrico. Poi parlò:
– Biglietto, signore!
Una sensazione di freddo mi prese alle viscere. Ma non mi mossi. Il dito
dell’uomo riprese il suo viaggio sulle mie spalle, saltellando e battendo:
– Signore, biglietto!
Potevo vedere la mia faccia verde, rossa presso le orecchie dove batteva la
luce rossa dell’altra facciata della lanterna, ma non mi mossi. Infine la
signora della latrina disse con voce dolce:
– Lo lasci stare, povero figliolo. Non vede che è un reduce?
Il controllore esitò, poi mi sentii la spalla leggera e la voce monotona
dell’uomo mi giunse da molto piú lontano, smorzata dall’aria che fischiava
tra le carrozze.
A Venezia i passeggeri imboccarono l’uscita consegnando i biglietti al
ferroviere. Era buio, adesso. Io me ne andai nella sala di terza classe, per
aspettare il giorno. Tutt’intorno, sulle panche, erano sdraiati uomini e donne e
bambini che aspettavano il treno del mattino. C’era freddo, lí dentro.
Mi accomodai in un angolo, aspettando di dormire. Una ragazza andava su
e giú per la sala con la borsetta rossa, scorticata, buttata sulle spalle.
Sorrideva tra i denti. Spesso usciva fuori, sotto la pensilina, e tornava. Le
donne che aspettavano il treno la guardavano con occhi infossati, severi. La
ragazza aveva gambe da cavallo. Poi la vidi attraverso i vetri della porta con
un ferroviere piccolo, fuori. Udii le loro risate. Poi non la vidi piú. Tornò
forse dopo mezz’ora, con la cipria sugli occhi e riprese la passeggiata
sbadigliando. Quando venne una guardia la ragazza cavò dalla borsetta il
permesso giallo e la guardia s’inchinò. Poi la dimenticai perché avevo sonno.
Al mattino scesi verso piazza San Marco. Guardavo in giro; la laguna non
mi piaceva, né il freddo che inseguiva la gente lungo i canali, né quei ponti
continui, né quell’odore di algamarina e sarde, che veniva dal basso. Poi
sorse il sole dietro le case nere dei vicoli, e quando giunsi in piazza San
Marco il sole era pieno e il mare luminoso. La gente si trovava tutta lí e la
basilica era coperta con una impalcatura. La gente entrava e usciva dalla
basilica. Gli ufficiali tedeschi camminavano rigidi e impettiti tra la gente,
battendo i tacchi degli stivali. Avevano placche di cuoio sulle chiappe, come i
cavallerizzi. Gli ufficiali tedeschi entravano in un grande albergo sulla riva
degli Schiavoni e si portavano dentro la loro ombra. Sulla porta due sentinelle
scattavano come molle e si rigiravano il moschetto fra le mani, in diversi
esercizi. Avevano in testa grossi elmi, ed erano rigide e serie come
marionette.
– Questo è il ponte dei Sospiri, – disse una ragazza al suo ragazzo. Il
ragazzo sorrise e guardò in alto, i Piombi, il cui tetto di lamiera brillava sotto
il sole.
Mi appoggiai al muretto del ponte guardando le sentinelle. Il sole mi
scaldava la nuca e io non pensai piú d’essere felice. Contemplavo le placche
di cuoio sul deretano degli ufficiali. Filippo Abrupto. Che nome brutto; glielo
dicevo sempre. Lui rideva col naso. Filippo Abrupto. Diceva che con la
guerra, be’, chi ti va a ricercare con la guerra? Diceva che l’avrebbe attirato
sotto il ponte facendogli capire che c’era la ragazza. Lí l’avrebbe fatto sul
colpo. Lui voleva i suoi pantaloni con il cuoio sulle chiappe.
Gli ufficiali entravano e uscivano. Infine sulla porta dell’albergo comparve
un soldato con l’elmetto in testa, e lui guardava dalla mia parte e sbirciava
ora me ora la valigetta che avevo in mano. Doveva essere il capoposto.
Dopo un poco la valigetta divenne pesante, cosí me l’adagiai ai piedi. Il
capoposto rientrò e tornò con un ufficiale in elmetto, e anche lui prese a
guardarmi. Doveva essere l’ufficiale di picchetto. Poi anche le sentinelle
presero a guardarmi e io non capivo perché mi guardassero. A un tratto mi
prese una irragionevole paura. Di scatto raccolsi la valigetta e mi staccai dal
ponte per andarmene, ma la paura mi crebbe allorché lo vidi lasciare la porta
e venire verso di me. Volevo correre, ma il soldato gridò: – Ehi, tu! Uno
momento.
Mi fermai sulle scale senza voltarmi. Sentii il fiato corto del tedesco dietro
le spalle, poi me lo vidi a lato, alto, con la placca nera del cinturone contro il
mio braccio. Che significa Gott Mit Uns? Guardavo la placca del cinturone.
Mi strappò di mano la valigetta, l’aprí di colpo, sulle scale rotolarono le
patate. Filippo Abrupto! Una strana confusa espressione allargò le rughe sul
volto del tedesco che non trovava, ora, le parole da dire. Guardava correre le
patate. Filippo Abrupto! Poi, di colpo, mi ricacciò in mano la valigetta e
brontolò: – Ich bedaure.
Fece dietro front sui tacchi, camminò nel sole fino alle sentinelle che,
adesso, guardavano altrove. Anche l’ufficiale di picchetto era sparito e, sulla
porta dell’albergo, era come se si fosse fatto subito un gran vuoto.
«Mi hanno preso per uno che porta le bombe», dissi fra me.
Raccolsi le patate, una per volta e le ricacciai nella valigetta. Poi corsi a
cercare la gente per nascondermi. Camminavo senza voltarmi indietro,
aprendomi il passaggio a colpi di spalla. lo farei sul colpo mi sentirei proprio
quel cuoio lo vedo anche la notte sul culo eh senti direi che c’è la donna
sotto il ponte e lo farei sul colpo lí nessuno lo saprà e i pantaloni mi
andranno. Quando arrivai ai rifugi ripresi a camminare piano, per calmare
anche l’affanno che mi era venuto. Filippo Abrupto! C’erano poche persone
ai rifugi. Bambini e vecchie signore sedevano sulle panchine di pietra, di
fronte al mare e al sole in quell’ora calda prima di mezzogiorno. Le vecchie
parlavano inutilmente ai bambini e spesso pronunciavano la parola amore. I
bambini non capivano, ma ridevano e sgambettavano.
Le vecchie mi guardarono un attimo appena comparvi nella loro aria e mi
osservarono. Poi, in loro, cadde anche l’interesse e tornarono a chiacchierare,
sporgendo in fuori un pezzo di lingua. La lingua se la passavano sulle labbra
sottili, tinte appena di rossetto.
Andai piú su verso la riva libera. I vaporetti attraccavano a San Zaccaria e
ripartivano. Il fischio dei vaporetti era come imbottigliato dentro una galleria,
ma i passeggeri e le persone sulle rive non vi facevano caso. Forse per
l’abitudine.
Oltre i rifugi c’era una scaletta di pietra che immetteva nell’acqua. Lo
scalino, nell’acqua, sembrava di vetro liquido. Ai pali si dondolavano le
gondole. Poi un paron con la maglietta a righe bianche, lungo e secco come
quei pali conficcati nell’acqua, mi chiese se dovevo attraversare. Gli sorrisi.
No, non dovevo attraversare. Andai piú su. Pestavo le gambe della mia
ombra. In un luogo in cui non c’era nessuno aprii la valigetta e scaricai le
patate in mare. Fecero: pluc, pluc! Adesso la valigetta era piú leggera. anche
tu sei scappato dal fronte eh vedi un maledetto filo di ferro tieni ti potrà
servire per il viaggio io mi chiamo… Me la rigirai tra le mani e strappai una
striscia di cartone. Faceva il rumore della pelle d’asino che si scortica. non
vale molto non vale niente anzi ma sai per il viaggio scusa non faccio per
liberarmene… La buttai giú. Fece: pluff! rimbalzando come una palla di
gomma. Scomparve dopo alcuni sballottamenti, aperta e piena d’acqua,
assorbita dalla corrente del canale. In quel momento suonò la sirena di
mezzogiorno.
Tornai indietro, le mani affondate nelle tasche. Non sapevo mai dove
mettere le mie lunghe mani. E non riuscivo a liberarmi della tristezza che mi
aveva preso fin dalla notte prima nella terza classe della stazione, fra la gente
in attesa del treno e la prostituta. Ora camminavo lentamente, a vuoto, e
pensavo che è una cosa buffa crescere.
Adesso le vecchie s’erano alzate, tenendo i bambini per mano. Se ne
andarono col loro passo adattato a quello dei bambini, sempre discorrendo
vuotamente, delle loro piccole cose. Mi buttai a sedere dove loro erano state
sedute, di fronte al mare. L’ombra mi sedeva sotto. Isole di case sorgevano in
mezzo alla laguna. In quell’ora nebbiosa e solare quelle case assumevano
l’aspetto di castelli di pan grattato.
V.

– Quella che si vede laggiú? – rispose l’uomo, guardandomi, – è l’isola


delle Zitelle.
– Sí? – feci. L’uomo mi sbirciò ancora e poi se ne andò, ballonzolando
sulle sue gambe storte.
Dall’isola delle Zitelle veniva avanti un banco di nebbia nera, che
succhiava via il mare che incontrava. Il sole era sparito da molto e l’aria era
fredda. Tuttavia non mi muovevo ancora dal mio posto sulla panchina. Avevo
fame e da piú d’una settimana non buttavo nello stomaco qualcosa di caldo.
Con i Tedeschi mangiavo ai loro barattoli di carne, insieme a burro e
marmellata. Loro erano abituati a quella roba, a me venivano i crampi. Anche
adesso sentivo piccoli crampi e un rumore di budella nello stomaco, ma i
crampi erano ancora tollerabili.
Non sapevo ancora dove sarei andato. La nebbia avanzava sempre sul
mare e presto sarebbe venuta la pioggia. Le gondole si erano ritirate ai pali
conficcati nell’acqua e i gondolieri stendevano le coperte incatramate. Solo i
fischi dei vaporetti bucavano la foschia. Quando passarono due giovani,
chiacchierando forte tra loro, decisi di alzarmi. I giovani andavano svelti, ma
presto adattai il mio passo al loro e non mi accorgevo della strada fatta. ed
ecco che fuori vedo Giulia sul caposcala come un cane in mezzo alle mosche
poi mi fermo al distributore e tu stai dietro la finestra senti io me ne fotto di
voi e di tutti… I passi nostri rintronavano sulle pietre scure delle fondamenta
e mi pareva di sentire l’acqua sotto.
In vista d’un casermone, ficcato in uno slargo in mezzo alle calli già buie,
i giovani si fermarono. Altri facevano ressa davanti alla porta e, a uno a uno,
entravano dentro. Anche noi ci fermammo sulla porta, a guardare. Poi, da
fuori, arrivarono altri uomini che mi spinsero dentro, perché iniziava a
piovere fitto.
Eravamo in una grande sala nuda, gialla; solo in due punti di essa c’erano
due tavoli ai quali sedevano due uomini che scrivevano. Sulla loro testa, in
alto, c’era un grande quadro del Duce con l’elmo e le labbra appuntite,
evidentemente rimesso lí da poco, perché era fissato con delle spille. Gli
uomini che riempivano la sala zitto Michele penso che andrò via penso
sempre che da qui andrò via odoravano di pioggia, formavano una lunga
coda nera che si chiudeva a forca davanti ai due uomini che scrivevano. Essi
prendevano i nomi, la paternità la maternità lo stato civile, e quelli che
avevano finito andavano a mettersi in un altro angolo della grande sala,
sollevando un chiacchierio minuto, folto.
Quando anch’io arrivai al tavolo sotto il ritratto del Duce, l’uomo che vi
sedeva dietro non sollevò la testa. Ripeté solo e monotonamente delle
domande che sapeva a memoria. Le mie risposte le segnava su di un foglio
lungo, lucido, con una grande intestazione. Quando gli dissi tutto, l’uomo
chiese se ero contento di arruolarmi. Io non risposi. Guardavo la nicotina
gialla che gl’imbrattava le dita che tenevano la penna. L’uomo ripeté la
domanda e io dissi no. Allora l’uomo alzò la testa grigia e mi guardò. Aveva
occhi di vetro azzurro, fermi nel viso. Disse lentamente:
– E perché sei venuto?
Gli guardavo i denti neri e le gengive pallide. zitto Michele… Dietro di me
qualcuno rise e l’uomo anche sorrise, senza che muovesse gli occhi. zitto
Michele… Infine, l’uomo dietro al tavolo, accese una sigaretta e mi consegnò
il foglio che aveva riempito.
– Con gli altri, cappella! – disse.
Mi guardò fino a quando non raggiunsi il gruppo in quell’angolo della
sala, dove un caporale ricciuto e basso tentava d’incolonnare le reclute.
VI.

Ci portarono in un’isola vicino all’idroscalo, dalla parte del Lido,


lasciandoci nei nostri panni civili.
Non avevano divise nuove. A me non importava niente della divisa. In
tutto potevamo essere una sessantina, ma quasi ogni giorno i vecchi, che
erano in divisa, operavano retate di giovani in città, nei caffè e nelle piazze,
perché la «Patria aveva bisogno di uomini».
Mi avevano messo in una centrale telefonica sotterranea e la notte
dormivo su di un’amaca, in un lungo camerone. Da lassú, la notte, guardavo
le pietre del pavimento che mi saltavano in faccia prima di addormentarmi. Io
non avevo problemi, ma quelli presi alle retate maledivano il loro destino. Li
rapavano e li chiamavano gagà. Essi non uscivano in franchigia; appena
raggiungevano il numero stabilito li imbarcavano su larghi motoscafi e di
loro non si sapeva piú niente.
Era venuto l’inverno. A Venezia la vita non aveva volto. Pioveva senza
violenza tra la nebbia dei tetti e quell’acqua non ingrossava i canali. Venezia
era una città nordica, persa nel mare, dove nessuno urlava, nessuno si
uccideva e le passioni, le liti, non scendevano in piazza. Anche la guerra non
si sentiva. «Il Gazzettino» riportava poche notizie e gli apparecchi passavano
alti, nella nebbia. Venezia non era nei loro obbiettivi. Ma una notte
bombardarono Mestre, ruppero l’acquedotto di Porto Marghera e i veneziani
restarono senz’acqua da bere. Fu allora che «Il Gazzettino» disse che il
morale dei veneziani rimaneva alto, come alto era il morale della superstite
popolazione di Mestre. L’articolo di fondo invitava tutti a rimanere calmi,
tranquilli. La guerra era la guerra.
Nella nostra isola vicino all’idroscalo stabilirono un servizio di
avvistamento. Notte e giorno gli aerofoni scrutavano il cielo. Era un cielo
buio, denso, dietro il quale la Guerra era un mostro solenne, fermo sul
mondo.
Dopo Natale ci radunarono una trentina e ci fecero andare al pontile di
legno sul quale la sentinella passeggiava col fucile in ispalla. Ci fecero
scendere nel motoscafo. Quando arrivava il motoscafo sapevamo la via che ci
facevano fare. Quelli che restavano ci gridarono coi berretti in mano:
– A noi, camerati!
– All’anima dei morti vostri, – brontolò un biondo in fondo alla barca.
Pensai che fosse uno dei tanti giovani rastrellati. Poi la barca si mosse
schizzando schiuma e ci scaricò a Mestre. Qui ci aspettava un camion con
rimorchio. Quando il camion partí il biondo scoppiò a piangere: si
nascondeva la faccia nelle mani e io vedevo come le sue spalle sussultavano.
Gli altri cantavano.
Verso sera cominciò il vento. Ci grattava sulle groppe. Apparivano
montagne con la neve e freddi paesi. Tutto il giorno si corse per le strade. Ci
portarono in un luogo tra Custoza e Villafranca, ancora nel Veneto, fra
Tedeschi d’una batteria. Filippo Abrupto! Ma qui non c’erano placche di
cuoio sui deretani. I Tedeschi apparvero sul limitare del campo dove il
camion s’era fermato, e ci fecero gesti con le mani. Quando saltammo a terra
e il camion ripartí, fra i Tedeschi si fece avanti un ufficiale italiano, alto e con
un labbro leporino, il quale ci venne incontro e ci disse nel freddo: – Ciao,
ragazzi!
VII.

Pioveva e nevicava. Si lavorava sotto la pioggia e sotto la neve. Eravamo


uomini neri. Il fango superava gli stivali. I piedi restavano incastrati nel
fango. Per prima cosa ci avevano dato gli stivali, poi una coperta e una
gavetta. La gavetta scottava nelle mani. C’era dentro brodo e patate. I crauti
non si mangiavano; li appiccicavamo sui buchi della baracca insieme al fango
e alla paglia, per non fare entrare il freddo.
I Tedeschi ci chiamavano badogliani. Badoglio era un traditore e, per tutti
i Tedeschi del mondo, gli Italiani sono razza di traditori. Ma il sergente Fritz
Lang era veramente cattivo. Il biondo s’irritava al solo vederlo, perciò voleva
fargli la festa. Se gli riusciva, poi, avrebbe pensato anche al tenente Mastino.
Ma il biondo aveva solo parole e lacrime, cosí che il tenente Mastino lo
derideva. Inarcava il suo labbro leporino e diceva:
– Tu sei una bella merda.
Un giorno gli diede una scudisciata e il biondo lo chiamò «figlio di
puttana». Ma subito cadde nel fosso del camminamento e si rialzò dopo
mezz’ora. Mastino lo frustò fino a quando non ce la fece piú. Disse tra la
bava:
– Nessuna madre è puttana!
Il biondo faceva sangue da qualche parte, però rispose:
– La tua sí.
Venne Fritz Lang e si portò via il biondo e Mastino.
Pioveva sempre e nevicava. Sulla batteria c’era un velo grigio e noi
eravamo uomini neri. I contadini delle cascine dicevano che eravamo poveri
uomini. Ci davano il latte di nascosto e qualche volta ci permettevano di
scaldarci ai loro fuochi. Nelle cascine c’era odore di formaggio e sterco.
Erano degli ottimi odori. E appesi al soffitto ceste piene di cipolle e meloni
d’inverno. Ma i contadini avevano paura dei Tedeschi e molte volte non ci
ospitavano. I Tedeschi avevano occupato i loro terreni per piantarvi cannoni,
e a nessun contadino piaceva questa cosa. Ora i campi erano diventati
melmosi e il fango superava gli stivali. Un giorno il sergente Cannizzo perse
gli stivali nel fango. Poi li ritrovò; dovette raschiarli tutta notte e batteva i
denti per il freddo.
La sera si abbatteva di schianto sulla batteria, ma la notte c’erano le stelle.
Nessuno aveva voglia di cantare o fare discorsi. Solo il sergente Cannizzo
parlava. Sembrava un disco. Lui parlava per tutti. I cannoni della batteria
piegavano il dorso col venire della sera e le loro bocche annusavano la terra
bagnata delle trincee. C’erano quattro cannoni e i Tedeschi volevano piú bene
a loro che agli uomini. Gli uomini sono traditori, i cannoni sputano fuoco
contro il nemico.
Il nemico veniva dal cielo, sembrava un nibbio, poi mitragliava. Tre
ragazzi di Venezia erano morti mitragliati. Il biondo pensava che anche lui
sarebbe morto. Perciò sempre diceva:
– Se debbo morire mitragliato è meglio che mi spari da me.
– Non morirai mitragliato se non piangi. Perché piangi come un fesso?
Non risolvi nulla piangendo.
– E che debbo fare? – lui diceva.
– Non c’è niente da fare. Se ti capita d’andare a Verona squagliatela. Io
me la squaglierò appena mi tocca il turno di andare al casino.
– È pericoloso, – disse il biondo.
– Vivere qui è piú pericoloso. Del resto fa come ti pare. Se non te la senti
di scappare non stare a rompere l’anima coi tuoi pianti, – dissi.
– Non ci posso far niente. Mi viene da solo.
– Senti, ti romperei il muso quando piangi.
Il biondo era una lagna. La sera si buttava sulla branda e non aveva voglia
di mangiare. La stanchezza era piú grande della voglia di mangiare. Poi
tremava di febbre, perché oltre alla stanchezza e alla sua disperazione, nelle
nostre baracche c’era sempre freddo.
Nelle loro baracche i Tedeschi avevano le stufe. Si mettevano in pigiama
e, sotto la luce a petrolio, leggevano il Mein Kampf o il «Simplicissimus»,
oppure si rammendavano le brache. C’era odore di crauti e di cuoio nelle
baracche tedesche, e c’era anche odore di rifugio per via di quelle lucerne e
quelle armi appese ai castelli di legno. Sulle mensole delle finestre tenevano
tutto l’occorrente per la barba, e molte volte al giorno mettevano l’acqua
negli elmetti, per lavarsi.
Il tenente Mastino ci stava bene con loro, e con loro parlava tedesco. Il
biondo lo chiamava Unno e diceva che tutti i Tedeschi della terra sono Unni,
e malediva Cesare che non li aveva massacrati quando era tempo.
– Hanno uno spirito infernale, – il biondo diceva. – Se mi affidano una
diecina di questi qui diventerò volentieri assassino. Dio, come si può
diventare cattivi! E io diventerei cattivissimo se avessi un fucile.
Non ci avevano dati i fucili perché non credevano nella nostra fedeltà. Ci
avrebbero dati i fucili dopo il giuramento. Ma ora di giuramento non si
parlava.
Nelle nostre baracche mangiavamo il pane nero e la carne in scatola, ma
nessuno mangiava volentieri. I piedi di ognuno penzolavano fuori del castello
di legno e si taceva. Solo Cannizzo non era mai stanco. Della stanchezza
fisica non gl’importava, e della stanchezza morale neanche gl’importava.
Aveva la mente chiusa per la lingua tedesca, non gli riusciva d’imparare una
parola. Ma i Tedeschi non gliene facevano un torto. Solo noi avevamo dei
torti se non imparavamo la loro lingua.
Veniva il Feldwebel Imstragt a insegnarci le parole della sua lingua. Chi
se ne fregava della sua lingua? Ma lo stesso dovevamo imparare le parole
della sua lingua. Era piccolo e grasso e aveva occhi porcini, il Feldwebel
Imstragt, e quando parlava rotava gli occhi su di noi. Noi non potevamo
soffrirlo e non potevamo imparare niente perché pestavamo i piedi come
cavalli e sentivamo freddo. Era come una marcia battere i piedi per terra, ma
il Feldwebel gridava:
– Ripetere con me: ein, zwei, drei, vier, fünf…
Il Feldwebel sembrava un pastore protestante, e forse era veramente un
pastore protestante. Aveva la voce e la faccia e una strana bontà negli occhi
da pastore protestante. Ma se qualcuno si distraeva e non lo ascoltava, il
Feldwebel lo faceva trottare nel fango dei camminamenti fino a spossarlo, e
quello allora si buttava a terra e non voleva alzarsi piú.
Il Feldwebel ogni mattina continuava nella sua scuola e ripeteva
pazientemente: Der Acker significa il campo; die Stadt, la città; der
Vormittag, la mattina; auf den Bauch, bocconi…
Io mi sentivo la testa pesante come un ubriaco e il biondo sembrava matto.
Solo Cannizzo non aveva niente di speciale e parlava sempre e inutilmente
nella baracca, anche quando si aveva necessità di dormire. A Cannizzo il
caporale Odini voleva rompergli la testa con lo stivale, ma non si decideva
ancora a farlo. A Custoza c’era sempre pronta una grata di ferro e un cielo a
scacchi per chi si ribellava. Però il biondo era veramente matto e malato.
Diceva:
– Io morirò, io morirò, io morirò…
Senza dubbio era matto e malato. Bisognava mandarlo all’ospedale. Ma
nessuno lo mandava all’ospedale e il medico della batteria diceva che lo
trovava molto bene, solo che doveva ingrassare un poco di piú. Il biondo gli
rideva in faccia, ma il medico non capiva e credeva che il ragazzo si
incoraggiasse. Il biondo seguitava a ripetere anche nel sonno, mentre
piangeva nel sonno: Wasser, significa acqua; Tripper, significa scolo; ich bin
dumm, io sono stupido… Il sergente Cannizzo si sollevava sulla branda con
lo stivale in mano, per colpirlo in testa e farlo smettere. Poi gridava come un
invasato, svegliando tutti: – Smettila, perdio, ci fai diventare pazzi!
Finalmente arrivò il mio turno di andare a Verona. Eravamo in tre e ci
accompagnava il caporale Otto. Otto Smiler era la copia esatta di Hans
l’autista. Otto Smiler faceva il servizio di procaccia, da Verona dov’era la
Feldpost al nostro campo tra Custoza e Villafranca. Ogni settimana faceva
quel servizio, con un camioncino della croce rossa, e accompagnava in città
quei soldati che avevano cose da fare. Otto Smiler ogni settimana si recava
dalla sua donnina napoletana che si trovava in una certa casa, e in camera
restava poco piú di un’ora. Poi tutti assieme si andava a bere in una bettola, in
attesa che rientrassero quei Tedeschi e quegli Italiani che avevano
commissioni in città. Io avevo sempre pensato che era una sciocchezza
scappare con Otto Smiler che accompagnava il gruppo. E, infatti, appena
giunti a Verona, dissi di avere un gran male agli occhi e che mi sarei recato
da un oculista. Il caporale mi accompagnò fino alla porta dell’oculista e disse
di ritrovarci alla bettola che sapevamo. Io dissi sí e Otto Smiler mi
raccomandò ancora di non mancare. Io ripetei Na gut e il caporale fu
contento. Finalmente se ne andò, lui e gli altri. Nemmeno gli altri compagni
sapevano che sarei scappato. Solo il biondo della batteria lo sapeva e, il
biondo, prima di partire, mi aveva stretto la mano lacrimando, augurandomi
di non tornare piú.
Scesi svelto per una stradetta che portava al mercato; gironzolai un poco
guardando nei negozi, ma quando non c’erano Tedeschi in vista chiedevo ai
civili la direzione da prendere per la strada di Milano. Nemmen io ero certo
che quella fuga riuscisse, perciò indugiavo troppo, mi fermavo troppo nei
capannelli di gente, aspettando con una specie di spasimo l’ora di rientrare.
Finalmente mi trovai tanto distante dal centro che mi tornò il coraggio. Presi
a correre sulla strada, senza avere nessuna idea precisa di ciò che avrei fatto.
La camionale aveva uno strato di polvere umida e qua e là c’erano grosse
buche. Le striature dei pneumatici avevano delle buffe piegature verso gli
argini con la nuova erba; poi riprendevano per la strada diritta. Adesso la città
si allontanava alle spalle.
Passò un grosso camion militare e l’autista mi lanciò un saluto col suo fez
nero.
– Ehi, camerata! Ferma, ferma camerata! – urlai.
Il camion si fermò trenta metri piú in là, e l’autista si affacciò dal
finestrino.
– Cosa vuoi, camerata?
E io, di rimando:
– Dove vai, camerata?
– A Milan, – disse il soldato. – E tu?
– Anch’io. Puoi offrirmi un passaggio?
– Va bene, monta su, – disse quello. – Tanto non c’è il tenente.
Il camion ripartí.
– Sei della Flak? – chiese.
– Sí, – dissi. – Ora vado in permesso. Ho certi conoscenti a Milano.
– Tu sei della bassa Italia, no?
– Eh, sí. Hai indovinato, – dissi. – Ma anche tu, se non sbaglio.
Doveva essere calabrese.
– A quale reparto appartieni?
– Brigate Nere. Bel corpo, eh?
– Eh, sicuro, – dissi, ma non sapevo in realtà cosa fossero le Brigate Nere.
Non ne avevo mai sentito parlare fino a quel momento. Poi saltai nella rete.
Dissi al soldato che avevo sonno e quello non si meravigliò. Prese a cantare
una canzone.
Qualche paese fuori Verona il camion si fermò di botto, in mezzo alla
strada. Io non mi mossi dal posto sulla rete. Due SS tedesche aprirono lo
sportello e guardarono dentro. Mi sentii un tuffo doloroso al cuore e mi
rannicchiai di piú. Allora disse un tedesco, indicando la rete:
– Das Bett, nessuno?
– Oh, mio camerata schlafen, – disse l’autista.
Il tedesco guardò ancora, poi disse:
– Gut, – e richiuse lo sportello.
Il camion ripartí. Ero madido del solito sudore freddo, poi il sudore
divenne caldo.
– Era un posto di blocco? – chiesi.
L’autista non rispose subito.
– Cercavano qualcuno, – disse poi, – forse qualche fuggiasco. Sai, gli
Italiani scappano dalle batterie tedesche perché non vi resistono.
– Ah, scappano! – brontolai e il sudore, ora, mi si era aggrumato sul corpo.
– Sai, il lavoro delle batterie è molto faticoso, – seguitò il soldato. – E poi
gli Italiani non riescono ad abituarsi alla disciplina tedesca, perciò scappano.
Il soldato girò un attimo la sua faccia ironica verso di me.
– Io capisco queste cose, – disse ancora, – perché sono scappato anch’io.
Ora non dovrei dire male dei Tedeschi perché sono nostri alleati, ma ti
assicuro che con loro non si fa la bella vita. Cosa ne pensi, camerata?
– Penso che hai ragione, – dissi.
– Naturalmente il piú bel corpo che possa consigliarti è quello delle
Brigate Nere. Si fa una bella vita con le Brigate Nere, e se ci sai fare possono
anche darti i gradi da ufficiale.
– E li danno facilmente i gradi da ufficiale?
– Non proprio facilmente; volevo dire che li danno anche senza
accademia. Ecco, se fai una coraggiosa azione contro i ribelli, e ne ammazzi
parecchi, sicuramente ti faranno ufficiale. Ma devi condurre una coraggiosa
azione. Non è un bel metodo?
Mi ridistesi nel lettino e sospirai:
– Può darsi.
Il soldato approvò con la testa e riprese a cantare.
VIII.

Saltai giú. Il soldato mi tese la mano dall’alto della cabina.


– In bocca al lupo, paisà, – disse con un sorriso. – E divertiti. A Milano ci
sono belle maschiette.
– Grazie del consiglio.
– Non c’è di che. Ciao.
– Ciao.
Il camion se ne andò. Milano era chiara in quell’ora tarda dopo
mezzogiorno. I giorni si allungavano. Provavo una sensazione di benessere a
star solo in mezzo a una via. Camminai per corso Buenos Aires, senza
guardare le vetrine. Ma quando vidi dei soldati che venivano su
bighellonando, la sensazione di benessere provata prima sparí di colpo. Mi
buttai nel vicolo vicino ed entrai nel bar. L’uomo dietro la macchina del caffè
era alto e asciutto. Teneva le mani conserte sul petto. Mi sorrise e fece segno
di avvicinarmi. Ricambiai il sorriso e mi avvicinai.
– Un cognac, – dissi battendo le dita sul banco.
– Subito il cognac, – disse l’uomo, seguitando a guardare. Mi versò il
cognac. Io bevvi d’un fiato.
– Un altro, per favore, – dissi.
– Pronto. Ma questo l’offro io, – disse il barista, sorridendo.
– Grazie. Posso pagare, – dissi.
Il barista riempí due bicchieri e me ne porse uno.
– Offro sempre per primo ai nuovi clienti, – disse. Mi scrutava col suo
cordiale sorriso. – Beviamo alla fine di questo schifo, – aggiunse.
– Che schifo?
– La guerra, no? È la guerra che è uno schifo.
Bevvi d’un fiato e l’uomo riempí ancora il bicchiere.
– Venite da molto lontano? – chiese.
– Non troppo, – dissi. – Ma sono appena arrivato a Milano.
L’uomo guardò oltre i vetri della porta. Sulla strada non c’era nessuno.
Disse con voce piú bassa, ma sempre confidenziale:
– Sentite. Se avete bisogno di panni borghesi posso darveli io.
Lo guardai al di sopra del bicchierino; i nostri occhi s’incontrarono; i suoi
erano acquosi. Mi chiesi subito: «Che s’è accorto che sono scappato?»
– Grazie, – dissi senza parere. – Per adesso non ne ho bisogno.
– Non sarete mica matto a girare con quella divisa, no?
– E perché dovrei essere matto? Sono un soldato regolare.
– Un soldato scappato, – disse il barista, ammiccando con gli occhi. – Via,
io conosco i miei uomini. Non avete né stellette né cinturone. Sentite, io
posso darvi i vestiti.
Stellette e cinturone? Già, al posto delle stellette i soldati della batteria
portavano i fascetti d’ottone. Io li avevo tolti. E il cinturone non l’avevamo.
Ma l’uomo sapeva lo stesso che ero scappato, forse perché portavo ancora gli
stivali pieni di fango.
– Mi date ancora da bere? – dissi.
– Certo.
Riempí anche il suo. Disse:
– Alla vostra salute.
– Grazie. A che prezzo? – chiesi.
– Niente prezzo, ragazzo. Voi date la divisa e io dò i vestiti.
– Va bene, – feci.
Nel bar c’era soltanto un uomo seduto a un tavolo. Dormiva con la testa
sulle braccia. Il barista chiamò una donna e la donna apparve dal retrobottega.
Era formosa e alta.
– Mia moglie, – disse l’uomo, cordialmente.
Il donnone sorrise e occupò il posto del marito dietro il banco.
– È un altro, Samuele? – chiese.
– Stava coi Tedeschi, – disse l’uomo.
La donna non cessò di sorridere.
– Avete fatto molto bene a scappare, – disse. – Dovrebbero tutti scappare,
cosí finirebbe prima la guerra.
– Non finirebbe lo stesso, – disse l’uomo. – Questa è una guerra eterna.
– Eterna no, – fece la donna. – Gli Americani vengono su ogni giorno.
L’uomo sputò per terra.
– Puah! – fece. – Non sanno combattere gli Americani.
Dalla strada veniva un soldato con un involto in mano. Si vedeva
nettamente dai vetri, dinoccolato e biondo. Il barista, appena lo scorse mi
spinse da una parte. Disse:
– Passiamo qua dietro. Ci curvammo sotto una porticina.
Era una stanzetta con un letto matrimoniale e alcuni fiori morti nei vasi.
L’uomo guardò bene gli stivali che calzavo e si abbassò a toccare il cuoio.
– Sono nuovi, – disse soddisfatto. – È da poco che state coi Tedeschi?
– Due mesi.
– Bene, allora spogliatevi presto.
Da un armadietto a muro cavò un vestito grigio, che poteva starmi bene a
occhio e croce. Me lo buttò. Mi buttò anche un paio di scarpe leggere.
– Non ho scarpe migliori, – disse. – Quelli capitati qui prima di voi
presero la roba migliore.
– Fa niente, – dissi.
L’uomo mi si avvicinò.
– Avete armi?
– Non ho armi.
– Peccato, potevo darvi un po’ di soldi.
– Mi dispiace, – dissi.
– Anche a me, – fece l’uomo. – E ora dove pensate di andare?
– Ho dei conoscenti, qui, – mentii. Mi faceva troppe domande.
– Bene, allora. Ma se mai aveste bisogno di me sapete dove trovarmi.
La donna, di là, chiamò:
– Samuele, c’è gente!
– Vengo.
L’uomo fece sparire la divisa nell’armadio a muro e si mise la chiave nella
tomaia della scarpa. Uscimmo. Il soldato che avevo visto attraverso i vetri
sedeva al tavolo con un fagotto sulle ginocchia, accanto a quello che
dormiva. Era un ragazzo pallido, dall’occhio intelligente. Appena mi vide gli
passò qualcosa negli occhi, come un lampo di malizia, ma non disse nulla. Si
alzò e venne al banco. Buttò il fagotto sul banco e disse all’uomo:
– Merce come l’altra volta e prezzo come l’altra volta.
Il barista lo squadrò un attimo, poi scosse la testa. Disse: – Noi non
compriamo roba. Questo è un bar.
– So bene che è un bar, – l’altro disse. – Ma prendete anche roba di
contrabbando.
– Vi sbagliate, – disse l’uomo, con la solita gentilezza. – Noi non facciamo
contrabbando.
Il milite si spazientí.
– Voi mi prendete per scemo, – disse. – Tre giorni fa ho portato una
coperta a due piazze. Voi me la compraste a trecento lire. Ora fingete di non
conoscermi?
– Non fingo, giovanotto, – disse l’uomo, calmo. – Dico solo che non
acquisto roba.
Il soldato guardò l’uomo, poi guardò il suo fagotto. Quasi aveva stizza
d’averci quel fagotto. Non parve convinto della storia del barista, tuttavia
disse come un trasognato:
– Allora mi sono sbagliato. Dev’esserci, da queste parti, un altro bar che
prende la roba.
– Certamente vi siete sbagliato, – l’uomo disse. – Posso offrirvi qualcosa,
giovanotto?
– No, niente, – rispose asciutto il milite. Riprese il suo fagotto e uscí.
La donna disse:
– Perché l’hai mandato via, Samuele Chonn?
– Non mi piace quello lí, signora Chonn. Potrebbe crearci delle grane.
– E credi che sia convinto d’essersi sbagliato, Samuele Chonn?
– No. Ma avrà capito che non voglio mettermi nei pasticci. Sapete, – disse
l’uomo rivolto a me, – qualche volta compro da ’sti ragazzi. Vendono la roba
per poco, la rubano nelle caserme. Ma potrebbero crearci delle grane.
– Già, si capisce, – dissi.
– Allora non posso fare piú niente per voi?
– No. Quanto pago?
– Niente, ho offerto io.
– Grazie, allora. Arrivederci.
– Arrivederci. E non dimenticatevi di me, giovanotto. Se mai aveste
bisogno di qualche…
Uscii sulla strada.
IX.

Ora faceva meno fresco. Non sapevo dove andare, per cui presi a girare a
caso. Davanti a una vetrina di calze contai i soldi che mi restavano. Era
ancora lo stipendio dei Tedeschi che non avevo potuto spendere.
Ottocentosessantacinque lire. Spendendoli con criterio potevo camparci
quindici giorni.
– Bene, alla faccia dei Tedeschi, – dissi felice.
Entrai da un barbiere. Barba, capelli e schampoo. Il barbiere era anziano,
gentile. Questi barbieri sono quasi dei gentiluomini e non assomigliano
affatto a quelli dei paesi. Mi diede da leggere il «Corriere della Sera» e
cominciò a sforbiciare.
Il giornale parlava del nostro strenuo coraggio in linea e delle incursioni
che subivano le città italiane. Diceva che il popolo italiano non si
demoralizza per le incursioni che, anzi, rafforzano il suo coraggio e la sua
volontà di vincere. Nettuno intanto era caduta e gli Alleati picchiavano forte
su Cassino. Ma Cassino non sarebbe caduta. E se anche Cassino fosse caduta,
l’armata del generale Clark non sarebbe mai entrata a Roma. Roma era
imprendibile. Oppure l’avrebbero dichiarata Città Aperta. Diamine, bisogna
avere un po’ di rispetto per le opere d’arte e per San Pietro! Ma gli Alleati ne
avevano già troppo di rispetto per San Pietro. Il Vaticano non faceva la loro
politica? E aveva riconosciuto, il Vaticano, la Repubblica Sociale? Il
Vaticano non l’aveva riconosciuta, quindi faceva la politica del nemico.
Allora bisogna dargli una lezione. Bene, se vinciamo, come è certo che
vinciamo, prenderemo Pio XII per la tonaca e lo porteremo a Campo de’
Fiori, sul rogo che fu di Giordano Bruno. Buttai il giornale sull’altra poltrona.
Il barbiere mi chiese se preferivo un po’ di colonia, oppure una frizione dopo
lo schampoo. Io dissi:
– Tutto quello che volete.
Poi uscii. Andai al Luna Park. Soldati portavano il fez nero in testa,
pugnali e mitra. Con quelle giacche senza colletto assomigliavano ai
paracadutisti della Folgore. Le ragazze facevano udire le loro risate squillanti
mentre andavano sulle montagne russe e sulle automobiline. I soldati del
vecchio esercito, con i gladi al posto delle stellette, e insaccati dentro divise
da magazzino, sembravano i parenti poveri in mezzo alla famiglia degli altri
soldati.
Andai al tiro a segno. Sparava un soldato biondo, bravissimo. Ogni volta
che il colpo andava bene una macchina scattava ed egli rimaneva fotografato
con tutti i soldati che gli stavano intorno. Io gli vedevo la nuca pallida e un
angolo della bocca che sorrideva alla ragazza rossa del baraccone. Poi mi feci
avanti a colpi di spalla per provare s’ero capace con quella carabina. Ma un
soldato grasso, che urlava e diceva: «Bravo, Keller!», ogni volta che il
ragazzo biondo faceva centro, disse sulle voci di tutti:
– Adesso basta, Keller, facciamo provare a lui.
Il ragazzo del tiro a segno si voltò e disse:
– Oh, guarda. Poi rise.
– Lo conosci quest’imboscato? – gridò il soldato grasso.
– Perbacco, – disse il ragazzo biondo. – Non è un imboscato, camerati.
Anche lui ce l’ha una divisa.
Il soldato grasso disse ridendo:
– E se l’è venduta, adesso, la divisa?
Keller rise e mi guardò. Disse:
– Via, lavativi.
Pagò e mi venne incontro tra la calca. Insieme uscimmo nel viale. Lui
sorrideva. Disse:
– Volevi sparare? Sono dei cretini, quelli. Credono che chiunque porti
abiti civili sia imboscato. Ma come hai fatto a capitare da quell’ebreo di
Samuele Chonn? Sei scappato dal fronte?
– Sono in licenza, – dissi.
– E sei parente di Samuele Chonn?
– Ma fammi il piacere! Chi lo conosce Samuele Chonn? Sono passato di là
a bere, poi mi ha prestato un vestito borghese. Vuoi che passi la licenza con
quella sporca divisa?
– Oh, bene, bene, – fece Keller. – Se vuoi saperlo a me non importa un
cavolo se sei in licenza o sei scappato.
Camminavamo per il viale. Keller salutò una ragazza e quella tirò fuori la
lingua.
– Chissà cosa avrai pensato di me quando mi hai visto con quel pacco, –
disse.
– Mah, non ho pensato niente, – dissi.
– Bell’affare! – lui fece. – Trecento lire una coperta a due piazze. Sono
tutti ladri fottuti, specialmente quell’ebreo. Ma perché non l’ha voluta mi
pare ancora un mistero.
– Doveva averci le sue ragioni, – dissi.
– Ragioni un cavolo! Se mi capita a tiro gli farò vedere le sue ragioni. Mi
ha preso per scemo. «Non compriamo roba. Questo è un bar.» Che porco! È
l’uomo piú porco che io abbia conosciuto. «Vi sbagliate. Noi non facciamo
contrabbando.» Capisci com’è insultante? È un lurido partigiano, quello. Ma
se mi capita a tiro…
Camminavamo lungo la fiera. Sul principio del viale una ronda italiana
fermò un soldato. Il soldato scattò sull’attenti.
– Si è fatto fregare senza fez, – disse Keller. – Senti, leviamoci di mezzo.
Io non posso digerire le pattuglie. Sono sempre dei piantagrane.
Scendemmo la scarpata. Prendemmo a camminare lungo i carrozzoni della
fiera. La ronda non si vide piú.
– Perché ti chiami Keller?
– Oh, non proprio Keller. Mi chiamo Kellermann. Sono oriundo tedesco,
ma in Germania non ci sono mai stato. E non desidero andarvi. Dicono che si
stia maluccio ora che c’è la guerra.
– Tu sei volontario nelle Brigate Nere?
– Certo. Ma mi faranno ufficiale.
I carrozzoni avevano le persiane verdi e le stanghe in giú. In un carrozzone
una donna cantava e su quello c’era scritto in grande CIRCO TOGNI. Era
venuto buio e la musica della fiera, in quel punto, giungeva appena. Ma si
vedevano le altalene e i carrelli frenetici delle montagne russe. Da lontano, gli
uomini nei carrelli, sembravano cartoni animati.
Voltandomi vidi la ronda di prima venire per la strada dei carrozzoni e i
tre soldati che la componevano camminavano lentamente. Sembrava che non
avessero fretta.
– Pare che ci pedini, – dissi a Kellermann. Kellermann si girò a guardare
ed ebbe un moto di fastidio.
– Buttiamoci nei vicoli, – disse. – Conosco un luogo dove la ronda non
entra mai. Hai fame, tu?
– Io sí. Tu non mangi in caserma?
– Ho il permesso di ventiquattro ore. Vedrai, sarai contento di questo
posto.
Ci internammo in una viuzza che, per un buon tratto, costeggiò il giardino
zoologico. Non avevo ancora fiducia di Kellermann. Tuttavia mi facevo
trascinare. Quando riprendemmo per una strada nuda, fra alte case nere,
Kellermann disse:
– Ci siamo.
A una trattoria sormontata da un giglio in ferro battuto, Kellermann spinse
la porta. Ci investí un tanfo di fumo e salsa. Sedemmo a un tavolo in
penombra, dietro a uno spigolo. Il cameriere venne presto; era un uomo in
marsina, confidenziale.
– Non c’è Eleonora, Peppino? – chiese Kellermann.
– Nossignore. Non è venuta ancora, dottore. Però c’è Rita, la Tripolina e
Dodò.
– La Tripolina, Peppino, – disse Kellermann. – Fa venire la Tripolina e
portaci un fiasco bianco e due asciutte. A me col burro come al solito, non
posso ancora mangiare rosso.
– Molto bene, dottore, – disse il cameriere, e s’inchinò.
Era un ambiente curioso. I tavoli erano nascosti dietro gli spigoli e la
grande sala sembrava fatta di vuoti e di sporgenze. Le voci che riempivano il
locale erano discrete, basse, ma non si vedeva chi parlava. Si udivano le risate
delle donne tra le pareti bianche, con degli stucchi da teatro.
Tornò il cameriere con gli spaghetti.
– È un vostro amico? – chiese indicandomi con un sorriso.
– Sí, è dei nostri; non pianta grane. E la Tripolina?
– Eccola che viene, – disse Peppino girandosi a guardare. – Naturalmente
appena vedo Eleonora ve la mando, dottore.
Se ne andò. La donna era alta e delicata e vestiva di scuro. Rise felice
vedendo Kellermann. Aveva un dente di metallo nel sorriso.
– Ciao, gioia, – fece Kellermann. – Ti ho portato un amico.
– Grazie, caro, – fece la donna. Mi guardò: – Ciao! – disse. – Hai una
sigaretta?
Le diedi la sigaretta.
– Oh, una tedesca. Sei tedesco anche tu?
– Senti, Trí, prenditi il bicchiere e bevi, – disse Kellermann. – Non è
tedesco il mio amico, e neanche io. Vorrei sapere cos’hai da dire sui
Tedeschi.
– Hai un buffo nome, tu, – disse la ragazza.
Alzammo i bicchieri e Keller fece il brindisi. Disse dei versi sconci, poi
toccammo i bicchieri e bevemmo. La ragazza se ne versò ancora, piú volte. Si
accostò di piú e io sentii il caldo della sua coscia contro il mio ginocchio. Le
versai ancora da bere.
Il cameriere portò una bistecca. La ragazza ne tagliò un buon pezzo e lo
inghiottí.
– Hai fame?
– Macché, – disse. Con la forchetta prese a pizzicare nel piatto
dell’insalata. Poi bevve ancora. Infine si buttò indietro sulla sedia e rise.
Guardava con occhi lucidi.
– Non sarai mica sbronza, no? – chiese Kellermann.
La donna appoggiò la testa sulla mia spalla e rise ancora fra i denti.
– Baciami, – disse.
La baciai.
– Ancora.
– Senti, è sbronza, – disse Keller. – Portatela via presto.
Mangiavo l’ultimo pezzo di formaggio.
– È sbronza, – ripeté Kellermann. – Prendila per la vita se non vuoi che ti
caschi.
– Non sparlare di me tu, dottore, – fece la donna a labbra socchiuse. – Ma
perché ti fai chiamare dottore? Sei proprio dottore, tu? Tu sei un ragazzo e
non un dottore.
Kellermann allungò il braccio sul tavolo.
– Metti le mani fra le gambe, dottore. E tirale fuori quando viene Eleonora
–. Poi, rivolta a me, la ragazza disse: – E tu perché mi guardi e non gli fai
mettere a posto le mani? Siete proprio come tanti ragazzini, voi uomini.
Diedi i soldi a Kellermann perché pagasse anche per me.
– Non preoccuparti, – egli disse. – Eleonora ha la stanza accanto alla
vostra. Io credo che verrà presto.
– Bene, allora. Ciao.
– Ciao, – fece Kellermann. Ci sorrise. Io non badai al suo sorriso. – Ciao.
E divertiti, – aggiunse. Si abbandonò tutto contro lo schienale e accavallò le
gambe.
Camminammo per lo strano laberinto degli spigoli e delle sporgenze. Alla
cassa la ragazza ritirò una chiave. Un caporale della guardia repubblicana, in
una nicchia, aveva il pugnale fra due donne.
– Quale di voi due? – andava dicendo. – Quale di voi due sarà la mia
Isotta?
Prendemmo per delle scale rischiarate da una luce pallida, azzurra, che
pioveva dall’alto. Davanti a una porta, sul pianerottolo del secondo piano, la
ragazza disse ansimando:
– È questa.
Dentro c’era aria calda che sapeva di cipria e lavabo. Pochi oggetti erano
sparsi sul comò e la toletta. Sul comò c’era la fotografia d’un sergente dalla
faccia di bambino. Poi altre fotografie della Tripolina infilate nella cornice
dello specchio.
– Spogliati presto, caro. Ho un sonno!
Presi a spogliarmi adagio, guardandola. Infine mi cacciai sotto le lenzuola
e battei un po’ i denti. Poi mi venne caldo.
Odorava di vino. Me ne andai all’estremità del letto. Nel buio sentivo il
gocciolare dell’acqua nel lavandino. Ombre nere si staccavano dal muro e mi
venivano in faccia, poi si allontanavano. sono tanto infelice Marco, ma tu
vuoi andartene ascolta Marco Marco… Ficcai la testa sotto il cuscino.
Marco sei cattivo sai ti voglio tanto bene io… Accesi la luce. La donna
russava con la bocca aperta, il viso stirato e grasso. Nella bolla di bava
all’angolo della bocca il dente d’ottone era bianco. Spensi di nuovo. gli ho
detto che non mi piace quel tipo oh ti piacerà con la posizione che ha può
darti una bella casa e una serva saresti Donna Giulia…
Venne un gran colpo alla porta. La ragazza balzò a sedere sul letto e gridò:
– Chi è?
– Polizia. Aprite!
La ragazza ebbe un tremito, cercò la peretta e accese la luce. Poi disse
angosciata:
– Oh, Dio! La polizia! E che vuole la polizia? Vai ad aprire tu, corri! Se no
sfondano la porta.
Quelli, fuori, battevano con i calci dei fucili.
– Fate presto! O vi buttiamo giú la porta, – disse uno di fuori.
Il tremito prese anche me. Cercai le brache, le infilai.
Infilai anche le scarpe, la camicia, mi diedi una pettinata.
– Ecco che veniamo, – disse la ragazza e, intanto, s’era tutta rannicchiata
nelle coperte. Andai ad aprire. La ronda del Luna Park era sulla soglia; i
soldati avevano i mitra puntati contro di me. Entrarono.
– Ma che volete, voi? – strillò la ragazza.
– Sta’ zitta tu, puttana! – disse il sergente. Poi a me:
– Tu sei quello che è scappato dai Tedeschi? Sí, sei tu, si vede. Il ragazzo
giú ha detto che eri alto e magro.
– Kellermann? – chiesi. – È stato Kellermann?
– Cerca di far poche chiacchiere e rivestiti presto, capito? – disse il
sergente con voce dura. – Lo sai cosa succede ai disertori?
– Ma fatemi il piacere! – allora dissi. – Non sono un disertore.
Il soldato di destra mi diede una botta sulla spalla.
– Non lo toccare, Cimmin, – disse il sergente. – Allora non sei un
disertore?
– Oh, che razza di balle…
Il soldato di destra mi diede un’altra botta.
– Cimmin, non lo toccare! – gridò il sergente. Poi aggiunse: – Sicché noi ti
raccontiamo delle balle, eh?
Poi gridò:
– Avanti, porco. Rivestiti alla svelta. Non se l’aspettava lui, eh? Non se
l’aspettava.
Tremavo per il nervosismo.
– Fifoso stupido, – disse il sergente vedendomi tremare. – E tu mosca,
bellezza! Potremmo portar dentro anche te.
– Ma che c’entro io?
– Facevi l’amore con un traditore della Patria, – disse il sergente pieno di
sdegno. – Ciò può essere sufficiente per spedirti a San Vittore.
– Oh, Dio! – fece la ragazza. – E che ne sapevo io che è un traditore,
quello? E chi l’ha mai visto ’sto tipo? Me l’ha presentato uno dei vostri, io
che c’entro?
– Lo sappiamo, lo sappiamo, – disse l’altro soldato, con sufficienza.
– Avanti, allora, – disse il sergente spingendomi verso la porta. – A donne
ci verrai un’altra volta… se ne avrai tempo.
I soldati si chiusero dietro la porta. Sul pianerottolo mi spinsero con i
mitra alle spalle. C’era uno strano silenzio. Forse le donne delle altre camere
stavano ascoltando. In quel momento, dal fondo delle scale saliva
Kellermann con un donnone biondo. Appena ci raggiunse mi guardò
ironicamente, con quella sua scintilla nell’occhio.
Mi venne una voglia pazza di prendermelo nelle mani. Ma un soldato mi
trattenne per la giacca.
– Sta’ fermo, – disse il sergente, e Cimmin mi diede la solita botta alle
reni. Poi il sergente disse a Kellermann:
– Grazie, camerata. È un bel colpo.
– Lo credo, – rispose quello. – Ho fatto solo il mio dovere.
Scendemmo ancora. Udii Eleonora chiedere al ragazzo:
– Chi è quel tipo?
– Un disertore. Ho dovuto faticare per farlo acchiappare.
– Poverino! – fece la donna.
I soldati cercarono un’altra porticina per uscire, senza passare per il
ristorante. Poi udii gridare dal pianerottolo, in alto:
– Perché hai scelto proprio me per ’st’affare sporco?
– Non fare la cattiva, cara, – fece una voce di uomo.
– Noi facciamo la guerra e in qualche modo anche voi do…
– Sei un vigliacco, dottore dei miei stivali, – gridò la donna, e richiuse la
porta con rabbia.
Noi uscimmo nell’aria fredda della notte.
X.

Tutte le notti mi tormentava il prurito. Mi grattavo nel sonno. Sta a vedere


che ho preso la scabbia, mi dicevo. Ma il sesto giorno mi accorsi di avere i
pidocchi. I pidocchi della prigione sono grassi, hanno una crocetta rossa sul
dorso, e camminano familiarmente sulla tua persona. Tutti gli altri avevano i
pidocchi, ma c’erano abituati. Poi m’abituai anch’io e non ci pensai piú.
Ma la sporcizia cresceva e non m’era possibile dormire, né m’era possibile
far delle chiacchiere con i compagni di prigione. Due di essi erano vestiti da
civili e si supponeva fossero renitenti di leva. Gli altri tre erano militi messi
dentro per mancanze di caserma. I militi mi chiamavano «sporco partigiano».
Io dicevo loro «sporchi farabutti». Avvenivano scazzottate nella prigione.
Allo scadere del mese vennero a prendermi e mi condussero all’Ufficio
politico. Avevo terrore dell’Ufficio politico per via di un tenentino che
interrogava con la pistola in pugno. Era alto e sbiadito come una gruccia per
vestiti e urlava con una vocetta fessa da prenderlo a calci.
Negli interrogatori precedenti mi chiese perché ero scappato dai Tedeschi.
Gli dissi che non ero mai stato coi Tedeschi. Mi diede il primo schiaffo, tra
guancia e collo. Perciò pensai: «È un porco». Poi ricominciò:

perché sei scappato dai Tedeschi


non sono mai stato coi Tedeschi
hanno trovato la tua divisa e i tuoi stivali
ci sono molte divise e molti stivali in giro

Mi diede un’altra sberla.

Kellermann ti ha visto in divisa nel bar dell’ebreo


si inventa delle storie quello
non m’invento delle storie
Kellermann era seduto sulla punta della sedia.

anche l’ebreo ha confessato


e dov’è ora l’ebreo
a San Vittore hanno portato l’ebreo, lui e la moglie
mi dispiace per l’ebreo era un brav’uomo
era un traditore e favoriva i partigiani
io non so se favoriva i partigiani
tu lo conoscevi prima
mai conosciuto prima
allora perché sei scappato dai Tedeschi
oh perché non… perché non li potevo soffrire
anch’io non li posso soffrire ma sono nostri alleati
abbiamo sbagliato alleato
non sei tu a doverlo dire hai sbagliato e andrai in tribunale
non mi fucileranno in tribunale
se fai il fesso ti fucileranno
sono uno che ha sbagliato da principio ma non potranno fucilarmi
in tempo di guerra tutto è possibile
io non m’interesso alla guerra

Si alzò l’aiutante e disse:

è un povero ragazzo tenente non vive nel nostro mondo dovrà pur viverci
Cristo
è scappato di casa cercando chissà cosa fuori

Il tenente depose la pistola sul tavolo, la canna verso il muro. E l’aiutante


riprese:

però non è un partigiano e si vede bene tenente


bene maresciallo, ma questi sono suoi affari privati e a me non interessano un
cavolo ora è disertore e dovrà pagare come disertore
bene tenente non parlo piú se continuate a pensarla cosí
Passeggiò per la stanza. Poi, alla segretaria:

signorina avete messo tutto a verbale


sí tenente
bene fatelo riportare in cella per oggi basta

Adesso il tenente gruccia-per-vestiti era quasi allegro. Mi disse anche


buon giorno. Ma non vedendo l’aiutante mi ripresero le palpitazioni.
– Dovrai andare a San Vittore, – disse subito. Prese a passeggiare.
– Ma io non sono un delinquente.
– Sei un delinquente a tuo modo. Ma c’è ancora un rimedio. Dipende da
come la prendi.
– Che cosa?
– Puoi arruolarti con noi e buona notte, la tua pratica si archivia. Ma se
commetti una piccola fesseria andrai al muro quant’è vero che c’è Dio.
Allora mi venne un groppo alla gola e le parole non mi venivano per dire
sí o no. Tuttavia il tenente capí che dicevo sí e, in quel momento, anche lui
dovette convincersi che ero solo un povero ragazzo.
– Ora starai con gli Italiani e non piú coi Tedeschi. Cerca quindi di
comportarti da vero italiano, – disse il tenente.
– Va bene, farò il vero italiano, – dissi.
– Non basta farlo, ma devi esserlo, – egli rettificò. Chiamò l’usciere orbo e
mi fece accompagnare in magazzino dal sergente Sala, perché mi vestisse con
gli abiti del vero italiano.
Mi vestirono come Kellermann e mi diedero bombe e fucile. Ma
Kellermann non apparteneva a quella caserma e io lo cercai invano per giorni
e giorni. Mi sentivo infelice per non poterlo rivedere. Avrei fatto volentieri
due chiacchiere con lui. Tuttavia m’era vietato metter piede fuori caserma,
perché ero sempre sorvegliato speciale. Qualche volta pensai alla fuga. Nella
piazza d’armi giravo intorno alle mura che davano sulla strada traversa a via
Vincenzo Monti. Sul muro c’erano cocci di bottiglia; bisognava scalarlo e
saltare dall’altra parte. Ma fra i rottami delle macchine e le stalle dei muli
giravano sempre sentinelle armate. Tuttavia, una notte che corremmo sul
luogo del bombardamento a rimuovere le vittime, nella confusione tentai di
squagliarmela. Sentii la voce dura del sergente Sala alle spalle:
– Se ti muovi ti sparo!
Lo guardai e vidi che diceva sul serio.
– Non volevo andarmene, – dissi.
– A me non la fai, ragazzo. Ti conviene essere ragionevole.
Il sergente Sala era il mio angelo nero.
Un giorno mi chiamarono e mi fecero montare su di un camion, insieme
ad altri soldati. Dicevano che si andava al fronte. Riempirono tre camion di
uomini e quelli che restarono a guardarci si misero a piangere perché anche
loro volevano venire al fronte. all’anima dei morti vostri… Mi pareva di
risentire la voce del biondo quando lasciammo Venezia. all’anima dei morti
vostri… Tutte le partenze sono uguali e si ripetono. C’è gente che piange e
dice «a noi, camerati». all’anima dei morti vostri… I camion partirono e
presto lasciammo Milano. Faceva freddo. I ragazzi presero a cantare per
riscaldarsi. Passando per i paesi i ragazzi sventolavano i fez, ma la gente
guardava senza rispondere. Spesso mi domandavo perché la gente ci
guardasse senza rispondere, ma non riuscivo a tirar fuori delle conclusioni.
Poi mi venne un pensiero: e se la gente ci odia? Era un pensiero breve,
preciso, al quale non seppi rispondere subito.
Verso sera il mio compagno di sinistra si sparò. Gli cadde il parabellum
dalle mani e la scarica gli tagliò mezza testa. Tutti si guardarono in faccia,
sbiancati dalla paura. Non cantarono piú e un silenzio nero scese nel cuore di
ognuno. Il morto lo portarono via in una coperta.
Riprendemmo la strada. Dopo molti chilometri, nel buio, un soldato chiese
al tenente: – Signor tenente, dove ci portano?
– Non si sa, – rispose il tenente dalla cabina.
– Questa non è la via del fronte, – disse ancora quello.
– Difatti non è la via del fronte, – disse il tenente.
– E dove ci portano?
– Non sei tenuto a saperlo, – disse ancora l’ufficiale, breve. Il soldato non
parlò piú.
Il freddo ci aveva cacciato gli uni addosso agli altri. Il vento fischiava sul
telone del camion e s’infilava tra le fessure delle sponde. Adesso salivamo
verso le montagne.
– Autista, procedi a fari spenti, – disse il tenente.
I fari si spensero. Poco dopo si spensero anche i fari delle macchine che
seguivano. In cielo s’erano accesi diversi bengala. C’era sempre silenzio e i
fiati uscivano dai passamontagna. A ogni scossa del camion i nostri elmetti si
urtavano, emettevano un suono di campana fessa. Qualcuno fumava, ma in
mezzo a noi c’era sempre l’ombra del compagno ucciso.
Ora il camion s’inerpicava su d’una montagna. A guardar fuori c’era neve
sul cocuzzolo.
– Signor tenente, dove ci portano? – chiese un’altra voce.
Dalla cabina l’ufficiale rispose:
– A morire ammazzati.
Poi l’autista bestemmiò e il camion scese d’un lato, vicino alla cunetta.
– È scoppiata una gomma, – disse l’autista. I camion che seguivano si
fermarono dietro e i soldati presero a scrutare il buio.
– Aprite bene gli occhi, – disse il tenente. Da queste parti ci sono i
partigiani.
– Se si fanno vivi li facciamo fuori, – disse uno.
– O ci fanno fuori, – rispose un altro.
– Non ci fanno fuori, – disse il primo, convinto. – Sono fifosi.
– Silenzio, Cristo! – gridò il tenente.
Il camion ripartí dopo mezz’ora. Accendeva e spegneva i fari. Un rumore
lontanissimo, come un ronzio, veniva dal cielo. Gli aeroplani andavano a
bombardare un’altra città.
Adesso avevamo preso per un rettilineo e ci lasciavamo dietro le
montagne. Dopo alcuni chilometri sulla strada asfaltata entrammo in una
città. La città non aveva luci e sembrava una città d’uomini morti. Il camion
girò parecchio prima di trovare la strada giusta, poi entrò nell’androne di una
caserma, seguito dagli altri camion.
– Dove siamo? – domandò qualcuno.
– Vercelli, – rispose la guardia che passeggiava nell’androne.
Ci guidarono in alcune camerate squallide. C’erano pochi soldati. Ci
dissero di sceglierci i posti per dormire e di arrangiarci. Un soldato che
sembrava un cadavere era disteso nella parte bassa del castello che avevo
scelto. Poi si alzò e infilò la giacca. Sulle mostrine aveva delle «M» rosse.
– Qui che fate in cosí pochi? – gli chiesi.
– Noi siamo il plotone comando, tutti mezzi scassati, – rispose quello. –
Le compagnie sono in Val Sesia, ai rastrellamenti.
– E noi perché ci hanno portati qui?
Il soldato sbadigliò.
– Voi siete i rinforzi, – disse. – Qui muore molta gente.
– Ci avevano detto che andavamo al fronte.
– Questo fronte è peggio dell’altro, – disse il soldato.
Si staccò dal castello e prese a camminare zoppicando, appoggiato a una
stampella.
– Di’, e uno che non sa sparare? – domandai.
Quello mi guardò con una faccia ironica. Disse:
– Tu sei nuovo, eh? Ma non aver paura, imparerai presto, con le sagome
umane.
– Le sagome umane?
– Le sagome umane, – ripeté il soldato. – Vive chi fa prima a sparare, qui.
È questione di destrezza. Vedi me come mi hanno ridotto? Sarò zoppo e
tubercoloso per sempre.
– Perché non te ne torni a casa?
– Sei ingenuo, tu. Si può servire la Patria anche da zoppi, come Enrico
Toti.
– Era diverso per Enrico Toti. Combatteva contro gli Austriaci, – dissi.
– È uguale, – disse il soldato zoppo. – I nostri Austriaci, oggi, sono i
partigiani, razza maledetta.
Volevo chiedergli qualcosa sui partigiani, ma il soldato zoppo prese a
girare per le camerate, per salutare i nuovi arrivati. Dopo tornò alla branda e
si distese adagio.
– Sei ferito fresco?
– Mi hanno impallinato tre mesi fa, dovevamo prendere Moscatelli.
– È un… partigiano, Moscatelli?
– Il capo di questi dannati. Una canaglia di bassotto che ha fatto le scuole
in Russia. Ma presto imparerai tutto, appena scendi in Val Sesia.
Nelle camerate il tramestio seguitò fino a tardi. Addormentandomi caddi
in un tunnel nero. Avevo paura di proseguire solo nel budello senza
estremità. Ma non accadeva nulla, nonostante avvertissi intorno a me un
correre furioso di nanerottoli che volevano afferrarmi per i piedi. Poi ci fu un
gran squarcio bianco e, al principio del tunnel, là dove si restringeva a
imbuto, una luce calcinosa sospinse avanti il soldato zoppo, che camminava a
testa bassa ripiegato su se stesso.
Mi svegliai pieno di sudore e guardai giú. Il soldato zoppo dormiva con la
bocca aperta e la testa appoggiata al suo zainetto pieno di bombe.
PARTE SECONDA
XI.

Di guardia o di pattuglia, la notte, cercavo inutilmente le stelle. Non


c’erano stelle in Val Sesia, solo neve, freddo e imboscate. Bisognava
camminare come i gatti, rasentando i muri, e ogni tanto era necessario
appiattarsi contro le porte chiuse, scorgendo una lontana ombra che si
avvicinava. Il sergente Elia imbracciava il mitra tra i guanti; tremava dal
freddo o di paura, non era possibile saperlo. Poi gridava il chi va là: gli
rispondeva il riso stridulo di qualche bestia che scantonava nei vicoli. Altre
volte nessuno rispondeva al sergente, perché non c’era nessuno nelle contrade
e costui, poi, seguitava a gridare senza piú intenzione, per rompere la
monotonia del luogo e sentire la propria voce gonfiarsi, morire sui tetti e nel
buio. Egli diceva con astio, guardando lontano:
– Monti bianchi, campagna nera; ribelli bianchi, paesi neri… È tutta una
porcheria maledetta questa gazzarra che non va per finire. Qual è il tuo
pensiero, Marco?
Dicevo di non aver pensieri. Il sergente allora sorrideva stranamente,
toccandosi la barba. Diceva:
– È bello far la guerra come la fai tu, da smemorato. Elia diceva cosí, ma
non conosceva la mia paura.
La paura mi prendeva quando mi trovavo solo in mezzo alla notte
sconosciuta; mi stringeva con un nodo alla gola e il cuore mi batteva
precipitosamente. Temevo che gli altri potessero sentire i battiti forti del mio
cuore e potessero vedere la mia paura. Io non capivo ancora perché mi
avessero mandato là, e perché dovessi combattere contro ombre inafferrabili.
Su di noi c’era un comando categorico: COMBATTERE e bastava cosí. Era male
chiedersi le ragioni; in guerra ci sono mille ragioni, ma non era compito
nostro discuterle. E cosí, ma sempre inutilmente, mi dicevo di averci coraggio
quanto gli altri e piú degli altri. Ma i tremiti a fior di pelle, paurosi, non me li
levava nessuno, nemmeno i bei discorsi che molto spesso veniva a farci il
colonnello. Egli diceva: «Ragazzi, unguibus et rostro, per la piú grande
Italia». E io mi dicevo che era ben grande la differenza che correva tra le frasi
e la realtà. Mi domandavo se anche i ribelli combattessero con le frasi e
prendessero il coraggio in prestito dalle frasi.
Le pelle d’oca mi venne la prima volta che sparai contro i fantasmi bianchi
che si nascondevano tra i crinali della montagna. Il capitano Mattei gridava:
– Sono i RIBELLI ! Dobbiamo dare una lezione ai ribelli.
Partivano scariche a non finire, alla disperata, senza obiettivo. E quelli
apparivano e sparivano e si burlavano di noi. Alla fine mi disse Elia:
– Ragazzo, oggi hai ricevuto il battesimo del fuoco.
Era andata liscia fino al posto in cui i camion ci scaricarono. Io ero
fuciliere e il sergente Elia comandava la squadra. Ottobrini, quel romano
grosso come un Ercole, lo chiamavano il principe della Breda. Ma
incontrammo presto i partigiani; li avevamo sorpresi nelle loro baite perché
Katia ci aveva portato informazioni precise. Ci portava sempre informazioni
precise Katia, e spesso mi chiedevo come fanno le spie a essere cosí furbe e a
sapere sempre ogni cosa importante.
Poi cominciammo a sparare alla cieca. I ribelli, che erano usciti dalle
baite, facevano capriole e rimanevano stecchiti per sempre; altri scappavano
dietro i ripari e lí noi li prendevamo coi mortai; quelli rimanevano con la testa
ficcata dentro la terra. La paura, allora, m’arricciò tutto il corpo e la mia pelle
cominciò a puzzare. Le fucilate mi sfioravano la testa e le braccia. Elia rideva
a scatti, collerico e, ridendo, gli tremava la barba dove gli colava la bava.
– Avanti, Laudato! Leva quella testa dalla terra. A noi, quelli là, non ci
fregheranno mai. Perché hanno paura, Marco Laudato, e hanno perso
l’equilibrio.
Ma i ribelli ci pizzicavano, e come! Era morto Marra, fuciliere dietro di
me, con un colpo di cecchino. Il cecchino imitava il miagolio del gatto, e
quando il miagolio era passato, qualcuno era rimasto a baciare la terra. Ed era
morto Ortona. Ma Ortona era morto per fare l’eroe. Lui diceva sempre di
volersi riportare a casa una medaglia. Era un ragazzo olivastro e molto forte;
vinceva tutti i piú forti uomini della legione a braccio di ferro. Lo vidi
scattare ventre a terra col mitra in avanti. Prese a inseguire a fucilate una
donna coi capelli tagliati come un maschio, che usciva dalla baita in fiamme.
Lei correva davanti e Ortona dietro. La donna ruzzolò due volte sulla breve
spianata, ferita, ma sempre si rialzava e riprendeva a correre. Infine si
appoggiò comodamente alla seconda baita, col corpo rattrappito, e cominciò a
sparare contro Ortona che le correva sempre incontro, come se andasse in
ritardo al suo appuntamento d’amore.
La donna sparava con tranquillità e Ortona saltabeccò varie volte
lanciando muggiti. Tuttavia si trascinò ancora, barcollando e accecato dal
sangue. E quando fu a tre passi da lei trovò la forza di spararle a bruciapelo
un altro colpo. Noi vedemmo in aria schizzare la faccia della ragazza, in aria
pezzi di carne come spezzoni rossi. Poi lo decorarono, Ortona, alla memoria.
Ma lui la medaglia voleva portarsela a casa. Quel giorno mi pareva d’essere
in paradiso e le musiche le cantavano la Breda e la «T. 43» tedesca. A
ripensarci, se mi avessero preso con un fagiolo nella pancia, scommetto che
non avrei sofferto, perché la battaglia riscalda la testa e l’uomo non pensa
piú, non soffre piú ed è come se volasse su d’una giostra.
Ma dopo che tutto fu passato cominciai a soffrire. Cominciai a soffrire
quando il capitano Mattei ordinò di far fuori i sette partigiani che s’erano
arresi. Con loro c’era anche un negro dalla voce dolce. Davanti ai fucili il
negro sbarrò due occhi bianchissimi che volevano saltargli sul petto. E
seguitava a dire parole incomprensibili, piene di terrore. Lo bucarono tutto,
senza che schizzasse una goccia di sangue. I buchi sul suo corpo erano rose
pallide, ed era inspiegabile come non avesse fatto sangue.
– Hanno l’acqua nelle vene, – disse allora il capitano Mattei, girando e
rigirando il morto con lo stivale.
– Ora però dobbiamo scavare le fosse, – dissi guardando i morti, ma
parlando tra me, seguendo un mio pensiero.
– E perché le fosse? – fece il capitano Mattei.
Mi eccitai a quella voce, perché avevo parlato senza accorgermene.
– Abbiamo fatto il pasto alle bestie, – seguitò il capitano Mattei. – Le
bestie ci ringrazieranno. Ché, a te non garba il mio modo di ragionare?
Allora insistetti:
– Almeno dobbiamo scavargli le fosse. Staranno meglio dentro le fosse.
Il capitano Mattei mi osservò seriamente, poi arricciò le labbra in segno di
profondo, convinto disprezzo e, dandomi una pacca in testa, disse:
– Sei un ingenuo. Quand’è che imparerai a essere un buon soldato?
Ci riportammo i fucilieri Marra e Ottona sulle spalle e, scendendo,
eravamo contenti e cantavamo le nostre canzoni di guerra. Io non conoscevo
ancora bene quelle canzoni, né mi andava di cantare. Era il sergente Elia che
mi stuzzicava, dicendo:
– Proprio non ti va di cantare?
Cosí gli risposi finalmente:
– È obbligatorio cantare quando uno non ce la fa e gli viene il vomito?
Elia allora mi osservò meglio e poi disse, lentamente:
– Forse hai ragione, i morti disgustano sempre.
Ogni giorno si saliva in montagna e a sera si scendeva.
Quando i soldati cacciavano bene erano sempre allegri e cantavano; erano
tristi quando non prendevano nemmeno un dannato ribelle o un fiore di
cioccolata per assistere al secondo esperimento dell’uomo che non versa una
goccia di sangue. Tornavamo alle caserme con i musi lunghi e non sapevamo
come sfogarci. Adesso nemmeno piú con le donne potevamo tentare di
sfogarci, dopo il fatto successo al caporale Gustavi.
E andò cosí che il caporale Gustavi ci rimise la pelle. Egli faceva la corte a
una ragazza del paese, una bruttina occhiverdi che sbirciava i nostri pugnali
dal basso, a labbra strette. Da lei Gustavi andava per la biancheria; saliva la
rampa d’un vicolo e poi si trovava in una specie di stalla larga, nera, dalla
volta come una grotta. Lí viveva Tiziana, con la sua mamma vecchia ch’era
una figura taciturna e ferma, sempre seduta vicino al focolare, con gli occhi
alla caldaia della polenta. Una sera il caporale condusse Tiziana nel fienile di
sotto e le saltò addosso. Ma Tiziana estrasse il coltello che aveva nascosto
sotto la camicetta e, con quello, gli vibrò un colpo netto sul membro. Il
caporale prese a urlare con le mani fra le cosce; corse cosí in caserma. Ma
non resistendo al dolore si sparò davanti alla cucina. Tiziana venne arrestata e
disse che odiava tutti i fascisti perché le avevano ammazzato il fratello.
Allora il capitano Mattei disse come uno sciocco:
– E se noi uccidiamo il tuo odio?
La ragazza gli aprí in faccia una bocca piena di riso insultante, e il
capitano s’inviperí. La fece fucilare nel giardino dei preti.
Cosí, adesso, i soldati si arrangiavano con le mani come potevano. E
diceva Gennari:
– Bisognerebbe arrivare fino a Katia e sfogarsi bene una volta per sempre.
Sarebbe una cosa meravigliosa.
– Te non ti prenderebbe di sicuro perché hai le gambe storte e mi pari un
ragno, – gli diceva Bruno, l’attendente del tenente Mazzoni.
– Allora prenderebbe te, – rispondeva il piccolo soldato. Intavolavano una
discussione su questa cosa, perché effettivamente era una discussione
importante, e tutti almeno si rifacevano l’anima con le parole sporche.
Ricordavano i tempi della loro vita civile e di quando avevano le loro donne
nei paesi e nelle città.
XII.

Ora il freddo era sceso e con esso anche la tregua in Val Sesia. Si
aspettava la primavera, ma la tregua puzzava d’insidia. La notte, di pattuglia,
s’udiva qualche rara fucilata sparata a caso dai nostri.
Il sergente Elia bestemmiava contro la porca guerra.
– Sono stato in Africa e ho visto la paura a Bir-el-Gobi, – diceva con una
certa stizza. – Ma una schifezza di guerra come questa non l’ho vista mai.
Elia era un giovane dal pelo di corvo, un meridionale angoloso e ruvido
che da civile faceva il mercante di olio. Sotto le armi aveva letto a caso dei
libri e si era preso un’infarinata di roba classica che rimestava sempre nel
cervello. Ma dopo tante esperienze pareva diventato cattivo e miserabile
come gli altri. Tuttavia, a forza di stare insieme, eravamo diventati amici e ci
confidavamo molte cose.
Per tre mesi, da quando eravamo giunti come rinforzi alla legione, i ribelli
s’erano divertiti notte e giorno a pizzicare sempre qualcuno. Poi ci
abituammo e anche i morti non li contammo piú. Essi erano registrati solo nei
comandi e nelle furerie. I loro posti venivano rimpiazzati da altri giovani che
venivano dalla città, senza che sapessero nulla della guerra e della guerriglia.
E anche per questi c’erano serbate le medaglie, perché decoravano al valore
chiunque moriva, anche se si facevano accoppare da poveri esaltati. Ma i
morti casuali c’erano senza che la legione s’impegnasse a fondo in una
azione, perché i ribelli ci sparavano dalle fratte e dai borri, alle spalle, senza
che noi riuscissimo a vedere i loro visi. I ribelli erano irraggiungibili. Si
dileguavano sui versanti delle montagne e nei pozzi che solo loro
conoscevano, senza lasciar perdite, e forse ridendo del nostro ottuso coraggio.
Avevamo facce paonazze e i fucili ci tremavano nelle mani; a volte
qualcuno di noi cadeva, colpito al petto proprio mentr’era occupato a
ricaricare l’otturatore, e il fucile gli sbatteva sulla fronte già fredda.
– Noi siamo nati per fare questa guerra, – diceva il sergente Elia, – e per
morire in questa guerra.
– Da fessi, – io rispondevo.
– Ragazzo, tu non sai quel che dici, – egli esclamava. E aggiungeva: –
Cosa credi che conti la nostra vita, domani, da grassi borghesi? Nulla conta,
Marco. Essa ha un valore oggi che la Patria ce la chiede.
– Ma qual è la nostra Patria, sergente? – io gli chiedevo.
Elia si toccava la barba pensierosissimo, poi sbottava:
– Ma… a questo punto siamo con l’istruzione? Eppure sei stato in
collegio, tu.
– Credo di essere molto asino, sergente.
– Quanti anni hai, Marco?
– Diciannove, sergente. Sono partito di casa che ne avevo diciotto. E sono
molto asino.
– Ne dimostri di piú. Ma non sembra che tu sia tanto asino.
Si tirava su i pantaloni che minacciavano sempre di cadergli, data la sua
spaventosa magrezza, e poi si fregava le mani su e giú sul di dietro:
– Di’ la verità, Marco. A te non piace questa sporca cosa.
– Che cosa?
– La nostra guerra. Non ti piace?
– Uh, uh.
– Allora sei solo un ragazzo. Ma bisogna che ti piaccia, tanto ci sei dentro.
– E non se ne potrebbe uscire?
– Per farti ammazzare da noi stessi?
Elia voleva portarmi sulla sua strada. Era invasato di patriottismo, ma
davanti ai morti che ogni giorno avevamo egli stesso restava muto.
Prima che scendesse la tregua ci venne l’ordine di stanare i ribelli a
qualunque costo e pulire le montagne. Dovevamo fare questo per l’onore
della divisa che indossavamo, perché era la divisa dei battaglioni «M» che si
erano distinti in tante battaglie – cosí ci disse in un suo discorso il colonnello.
E noi cominciammo a perlustrare le montagne, i borri, le scarpate, i nidi
d’aquila. Ma i ribelli ci crescevano davanti come termiti, e le ossa rotte, a
casa, eravamo sempre noi a riportarle. Invano speravamo in un incontro a
faccia a faccia; il nemico era sempre invisibile, e le fucilate ci coglievano alle
spalle e di fianco e non si sapeva mai da dove venivano. Ciò ci rendeva
furiosi e l’odio, dentro, ci cresceva in modo opprimente. Noi eravamo
sopraffatti e rattristati dall’odio.
I ribelli lasciavano fuochi spenti e barattoli di carne semivuoti ai posti di
bivacco, senza mostrarsi mai. Attaccavano solo quando eran ben certi di
essere di numero superiore; allora ci facevano fuori con facilità. Noi avevamo
la consegna di non mollare e morire sull’arma. E molti morivano sull’arma, e
solo quand’eravamo decimati e stanchi gli ufficiali dicevano di ritirarci.
Ci riportavamo sempre i morti sulle spalle. Chi aveva voglia di cantare
diceva la nostra preghiera. Attaccava: «Signore che accendi ogni fiamma e
riscaldi ogni cuore, rinnova l’amor mio per l’Italia…» Presto anche gli altri
cominciavano a cantare con le voci cavernose e, solo allora, io credo, si
rivolgeva il pensiero a Dio e alla nostra morte, e cadeva anche la baldanza di
uccidere, e si pensava alle nostre famiglie che non avremmo riviste mai piú.
Una sera trovammo un ferito sulla strada del ritorno. I soldati scendevano
dalle montagne con la rabbia che gli mangiava il fegato. In quelle condizioni
di abbattimento avrebbero desiderato incendiare villaggi e ammazzare anche
gente innocente, per la soddisfazione di veder spisciolare il sangue degli altri,
dato che noi, ogni giorno pagavamo la somma del nostro sangue. Il sangue
dei nostri correva sempre, ed erano ragazzi dai sedici ai vent’anni che la
Patria mandava a morire.
Trovarci un ribelle tra le zampe ci fece mugolare di gioia. Egli era vestito
con roba inglese, ed era giovane. Ma aveva la barba di piú giorni e una
grande disperazione sugli occhi. Si nascondeva in un cespuglio perché non
poteva camminare con una gamba lacerata. Appena ci vide implorò il colpo
alla nuca.
– Il colpo alla nuca? – grugní il capitano Mattei. Avrebbe voluto strozzarlo
con le sue mani. Il ferito, allora, incominciò a lamentarsi. I lamenti
accendevano il sangue negli uomini. Gli uomini smaniavano e volevano
finirlo coi pugnali. Volevano un pezzo per ciascuno del ferito. Allora il
capitano Mattei chiamò Pavan, la sua ordinanza con una mano mozza, e gli
disse queste parole:
– Desidero che te lo lavori per benino.
– È affar mio, capitano, – disse Pavan.
Al primo colpo di pistola il ferito si mosse come un rettile, portandosi la
mano al fianco. Era il primo buco.
– Figli di puttane! – gridò il ferito. – Disgraziati figli di puttane!
Pavan gli sparava colpi isolati ai piedi, alle mani, alle cosce e il ferito
urlava sempre il suo insulto.
– Grida viva il Duce! – gli disse il capitano Mattei.
– Figli di puttane! – rispose il ferito, piú forte. – Disgraziati figli di
puttane!
I soldati si erano messi intorno all’uomo che faceva sangue da tutte le
parti, e mugolavano come animali a ogni colpo. Ma dopo un poco il capitano
cominciò a stancarsi degli insulti del ferito.
– Chiudigli la bocca, boccia! – gridò all’attendente.
Ma Pavan disse:
– Cristo, capitano! Ancora un momento, vi pare?
I soldati tutt’intorno gridarono:
– Sotto, Pavan!
– Figli di puttane! – disse il ferito ancora piú forte, rauco.
– Finiscilo, boccia, – il capitano gridò per la seconda volta, furioso.
– Figli dii…putt…tà-ne… – brontolò ancora il ferito, bucato come un
colabrodo. Allora il capitano saltò addosso all’ordinanza e gli strappò la
pistola dalle mani. Prese il ferito per la testa e i piedi e lo rotolò da una balza,
ancora vivo. Restò un attimo sull’orlo del precipizio, a guardare. Poi sospirò:
– Era duro, quel dannato.
– Non voleva proprio crepare, eh capitano? – fece Pavan.
I soldati, allora, lo guardarono con angoscia, perché ora avevano paura di
Pavan.
Mi venne il voltastomaco. In caserma Elia mi guardò in faccia; dovevo
essere stravolto.
– Che ti piglia? – disse.
Scossi la testa, senza guardarlo, ma Elia capí e s’irritò. Disse: – Lo capisci,
imbecille, che se queste canaglie prendono uno di noi ne fanno una pizza?
– Si contenteranno d’ammazzarlo, – dissi. – Non si trova un’altra iena
come Pavan.
– Illuso, – fece Elia. Poi, forte: – Secondo te esistono le morti semplici, le
morti comode? Qui si muore a pezzi, caro mio.
Scuotevo il capo.
– Senti, prendono te, – disse Elia. – Si capisce, faccio per dire. Ebbene,
t’impacchettano come un salame. Ti portano con loro. Intorno al fuoco, al
posto di bivacco, ti inchiodano a un palo come Cristo e incominciano le
operazioni. Diciamole con ordine: a) ti tagliano la lingua – fanno cosí per non
farti urlare; b) ti cavano un occhio…
– Oh, piantala! – gridai. – Se non la pianti…
– Se non la pianto? – fece Elia.
Sentii il mento sotto la barba, quasi debole, quando lo colpii. Il sergente
Elia sbarrò gli occhi smisuratamente, ma non reagí. Disse:
– Non dovevi farlo, Marco.
– Ebbene l’ho fatto, – dissi. – Scusami.
– Non dovevi farlo, Marco, – Elia ripeté. – Proprio non dovevi farlo.
Andò a stendersi sulla branda, toccandosi il mento. Io smontai il fucile,
estrassi l’otturatore, feci saltare sulla coperta i sei pezzi dell’otturatore e poi
infilai lo straccetto legato all’asticciola nella canna. Infine rimontai e misi da
parte il fucile. Elia mi guardava sempre coi suoi occhi bianchi, un po’ tristi.
XIII.

Ora che i partigiani non si facevano piú vedere, gli uomini della
compagnia avevano perso la baldanza. Tutti i giorni cantavano canzoni a
mamma e si facevano prendere dalle malinconie. Scrivevano lunghissime
lettere alle madrine di guerra, poi piangevano segretamente quando non
ricevevano posta. Io non ricevevo posta da nessuno, e nemmeno il sergente
Elia riceveva posta da nessuno. Tuttavia quando arrivava Bruno, l’ordinanza
del tenente Mazzoni, che faceva servizio anche da postino, andavamo a
mischiarci in mezzo agli altri, in piazza d’armi, come se anche noi
aspettassimo posta. Alla fine ci pareva di restare con la bocca amara; poi ci
guardavamo in faccia sconcertati:
– ’mbè? – faceva Elia. – Cos’hai da guardare?
Bruno consegnava sempre per ultimo la lettera a Pasquini; era una lettera
azzurra, che arrivava puntualmente ogni due giorni. Pasquini se ne stava
sdraiato sotto il muro, sicuro del fatto suo, poi Bruno gli andava vicino e gli
diceva:
– Boccia, c’è odore di donna, qui dentro!
– Va all’inferno! – diceva Pasquini. Gli strappava di mano la lettera e
faceva saltare la busta con un colpo d’unghia. Qualche volta, però, chiamava
il postino per fargli sentire quello che la ragazza mandava a dire. Bruno
rideva:
– Sei un uomo fortunato, tu.
– E perché?
– Hai una donna che ti vuol bene.
– Mah, un bene relativo.
Pasquini se ne stava sotto il muro, le gambe lunghissime accavallate, con
la testa ficcata in quelle due pagine azzurre, scritte fitto fitto.
Un giorno che stavo in cucina, per il servizio di corvée, venne una banda
di ragazzi a trovarmi. Erano capeggiati dal postino.
– Dobbiamo andare dal capitano, – incominciò quello. – Dobbiamo dirgli
che ce ne fotte dei ribelli e di questa sporca guerra che non vale nulla.
– Noi ci siamo arruolati per andare contro gli Inglesi, – disse Nic
Belvedere.
– E intanto vediamo che tutti gli altri reparti vengono mandati al fronte, –
disse Medori. – E noi no, invece. Noi dobbiamo scuoiare i ribelli e lasciarci
scuoiare. Sai dirmi tu che schifosa cosa è questa?
– Io penso che è rivoltante spararsi fra Italiani. Può essere divertente in
principio. Ma dopo scoccia, – disse il soldato Gennari. Mi guardò per avere
un cenno d’approvazione.
Io smisi di raschiare il grasso della marmitta e li guardai. Dissi: –
Certamente. Queste ragioni sono buone ragioni.
Mi pulii le mani con lo straccio e mi osservai le unghie.
– Andate dal capitano e ditegli che ve ne fotte della guerriglia. Ma io che
debbo fare?
– Questo è il punto, – disse il postino. – Devi venire anche tu e spiegare a
quello le ragioni come stanno.
– E voi non sapete parlare?
– Non è questione di saper parlare, – disse Pasquini. – Abbiamo pensato
che tu saresti stato dei nostri e avresti potuto fare la faccia piú di noi.
Veramente mi stupiva questo loro modo di parlare. Perché avrei potuto
fare la faccia piú di loro? Ma non ebbi il tempo di rispondere che il capitano
Mattei spuntò dal cancello di entrata e venne a piantarsi in mezzo a noi.
– Perché state qui e non in caserma? – disse.
– Dovevamo venire da voi tutti assieme, – io risposi. – Stavamo
prendendo gli accordi.
Il capitano fece la faccia buia. Disse:
– Va bene, sentiamo di che si tratta.
Incominciò a parlare Bruno, appena il primo momento d’imbarazzo se ne
fu andato, poi Nic Belvedere, Pasquini e in ultimo io. Il capitano faceva gli
occhi piú grandi di quanto non li avesse e, mentre gli uomini parlavano, si
agitava inutilmente. Riuscí, con grande sforzo, a non interrompere mai. Io
dissi piú chiaro che eravamo stufi della guerriglia e che volevamo andare al
fronte, contro gli Inglesi, perché qui avevamo morti senza ragione. Alla fine
il capitano sbottò:
– Voi non capite un’acca della guerra e della nostra missione, perciò
parlate a vanvera e vi confondete le idee. Noi non abbiamo bisogno di andare
al fronte. Questo dove siamo è un fronte regolare, molto piú importante
dell’altro. Il compito che ci è stato assegnato è di difenderci le spalle dal
nostro nemico piú prossimo, che è questo che combattiamo. Non abbiate
vuoti sentimentalismi, perché i ribelli sono Italiani solo di nome. In effetti
essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi dobbiamo sterminarli perché
rappresentano la parte peggiore della nostra gente. Quindi, fin quando tutte le
montagne non saranno ripulite, il nostro posto è questo. Inoltre, non dovete
impressionarvi per le perdite che subiamo. In guerra è necessario aver
perdite, anzi è inevitabile. Ma in estate… Pensate che fra poco viene l’estate,
e allora sarà la volta nostra di vincere sulla canaglia. Non avremo piú tante
perdite, allora. Comunque… se proprio ci tenete a far la conoscenza con i
Neozelandesi e i Marocchini, io non vi dico che è impossibile. Solo bisogna
aspettare. Lasciare il tempo al tempo.
– Ma è una cosa che durerà molto? – disse Pasquini.
– Non so quanto possa durare questa nostra guerra, – disse il capitano. –
Ora che il Duce è stato salvato e ha ripreso il suo posto di lavoro, saprà ben
lui come ci dobbiamo comportare. Ma non bisogna star lí a pensare.
– Però gli Alleati vengono su ogni giorno, – fece Nic.
– E lasciali venire, – disse irritato il capitano. – Nella Valle Padana
troveranno che non si potrà passare, il Duce è stato esplicito nel dirlo.
Intanto… be’ ecco, vi debbo dare una notizia poco allegra. Ve la dò
unicamente per riscaldare in tutti voi l’odio che abbiamo per i traditori della
Patria. Ottobrini è morto stanotte all’ospedale, in seguito alle ferite. La sua
mitraglia la prende Laudato. Mi pare che ci abbia una predisposizione per la
Breda. Capito, Laudato?
– Signorsí, – dissi.
– Mettiti sull’attenti quando parli con me. Capito, Laudato?
– Signorsí, – dissi di nuovo.
Il capitano Mattei girò sui tacchi. Poi, fatti alcuni passi, si voltò ancora e
disse:
– Tornatevene in caserma. E ricordate sempre cosa dice il nostro Vangelo:
«Tutti i morti che lasciamo qui, chiedono di essere vendicati».
In mezzo a noi era scesa un’improvvisa tristezza. Ora i soldati si
guardavano negli occhi e non avevano piú parole da dire. Nic era stato amico
di Ottobrini, e adesso non sapeva se piangere o urlare o tacere solamente.
Tenne la testa sul petto per un lungo periodo di tempo, poi ci voltò le spalle e
andò via, per non piangere davanti a noi.
Allora Bruno quasi urlò una bestemmia. Disse:
– Cristo che sei nei cieli, te li prendi tutti, uno alla volta, e tutti i compagni
migliori!
– È un fatto però, – disse Medori, riflettendo su quelle cose che
accadevano. – Tutti i mitraglieri muoiono. Sono morti Gusto, Foresi,
Briganti, Buongiorno ed ora Ottobrini. Erano bravi mitraglieri… e ora sono
morti.
– Toccherà anche a Laudato, questa è la trafila, – disse Pasquini, senza
scherzare.
Allora ci guardammo bene negli occhi, e io vidi negli occhi dei miei
compagni un odio senza fine, che toglieva anche la voglia di parlare. Quelli
poi mi lasciarono. Prima di varcare il cancello della palestra Bruno
incominciò a cantare sottovoce, poi a voce piú forte:

Con vent’anni nel core


Sembra un sogno la morte
E pur si muore…

La notte stessa uscimmo in rastrellamento. Prendemmo quattro partigiani.


Sul fazzoletto rosso portavano la testa di Stalin incorniciata dalla falce e dal
martello. Li uccidemmo.
– Questi, per Dio, hanno rinnegato anche l’Italia, – disse il capitano
Mattei.
Quella era la notte di Nic. Nic si svincolò dal gruppo e se ne andò tutto
solo per la montagna. Alla fine il capitano concluse che Nic Belvedere si era
disperso o era caduto prigioniero. Ma quando ripercorremmo i luoghi, dopo
la scaramuccia, trovammo Nic in un crepaccio con le gambe larghe e gli
occhi inutilmente aperti. Un uomo gli grondava sangue sul petto, quasi
appeso alla sua baionetta.
– Ha vendicato Ottobrini, – disse Pasquini. Pasquini, adesso, era il mio
primo rifornitore.
E i rastrellamenti si susseguirono quasi tutti i giorni. Noi avevamo sempre
morti da regalare e sempre morti da prendere. Poi scese la tregua e nella Val
Sesia tornò il silenzio.
– I partigiani ci preparano qualche sorpresa, – diceva sempre il sergente
Elia.
Eravamo di pattuglia, quella sera, e il sergente Elia mi aveva ripetuto
all’infinito che la tregua puzzava d’insidia. C’era buio pesto e sempre freddo,
anche se di giorno c’era sole e le montagne si asciugavano pigramente. Era
primavera, ma noi aspettavamo l’estate.
E andò cosí che quella sera il sergente Elia sparò per il nervosismo. Per i
vicoli del paese si accendevano e si spegnevano luci misteriose. Ma erano i
gatti bianchi, grandi come pantere, che sorgevano dal buio, ed erano anche i
nostri occhi affaticati che vedevano sempre dischi bianchi e rossi davanti.
Elia si toccava la barba svogliatamente, ma il suo gomito non cessava di
tremare.
– Maometto si toccava la barba per scaramanzia, – dissi per ridere.
– Sei un fesso! – disse Elia.
– Grazie, però hai paura, – dissi. – Confessa che hai paura, sergente.
– Io paura? Si vede che mi conosci poco. È che mi dà fastidio il buio. Che
sia stramaledetto il buio.
Camminavamo nel buio. Elia, poi, mi diede una spinta e ci appiattammo
contro il muro. L’altro soldato s’era gettato bocconi e aveva fatto scattare la
sicura. Elia gridò:
– Chi va là?
Non rispose nessuno, ma udivamo distintamente un camminare svelto per
l’acciottolato della via di fronte a noi. Elia gridò una seconda volta, senza
aspettare risposta. Scaricò una raffica. Dentro la via stretta le pallottole
passarono a ventaglio. Silenzio! Elia stava incastrando un altro caricatore. Poi
una voce gridò dal buio:
– Non sparate!
– È una donna, – disse Berlina, l’altro soldato.
– Parola d’ordine! – chiese Elia.
– Sono Katia, imbecille! – gridò la stessa voce dal buio.
Elia ebbe uno scatto d’ira.
– Me ne frego di lei, – disse. – Se non mi dice la parola d’ordine
l’ammazzo.
– Venite avanti, – dissi allora alla spia, e nello stesso tempo trattenni Elia
che voleva sparare di nuovo.
La donna sorse dall’ombra.
– Potevate ammazzarmi, – disse con la sua voce straniera.
– Magari, – masticò il sergente. – Vi ho chiesto la parola d’ordine, perché
non avete risposto?
Katia si appoggiò al mio braccio.
– Non ricordo la parola, – disse. – È difficile ricordare quando si corre e si
è preoccupati. Vi prego, portatemi subito dal capitano.
Parlava con affanno e aveva gli stivali infangati. Katia era una donna sulla
trentina; aveva capelli gialli, viso pallido, minuto, e petto piatto. Dicevano
che fosse slava, ma poteva essere anche russa. Elia diceva senz’altro che
Katia era russa e zarista, e aveva dei conti personali da saldare con tutti i
bolscevichi e i comunisti. Ma Elia non la poteva soffrire perché era spia, e a
lui tutte le spie del mondo davano fastidio. Ne avrebbe fatto volentieri un
fascio e le avrebbe ammazzate. – Le spie, – diceva Elia, – sono come i
serpenti. Bisognerà prenderle per la coda e sbattergli la testa contro il muro.
Il capitano ci ricevette in pigiama. Lasciammo la spia da lui e tornammo a
perlustrare le strade. Incontrammo l’altra ronda che ci chiese la ragione degli
spari. Poi passò Nanni, il motociclista. Ci disse che doveva portare un
dispaccio urgente al Comando legione. Noi pensammo che Katia aveva
portato informazioni importanti. Poco dopo ci raggiunsero due nuove
pattuglie e il sergente chiese loro:
– Perché siete venuti?
– Ci ha mandato il capitano. Ha detto di tenere gli occhi ben aperti.
– C’è qualche grana grossa, – disse uno, ma lui aveva sonno e cominciò a
sbadigliare facendo rumore con la bocca.
– Questa volta balleremo con le mani e i piedi come fanno i negri, – disse
Elia, per burla. – Ho sempre sospettato che ci doveva essere qualcosa. Il
silenzio di questa settimana mi puzzava di congiura.
– Forse sarà l’ora nostra, – dissi a Elia, con lo stesso tono canzonatorio. –
Prepariamoci l’anima ora che abbiamo tempo. Forse domani sarà troppo
tardi.
– Sciocchezze! – Elia disse. – Per la preghiera si ha sempre tempo. Anche
in fin di vita la preghiera può aprirci le saracinesche del Paradiso. Noi
abbiamo dei protettori lassú, non credi?
– Non credo, sergente, – dissi seriamente. – Ammazziamo gli uomini
come fossero conigli.
Elia s’imbestialí. Poi si calmò e disse, piú tranquillamente:
– Devi sapere, mio caro, che non siamo noi ad ammazzare, e la colpa del
delitto non ci appartiene. Noi siamo gli esecutori materiali di una brutta
condanna inflittaci dal Fato. Dico il Fato, eh? Il Fato classico.
Ancora una volta Elia voleva farmi sapere che lui era un uomo di cultura.
Seguitò a parlare di quelle cose e del Fato, ma io non lo sentivo piú. Berlina
sonnecchiava all’impiedi e non aveva afferrato una sola parola di quello che
il sergente andava dicendo. Infine anche Elia si stancò di parlare con uno che
non l’ascoltava e tornò pensieroso. Poi cominciò ad annusare l’alba come
fanno le capre. Parve contento di vedere l’alba di un nuovo giorno.
XIV.

Il capitano Mattei aveva una faccia da funerale. Pavan, il suo attendente,


era riuscito a infilargli lo stivale destro dopo molti sforzi.
– Mi duole alla pianta, – si lamentò il capitano. – Questi stivali non
servono che per le parate.
– E perché li mettete? – disse Pavan, ruvidamente.
Il capitano Mattei fece un gesto con la testa, un gesto molto rassegnato.
– Debbo averci le cipolle, sotto, – disse.
Katia rise. Il capitano andò verso la finestra, molleggiando sui tacchi, e
guardò fuori. Per la stradetta sotto l’albergo le ordinanze degli ufficiali
tornavano dalla cucina con i gavettini del caffè. Era sorto il sole e le
montagne tutt’intorno apparivano stillanti di luce. Noi, tuttavia, non
sentivamo il sole in quella camera, ed era come se il giorno non fosse venuto.
Berlina aveva appoggiato la fronte sulla canna del fucile e s’era messo a
dormire.
Poi il capitano venne via dalla finestra e si piantò in mezzo alla stanza.
Volgeva il sedere a Katia. Costei, offesa, cambiò posto e andò a mettersi in
fondo. Era ancora vestita nel modo in cui l’avevamo trovata la notte. Accese
una sigaretta e aspirò molte boccate in fretta. Fumava sigarette americane e il
fumo presto riempí la stanza.
– Sergente, sapete che dovrei mettervi agli arresti? – incominciò il
capitano, guardando altrove.
Elia non parlò.
– O si spara o non si spara, sergente, – disse il capitano, con voce piú
marcata. – Voi ci avete reso un cattivo servizio mettendoci in allarmi. Ma
ricordate bene: o si spara o non si spara. Il grande segreto di indovinare, in
questi momenti, dipende dalla preparazione alle armi. E dal naso, anche. Dico
dal naso per dire che bisogna avere astuzia. Se voi uccidevate Katia, stanotte,
sareste stato severamente punito, perché avreste commesso una sciocchezza.
Katia sorrise al capitano, con riconoscenza. Il capitano vide il sorriso della
donna e continuò:
– Però badate bene, sergente, e anche voi due badate bene: non è la
persona di Katia che avremmo rimpianto. Ma avreste fatto una grande
sciocchezza uccidendola, perché le informazioni di Katia sono preziose.
– Voi, capitano, seguitando a parlare in questa maniera siete odiosamente
sgarbato, – scattò la donna.
– Scusami, Katia; qui le donne contano solo se ci aiutano a batterci. Poi,
quando tutto sarà finito, ci occuperemo con gentilezza delle donne.
Elia, mentre il capitano parlava, guardava vuotamente davanti a sé e il
mento, sotto la barba, gli tremava. Il capitano disse poi rivolgendosi a lui:
– Sergente, tutto ciò che ho detto è per avvertirvi. Ora andate a riposare un
paio d’ore; dopo, preparatevi nuovamente a uscire. Avverrà qualcosa, oggi.
Il capitano guardò l’orologio al polso e si mise il cinturone. Domandò
all’attendente:
– Il motociclista non è tornato?
– No, – rispose Pavan, breve.
Tornammo in caserma, Elia rideva, ora.
– È un predicatore in quaresima, – disse.
– Però ha le tue stesse idee, – dissi.
– Tutti dovremmo avere queste idee, – Elia disse, – ma dovremmo anche
saperle mettere in pratica. Il capitano, invece, parla come se leggesse in un
libro, e dice tutto in un modo vuoto e pappagallesco. Perché, allora, in
combattimento ha fifa di andare avanti e si ripara dietro i culi dei soldati?
– Hai visto, sergente, con quale cura porta gli stivali? – disse Berlina che
cadeva dal sonno.
– Ha le cipolle. Lo dice lui stesso che con le cipolle ai piedi non può
mettere gli stivali. Tuttavia mette gli stivali, con quelli viene anche in
montagna, col rischio di spezzarsi le gambe. E tutto ciò, dico io, significa
essere un intelligente soldato? Poi viene a dire a me che bisogna averci il
naso, per sapere se davanti ho una dannata spia oppure un ribelle.
Eravamo entrati nell’area della caserma. La caserma era una scuola
elementare i cui banchi e lavagne e tavolini erano finiti nel fuoco. In quel
momento i soldati prendevano il caffè. Entrando in caserma Berlina parlò
ancora una volta:
– Ho una pietra per occhio, – disse. – Come faccio a dormire due ore?
– Lascia perdere, Berlina, – fece Elia. – Anche questa storia di dormire
appena due ore, dopo una nottataccia, è una cantonata del capitano Mattei. È
consolante un fatto, però: questa gente almeno crede che siamo fatti di ferro.
È una bella illusione per vincere la guerra.
Berlina disse:
– Sergente, per conto mio non capisco nulla, né desidero capire nulla. Mi
dicono di sparare e sparo, mi dicono di fare l’asino e faccio l’asino. Io non
riesco a pensare. Credo però, che tu che pensi molto, sergente, devi farti
cattivo sangue.
– Io? Ma no, mio caro. Penso per passare il tempo, io, – fece Elia.
Cominciò a sbottonarsi. Appena giunse al suo pagliericcio vi si buttò su.
Si addormentò immediatamente, come se il letto fosse inzuppato di
cloroformio.
Mi svegliò il caporale di giornata. Il caporale strillava per la camerata:
– Adunata! Adunata!
Poi anche la tromba prese a suonare nel cortile. Il trombettiere diceva di
voler emulare Louis Armstrong, ma non valeva una cicca. Il caporale di
giornata mi diede due o tre spinte:
– È venuto il colonnello, – disse.
Gli sbadigliai sulla faccia. Poi cominciai a rivestirmi. Mi lavai la faccia nel
gabinetto, pulii i denti, ripresi il fucile. Venne anche Elia e insieme
scendemmo giú. Il colonnello stava parlando. Aveva un pizzetto alla
D’Artagnan su d’una faccia di terracotta. C’era anche Katia in mezzo agli
ufficiali, e il capitano Mattei si batteva gli stivali col frustino. Il muso lungo
dell’Aprilia fuoriserie del colonnello baciava la rete della palestra, dietro la
quale c’era il prato in pendio con degli alberelli e, in fondo, le montagne. Io
guardavo le montagne. E il colonnello parlava e io non lo sentivo. Aveva una
voce densa, piena di vibrazioni. Ma non afferravo il significato delle parole, e
pensavo che, se riuscivo a liberarmi della guerra, nella mia vita civile non
avrei piú fatto un passo in montagna. «Girerò attorno anche a un monticello
di formiche.»
Poi il capitano Mattei lesse in una lista e chiamò alcuni nomi. I chiamati
uscivano dalle file e s’allineavano davanti alla rete del prato. Il capitano
chiamò anche me. In principio non capii, poi il compagno di dietro mi spinse
col ginocchio e andai a raggiungere gli altri presso la rete. Dopo un poco il
colonnello se ne andò seguito da tutti gli altri ufficiali e, il tenente Prezioso,
che era stato anche lui chiamato, ci guidò agli alloggi degli ufficiali. Qui
ritrovammo il colonnello, Katia, il capitano e gli altri ufficiali. Parlò Katia:
– Attaccheranno non appena cala la notte, – disse. – Voi dovete portarvi
nella loro zona. È un paese con venti case e due osterie. È un paese rosso e
tutti gli abitanti sono rossi. Si riuniranno in una delle osterie, poi verranno ad
attaccare. Voi dovete stare nell’osteria in mezzo a loro, e aspettare che ci
siano tutti. È fissato per le diciannove. Voi, allora, dovete sparare, perché
questo è il segnale. Due compagnie nostre accerchieranno, dobbiamo
prenderli tutti.
– Bene cosí, Katia, – disse il colonnello. E, rivolgendosi a noi, aggiunse: –
Voi siete, adesso, paracadutisti inglesi, non scordatelo. Il caporale Brini
conosce la lingua, cosí vi sarà piú facile. Bisogna recitare una parte. Questa,
ragazzi, è una grande azione.
Il caporale Brini, il tenente Prezioso, il soldato Berti e io ci guardammo in
faccia. Noi, ora, eravamo paracadutisti inglesi. Con questa consegna il
colonnello ci licenziò. Di nuovo in caserma ci vestimmo con tute fatte coi teli
da tenda, poi andammo a prendere il rancio di mezzogiorno e passò ancora
molto tempo prima di partire. Mi avevano consegnato un «Thompson» e
Brini mi spiegò come funzionava. Era quasi come il mitra italiano. Brini era
biondo, alto quanto me. Era di pelle delicata e aveva pochissima barba. In
compagnia lo chiamavano «il conte», per via della sua maniera delicata e
signorile di intrattenere le persone. Un giorno mi disse che gli uomini
veramente raffinati e intelligenti non possono amare le donne. Ammiccava,
parlando, graziosamente e sembrava una femmina.
Il rifornitore Pasquini stava seduto con Berti intorno alla Breda. Quei due
erano come due fratelli e le loro fidanzate erano sorelle e abitavano a Torino.
Loro, invece, erano romani e abitavano nello stesso quartiere, in Prati.
Quando venne il tenente Prezioso a dirci di andar via, Berti e Pasquini si
abbracciarono.
– Ritornerò, – disse Berti.
– È una bella avventura, – disse Pasquini. – Lo sai che t’invidio,
Romoletto?
Berti rise. Si levò dal petto la medaglietta della Madonna e la diede a
Pasquini.
– Te la dò se non dovessi tornare, non si sa mai, – disse.
Pasquini intascò la medaglietta e gli diede una pacca sul collo. – Andiamo,
ragazzi, – fece Prezioso. Scendemmo le scale. Il rifornitore Pasquini restò a
guardare in un certo modo accorato.
In palestra incontrammo il sergente Elia:
– Addio, salame, – Elia mi disse.
Gli rispose il conte. Gli disse con una graziosa mossettina:
– Va’ a morire ammazzato, sergente!
– Per il momento andateci voi, – disse Elia. Poi mi tirò per il calcio del
«Thompson» e mi disse: – Stai attento, Marco.
Elia mi disse «stai attento, Marco» con una faccia cosí comica che quasi
mi vennero le lacrime agli occhi. Gli tremava la barba.
– Senti, vecchio, – gli dissi, – lasciamela toccare la tua barba dell’Africa.
Mi porterà fortuna.
– Tocca, tocca pure salame, – fece lui. Gli toccai la barba: sotto le dita
incontrai una cicatrice come un canaletto. Se Elia si fosse tagliato la barba
sarebbe tornato giovane di cinque anni. Ma aveva la cicatrice, e forse questa
era la vera ragione della sua barba dell’Africa.
– Muoviti, Laudato, – gridò Prezioso dal cancello.
– Stammi bene, Elia.
– Riporta la pelle a casa, – Elia rispose. Girò sui tacchi e filò via.
XV.

Una macchina ci portò fino al ponte Quarone. Sotto il ponte passava il


fiume. Il fiume era limaccioso e quasi non si vedeva piú per via del buio. Ci
internammo nella foresta di betulle ai piedi della montagna. Eravamo ancora
a sette chilometri dal posto. Il tenente Preziosi si chinò in una crepa fangosa
ai fianchi del sentiero, raccolse una manciata di fango e con quello ci strofinò
le spalle. Il conte ne uscí malamente conciato da quella operazione.
– Ma che vi salta, tenente? – protestò.
– Ci mimetizziamo, – disse Prezioso con un sorriso. – Noi siamo quattro
diavoli d’inglesi che girano per i boschi in cerca degli «amici». Gli amici non
si fan vedere e solo i fascisti si fanno vedere con le loro dannate camicie nere,
e noi giriamo come braccati e abbiamo fame. Perciò, ragazzi, è necessaria un
po’ di pittura.
– Ah, capisco, – fece Berti. – A te, Marco, ti concio io.
– Con arte, signori paracadutisti, conciatevi con arte, – ammoní Prezioso.
Brini scoppiò a ridere. Anche quando rideva aveva il suo modo di essere
femmina.
Poi venne il silenzio. Man mano che ci avvicinavamo al luogo, nessuno
osava piú parlare. Il tenente Prezioso sorvegliava il suo orologio. Il
crepuscolo s’era fatto piú fitto e la montagna respirava con tutti i suoi alberi.
Attraversammo il ruscello. In fila indiana tagliavamo la poca acqua che
sembrava calda, e le scarpe facevano puack! sul fango. Dopo un poco
rimontammo l’argine. Il conte apriva la marcia sempre in fila indiana, e noi ci
guardavamo i chiodi dei talloni.
– Alto là, chi siete?
Ci fermammo di botto. Una testa d’uomo spuntò dietro un fucile, dal buio
d’una siepe. Allora il conte alzò le mani e incominciò a gridare:
– English friends. We are Englishmen we came by parachute…
– Mi pare che ha parlato inglese, – brontolò fra sé l’uomo dietro la siepe.
– Yes, we are Englishmen, – incalzò il conte.
– Eh? Come dite? Sí, alzate le mani! Avanti, alzate le mani! – gridò
l’uomo dietro la siepe.
Alzammo le mani, ma il conte s’arrabbiò e disse a quello dietro la siepe,
accompagnando le parole coi gesti:
– Noi essere Inglesi. Capito che noi essere Inglesi e venuti da amici
partisani con parachute?
– Col paracadute? – disse l’uomo di fronte.
– Yes, parachute.
– Ah, bene! Allora tutto va bene, – disse l’uomo e saltò fuori dal
cespuglio. Si tirò su i pantaloni e sorrise, come per scusarsi del bisogno
corporale che era andato a depositare lí dietro. Era un bassotto con dei capelli
sbizzarriti. Riprese subito a parlare cordialmente, camminando davanti ai
nostri piedi.
– Voi essere venuti con paracadute? Yes, io tutto capire. Io essere vostro
amico.
– Yes! – fece il tenente Prezioso, e guardò stranamente il bassotto.
Potevamo ammaccargli la testa con un pugno, ma l’uomo ci guardava
sorridendo e pareva felice di incontrarsi con dei paracadutisti inglesi. Ci
guidò verso la strada.
– Molti Inglesi e negri essere venuti dal cielo, – disse il bassotto.
– Yes, noi sapere tutto, – disse il conte, con molta cordialità.
– Voi parlate anche l’italiano? – domandò l’uomo, subito diffidente.
Berti mi guardò e il conte scoppiò in una risata.
– Poco italiano, – disse il conte. – Io parlare poco italiano e miei compagni
niente parlare italiano.
– Yes! – disse sbadatamente il bassotto. Poi sorrise, forse riflettendo su
quella sua parola inglese natagli sulle labbra.
Incontrammo prima il cimitero, poi le prime case del paese. Davanti a una
lunga baracca metà in legno e metà in mattoni il bassotto ci disse di fermarci.
Sulla porta del baraccone c’era una targa e, nonostante il buio, riuscimmo a
leggere: Osteria dei Bersaglieri. Berti, che era dietro di me, mi toccò col
braccio, come per dirmi: «Ci siamo!» Il bassotto entrò prima, quindi il conte
e tutti noi, in fila indiana. Già da fuori avevamo udito molte voci e molti
mormorii. Ci investí una nuvola di fumo e una forte puzza di vino. Appena
appena riuscimmo a vedere i fucili spianati contro di noi.
– Calma, compagni! – gridò il bassotto alzando le mani. – Sono quattro
Inglesi paracadutati che s’erano persi nella macchia. Li ho pescati che se ne
venivano mogi mogi per la via di Quercia Maggiore, e debbono avere una
fame fregata, compagni.
– Bene, allora. Urrah agli Inglesi! – gridò un tipetto smilzo tutto
abbracciato al suo parabellum.
– Ma è proprio magnifico! – gridò un altro tipo. – Ora dovremmo fare la
tribú degli stranieri.
Il tipo che parlava bevve nel boccale di coccio e si asciugò il muso con la
mano. Noi ci sedemmo al tavolo presso la porta, insieme al bassotto. Il tipo di
prima continuò a parlare:
– Non faccio per dire, – disse, – ma Inglesi, Americani e negri son bravi
ragazzi, e son allegri. Ma non vogliono combattere. E non c’è niente da fare
quando dicono che non vogliono combattere. E pensare che se non fosse per
noi che sabotiamo le cose dei Tedeschi, questi qui non vincerebbero mai la
guerra.
– Non sta bene sparlare dei nostri compagni, Rico, – disse il bassotto.
– Be’, ma io non sparlo, Nunzio. E chi ha detto che sparlo dei nostri
compagni?
L’uomo chiamato Rico rituffò la testa dentro il boccale di vino e non parlò
piú. Un moro simpatico, con una bella dentatura bianca, ci disse:
– Come vi chiamate, compagni?
– Ah, sí. Presentazione, – fece il conte. – My name is Walter Reagan, poi
amici Johnny Baldwin, Felton e Roy Warren.
Il conte ci indicò.
– Roy Warren è proprio inglese? – domandò il ragazzo moro.
Il conte rise. Spiegò che ero studente d’ingegneria nato a Liverpool, ma di
famiglia oriunda del Texas. Sapeva recitare proprio bene la sua parte, e
intercalava parole italiane e parole inglesi e riusciva sempre a farsi capire.
– Cenzo, porta da bere ai compagni! – gridò all’oste il bassotto.
L’oste portò una guantiera coi bicchierini e ci versò del gin. Era un barile
pompato di sangue, ma ci guardava con diffidenza. Il conte, allora, sorrise
all’oste, in segno di gratitudine, ma quello se ne tornò al banco camminando
a ritroso, e guardandoci come spaventato.
– Ma che diventi scemo, Cenzo? Sta’ a vedere che non ha mai visto faccia
d’Inglesi, – disse il bassotto.
– Va là, vuole la cioccolata, il nostro Vincenzino, – ironizzò il
mingherlino spiritato di prima.
Gli uomini risero forte, perché il tipetto spiritato aveva detto una bella
battuta. Ma l’oste non rise. Gli uomini erano una sessantina, tutti accalcati nel
cantinone dalle travi nere; avevano sui tavoli grossi boccali di vino e mazzi di
carte. Tenevano i mitra sulle ginocchia e i berretti di tutti i colori sulle nuche.
Avevano fazzolettoni rossi intorno al collo. Ogni tanto la porta si apriva e
altri uomini entravano nel fumo e venivano a sedersi ai tavoli. Il bassotto
faceva le presentazioni. I nuovi venuti ci scrutavano prima, aggrottando le
ciglia. Poi ridevano cordialmente e ci stendevano la mano. Ci offrivano da
bere e da fumare.
Il tenente Prezioso sbirciava il suo orologio e stringeva il «Thompson»
sotto il tavolo. Era un po’ nervoso, e anche noi eravamo un po’ nervosi. Il piú
calmo era il conte, che parlava con disinvoltura e si lisciava i capelli biondi.
– Dev’essere un figlio di mammà, questo qui, – disse un giovane al
bassotto, alludendo al conte. Poi il giovane propose di andare a chiamare due
Americani che erano con loro, paracadutati tempo fa. Il bassotto gli rispose
che non c’era tempo di andare a chiamare gli Americani, poiché li avremmo
visti lo stesso piú tardi. Noi respirammo sollevati.
Il bassotto si chiamava Nunzio e doveva essere qualcuno in mezzo agli
altri uomini, ma non portava nessun segno sulla divisa, e non si sapeva che
grado avesse. Nunzio disse al conte che ci doveva essere un assalto contro i
fascisti della valle la stessa notte, e che aspettavano gli ordini per partire. Il
conte spiegò la cosa al tenente Prezioso con molta serietà, parlando inglese, e
il tenente Prezioso, senza capire una parola di quello che il compagno aveva
detto, rispose gravemente molti Yes.
Forse era già un’ora buona che stavamo lí. Gli uomini giocavano con
indifferenza e l’oste correva qua e là con i boccali in mano. Se guardava dalla
parte nostra non sorrideva. «Questo qui sta mangiando la foglia» pensai.
«Anche la compagnia ora dovrebbe essere arrivata, e forse aspetta il segnale.
Fra poco ci sarà un parapiglia indiavolato e il povero Roy Warren, studente
d’ingegneria, ci rimetterà la pelle, e addio Liverpool, e addio famiglia oriunda
del Texas. Bene, ma quel pederasta sostiene bene la sua parte! Sembra
proprio un inglese! Vedi che aria dignitosa e cordiale che ha; è impersonale e
rigido come una mazza di scopa».
Entrò un giovane alto, bello, col cappuccio in testa e gridò:
– Salute a tutti.
Il giovane andò diritto al banco e ingollò due bicchieri di grappa,
mantenendosi lo stomaco. Berti ebbe un brivido; me lo trasmise attraverso il
braccio che teneva poggiato alla mia spalla. Berti allora levò il braccio dalla
mia spalla e tastò il «Thompson» sotto il tavolo. Levò la sicura. Mi diede una
spinta per dirmi di fare lo stesso. Feci lo stesso. Berti mi sussurrò pianissimo,
nell’orecchio:
– Lo conosco quello lí.
Anche nella voce del conte ci fu uno stacco. Ma conservò la sua calma e
seguitò a parlare col bassotto e col giovane che propose di andare a chiamare
gli Americani. Adesso mi serpeggiavano per il corpo brividi lunghi come
vermi.
Il bassotto chiamò il giovane col cappuccio:
– Ehi, tu, ex fascista dell’osteria!
– Cerca di sfottere meno, Nunzio. E camperai di piú, – rispose il giovane,
senza voltarsi. Beveva sempre grappa.
– Repe, vieni a bere alla salute dei compagni inglesi, da persona educata
come dovresti essere, – disse il bassotto.
– Quali Inglesi? – chiese il giovane, voltandosi finalmente, col bicchiere
colmo sempre all’altezza del mento. Mutò subito espressione e guardava il
tenente Prezioso con la sua faccia infantile. Allora urlò:
– Tradimento! Sono fasc…
Prezioso sparò una raffica da sopra il tavolo e il giovane col cappuccio
rotolò a terra portandosi via i bicchieri del banco. Anche il bassotto, che
aveva messo mano alla pistola, fece un ruzzolone indietro, colpito al mento
dal conte.
– Chi si muove è morto! – gridò Prezioso. – Alzate le mani, non fate un
gesto, restate ai vostri posti!
Rinculammo verso il muro, in direzione della porta, con i mitra sempre
spianati.
– Quello era uno dei nostri, una volta. Ha riconosciuto il tenente, – disse
Berti.
Gli uomini ora tacevano, le mani alzate. S’udivano i loro respiri gravi,
profondi, un poco ansimanti.
– Forse ce la caviamo, – disse il conte. – Sono cretini e fifosi, questi
uomini.
Ma una voce potente gridò dal fondo:
– Addosso, Cristo! Sono appena in quattro.
Una scarica alta partí dal fondo in quel momento e il tenente Prezioso
cadde in ginocchio.
– M’hanno fregato, – disse, ma cominciò a sparare. Anche noi
cominciammo a sventagliare, curvi contro il pavimento. Gli uomini
rotolavano sui tavoli come bottiglie, fra grida e urli. Ora si sparava
pazzamente. Tutti sparavano. Qualcuno fece saltare la lucerna e fu buio. Le
urla crebbero nel buio. La morte veniva dal buio.
– Mamma mia! – gridò Berti a un tratto, balzando d’un lato, e restò a terra
senza piú muoversi.
– Laudato! – chiamò il tenente. – Ci sei?
– Ci sono – risposi, ma proprio in quel momento sentii una lacerazione
alla coscia. – M’hanno preso, tenente! – gridai.
– Anche me, coraggio! – disse quello, dall’altra estremità.
Mi tirai davanti un tavolo, per ripararmi.
– I nostri non debbono essere lontano, – disse il conte.
– Forse no, – risposi.
Una fitta tremenda mi prese anche al fianco. Ero caduto bocconi, presso il
corpo caldo di Berti. Mi passai una mano sotto la tuta e la ferita mi fece
urlare. Un liquido caldo mi bagnava la camicia e scendeva fra le mutande.
– Tenete d’occhio la porta, – gridò la voce di prima, dal fondo.
Il conte sparò e fu come se avesse tagliato la gola a quella voce.
– Beccato, – disse. – Berti è morto?
– È morto, – risposi.
Il rumore delle cose rotte e dei tavoli che ruzzolavano era confuso agli
spari. Mi trascinavo verso la porta, ma non potevo correre, perché ora era
come se mi avessero mozzato le gambe. Poi udii cantare la Breda, fuori, e il
sangue mi uscí piú copioso perché respirai forte.
«Non debbo svenire, non debbo svenire» mi ripetevo, e ora lottavo con la
volontà di non svenire. Non sparavo piú. Avevo abbandonato il «Thompson»
perché era diventato troppo pesante per le mie forze che se ne andavano.
«Vengono i nostri, ma non debbo svenire. Dio, non debbo svenire!» Mi
trascinavo verso la porta, ma la porta era sempre irraggiungibile.
Gli uomini, dal fondo del cantinone, sparavano contro la porta e urlavano.
Poi rotolai sulla strada, e mi parve che ci fosse troppa luce fuori. Avevo in
mano un piede di tavolo, ma lasciai anche quello perché pesava molto.
Intanto il cervello mi diventava torpido, il sangue m’impiastrava gli abiti e
attaccava come fosse pece. Mi trascinai dietro il muro della casa. Ma dietro il
muro non ce la feci piú; lí c’erano panche e sedie spagliate. «Non debbo
svenire, non debbo svenire».
– Accendete il lume! – gridò una voce dentro il cantinone. Quasi subito
un’altra voce, sulla porta, disse con rabbia:
– Ho trovato quello che parlava inglese, gran vigliacco! Ora gli spacco la
testa e cosí non verrà piú a sfotterci! Udii una raffica sulla porta e un gemito
lungo.
– Anche il conte è andato, – dissi, e mi riprese piú forte il dolore.
Ora, però, udivo distintamente gli spari della compagnia.
– Cretini, sparano a vuoto. Ma perché sparano a vuoto?
Poi, la voce del capitano Mattei, vicinissima:
– Arrendetevi, siete circondati!
Gli uomini richiusero la porta e ripresero la sparatoria dalle finestre.
Ancora il capitano:
– Incendiamo la casa. Buttate una latta di benzina…
Il vino bevuto mi tornava in gola e volevo vomitare le budella. Poi mi
sentii molto debole e il cervello molto pesante. Il cervello diventava leggero e
pesante di volta in volta. Il capogiro cresceva cresceva e la testa era come una
fionda che girava. Scivolavo lungo la montagna, verso il fondo nero dove
c’era il fiume. Il dolore al fianco ora s’era acutizzato, poi cessò anche il
dolore e io seppi soltanto che stavo per morire.
Non so dopo quanto tempo qualcuno mi trovò sotto le sedie mentre la casa
bruciava. Gli spari s’erano fatti piú radi, ma le urla salivano alle stelle. Mi
buttarono dell’acqua in faccia. Poi mi sollevarono in alto, molto in alto, e una
voce disse:
– È molto grave, capitano!
– Fasciatelo alla meglio e portatelo giú, – rispose il capitano.
La barella era corta e stretta e la testa mi penzolava fuori. – Cessate il
fuoco, si arrendono! – gridò il capitano.
Uomini come fantasmi uscivano dalla casa che bruciava, le mani alzate,
mentre mi portavano via. Quelli che portavano la barella mi causavano delle
scosse orribili. E sentivo freddo. Mi caricarono sul camion e quello subito si
mosse, con un balzo, e io gridai. Poi scivolò per la discesa. Riprendevo
conoscenza a poco a poco, ma sentivo sempre molto confusamente.
– Che ora è? – chiesi a quello che mi stava vicino.
– Non lo so, forse è abbastanza notte, – rispose il soldato.
– Com’è andata?
– Abbiamo fatto fuori i ribelli.
– Ah, i ribelli?
– I ribelli. Quelli rimasti si sono arresi. Un bel colpo!
– E gli altri?
– Il tenente Prezioso e gli altri? Non so nulla, forse sono in mezzo ai
ribelli.
– Berti è… e anche il conte è morto.
– Eh? – fece quello, e si chinò su di me per sentir meglio. Ma svenni di
nuovo. Quando rinvenni ero ancora nel camion. Sentivo il mio sangue che
sgocciolava sulla barella.
XVI.

«Questo qui mi darà il colpo di grazia.»


Il dottorino smaniava intorno ai ferri allineati sulla mensoletta di marmo.
Prendeva confusamente forbici bisturi pinze, e gli tremavano le mani.
– È necessario operarlo, – disse per la terza volta il cappellano.
Il dottorino allora alzò le spalle. S’era lavato le mani e fu allora che
pensai: «Questo qui mi darà il colpo di grazia». Poi s’era messo il bavaglio
sulla bocca e le sue braccia lunghe, leggermente pelose, mi frugarono tra la
giacca e il petto. Era ancora allievo ufficiale e il cappellano gli dava coraggio.
– Bisogna far presto, Glauco, – insistette il cappellano.
Il dottorino, dopo avermi denudato il torace, strofinò intorno alla ferita con
l’ovatta impregnata di spirito.
– Speriamo che non gli abbia preso il polmone, – disse il dottorino.
Il cappellano avvicinò le due bacinelle e porse a Glauco l’anestetico.
L’anestetico non attaccò. Quello prese a lavorare lo stesso, con le mani che
gli tremavano.
– Sii calmo! – disse il cappellano.
Urlai sul lettino. Era un dolore pazzo che mi immobilizzava tutto il corpo.
Ma il dottorino frugava sempre con le pinze e, man mano che andava avanti,
diventava sempre piú calmo. Poi non tremò piú. Ma era pallidissimo e il
sudore gli spisciolava sulla faccia.
– Ti fa male? – mi chiese.
– Faresti meglio se non me lo domandassi, – gli dissi coi denti serrati.
– Ragazzi, state calmi, – disse il cappellano. – Tanto è quasi finito.
Poi estrasse il proiettile, disinfettò bene e rifasciò. Ma svenne mentre
fasciava. La fasciatura la terminò il cappellano. Poi il cappellano sospirò
contento:
– Questa è un’operazione da citare sul giornale, – disse. Intanto il
dottorino rinveniva da sé sulla sedia.
– Ah, mio Dio! Che paura! – disse infine passandosi la mano sulla faccia.
Poi rise.
Il cappellano disinfettò e fasciò le altre ferite. In tutto erano tre: al fianco,
alla coscia e al polpaccio. Mi impacchettò bene bene con la garza. Aveva
paura delle emorragie. Poi mi caricarono sull’Aprilia del colonnello e mi
portarono all’ospedale. Era venuto il colonnello in persona ad
accompagnarmi. Chiamata l’ausiliaria infermiera le disse:
– Questo è il vostro uomo, signorina. Curatelo bene, mi raccomando.
– Va bene, – rispose l’infermiera.
Il colonnello se ne andò soddisfatto. Nello stesso giorno i medici
dell’ospedale mi estrassero la pallottola alla coscia. Dissero:
– Quel ragazzo ha operato bene.
– Cosa pensi, che ci voglia una trasfusione?
– Una trasfusione dobbiamo fargliela.
– Allora la dobbiamo fare subito.
Osservarono la ferita al polpaccio. Al polpaccio c’erano due buchi: la
pallottola aveva attraversato portandosi via un brandello di carne. Mi fecero
la trasfusione e tutto andò bene. Poi mi portarono in una stanzetta tutta bianca
con un crocifisso a capo del letto.
Nei primi due giorni deliravo. Dicevo:
– Capitano, non sono un eroe!
L’infermiera era sempre al mio fianco. Si muoveva silenziosamente nelle
scarpe di gomma. Vedevo il suo viso scarno, contornato di nebbia, abbassarsi
e alzarsi sulla mia faccia. E le sue labbra erano grandi, ferme e nere. Alzai la
mano, lentamente, poi l’abbassai con forza sul viso scarno che era sopra di
me. Il volto scomparve dalla mia faccia; poi me lo rividi a lato, chino da una
parte, come la testa d’un impiccato. Era sempre contornato di nebbia. Dopo
un poco risollevai la mano per colpire ancora quel viso, ma la mano mi
ricadde senza piú forza. Allora la mano dell’infermiera si posò sulla mia.
Scottava. Dopo un poco mi liberai e presi a seguire con le dita il corso di
quella mano. Toccavo la stoffa sul braccio, poi la spalla e il volto, quel volto
nella nebbia. Era una pelle morbida e il naso era troppo forte su quel viso.
L’infermiera taceva; si lasciava esplorare il volto come se fossi un cieco.
Infinite volte chiamai, urlando: – Giulia mia! – Aspettavo la risposta di
Giulia, seguitando a chiamarla. E finalmente l’infermiera disse:
– Io sono Anna.
– Anna? Quale Anna? – chiesi spaventato. – Tu sei Giulia. Dimmi che sei
Giulia.
– Sono Anna, l’infermiera, – disse la donna.
– Tu sei Giulia, – ripetei. – Non vuoi dirmi che sei Giulia. Ma non
andartene, Giulia, non andartene…
– Non me ne andrò. Ma devi star calmo, piccolo mio, – disse l’infermiera.
Piano piano mi ricacciò la mano sotto le lenzuola, rincalzò le coperte e si
rimise seduta, tutta bianca come una statua, con un libro in mano.
C’era di nuovo il tunnel. E poi c’erano le rotaie nel tunnel. Le rotaie
partivano da un buco bianco, lontanissimo, e si precipitavano a investirmi in
mezzo al petto. Un dolore alla ferita, nello stesso tempo che le rotaie
m’investivano, mi fece urlare. La donna, affianco, richiuse il libro fra gli
indici e ricollocò il suo volto sulla mia faccia. Le rotaie, ora, mi fuggivano
sotto i piedi e non potevo voltarmi perché dietro le spalle mi si apriva una
voragine nera. Il buco bianco, in fondo, ballava come un disco di calce. Poi
dal centro del disco uscí un uomo, ingrandiva venendo avanti. Camminava in
mezzo alle rotaie e zoppicava. A un certo momento diede un calcio a una
chiavarda pendente, e la chiavarda emise un suono rauco. L’uomo si chinò
fra le travi e smosse qualcosa. Era acqua. Sotto le rotaie c’erano piccoli stagni
d’acqua con molta alga verde come capelli di donna. Poi l’uomo riprese a
camminare a fatica, e a ogni passo che faceva io mi sentivo male e avevo
pena per lui. Quando fu proprio vicino lo riconobbi. Era il soldato zoppo
della caserma di Vercelli. Poi il tunnel scomparve inghiottendo il soldato
zoppo.
Buio!
Comparve un altro quadro. Due ali lunghe di case attraversate dalla
camionale, il distributore giallo e il prato verde ai piedi della collina. Sentivo
il rimbalzare della palla senza vedere chi la lanciava. E sentivo la voce
cantante del ragazzo. Uno, due, tre e quattro, cinque e sette, dieci, quindici…
Giulia era là. Dormiva sulle scale di casa con la testa nascosta sul petto.
Riconoscevo le spalle aguzze e i suoi capelli di stoppa. Le mosche le
ronzavano intorno, ma Giulia non se ne curava.
– Sono le mosche della cacca, Giulia! – gridai.
Giulia si mosse e mi guardò, poi venne a collocare il suo viso scarno sulla
mia faccia. Mi asciugava il sudore.
Le parole le uscivano dalla bocca nera e io non le afferravo, per quanto
facessi degli sforzi per starle dietro.
– Perché non gridi?
Giulia sorrise. Mi passò la mano sulla fronte. Disse debolmente: – Hai la
febbre molto alta. Devi fare la nanna, la nanna….
Non capivo le altre parole. «La nanna, la nanna, la nanna…» Mi
addormentai che avevo un sapore di sciroppo nella gola, e la stanza non
ballava piú, e neanche la donna col libro era piú al mio fianco.
Mi svegliai sollevato. Apersi gli occhi lentamente, come per riabituarmi
alla luce. Incontrai le pareti bianche della stanza. Erano nude. Sentivo un
peso sul braccio destro, ma non osavo muovere il braccio. Mi ronzava un
poco il capo, ma adesso ero lucido e non avevo piú febbre. Piano girai gli
occhi, per timore di non trovare piú al suo posto la donna col libro. La donna
dormiva poggiando la testa sul mio braccio, e vedevo il suo collo bianco, là
dove i capelli biondi le si dividevano in due parti. Aveva un respiro leggero, e
appena appena le spalle sussultavano. Sul comodino c’era il bicchiere del
latte e il libro. Il libro era gualcito e non riuscivo a leggere sul dorso.
Ora mi sentivo meglio e finalmente provavo piacere a starmene a letto.
Feci scivolare la mano sotto il pigiama e incontrai le fasciature. Avevo quasi
tutto il busto fasciato. Poi la mano s’insinuò sotto i pantaloni e incontrai un
ciuffo di peli setolosi, appiccicati da uno strato denso che si sgretolava sotto
le dita. «Non mi hanno lavato» pensai. C’era ancora tutto il sangue
raggrumato lí.
In quel momento la donna sollevò la testa. Io tolsi la mano di là come se
lei potesse vederla, e richiusi gli occhi fingendo di dormire. Ma lei capí lo
stesso che non dormivo. Mi scrutò un poco, poi sospirò:
– Mio Dio, ho dormito! Come vi sentite adesso?
Non risposi. Tenevo sempre gli occhi socchiusi e la guardavo in tralice. La
donna allora s’alzò e fece due movimenti con le braccia e le gambe in mezzo
alla stanza, per sgranchirsi. Mi pareva bellissima. Poi mi accorsi che era lei
che vedevo nel delirio, quel suo volto ossuto e incavato sotto le guance. E
aveva una bocca larga, con grosse labbra, cosparse d’un rossetto cupo, quasi
nero. Tuttavia si vedeva bene che era una donna stagionata, per una certa
stanchezza del viso, anche se i suoi lineamenti erano perfetti. Poteva avere
una trentina d’anni o poco meno, e le sue poppe apparivano come due puntini
mobili sotto il camice bianco.
Infine la donna tornò vicino al letto. Mi passò la mano sulla fronte e disse:
– Non c’è piú febbre.
La sua mano era morbida, con delle unghie lucide che sembravano artigli
bianchi. Allora finsi di non riconoscerla e dissi:
– Sei Giulia?
La donna sorrise e mi ravviò i capelli. Mi guardava coi suoi occhi cerchiati
di blu. Quando abbassava le palpebre le ciglia ricurve le ombreggiavano le
gote, e le ciglia erano sempre umide, forse per via del rimmel. Sfilai
lentamente la mano e ripresi la funzione di farla salire sul braccio fino al
mento e sui capelli di lei. Lei s’era messa seduta e lasciava fare. Poi,
cercandole con la mano sul petto, la donna emise un risolino, come se le
facessi il solletico, ma non si ritrasse.
– Non sono Giulia, – disse infine. – Mi chiamo Anna e sono l’infermiera.
– Bella! Siete bella, – dissi tenendo sempre gli occhi socchiusi.
Parlavo con la gola come uno che sogna. Allora la donna si ritrasse e
disse:
– No. Ditemi piuttosto chi è Giulia. Avete detto molte cose nel delirio.
Apersi gli occhi del tutto. Anna, l’infermiera, aveva ombre violette sulla
lanugine bianca presso il lobo dell’orecchio destro e sulla fronte a mezzaluna.
Ma non appena mi mossi scostando le coperte, lei ebbe un gesto premuroso.
– Eh, no, no! – disse. – State buono.
– Ditemi cosa ho detto nella febbre, – chiesi.
Anna sorrise, poi disse, lentamente:
– Amate una donna che si chiama Giulia, l’ho capito subito. L’avete
chiamata per due giorni. Volevate schiaffeggiarla, poi l’avete fatto con me.
Non avete troppi riguardi voi, con le donne.
– Chiedo scusa, Anna. Non so perché vi ho schiaffeggiata. Picchiavo
qualche volta Giulia, ma lo facevo per il troppo bene.
– È uno strano modo di voler bene.
– Sí, certamente, è uno strano modo. Ma, vedete… Ecco, vedete Anna,
Giulia era la mia amica fin dall’asilo, da quando eravamo due mocciosi. Ed è
rimasta sempre una bambina e io le ho voluto bene, anche se ci sono state
delle cose terribili, dopo. La picchiavo anche, ma oggi noi non ricordiamo le
percosse, ma solo il bene che ci siamo voluto.
L’infermiera sorrise. Mi lisciò ancora i capelli e disse:
– Ho capito, piccolo. Ho capito tutto. Ora però basta, non dovete piú
sforzarvi, e non dovete parlare piú, va bene?
Guardavo come spiccicava le parole, con uno stretto accento piemontese.
Il suo parlare mi creava dentro una sensazione di lontananza, come se mi
respingesse. Allora le dissi accigliandomi:
– Non chiamatemi piccolo. Non mi piace.
Capii subito che non era facile trattarla come Giulia. Ma lei rise con
gaiezza, un riso nella gola, e la bocca, sul suo viso, era una cosa importante e
carnale, che suscitava un’apprensione strana nel mio petto.
– Ah, be’, – disse. – Non vi piacciono le parole provvisorie. Allora vi
chiamerò… vediamo come posso chiamarvi.
Corrugò la fronte, pensierosa.
– Marco, dovete chiamarmi Marco, – dissi.
Lei sollevò le palpebre lentamente, come fossero due gusci pesanti, e mi
guardò:
– Perché Marco?
– Perché Marco è il mio nome.
– Ah, sí, sí! Marco Laudato, – e rise di nuovo, come ricordandosi d’una
cosa scioccamente dimenticata, mentre io mi sentivo male nel petto
vedendola ridere, e quasi volevo piangere di rabbia per non poterla nemmeno
toccare. – Bene, allora, Marco, – seguitò. – Ma ora dovete fare la nanna,
oppure non parlare piú, né fare molti gesti. Le ferite sono fresche. Ricordate
che le ferite sono ancora fresche.
– Avete detto i precetti d’ogni buona infermiera, – dissi. – Ma voi siete
veramente infermiera?
– Non–do–ve–te–piú–parla–re, ecco, – disse la donna con tono perentorio.
– E va bene. Ma parlate voi, parlatemi di voi o di chi vi pare. Però ditemi
qualche cosa.
Guardavo il viso e il corpo dell’infermiera. Anche negli ospedali si
trovano belle donne, pensavo. Anna Toffoli raccontava la sua storia
d’infermiera. Diceva di essere infermiera da circa un anno, senza aver chiesto
mai un giorno di licenza. Le piaceva stare attorno ai suoi ammalati che, in un
anno, furono molti, molti, e tutti ragazzi che venivano dalla zona
d’operazione. Ma ogni tanto diceva una frase che suonava male. Diceva:
«Quand’ero giovane». Io non capivo perché la pronunciasse con quell’aria di
stanchezza nella voce. Ma provavo piacere a sentirmela vicino e premurosa.
Anna aveva inflessioni materne. Parlava adagio, senza sforzo. Ma dopo un
poco non la seguii piú. Mi chiedevo la ragione perché s’era arruolata. Io
pensavo che una donna come lei deve infischiarsene della guerra. Una donna
come lei deve andare a spasso coi giovanotti anziché pensare alla guerra.
«Anche lei vuol contribuire alla vittoria. Ma è strano come le donne
italiane sentano la necessità di contribuire alla vittoria. Forse è la vicinanza
delle donne tedesche che le cambia. Ma anche le donne belle sentono la
necessità di contribuire alla vittoria?»
Pian piano chiusi gli occhi perché il sonno mi prendeva come se mi
trovassi in volo, e la voce dell’infermiera diventava un filo sottile dal quale
non volevo staccarmi. Poi vidi il medico entrare, venire a tastarmi il polso.
– Non ha piú febbre, – disse la donna, alzandosi.
Il medico era un vecchio. Disse all’infermiera:
– Ha bisogno d’essere guardato a vista. E non deve stancarsi, perché c’è
sempre pericolo delle emorragie.
Poi il medico vecchio se ne andò, ballando nel suo camice come in una
nuvoletta di nebbia bianca. Ne venne un altro, giovane, con i baffi biondi e
folti fin sugli angoli della bocca. Egli sorrideva. A un tratto afferrò il braccio
dell’infermiera e lei si liberò con uno scatto. Il dottore coi baffi rise e ritentò
di afferrarle il braccio. Ma il sonno non mi fece piú vedere; era pesante sugli
occhi. È terribile il sonno. Ora ch’ero malato mi tradiva come quand’ero
bambino.
XVII.

Anna Toffoli, l’infermiera, con voce cantante leggeva un racconto di Lord


Byron. Dalla finestra entrava il sole, e anche le pareti della stanza
sembravano animate e non piú nude con il sole. Torno torno il letto ora
avevano messo una zanzariera, e a me pareva di stare in una scatola.
L’infermiera leggeva le vicende di Lara: «…Il giorno inalba sui monti e
sui torrenti, sulle corazze infrante e sulle teste senza elmi; il destriero senza
padrone si abbatte sul terreno, spezzando, nell’ultima convulsione, la cinghia
sanguinosa; vicino, ancora fremente della vita che gli rimane, è il tallone che
lo premeva, e la mano che ne reggeva le redini; alcuni giacciono troppo vicini
a quel fiume che scorre, le cui acque si fan gioco delle labbra dei morenti…»
Qualcuno picchiò alla porta. Quasi immediatamente entrò il capitano
Mattei, accompagnato dal tenente Michele Lopez, il corrispondente di guerra.
Entrambi gli ufficiali vennero vicino al letto e, prim’ancora di salutarmi, il
capitano restò perplesso davanti agli occhi dell’infermiera.
– Posso uscire, se disturbo, – disse Anna, stringendosi il libro sul petto.
– Macché, vi pare? – disse il capitano sorridendo. – Vi stavo solo
ammirando.
L’infermiera rise brevemente, colorandosi in volto. Allora il capitano
scostò la zanzariera e mi strinse la mano. Non volle sedere. Era venuto
apposta dalla Val Sesia per vedermi e portarmi la notizia della promozione.

quale promozione, capitano

Lui sogghignò.

hai fatto una bella impresa un’impresa che resterà memorabile


perché resterà memorabile
perché tutti gli atti di valore resteranno memorabili
Parlava e metteva fuori il petto.

non so se è stata una bella impresa capitano


tutto ciò che si fa per la grandezza della Patria è sempre una bella impresa
molti partigiani sono morti capitano
venti sono rimasti accoppati nella cantina
oh capitano
ci restavi anche tu…
basta capitano
gli altri sono…

LI AVETE UCCISI CAPITANO

una coda una coda lunga… i lampioni del paese erano spenti luccicavano di
ombre sotto il vento una lunga coda sotto il vento e i fuochi ancora sulla
collina….

– In gamba allora, ragazzo, – aggiunse ridendo il capitano Mattei prima di


andarsene. – Qui c’è il tenente Lopez che vuole sapere com’è andata l’azione.
Spero che possa parlare, vero signorina?
– Sí, ma non può sforzarsi.
– Voi lo curate?
– Uh, uh.
Il capitano la guardò intensamente negli occhi, poi le prese la mano e
gliela baciò.
– Arrivederci, signora, – disse. – E mi raccomando il mio uomo, ma so già
che è capitato in ottime mani.
L’infermiera fece una specie di piroetta in mezzo alla stanza e guardò
ancora la porta dove era sparito il capitano. Io provai una stretta al cuore e
osservai le espressioni mutevoli sul viso della donna.
– È simpatico il vostro comandante, – disse infine Anna.
– Molto simpatico, – echeggiò Lopez. Egli aveva delle verruche sulla
faccia. Anna tornò a sedere e mi prese la mano maternamente. Pareva felice
che scrivessero un articolo sul mio eroismo.
– Dovreste mettere anche lei nell’articolo, tenente, – dissi. – Mi ha
assistito come fossi il suo sposo, tenente. Perché non mettete anche lei
nell’articolo?
Lopez rise coi suoi denti neri. Era pressappoco mio coetaneo, ma appariva
molto piú timido. Però la divisa gli permetteva di assumere un’aria insolente.
Lui la scambiava per spirito brillante, probabilmente.
– Sicuro, – disse. – Ma la signorina merita un «pezzo» a parte. Lo
scriverò, diamine! Sempre se la signorina mi permette di tornare a farle visita.
– Non badategli, tenente, – disse Anna. – Il mio ammalato oggi ha sciolto
la lingua, ma io non merito nessun articolo, non ho fatto nulla di eccezionale.
Il corrispondente si dimenò sulla sedia, accavallando le gambe. Aveva
incominciato a scrivere su d’un taccuino rosso. Io gli dicevo che avevo paura
stando in mezzo ai ribelli dell’osteria, e lui scriveva dimenando la testa,
vivamente compiaciuto.
– Sei modesto, – disse.
Poi raccontai come incominciammo a sparare e come il giovane col
cappuccio aveva riconosciuto il tenente Prezioso e quindi, immediatamente,
gli aveva scaricato tutto il caricatore del mitra addosso.
– Bello, magnifico! – esclamò il corrispondente, scrivendo furiosamente.
– Ma i ribelli non ebbero proprio nessun sospetto? – domandò.
– Il bassotto non credo, era molto cerimonioso. Solo un giovanotto
spiritato domandò al conte se io ero veramente inglese, e il conte gli rispose
con indifferenza che mi chiamavo Roy Warren, oriundo americano e studente
d’ingegneria a Liverpool.
– Che fantasia! – esclamò il corrispondente, soddisfatto.
– Del conte mi è dispiaciuto perché l’hanno freddato proprio sulla porta
dell’osteria, e ci sapeva fare quello. Poi c’era l’oste a non essere convinto
delle nostre personalità, perché ci guardava con sospetto, e il tenente Prezioso
tormentava sempre il mitra perché voleva dargli una scarica.
– Fantastico, proprio fantastico!
Lopez aveva riempito molti fogli, e io ero già stanco e non mi andava piú
di parlare. Anna mi teneva sempre la mano guardandomi affettuosamente, e
io le ricambiavo lo sguardo fiducioso. Piano piano mi fasciava l’anima una
specie di beatitudine, ed ero felice di avere quella donna vicino a me.
– Verrà fuori il miglior servizio della mia carriera, – disse il
corrispondente. – E poi? Com’è che ti sei trascinato dietro la casa?
Il tenente era contento. Ma io parlai ancora un poco, poi dissi che non
ricordavo piú niente e che ero stanco di parlare. Allora l’infermiera disse:
– Ora basta, tenente. Ha parlato piú del necessario.
– Scriverò il miglior servizio della mia carriera. Lo manderò alla
«Stampa». E poi ci terrò su anche una chiacchierata a Radio Fante. In gamba,
ragazzo. Te la sei meritata la medaglia.
Il corrispondente Michele Lopez se ne andò, promettendo di tornare per
scrivere l’articolo sull’infermiera.
– Lui vuol tornare perché gli piacete voi, Anna, – dissi alla donna.
– Ssss! Zitto là! – disse lei. – Ora starete buono buono e io leggerò ancora
le vicende di Lara.
– Un’altra volta, ora no, – dissi.
Anna mise il libro sul comodino, vicino al bicchiere del latte, e mi rincalzò
le coperte. Avevo desiderio di stringerla e di baciarla ogniqualvolta si chinava
sulla mia faccia. Mi sentivo dentro un languore come di tenerezza, e volevo
piangere perché ero incapace di dirle che mi stavo innamorando di lei.
XVIII.

Da qualche tempo non pensavo piú a Giulia. Mi dicevo che l’amore di


Giulia era stato una cosa imperfetta, da principianti, e che non era vero amore
perché i sensi avevano il sopravvento sui sentimenti. Cionondimeno io non
m’accorgevo che, volendomi sbarazzare del ricordo di Giulia convincendo
me stesso della falsità e imperfezione del suo amore, segretamente preparavo
una via del tutto libera all’amore di Anna Toffoli, che già sentivo nella mia
aria come sentimento e come carne.
Ma adesso non mi prendeva piú la frenesia del sesso come avveniva con
Giulia, e forse dentro mi stava nascendo un amore piú puro. Un giorno
afferrai la mano di Anna e la portai alle labbra. Lei sorrise.
– Sei un bambino che fa molti capricci, – disse.
– Con te sarebbe difficile trovare solo il capriccio, – dissi. – Penso che un
uomo dovrebbe essere sufficientemente felice a starti vicino.
– Paroloni, via.
– Tu non ami nessuno?
– È difficile amare veramente, – la donna disse con gravità. – A volte ci si
domanda se esiste l’amore.
– Pensi a «quand’eri giovane»?
– Va bene, burlati pure di me e delle mie sciocchezze, – disse lei
sorridendo, ma ormai quel ricordo le aveva fatto perdere l’allegria.
Anna riceveva rare lettere da «qualcuno». Le sbirciava appena quando
stava con me, poi le nascondeva nel petto. Io non riuscivo a sapere se quelle
erano le lettere del suo amore. Tuttavia Anna era sempre molto calma e
riflessiva. Quel dottor giovane le faceva una corte non tanto discreta, ma lei si
mascherava sempre.
– E amalo, – dissi una volta. – Non ti sei accorta che ti vuole, ed è una
vera pena vedere come diventa buffo?
– Tu non puoi capire, – lei disse.
– Se capisco! Stai diventando un fossile inutile intorno a uomini storpi che
hanno solo desiderio di scoppiare, giacché non possono ottenere piú nulla
dalla bellezza. Noi siamo dei miserabili sfuggiti al massacro della guerra per
merito delle nostre ferite. Noi siamo dei rottami. Ma tu che ci stai a fare qui?
– Non puoi capire che c’è gioia e amore anche curando gli infermi?
– E allora graffiati il viso, mettici su una maschera di bruttezza, e non far
capire che la vita, noi, la dobbiamo sentire solo come rimpianto.
– Ti prego, Marco! Non farmi piú questi discorsi. Anche voi potrete
chiedere e potrete ottenere.
– Io sarò zoppo o deforme o impotente, non lo so. Ma la guerra mi lascerà
la sua unghiata. Se voglio chiedere a te non posso farlo. Se m’innamoro di te
anziché provare gioia mi creo una complicazione. Io dico che era forse
meglio se restavo accoppato col conte e gli altri.
– Povero caro! Ma non sarà cosí, vedrai. Sei tanto giovane! – disse
rattristata la donna.
Per ripagarmi della sfiducia che avevo espresso, e forse per dirmi che non
era vero ciò che pensavo, si lasciò accarezzare la spalla e poi il collo e i
capelli biondi. Mi guardava dolcemente e gli incavi delle guance le si
coprivano d’ombra, come se fosse diventata piú magra e soffrisse d’un male
segreto.
A rompere l’inquieta malinconia venuta a pesare nella nostra stanza,
venne un gruppo di amici a trovarmi. C’erano il sergente Elia, il postino,
Garrone, Pasquini e Berlina, il soldato che non parlava mai.
– Salute, eroe! – gridò Elia sventagliando il giornale. – Eh, speriamo
almeno che si possa parlare in questa bettola che puzza di medicinali.
Ma non appena vide l’infermiera mutò il tono poco pulito delle parole e
disse mortificato:
– Chiedo mille scuse, signorina –. S’inchinò fino al pavimento.
– Vi lascio soli, – disse Anna, ricambiando i saluti.
– Avrete da dirvi un sacco di cose, voi.
– Oh, per noi potete restare, – disse il postino, eccessivamente cortese.
Poi, rivolto agli altri: – È vero che la signorina può restare? – chiese.
– Perbacco, sicuro. Abbiamo portato delle bottiglie e… certo, vorremmo
che beveste con noi, signorina, – disse il sergente Elia.
Chissà perché quando parlava con le donne Elia diventava goffo.
– Vi ringrazio, ma tornerò presto, – disse Anna. – Tanto, ora ci siete voi a
tener compagnia all’ammalato.
La donna uscí seguita dagli sguardi ammirati di quei cretini.
– All’anima che donna! – disse Pasquini. – E questa sarebbe la tua
infermiera?
– Uh, uh, – io feci, e avevo voglia di mettermi a ridere.
– Ma assomiglia a qualche attrice americana, – disse Garrone. – Aspetta
che mi ricordi il nome. Ecco, assomiglia un poco alla Hepburn. È vero che
assomiglia un poco alla Hepburn?
– E chi la conosce la Chebburn? – disse Pasquini.
– Ma non ha importanza, è sempre una bella donna.
– Ed è importante che lui abbia rifatto la cera, – disse il postino. In quella
luce il suo collo grasso appariva sudato. Seguitò: – Chiedo a voi se non ha
rifatto una buona cera. Per lui la guerra è finita, ormai. E si porterà a casa la
medaglia.
– Lascia andare quelle patacche, – dissi. – Le danno a tutti.
– E ora, – disse il sergente Elia spiegando il giornale, – e ora noi saremmo
anche colleghi. Che fessi… ti fanno sergente e ti danno una medaglia per una
cosa da quattro soldi. Io ho preso i galloni a Bir-el-Gobi, ed era diverso là, te
l’assicuro. Però sentite questo Lopez che poema ha scritto.
Incominciò a leggere, ma lo interruppero.
– Un momento, sergente, – disse il postino. – Prima bisogna stappare la
bottiglia alla salute di chi è vivo. I morti ci restano dentro, ma per loro non si
può piú brindare. Allora dobbiamo bere alla salute di chi è vivo.
– Benissimo, stappa la bottiglia. E beviamo alla salute di chi è vivo, –
disse Garrone. – Domani forse toccherà a noi di andarcene, e chi resta
seguiterà a brindare alla salute di chi è vivo.
Pasquini allora mi venne vicino e mi tese la mano.
– Be’, Marco, ora che ti ho visto me ne vado, – disse.
– E lascialo andare. Lui non beve perché gli fa nausea. È astemio, ha detto.
Che significa essere astemio? – disse Bruno con voce caricata.
– Fosse tornato anche Romoletto allora sí che avremmo bevuto fino a
domani mattina! – disse Pasquini. – Ora non so nemmeno cosa debbo
scrivere alla sua donna.
– E dàgli con le malinconie! – disse Garrone. – Lo sai che il camerata
Berti è in Paradiso, pace all’anima sua! Ci andremo anche noi, stanne certo. E
allora che bisogno c’è di fare i piagnoni per uno che è andato a stare meglio
di noi?
– Sta in Paradiso, ma non posso bere, – disse Pasquini. – Non posso bere
proprio perché sta in Paradiso e non sulla terra.
– Sulla terra, sulla terra… – disse Garrone.
Allora Elia prese Garrone per il bavero e gli disse nobilmente, toccandosi
appena la barba:
– Garrone, non è mai bello il cinismo. Il camerata Pasquini ha le sue
ragioni particolari per essere malinconico. Dico, se fosse morto questo salame
qui, che ora fa l’eroe sui giornali e lo promuovono anche sergente, credete
che non mi sarebbe scappata nessuna lacrima?
– Una furtiva lacrima, – disse il postino ironico.
Pasquini se ne andò. Elia ruppe il collo della bottiglia sul davanzale della
finestra:
– È rum! – disse. – E noi brindiamo alla fine di tutte le porcherie di guerra.
– A te strapperanno la barba, i ribelli, se ti pizzicano, – disse ridendo il
postino.
– Abbasso la guerra civile! – disse Elia. – Basta con questa schifezza di
ribelli e di fascisti. Noi siamo fascisti e va bene, anzi va benissimo, ma siamo
anche uomini fatti di sangue e ossa. E perciò basta con la guerra civile.
– Meno male che andiamo a vedere le facce cioccolatte dei nipoti di zio
Tom, – disse il postino.
– Evviva noi! – gridò Berlina. Tutti quanti ci voltammo a guardare il
soldato che non si metteva mai in evidenza, cosí ci ricordammo che anche lui
viveva. – Evviva noi! – egli ripeté.
– Bene, evviva noi! – ammise Garrone.
– Chi pensate che vincerà la guerra? – domandai.
– Gli Americani, – disse subito Elia. – E sulle montagne i partigiani.
– Hai voglia di fare il buffone, sergente? – disse Garrone.
– Be’, ragazzi, – fece Elia – io la penso cosí, ma a conti fatti. Noi siamo
belli che fregati. La guerra l’abbiamo persa da circa un anno. Non ci
decidiamo a riconoscerlo perché siamo noi stessi a portarla avanti questa
schifezza.
– Tu vuoi fare proprio il buffone, sergente, – disse quasi con ira Garrone.
– La guerra la vinceremo noi. E allora perché si crepa tanto?
– Perché ci siamo troppi uomini sulla faccia della terra, – disse Elia. – È
necessaria un po’ di decimazione.
Poi Elia rise:
– Perché fate quei brutti musi? Via, brindiamo alla fine della guerra, alla
nostra vittoria, alla nostra morte prossima. Facciamo qualcosa, camerati.
Garrone si rischiarò. Alzò la bottiglia e gridò per tutti:
– Vincere e vinceremo!
Cominciammo a bere usando il bicchiere del latte. Stapparono ancora due
bottiglie. Gli amici si erano seduti sul pavimento e si dondolavano tenendo le
mani abbracciate alle ginocchia. Dovevano partire per il fronte, perciò erano
piú contenti. Cominciarono a cantare sottovoce la Canzone del Legionario. Io
ricordai il primo giorno in Val Sesia e quella canzone. Eravamo a Varallo e il
cappellano diceva la messa nella cattedrale. Qualcuno mi spinse per le
scalette dell’organo e io dicevo: «Lo facevo in collegio, ora è passato tanto
tempo!». Ma quello mi depositò davanti all’organo e le dita non volevano
muoversi. E intanto io ripetevo: «Senti, lo facevo in collegio e allora potevo
suonare anche Perosi. Ma ora come faccio…» Poi le dita si svegliarono, ed
era magnifico risuonare l’organo dopo tanto tempo e sentire le voci dei
soldati che salivano al cielo insieme all’incenso. Era una gioia che si ripeteva.
Intorno a me stavano tre gruppi di ragazzi vestiti con le tonache e avevano
facce d’angeli e cantando guardavano il cielo. Da una parte stava don Teofilo
con le braccia aperte, ed era lungo don Teofilo e tutto nero, e sotto c’era la
gente che stipava la chiesa e l’incenso mascherava i santi del soffitto. E
adesso, in Val Sesia, suonavo ancora e mi pareva che non ci fosse nulla di
cambiato nei canti e negli uomini che cantavano. Ma mezz’ora dopo, quei
soldati che cantavano cosí bene nella chiesa, andarono in montagna e
impiccarono degli uomini. E poi quando tornarono ripresero a cantare la
stessa canzone. Perciò gridai improvvisamente, irritato:
– Basta con questa canzone. Ce ne sono di piú belle.
– Ma questa è molto bella, – disse Garrone. – E poi è la nostra canzone.
– E che m’importa che è la nostra canzone? Non è obbligatorio cantarla
sempre, solo perché l’hanno scritta per noi. Io dico che ci sono canzoni piú
belle, di quelle che non parlano di guerra. E questa, poi, porta scalogna.
– Bene, ci sono canzoni piú belle, – ammise Elia.
– Allora niente canzoni di soldati? – disse il postino.
Cantarono altre canzoni. Si passavano la bottiglia e bevevano, e il rum li
aveva bastonati in testa. Anch’io mi abbandonai e presi a bere, e il rum mi
aveva bastonato in testa come loro.
– Allora beviamo un altro goccio? – disse infine Elia. – Se vuoi guarire
devi bere un altro goccio, caro salame.
– Lui lo guarisce l’infermiera, – sogghignò il postino.
– Ach! Non è capace di fumarsela, – Elia disse, scettico, ma era quasi
sbronzo. – Non è esperto nelle cose d’amore, ed è capace solo di farsi
impallinare e poi essere messo sui giornali.
Stettero ancora del tempo a dondolarsi davanti al crepuscolo. Poi si
alzarono per andarsene. Buttarono le bottiglie vuote nel giardino ed erano
buffi con tutta quella giovinezza addosso, camminando come gli uomini che
sono vecchi e non sanno piú divertirsi.
XIX.

L’estate era venuta in ritardo, quasi che avesse avuto paura di scoprire i
morti sulle montagne. L’aria era grassa verso sera e un po’ nera. Mi veniva
voglia di correre e liberarmi del pigiama, ma le grucce mi tenevano
inchiodato al pezzo d’erba che dovevo conquistare con passi di lumaca. Per la
prima volta, nella mia vita, mi trovavo con le grucce sotto le ascelle, e a esse
mi abbracciavo come a due alberi. Il sudore mi ricamava perle salate sulla
fronte, e queste poi scendevano correndo sulla barba tenera e si fermavano
agli angoli della bocca. Tiravo fuori la lingua – una lingua, pastosa come
cioccolata – e bevevo il bagnato per sentirmelo cuocere in bocca.
Guardavo il cielo verso sud. Era tenero da potersi stracciare. Mi fermavo
stanchissimo in mezzo al giardino, dopo aver percorso pochi metri a stento, e
guardavo il cielo con una specie di disperazione appollaiato sulle grucce, la
testa rincagnata nelle spalle appuntite. Lo sforzo di camminare era enorme e
mi procurava dolore, ma era piú doloroso pensare. Appena raggiungevo la
panchina in mezzo agli alberi mi ci abbandonavo lentamente, mentre il cuore
non mi reggeva piú per l’affanno. Stendevo le gambe. Avevo paura di
osservarmele, tuttavia i lunghi pantaloni del pigiama disegnavano la loro
linea e, a guardare cosí il loro corso non era nulla. Però sapevo che la gamba
sinistra era piú secca e non aveva quasi piú polpaccio. Sembrava uno stecco,
ma avrei voluto osservarmi nudo davanti a uno specchio. Il dottore vecchio
mi disse che non sarei rimasto zoppo, però la carne al polpaccio non sarebbe
piú ricresciuta, e una brutta cucitura violetta avrebbe indicato l’osso, e a
stendere la gamba a letto avrei sentito in quel posto il vuoto.
Quando l’infermiera era da qualche parte e momentaneamente non mi
sorvegliava, lanciavo gridi che non trovavano parole corrispondenti, perché la
convalescenza del ferito è disperata. È come mettersi a letto con tutte le ossa
a posto e poi svegliarsi, al mattino, mutilato in una parte del corpo.
Alcuni feriti erano ciechi e domandavano:
– Oggi com’è il cielo?
Se c’era il sole i ciechi lo sentivano battere contro le porte chiuse dei loro
occhi, e io, invece, spalancavo gli occhi piú che potevo e lo guardavo, il sole.
I ciechi poi si rosolavano, abbracciati come mummie agli alberi, oppure si
chinavano a toccar l’erba.
– È verde! – dicevano, e i loro polpastrelli non ancora avvezzi provavano
una sofferenza nuova in quel continuo cercar di riconoscere l’oggetto, e
indovinarne persino il colore.
Altri compagni erano monchi di braccia o di gambe. Arrancavano come
forsennati. Allora avrei voluto salire su d’un albero per gridare a tutta quella
turba di uomini mollicci e stanchi, principianti nei movimenti come i
bambini:
– Idioti, siamo tutti degli idioti! È la Patria che ci ha ridotti cosí, la Patria
ci ha uccisi, ci ha atterrati come rettili.
Anna si spaventava. Mi diceva:
– Per carità, Marco. Sta’ zitto! Non diventar pazzo.
– E che debbo fare?
– Ci vuole rassegnazione, Marco. Un po’ di cristiana rassegnazione.
Allora la prendevo per le braccia, gliele stringevo forte. La guardavo
fissamente negli occhi, e il mio odio per lei avrebbe voluto distruggere il suo
fisico armonioso, pieno di vita. Poi abbandonavo la stretta, perché le facevo
molto male, ed era come se crollassi davanti ai suoi occhi devoti, alla sua
docile passività.
«Dio» mi dicevo «ma non potevi uccidermi insieme al conte, a Berti e a
quell’altro e a quegli altri che mi hanno messo davanti come nemici?»
Anna mi accompagnava nelle passeggiate e mi trattava amorevolmente e
con sottomissione come se fossi un bambino prepotente. A volte le dicevo:
– Fammi poggiare la testa su di te.
Allora Anna mi frugava il petto e i capelli come un tempo faceva Giulia, e
diceva con tristezza:
– Sei un bambino, sei proprio un bambino. Avanti, metti la testa giú e non
fare i capricci proprio come fanno i bambini.
– Raccontami delle storie, – le dicevo.
Aveva qualcosa della passività di Giulia. Ma mi spaventava la sua
maturità, la sua materna saggezza. Soltanto la notte, ora che ero rimasto solo,
avevo il coraggio di sognarmela al mio fianco. E talune volte mi veniva una
voglia irrefrenabile di piangere sul suo petto, e dirle la mia infelicità d’essere
storpio a diciannove anni, ed essere molto solo in mezzo a una guerra che non
capivo.
Avevo voglia di dirle che avevo bisogno di lei per il mio cuore vuoto.
Avevo un cuore vuoto e amaro e bambino. (Chissà, poi, perché l’ammalato
adulto si debba sentire molto prossimo al bambino.) Ma non piangevo mai, e
non le dicevo niente di tutto quello che mi passava per la testa. Almeno mi
avesse capito in quei momenti disperati! Mi avesse lisciato il volto con le sue
mani di medico, fini e dolci! Anna restava rigida e assente, come se la mia
testa, sul suo petto, ci dovesse stare per un dovere che rientrava nel suo
servizio d’infermiera. «E allora perché non te ne vai e mi lasci disperato
come i ciechi?» Cosí volevo gridarle.
Mi raccontava delle storie. Una volta mi disse d’una ragazza bella, ma
timida, che odiava l’amore. Aveva degli assurdi preconcetti sull’amore, e
diceva che l’amore sporca. Però la ossessionavano gli uomini. A volte sentiva
una voglia prepotente di offrirsi a tutti loro, ma poi avrebbe voluto uccidere
tutti quegli uomini ai quali si era data. Quando però stava lí lí per commettere
la «sciocchezza» con gli uomini, la prendeva una improvvisa paura e le
saltava davanti agli occhi lo sporco. Gli uomini, diceva la ragazza, sono
sudici. Ma un giorno si diede a un autista di piazza, e poi ad altri uomini, ora
che aveva incominciato. La strozzò un ubriaco.
– Era una scema, – dissi quando Anna ebbe finito di raccontare.
La donna sorrise misteriosamente.
– Senti, perché non ricambi il bacio, se ti bacio? – dissi.
Ero stupido. Lei restava rigida, come inanimata, e io non osavo baciarla.
«Questa qui, ma che razza di donna è questa qui?» mi chiedevo. «Se le
strappo le vesti questa qui si lascerà fare senza muoversi, come fosse una
statua.» Mi irritava la sua freddezza.
Un giorno che eravamo soli nel parco dell’ospedale e nessuno dei due
aveva ancora parlato, presi la donna fra le braccia e la baciai. Lei non rispose
al bacio, ma ebbe un lungo fremito. Poi, alzando gli occhi stupito, incontrai
quelli dell’infermiera fissi sul mio volto, immobili e profondi come stagni.
Dovetti girarmi a guardare altrove, perché come lei alcune volte mi fissava
mia madre. Poi mi prese uno scatto d’ira. Incollai la mia bocca sulla sua e con
la lingua feci forza perché aprisse i denti. «E bacia!» volevo gridarle. «Che
male c’è se baci?» Allora piano piano anche la sua bocca si aprí; incontrai la
sua lingua sul principio del palato. Dalla finestra dell’ospedale s’affacciò
un’altra infermiera, la Cilla, la quale gridò:
– Ehi, voi! Vi divertite tanto?
Allora Anna, come se fosse stata eccitata da quella voce, ricambiò il bacio
e m’afferrò forte alle spalle. Continuò tanto che a poco alla volta cominciò a
mancarmi il respiro.
– Mamma mia! – dissi quando si staccò di colpo.
Era tutta sbiancata. Aveva ancora delle macchie brune tra le labbra e il
mento, e aspirava forte con le narici.
– L’hai voluto tu, – disse infine. – Io ho fatto il possibile, ora non dipende
piú da me.
– Anna! – esclamai allora. – Sospettavo che…
– Sei un idiota! – lei disse irritata. – Credevi che non me ne fossi accorta?
Ma io non sono di legno; ho resistito, ho fatto il possibile, ma tu mi diventavi
pazzo. Non capisci che sono donna anch’io?
– Dio, Anna…! Non avevo capito niente. Ma sono pazzo perché ti amo.
Credevo di non poterti avere mai, perciò mi eccitavo e diventavo impaziente.
Ma tu perché non volevi?
– Sono piú vecchia di te di almeno dieci anni, – disse. – E ho un figlio
grande. Ho paura che tutto sia uno scherzo.
– Ti amo molto, non ho mai amato cosí, non ho mai detto di amare cosí,
nemmeno a Giulia. Ora è come se mi fossi liberato d’una montagna.
Passammo il tempo a sbaciucchiarci. Anna era esperta. Frugandomi con la
mano sul petto, al di sopra delle fasciature, mi strappava brividi secchi. Dopo
un poco prese a dolermi la ferita. Avevo paura di svenire, ma non volevo
dirlo a lei, perché sentivo distintamente che Anna avrebbe voluto essere
amata da un uomo forte. Invece ero convalescente, un uomo ancor debole, e
potevo svenirle addosso da un momento all’altro, e cosí distruggere tutto
quanto avevo creato da lungo tempo. Baciandola, adesso, la mia bocca non
faceva piú presa, e temevo che la ferita scoppiasse a fiottare sangue. Divenni
pallidissimo.
– Mio Dio, Marco! – lei disse spaventata. – Ti senti male?
– No, non è niente. Sto bene, Anna, e vorrei che tu mi amassi sempre.
Anna si fece dura, poi mi lasciai portare sorretto da lei. Credevo di non
farcela a salire le scale dell’ospedale; avevo sempre un male tremendo alla
ferita e trattenevo il fiato per non ansimare troppo. Ma le scale mi parevano
troppo ripide e lunghe. A metà dello scalone mi abbandonai senza piú forza
nelle braccia della donna.
– Portatemi aiuto! Venite ad aiutarmi! – gridò Anna spaventata.
Vennero delle infermiere. Mi sollevarono, mi portarono nella mia camera,
mi misero a letto. Venne il dottor giovane.
– Forse gli si è aperta la ferita, – disse Anna, angosciata.
Il dottor giovane fece sí con la testa e cominciò a sfasciare. Quand’ebbe
finito diede uno strappo piú forte, e allora svenni per il dolore.
XX.

Ancora lunghi giorni di letto. Odiavo l’immobilità e le lenzuola che mi si


appiccicavano addosso per il gran caldo. Anna non si perdonava la
«sciocchezza» e io avevo paura del suo nervosismo. Ora non mi permetteva
nessun movimento.
– Eri in via di guarigione, capisci? – diceva con amarezza.
– Avevo troppa fiducia nelle mie forze, – le rispondevo. – Ora pensi di me
che non valgo nulla. Sono svenuto come un cretino.
– Sta’ zitto, ora! Non ricominciare.
Non mi permetteva nessun movimento che potesse turbarmi. Era accorta e
severa. Le prime due notti, dopo lo svenimento, le aveva passate accanto al
letto come quando ero arrivato all’ospedale. Ma tornata calma si lasciava
appena sfiorare il viso e i capelli e mi dava baci casti sulla fronte. Le lettere
che sbirciava e poi riponeva nel seno erano di suo figlio, ma non mi
permettevo di chiederle chi fosse il padre di Franco. Un giorno che tentai di
chiederglielo Anna s’irrigidí. Disse:
– Il padre è morto molti anni fa e Franco non l’ha conosciuto.
La solita ombra nera scese sulla sua fronte e le palpebre le si
appesantirono. Cosí non le domandai piú nulla della sua vita passata. Ma era
lei che, a volte, mi diceva:
– Ha scritto Franco, cresce come un bue, e vuole che gli comperi i pattini.
Mi fece vedere la fotografia di Franco. Era un moretto bruttino, con due
occhi profondi come quelli della madre. Aveva tredici anni.
– È molto bello il nostro Franchino, – dissi allora. Anna mi sorrise con
riconoscenza, e mi passò la sua mano bianca sui capelli.
– Adesso ne ho due, di bambini, – disse.
Ricevevo qualche lettera dal sergente Elia. Mi raccontava come passava la
sua vita al fronte. Diceva: «Un fronte da operetta, mio caro, perché non esiste
e non si sente nemmeno il cannone. Noi siamo buttati nella campagna
marchigiana come al pascolo di funghi. È veramente un fronte da ridere, e
cacciamo ancora ribelli per queste montagne al di là del fiume Foglia, perché
i nostri Superiori Comandi non ci vogliono far perdere l’antica malattia». Il
resto era cassato in nero dalla censura.
Io desideravo amare Anna con ferocia, ma la sua maternità, la sua
riflessiva saggezza m’intorpidivano. Diventavo molle, sentivo che qualcosa
di brusco che avevo in me si decomponeva ogni giorno che passava. Ma
giorno per giorno riconquistavo la vita; non era la vita d’un tempo, quella che
io avevo intensamente amato. Qualcosa s’era rotto definitivamente, e anche
gli anni mi pesavano. Non erano piú diciannove anni, ma anni senza età che
mi succhiavano le energie, e mi pareva che mi mancasse il tempo. A volte mi
sorprendevo a pensare. Dicevo: «Forse tutti noi di questa epoca siamo carne
bruciata. Riflettere ci uccide, e abbiamo poca gioia e molta infelicità nel
cuore che ci duole. Senza dubbio siamo malati, ma la malattia non è nostra,
non ci appartiene, e forse ce l’ha trasmessa una antichità malata. E cosí noi
non sappiamo guardare nella nostra stanchezza, né sappiamo darle un nome».
«Ora, con questo nostro male, volevano rimpastare le nostre coscienze, e
ci hanno vestiti di stracci. Hanno raccolta la polvere antica e ce l’hanno
buttata addosso, e di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempita la
bocca di canti e ci hanno detto di andare. Andare! Ma andare dove? Non
abbiamo mai saputo dove dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, a
morire massacrati, tutti insieme.»
Anna non capiva questi discorsi. Ascoltava pensosa, ma nemmeno lei
aveva costanza di pensare, e forse stando cosí in ascolto era un modo di
dormire per lei, era un letargo senza memoria.
Avevamo ripreso le nostre passeggiate nei viali del parco, e mi sforzavo di
non vedere gli altri ammalati per non vedermi, benché avessi abbandonato le
grucce. Ora pestavo un po’ il piede, ma il dottore vecchio diceva che anche
questa imperfezione se ne sarebbe andata. Avevo lasciato la camera a un
ferito molto grave, e mi avevano accomodato nel letto n. 7 del camerone.
Sarei stato dimesso presto, e anche Anna sarebbe venuta con me in licenza
premio, e saremmo andati a trovare Franco in collegio. Adesso per Franco
ero lo zio Marco, e lui mi inviava sempre molti saluti e diceva di volermi
bene.
Quel giorno io e Anna non udimmo suonare mezzogiorno. Camminando
per i viali cercavo di metterla contro gli alberi. Ma Anna mi sfuggiva e poi
diceva, seria seria:
– Sii buono, caro. Dobbiamo pazientare ancora un poco. Poi andremo via
dall’ospedale… Pensa che andremo via dall’ospedale, ma dobbiamo
pazientare, senza fare imprudenze.
– Mi vuoi bene?
– Ma certamente, caro.
– Dimmi che mi vuoi bene.
– Ti voglio bene.
– Proprio molto?
– Oh, che sciocco! Lo sai bene che ti amo.
– Anch’io ti amo. Ti amo. Tu sei la prima donna che io ami.
Poi ci decidemmo a tornare in corsia perché sentivamo fame. Mentre
salivamo lo scalone ci raggiunsero due borghesi. Passarono svelti senza
guardarci, e in cima alle scale interrogarono una suora. La suora disse ai due
uomini:
– In questa camerata abbiamo soltanto due militi, quasi rimessi ormai.
Quelli in grave stato hanno le camerette.
– Sapete a quale corpo appartengono, sorella? – domandò quello alto,
vestito di nero.
– Il numero 7 è dei battaglioni «M». L’altro è un marinaio di terra, credo.
– Decima Mas, – brontolò l’altro uomo. – Che numero di letto ha, sorella?
– Numero 15, – rispose la suora. – Siete parenti?
– No, sorella, – disse quello alto vestito di nero. – Veniamo da parte del
comando tedesco per vedere le condizioni dei feriti.
– Posso offrirvi la loro cartella clinica, – disse la suora.
I due uomini non l’ascoltarono. Si diressero verso il mio letto. Trovandolo
vuoto cercarono il n. 15. Io e Anna avevamo raggiunto la suora e assistevamo
alle manovre dei due sconosciuti.
– Cercano anche te, – disse Anna – perché non vai a vedere?
– Ora che ripassano, – dissi.
Il numero 15 dormiva. Anche lui era stato ferito in Val Sesia e aspettava di
andare in licenza. I due si avvicinarono al suo letto e quello che vestiva di
nero cavò dalla tasca qualcosa. Mi parve una pistola Beretta calibro 9, ma
seguirono subito gli spari. Quattro in tutto. Il marò rimbalzò sul letto con le
braccia aperte, poi ricadde, e il sangue schizzò contro il muro.
Non c’erano medici in corsia né altra gente in quell’ora di riposo
meridiano; la scena si svolse velocemente, e lasciò molto tempo al panico e
alla perplessità. Alcuni ammalati si buttarono giú dai letti e presero a fuggire
per le corsie, e la suora cadde per terra come un pugno di stracci. Anna mi
teneva sempre stretto, folle di paura, e piangeva disperatamente, con
singhiozzi monchi. Io guardavo come uno stralunato il mio letto vuoto.
Perciò ricorderò sempre: Ospedale di X, letto N. 7.
Dopo la crisi di pianto per Anna seguirono giorni muti. Io avevo sempre
davanti agli occhi la scena del marò che rimbalza sul letto con le braccia
aperte e il sangue gli schizza contro il muro. Una pallottola gli era esplosa
nella tempia. Lo portarono via in un lenzuolo di sacco e poi lavarono il
pavimento e il muro con la pietra pomice. I medici e gli ammalati dicevano
che quei due erano partigiani, ed erano venuti a compiere una vendetta. Ma
nessuno sapeva con esattezza chi fossero. Con la stessa rapidità con cui
spararono si precipitarono per le scale, e presto scomparvero nel parco.
La paura è lunga ad andar via, e io che non sono un eroe la conosco com’è
fatta. Quasi ti paralizza. La pelle frolle, madida d’un sudore appiccicoso mi
durò alcuni giorni, e vanamente parlavo ad Anna per rianimarla, e le dicevo
che bisogna esser forti, e le dicevo tante altre belle parole. Anna mi sentiva
appena, e ogni tanto riprendeva a piangere ripensando alla scena del marò.
Preparò le valige. Era giunta anche la sua licenza dal comando generale. Io
non avevo stracci da infagottare, a eccezione di quella divisa grigio ferro
ancor lorda di sangue. La divisa l’avevano lavata, ma le macchie di sangue
avevano consumato il tessuto, e ora apparivano come macchie di ruggine.
Anna mi procurò un vestito civile, un blu severo, nel quale ballavo come una
stanga.
Lei vestiva la divisa delle ausiliarie con molta disinvoltura. Tenendoci per
mano percorremmo quasi di corsa il parco dell’ospedale, e la Cilla, dalla
solita finestra, sventolava la mano e gridava:
– Ciao, eh? Ciao!
Quella ragazza, dal giorno che ci vide abbracciati, ci canzonava con la
storia dei fiori d’arancio. E diceva: – Qualche volta capita che ammalato e
infermiera si innamorino. Però voi, scusatemi la franchezza, non avete perso
tempo –. Anche la Cilla era stata innamorata d’un soldato ferito, però quello
l’aveva dimenticata non appena dimesso dall’ospedale.
– Arrivederci, arrivederci presto, – la Cilla gridava. – E scrivete, fatemi
sapere quando vi sposate.
L’uscita dall’ospedale mi aveva ridato un colorito di salute, e ad Anna
aveva restituito una grande gaiezza. Aveva sempre voglia di cantare. Nel
crepuscolo mi trascinava contro un venticello che era nato dal tramonto del
sole. Aveva capelli lunghi, color della sansa rossa, che sulle sue spalle
sembravano fili d’angelo. Dalla scollatura le si vedeva la piega del seno, e
tenendola stretta sentivo la sua carne ferma sotto le dita.
Sul treno per Vicenza trovammo miracolosamente due posti in uno
scompartimento di terza. Mi ero seduto in direzione della via da percorrere,
per il piacere di sentirmi trascinare. Però il viaggio mi ricacciò in una
tristezza pericolosa. Mi sentivo la bocca dolciastra come se avessi bevuto
quel brutto rosolio giallo che fanno dalle mie parti.
A una stazione salirono dei soldati allegri, con l’armonica. Si fermarono
nel nostro scompartimento attratti dalla divisa e dalla bellezza di Anna. La
sbirciavano continuamente e non si decidevano ad avvicinarsi, mentre io
sapevo che volevano attaccar discorso. Ma il piú coraggioso si decise
finalmente, e mi domandò:
– Siete ferito di guerra?
– Bombardamenti, – dissi laconicamente, per tagliare. Anna ebbe un moto
di sorpresa.
– Sta’ zitta, – dissi. Anna stette zitta.
– È un brutto affare, – disse quello con l’armonica. – ’Sta guerra non
finisce proprio.
– Andate lontano? – chiesi poi, tanto per dire qualcosa.
– In licenza, dalle ragazze, – disse il terzo soldato. – Sapete, ci siamo
arruolati tutti e tre insieme perché siamo dello stesso paese, e anche le
ragazze ce le siamo procurate insieme.
– La signorina è vostra sorella? – domandò il primo soldato.
– Sí, – rispose Anna, con insolenza. – Siamo fratelli di sangue.
Il soldato fece l’occhietto, ricambiando l’insolenza.
– Siete un’ausiliaria della Patria in armi, una nostra camerata, – disse
quello con l’armonica, con finta serietà, perché aveva voglia di ridere.
– Certamente, – Anna disse, – perché la Patria ha bisogno anche delle
donne.
– E… principalmente di donne belle come voi, – disse il soldato di prima.
– Ohè, Gianni! – disse quello con l’armonica, e ammiccò verso di me.
– Noi si ha voglia di essere allegri, – disse allora Gianni, come per
scusarsi, e il terzo soldato approvò con la testa.
Quello con l’armonica arpeggiò un motivo a tempo di ritmo. Gli altri
approvarono e presero a cantare questa canzone:

Le donne non ci vogliono piú bene


perché portiamo la camicia nera,
ci hanno detto che siamo da galera,
ci hanno detto che siamo da catene…

Anna aveva una voce rotonda e calda; cantava con gli occhi chiusi. I
soldati si dondolavano col treno e avevano fatto un circolo intorno a noi.
Anche i due borghesi che sedevano di fronte sorridevano e dondolavano la
testa. Anna mi diede una scossa leggera:
– Canta anche tu, – disse.
Feci no con la testa. La canzone e l’allegria dei soldati mi rendevano
inquieto. Guardavo fuori del finestrino la notte piena di stelle. Andavo in
licenza di convalescenza ed ero un eroe. Un altro sarebbe stato soddisfatto di
andare in licenza di convalescenza e di essere un eroe. A me dava ai nervi.
Avevo desiderio solamente di arrivare in quel paesetto che aveva scelto
Anna, e passare il mio tempo senza vedere soldati, né divise, né sentire
parlare di guerra.

L’amore coi fascisti non conviene,


meglio un vigliacco che non ha bandiera…

– Ip! Ip! Basta, bisogna ricominciare, – gridò Gianni.


– ’mbè, non andava bene? – disse il terzo soldato.
– Tu sei stonato e fai le papere, – gli disse Gianni.
– Attaccando la strofa seconda bisogna darci piú forza. Cosí, ascoltate:
«l’ammore coi fascisti…» qui breve pausa. Poi forte, con tutto il fiato:…
«non conviene» eccetera eccetera.
Risero anche i borghesi del vagone, i quali ascoltavano con attenzione e
seguivano la mimica del soldato Gianni. Inutile dire che non c’era bisogno di
cantare la seconda strofa con la cadenza che lui diceva. Risi anche io, e Anna
che mi guardava preoccupata ne fu contenta.
– Vedi come sono allegri, – disse. – Si passa il tempo, tesoro.
Dagli altri vagoni vennero ancora soldati. Tutti in coro presero a cantare
canzoni di montagna, e alcuni facevano la controvoce, e ora c’era un po’ di
malinconia nello scompartimento, e ogni tanto il treno fischiava entrando
nelle gallerie, e si sentiva il rumore delle ruote sulle giunture dei binari.
Anna era stata presa dalla malinconia delle canzoni, e la sua voce s’udiva
bassa e distinta fra le voci robuste dei soldati. I soldati guardavano lei e ci
mettevano piú anima nel cantare. Mi venne il sonno e Anna mi prese la testa
sul suo petto. Avrei voluto che non finissero mai quelle canzoni, né quel seno
dolce di Anna.
A una stazione i tre soldati con l’armonica ci salutarono. Dovevano
cambiar treno. Con loro scesero anche i due borghesi dei posti di fronte.
– Tanti auguri, – dissero i soldati ad Anna. – Anche per vostro fratello.
– Auguri a voi, ragazzi, – disse Anna. Ma Gianni le disse, trattenendole la
mano:
– Signorina, dopo tutto me ne sono accorto lo stesso che voi due siete
fidanzati.
Anna rise divertita.
– Sapete, sono pratico, – disse Gianni, facendo l’occhietto. Buttò lo zaino
fuori del finestrino.
Il vagone, adesso, era invaso dalla notte, e la gente dormiva con la testa
sulle spalliere. Anche gli altri soldati si dispersero, ora che non c’era piú
l’armonica. Ne rimase uno, un caporale con gli occhiali, che parlò ancora un
poco con Anna, poi anche lui andò via.
– Non stai bene, caro?
– Non so, – dissi.
– Pensi a casa, allora. Oppure quei soldati di prima non ti sono piaciuti?
– Oh, niente di tutto questo, Anna, – dissi. – Quando mi sento in questo
modo non so bene cosa mi succede. Da noi si dice che siamo nominati. Nello
stesso modo in cui ci viene un singhiozzo o un fischio nell’orecchio, oppure
ci prende questo stato nebbioso che non è né tristezza né malinconia, vuol
dire che siamo nominati. Qualcuno parla di noi e ci ricorda e ci pensa.
Qualche volta credo che sia mia madre a chiamarmi. Mia madre mi chiamerà
inutilmente, perché mi crederà affogato nei fiumi e nessuno le riporterà mai il
mio cadavere.
– Non parlare di morte, – Anna pregò. – Devi ringraziare Dio che ti ha
salvato tante volte, proprio perché non era destino che tu morissi.
– Non so bene chi debbo ringraziare. E non so se nel mio stato presente
valga la pena di ringraziare qualcuno.
– Marco, caro… Non parlare cosí, via! Parli come uno che non crede piú a
niente. Se pensassi un poco che hai tanta vita davanti…
Scoppiai a ridere. Poi ripetei con amarezza le ultime parole della donna.
Ripetei: «Hai tanta vita davanti…»
Dissi:
– Nel mio battaglione ci sono ufficiali di vent’anni e soldati di quindici.
Tutti gli uomini di questa guerra odiosa sono giovani e hanno tanti anni
davanti a loro, anni felici da vivere. La mascotte della mia compagnia ne ha
tredici, di anni, e conosce meglio il mitra che la faccia di sua madre. La
mascotte è nato a Tripoli e i suoi genitori sono là. Il Duce l’ha fatto portare
nei collegi italiani insieme a mille altri ragazzi della sua età, per dargli una
educazione littoria. Ora va ai rastrellamenti e spara contro gli uomini come
fossero cani, e peggio. E tutti cosí gli altri. Ammazzano la gente da cani e
sono ammazzati da cani. Pochi di tutti questi eroi torneranno, e chi torna si
porterà a casa le gambe fracassate e un’inguaribile malattia nello spirito. È un
male, questo, che ci rende vuoti di sentimenti e sempre tristi.
– Marco, tu sei pieno di egoismo, – disse la donna, disgustata.
– Che c’entra l’egoismo?
– Tu pensi alla tua salute e basta. I giovani che tu chiami infelici sono fieri
di servire il Paese, e a loro non importa se riportano a casa le gambe mutilate.
– Oh, vorrei servirlo anch’io il mio Paese, – dissi. – Ma dov’è il mio
Paese? È veramente buffo: noi di quaggiú, i repubblicani, diciamo di essere i
veri figli d’Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l’Italia appartiene
a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi
nella ragione. Chi ci guadagna naturalmente sono gli Alleati che se ne
vengono su piano piano e ci rompono le costole. Io mi domando: se domani
sopravviverò a questa baraonda di odio, per chi debbo dire di aver
combattuto? E forse domani dovrò vergognarmi di aver combattuto, e dovrò
vergognarmi di portare le ferite sul corpo. Se io allora dirò: Ho servito la
Patria, tutti mi guarderanno con occhi sospettosi e vorranno che io mi spieghi
meglio. E io mi spiegherò meglio. Dirò: Ho servito l’Italia fascista. Quelli
allora mi rideranno in faccia oppure mi prenderanno a calci nel sedere, perché
l’Italia fascista è un carnaio di figli di mamma uccisi alle spalle.
– Non sarà cosí, Marco, – disse Anna – perché noi vinceremo, e tu non ti
dovrai vergognare delle tue ferite. Siamo noi che difendiamo la vera Patria. Il
mondo, domani, ce ne renderà merito.
– Quassú, Anna, ho imparato a conoscere una Patria che esige troppo
sangue. Io non amo questa Patria.
– Sta’ zitto, Marco! – lei disse. – Se ti sentono possono arrestarti, e
possono prenderti per un traditore. Tu non devi parlare cosí. Tu hai
combattuto per questa Patria, ora non puoi insultarla.
– E perché no? Io penso che sono venuto quassú cercando la libertà, e
invece ho trovato l’odio. Io, Anna, non amo questa Patria che chiede troppo
sangue e troppo odio. Ed è per questo forse che sono sempre scontento.
Anna cominciò a piangere, poi smise. Io pensai: «È uno sfogo». Guardava
fuori del finestrino la campagna nera e le scintille di fuoco che uscivano dalla
locomotiva. Io non mi ero pentito di ciò che avevo detto, però quelle parole le
avevano fatto molto male. Non volevo che piangesse, perciò le dissi per
calmarla:
– Cerca di non essere piú arrabbiata con me. Io ho dovuto sempre
perdonare e ricevere tanti torti. Tu non mi perdoni ancora?
Anna non rispose; si girò di piú per non essere guardata in viso. Io sapevo
che la collera le stava passando, tuttavia voleva perseverare nel suo mutismo,
per farmi pesare di piú il rimprovero. Ma anche questo atteggiamento era
senza dubbio una forma di civetteria. Le presi la mano, gliela baciai, le
solleticai il palmo. Finalmente Anna sorrise e mi guardò negli occhi.
– Sai che mi piaci sempre? – dissi, guardandola.
– Lascia, ci vede la gente, – lei disse, ancora coi lacrimoni negli occhi, ma
ormai riconquistata completamente.
La baciai ancora. Avevo voglia di non pensare piú a niente. Solo a questa
donna che mi aveva curato volevo pensare, ad Anna il mio amore. Con lei mi
ripromettevo di vivere felice.
XXI.

Dalla stazione di Vicenza il treno per Recoaro partiva ogni mezz’ora.


Anna lo chiamava il trenino della neve, perché era piccolo come una
miniatura e scampanellava per la campagna. Per il macchinista doveva essere
un divertimento attaccarsi alla cordicella della campana e rompere, in questo
modo, l’anima dei passeggeri. Ma scendemmo a Vicenza di notte e, di notte,
il trenino della neve dormiva in qualche stazioncina intermedia coi tetti rossi
e i comignoli puntuti.
Eravamo stanchi e strapazzati, ma Anna che conosceva i luoghi, cercò un
alberghetto vicino alla stazione, l’unico che funzionasse anche di notte.
Suonammo a lungo il campanello, poi, nella porta, si aprí un nottolino e una
luna gialla salí dal nulla, e andò a inquadrarvisi. La luna aveva occhi a cipolla
e una bocca malinconica, contrariata. Soffiò attraverso lo spiraglio:
– È tutto occupato, occupato.
Stava per richiudere, ma Anna infilò dentro la mano e lui tornò a dire, con
una pessima voce di baritono:
– Ho detto che non ho piú camere. In quale musica lo debbo ripetere?
– Vogliamo una camera matrimoniale, – disse Anna. – Se ci aprite forse
potremo intenderci.
La luna rotò gli occhi su noi e sospirò:
– Un momento. Allora siete in due?
La pesante porta s’aprí e un pancione d’uomo, con le brache pendenti, ci
guardò tenendo le mani in tasca. Anna gli fece vedere qualcosa e l’uomo
cavò di tasca la mano pelosa, sfiorò quella di Anna. Chiuse i soldi nel pugno,
ma disse con la solita voce stanca:
– Abbiamo una camera come la cercate voi, venite a mettere le firme. Io
pensavo che fosse una sola persona.
Mettemmo le firme sul registro e il pancione ci diede una chiave. Terzo
piano, niente ascensore, ci saremmo dovuti cercare la camera da soli.
Cominciammo a salire le scale sudice, dai muri neri, appena illuminati da una
luce verde, opaca, che rigettava molte ombre nei vuoti delle finestre.
Finalmente trovammo la nostra camera. Io avevo il fiatone. Mi buttai sul letto
e dissi alla donna:
– Tira fuori quella bottiglia. Ci rinfrescherà.
Anna chiuse bene la porta, depose la valigia nell’armadio e fece una
smorfia disgustata guardandosi in giro. Dietro un paravento c’era il lavabo.
Un altro specchio opaco, dorato, poggiava su di un cavalletto di fronte al
letto.
Anna tornò con la bottiglia e me la buttò fra le mani:
– Non bere troppo, – disse.
E io a lei:
– Sei stanca?
– Cosí.
– Allora questo Varesotto ci vuole, – dissi.
Seduti sul letto ci passavamo la bottiglia. Poi la feci cadere ai piedi del
letto. Il liquore mi girava nel corpo e nella testa. L’allegria inebriò anche
Anna. Poi restammo giú.
Dopo qualche tempo la donna balzò a sedere. Si irrigidí di scatto e
impallidí.
– Qualcuno ci spia! – disse soffiando le parole.
Un brivido lungo mi passò per la schiena e il sangue mi sfuggí dalle
guance. Poi mi guardai intorno e dissi, quasi irritato:
– Non c’è nessuno. Nemmeno i fantasmi.
Anna allora smise di tremare e rise:
– La specchiera! – disse.
– Oh, la specchiera?
Andai a mettere un panno sulla specchiera, quindi tornai a dormire.
Durante la notte mi svegliai, gridando:
– Dove sono? – Anche Anna si svegliò, ma rise. Riprendemmo la
bottiglia.
– Buono. Vero che è buono?
– Eccellente.
– Dammene ancora, Marco. Dammene ancora, – Anna disse.
– Non ti farà male?
– Noo!
– Bevi troppo.
– Oh, noo!
Le passai nuovamente la bottiglia. Anna bevve molto, a lunghi sorsi, con
avidità.
– Quando hai imparato a bere?
– Non parlare, non mi piace quando mi domandi queste cose.
– Va bene, ma bevi troppo.
– Allora vattene! Sono un’ubriacona. Se non ti piaccio vattene!
Anna aveva inarcato le ciglia, mi fulminava con gli occhi, reggendo in
mano la bottiglia quasi vuota. Poi scoppiò a ridere.
– Sono cretina, – disse.
Lasciò cadere la bottiglia sul tappeto. Si coprí bene col lenzuolo e guardò
il soffitto. Prese a canticchiare:
– Mi piace quello, quel fiocco rosso…
– Cos’è?
– Niente.
Si riaddormentò. Un cielo stellato viveva nel riquadro della finestra. Ora
sentivo il suo respiro regolare, e i capelli suoi formavano una macchia lattea
sul cuscino.
Lentamente stesi la mano sotto le lenzuola e la lasciai lí. Pensieri mi
giravano per la testa, confusi ma caldi come fiammate. Poi, di scatto, ritirai la
mano.
– L’amore è sudicio, – dissi.
Mi tornò in mente la storia della ragazza sgozzata dall’ubriaco, quella
storia che Anna mi raccontò nel parco dell’ospedale. Levai la mano da sotto
le lenzuola. Nel buio mi guardai le braccia lunghe. Articolai le dita. Poi
ripresi la bottiglia, allungando il braccio al di sopra della donna che dormiva.
Era quasi vuota, perciò bevvi tutto quello che c’era dentro. Un rivolo di vino
mi sfuggí dall’angolo delle labbra, mi scese sul mento e saltò sui peli del
petto. Nel buio, in alto, agitai la bottiglia. Mi ronzava la testa. Annaspai con
la mano sul muro e infine trovai la peretta. La luce balzò nella camera.
Questa era vuota e bianca, straniera. Quel vuoto e quel bianco della camera
mi creavano nello stomaco una sensazione di freddo. Mi venne voglia di
guardarmi nella specchiera. Saltai giú e tolsi il panno dallo specchio, senza
guardarmi. Adagio, poi, tornai a infilarmi nel letto. La specchiera di fronte, di
tipo rinascimentale, adesso ci rifletteva quasi ritti nel letto, perché era
leggermente obliqua come una lavagna. Rifletteva la testa di Anna sorretta
dal braccio; la sua faccia pallida sembrava ancor piú infossata. Aveva una
testa pesante e grande. Invece la mia, nello specchio, era un pugno bianco nel
quale risaltavano due buchi neri che erano gli occhi. Sembravo un diavolo
con quei capelli in disordine.
Anna si rigirò nel letto, senza svegliarsi. Poi, stanco, spensi nuovamente la
luce e dormii.
Quando il cielo schiarí, e l’alba s’infiltrava nella stanza, Anna si rivestí
alla meglio e andò a chiamare il cameriere perché ci portasse qualcosa da
mangiare. Avevo fame. Venne un ragazzo a portarci dei panini imbottiti. Li
divorammo a letto e poi ci rimettemmo giú a dormire.
Nel tardo pomeriggio prendemmo il trenino della neve.
XXII.

Quando ci stabilimmo a Recoaro, Franco venne a stare una settimana con


noi. Il collegio di Franco si trovava a Schio, in un ottimo parco alberato.
Madre e figlio rare volte stavano vicini, e mai per lungo tempo. Si può dire
che il ragazzo non conoscesse altra esperienza che quella del collegio.
Franco era vivace. A volte, nel corso d’una passeggiata o di un discorso, si
fermava improvvisamente perplesso e chiedeva la spiegazione d’una qualche
cosa che gli era balenata improvvisamente nella testa. Ma si distraeva spesso
dietro le farfalle. Quando riusciva a prenderne una scoppiava in risolini di
gioia. Non erano risi forti, sonori, che denotassero una interna emozione.
Franco rideva fra i denti, il suo risolino era freddo e impaurito. Infatti
tremava vedendo la farfalla che sbatteva l’ala rimastale libera. Alla fine la
farfalla finiva in terra, perché Franco non resisteva a lungo allo svolazzo delle
sue ali, e poi si domandava perché mai la farfalla non riuscisse piú a volare.
Urlava e pestava i piedi come un disperato, e diceva fra i singhiozzi:
– Non l’ho uccisa, non l’ho uccisa!
Con le mani sul sedere come un uomo che riflette, guardava di sottecchi
l’animale che agonizzava. Sembrava afflitto da una grande pena. Infine
faceva dei passi di avvicinamento, girava intorno alla farfalla moribonda, la
osservava meglio. Poi si curvava, la prendeva nuovamente tra le dita,
delicatamente, e le guardava il ventre gonfio. Ma si stancava presto. La
debolezza di Franco era il suo disamore per tutte le cose, il crollo di ogni
interesse. Questa debolezza lo irritava maggiormente, ma non si metteva a
urlare come prima: ora buttava l’animale per terra, lo schiacciava
delicatamente col piede, dalla parte posteriore.
Diceva: – Brutta bestiaccia.
Tuttavia Franco, in alcuni atti ed espressioni della sua intelligenza, era
rimasto meno che bambino. Spesso si sporcava nei pantaloncini; andava dalla
madre con le gambe larghe e diceva:
– Ho fatto la cacca.
Aveva paura di prendersi un castigo. Con infinita pazienza Anna gli
cambiava le mutandine, e lo sgridava. Allora Franco sentiva una gran voglia
di piangere, ma aveva vergogna di scoppiare in lacrime davanti alla madre,
perciò tirava su col naso e brontolava tra i denti:
– Mammina cattiva.
In altre circostanze Franco saltava a cavalluccio delle gambe della madre,
mentre Anna era allungata nella sdraio, in terrazza, e le lisciava il viso.
Io ero lo zio Marco. Il primo giorno in cui facemmo conoscenza, Franco
mi guardò con distanza, perplesso.
– Non saluti lo zio Marco? – gli disse Anna.
Il bambino mi guardava imbambolato, poi venne avanti, mi tese la manina
alla maniera di un uomo e se ne tornò accanto alla madre.
– Fa sempre cosí con le persone che non conosce, – spiegò Anna. Ma
presto il ragazzo ruppe tutta la tranquillità, con una di quelle frasi che
mettono in imbarazzo i grandi. Disse:
– Mamma, ma quanti zii ho io?
La donna arrossí di colpo, guardò sconcertata il bambino, ma presto si
riprese, evitando di guardarmi. Disse come se facesse un rimprovero:
– Sei cattivo, Franco! Quante volte ti ho detto che hai solo lo zio Marco?
Il bambino non parve convinto; guardò me e Anna col dito ficcato in
bocca. Tuttavia, dopo mezz’ora, già eravamo diventati amici.
Avevamo una terrazza molto grande, ampia, con dei rustici tavolini e delle
sedie basse. Anna serviva il tè in terrazza. Mi abituò a prendere il tè. Qualche
volta invitavamo anche Giacomo il giardiniere, che era il padrone della casa.
Il vecchio rimaneva confuso, ma Anna trovava sempre le maniere di non
metterlo in imbarazzo. Il vecchio diceva:
– Voi siete la piú cara signora che io abbia conosciuto.
Anna sorrideva. E Giacomo, per quell’affetto che gli veniva dimostrato, le
portava sempre fiori freschi, oppure veniva la sua figliola Carmela a portarli,
una ragazza di pelle scura, sulla ventina, che doveva sposarsi con uno che
faceva la guerra. Anna mi disse che il fidanzato di Carmela era un partigiano
che lavorava sulle montagne di Valdagno, ma né lei, né la sua famiglia
sapevano che noi eravamo fascisti.
Amavamo stare molto in terrazza. Si vedevano i folti pini delle colline e i
prati di là dal fiume e le colline.
La casa di Giacomo il giardiniere era sulla strada della montagna e aveva
il fiume sotto, stretto e petroso. Anna mi aveva parlato della casa tante altre
volte, ma non avrei mai creduto che si trovasse in posizione cosí bella. Gli
uomini salivano alle abetaie di mattina presto, e le donne attraversavano la
passerella gettata sul fiume con i recipienti della biancheria in capo. Le donne
si mettevano in un posto dove l’acqua era tranquilla e lavavano i panni,
mentre piú giú, in un luogo in cui il fiume formava un’ansa, ragazzi nudi
diguazzavano nell’acqua.
Dalle finestre della nostra casa, in alto, anche stando a letto potevamo
vedere Deledda: era una ragazza coi capelli rossi, e ogni mattina,
svegliandosi, correva davanti alla specchiera ad abbracciarsi il corpo acerbo.
Il sole penetrava nella stanza di Deledda e lei prendeva a cantare Casta Diva.
Camminava nuda per la stanza e faceva buffe riverenze davanti allo specchio.
Con pigrizia si vestiva. A volte annusava la biancheria e poi la infilava. Il
sole, battendo sui suoi capelli rossi si schiacciava, sfuggiva di quarto: i
capelli ne erano incendiati. Poi si faceva il viso. Mentre si cospargeva di
crema seguitava a cantare Casta Diva, soltanto i primi quattro versi, e
ripeteva sempre quelli, con un ritmo che si stracciava. Deledda non aveva
memoria.
La prima volta domandai ad Anna:
– Ce l’ha il ragazzo?
– Penso di sí. Ma non sono ancora arrivati a quel punto.
– Come fai a saperlo?
– Una donna che sa guardare, – disse Anna – capisce queste cose.
Sfortunata lei, – poi sospirò – ci arriverà presto a quel punto.
Spesso salivamo in montagna, là dove c’erano ancora vecchi rifugi scavati
nella prima grande guerra, e dormivamo sotto il sole. Sentivamo cantare nella
valle dove correva il fiume, e i colpi dei legnaioli ce li portava il vento
attraverso gli alberi. Anna adorava l’erba, le foglie cadute e il letto soffice
che io le preparavo con i fiori e le frasche raccolti per la montagna.
XXIII.

I giorni passavano velocemente, molte volte il fiume incupiva, molte volte


non s’alzava il sole. L’autunno portava un vento saturo di odori forti, raccolti
sulle abetaie dove i fiori morivano.
Avevo ricevuto una lettera dal Comando legione con la quale mi si
ordinava di rientrare in compagnia. Poi venne un contrordine a dirmi di
aspettare. Il sergente Elia mi scriveva spesso e m’informava della loro
pigrizia. Ora udivano il cannone dietro le colline di Urbino, ma il giorno lo
trascorrevano a lucidare i fucili. Era stato anche il Duce laggiú a trovarli, ma
il Duce non aveva permesso che loro, i suoi fedeli, andassero in prima linea.
Si accontentassero ancora di udire il rumore del cannone. Apparecchi
andavano e mitragliavano; bengala rossi, fiammeggianti, calavano lentamente
nella notte illuminando lo spettacolo delle campagne nere e del Foglia in
secca, attraverso il quale sarebbero passati i carri armati nemici. Ma l’odore
della polvere i miei compagni se lo erano dimenticato, cosí mi scriveva il
sergente Elia.
In una delle sue ultime lettere che non passò per la censura, egli mi
scrisse: «Il caporale Pellecchia Aldo, quello massiccio che aveva in consegna
la tua Breda, è stato fucilato in questo cimitero come disertore. Io ero nel
plotone di esecuzione, ma non ho sparato e, inutilmente, dopo, mi sono
chiesto la ragione di questa mia disubbidienza. Non che fossi commosso, ma
il dito non ebbe forza di tirare il grilletto. Però è stato uno strazio, perché il
ragazzo non è morto sotto la prima scarica. Ha urlato sempre: Abbasso
l’Italia! «Abbiamo scavato una fossa normale nello stesso cimitero, e vi
abbiamo calato il mitragliere disertore. Nessuno gli ha messo la croce sulla
tomba. Ora che ti scrivo mi sento ancora un po’ impressionato perché mai,
come in questa morte, mi ha sfiorato l’idea che noi fossimo degli assassini.»
La lettera di Elia mi ricacciò nelle idee funebri intorno alla guerra. Però,
dopo qualche giorno, mi sentii nuovamente tranquillo, perché nel nostro
paese la guerra ci pareva infinitamente lontana, e non pensavo al giorno in cui
vi sarei dovuto rientrare. Giacomo mi portava i giornali, tutti i giornali che
c’erano, ma leggevo poco. Tuttavia i giornali, non esclusi quelli umoristici,
erano fiduciosi. Decantavano sempre la nostra efficienza bellica,
l’immancabile vittoria che avrebbe coronato tutti i nostri sforzi, l’ora di
Hitler, e l’ultimo minuto di guerra. L’ultimo minuto di guerra doveva essere
la distruzione di tutto il mondo antinazifascista.
Anna, intanto, aveva chiesto il congedo al Comando generale di Brescia,
con il pretesto di una grave malattia del figlio. Glielo accordarono facilmente.
Indossava un vestito scuro, con le bande gialle, e mi parlava da dietro la
sedia, quasi nell’orecchio. Quella domenica, in terrazza, c’era anche Franco,
e Franco mi disse allegramente:
– Sono contento, zio Marco, che tu sia guarito.
Ero completamente guarito e non pestavo piú col piede. D’altronde anche
l’ottima aria dei monti aveva contribuito a ingrassarmi, e ora temevo solo di
ritornare in legione, indossare nuovamente la divisa e cucire all’occhiello il
nastrino della decorazione. Anna, l’ultima volta che ci eravamo recati a
Vicenza, me l’aveva comprato. Ora lo tenevo ben ripiegato in una busta,
perché non avevo voluto che me lo cucisse sul vestito.
Quella sera, tornando da Schio, dove avevamo riaccompagnato Franco, ci
sorprese l’acqua. Una pioggia violenta, fitta, ci inzuppò gli abiti. Anna prese
a tossire. Attraversammo il bosco di pini e castagni, riposandoci sui tronchi;
infine trovammo una baita presso la strada che conduce a Porta di Pasubio.
La donna della baita ci diede delle coperte mentre i nostri abiti asciugavano al
fuoco. Poi sulla strada cominciarono i rumori. Camion mimetizzati passavano
saltando nelle buche e sparivano dietro le rocce. Si vedevano soldati
rincagnati nelle cabine e la pioggia lustrava i teloni delle macchine. Poi la
colonna finí e la pioggia seguitò a scendere furiosa. La strada oltre gli alberi
di pini era tutta una lingua nera dentro la pioggia.
La lettera dove mi si diceva di rientrare al corpo arrivò presto. Dovevo
raggiungere la compagnia in un paese sul lago d’Iseo, perché tutta la legione
si era ritirata dal fronte. Anna non sembrava tanto preoccupata. Mi diceva con
tranquillità:
– Tu non puoi venir meno ai tuoi doveri di soldato. Devi ripresentarti per
forza, altrimenti finisci nella lista dei disertori. Io ti raggiungerò dove vai, se
hai piacere che ti raggiunga.
– Quasi tutti gli ufficiali hanno le loro donne e se le portano dietro, negli
spostamenti di zona. Ma è cosa difficile per un sottufficiale. E poi a me non
piace vederti mischiata in mezzo ai soldati.
– Sciocco, – disse Anna. – Saresti geloso?
– Immensamente, – dissi. – Tanto piú geloso in quanto ho sempre paura di
perderti.
– Sei un tesoro, – disse Anna ridendo.
Mi accompagnò fino a Vicenza. Restammo a Vicenza tre giorni,
alloggiando all’albergo dell’altra volta. L’ultima sera ci ubriacammo. Anna,
ubriaca, era tenera come una spugna e cantava canzoni di «quando era
giovane». Una di queste canzoni ripeteva nel ritornello: «Voglio godere con
tutta l’anima, perché domani dovrò morire…» E anch’io ripetevo con lei
quella canzone, perché tornavo alla vita dei rastrellamenti, e questa volta ci
sarebbe stata una palla anche per me.
XXIV.

Il facchino col berretto come gli ufficiali francesi rispose alla donna:
– Per la Val Camonica si parte alle sei.
La donna sorrise e tornò a sedere sulla panchina della stazione. Era
vecchia e aveva un’aria rassegnata. Si capiva che avrebbe atteso con
pazienza. La risposta valeva anche per me, e subito mi accorsi dell’inutilità di
stare lí ad aspettare. La mano che reggeva la valigia mi si era intorpidita per il
freddo, e anche col naso tiravo su. Non avevo voglia di estrarre il fazzoletto
dalla tasca.
Camminai tra le macerie della stazione. Due o tre uffici erano
completamente distrutti; c’era solo un oscuro botteghino pieno di polvere e
calcinacci, dove i viaggiatori facevano il biglietto. Anche la fontanella col
rubinetto era guasta; l’acqua saltava dallo squarcio della ghisa con violenza, e
per terra formava una pozza tra i mattoni rossi. Il fattorino di prima m’indicò
il bagagliaio e l’uomo di guardia mi diede un tagliando giallo.
– Non perdetelo, – disse l’uomo.
– Grazie, non lo perderò.
Camminavo per una strada larga e storta, con ai bordi radi alberi senza piú
foglie. Le foglie secche scricchiolavano sotto i piedi, e il vento le sollevava
con pesantezza. Le foglie ricadevano piú in là, sulla strada tutta gialla.
Nel centro c’era piú gente. Gli uomini si muovevano con precisione, come
se esattamente sapessero dove andare; soffiavano il fiato caldo nei baveri
degli impermeabili, come se fumassero. Molti soldati, e anche donne
ausiliarie si distribuivano liberamente in giro, però non riuscivo a guardarli,
né mi chiedevo la ragione della loro allegria. Le ausiliarie, passandomi
accanto, ridevano e parlavano in fretta. Erano ragazze generalmente con le
gambe troppo grosse e rosse per il freddo, che non ispiravano nessun
desiderio.
Entrai in un bar in piazza Zanardelli e bevvi un cognac. Soldati anche qui,
armati di mitra. Risalii per i portici. Davanti a un’edicola due ragazze presero
un giornale e filarono via. Le seguii automaticamente. Una era troppo magra,
l’altra troppo grassa. Ma essendo di uguale statura la ragazza magra sembrava
una bambina. Le ragazze si voltavano spesso, prima una, poi l’altra. Ma
quando si accorsero che le seguivo svoltarono per delle vie laterali. Con
questo esercizio mi riscaldavo, tuttavia non pensavo alle ragazze che avevo
davanti, pur osservando che il sedere della ragazza grassa si muoveva troppo.
Forse doveva pesarle, ma io la vedevo come attraverso i fori di un binocolo
rovesciato.
Poi le ragazze entrarono in un gran portone dove c’era molta gente e, in
cima alle prime scale, un usciere in camicia nera, alto e calvo, chiedeva i
lasciapassare. A un certo momento la ragazza grassa fece dietro front e mi
venne incontro con un piglio aggressivo. Quel piglio sembrava falso sulla sua
faccia a mela. Disse la ragazza:
– Quando la smettete di seguirci?
Anche l’altra ragazza si era fatta seria seria e mi guardava dai primi due
scalini. Accanto all’usciere alto e calvo sembrava una nana. Forse la ragazza
grassa aveva gridato troppo forte, perché quelle persone che aspettavano si
voltarono a guardarmi, e poi risero. Io non dissi nulla e guardai imbambolato
la gente che rideva. Avevo il cervello ancora pieno del fragore del treno. Poi
qualcuno rise forte dietro la mia nuca, e anche la ragazza grassa scoppiò a
ridere. Rideva come se stesse al mercato, con le mani sulle anche. Quello che
mi rise sulla nuca mi toccò la spalla e disse: – Sei proprio tu?
Michele Lopez, il corrispondente, fece un passo avanti e mi si piantò di
fronte. Anche le sue verruche ridevano. Allora le due ausiliarie se ne
andarono, scomparvero dietro l’usciere alto e calvo.
Michele Lopez mi prese sotto il braccio:
– Cos’è questo palazzo? – chiesi.
– È la redazione di «Camicia Nera» – disse il corrispondente – e questa
gente viene a chiedere notizie.
– «Camicia Nera» si stampa a Brescia?
– Certo, perché c’è il Comando generale della guardia.
Uscimmo sulla strada. Poco dopo m’accorsi di rifare la strada larga di
prima. Il giornalista mi faceva molte domande. Saputo che rientravo in
compagnia si felicitò molto e disse che avremmo fatto un pezzo di viaggio
insieme, perché lui scendeva a Marone, dalla II compagnia.
– Avete infronzolito troppo quell’articolo, – dissi.
– Il nostro mestiere esige molta fantasia, – disse Lopez, con enfasi. – Ho
raccontato quel fatto anche per Radio Fante. Di questi tempi bisogna montare
le azioni eroiche, perché i soldati siano presi dall’emulazione.
– Voi volete gli eroi a tutti i costi, – dissi, e Lopez non si offese.
Dondolava una piccola borsa di pelle, con la cerniera lampo intorno come
certe borse di avvocati. Un paio di volte, Lopez disse «porco il freddo»
toccandosi la rossa punta del naso.
– Quella infermiera bionda, quella che ti curava, non ne sai niente come
sia finita?
– È andata via dall’ospedale e si è congedata, – dissi.
– Ah, mi spiego, ora, – disse Lopez, pensieroso. – Ho scritto l’articolo su
lei, l’ho pubblicato su «Sveglia»; sai, quella rivista delle forze armate, però
non mi ha mai risposto.
– Non abbiamo ricevuto il giornale, – dissi. – Noi siamo partiti ai primi di
agosto. Anna aveva un bambino troppo malato.
Il corrispondente mi guardò interrogativamente.
– Allora vi siete innamorati? – disse sempre dubbioso. – Avevo sospettato
qualcosa, ma speravo d’ingannarmi.
– E perché volevate ingannarvi?
– Cosí, – egli disse, e mi guardò attentamente. – In fondo, – aggiunse, – tu
non hai niente di speciale, ma va un po’ a capire le donne!
– Che volete dire, tenente?
Lopez rise:
– Be’, era proprio una bella donna. Dove ve la siete spassata?
– A Recoaro.
– Posti magnifici. Sono stato varie volte a Valdagno, la città di Marzotto.
Ci tornerei volentieri.
Nella stazione era già pronto il treno per la Val Camonica. Dissi a Lopez
che ci saremmo rivisti in vettura, perché andavo a ritirare la valigia. Ci
ritrovammo in vettura. Lopez frugava tra le carte della borsa.
– Vuoi sentire il mio ultimo articolo sull’azione del monte Grappa?
– C’è stata un’azione sul monte Grappa?
– Brillante, – disse Lopez. – È stato un inferno lassú, ne abbiamo
accoppati un paio di cento.
Rividi la colonna di camion nella pioggia, quel giorno nel bosco di pini,
presso Schio.
– E voi siete contento di quell’azione?
– Dio, e non vuoi essere contento? Il Grappa era un covo di ribelli e di
Americani paracadutati. Di là partivano tutti i sabotaggi contro le nostre
truppe. Facevano saltare i ponti e le nostre caserme. Allora vuoi sentire?
– Grazie, tenente, adesso sono un po’ stanco. Ma lo leggerò dopo.
I movimenti del treno mi procurarono la sonnolenza. Lopez mi offrí da
fumare e riprese a parlare dell’azione del Grappa. Si faceva buio e il treno
s’infilava dentro piccole gallerie, poi riprendeva a fiancheggiare le montagne.
Infine corse lungo i margini del lago e Lopez disse che eravamo arrivati.
Saltò a terra come un ragazzo discolo. Mi accompagnò per un tratto, poi mi
indicò una via che saliva per la montagna.
– La I compagnia è in quel paese lassú, – disse il corrispondente. – Se
cammini svelto ci arriverai in mezz’ora.
Mi strinse la mano.
– Mi auguro di rivederci presto, sergente, – disse Lopez. – E mi dài tanti
saluti al capitano Mattei.
Quella parola «sergente» mi fece un certo effetto. Ma non vi prestai molta
attenzione.
– Tanti auguri per il vostro lavoro, tenente, – gli dissi.
– Grazie. Ma senza rastrellamenti il mio lavoro non vale un cavolo. Io non
posso scrivere «pezzi» di colore.
Lopez se ne andò, dondolando la sua borsa.
La mulattiera s’incassava fra i sassi e saliva zigzagando. Incontravo e
perdevo la strada provinciale. Di tanto in tanto castagne secche, cadute dagli
alberi, mi rotolavano sotto i piedi. Al ponte, sulla strada pianeggiante prima
del paese, mi fermai per riprendere fiato. C’era un silenzio da congiura nel
buio della sera. Il paese voltava le spalle alle montagne alte, e le montagne lo
chiudevano a ferro di cavallo. Ma, di faccia, la collina scendeva a ruzzoloni
sul lago e, con la nebbia che copriva la vallata, era come vedere un altro
cielo, sotto il quale stavano le case degli uomini.
Alle porte del paese incontrai Gennari. Usciva dall’osteria. Il piccolo
soldato era imbarazzato, ora, se chiamarmi sergente oppure per nome, come
una volta. Ma parve molto felice di rivedermi.
– Vai a donne? – gli chiesi.
Gennari rise, diventando rosso:
– Queste montanare hanno la pelle nera e debbono essere sporche, – disse.
– Però si conservano sott’olio, noi non possiamo farci nulla.
Mi tirò per il braccio.
– Vedi quella casa verde? – disse indicandomi una specie di grotta a pochi
metri dall’osteria. – C’è una mezza scema lí, una vecchia di cinquant’anni
che aspetta ancora il suo fidanzato dalla grande guerra mondiale. La sera
viene all’osteria e i soldati le offrono da bere; lei dice a tutti che aspetta il suo
fidanzato dalla grande guerra mondiale. Qualche volta noi andiamo da lei, ha
la fotografia del fidanzato sul tavolo della cucina. Poi saliamo la scala di
legno che porta in soffitta, dove ha il letto. Facciamo la coda, uno per volta.
Tanto, nel buio chi la vede che è vecchia?
– E gli ufficiali non sanno niente? – chiesi.
– Oh, gli ufficiali! Quelli se la spassano con delle sfollate. A quelli non
mancano mai le donne.
Salivamo per una stradetta piena di fango e sassi. Davanti a un albergo
modesto, recintato di canne, Gennari mi salutò.
– Sono qui, – disse. – Qui hanno la mensa.
– E perché fanno questo baccano?
– Oggi è il compleanno del capitano, – disse Gennari. – Faranno baldoria
fino a domani.
Gennari scese di nuovo la stradetta e tornò all’osteria. Quando spinsi la
prima porta, di là del bar dell’entrata, mi trovai in un corridoio lungo, nero,
dal soffitto basso come un sotterraneo. Le voci venivano dalle pareti. Poi
cozzai contro un’altra porta, in fondo, e questa si aprí. La sala larga, lunga,
era illuminata con delle candele. Gli ufficiali, i sottufficiali e gli attendenti
degli ufficiali schiamazzavano intorno a un piano a coda, che veniva pestato
dal tenente Giordano. «O capitano, c’è un uomo in mezzo al mare…»
cantavano, ubriachi marci. Giordano, ogni tanto, chiedeva un bacio
propiziatorio alla donnina con la sigaretta che era seduta sul coperchio del
pianoforte. «… venitelo a salva-areee…» continuava il canto. Il capitano
Mattei pontificava in fondo al tavolo ancor tutto ingombro di piatti. Un
sorriso beato gli errava sulle labbra. Un’altra donna, che indossava un
pullover rosso gli sedeva accanto, con i gomiti poggiati sul tavolo, e
dimenava il capo al ritmo della canzone.
Quando Giordano mi scorse sulla porta, con la valigia ancora in mano,
smise di suonare. Gridò, indicandomi:
– Buttate fuori quel cadavere!
Fecero silenzio. Poi uno gridò:
– Ué, è il nuovo sergente.
Il can-can riprese. Adesso volevano che pagassi da bere. Il sergente furiere
mi condusse dal capitano; Mattei non si mosse, mi tese la mano inerte e disse:
– Sei tornato tardi, ma non ci sono punizioni, oggi. Sai che è la mia festa?
– L’ho saputo venendo qua.
La donna col pullover rosso mi aprí i suoi occhi umidi sul volto. Poi diede
una gomitata al capitano Mattei:
– Non mi presenti, Niní? – disse.
Il capitano ebbe un piccolo rutto.
– Sí, certamente, – disse.
Anche gli altri vennero al tavolo del capitano, cosí m’accorsi che le donne
erano tre. Il capitano me le presentò: Giovanna era quella col pullover, Lulú
la ragazza che cantava seduta sul coperchio del pianoforte, e Nora una
ragazza robusta, con denti cavallini, amica del maresciallo Bassan.
– Vogliamo bere, furiere! – gridò la ragazza del pianoforte.
– Ora tocca al morto resuscitato, – disse sguaiatamente il sergente furiere,
un uomo alto, con la testa secca, lucida in superficie come un fiammifero
svedese.
– Bisogna bagnare i galloni, – disse una voce.
– E la medaglia, anche, – disse il maresciallo Bassan, frugando sul petto
della ragazza robusta.
– Va bene, – allora dissi al furiere. – Mi metterai in conto le spese.
Il furiere allargò le braccia felicissimo, e iniziò il solito scherzo cantando
il mottetto «beato il fesso che ha pagato». Prese a girarmi intorno con tutta la
processione degli ubriachi. Poi tornarono vicino al pianoforte e io mi trovai in
un angolo della sala, nel buio, seduto su di una sedia rovesciata.
Mi sforzavo di cercare Elia in quella confusione, ma non mi riusciva di
distinguere niente. Cominciò a mancarmi l’aria, tuttavia non mi muovevo e
guardavo i tre candelieri che rovesciavano sui muri una luce fosca. Gli angoli
delle pareti erano mangiati dall’ombra.
Gli uomini ballavano a gambe larghe, e le loro ombre si proiettavano
immense contro i muri. La donna col pullover rosso si staccò dal capitano e
raggiunse gli altri. Poi tutti fecero silenzio e Lulú cominciò a cantare con
voce rauca, accompagnata al piano da Giordano:
Appartengo agli uomini della guerra
e non posso pentirmi se ho peccato;
il mio cuore è un grumo che non ha piú sangue
e ha preso a vivere da solo, fuori del corpo.
Perciò mi sono data agli uomini della guerra,
sono ragazzi senza pretese…

Il capitano dondolava la testa rasa. Col viso in penombra solamente i suoi


occhi esprimevano qualcosa. Esprimevano una grande ubriachezza.
Automaticamente fumava molte sigarette. Dopo ogni boccata pigra beveva un
sorso alla bottiglia, e subito dopo tossiva, come se volesse vomitare. Il
tenente Mazzoni afferrò per la cintola la ragazza col pullover e la strinse a sé.
La dominava con tutto il suo corpo. Giovanna gli puntellò i pugni sul petto,
ritraendo il corpo, ma in quella posizione incominciarono a ballare.
– Gianni, vacci piano, – disse il capitano Mattei.
Mazzoni grugní sui capelli della donna, e non si sapeva cosa avesse voluto
dire con quel grugnito. Gli uomini buttavano le cicche delle sigarette sul
pavimento, e poi le pestavano coi piedi, mentre ballavano. Guardavo le loro
ombre sui muri.
A un certo momento qualcuno mi batté sulla spalla; voltandomi vidi Elia
con una strana faccia.
– Elia! – dissi.
– Andiamo via da questa merda, – lui disse con voce bassa, ma rabbiosa.
Raccolsi la valigia e uscimmo. L’aria fresca mi faceva bene alla testa.
Adesso c’erano anche le stelle in cielo. Elia camminava a testa bassa, per
vedere dove metteva i piedi.
– Sono d’ispezione, – disse dopo qualche tempo. – Mi ha detto Gennari
che eri arrivato, cosí sono venuto a prenderti. A me queste baldorie che
durano fino all’alba non mi piacciono.
– Io non capisco perché si divertono alla luce delle candele.
– Sono tutti dei malati, – rispose.
Di fronte a un muro Elia si fermò. Quand’ebbe finito eseguí due flessioni
con le gambe arcuate, e riprendemmo a salire per il vicolo.
– Sei venuto solo? – chiese mentre si abbottonava. – Quella tua donna non
ha detto che vuol venire?
– Verrà piú tardi, ha detto. Ma sono indeciso se farla venire. Non saprei
dove metterla, qui.
Elia taceva. Poi disse:
– Il posto ci sarebbe. Ma se tu le vuoi bene non credo che qui sarai felice.
– Perché?
– È un ambiente non adatto, qui. Tu hai visto delle donne, stasera. Si
divertono a stare con gli ufficiali per dimenticare le bombe delle città da dove
sono venute. Gli ufficiali non si curano della gente che mormora, perché la
fanno da padroni, sono in zona d’operazione. Zona d’operazione, che schifo!
Si divertono come se domani dovessero morire scannati.
Tacque un momento. Poi riprese:
– Abbiamo ripreso coi rastrellamenti. Usciamo fuori anche per due
settimane di continuo, e quando si torna facciamo sempre festa, perché muore
molta gente. Simone dice che stiamo perdendo la guerra.
– Chi è Simone?
– Ora andremo a trovarlo, – disse Elia. – È un vecchio che ragiona bene e
forse se la intende coi partigiani. Fa il capraio e non infastidisce nessuno. Mi
scoccia solo quando parla di certe cose, come un uomo ispirato.
Salivamo per il vicolo.
– Sta qui quella signora Ida, quella di cui mi parlavi per lettera?
Elia fece sí col capo.
– Lei mi ama molto. Non credevo di poter trovare una donna che mi
amasse come fa lei, proprio in mezzo a queste montagne.
Svoltammo in un altro vicolo, poi riprendemmo a salire.
– Sai, – dissi dopo un poco, – ho riflettuto molto durante la convalescenza.
Sono tornato per non fare la faccia del disertore, e non finire fucilato come
Pellecchia. Però… Senti, Elia, sia detto fra noi: cosa ne pensi di tutta questa
roba?
– È come se stessimo consumando le ultime cartucce, – disse Elia. –
Quando vado ai rastrellamenti credo sempre che sia l’ultimo per me, ma poi
mi ritrovo sempre vivo, mentre gli altri muoiono senza che se ne accorgano.
Eravamo arrivati a un portone dietro il quale c’era un grande atrio con le
arcate e le slitte dei montanari sotto i mucchi di fascine. Elia richiuse con la
sbarra girevole. Poi aprí una vetrina verde sotto le arcate, dalla quale veniva
la luce. Entrammo in una stanza spaziosa e bianca, con il camino acceso. Un
vecchio in tuta blu molto sporca, con i capelli crespi ma bianchi, squartava la
carne di un capretto su di un tavolo in mezzo alla stanza. Un altro uomo piú
giovane sedeva presso il camino. Sgusciava castagne e un ragazzotto rosso
gli stava fra le gambe. Quando entrammo anche le due donne si voltarono
verso di noi, e quella piú giovane che era vestita di chiaro, ci venne incontro
sorridendo.
– È il tuo amico? – chiese.
Elia disse sí e io pensai che la donna doveva essere la signora Ida. Mi
fecero sedere presso il fuoco e la donna vestita di scuro preparò un pezzo di
carne sulla graticola. Venne anche il vecchio che lavorava alla carne e mi
strinse la mano. Disse:
– Gira una malattia disgraziata. È la terza bestia che debbo ammazzare.
Questa poi mi ha fatto perdere delle notti per starle intorno. Si chiamava
Maria Malibran; mi ha dato i piú bei capretti di tutta la stalla.
Si mise seduto e prese delle castagne. Continuò:
– Il sergente Elia qualche volta mi ha fatto compagnia durante le veglie
notturne. Pensa che la Toti Dal Monte si lamentava in un modo che ti levava
la voglia di sentirla. Faceva soffrire.
– Bella capra, quella, – disse Elia.
– Sono tutte belle. Sembrano creature umane, – disse il vecchio.
La signora Ida mi spolverò il vestito con un colpo della mano, perché
m’ero sporcato contro il muro. Disse cordialmente:
– Noi già ti conosciamo. Elia ci ha parlato molto di te, e ha detto che sei il
suo migliore amico.
– Grazie. Anch’egli è il mio amico migliore, – dissi. – Ma è strano come
mi resti ancora, perché in questa guerra ne ho conosciuto di uomini, e poi
sono tutti scomparsi. Venivano e andavano. Andavano appena si faceva
amicizia e ci si cominciava ad amare. Elia è quello che mi resta da piú lungo
tempo.
Elia stringeva il fodero del pugnale. Disse:
– Che razza di discorso vai facendo? Piantala se no debbo stare sempre a
toccare ferro.
La signora Ida rise. Ma Simone disse dopo un poco, con voce pesante: –
Questa guerra mangia troppo.
Allora Abele, l’uomo che aveva il ragazzotto fra le gambe, intervenne:
– Mio fratello è fatto cosí, non gli badate. Dice sempre cose forti perché
vede scuro, non crede piú a niente. Ne ha viste troppe lui, anche nell’altra
guerra.
– Eh, sí, – fece il capraio, lisciandosi la zazzera bianca. – Oggi è peggio
dell’altra volta. Oggi è come se tutto il mondo fosse diventato incosciente.
– Senti, Simone, – fece Elia, – mettiamo uno di quei dischi che piacciono
a te? Ho trovato di sopra dalla signora Ida, un pezzo del Barbiere. Sono
sicuro che ti piacerebbe sentirlo.
Il vecchio lo guardò da sotto in su, perché teneva la testa ciondoloni, quasi
fra le gambe, e sorrise. Brontolò:
– Tutti mi credono troppo vecchio perché io sia in grado di dire cose
giuste. Poi mi dicono: Senti, ho un pezzo del Barbiere, vuoi ascoltarlo?
Anche tu, sergente, ti sei accorto che a me piace la musica classica?
– Certo. Ti è sempre piaciuta, no?
– Sí, sí, – fece Simone, e masticò una castagna.
La donna vestita di nero mi serví la carne nel piatto. Abele seguiva i
movimenti della moglie con occhi quieti, contento di stare accanto al fuoco e
di avere una moglie come quella. Dopo le prime reticenze cominciai a
mangiare. Dissi ridendo:
– Buona. Maria Malibran ha un’ottima carne.
– E che capra! – disse il vecchio. – Mah, speriamo che la malattia giri
presto per queste zone e ci lasci in pace.
Passò del tempo. Ora Abele aveva accesa la pipa. Con pigrizia gli uomini
masticavano le castagne cotte sotto la cenere, e in tutta la stanza c’era un
grato tepore di famiglia.
Il ragazzotto si addormentò fra le gambe magre del padre; poi, la donna
che mi aveva servita la carne, se lo prese in braccio e uscí fuori, dopo averlo
coperto bene con uno scialle. Potevamo sentire i suoi passi per le scale di
pietra che portavano in terrazza, dove c’erano l’appartamento della signora
Ida e le camere della famiglia di Abele.
Io avevo finito di mangiare e la signora Ida portò via il piatto. Volle che
prendessi le castagne sul suo grembo. Poi Angelina tornò e Abele le chiese:
– Dovevi coprirlo bene.
– Oh, sta bene, adesso. Non si sveglierà prima che andiamo noi, – rispose
la donna.
Alla fine Simone si alzò. Disse:
– Be’, andiamo a letto anche noi.
Il capraio era magro e alto, girò un poco intorno nella camera, e poi disse,
guardando verso il muro:
– Quelli là faranno baldoria fino all’alba.
– Succederà come la volta scorsa. Si addormenteranno sulle sedie, – disse
Elia. Poi: – Se vuoi posso accompagnarti.
– Grazie. Anche le ronde adesso mi conoscono. Non mi fermano piú, –
disse Simone.
La signora Ida ci accompagnò alla porta. Tese la mano a Elia, nel buio.
Poi disse rivolta a me:
– La valigia puoi lasciarla qui, Marco. E ora questa casa è come se fosse
casa tua. Noi ti aspetteremo sempre.
– Grazie, signora Ida, – dissi con gratitudine.
– Chiamami zia Ida, – disse la donna. – Qui tutti mi chiamano zia Ida,
anche Simone. Dicono che sono molto vecchia.
Simone sorrise, e anche Elia sorrise. Per il modo con cui la signora Ida
aveva detto «dicono che sono molto vecchia» sorrisero.
Attraversammo il grande atrio e fuori ci salutammo. Una stretta di mano,
proprio come se ci conoscessimo da molto tempo.
Salendo verso la caserma Elia disse:
– Dormirai nel mio letto, stanotte. Io resto fuori.
– È per quella signora Ida che resti fuori?
Elia disse di sí con la testa, nel buio. Poi aggiunse:
– Penso che dovrei riguardarmi con Ida, ma è piú forte di me. E perciò, ora
che ci sono, amo come un pazzo affamato, perché ogni volta mi pare che
debba essere l’ultima. Tu mi capisci, Marco?
– Uh, uh, – dissi, e guardavo le pietre nere del vicolo.
Camminammo seguendo il muro. Elia era scarno e piú ringentilito in
quella divisa di soldato. Era molto cambiato dall’ultima volta che lo vidi
all’ospedale. Pensavo che ci vuol poco perché gli uomini cambino, ma delle
volte ci sono delle ragioni profonde perché gli uomini cambino. Svoltammo
in un altro vicolo e poi ci apparve lo spiazzo sopraelevato della caserma. La
sentinella, dalla garitta che sembrava un proiettile di aeroplano, ci gridò:
– Chi va là?
– Sergente Elia, – disse Elia.
La sentinella abbassò il fucile e uscí dalla garitta. Prese a passeggiare su e
giú. La luna era saltata fuori da una nuvola e ora investiva di fianco la
sentinella.
Elia mi accompagnò fino alla sua branda. Aveva le lenzuola, mentre i
soldati dormivano per terra, ficcati nelle coperte. Un soldato si era costruito
un impianto elettrico vicino al pagliericcio, e ora leggeva davanti alla
lampada schermata. Il soldato sollevò il libro, in segno di saluto.
– Buon riposo, Danilo, – disse Elia.
– È uno nuovo? – chiesi.
– È uno che pensa ai fatti suoi. L’hanno mandato dalla III compagnia.
Poi Elia se ne andò. Io mi cacciai sotto le coperte stanchissimo.
XXV.

Molta neve era caduta sotto Natale. Da alcuni giorni la compagnia si


fossilizzava in caserma, e passavamo ore lunghe a lucidare le armi. Ma
quando non c’era la bufera e il tempo era calmo verso est, conducevo fuori il
mio plotone, a far palle di neve. Poi ci diedero anche gli sci, perché
formarono il plotone sciatori. Si andava su di una pista al di là del ponte,
verso il cimitero, e un giorno venne anche Michele Lopez a scattare delle
fotografie. Le pubblicò sul giornale facendo risaltare che eravamo in marcia
di avvicinamento verso il nemico.
Quasi ogni sera io e il sergente Elia andavamo nella casa di Abele.
Qualche volta la signora Ida portava giú il grammofono e si ballava. Io non
sapevo ancora ballare e la signora Ida mi diceva:
– Sei duro come un mattone. Dalle tue parti è proibito il ballo?
Elia veniva a liberarmi e io tornavo a sedere sul trespolo presso il fuoco
alto. Elia e la signora Ida ballavano quasi senza posare i piedi per terra, tanto
erano leggeri. La signora Ida gli poggiava il mento lungo sulla spalla, e allora
forse non pensavano piú a nulla, e dimenticavano anche noi che eravamo
intorno al fuoco.
Da una settimana Simone mi chiedeva:
– Quando viene questa donna?
Io non mi sapevo spiegare perché il vecchio mi chiedesse con tanta
insistenza notizie di Anna. Se c’era anche la moglie di Abele, e lo sentiva,
costei gli diceva:
– Ma che vuoi tu, vecchio bacucco?
Non avevo fotografie di Anna, e i miei amici non sapevano immaginarsela
come era fatta. Elia disse acre acre che appena si ricordava come era fatta.
Ma la signora Ida insisteva:
– Com’è fatta, Marco? Dicci com’è fatta la tua donna.
Io ridevo per quella curiosità che prendeva tutti in casa di Abele. Anna
aveva scritto che sarebbe venuta in giornata, ma non diceva in quale giornata.
Si creò un’aria di attesa. Avevo raccontato loro come Anna mi aveva
curato, avevo raccontato la storia del nostro amore, e anche la scena dei due
sconosciuti dell’ospedale, e del marò com’era morto. Entrò un gelo fitto nelle
anime dei miei amici in ascolto, poi la signora Ida mi picchiò col pugno sulla
spalla perché quasi le veniva da piangere per il modo brutale con cui avevo
raccontato la cosa. Quasi la signora Ida mi faceva una colpa per la morte del
marò.
Era la sera del giorno delle candele, e nella casa di Abele c’era ancora
l’odore dell’incenso bruciato, e l’odore delle cortecce d’arancio bruciate nel
braciere. Avevo quell’odore acre sotto le narici. E udii la signora Ida
lamentarsi:
– È brutale come racconti.
Alzai le spalle.
– Quale colpa ho io se non so raccontare in modo migliore? – dissi.
Il marò con le braccia aperte e con tutto il suo sangue schizzato contro il
muro si pose fra me e loro, e passò del tempo senza che nessuno parlasse. Poi
disse Elia, breve:
– Noi non uccidiamo a sangue freddo, mai.
Simone fece sí con la testa, guardando il fuoco. Poi disse, in un modo
strano: – Gli uomini hanno dimenticato il cuore in qualche parte.
– Ho dimenticato il mio cuor, perché è morto l’amor… Parole di
Cherubini e musica di Bixio, – fece Elia. Poi: – In questa guerra siamo tutti
senza cuore, perché a chi resta un po’ di cuore muore per primo. I buoni sono
sempre i primi a morire, perciò oggi piú nessuno è buono.
Simone accennò ancora con la testa, e disse:
– Allora non bisogna dire che non si uccide a sangue freddo. Dico voi.
Non esiste un sangue freddo o caldo, quando si uccide.
Infine la moglie di Abele si alzò da sedere e andò verso un cassettone.
Venne di ritorno con un paniere pieno di castagne. Anche Elia prese a
incidere nelle castagne con la punta del pugnale. Allora la signora Ida andò al
tavolo che stava in mezzo alla stanza e incominciò a stirare il mio vestito blu.
– Stai meglio con panni civili, – disse la signora Ida.
– Vorrei rivestirmi per sempre coi panni civili, – dissi. – Con la divisa è
come se fossi eternamente sporco.
Simone mi guardò con tenerezza e disse in un modo che nessuno riuscí a
capire:
– Tu non hai colpa di niente, Marco. Sei solo un ragazzo.
Poi il vecchio andò verso la porta con le spalle un po’ curve, e non tornò
nella serata. C’era ancora il marò nella stanza. Anche io ed Elia, dopo un
poco di tempo, ce ne andammo, senza aspettare che le castagne cuocessero,
perché nessuno, ormai, pensava piú alle castagne.
XXVI.

Quando sgelò la prima neve, il giorno delle ceneri, e sul Guglielmo era
cessata la tormenta che aveva sepolto due montanari nel rifugio, Anna arrivò
a Z. Comparve insaccata in una pelliccia bianca che la faceva apparire piú
alta e col viso assai scarno. Entrando in casa di Abele buttò le valige sul
pavimento e disse con acredine: – Questo paese è un punto nella Siberia.
Ma la sera, dopo essersi riposata, Anna fu cordiale coi miei nuovi amici.
Mi disse che accettava le circostanze, solo che dovevo lasciarle il tempo
necessario per acclimatarsi.
Tuttavia, quella sera, Simone attaccò un discorso sulla guerra. Parlava
calmo, piano, ma le cose che diceva irritavano me ed Elia, e Anna tormentava
il fazzolettino, irrequieta. Simone non badava a noi; fissava ostinatamente un
punto nella brace, e il suo monologo senza interruzioni era lungo, contorto.
Diceva che la lotta civile sarebbe annegata nel sangue, come era cominciata.
E concluse:
– A me non garbano queste cose. Ah, è uno strano mondo il nostro, e io
vorrei capirlo. Ma come si fa a capirlo?
Il vecchio, poi, si chiuse la testa fra le mani e non diede piú fastidio, e
forse si era addormentato. Noi incominciammo a parlare in fretta, di cose
diverse, ricordando fatti che ci erano accaduti prima della guerra. Era chiaro
che volevamo disperdere il disagio che ci aveva presi.
Quando Anna mi si avvicinò chiese:
– È partigiano quel vecchio? – Io dissi di no, ma ero inquieto. Adesso
avevo paura che Simone parlasse fuori. Temevo per lui, sapendo cosa gli
sarebbe potuto capitare.
Anna e la signora Ida strinsero presto amicizia. Ogni sera ci lasciavano la
chiave sotto la buca delle gatte. Io ed Elia salivamo le scalette della terrazza
senza far rumore, sempre alla stessa ora della notte, con la paura di essere
visti da qualcuno. Nella cucina grande, coi mobili di noce antico che, nel
buio, ci venivano incontro come tanti catafalchi, ci dicevamo addio con una
stretta di mano. Elia girava la maniglia bianca di una porta che non aveva
rilievi nel muro, e presto era dentro. Io seguitavo ad andare sino in fondo,
evitando di cozzare contro le sedie; ormai conoscevo bene la strada da fare
per essere nella camera di Anna.
Pensavo che nulla era mutato in lei e nel suo amore. Mi accoglieva con un
sorriso, e mi tempestava di vezzeggiativi che mal sopportavo. Ma spesse
volte Anna dormiva. Allora non la svegliavo. Me ne tornavo in caserma
evitando d’incontrare la ronda.
A volte Anna mi sentiva arrivare, riconosceva la mia pedata. Vedevo,
attraverso le sconnessure della porta, la luce che si accendeva. Poi vedevo i
suoi occhi liquidi, profondi, e mi pregava di restare un poco da lei. Mi
stendevo tutto vestito sulle coperte, e Anna diceva saggiamente: – Stasera
dobbiamo fare i buoni.
Mi parlava di Franco, delle sue speranze future. Pensava a quando sarebbe
finita la guerra. Lei non aveva impieghi, non sapeva come avrebbe vissuto, e
l’incertezza del domani la rendeva inquieta. In alcuni momenti di inconsueta
riflessione diceva che diventava vecchia, e sentiva di avere troppo peso
dentro. Quei suoi ragionamenti mi turbavano, e solo allora, ma segretamente,
mi chiedevo se per me ci sarebbe stato un domani.
Ma Anna si riprendeva presto, scrollava la testa quando era troppo carica
di quelle riflessioni. E allora esclamava, quasi con impazienza: – Che vale
pensare? Viviamo giorno per giorno. Che m’importa di quello che sarà?
Pensavo che nulla era mutato in lei e nel suo amore. Ma dopo un po’ di
tempo divenni sospettoso, controllavo le sue azioni, le chiedevo
insistentemente come passava le giornate e se si era vista col capitano Mattei.
Quando il capitano rivide Anna la guardò ammirato; pur concedendosi, nei
riguardi della donna, una certa aria spaccona, di marca militare. La invitava
spesso alla mensa, e io soffrivo vedendola mischiata a Lulú, la cantante
sentimentale, e alle altre donne.
Quando poi ballavano il capitano era galante con Anna, la preferiva alle
altre e le parlava con le labbra presso l’orecchio, raccontandole cose spiritose.
Io sentivo la risata spensierata di Anna; quella risata mi risuonava nella testa,
accresceva il mio dolore interno e mi rendeva triste, oppure ingenuamente
furioso.
A volte Anna mi sorprendeva con questa tristezza. Mi diceva:
– A cosa pensi, Marco?
Io non sapevo rispondere, la guardavo con umiltà; a volte avevo il
presentimento che non rappresentassi nulla per lei. Arrivavo a credere che
tutto ciò che era avvenuto fra noi, e che tuttavia seguitava ad avvenire, fosse
un sogno o qualcosa di simile.
Forse la venuta di Anna a Z. contribuí ad acuire la mia avversione per il
capitano Mattei e per la mia vita di soldato. Mi sentivo infelice in una
maniera sconosciuta, mai provata prima.
Ora che la neve se ne era andata ed era cessato anche il vento, un pallido
sole ci accompagnava nelle istruzioni. Marzo era mite, faceva ben pensare
della vicina primavera. A volte Anna veniva col capitano nella nostra area
presso il ponte, e insieme assistevano alla marcia dei soldati. Il capitano
arcuava le gambe e s’impettiva per mostrare i nastrini delle guerre. Spiegava
la balistica alla donna. Poi seguitavano la passeggiata sulla strada che
scendeva a Marone, e si perdevano fra i grandi alberi di castagni.
La notte, adesso, Anna mi riceveva con meno interesse. Diceva sempre di
essere stanca, annoiata. Era disgustata della guerra che non consentiva a
nessuno di vivere una vita tranquilla, libera. Tornava a parlare di Franco;
diceva che l’aveva trascurato in passato, quasi non accorgendosi di possedere
un figlio. E adesso l’idea di avere un figlio grande la spaventava, la metteva
di fronte a delle responsabilità nuove, alle quali non aveva mai pensato
seriamente.
Una mattina, sulla strada che scendeva al lago, passò la macchina scoperta
del capitano con a bordo Anna, Giovanna e Lulú. La Nora, che era la donna
del maresciallo Bassan, era sparita misteriosamente qualche giorno prima. Le
donne ridevano e cantavano. Anna mi mandò un bacio sulla punta delle dita,
ma io restai impalato presso gli uomini, come una statua di pietra, e poi fu il
rifornitore Pasquini a scuotermi. Disse Pasquini:
– Be’, riprendiamo queste istruzioni?
Merlini si sporse dalla terziglia e mi gridò:
– Vanno a spasso, sergente, e a noi tocca cacciare sangue dai piedi.
Le parole di Merlini erano dette in un certo modo irritante. Allora gli dissi
con ira:
– Tu pensa a essere sempre un bravo coglione. E se parli ancora ti rompo
la faccia.
Merlini non parlò piú, ma seguitò a guardarmi male. Allora presi a
comandare gli uomini con stizza, avanti e indietro sulla strada del ponte. Li
obbligavo a correre, a fare gli esercizi coi fucili, senza riposarli. Provavo
gioia quando vedevo qualcuno dei piú giovani trascinare i piedi con
pesantezza e impallidire. Estrassi il pugnale e presi a punzecchiare quelli che
mollavano; li punzecchiavo alle spalle e al sedere. Quelli saltavano e
gridavano per il dolore. Gioioso, il ragazzo di sedici anni, alla fine cadde
sfinito in mezzo alla strada. I compagni lo scartarono col piede e quello rotolò
nel fosso. Poco dopo Merlini uscí dalle file e si piantò a gambe larghe sulla
strada. Disse che non ce la faceva piú.
– Rientra nel rango, – gli dissi.
– Sergente, non ce la faccio piú, – ripeté Merlini.
– Me ne frego che tu non ce la fai, – urlai. – Rientra ed è meglio per te.
– No, – disse Merlini – perché non ce la faccio piú.
Quando presi a schiaffeggiarlo, Merlini oppose debole resistenza. Presto
due fettucce rosse gli uscirono dal naso e poi lo vidi ruzzolare per terra. Sentii
scattare la sicura del fucile e la canna salí dalla polvere, fino al mio petto. Ma
quando gli fui nuovamente addosso il fucile cadde da una parte e sentii i piedi
di Merlini raspare per terra, in quella polvere. E intanto ripeteva:
– Cornuto, cornuto fesso!
Poi Jadisernia e Pasquini mi saltarono addosso e tutti gli uomini mi
chiusero in mezzo. Cortini si fece avanti e disse:
– Senti, noi non vogliamo piú obbedire alle tue vigliaccate. Se ti risenti per
le corna va a sparare il capitano Mattei. Devi vedertela col capitano Mattei,
non con noi. Cosa c’entriamo noi coi tuoi fatti d’amore?
Gli uomini si riunirono e Cortini, che era caporale, li rimise in riga. Due
uomini presero sulle spalle il ragazzo Gioioso e cosí tornarono in caserma,
senza marciare.
Io stetti ancora in mezzo alla strada, guardando il fosso dove il ragazzo
Gioioso era stato a lamentarsi. Poi, lentamente, me ne tornai verso il paese,
con la testa bassa e senza pensare a nulla. Entrai nel portico della casa di
Abele e salii le scale della terrazza. La signora Ida era stesa nella sdraio, di
fronte al sole, con gli occhi chiusi. Non mi sentí arrivare. Poi udí il mio
respiro e disse senza aprire gli occhi:
– Sei tu, Andrea?
Non risposi.
– Andrea, perché non rispondi? – chiese ancora la signora Ida. Poi aprí gli
occhi e mi vide in quello stato. Gridò di spavento: – Marco, cos’hai fatto?
Si alzò, mi circondò la vita con un braccio e io la guardai con
riconoscenza. Mi fece sedere nella sdraio mentre lei andava a prendere la
grappa. Tornò con la bottiglia e presi a bere. La grappa mi bruciava le
viscere, ma non scacciava quel gran freddo che mi sentivo dentro. La donna
mi si mise vicino e cominciò a domandare; ma io aguzzavo gli occhi e
guardavo lontano, oltre i tetti e gli alberi di castagni che si vedevano sulla
strada del ponte. Poi venne Elia, di corsa; mi prese per il petto e cominciò a
gridarmi in viso:
– Disgraziato pazzo, cos’hai fatto agli uomini?
Elia mi scuoteva e io non parlavo. Ero diventato inerte e non mi sentivo
nemmeno la forza di difendermi dalle sue prepotenze.
– Imbecille, rispondi almeno, – Elia continuò. – Dimmi cosa hai fatto agli
uomini. Vuoi rispondere?
La signora Ida temeva che succedesse qualcosa di irreparabile. Si attaccò
alla spalla di Elia, come a un gancio, e cominciò a pregarlo di non gridare e di
non farmi male per amor suo. Elia mi lasciò ricadere nella sdraio. Poi lui si
sedé per terra, con la testa fra le gambe.
– Cosa è successo, Andrea? Perché non mi dici cosa è successo? –
chiedeva la signora Ida.
– Questo pazzo è diventato cieco di gelosia, – disse Elia con collera. –
Massacra gli uomini e poi li pungola col pugnale, perché è geloso che Anna
va in macchina con quel bestione del capitano Mattei. Dio, come è diventato
idiota!
Io restavo lí, sempre inerte, e a malapena intravedevo la signora Ida andare
intorno con le mani sulla testa. Il dolore al cuore, adesso, era diventato quasi
una cosa dolce.
– Vuol farsi degradare, – ripeté Elia, come una cantilena. – Questo pazzo
vuol farsi degradare, e perché poi? Perché una donna se ne va a spasso e lui
scoppia di gelosia, e perciò massacra gli uomini e vuol farsi degradare.
Infine mi alzai e scesi giú. Anche Abele, che aveva sentito gridare, era
sulla porta di casa, e mi lanciò un grido. Io non salutai Abele e me ne tornai
in caserma. Gli uomini erano stesi sui pagliericci, e quando mi videro entrare
nessuno parlò piú. Andai a vedere come stava il ragazzo Gioioso, ma Gioioso
stava molto meglio. Gli lisciai la testa. Il ragazzo allora sorrise. Disse:
– Sergente, proprio non ce la facevo piú e sono caduto.
Gli lisciai ancora la testa e volevo chiedere scusa al ragazzo, ma non seppi
dirgli nulla; cosí andai alla mia branda e mi distesi. Gli uomini mi
guardavano sempre e non dicevano nulla. Non parlarono fino all’ora del
rancio, quando tornarono gli altri uomini dalle istruzioni.
Non scesi per il rancio e restai sdraiato nella mia branda. Solo verso le tre
venne il tenente Mazzoni e mi disse che ero agli arresti. Il maresciallo Bassan
mi portò, piú tardi, le istruzioni. In quei giorni non vidi nessuno, nemmeno
Elia. Poi, qualche giorno prima che finisse la sala di rigore, venne il tenente
Mazzoni a dirmi che si usciva per i rastrellamenti.
Era di mattino presto. Elia mi cercò fra gli uomini e mi disse: – Anna ti
aspetta. Vieni a salutarla.
– No, dille che non mi serve e che non voglio piú vederla, – dissi.
– Vieni giú un momento, – insistette Elia. – Oggi ci uccideranno in
montagna. Può darsi che la vedi per l’ultima volta.
Seguii Elia. Sotto il portico della casa di Abele, Anna mi aspettava.
Tremava di freddo sotto la vestaglia. Appena mi vide mi si buttò tra le
braccia.
– È colpa mia, Marco. È tutta colpa mia, – disse. – Ma non ho fatto niente
di male, Marco.
Adesso, con Anna fra le braccia, mi era caduta tutta la violenza. Presi a
baciarla sui capelli.
– Tu non capisci quanto ti voglia bene, – disse Anna. – Ma ora giurami
che non farai piú male agli altri, Marco. Guardami bene. Dimmi che non farai
piú pazzie.
– Oggi ci uccideranno, – dissi guardando oltre la sua spalla. Vedevo Elia e
la signora Ida che si baciavano.
– Marco! – implorò Anna.
– Non sei stanca di questo amore? – chiesi sempre guardando la signora
Ida.
Anna non rispose. Odorava di lenzuola e di freddo. Poi disse, baciandomi
sulla guancia:
– Ti aspetterò, Marco. E pregherò per te.
Poco dopo Elia mi tirò per la manica.
– Andiamo, – disse.
Seguii Elia. Le due donne alzarono le mani. Le vedemmo cosí fino a
quando richiudemmo il portone dietro le nostre spalle.
XXVII.

Lo zaino delle munizioni cominciò a pesare sulle spalle. Gli uomini erano
sfiancati. Per ogni quattro chilometri di montagna c’erano dieci minuti di
riposo. Gli uomini si buttavano per terra e non avevano piú voglia di alzarsi.
Il tenente Mazzoni ripeteva agli uomini:
– Ragazzi, è meglio che non fumiate.
Era sorto il sole sulle montagne. Incominciava la primavera e il sole ci
fasciava come in un panno caldo. Si abbandonavano i dorsi dei monti aguzzi
e si scendeva a valle di sguincio; a valle incontravamo corsi d’acqua limpida
e alberi stroncati. Poi si risaliva per i sentieri dei montanari. Mazzoni
bestemmiava continuamente che non s’incontrava nessuno. Cominciammo
col frugare le baite e i rifugi, e le baite erano vuote e senza bestiame, e i rifugi
chiusi.
Ora si marciava quasi in silenzio e la tristezza prese gli uomini di faccia.
Elia non aveva parlato dal mattino. Io m’incollavo sulle spalle la piastra della
Breda, e andavo con la testa rincagnata sotto. In questo modo facevamo il
cambio con gli uomini piú robusti del plotone.
Verso sera ci fermammo. La cena con carne secca presso il bivacco largo
della valle si prolungò piú del solito, perché gli uomini mangiavano con
pigrizia, e solo qualcuno aveva il fiato di raccontare storielle senza
importanza. Alla fine il tenente Giordano prese a suonare un’aria di soldati
con l’armonica da bocca, ma poi smise e si coricò sulle foglie.
Elia venne a stendersi al mio fianco.
Guardavo gli alberi fitti che partivano dalla valle e salivano lungo la
montagna; pareva che si sdoppiassero e vivessero sotto la luna. Su e giú, a
cinquanta metri dal bivacco, le sentinelle vigilavano. Tutte le armi avevano la
pallottola in canna. Le mitraglie arcuavano le zampe con le bocche nere
aperte contro l’invisibile, e dai loro fianchi i nastri metallici s’allungavano
come budella.
Elia si accostò ancora, nella coperta, e mi diede un colpettino con la testa.
– Come va? – chiese.
Aveva la barba puntata contro il cielo bianco.
– Senti, voglio raccontarti una storia, – disse Elia. – Vuoi?
– Va’ all’inferno, – risposi sgarbatamente.
Elia si girò dall’altro lato, dentro la coperta, e non parlò piú. Io non
dormii, incantato dalla luna sugli alberi.
All’alba riprendemmo la marcia. Verso mezzogiorno raggiungemmo il
posto di concentramento con la II e III compagnia. Il capitano Mattei non
c’era. Nemmeno la II e la III compagnia avevano trovato niente sulle
montagne.
– Questi ribelli si sono volatilizzati, – disse il capitano della II compagnia.
Il tenente Mazzoni disse:
– Io non sono del tuo parere: le informazioni erano esatte.
– Finisce che dobbiamo rientrare – disse Giordano.
– Io farò un’altra battuta, – disse Mazzoni. – E se i viveri non ci bastassero
me li cercherò per strada.
Gli ufficiali delle tre compagnie segnarono alcuni punti sulla carta
militare, e si divisero le zone. Cosí riprendemmo a salire. Presto incontrammo
una radura e poi un folto d’alberi, infine una montagna brulla e rasa come un
cocomero. Camminavamo sulle creste dei monti. Ma prima che il sole si
spappolasse in chiazze d’uovo incontrammo un capraio. Il tenente Mazzoni
gli sparò dietro e il capraio si fermò.
– Perché scappavi? – gli disse Mazzoni.
– Pppaura! – disse il capraio, e la paura gli era fra i denti.
Era un ragazzo con poca barba e occhi larghi, azzurri. Mazzoni gli frugò
nel petto e nelle tasche, e il capraio batteva sempre i denti come se avesse
freddo. Poi un liquido gli bagnò i pantaloni. Il ragazzo se ne accorse con
terrore.
– Si fa addosso, – disse il tenente Giordano, ridendo.
Il ragazzo poi cominciò a dire parole sconnesse, guardando i fucili che gli
stavano contro il petto. Disse che era renitente di leva, ma non partigiano, e
aggiunse di avere la mamma vecchia e due sorelle. Non era andato soldato
perché doveva pensare alla mamma vecchia e maritare le due sorelle.
– Non hai letto il bando contro i renitenti? – gli chiese Mazzoni.
– Signore, non so leggere né scrivere, e non ho colpa di niente. Con questa
guerra dicono che non è obbligatorio fare il soldato. Dicono che chi si sente
ci va. Io non sapevo che era obbligatorio.
– Senti, – gli disse Mazzoni, – se vuoi riportare la pelle a tua madre devi
dirci dove sono i partigiani.
– Non li conosco, – gemé il capraio. – Non so dove si trovano.
Giordano disse al tenente Mazzoni:
– Non gli caveremo niente. Mandalo via, Gianni.
– Sí, credo che bisognerà mandarlo via, – disse Mazzoni cupamente.
Allora il ragazzo gli si buttò tra i piedi e disse:
– Grazie, io non ho colpa di niente. Mazzoni lo sollevò per un braccio e
disse:
– Cammina davanti a me, sul sentiero.
Le capre si erano raccolte in gruppo sulla montagna e ci guardavano con
occhi dubbiosi. Le loro groppe tremavano. Il capraio saltellava giú per il
sentiero, e presto incontrammo i primi campi di grano verde. Ai fianchi
c’erano le abetaie e spacchi di cielo chiaro nelle insenature dei monti.
Voltandomi indietro vedevo che il gruppo delle capre ci seguiva a distanza, e
innanzi a tutte c’era un becco con la testa bassa e le grandi corna nodose.
Il capraio, adesso, non piangeva piú e forse si era rassicurato. Mazzoni
aspettò che avanzasse ancora di cinque passi. Poi gli sparò alle spalle tutto il
caricatore del mitra. Il capraio ruzzolò per il sentiero come una palla,
arenandosi infine in mezzo al grano. Bocca aperta e gambe larghe e occhi
pazzi spalancati al cielo.
– Qualcuno lo troverà, – disse Mazzoni, rinnestando un altro caricatore.
Continuammo a scendere. Prima di perdere la linea azzurra delle
montagne mi voltai ancora a guardare su. Le capre scendevano sempre piú
lentamente verso il loro padrone morto. Poi si raccolsero in cerchio intorno al
capraio e presero ad annusargli il viso. Qualcuna ci seguiva ancora coi suoi
occhi liquidi e spaventati.
Nella valle ci fermammo a bere al ruscello e poi lo seguimmo. Nel cielo
era rimasta un’ultima striscia di luce. Elia a un tratto mi strinse il braccio e io
lo guardai senza rispondere. Poi Elia sputò sulla foglia verde ai suoi piedi,
come se provasse schifo di qualcosa. Disse:
– Farà una bella notte. Dalle mie parti, con queste notti, si caccia in palude
–. Sputò ancora, e aveva le labbra secche.
– Ed è bello, con queste notti, – seguitò Elia. – Uno le punta i fari negli
occhi e l’altro la prende. La rana schizza un poco nel pugno, poi tu stringi col
pollice alla base del collo oppure la sbatti contro i tronchi, tenendola per le
giunture delle gambe. Ne prendevamo sempre parecchie, in palude.
XXVIII.

Quando Elia fu sicuro che tutto era in ordine nella camerata, e gli uomini
dormivano, disse che potevo andare, perché lui avrebbe fatto il mio servizio.
Nemmeno alla mensa avevo visto il capitano Mattei, perciò chiesi a Elia dove
fosse il capitano Mattei, come se Elia fosse tenuto a sapere ogni cosa. Elia
allargò piú volte le braccia e ripeté che non sapeva dove fosse il capitano
Mattei. Infine disse:
– Vai, e cerca di fare una cosa alla svelta.
Scesi il vicolo stretto davanti alla caserma, ma solo quando fui
nell’androne della casa di Abele mi accorsi che avevo corso. Respirai piú in
fretta per calmare l’affanno. Poi spinsi la vetrina e fui dentro.
Nessuno si volse a guardarmi. Abele non c’era e nemmeno la moglie e il
ragazzotto rosso erano davanti al fuoco. Davanti al fuoco quasi spento la
signora Ida aveva la testa sulle ginocchia, e di dietro le vedevo la nuca
bianca.
Simone parlò per primo. Disse:
– Ti abbiamo conservato le castagne.
Io non guardai Simone, ma chiesi subito alla signora Ida:
– Dov’è Anna?
La donna non si mosse e io chiesi piú forte:
– Dov’è Anna?
Allora la signora Ida sollevò nella luce il suo viso asciutto e disse:
– È andata via, Anna.
Volevo parlare ancora, ma le parole non vennero.
Rigido in mezzo alla stanza aspettavo che la donna riprendesse a parlare.
Poi dissi quasi gridando:
– Aveva detto che mi aspettava. Non può essere andata via.
– È andata via, – ripeté la signora Ida, tenendo sempre la testa sulle
ginocchia.
Adesso potevo sentire il fuoco e il respiro del vecchio. Mi cercai una sedia
e presi le castagne nel paniere, automaticamente. La signora Ida continuò: – È
andata via nel pomeriggio. Ha detto che tu sapevi che andava via.
– Ma perché, perché se n’è andata? – chiesi ancora come un bambino, e
subito mi venne una gran voglia di piangere e rompere qualcosa. Ma la
signora Ida ripeté monotonamente, con la faccia contro il fuoco:
– Ha detto che tu sapevi che andava via.
Passò del tempo. Poi la donna aggiunse, con voce piú calda:
– Elia è tornato?
– Tutti, siamo tornati tutti, ed era mille volte meglio se non tornava
nessuno, – dissi.
Capivo che mi esaltavo inutilmente, ma volevo fare qualcosa per impedire
che quel pugno, internamente, mi stringesse forte. Poi chiusi gli occhi, per
sentire piú netto quel male interno, finché non vidi molti dischi rossi davanti
a me, da quella parte dove ascoltavo il fuoco.
Infine la signora Ida si alzò dal suo posto e uscí senza far rumore. Potevo
udirla come saliva le scale, strisciando i piedi come se fosse diventata
pesante, e poi il suo passo si perse sulla terrazza.
Potevo udire il fuoco e il soffitto.
Dopo qualche tempo mi scossi dal dormiveglia in cui ero caduto, sentendo
il freddo alle reni. Allora Simone riattizzò il fuoco, vi buttò delle strisce di
legna secca e delle frasche. La legna crepitò e la fiamma prese a lambire la
catena fuligginosa del camino. Alla fiamma i nostri volti si fecero rossi.
– Le volevi molto bene?
La voce di Simone veniva dal fuoco. Avvicinai di piú il volto alla fiamma,
senza rispondergli. Potevo vedere il fuoco nei miei occhi. Lingue bianche e
azzurre tremavano sui carboni piú bassi.
– Io sapevo che se ne sarebbe andata. Dal primo giorno che la vidi sapevo
che se ne sarebbe andata.
Potevo sentire il fuoco e il soffitto.
– Succede sempre che una persona alla quale si vuol bene se ne vada. E
noi soffriamo molto allora, e poi non possiamo fare niente contro il nostro
dolore.
Potevo sentire i mobili e il soffitto. Era di tavole il soffitto e, ogni tanto,
scricchiolava.
– Ma è meglio che se ne sia andata, perché ha visto nel tempo. Il male di
donna è male che guarisce, ma il nostro pensiero vede sempre quel male, e
cosí il dolore è sempre piú forte.
Sentivo il fuoco e i carboni che ruzzolavano.
– Ma è meglio che se ne sia andata. Il tuo male guarirà incontrando
un’altra donna, perché tutti i sentimenti si ripetono, e nessuno è profondo nel
modo di distruggere.
Simone riaccostò col piede dei carboni dirupati dal mucchio, ne prese uno
nella mano, lo fece ballonzolare nel palmo, poi lo gettò nuovamente nel
fuoco.
– Era una bella donna, e ha amato una stagione, – continuò il vecchio,
come parlando a se stesso. – E ora se n’è andata per non essere scacciata. Ha
saputo misurare il suo amore, accorgendosi di quando doveva andarsene. Sai,
è come uno che si uccide prima che gli altri lo portino alla forca. Già, credo
che sia proprio cosí.
– Il dolore, adesso, è soltanto mio, perché chi amava di piú ero io, – dissi
guardando il fuoco.
Simone sospirò. Disse:
– Durerà poco. Non è il dolore di donna che risolve. Noi ci accasciamo
davanti a questo male di passaggio, e non abbiamo cuore per i dolori piú
grandi.
– Oh, Simone! – dissi seccato.
Mi alzai e raccolsi la bustina sulla sedia. Guardavo l’aquila d’argento sulla
bustina.
– Vuoi andartene? – chiese Simone fissandomi coi suoi occhi rossi,
incassati nelle rughe. – Non mi saluti nemmeno, figliolo?
Mi rigiravo la bustina tra le mani e sentivo ancora il fuoco e il soffitto.
– Domani all’alba salirò verso le baite con tutte le mie capre, forse non ci
rivedremo piú. Perciò volevo salutarti.
– Perché non ci rivedremo piú? – dissi. – Quando scenderai noi saremo
ancora qui.
– Chissà dove sarete voi! – disse il vecchio. – Pensi che la guerra non
dovrà finire?
Simone si alzò e mi prese per il braccio.
– A maggio, forse, sarà tutto finito. Ma voi non sarete piú qui, né altrove.
Forse non ci saranno piú guerre. Forse potremo vivere in pace i giorni che ci
restano.
– Simone, non capisco. Non ti riesco a capire. Cosa vuoi dire che non
saremo piú qui, né altrove? Spiegami, Simone, – dissi.
– Tu sei un ragazzo, – disse Simone – e non capiresti. Mi dispiace, sai, dei
ragazzi come te. Siete nati un po’ male, voi.
– Simone, spiegati per favore, – dissi.
– Niente, niente. Andiamo via, – disse il vecchio. – Se tu fossi meno
ingenuo ti proporrei di venire con me. Sai, potremmo raggiungere presto i
rifugi piú alti, con le strade che so io.
– Ma che vuoi, Simone? Perché non ti spieghi meglio? – dissi
stringendogli il braccio.
– Tu non capisci, perciò è tutto inutile che mi spieghi meglio, – disse
Simone. – E anche se ti dicessi che la guerra l’avete persa, che fra qualche
mese sarete massacrati, che molti di voi non rivedranno le mamme, tu
seguiteresti a non capire. Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che
commettete contro la gente, ma non riesci a capire come stanno le cose. Non
riesci a vedere chiaro. Perciò resti solo un ragazzo, figliolo, e ti costerà caro
essere stato ragazzo in una guerra come questa.
Uscimmo sotto il portico e, nella casa di Abele, Simone spense la luce.
Avevo la testa piena di parole del vecchio, ma da un pezzo non lo sentivo piú.
Pensavo sempre alla maniera canaglia come una donna mi aveva piantato.
C’era una luna grande nel cielo, fra bianche macchie di nuvole. Davanti al
portone il vecchio mi strinse la mano, con calore. Poi disse guardandomi
negli occhi: – Che Iddio ti riporti a mamma tua, figliolo. Se poi le cose si
mettono a posto anche per te, scrivimi qualche volta. Sarò contento di sapere
che sei vivo.
Simone scese lentamente il vicolo, rasentando il muro, e anch’io risalii.
Nel chiaro di luna, tornando in caserma, sapevo che anche nel Molise, lí a
Provvidenti, era bello cacciar rane in palude…
XXIX.

Ma nei giorni seguenti vivevo come in uno stato di cieca ubriachezza, e


non mi curavo dei mormorii degli uomini. Taluni dicevano che il capitano
Mattei mi aveva fatto becco, altri giuravano che la donna era troppo bella per
un uomo brutto come me, e se ne era andata perché io la picchiavo. Cosí
dicevano.
Quell’aria densa e bianca che mi girava torno torno il cervello aveva la
pretesa di sollevarmi verso un cielo invisibile. Mi pareva che il corpo mi si
allungasse smisuratamente, e una orribile distanza mi separasse dal resto dei
piedi. I piedi, a loro volta, appena toccavano terra, molleggiavano come se
avessi gambe di elastico. Era una sensazione quasi analoga a quella provata
in cima alle vette, con gli strapiombi ai lati e l’aria che mi fasciava il cuore in
un panno caldo.
Mi andava sempre di fischiare motivi improvvisi che venivano in mente
automaticamente. A volte fischiavo Bandiera Rossa senza saperlo, e allora
qualcuno mi afferrava alle spalle, mi scuoteva e gridava: – Sergente, diventi
scemo?
Il giorno della partenza mi sentivo meglio. Per la prima volta, dopo la fuga
di Anna, risalii sulla terrazza della signora Ida. Elia ne veniva allora, e
nascondeva il suo rammarico nel mistero della barba.
– Sbrigati coi saluti, – disse Elia ruvidamente.
Gli risposi con un grugnito, perché mi seccava la sua asprezza.
Elia sparí sotto il portico della casa. Nella striscia di via che s’inquadrava
nel portone ad arco vedevo i primi soldati scendere nella piazzetta sotto
l’albergo, con gli zaini affardellati e le armi con le canne in giú.
– Non vuoi sederti? – disse la signora Ida.
– Nella sdraio, in questo sole, – dissi. – Me ne ricorderò di questo sole.
Anche i vostri budini erano buoni.
La donna non era molto cambiata dall’ultima volta; però, ora, si vedeva
bene che aveva pianto. Quella voglia di pianto le era rimasta negli occhi
troppo rotondi. Il naso era il piú tormentato perché aveva macchie rosse alla
punta, per via del continuo sfregamento del fazzolettino. E non aveva piú
rossetto alle labbra la signora Ida, ché adesso quel matto di Elia se l’era
leccato tutto, senza risparmiarsi. Quando la signora Ida si accorse che le
guardavo proprio le labbra, e nei miei occhi c’era una luce maliziosa, si girò
con un movimento dispettoso. Poi disse:
– Caro Marco, ci rivedremo ancora, non è vero?
Andò a una cassa e ne cavò fuori una bottiglia con un liquido bianco che
ben conoscevo, senza dare importanza al mio modo strano di rispondere.
– Non vuoi bere? – disse, tornandomi vicina.
Le presi la bottiglia dalla mano e bevvi senza usare il bicchiere. I nervi del
collo mi si tesero perché la grappa era amara in bocca e mi bruciava le
viscere.
– Ti ho riempita la borraccetta da portar via, – disse la donna. – Elia mi ha
detto che andrete molto in su, e forse troverete la neve.
– Può darsi che troveremo la neve, – dissi posando la bottiglia, – ma chi sa
mai qualcosa di certo dove ci portano? Sempre cosí, in guerra. Non sai mai
dove ti portano. Ma fosse almeno una vera guerra la nostra! Mah, ormai non
mi ci rompo piú la testa a pensare, zia Ida. Adesso faccio come il soldato
Berlina, mi portano in un posto e dicono spara. E io sparo e gli altri sparano,
perché l’ordine riguarda tutti. Tutti sparano, davanti e dietro. Io non capisco
piú niente quando sparo.
– Marco, non parlare cosí, – lei disse dolcemente. – Anche la guerra
passerà, e poi tutti saremo diversi. Anche tu, Marco.
– Anch’io, zia Ida? Vorrei essere diverso, vorrei cambiare nome, vorrei
cambiare persino corpo. Vorrei essere nuovo in tutto, oppure avere la forza di
superare queste cose e giovarmene per far bene, per comprendere e sapere
amare gli uomini. Ma non ho fiducia, zia Ida. Un uomo solo, in un mondo
rotto come questo, non saprà conservarsi buono. O verrà fatto fuori.
– Marco, passerà tutto. Ma ora vattene tranquillo. Io aspetterò che voi
torniate.
– Anche quella donna, Anna, diceva che avrebbe aspettato, – dissi.
– Io non c’entro in queste tue parole, – disse la signora Ida accigliandosi.
– Lo credo bene, zia Ida, – dissi.
– Perciò ora parti tranquillo. Rimetterai ancora gli abiti civili. Con quegli
abiti ci si sente sempre piú buoni.
Mi alzai. Presi la borraccetta e guardai la donna.
– Zia Ida, io credo di non essere piú buono, – dissi. – Forse non lo sono
mai stato. Sapete, qualche volta mi domando perché sono finito in guerra. Ho
cercato, può darsi, tutte le avventure, anche le piú disoneste, meno però di
finire in guerra. Ed ecco che vi sono entrato fino al collo, fino allo schifo,
fino al desiderio di finire ammazzato come tanti altri, anziché seguitare a
vivere cosí, con una divisa e un fucile. Zia Ida, io… io…
Mi sforzavo di spiegare quali erano i miei veri sentimenti. Poi mi sorpresi
a pensare, nello stesso momento: «A che vale spiegare se stessi, se ci si trova
incamminati per altra strada?» Perciò dissi:
– Bene, ormai non m’importa piú di niente. Simone è andato a ritrovare i
partigiani. Mi ha fatto uno strano discorso, ha detto che presto finirà tutto e
ha compassione di me. Ma adesso non m’importa piú un cavolo di niente.
Venga qualunque cosa. Piú che ammazzarmi non mi potranno far altro.
La donna tornò a premersi gli occhi col fazzoletto. Disse:
– Marco… – Non concluse; era irritata e infastidita. Mi accompagnò fino
alle scale e io le strinsi la mano. Dissi:
– Arrivederci, zia Ida. Scusatemi queste cose. Sarebbe meglio non
pensare. E voi dimenticate le mie parole.
La donna mi trattenne ancora. Disse quasi senza parere, come se fosse
naturale:
– Qui c’è sempre il tuo vestito civile. Lo conserverò bene, per quando ti
servirà.
– Grazie, zia Ida. Voi…
Volevo dirle «voi siete buona» poi mi pentii. Dissi ancora: – Arrivederci,
– e le lanciai l’ultimo saluto con la mano.
Scesi di corsa le scale. Abele era fermo sulla porta di casa; alzò la mano
nell’aria, agitandola, e io gli gridai:
– Ciao Abele. Ricordami a Simone.
Fece sí con la testa e restò sulla porta a guardarmi. Ricorderò sempre
Abele che fa sí con la testa, sulla porta di casa, e mi guarda andar via.
XXX.

Qui, nell’azzurro di questa sera,


dalla mia terra spaccata,
cantano le quaglie, ma non per amore.
Un animale scuro, senza nome,
che nemmeno i vecchi conoscono
passa nel corno freddo della luna:
è la tarantola dei gabbieri? La capra
dei flagellati? L’ora dei morti?
Ascolta, pastore straniero, questo
non è il tempo del miele
e delle uova dipinte nemmeno,
siamo soli col nostro vino
la nostra tela e le nostre donne.
I morti stanno per tornare a trovarci
sopra i loro carri rossi.
A. CASADIO

Fu quando sparammo i primi colpi che Elia disse: – Questa volta ci siamo.
Poi, tra una scarica e l’altra, mi dettò il suo indirizzo. Disse:
– Il mio paese si chiama San Merano di San Giuseppe, e resta in provincia
di Taranto. Se faccio il buco quassú e tu no, riporta il mio berretto a casa.
Io gli dettai il mio indirizzo.
L’azione incominciò come una semplice scaramuccia, ma quando
prendemmo la casamatta fuori della boscaglia, ci apparve il Mortirolo come
un cocomero bianco, e la neve lí raggiungeva i due metri. Sulla cresta del
cocomero c’erano le postazioni nemiche; di lí scendevano raffiche e
valanghe. A 2800 metri sentivamo un freddo da polo. Ma presto passò anche
il freddo, perché la demenza in cui eravamo caduti ci inebriava di calore.
Ormai era già una settimana che volevamo prendere il cocomero, e quelli di
lassú ci dicevano di no. I soldati dicevano, sfiduciati:
– Ci vorrebbero tre Spitfire con qualche bombetta fatta bene, ché noi non
ci possiamo far niente con questi dannati. Perciò ci vorrebbero tre Spitfire, e
forse anche qualcuno in piú.
Quelli del cocomero avevano pezzi da 81 e una mitraglia per trincea.
Sparavano con calma. Sparavano, mangiavano e facevano i bisogni. Spesso
dicevano, per sfottere:
– Non venite su, leoni?
Sparavano giú raffiche che era un’ira di Dio, e ridevano. Si udivano
distinte le loro risate fredde, nelle pause del fuoco. Fra le loro voci una era
piú reboante. Diceva con ira:
– Tirate al piccione!
E il tenente Giordano era morto, subito dopo che quella voce aveva
gridato. Ed era morto il sergente Berneschi di Firenze, il maresciallo Bassan,
ed era morto il sergente Elia. Tutti colpiti alla testa dal cecchino infallibile. Il
loro berretto con l’aquila sulla visiera era rotolato sulla neve.
– Sergente, sei ferito anche tu? – gridò il rifornitore Pasquini.
– No, non ancora, – risposi. – Elia è morto?
– Pare di sí, sergente, – disse Pasquini.
– Ti va di andargli a prendere il berretto?
Pasquini non rispose subito. Poi gridò:
– Bene, speriamo che non mi freghino.
Sgusciò fra le pallottole fino al cadavere di Andrea Elia, e gli prese il
berretto bucato. Tornò strisciando.
– Eccoti la reliquia, sergente, – disse.
Il berretto di Elia era macchiato di sangue e di cervello. Me lo infilai nella
cintura dei pantaloni e continuai a sparare, senza nemmeno ringraziare il
rifornitore per la sua bravura.
Di tanto in tanto le mitraglie s’inceppavano; qualcuno pisciava nel carrello
perché era finito l’olio. Il capitano Mattei era sempre dietro i soldati, col
binocolo e la pistola in pugno come un eroe di celluloide. Gridava:
– Cantate, ragazzi! Fate sentire che avete ancora fiato.
I soldati attaccavano rabbiosamente:
A noi la morte non ci fa paura
ci si fidanza e ci si fa all’amor,
se poi ci avvince e ci porta al cimitero
si accende un cero – e non se ne parla piú.

Ma la voce del capitano Mattei stimolava sempre e ripeteva:


– Ancora, ancora ragazzi. Morite con le canzoni sulle labbra, le canzoni
della vostra giovinezza!
Dalla cima del cocomero gli rispondevano risate sarcastiche e scariche che
spazzavano il declivio. La voce beffarda gridava dietro il capitano:
– Cantate, cantate coglioni!
I morti nostri erano punti neri sul bianco del monte. Conquistavamo la
neve palmo a palmo. Vedevamo le trincee e le bocche da fuoco da
conquistare. Il nemico era lí, nei rifugi di cemento armato che si era costruito
fin dall’8 settembre del ’43. Non scappavano, i partigiani. Ma dovevamo
andare a prenderceli, e chi riusciva ad avanzare di un sol pollice sotto la
grandine dei proiettili era bravo.
Tutto il Mortirolo, dalla Valcamonica e dalla Valtellina, era circondato da
reparti italiani, tedeschi e mongoli. Nella Valtellina, si diceva che alla testa
degli uomini c’era il Duce in persona. Balle, il Duce a quell’ora stava
scappando verso la Svizzera dentro un’autoblinda tedesca. Ma io e gli altri
non potevamo saperlo, perciò sparavamo sempre come matti e presto
volevamo finirla col cocomero e con quelli che lo difendevano, ché avremmo
visto il Duce, poi.
Il nono giorno apparecchi americani lanciarono paracadute ai partigiani.
Tre caddero nella nostra linea e uno lo presero gli uomini del mio plotone.
Cosí assaggiai la cioccolata americana, che era una bella stecca dura che si
spaccava con dolcezza sotto i denti.
Riuscivamo ad avanzare un poco la notte. Durante il giorno si
sonnecchiava sull’arma, sempre cullati dalle voci sarcastiche di lassú.
Aspettavamo la nebbia. Ma Pasquini diceva che anche Dio ci era contro,
perché Dio mandava la pioggia e il freddo e mai la nebbia.
Adesso della mia compagnia erano rimasti settanta uomini, di 150, e del
mio plotone soltanto cinque. Potevo contarli: Pasquini, Danilo, Berlina,
Forestale e Jacopi. Berlina aveva un piede congelato e ripeteva:
– Voglio tornare a casa.
Pasquini alla fine gli diede un pugno. Gli disse:
– Non sei mica in collegio.
Berlina sarebbe morto. Aveva addosso quell’odore caratteristico della
morte.
Quando il capitano ingiungeva di sparare «oculatamente», io sventagliavo
raffiche pazze, e cosí lui si arrabbiava che sprecavo le munizioni. Poi, una
bomba lanciata dall’alto, mi portò via la mitraglia in due pezzi. Le schegge
mi passarono sulla schiena senza prendermi. Mi diedero una «T. 43» tedesca
molto leggera, che sparava piú colpi della Breda. Dissi al rifornitore che era
una pacchia sparare con la «T. 43», e quello disse che non avevamo tante
munizioni da sprecare.
Intanto, quelli del cocomero tiravano sempre al piccione, e cosí anche il
tenente Forlani era morto. Ora miravano a Mazzoni. Tutte le bocche da fuoco
dei partigiani erano rivolte contro il tenente Mazzoni. Ma lui andava sempre
davanti a tutti e non lo prendevano mai. Restava il suo berretto col piccione e
il mio. Del capitano neanche parlarne. Annusava sempre la puzza dei culi.
Avevo intenzione di gridare:
«Capitano, dico, o che vi siete portata via quella donna. Tutti i soldati lo
dicono, e ora debbo crederci anch’io. Ci sapete fare con le donne, capitano!
Era una bella donna Anna, l’infermiera, e me l’avete soffiata, capitano. Ma
ora è a letto col colonnello, Anna, perché quella lí non sa aspettare a lungo i
ritorni. Cristo, che carriera brillante! Ero un semplice soldato e quella puttana
mi amava. E ora è a letto col generale. Non andate ad ammazzarla, capitano?
Non avete coraggio voi, capitano. Non avete mai avuto coraggio, perché vi
piace sentire la puzza dei culi. Siete un porco, capitano!»
Ero di nuovo nello stato di ubriachezza, adesso che la battaglia aveva
ripreso fiato. Gli uomini morivano a coppia. Stramazzavano facendo un
mezzo giro col corpo piegato. Arrivò una raffica. Il rifornitore al mio fianco,
quello che infilava il nastro, abbracciò la neve e non si mosse piú, mentre da
sotto i pantaloni colava rosso.
– Addio, Forestale, – disse Pasquini.
Io sentii un male fra le gambe, e la borraccetta della signora Ida che stava
lí cominciò a colare un fiotto d’acqua sulla neve. La pallottola aveva bucato
la borraccetta e si era deviata. Quella doveva essere la mia pallottola, perché
era partita dal solito cecchino che mi teneva di mira da tre giorni. Dovevo
avere un amico fra i partigiani, perché mi tirava sempre, ora sul berretto e ora
di fianco, ma era un tiratore da quattro soldi.
«Un tiratore da quattro soldi, signora Ida, perché non riesce mai a
impallinarmi. Pasquini mi dice sempre di tenere la testa giú, ma io dico: come
si fa a ficcare la testa giú con questa sarabanda che non ci fa capire piú
niente?
«Mi sono salvato ancora una volta, e per merito della vostra borraccetta,
signora Ida. E io vi ho fatta piangere con le mie parole, mentre voi ci
aspettate. Ci aspettate, avete detto, quando sarà tutto finito. Ma quando
finirà? Abbiamo dimenticato che giorno è oggi, signora Ida, perché quassú
non esistono calendari. Ma voi ci aspettate sempre, me e Elia, e a quest’ora,
forse, state pregando per noi.
«Lo chiamavamo Papà Natale il sergente Elia, ricordate?, per via di quella
gran barba che lui diceva di portare da Bir–el–Gobi. Ma sotto aveva un
graffio di pallottola, ecco perché portava la barba. Era un caro ragazzo Elia,
credete a me. Era un caro ragazzo, e ora è morto. Voi non immaginate
nemmeno che a quest’ora Elia sia morto. Perciò seguitate a pregare per me e
lui sulla terrazza col sole e col grammofono.»
Uno di lassú gridò:
– Tartarughe, venite avanti. E che, aspettate il carretto?
– Senti, senti! – disse Pasquini alle mie spalle. – È un romano che parla.
Perché non gli dai una scarica, sergente?
– Già fatto. Ma passami le munizioni, Pa. Finiscono presto.
– Levati il berretto, Marco, – disse Pasquini passandomi un altro nastro. –
Questi figli di buone donne mirano al piccione.
– Senti, – dissi. – Oggi mi sento allegro. È vero che i mitraglieri amano la
loro arma come la loro donna?
– Cosí dicono, – disse Pasquini. – Lo diceva anche Ottobrini che è morto
in Val Sesia. La sua Breda la diedero a te, mi pare, e in quel tempo eri
soldato. Dicono che i mitraglieri diano metà del loro cuore alla donna e metà
all’arma. Sono morti tutti sull’arma, i mitraglieri.
– Il mio cuore è tutto per l’arma, Pasquini, – dissi. – E non sono mai stato
tanto felice.
«Nemmeno con te, Giulia, sono stato felice. Tu eri una ragazza, una
straordinaria ragazza con i capelli come le selvagge di fratte. Amavi come se
fosse l’ultima volta. Ricordo che impazzivi improvvisamente e i tuoi occhi
diventavano trasparenti come il vetro cotto. Poi dicevi – Dio, se debbo vivere
con questa natura maledetta è meglio che mi prendi adesso che sono giovane
–. E poi piangevi seduta sul truogolo rovesciato del maiale, e mi lisciavi le
mani, e dicevi di amare molto le mie mani delicate, le mie mani da
‘reverendo’, ricordi? Oh, Giulia come siamo stati ingiusti tutti e due! E il
nostro era vero amore? Ma tu non hai conosciuto Anna l’infermiera. Non
l’hai conosciuta, e non puoi giudicare. Ma ora, Giulia, chi mi ridarà i tuoi
occhi, le tue carezze d’allora, i tuoi pianti disperati?»
– Spara meno, sergente! – disse Pasquini. – Siamo a corto di munizioni.
– E a te che te ne frega? – dissi. – Dovranno pur finire una volta, no?
Accadde una cosa straordinaria. Le postazioni nemiche sparvero avvolte
dalla nebbia. Anche il fuoco si arrestò per un minuto.
– Fate silenzio! – gridò il tenente Mazzoni.
– Avanzate a sbalzi! – disse il capitano Mattei.
Era una bella nebbia bianca, ma da dove era saltata fuori cosí
all’improvviso? Saliva su dalla neve, e l’avevamo aspettata tanto, perché solo
con la nebbia potevamo compiere colpi di mano.
– Sono i nebbiogeni! – gridò Pasquini.
L’ala destra della compagnia cominciò ad avanzare a sbalzi, e il tenente
Mazzoni stava sempre in testa a tutti. Avremmo tentato il colpo gobbo col
Panzerfaust. Anche il capitano Mattei saltò fuori dal suo rifugio e avanzò un
poco affianco agli uomini, poi mi venne vicino.
– Punta sulla postazione di estrema sinistra, tu, – disse. – Apri un fuoco
indiavolato sotto le trincee, e se il fuoco risulta insufficiente bisogna attaccare
coi pugnali.
Il capitano si sollevò sul busto e gridò ai soldati:
– Ragazzi, o la va o la spacca. Questa è l’ora nostra.
In quello stesso momento il capitano Mattei si mosse come un verme sulla
neve.
– M’hanno preso al braccio, – disse subito. – Maledette carogne.
Balzò in piedi come inebriato da quella ferita, e gridò ai soldati:
– Avanti, ragazzi. Facciamoci sotto!
Il capitano prese a salire correndo, in piedi in mezzo alle pallottole, e i
soldati lo seguivano affascinati da quell’eroismo. I soldati correvano con le
gambe arcuate. Ma i primi, sempre i primi, venivano falciati sulla vetta del
cocomero e ruzzolavano per il declivio. Il tenente Mazzoni, il capitano Mattei
e altri uomini entrarono nel banco di nebbia che avvolgeva le postazioni. Poi
s’udirono delle grida disperate e una grande esplosione rintronò in tutta la
vallata. La trincea di destra saltò in aria con il Panzerfaust che aveva lanciato
Mazzoni.
Adesso tutti erano nel banco di nebbia. Il capitano Mattei aveva il suo
pugnale delle parate tra i denti, e i partigiani urlavano e bestemmiavano. Ma i
partigiani regalavano sempre le medaglie e i primi, sempre i primi, venivano
stroncati e ruzzolavano per il declivio. Non ancora mi prendevano. Per una
settimana avevano mirato al mio piccione.
Gridai:
– Gesú, proprio non c’è una pallottola per il mio piccione?
«Cara mamma, qualcuno ti riporterà il mio berretto bucato, e te lo lancerà
nella porta, senza entrare. Tu allora saprai che sono morto, e anche Giulia
saprà che sono morto. Riprenderai a percorrere la strada che porta al cimitero,
quella vecchia strada che insieme percorrevamo per andare a trovare i vecchi
nonni, e pregherai per me, e pregherai che Iddio accolga l’anima mia.
«Non ho vissuto una vita da cristiano, Concetta Laudato, benché tu mi
abbia battezzato. Iddio non mi accoglierà in Paradiso, e questo mi rincresce;
mi rincresce perché non mi sarà possibile rivedere la vecchia nonna Teresa.
Chissà, forse seguiterà a fare la lavandaia anche lassú, e dirà ancora che era
un mestiere da cani, il suo. E neanche tu mi troverai, quando sarà l’ora tua di
salire, e mi dispiace molto di tutto questo, Concetta Laudato, e mi dispiace
che in vita e in morte tu sempre mi dovrai cercare, senza mai trovarmi, e non
potrai mai piangere sul petto di tuo figlio. Avrei da dirti tante cose, ora,
Concetta Laudato, ma è meglio che tutto vada come deve andare.»
Adesso avevo imbracciato la mitraglia, mentre il treppiedi era ruzzolato
per le sbavature del cocomero. Il rinculo mi massacrava la spalla, e davanti a
me vedevo uomini con le braccia in aria e le loro orribili facce sozze di
sangue.
«C’è sempre il sangue davanti ai nostri occhi, e anche tu, Pietro Laudato,
dicevi che il sangue grida vendetta. Tuttavia non avresti esitato a spargere il
sangue qualora ti avessero insultato. Tu sei mio padre, Pietro Laudato, e hai
un carattere strambo. Quando ero ragazzo mi riempivi il sedere di calci se
appena mi vedevi fumare dietro un vicolo, oppure quando venivano a
lamentarsi le madri dei ragazzi che avevo picchiato.
«Da quando me ne andai dai preti, e m’annoiavo in discussioni inutili con
Peppe Molino, Guido Mairana, Ciccio Di Lazzaro e altri, con molti altri dei
quali non mi vengono i nomi, e camminavamo per il solito pezzo di strada, e
il cappello ci ballava sulle zucche per via del vento, tu mi chiamavi man–gia–
pa–ne–a–tra–di–men–to!
«Tu mi insultavi, padre mio, e io ti diedi il mio primo odio. Ma tu sei
come me, Pietro Laudato. Tu sei buono e cattivo quanto tuo figlio. Ci
assomigliamo troppo, Pietro Laudato, anche se ognuno di noi è umano e
disumano a suo modo.»
– Se ne va la nebbia! – qualcuno gridò.
– Maledizione a Dio! – gridò un’altra voce.
– Ritiratevi! – gridò il tenente Mazzoni. – Cosí ci faremo scannare
inutilmente.
I soldati ripiegarono strisciando giú per il declivio. Molti si lasciavano
ruzzolare insieme ai morti. Quelli delle postazioni miravano piú che a posta
sui morti. Anch’io mi lasciai ruzzolare. Il rifornitore Pasquini mi chiamò
credendomi ferito.
– Vieni giú, – gli gridai. – Lasciati ruzzolare con la cassetta.
Pasquini venne giú.
– Butta via quel berretto, Marco, – disse. – Stanno mirando di nuovo al
piccione.
I soldati ripresero le vecchie posizioni dietro la casamatta. Anche
quell’assalto alla baionetta non era valso a nulla. Quando la sparatoria cessò,
e ognuno poté respirare e poté toccarsi addosso per vedere se era ferito, tornò
a prenderci il panico. Alzando gli occhi verso il cocomero vidi il culo di uno
infilzato alla baionetta di un fucile 91. Era nella postazione di centro, eretto
come una bandiera.
– Chi è quello lassú? – domandai al rifornitore.
– Uno dei nostri, sergente, – disse Pasquini.
Poi qualcuno mormorò che l’infilzato era il capitano Mattei, e la voce
passò di bocca in bocca. Tutti guardavano inorriditi il culo del capitano
Mattei.
XXXI.

Adesso, guardandoci in faccia, era difficile riconoscerci. I congelati la


notte urlavano, e anche i feriti. I feriti gravi li finiva con la pistola il tenente
Mazzoni. Il tenente Mazzoni era l’unico ufficiale rimasto, e io l’unico
sottufficiale rimasto. Le salmerie non arrivavano da tre giorni, e le pattuglie
spedite non tornavano. Caduti prigionieri gli uomini delle pattuglie, cosí pure
i muli con i rifornimenti, perché qualcosa era successo nella valle. Ma noi
non sapevamo nulla, e aspettavamo sempre le salmerie e i rinforzi.
Sul cocomero s’era fatto silenzio. C’era il sole di giorno e il freddo intenso
la notte. Si sparava appena qualche fucilata, a vuoto, per far intendere a quelli
lassú che eravamo vivi ancora.
Di tanto in tanto la voce sarcastica di lassú ripeteva:
– Arrendetevi!
Il tenente Mazzoni rispondeva:
– Non ci arrendiamo ai fuorilegge!
Quello lassú rideva.
Gli uomini rimasti erano come affascinati dal corpo del capitano Mattei,
cosí alto e ripiegato sulla baionetta che pareva una bandiera. Ma ora che il
fuoco inebriante della battaglia era cessato, e il fascino del sangue anche, nel
petto degli uomini era tornata l’anima. Era un’anima che sentiva orrore della
morte, e ai tanti morti voleva sopravvivere. Volevamo salvarci, ora.
Nel terzo giorno dopo l’assalto dissi al tenente Mazzoni:
– Cosí non possiamo continuare, senza mangiare e senza munizioni.
– Pazienza, dobbiamo aspettare, – Mazzoni rispose. – Succederà qualcosa
se sappiamo aspettare.
– Succederà che moriremo di stenti e di freddo, – dissi.
– Quando non ci sarà piú speranza, – disse Mazzoni, deciso, – ci tireremo
a vicenda il colpo alla nuca.
Gli uomini lo guardarono spaventati.
– È meglio darci prigionieri, – dissi. – Ora non vale piú crepare come
cretini.
– Sergente, se non ci sarà piú speranza, – disse Mazzoni con fermezza, –
ci chiederemo a vicenda il colpo alla nuca.
Il terzo giorno si chiuse con la solita voce del partigiano che gridava: –
Arrendetevi! – Mazzoni non rispose, e quello lassú non parlò piú.
Durante la notte Pasquini strisciò fino a me e si mise seduto. Aveva la
faccia magra e pallidissima sotto la barba. Disse:
– Ho parlato con gli uomini che restano. Abbiamo deciso di far fuori il
tenente, ché qui non ce la facciamo piú a resistere.
– Aspettiamo domani, – gli dissi. – Sento che domani succederà qualcosa.
– Vogliamo consegnarci prigionieri, Marco, – disse ancora Pasquini. – Chi
non gli va di consegnarsi prigioniero è meglio che si spari da solo.
– Aspettiamo fino a domani, Pasquini, – replicai.
Il rifornitore passò la voce. Disse:
– Dobbiamo aspettare fino a domani.
Gli uomini si ripeterono nell’orecchio:
– Dobbiamo aspettare fino a domani.
All’alba del quarto giorno si sentí cantare dalle postazioni lassú. Quelli
cantavano una loro canzone sulla musica di un canto russo. Nella canzone
nominavano le stelle il cielo e il vento. Quello che faceva la controvoce
diceva: «Scarpe rotte eppur bisogna andar…»
– Cantate anche voi, – disse il tenente Mazzoni.
Allora il soldato Danilo, quello che era venuto dalla III compagnia e
leggeva di notte, gli rise in faccia senza pudore. Disse:
– I moribondi non sanno piú cantare. Abbiamo paura di perdere l’ultimo
filo di fiato che ci tiene ancora in vita.
Mazzoni non rispose, ma corrugò la fronte. Poi il canto cessò e non si udí
altro suono venire dalle postazioni nemiche, come se anche lassú fosse scesa
la morte.
Quando il sole calò a picco sul cocomero bianco, con tanti morti
disseminati in giro come punti neri, vedemmo l’ombra nera di un prete salire
per il sentiero tra la neve, con una canna sollevata in mano, in cima alla quale
era appeso uno straccio bianco. Adagio adagio il prete veniva verso di noi.
Dieci fucili erano puntati sul suo cappello a sventola.
– Lo facciamo? – chiese uno a Mazzoni.
– Aspettate. Dobbiamo sapere cosa vuole.
Quando il prete girò il gomito della strada dietro alla casamatta, si udiva
già il suo affanno. Quando fu a tre metri da noi fece un gesto con la sua
bandiera. I fucili erano sempre puntati contro il suo petto, ma il prete
sembrava non vederli.
– Cosa volete, reverendo? – gli chiese subito Mazzoni.
– Non c’è un posto da mettersi a sedere? – chiese il prete.
– Sulla neve, se volete, – disse uno con sarcasmo.
Il prete aspettò un poco che gli si calmasse l’affanno, poi riuscí ad
articolare:
– Mi chiamo don Filomeno.
Il tenente Mazzoni restò rigido.
– Siete rimasti in pochi, – cominciò a dire don Filomeno. – Vi conviene
lasciare le armi ai vincitori.
– Se siete venuto per dirci solo questo, reverendo, potete ripartire, – disse
Mazzoni. – Qui nessuno si arrende, o moriremo tutti.
– Figlioli, avete dimostrato di averci del coraggio, – disse il prete. – Ma
avete perso, questa è la verità. I partigiani in questo momento circondano il
monte. Sono essi che mi mandano. Hanno detto che vi daranno l’onore delle
armi.
– Non accettiamo onori, – disse Mazzoni ruvidamente.
– Molte cose sono accadute, figlioli, – seguitò don Filomeno. – Cose che
voi ignorate. Io sono stato delegato per farvele sapere.
– Allora dite presto, – disse Mazzoni.
– Le Forze della Resistenza sono entrate nelle città il 25 aprile,
esattamente tre giorni fa. La guerra è finita, figlioli.
– La guerra? – disse Pasquini.
– È finito tutto il 25 aprile, – disse il prete.
– E i nostri capi? – chiese Mazzoni.
– I vostri capi… – Il prete esitò. Poi disse: – Ecco, i vostri capi non ci sono
piú. Mussolini è morto.
– Non è vero!!! – urlarono gli uomini con una rabbia da pazzi.
– Mussolini è stato ucciso, figlioli, – disse don Filomeno con voce dolce.
Il prete raccontò come Mussolini era stato ucciso e come era finita la
guerra. Seguitò:
– Sono venuto a portarvi la verità, e dirvi che è inutile spargere altro
sangue e fare altri morti. Le madri aspettano i figli. Voi avete combattuto tre
giorni piú del necessario, ma ora vi conviene buttare le armi, perché non
servono piú a nulla le armi. Tutti i compagni vostri delle altre compagnie si
sono arresi e per loro, adesso, c’è la speranza di vivere. Anche voi dovete
avere la speranza di vivere.
Nessuno parlò; gli uomini avevano ancora la paura tra i denti. Poi una
voce imperiosa, dalle postazioni lassú, gridò:
– Don Filomeno, fate presto!
Mazzoni fissò lungamente il prete, dubbioso:
– Se voi mentite, – disse freddamente, – vi succede che vi uccideremo.
– Non posso mentire, – disse il prete. – Giuro su Cristo Crocefisso che non
mentisco.
Mazzoni allora si convinse. Si rivolse agli uomini e disse:
– Voi dite che è bene morire o è bene darsi prigionieri?
– Prigionieri, se la guerra è finita, – dissero gli uomini.
Mazzoni rifletté ancora, poi chiamò l’attendente, quello che faceva il
postino. Il postino gli restò davanti, Mazzoni fece scorrere la pallottola nella
canna della Beretta cal. 9. Poi la consegnò all’attendente. Gli disse con un
sorriso:
– Hai coraggio di sparare?
– Come volete, – disse il postino.
– Allora va bene, – disse Mazzoni.
Diede la mano a tutti gli uomini, uno per uno, come se partisse per un
lungo viaggio, e quelli sul cocomero guardavano la scena con la testa fuori
delle postazioni.
– Figliolo, siate ragionevole… – disse don Filomeno. Mazzoni non lo
sentí. Ma quando il prete gli andò vicino col crocifisso alzato, Mazzoni gli
diede una spinta e gridò iroso: – Levatevi dai piedi.
Don Filomeno osservava con gli occhi piccoli, diventati due punti neri sul
suo viso.
Mazzoni si volse di nuovo al postino:
– Bruno, spara appena avrò finito di contare fino a tre. Devi sparare
nell’orecchio.
– Signor tenente, è tutto inutile, – disse il postino, con gli occhi acquosi. –
Perché volete farlo, signor tenente?
Mazzoni s’inginocchiò sulla neve e contò.
– Spara subito. Nell’orecchio, – disse Mazzoni.
Il postino si avvicinò di due passi, chiuse gli occhi e sparò. Sparò tre colpi.
Don Filomeno si strinse il crocifisso al cuore. Poi andò a inginocchiarsi
presso il cadavere e recitò il Pater Noster. Quando smise, appena in piedi,
fece ripetuti segni con lo straccio bianco appeso alla canna, a quelli delle
postazioni. E i partigiani scesero saltellando, e raccolsero le armi ai nostri
piedi.
Parte terza
XXXII.

Il soldato giovane mi si piantò al fianco dalla terza baita. Aveva un viso da


adolescente, e il fazzolettone verde che portava sul collo gli nascondeva parte
della lunga zazzera. Dopo che gli fu passata un po’ la paura Pasquini mi
brontolò nell’orecchio:
– Vedi? Sembrano corsari.
I partigiani vestivano in un modo strano. Avevano barbe e capelli lunghi, e
si portavano le mitraglie e i fucili sulle spalle come bastoni. Ora ridevano e
saltellavano, e pareva che avessero dimenticato tutta la stanchezza dei giorni
di lotta.
Quando giungemmo alla quinta baita non avevo piú paura, e pensavo che i
partigiani sono degli uomini come noi. Adesso avevo coscienza d’essere un
normale prigioniero di guerra che segue il suo destino.
Si scendeva per una strada larga, ed era giorno fatto.
– Per arrivare al piano impiegheremo parecchie ore, – disse il soldato
giovane.
– Dove ci portate? – gli chiesi.
– Al nostro distretto, – disse quello. – Io torno al mio distretto dopo tre
mesi.
– Hai fatto tre mesi sul cocomero?
– Cos’è il cocomero?
– Il Mortirolo noi lo chiamavamo il «cocomero» perché era tondo e bianco
di neve.
– Ho fatto tre mesi un po’ qua e un po’ là. Io tenevo il collegamento, –
disse il soldato giovane.
Il soldato giovane portava il fucile sulle spalle come gli altri. Ma ogni
tanto, uno dei suoi, gli gridava:
– Maurizio, schiaffagli il moschetto dietro la schiena.
– Non è necessario, vecchio, – rispondeva il soldato giovane, con voce
forte, perché era contento.
Quello che sul cocomero gridava: «Cantate, coglioni!» era un uomo basso
e largo di spalle. Vestiva una vecchia divisa di alpino e sul petto portava vari
nastrini e decorazioni. Saltava ora davanti e ora dietro con agilità, impartendo
gli ordini. Spesso se ne usciva con frasi da ridere, e allora tutti i suoi
compagni scoppiavano in fragorose risate. Nella baita dove passammo la
notte, quando ci arrendemmo, quell’uomo ci guardò prima con occhi feroci,
poi lo udimmo mormorare al compagno che gli stava accanto: – Poveri fioi –.
Era un veneto.
Si scendeva sempre per la strada larga, con pozze di fango e palline di
capre. Poi incontrammo altri soldati nostri che si erano arresi. Si unirono al
nostro plotone. Ora potevamo formare il numero di una compagnia.
Riprendemmo a scendere subito, e verso sera raggiungemmo la camionale. Il
soldato giovane mi camminava sempre al fianco, come un’ombra, e io
dimenticavo e ricordavo la sua presenza. Poi ricordai di averci ancora il
berretto di Elia tra la cinghia dei pantaloni perché mi premeva sul ventre, cosí
lo tolsi da quel posto e lo nascosi nella tasca della giacca a vento.
Eravamo stanchi e strapazzati e trascinavamo i piedi nella polvere. Io e
Pasquini eravamo in testa alla colonna. Da quel posto potevo sentire come gli
uomini trascinavano le scarpe, dietro.
Quando entrammo nel paese le donne ci vennero incontro urlando e con le
mani alzate. Le donne urlavano e piangevano e ci guardavano con occhi pieni
di odio.
– Non aver paura, – mi disse il soldato giovane.
Il paese era pieno di bandiere rosse, e la gente formava due cordoni sul
nostro passaggio. Le donne gridavano, come disperate:
– Avete finito di rubar galline. Perché non cantate, adesso? Avanti, cantate
«Battaglioni M». Vogliamo sentirli cantare «Battaglioni M» a questi
farabutti.
Presero loro a cantare. Cantavano come pazze forsennate la parodia di
«Battaglioni M», e noi sapevamo che la nostra paura era insopportabile. Mi
disse Pasquini, nell’orecchio:
– Ora ci fucileranno.
– Non ci fucileranno, – io dissi, ma non ero certo di quello che dicevo.
Pasquini non si calmò. Disse al soldato giovane:
– Perché non ci fucilate subito?
Il soldato giovane rispose:
– Ora abbiamo detto basta con le fucilazioni.
– La gente chiederà che ci fuciliate, – disse ancora Pasquini.
– La gente pensa ai figli che sono morti, perciò grida che vi fucilino. Ma
noi abbiamo detto basta con le fucilazioni.
Pasquini non parlò piú, ma aveva sempre la paura tra i denti. Ci
condussero nel Municipio. Nell’atrio del Municipio un uomo biondo e
malinconico si sollevò su d’una sedia, con le teste degli uomini che gli
arrivavano fin presso la cintola, e alzò le mani facendo cenno di voler parlare,
mentre sulla strada la gente urlava sempre e sventolava le bandiere rosse che
sembravano tinte di sangue.
E disse l’uomo biondo:
– Qui non vi sarà torto un capello, perché vi consideriamo prigionieri di
guerra, e noi rispettiamo le regole militari. Chi possiede oggetti di valore può
tenerli, perché gli appartengono. Noi siamo per la giustizia e la libertà.
L’uomo biondo e malinconico scese e scomparve tra i suoi compagni.
Anche il soldato giovane poco dopo ci lasciò; entrò in un ufficio con molte
ragazze che prendevano i nomi e le fotografie dei prigionieri. Le ragazze
erano vestite a festa e facevano quel lavoro con allegria. Guardavano i
prigionieri che sfilavano davanti ai loro tavoli e chiedevano nome, cognome
ed età.
Poi strani individui entrarono nelle file dei prigionieri e presero a
perquisirli. Un uomo con la faccia butterata mi si piantò dietro e prese a
raschiare contro la mia giacca a vento.
– Tu, – disse l’uomo, con un filo di voce, – tu dovresti darmi l’orologio.
Lo guardai e gli dissi:
– Il vostro comandante ha fatto un discorso, adesso.
L’uomo mi diede una pestata sui piedi.
– Dammi l’orologio e fa poche chiacchiere, – disse.
– Non ho un orologio, – dissi.
L’uomo guardò incredulo, poi mi tastò ai polsi e mi frugò nelle tasche.
– Pare impossibile che un sergente non abbia un orologio, – disse. – Voi
ne avete rubati tanti di orologi!
Rifletté un poco. Poi disse, in fretta:
– Allora dammi la tua giacca a vento. È una giacca a vento che mi piace.
Tolsi il berretto di Elia dalla tasca della giacca a vento e lo nascosi nella
tasca posteriore dei pantaloni. L’uomo infilò la giacca e parve molto contento
di indossarla. Passò a frugare le tasche degli altri uomini. Ripeteva l’uomo,
avvicinandosi a qualcuno: – Tu, delinquente fottuto. Fammi vedere cos’hai
addosso.
Poco dopo ricomparve l’uomo biondo che aveva fatto il discorso, e gli
strani individui sparirono. L’uomo biondo andò alla porta e disse alla folla:
– Non possiamo fucilarli perché sono prigionieri di guerra.
La folla urlò:
– Hanno commesso troppi delitti!
– Dovete fare qualcosa per noi. Allora perché abbiamo vinto?
L’uomo biondo fece ripetuti cenni con la mano, e alfine gridò quasi
spazientito, sulle voci della folla:
– Ci saranno i Tribunali, dopo.
– I Tribunali li faremo noi, – la folla urlò.
– Io non posso far niente, – disse ancora l’uomo biondo. – Dopo faremo i
Tribunali.
La folla seguitò a schiamazzare. Gli uomini ballavano e cantavano in
mezzo alla strada. Sventolavano sempre quelle bandiere rosse che
sembravano tinte di sangue. Poi si fece notte e la folla cantava ancora per
tutte le vie del paese, senza curarsi del freddo che induriva la neve rimasta ai
bordi delle strade. Allora ci fecero uscire dal Municipio e, con la scorta, ci
accompagnarono in un baraccone dove rimettevano gli autotreni.
La scorta ci accompagnava per non lasciarci prendere dalla folla. Alcuni
uomini della scorta sparsero della paglia nel baraccone, poi una sentinella
montò la guardia alla porta. Tornò il soldato giovane e mi disse:
– Dov’è la tua giacca a vento?
– Me l’hanno rubata, – gli dissi con acredine.
Il soldato giovane non disse nulla, ma strinse un poco gli occhi. Mi
guardava mentre stavo disteso sulla paglia. Poi disse:
– Posso sedermi qui vicino? – Gli dissi:
– Voi avete vinto e non avete bisogno di chiedere niente. Ma dimmi, sono
sorvegliato speciale, io?
Il ragazzo sorrise. Disse no, oh no, con la testa. Poi qualcuno lo chiamò e
il ragazzo rimise il fucile sulla spalla e uscí. I suoi compagni richiusero la
porta del baraccone. Il baraccone era nero e da quelle sconnessure si
vedevano lingue bianche del vuoto esterno. Da quelle sconnessure entrava il
freddo. Gli uomini si sdraiarono cercando di dormire, ma non era possibile
dormire per via del freddo intenso. Allora qualcuno prese a girare per la
baracca cercando pezzi di legno e tavole e rami secchi. Con quelli accese il
primo fuoco nella baracca. Poi si accesero altri fuochi, e gli uomini andavano
ad accosciarsi intorno a quei fuochi. La baracca si riempí di fumo, e gli
uomini tossivano e sputavano nero. E cosí per molti giorni. I partigiani non
dissero nulla per quei fuochi.
Adesso il soldato giovane veniva di rado. Quando veniva mi portava
l’occorrente per la barba e diceva di sbarbarmi. Si sedeva sulla paglia,
accanto a me, e parlava poco. Seppi solo che era del 1926 e apparteneva a
una nobile famiglia di Mantova. Era andato a combattere per la libertà alla
stessa maniera con cui io ero andato a combattere per il fascismo. Adesso
però Maurizio sapeva perché aveva combattuto, ed era contento di aver
combattuto per quella causa. Se stava sdraiato accanto a me diceva,
guardandomi:
– Adesso sei un altro con la barba fatta.
Ma un mattino per tempo vennero dei camion americani con tanti negri a
bordo, e i negri ci portarono via. La folla ci guardò partire senza piú urlare, e
io sentivo la voce di Maurizio in mezzo alla folla che gridava:
– Ciao, ciao Marco!
Accanto al soldato giovane, quello che sul cocomero gridava e ci
insultava, ci guardava partire con le mani sui fianchi. Ricordo che aveva il
cappellaccio d’alpino calato sull’orecchio, e un filo di paglia fra le labbra.
Masticava quel filo di paglia.
XXXIII.

Adesso il sole di maggio ci picchiava direttamente nei cervelli. Gli uomini


stavano buttati nel grande campo senza potersi riparare dal sole. E gli uomini
erano molti, ogni giorno ne arrivavano camion pieni, e pullulavano come
formiche tra i reticolati. Portavano mostrine di vario colore sui baveri delle
divise lacere.
A volte s’alzava il vento sotto il sole, e tutto il campo spariva nella nuvola
di polvere. La polvere ci prendeva nella gola e allora bisognava buttarsi per
terra e rovesciare.
Al di là del campo correva la strada che serviva per le jeep di guardia, e
oltre la strada c’era il grano alto e verde con la spiga tenera. Una notte il
grano si mosse come attraversato da un animale furioso, e poi tornò tranquillo
perché i fuggiaschi avevano preso per altra strada. Il negro della torretta non
sparò, e cosí ogni notte gli uomini tentavano la fuga.
Un giorno il comandante del campo contò mille uomini e li guidò sulla
strada fuori del reticolato. Io ero uno dei mille e sapevo soltanto che mi
portavano in un altro campo. Invece ci caricarono sui camion e ci fecero
scendere nella città vicino dove passava il treno. Ci chiusero dentro i carri di
una lunghissima tradotta. E la tradotta prese a camminare notte e giorno,
giorno e notte, lentissimamente. Ora sapevamo che ci portavano a Napoli per
imbarcarci. Dicevano quelli del mio vagone:
– Ci porteranno in Africa.
– E perché in Africa?
– Cosí. In Africa c’è piú spazio per tenere i prigionieri.
Allora io dissi a quello che mi stava vicino se voleva scappare con me.
Quello mi guardò e chiese come avrei fatto a scappare. Io alzai le spalle e non
risposi, perché non sapevo ancora come avrei fatto a scappare.
Gli uomini si erano tolte le camicie per via del caldo soffocante, e
dormivano e mangiavano la razione dei viveri con grande pigrizia. Avevano
aperta una falla nel carro, sradicando le tavole, e di lí facevano i bisogni
corporali. Andavano a sedere su quel buco dicendo di spedire un
«telegramma» e di sotto gli bruciava l’aria data dalla velocità.
Dopo Roma sentii l’aria del sud. Era un’aria che soltanto io sapevo
riconoscere; mi fremeva nelle narici e mi portava soffi caldi di terra secca.
Adesso il cuore mi batteva irregolarmente, e nella memoria tornavano i
pensieri della casa e i discorsi degli uomini di laggiú. Pensavo notte e giorno
a Giulia e alla madre di Elia. Cercavo di raffigurarmi la madre di Elia e la
faccia che avrebbe fatto vedendo il berretto bucato del figlio. Allora decisi di
non andare nel paese di Elia, e non portare il berretto alla madre che
aspettava il figlio. Cosí la madre di Elia avrebbe sempre aspettato il figlio, e il
suo dolore si sarebbe calmato col tempo.
Mi rigiravo il berretto di Elia tra le mani. Ficcavo le dita nel buco dove era
passata la pallottola. Era quasi un foro di topo, e non diceva nulla a chi non
sapeva. Ma c’era ancora del sangue secco nell’interno del berretto, e quello
era il sangue del sergente Elia. Perciò mi prese la nausea del sangue.
Con una lametta da barba scucii il piccione dalla visiera, perché non era
piú il tempo del piccione, e poi scucii il piccione anche dalla visiera del mio
berretto. Avevo due piccioni d’argento fra le mani, e due berretti neri che non
servivano piú. Allora mi alzai pigramente e andai al buco dei servizi
corporali. Vi buttai prima i due piccioni d’argento e dopo i due berretti neri
che non servivano piú. Con ciò avevo detto addio al mio amico morto, e
avevo detto addio all’altro Marco Laudato che era rimasto lassú con lui, e con
tutti i morti della guerra.
XXXIV.

Quasi sempre dormivo, ma il gran caldo mi spisciolava il sudore addosso,


e cosí non potevo dormire tranquillo col sudore addosso. Avevo fatto tanti
piccoli fazzoletti con la camicia nera, ma prendevano presto il vischioso del
sudore, cosí li buttavo via subito dopo l’uso. La tradotta fermava a caselli
senza importanza e a tutti i dischi e a tutte le piccole stazioni. Avevo la
sensazione che il viaggio dovesse durare eterno, e che in eterno dovessimo
vivere quella vita cieca nel chiuso del carro.
Poi, a una stazione, il treno fermò piú a lungo. Macchinalmente andai alla
porta e la feci scorrere un poco sulle rotelle. Apparve una striscia di stazione
e bambini laceri che gridavano. Un ragazzo venne a mettere il muso
nell’apertura e disse se volevamo scappare. Io gli chiesi che stazione era
quella e se c’era un paese dietro la stazione. Il ragazzo disse che c’era un
paese dietro la stazione, Cava dei Tirreni, e aggiunse che lui avrebbe fatto
saltare il piombo del carro. Io chiesi cosa facevano i negri della scorta, e il
ragazzo disse che c’erano certe donne coi negri, e si stavano sbaciucchiando.
Allora io dissi che sí, volevamo scappare, e quello fece saltare il piombo del
carro con un chiodo di ferro. Poi tornò sul marciapiedi e si mise a fare la
persona indifferente, accendendo una sigaretta.
Proprio in quel momento uno dei compagni mi gridò:
– Se scappi i negri ti ammazzano.
Io risposi:
– Non mi ammazzerà nessuno.
Quello disse ancora:
– Ti farai ammazzare da un negro.
Io gli dissi:
– Pensa ai fatti tuoi.
Ma quello volle avere l’ultima parola:
– Bene, – disse, – io non mi farei ammazzare da un negro.
Era venuto buio. Nella stazione si accesero molte luci. «Troppe luci!»
pensai.
Il ragazzo scalzo di prima mi faceva ripetuti cenni; allora feci scorrere la
porta sulle rotelle e mi buttai giú. Attraversai i binari fra molte grida e poi mi
trovai aggrappato al muretto della stazione, con le mani sgraffiate fra cocci di
bottiglia. Mi tirai su e saltai dall’altra parte.
Caddi sotto il muro. Poi ripresi a correre ed entrai nel paese illuminato
come avveniva nel paese mio quando era giorno di festa e c’era la banda in
piazza. Gli uomini stavano seduti sulle porte di casa e prendevano il fresco:
vedevano un giovane scamiciato fuggire per le loro vie con una muta di
ragazzi alle calcagna, e non sapevano la ragione di quel fatto strano. Poi un
uomo mi gridò da un crocevia, con una voce che mi fece l’effetto d’una
fucilata:
– Fermati, dove vai?
Mi fermai di colpo. Volevo alzare le mani, ma mi restarono senza forza
lungo i fianchi, e io stesso non avevo piú forza di correre, perché mi sentivo
molto disperato. I ragazzi che m’inseguivano si fermarono a distanza come
una muta di cani e attesero che l’uomo mi raggiungesse. Infatti l’uomo si
staccò dal muro e attraversò la strada. Era un uomo enorme, che camminava
con le mani in tasca. Appena mi fu vicino disse con una voce che mi sembrò
forte:
– Non c’è bisogno di correre, né c’è bisogno di aver paura. Vieni, ti guido
io.
Non guardai l’uomo e presi a camminare al suo fianco. I ragazzi scalzi ci
seguivano ancora a distanza, poi fecero dietro front e se ne andarono.
– Non hai un fazzoletto? – disse l’uomo guardandomi le mani. Anch’io mi
guardai le mani e vidi che erano imbrattate di sangue per via delle
sgraffiature.
– Ho saltato il muretto della stazione, – dissi.
L’uomo mi diede il suo fazzoletto.
– Fasciati quella che fa piú sangue, – disse.
Fasciai quella che faceva piú sangue. Poi l’uomo riprese a parlare:
– Sei uno di quelli?
Lo guardai di traverso, senza rispondergli. Ma l’uomo disse:
– Non ti è passata ancora. Ma ora non devi aver piú paura. Qui scappano
tutte le sere perché li portano in un campo di Napoli e poi li imbarcano per
l’Africa. Fanno bene a scappare, ma molti non scappano perché sono fifosi.
Non parlavo. Camminavo sempre a fianco a fianco e non lo guardavo in
faccia. Dopo un poco l’uomo disse:
– Ora verrai a casa mia perché è già notte, e domani prenderai il treno per
casa tua. Non hai la mamma, tu?
– Sí, – dissi finalmente. – Ho la madre e due fratelli.
– Sei meridionale, si sente dall’accento. Di che paese sei?
– Casacalenda, – dissi. – Resta nel Molise.
– Molise? Ah, Abruzzo e Molise. Bene, allora. A Casacalenda ci sarai in
due giorni.
Avevamo preso per una strada di campagna. Poi attraversammo un
canneto e dallo stagno cantavano i grilli.
– Eri delle Brigate Nere, tu?
– No, – dissi. – Il mio era un corpo speciale.
– Ed eri sergente?
– Sergente.
– Sei giovane, però, – l’uomo disse. – Facevi la carriera?
– Non ero di carriera.
– Io ero caporale, in Africa, – brontolò l’uomo.
Apparve una casa colonica a ridosso della palude, con la lampada rossa
sulla facciata. L’uomo salí i gradini di una scaletta di pietra, e sul terrazzino
inciampai nel truogolo vuoto del maiale. C’era anche una vaschetta di pietra
per lavarsi, con dell’acqua sporca dentro.
– È uno che è scappato, – disse l’uomo alla vecchia che venne ad aprire.
La vecchia sorrise con la sua bocca incavata, pastosa, con tutte le gengive
scoperte.
– Avrà fame, – disse. Entrammo.
– Mangerà quello che c’è, – disse l’uomo. – Preparagli anche il letto.
Dev’essere stanco.
Si mise seduto su di una sedia bassa, allungando le gambe verso il
caminetto. Mi sedei anch’io, mentre la vecchia andava in giro per la casa,
battendo il pavimento rotto con gli zoccoli di legno. L’uomo, sotto la luce,
aveva una faccia larga e patita, con gli zigomi in fuori, e aveva mani larghe
con sporco permanente di lavoro. Arrotolò una sigaretta con un tabacco
biondo, poi mi offrí la scatola. Arrotolai la sigaretta, restituii la scatola. Ora la
luce della lampada batteva sulla nuca massiccia dell’uomo, e gli illuminava
tutta la schiena. C’era un cassettone in un angolo della stanza, e poi un letto
rotondo che poggiava su due trespoli di ferro. Sotto il letto si vedevano delle
patate sparse e un paio di scarpe da lavoro, sporche di creta. Poi c’era un
divisorio. La porta del divisorio era coperta con un panno nero.
Stando cosí, in silenzio, potevo sentire il rumore del fuoco nel fornello.
Ogni tanto la vecchia girava nella teiera di coccio sul fornello. Infine levò la
teiera e la depose su di un rozzo tavolino di campagna dalle gambe incrociate.
L’uomo buttò la cicca nel fornello e avvicinò la sedia alla tavola. Anch’io
buttai la cicca.
– Sono maccheroni di oggi, – mi disse, – ma sono buoni, scaldati. A te non
piacciono i maccheroni scaldati?
– Oh, li mangiavo anche in casa mia, – dissi.
– Allora fatti sotto e buon appetito, – disse l’uomo.
Mangiavamo nella stessa teiera, e ogni tanto le nostre forchette
incontravano pezzi di grasso fritto. L’uomo mangiava tutti i pezzi di grasso
fritto, ma io mangiavo svogliatamente. Quando finimmo la vecchia
sparecchiò. Disse la vecchia:
– Andrai lontano?
– Non molto, adesso, – dissi.
– A casa tua non sanno che ritorni?
– Non lo sanno, – risposi.
La vecchia sospirò:
– Molti figli di mamma non torneranno piú.
– Sí, molti, – dissi.
L’uomo arrotolò un’altra sigaretta e l’accese.
– Rosina dorme? – domandò sottovoce.
– Non si sente bene da oggi, – rispose la vecchia.
Dal divisorio venne il pianto di un bimbo, poi la voce morbida di una
donna che parlava al bimbo. Il bimbo si riaddormentò. L’uomo allora si alzò
da sedere e passò dietro il divisorio. Dopo un poco tornò con un paio di
brache vecchie e tinte di calce, e con un giubbetto vecchio sfondato ai gomiti.
– Li metterai domani – disse. – Con questi panni ti sarà piú facile
viaggiare.
Poi anche la vecchia passò dietro il divisorio e sentii che si metteva a letto
gemendo un poco. L’uomo mi diede una pacca sulla spalla e mi sorrise.
Disse:
– Ormai ci sei quasi, a casa. Nei tuoi panni accenderei una candela a
sant’Antonio, perché di voi del nord non doveva tornare nessuno.
L’uomo attese che mi mettessi a letto, poi passò nel divisorio e spense la
luce. Il letto alto con foglie di granturco profumava di campagna e di cosa
sincera, tuttavia non dormii tranquillo. Avevo sogni strani: volavo sui trapezi
di un circo, poi cadevo nel vuoto. Cadendo avevo l’anima tra i denti e non
riuscivo a gridare.
Al mattino la vecchia mi svegliò con una tazza di caffè bollente, e mi
sorrideva con le sue gengive in fuori.
– Hai parlato nel sonno, – disse. – Ma era la stanchezza, figliolo.
Piú tardi venne l’uomo grosso; uscí dal divisorio abbottonandosi i
pantaloni. Appena mi vide vestito coi suoi panni mi disse, allegro:
– Sembri proprio un operaio.
Prima di uscire intravidi la donna che aveva quietato il bambino la sera
precedente. Stava dietro la tenda scura del divisorio, e s’infilava la gonna
dalla testa. Era una donna incinta.
Per strada l’uomo mi diede cinquanta lire di occupazione, che tirò fuori da
un libriccino da lavoro con tante piccole annotazioni a matita.
– Ti serviranno in qualche maniera, – disse. – E non mi ringraziare. Ho
fatto quel poco che ho potuto.
Scendemmo alla stazione. L’uomo non mi chiese mai come mi chiamavo,
né lui mi disse il suo nome, evidentemente perché non serviva chiedere il
nome a uno che si è incontrato per caso, e al quale si è fatto un po’ di bene
senza speranza di compenso.
Appena arrivato il treno l’uomo mi tese la mano. Saltai su e stetti alla
porta. Vidi l’uomo dissolversi in lontananza, e davanti agli occhi mi restò
sempre il suo braccio teso che sventolava il berretto.
XXXV.

Adesso sapevo solo di avvicinarmi verso casa. Ma era un ritorno senza


gioia. I due anni di assenza si riducevano improvvisamente a una bambinesca
scappata di qualche giorno, perché niente era mutato nel Molise. Tutto era
come prima, la campagna quella di prima e lo stesso sole quello di prima. Da
qui la guerra è passata lontana e non ha portato polvere né desolazione,
pensavo. Ora, però, avrei dovuto dire a loro, a tutti quelli che mi aspettavano:
– Scusatemi tanto, non l’ho fatto apposta.
Ma quelli poi vorranno che io guardi il sole la mattina e il sole tramontato,
e io dovrò dire con la faccia a terra:
– Scusatemi tanto, non so piú guardare.
Ma quelli insisteranno; vorranno che io racconti e rida nelle barberie,
perché ho visto il mondo e ho fatto la guerra. E io dovrò dire con molta
vergogna:
– Scusatemi tanto, non so piú ridere né raccontare.
Ero appoggiato alla sbarra di ferro che correva sulla porta del carro, e
sapevo che fra due gallerie sarebbe apparso il paese. Il percorso era pieno di
gallerie, ma fra due gallerie sarebbe apparso il paese. E il paese apparve tra il
fumo. Le vecchie case dalle pietre nere, smangiate dal tempo e dalle acque,
stavano impettite sui precipizi, e ai balconi avevano una nota allegra di verde
e fiori. Lo zenzero e il prezzemolo cresceva nei vasi sfondati delle finestre, e
alle finestre c’erano i panni stesi del bucato. Da sotto saliva ai panni il fumo
dei letamai.
Vespero era venuto in mezzo a un cielo sfarinato. Era un cielo uguale nei
miei ricordi; mi aveva visto crescere, e tante volte avevo pianto davanti a
questo bel cielo di Dio. Era il tempo in cui don Luciano, dall’altar di san
Michele, ripeteva con voce nasale: «Chi è Dio?»
I bambini rispondevano senza memoria e io strillavo su tutte le voci:
«Dio è l’Essere perfettissimo Creatore e Signore del cielo e della terra.»
«Marco, per qual fine Dio ci ha creato?»
E Marco, con le mani lungo le ginocchia nude, rispondeva guardando al
bel san Michele:
«Ci ha creato per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita, e poi
goderLo in Paradiso.»
«Bravo, Marcuccio,» diceva don Luciano con la sua voce nasale.
Qualche volta Marco si addormentava, perché le voci monotone e
cantilenanti gli procuravano il sonno. Sognava strane cose, sempre strane
cose; poi, al risveglio, dimenticava tutto e non gli importava piú niente di ciò
che aveva sognato.
Mi rivedevo in quegli atteggiamenti lontani e pensavo che dovevo essere
proprio buffo cosí magro com’ero, e con quegli stecchi di braccia che non
sapevo mai dove mettere.
Ora il treno rombava sotto l’ultima galleria e la fuliggine mi penetrava
nella gola. Appena sbucò fuori, il fumo non mi permise di guardare il cielo né
il prato verde presso la ferrovia.
Mi vergognavo, adesso, scendere alla stazione dove la gente poteva
riconoscermi. Perciò decisi di scendere non appena il treno rallentò. Mi sporsi
dalla porta e mi lasciai ingoiare dal fumo.
Mi ritrovai lungo disteso sul prato con l’erba brucata dalle capre, e dalla
fratta veniva un profumo vertiginoso di mammole.
Ora il treno vomitava nella stazioncina molti uomini neri, e anche il chiaro
del cielo era sparito. Piú tardi venne un frenatore a rimuovere lo scambio sui
binari, con la bandiera rossa in mano, e io rinculai verso la fratta per non
farmi vedere, ficcando la testa sotto il ciuffo d’erba che avevo davanti come
schermo. Poi il frenatore tornò verso la stazione e anche il treno ripartí. Piú
tardi si spensero tutte le luci nella stazione, perché non doveva passare piú
nessun treno.
Guardavo verso il paese e comprimevo il cuore sull’erba. Vedevo la
finestra verde di casa mia, con due piante di agavi e zenzero nei vasi, proprio
come era due anni prima. E vedevo anche la cima alta del mandorlo, ma non
vedevo l’orto. Dopo un poco nella camera grande si accese la luce e una
donna venne alla finestra. Guardò sotto, verso il pozzo dell’orto, poi richiuse.
Mia madre era rientrata in cucina.
Stesi a terra il giornale e vi sgrullai su le tasche. Con la stessa carta del
giornale arrotolai la sigaretta e l’accesi subito, fregandomi il fiammifero
sull’unghia del pollice. Il tabacco sparava a ogni boccata, perché insieme a
esso doveva esservi del sale. Ricordai l’uomo con la casa sulla palude che mi
aveva dato i vestiti, e pensai che gli operai sono tutti uguali nel mondo.
Il fumo che sapeva di carta stampata mi bruciava nella bocca, ma cosí
passò ancora molto tempo senza che soffrissi molto, e quando s’alzò la luna
dai campi saltai sulla strada.
Le scalette che portavano fino al pastificio le feci a salti, di corsa, come se
fossi inseguito. Poi entrai nel buio dei vicoli, dove la luna non poteva
arrivare. Camminavo svelto in punta di piedi rasentando i muri, e quando
udivo un rumore di passi mi appiattavo e sentivo la disperazione dentro la
gola. Poi apparve il mio vicolo e l’orto, il mandorlo nero e il pozzo nell’orto.
Mi era caduta addosso una tremarella come quella che mi assaliva a scuola
dalle monache, quando dovevo fare un bisogno urgente e suor Claudia non
mi mandava. In quelle situazioni io battevo i denti e sudavo, e poi stringevo
le gambe per non farmi scappare assolutamente nulla.
Salii il vicolo stretto, con le pietre strappate e rotte per il continuo battere
degli zoccoli dei muli. Il cane rosso dei piattari, gli zingari commercianti,
sbucò allora da una parte e prese a corrermi dietro, abbaiando e raspando il
terreno col muso ai miei pantaloni. Riuscii a frenare la paura e mi chinai per
raccogliere una pietra. Il cane scappò, piroettando su se stesso, andando a
sbattere guaendo contro la rete dell’orto. Una voce allora gridò dall’alto:
– Tu, vagabondo, perché spaventi i cani?
Mi appoggiai al muro e la guardai. Giulia era nel portone con un fagotto di
carne in collo. Portava i capelli stopposi tagliati corti, come un maschio, ed
era piú bella cosí, e adulta. Il bambino dormiva e Giulia lo coprí meglio con
lo scialle. Ma adesso i suoi occhi erano diventati grandi come due formelle, e
il brivido lungo non cessò di correrle nelle mani che reggevano il bambino.
– Ciao, – dissi, e restai appoggiato al muro.
La luna scivolò sullo stipite della porta e la donna tornò nell’ombra, ma
vedevo sempre i suoi occhi diventati grandi come due formelle. Giulia cercò
di rinculare, ma batté con le ginocchia contro il portone, poi tornò dentro e
gridò sulle scale:
– Zia Concettina, è qui. C’è Marco, zia Concetti…
Il suo singhiozzo era lacerato e il bambino si svegliò. Pianse dolcemente,
senza strilli.
«È suo figlio!» pensai. «Dovrà essere suo figlio!»
Poi Giulia tornò avanti, nella luna; saltò i due gradini del portone e la vidi
correre sulla strada con la testa curva sul fagotto di carne. Vedevo le sue
caviglie magre mentre correva.
«È suo figlio!» pensai, ancora appoggiato al muro, e sentii subito due dita
molli posarmisi sugli occhi, stringere contro l’iride e sprigionare dei dischi
rossi. Poi la vertigine passò ed entrai.
Salii senza far rumore, nel buio. Sul pianerottolo ricacciai giú il fiato e tesi
l’orecchio. Dalla cucina non veniva alcun rumore; era come se di là non ci
fosse nessuno. Posai la mano sulla chiave, ma non mi decidevo a girarla. Mi
ripetevo: «Gira svelto, imbecille! Che sei diventato vigliacco?»
Di colpo aprii la porta e restai appoggiato allo stipite, guardando
angosciato la luce.
– Buona sera, – dissi.
Restai appoggiato al muro. Loro erano intorno al tavolo grande, sotto la
luce, mangiando in silenzio. Mio padre aveva sempre la testa rasa, seduto a
capotavola, di fronte alla moglie Concetta Laudato. Ai due angoli c’erano i
fratelli. Michele vestiva da soldato americano, e a prima vista non mi spiegai
perché avesse quella divisa; ma Gino era ancora un ragazzo e mi guardava
sbalordito. Mangiavano la minestra e il mio posto al tavolo non c’era piú,
perché io ero morto da due anni e mia madre portava il lutto per questo.
Quando mi videro qualcuno fece un movimento col tavolo e il vino cadde
sulla tovaglia, stampandovi una larga macchia rossa. Poi il grido di mia
madre mi penetrò nelle orecchie come un trapano. Io non avevo la forza
necessaria per andarle incontro, per cui restai appoggiato al muro, con gli
occhi chiusi, afferrato alle viscere da un vuoto rotondo, tiepido, disuguale.
Quando la vergogna e la paura mi lasciarono, potei poggiare la fronte sulla
testa di mia madre, e aspettare che le passasse quel groppo convulso di
pianto.
XXXVI.

Andarono a prendere il vino e Rocco Mansueto levò alto il bicchiere e


disse:
– Io sono un cavapietre e non so parlare. Ma dico col cuore la mia
contentezza nel vederti vivo, vicino a noi, e perciò bevo alla tua salute.
– Bene, Rocco, – disse mio padre. – E tu, Cola, non dici buona sera al
ragazzo che è tornato?
Nicola Bissi mostrò la sua larga faccia sotto la luce e, guardando Concetta
Laudato che si era rincantucciata presso il focolare, parlò cosí:
– Io non ho figli e li ho desiderati sempre. Mia moglie è una vacca secca e,
quando mi disse che era inutile attendere se non andavamo a fare voto alla
Madonna del Saccione, io dissi che potevamo andare se la Madonna era cosí
buona e ci faceva il miracolo. Camminammo tre giorni per i tratturi.
Entrammo nella chiesa in ginocchio, con la lingua a terra strisciammo fino
all’altare e io non ce la facevo piú. Ma Nuccia aveva gli occhi lucidi e
aspettava di sentirsi aprire il ventre da un momento all’altro.
Nicola teneva il bicchiere in mano e guardava in un punto della stanza,
davanti a sé. Poi continuò:
– I figli non vennero lo stesso e poi scoppiò la guerra. Il Municipio fece
mandare il Bando, dicendo che c’era una buona paga. Nuccia non voleva, ma
io partii col primo scaglione e lí, dove stavo io, ho visto un sacco di gente
morire. Credevo che anche io dovessi morire e perciò mi facevo addosso, con
rispetto parlando. Poi mi sono chiesto se ero nato per fare il muratore o
morire in Africa, in quella guerra.
– Be’, Cola, – disse mio padre, – cosa c’entra questa storia con mio figlio
che è tornato?
– C’entra e non c’entra, – disse Cola, – ma io ho pensato proprio se
dovevo morire in guerra. Poi venne la Spagna e l’Albania e fu la stessa cosa.
Poi la Grecia e la Russia e la gente moriva e nessuno aveva voglia di morire.
Io, allora, dissi a Nuccia che non m’importava piú se non avevamo avuto
figli, perché mio figlio sarebbe rimasto di sicuro in qualche terra sperduta del
mondo, e Nuccia avrebbe pianto come Concetta tua moglie, Pietro. Ora sono
contento che il ragazzo sia tornato e gli auguro lunga vita. Ma non sono
contento di tutto, Pietro. Queste cose che sono successe sono cose grosse, e
perciò non si può essere contento se uno solo è tornato.
– Oh, porco Giuda, Cola! – gridò mio padre. – Che me ne importa delle
tue storie? Adesso io faccio festa per mio figlio, come dice il Vangelo, e lo
riaccolgo in casa mia. Se vuoi bere c’è vino da restare ubriachi per tre giorni,
ma non parlare piú delle tue fottute storie. Non ci vogliono in questo
momento.
Nicola Bissi bevve il suo vino e non parlò piú. Poi venne altra gente, e
sempre mi sentivo dire:
– Sei stato coi fascisti e sta bene. Ma tutto si diceva, meno che saresti
tornato.
Quando entrò Cocangelo, il maestro che istruiva i giovani della
premilitare, vidi gli occhi di Michele diventare lucidi come due capocchie di
spillo. E io pensai di nuovo a Giulia e al suo bambino.
Cocangelo venne avanti salutato da tutti, poi mi strinse la mano e disse:
– Sarei venuto prima, ma solo adesso ho saputo la notizia da mia suocera.
Mi stringeva la mano e io pensavo a Giulia e al suo bambino. – E ho
saputo anche che stavi coi nostri. Questo mi fa piacere, come puoi
immaginare. Sai, ascoltavo sempre la radio, la sera. Veramente era Giulia che
insisteva di accenderla e sentire cosa si faceva lassú da voi, e spesso Giulia
diceva: «Ci dev’essere anche Marco il figlio di zia Concettina». E io dicevo
di sí perché avevo saputo che un bel giorno eri scappato, ma non ti
conoscevo. Cantavate sempre, voi. E siete stati magnifici: ragazzi veramente
di fegato.
– Ragazzi fregati, – disse Michele, soffiando il fumo della sigaretta contro
Rocco Mansueto che era già mezzo ubriaco.
– Uh, fregati fino a un certo punto, – disse Amato Mio, la guardia
campestre. – Noi torneremo, e come! Verrà un altro Duce e torneremo, non
credi compare?
– E dove torneremo? – disse Nicola Bissi guardando la guardia campestre.
– Torneremo a fare un’altra guerra? Ah no, questa volta no. È garantito.
– Senti, Cola, – disse Amato Mio. – Scommetto che se tu eri lassú avresti
fatto il partigiano. Avresti avuto il coraggio di fare il partigiano e sparare
contro di noi.
– Io non solo avrei fatto il partigiano, ma avrei sparato addosso anche a
quelli del mio paese, – disse Nicola Bissi.
– Senti, Cola, – disse allora mio padre. – Io ti conosco e capisco che è il
vino che ti fa sparlare. Ma non rovinare la mia gioia. Se io stasera bevo, e vi
invito a bere, cercate di farmi onore. Oggi le spese le faccio io.
Mio padre parlava e ogni tanto mi dava pacche sulle spalle. Mi palpava le
braccia, i fianchi e il collo. Poi scoppiava a ridere.
– Ora sei un uomo fatto, – diceva. – E su questa groppa potranno stare
cofani di pietre.
Mi dava pacche sulle spalle per la gioia di vedermi nuovamente vicino a
lui, «dopo due anni» diceva, e intanto riempiva i bicchieri a tutti e li invitava
a bere e a stare allegri. Ma io non bevevo e guardavo come erano strane
quelle facce che si assiepavano intorno alla luce grugnendo e parlando forte.
– E adesso vorrei vedere chi sparla, – disse mio padre.
– Ma la prima cosa che faccio vado alla Società Operaia e dico: «Mio
figlio è tornato. È tornato in casa. È qui vivo e sano e lo possono vedere tutti.
Domani che è domenica lo porterò a spasso io, in modo che lo possano
vedere tutti».
– Lo vedranno tutti, – disse Nicola Bissi. – E racconterà quello che ha
fatto.
– Quello che ha fatto ha fatto, Cola, – disse mio padre, duro. – Tutto
quello che ha fatto è stato ben fatto e gli appartiene. Non dovrà render conto a
nessuno di quello che ha fatto.
– È piú che giusto, – disse Cocangelo, e io pensai, guardandolo: «È il
marito di Giulia!»
– Racconterà com’è stata la guerra da loro, – disse Nicola Bissi, testardo. –
Lo ascolteremo tutti e lui dirà com’è stata la guerra da loro.
– Una guerra come un’altra, e con piú onore, – disse Cocangelo, il marito
di Giulia.
Michele gli soffiava il fumo della sigaretta in faccia e Cocangelo seguitava
ad asciugarsi il sudore.
«Anche quando sta a letto con Giulia si asciugherà il sudore,» pensavo, e
adesso avevo voglia di prenderlo per il collo e tirarlo giú. Avrebbe smesso di
parlare cosí. Proprio ci voleva poco a fargli sbattere la testa pelata contro il
tavolo e farlo smettere di parlare di quelle cose.
– Racconterà com’è stata la guerra, – disse ancora Nicola Bissi, ma mio
padre s’imbestialí. Disse:
– Racconterà se gli va di raccontare. E io voglio gridare a tutti quelli del
paese: «Non l’ha ucciso nessuno, mio figlio. Venite a vederlo, potete
riempirvi gli occhi».
– Pietro, parla basso!
La voce di mia madre era stanca, veniva dal camino dove lavava i piatti, e
quelle grida dovevano risuonarle stranamente nella testa.
– Parlo come mi pare in casa mia, – disse mio padre.
– E dirò sempre a quelli del paese: «Se fossi stato io a farlo scappare…»
Oh, Cristo, non ci posso pensare. Quando mi dissero che non c’era piú, che
era scappato per colpa mia perché lo perseguitavo, e poi lo aspettammo notte
e giorno davanti a questo tavolo, ed eravamo in ascolto di tutti i passi che
entravano nel portone… Sentite, non posso pensarci. Ma ora mio figlio è
tornato, e tutti vedranno che non l’ha ucciso nessuno.
– Ma domanderanno a lui se ha ucciso. La gente vorrà sapere che diritto
aveva lui…
Michele soffiava le parole insieme al fumo. Aveva occhi lucidi, fitti e
piccoli come acini d’uva, e mi guardava addossato alla sedia, in quella divisa
americana che lo faceva apparire piú adulto.
– Ecco che cosa vuol sapere la gente, – ripeté. – E gli domanderà quante
persone ha fatto sul colpo. Dicevano per radio che loro erano bravi e
facevano presto a smetterla con chi dava fastidio.
– Oh, senti! – disse mio padre. – Che ti prende a parlare come le puttane?
– Zitto, papà. Io so perché parlo cosí, – disse Michele.
Allora mia madre avanzò nella luce, afferrò Michele per i capelli e lo
schiaffeggiò. Michele cadde di quarto sullo schienale della sedia, la sigaretta
ancora ficcata nell’angolo della bocca, e quando seppe che era mia madre
s’irrigidí, strinse gli occhi e non si mosse.
– Vai a letto e sta’ zitto! – disse mia madre.
Michele non rispose e si alzò col labbro gonfio. Accese un’altra sigaretta e
poi la pestò contro il muro. Andò alla porta che tremava un poco, poi la
richiuse di colpo. Potevo sentire come scendeva le scale e andava via.
– È il secondo che segue il primo… – disse mia madre stringendo le labbra
per non piangere. E seguitò: – Questo coi ladri e quello…
Mia madre scoppiò a piangere mentre Cocangelo cercava di consolarla,
allarmato un poco per quella rapida scena. E disse:
– Calmatevi, signora Concetta. Michele è un ragazzo, e i ragazzi parlano a
casaccio.
– Oh, non parla a casaccio, quello, – disse Concetta Laudato. Poi quasi
gridò, da disperata: – Perché non gli metti un freno, tu? Perché non gli dici di
bruciare quella sudicia divisa?
Pietro Laudato non parlò subito. Allargava le narici e le labbra come per
dire che gli era venuto l’acido in bocca, per via del vino. Poi rispose alla
moglie, mentre riempiva i bicchieri agli uomini:
– La strada se la fanno loro. Ormai sono cresciuti e non posso piú romperli
di botte. Poi, solo se faccio la voce grossa, scappano, vanno a morire
ammazzati in guerra e la gente se la prende con me. Oh, lascia, moglie, la
strada se la fanno loro.
Mia madre tornò ad accoccolarsi presso il camino. Potevo sentire lo
sciacquio dell’acqua nella bacinella e il rumore dei piatti. A Concetta Laudato
il respiro lamentoso le si strozzava fra le labbra, e io ero infelice e pensavo
che non sarei dovuto tornare.
In quel momento venne un colpo alla porta e subito entrarono il prete don
Carlo Jacurti, Lupa di Spera e l’avvocato don Diego Scrocca, ex segretario
del Fascio.
– Ho saputo la notizia al Circolo e ho detto a don Carlo se venivamo a
salutare il reduce, – disse don Diego.
Don Carlo Jacurti approvò con la testa e mio padre disse, contento:
– Voi onorate me e mio figlio, signori. Siete i benvenuti in casa mia.
Don Diego e il prete si avvicinarono e mi strinsero la mano, poi Lupa di
Spera mi accolse sulle sue poppe grasse, e diceva:
– Sei una benedizione, figliolo. Quella povera donna di tua madre ha
cessato di soffrire.
– Il Signore, Lupa, è stato il Signore che ha esaudito le sue preghiere. Ora
entrerà un po’ di sole in questa casa, – disse don Carlo.
Si misero seduti e mio padre riempí i bicchieri. Ma Lupa di Spera andò
verso Concetta Laudato e le disse, abbracciandola:
– Lascia, adesso. Non sei allegra per tuo figlio?
Io potevo sentire come mia madre piangeva, accoccolata presso il camino,
fra le grandi braccia di Lupa.
– Poteva almeno scrivere in tutto questo tempo, – disse Lupa. – Farci
sapere che era vivo e stava bene.
Mia madre pianse piú forte. Allora Lupa le tolse i piatti di mano e disse:
– Lascia, faccio io. Tu devi riposarti, Concetta.
Mia madre restò accoccolata presso il camino e nascose la testa sulle
ginocchia. Ma Pietro Laudato disse contento:
– Farò una festa per questa cosa. Quel prosciutto, moglie, si toglie subito
dall’olio e si porta a tavola. Tutti sanno che ho promesso il prosciutto se
tornava mio figlio.
Mia madre non si mosse dal suo posto vicino al camino, e teneva la testa
sempre sulle ginocchia per non far accorgere agli altri che piangeva. Allora
mio padre si alzò e prese il prosciutto da un vaso grande nascosto nella
credenza. Portò a tavola dei piatti e cominciò a tagliare. Gli uomini bevevano
e parlavano sempre e dicevano che era una buona cosa mangiare quel
prosciutto stagionato. Amato Mio e don Carlo Jacurti mi parlavano quasi sul
collo, invitandomi a mangiare come facevano loro, ma io sentivo sempre i
singhiozzi di mia madre. Venivano dall’ombra del camino, e solo gli uomini
non li sentivano in quell’allegria. Cosí, mentre loro bevevano e mangiavano
alla mia salute, io pensavo che non sarei dovuto tornare. Per tante ragioni non
sarei dovuto tornare. E ora, col pianto di mia madre nella stanza, e con
l’allegria degli uomini che festeggiavano il mio ritorno, io mi sentivo sempre
piú infelice e pensavo che non sarei dovuto tornare. Ma quando mi
chiedevano dei posti dove ero stato, esigendo in ogni modo che parlassi di me
e condividessi la loro gioia di vedermi vivo in mezzo a loro, la disperazione
che mi sentivo dentro cresceva di momento in momento, ed ero quasi certo
che, se non l’avessero smesso, avrei gridato da pazzo: «Lasciatemi solo,
porci. Lasciatemi solo…»
Sedevo sulla punta della sedia, con i nervi tesi e i brividi a fior di pelle, e
io sapevo che ci sarebbe voluto poco per farmi gridare quelle parole.
– È commosso, – disse a un tratto Amato Mio.
– Sicuro, eh, – fece Lupa di Spera che ora sedeva in mezzo agli uomini e
provvedeva a tener d’occhio don Carlo il prete, che faceva ancora delle
cerimonie e mangiava poco. – Certo non si aspettava quest’accoglienza. E poi
dev’essere stanco, – seguitò Lupa, portando il boccone di prosciutto e pane
alla bocca. – Non gli va neanche di mangiare, povero figlio!
– Oh, lascia le tenerezze, Lupa, – disse mio padre. – Mio figlio ha visto
altro che tenerezze.
Loro parlavano e io speravo che avrei detto quelle parole, e poi non mi
sarebbe importato niente di ciò che poteva accadere.
In quel momento qualcuno mi ficcò il bicchiere in mano e disse:
– Brinda con noi, su.
Era don Diego Scrocca, in piedi al mio fianco e con la sua faccia grassa,
lucida sotto la luce. Restai seduto e don Diego incominciò:
– Bevo alla salute del giovane camerata qui presente, reduce del nord. Egli
ha combattuto per una Patria grande, ma sfortunata. Una Patria che insegnò il
galateo al mondo, e…
Nell’orecchio sentii la voce sibilata di mio padre:
– Alzati, per Dio! Sta facendo un discorso per te, non l’hai capito?
– … condusse le sue legioni sui campi dell’Africa…
Solo Nicola Bissi guardava l’ex segretario del Fascio con un sorriso
ironico, che gli sfuggiva dalle labbra sottili. Gli altri avevano la testa sui
bicchieri colmi e Cocangelo e il prete annuivano di tanto in tanto.
– … sotto la guida magnifica di un capo…
Qui l’oratore si arrestò e i fascisti si tolsero i berretti.
– Giú quel berretto, Cola, – disse Amato Mio.
– Non sono mica in chiesa, – rispose Cola. Si tenne il berretto e seguitò a
guardare ironicamente. Passato il minuto di raccoglimento in memoria del
capo, don Diego riprese con voce piú vibrante, e io sentivo qualche battimano
qua e là. «Ora dirò che la smettano, oppure…»
Mio padre mi sollevò per l’ascella e disse:
– Stai in piedi e rispondi qualche cosa quando avrà finito.
Mi alzai col bicchiere in mano, mentre le gambe mi tremavano, e fu allora
che le lacrime mi scesero in fretta, copiose.
Guardavo il vino nel mio bicchiere e mi sentivo sulla faccia i fiati marci
degli uomini. Ora sapevo con chiarezza che quello che parlava era uno dei
tanti che andavano frustati e cacciati a pedate, era uno di quelli che avevano
pensato alla maniera sporca di mandarci a morire, sfruttando il nome della
Patria e altre cose. Io credevo che, salvandomi dalla guerra e tornando a casa,
sarei uscito dalla guerra e avrei trovato uomini nuovi, che mi avessero
insegnato come si fa per riprendere a vivere in una Italia diversa. Invece la
provincia era ancora attaccata ai fantasmi e alle illusioni del passato, e
speculava ancora sulla nostra stupidità.
Rivedevo don Diego sul balcone del Municipio, nella sua divisa nera
ricoperta d’oro, che diceva le stesse parole che ora ascoltavo. Perciò, adesso,
non piangevo piú, ma sentivo i nervi che mi si incordavano sul collo e i
brividi aspri, collerici, che non mi permettevano di star fermo. E fu appunto
quando don Diego avvicinò il suo bicchiere al mio che glielo feci saltar via
con un colpo. Poi lo presi alla gola, fra le mie due mani, i due pollici sotto la
molle carne delle guance, e stringevo, stringevo e volevo stringere sempre piú
forte e finirla presto quella cosa.
Sentii gridare gli uomini e poi la voce di Lupa di Spera, ma strinsi ancora,
come se quelle voci mi eccitassero. Presto gli occhi di don Diego diventarono
grandi e cinerei come due sputi coagulati, e sentivo come rantolava e faceva:
– Ma che ti prrr… pre… oh… sssch.
Mi aspettavo che i due enormi sputi coagulati all’altezza della fronte mi
saltassero in faccia, invece sentii un dolore vibrante alla spalla, poi nei fianchi
e ancora la voce strillata di mia madre. Mio padre seguitò a picchiarmi sulla
faccia e nei fianchi e dopo un poco abbandonai la stretta, sfinito, ma vidi
ancora don Diego contorcere il muso prima che si abbandonasse sulla sedia.
Adesso mi sentivo libero, nonostante che la testa seguitasse a dolermi, e
pensavo ancora a quella sensazione fredda che provavo stringendo il collo
grasso e sudato dell’uomo. Poi le pareti della stanza mi vennero addosso, la
luce che pendeva sul tavolo s’inalberò come una cometa e sparve nel buio.
XXXVII.

Mi svegliai ancora con quel dolore nei fianchi. Il letto era duro, di tavole.
Ma ricordando che mi trovavo in casa mia mi calmai subito.
– Il letto di casa mia, – sospirai.
Il sole saltava sulla coperta del letto passando per la finestrella del
divisorio. Il vino del bottiglione era verde cupo col sole che batteva sul vetro,
e l’oliva secca, sparsa sotto il muro, mostrava lo sporco lucente che aveva
nelle pieghe.
Quando sentii girare la chiave chiusi gli occhi, fingendo di dormire. Ma tra
la rete delle ciglia potevo vedere mia madre che entrava silenziosamente,
portando una tazza fra le mani. Depositò la tazza sulla sedia e mi guardò.
Vedevo il suo viso stanco, vizzo, devastato dalle rughe, e la sua testa di
passero non era piú alta e bella come una volta. Adesso era dominata da un
tic appena visibile, leggerissimo, ed era diventata pesante sul collo troppo
lungo.
Volevo gridarle:
– Ma’, perché non mi baci?
Restai con gli occhi socchiusi, fingendo di dormire. Lei mi guardava
sempre con la sua indefinibile aria triste, pensando chissà quali cose, poi uscí
come era entrata, silenziosamente. La stanza, senza piú lei, si fece vuota.
Adesso potevo udire meglio i rumori della strada. Macchine pesanti e
suoni di clackson. Ma le grida della strada erano sempre distinte e vibranti, e
davano l’idea di una moltitudine. Alle grida era confuso lo stridere delle
raganelle pasquali. Potevo figurarmi gli ordigni di legno che vorticavano
pazzamente nelle mani dei ragazzi, cacciando quel suono lacerante, allegro.
Mi chinai un poco da un lato e presi la tazza. Assaggiai il latte, ma lo
stomaco non voleva riceverlo.
– Non posso, – dissi. – Non mi va.
Rumori rotondi mi spinsero su le budella in piccole masse dure, e mi
pareva che il ventre dovesse aprirsi per farle uscire. Rimisi giú la tazza.
– Non mangio da… non mangio da due giorni, ma non mi va lo stesso…
non posso berlo.
Mi rigirai nel letto due o tre volte, cercando di essere completamente
sveglio e ricordare. Ma non potevo ancora ricordare e mi sentivo debole
come un malato convalescente.
– Il letto di casa mia, – dissi. Tesi l’orecchio ai rumori della strada.
Sospirai: – Oh, il letto di casa mia.
Le voci della strada erano forti, poi risalirono la collina e si persero sulla
via del fiume.
– Il letto di casa mia, – ripetei.
In quel momento il raggio di sole camminò ancora sulla parete, quasi
guardingo. Vedevo la macchia chiara che si lasciava dietro, con in mezzo i
moscerini ubriachi. Poi, di colpo, la luce si conficcò nel muro dove dormiva
il ragno. Quello balzò sulla tela e la percorse rapidamente, le girò tutt’intorno
come un cieco, poi tornò al suo centro e vi si accovacciò. Il sole gli
illuminava il dorso peloso e la tela era cenere filamentosa nell’angolo del
muro.
In quel momento le voci ridiscesero la collina e si fermarono davanti al
sarto. Potevo vedere Valentino con la squadra in mano, dietro al banco di
noce, che osservava quella gente sulla porta della bottega. Ero quasi certo che
diceva: «È diventata una bettola, la bottega? Andate a gridare altrove». Ero
quasi certo che diceva queste parole. Poi il ragno si mosse dietro a una mosca
e sparí nel buco del muro. Allora anche le voci crebbero tra le raffiche delle
raganelle e tornarono verso la collina. Sulla collina si dispersero, si
affievolirono e, sul brusio appena udibile, avanzò rapido il nitrito dei cavalli.
– Forse è giorno di festa, – dissi ad alta voce, per sentire la mia voce, e
guardavo sempre la tela del ragno invasa dal sole, mentre ricordavo.
Adesso potevo ricordare ogni cosa, tutto quello che era successo, e potevo
ancora sentire le voci ubriache degli uomini e vedere don Diego Scrocca e il
prete. Potevo ancora annusare il puzzo degli uomini seduti intorno alle
fiasche di vino, e vedere quegli occhi pazzeschi, quasi vuoti, che stavano per
saltarmi sul petto.
– Dio! – dissi. – Dio mio!
Disteso sul letto, completamente immerso nel caldo rettangolo di sole,
avevo la sensazione che qualcuno mi tirasse per i piedi, per condurmi in un
luogo che non conoscevo. Ma anche nel sonno pensavo che non sarei dovuto
tornare, e rimpiangevo i morti che c’erano stati. Tutti i morti della guerra. Oh,
quelli non sarebbero tornati!
In quel momento entrò dalla finestra un rombo di campane e gli uccelli del
mandorlo vennero a gridare sul balcone.
– Oggi è domenica, – dissi.
Pensavo alla gente che stava in chiesa, pregava con la schiena curva sul
pavimento, e Giulia era in qualche fila di banchi insieme a Cocangelo suo
marito, e ora sapevo che anche Giulia era morta definitivamente per me.
Della vecchia vita non mi rimaneva piú nessuno, ormai, e avrei dovuto
ricominciare da solo se volevo. Ma avevo cosí poche speranze, cosí poca
fiducia anche in me stesso che ancora mi chiedevo cosa stavo a fare lí, in casa
mia, e perché ero tornato.
Il ragno uscí dal buco nero e ripercorse la tela. Poi si spenzolò, veloce.
Pensavo che stesse per cadere, ma restò sospeso a un filo lucido, lungo, che
aveva piccole vibrazioni nel sole. Il ragno rimase con la testa in giú per un
attimo, guardando le mosche che correvano sul pavimento della stanza. Poi
risalí. Un altro filo, parallelo al primo, dal basso tornò su dietro le zampette
del ragno che tesseva.
Guardavo le operazioni del ragno e non lo vidi entrare. Ma egli camminò
rasentando la parete e si fermò nell’ombra. Poi vidi che guardava la tela alta,
luminosa, e sentii la sua voce soffiata verso quella parte del muro dove il
ragno tesseva.
– Salve, – disse. – Come va?
Masticava la gomma ed era piú alto, piú duro in quella divisa. – Dicono in
giro che volevi ammazzarlo, – disse. – In fondo non ci avresti rimesso un
gran che, se lo facevi giusto.
– Sí, – dissi. – Non ci avrei rimesso un gran che.
Michele sputò la gomma sulle olive secche sotto il muro. Disse: – Vuoi
fumare?
Mi tese il pacchetto rosso sulle coperte.
– No, grazie, – risposi.
Poi:
– Michele?
– Sí, – fece. Ma accorgendosi del latte nella tazza disse sorpreso: – Toh,
perché non l’hai bevuto?
– Lascia stare. Non sono malato, – dissi. – Senti…
– Ti sto a sentire, – disse Michele. Venne a sedersi su di una sedia e accese
una sigaretta.
Adesso io volevo chiedergli delle cose, ma il suo modo di fare mi
intimidiva un po’. Sapevo bene che non era piú il ragazzo che avevo lasciato.
Michele era molto piú sicuro di sé, per cui lo stesso desiderio di fargli delle
domande, sapere come viveva e perché portava quella divisa, mi sfumò
subito. Ero ripreso dalla stanchezza, da quella passività che mi diceva «vada
tutto come vuole andare. Io non farò nulla per salvarmi».
– Be’, allora? – fece Michele. Guardò l’orologio al polso e disse in fretta:
– Senti, bisogna che ti sbrighi. Ho un affare da combinare.
Dal fondo della mia inerzia qualcosa mi spinse a reagire. Dissi:
– Affare? Che affari fai, Michele?
Guardavo come soffiava il fumo della sigaretta. Oh, sí. Anche lui era
cresciuto. Forse era cresciuto troppo per i suoi anni.
– Fai degli affari, Michele? – ripetei.
– Un po’ di copertoni e bidoni di benzina, – disse lui, col suo mezzo
sorriso all’angolo del labbro dove teneva la sigaretta. – Io non traffico con gli
indumenti. Lascio quel lavoro ai pidocchiosi. Non rende quel che mi basta.
– Oh! – feci. – E per questo porti quella divisa?
– Senti, non sfottere, – disse Michele. – Tutti sanno che faccio l’attendente
a un capitano americano e quello mi ha fatto un permesso per portare la
divisa. Ci sto bene, no?
– Uh, ci stai bene, – dissi. Mi vennero dei brividi come se avessi freddo.
Tuttavia gli dissi: – Con quella divisa, in ogni modo, ti è piú facile fare il
ladro. Non è questa la vera ragione?
Michele scattò in piedi col pugno alzato contro la mia faccia. Io chiusi gli
occhi vedendolo arrivare. Ma il pugno di Michele restò sospeso. Poi sentii la
sua voce rabbiosa:
– Senti tu, io faccio il ladro e in qualche modo sfamo la famiglia. Papà è
disoccupato e di lavori non se ne parla. Da Valentino non alzavo una lira.
Lavoravo gratis. Ma gratis nessuno ti dà da mangiare. Ora faccio il ladro con
gli Americani. Hanno un sacco di roba. Tutti quanti si arrangiano, di questi
tempi. Io faccio quello che posso. Ma tu, Cristo, hai fatto cose piú belle, tu?
– Oh, basta, Michele!
– Be’, non volevi sentire? E allora perché ti vieni ad attaccare a me? Pensi
che la gente, ora, ti accolga a braccia aperte, ti dica bravo, Marco, hai fatto
bene quello che hai fatto?
– Senti, se non la pianti con queste cose…
– Lascia, non mi fai piú paura, – disse Michele. Aveva gli occhi lucidi,
fitti e piccoli come acini d’uva. La sigaretta gli pendeva dall’angolo della
bocca e il fumo gli nascondeva la faccia.
In quel momento le voci della strada ridiscesero la collina e i cavalli
nitrirono piú forte. Michele sorrise brevemente. Disse:
– Senti queste voci? Immagino che vuoi sapere perché gridano. Bene,
sono i cafoni di Ripa venuti per la fiera. Ma in mezzo a loro ci sono i cafoni
del paese, quelli che hanno patito e ora vogliono guardarti in faccia.
– E che c’entro, io?
– Tu non c’entri, ma vogliono guardarti in faccia lo stesso, – disse
Michele. – Lo sai che Ranuccio Jasenza è morto, e Tommaso Giammaria è
morto, e Guido Mairana è morto?
– Morti? – dissi mettendomi seduto sul letto. – Che vuoi dire, Michele?
– Niente. Ti informo, ti dico quello che è accaduto quando tu non c’eri, –
disse Michele. – Gli ultimi Tedeschi ci dissero buona sera sparando dai
camion. Tu sei scappato coi Tedeschi, in paese dopo quei fatti dicevano che
tu avevi simpatia per i Tedeschi. E i Tedeschi spaccarono tutto. Presero porci,
muli e uomini. Loro dovevano ritirarsi bene e gli uomini che presero gli
servivano a qualche cosa. Ranuccio, Tommaso e Guido scapparono e i
Tedeschi li fecero secchi sul colpo, senza pensare. Quelli facevano sul serio;
e miravano bene. Filippo Abrupto riportò a casa il sedere pieno di buchi e
nessuno voleva curarlo, perché si erano nascosti tutti. C’era una paura… Poi
Filippo Abrupto mi fece ridere coi suoi pianti, quando l’andai a trovare. Lui
voleva i pantaloni col cuoio, se ti ricordi. Odiava quella gente e diceva che
avrebbe preso i pantaloni col cuoio.
Michele rise tra i denti.
– Ah, Filippo Abrupto! – disse. – Era un altro mezzo pazzo che non valeva
un cavolo.
Avevo sempre i brividi. Ma chiesi:
– E poi, cosa è successo, poi?
– Niente, finí la guerra, – disse Michele. – Gli Americani portarono la roba
a grascia e si poteva rubare.
– Ma che c’entro io con quelli uccisi dai Tedeschi?
– Niente, niente, fratello, – disse Michele, sempre col suo mezzo sorriso
all’angolo del labbro. – Ma Guido ti era amico e tutti lo sapevano. È tornato
dai preti insieme con te. Stavate sempre insieme. Pasquale il barbiere vi
chiamava «gli abati». Eravate proprio due buoni amici.
– Oh, spiegati meglio, Michele! – dissi, ma i brividi mi tagliavano il
corpo.
– Senti, c’è poco da spiegare. La madre di Guido un giorno disse a nostra
madre, mentre tornavano dalla messa: «Hanno ucciso mio figlio che non
c’entrava. Debbono fare la stessa cosa col tuo». Disse cosí la madre di Guido.
Gridava in mezzo al mercato come quando gli riportarono il figlio morto sulle
braccia. Poi tutto il paese voleva che tu fossi morto ammazzato.
Michele mi guardò ancora tra il fumo della sigaretta. Poi uscí sbattendo la
porta, come era sua abitudine.
Adesso sapevo di averci i panni bagnati, attaccati sulla carne come in quel
giorno lontano quando Glauco, il dottorino, mi cercava la pallottola e
l’anestetico non aveva preso. Una nebbia densa e bianca, bianca e fluttuante
come i moscerini nel sole, mi girava torno torno alla testa.
– Il mio amico Guido, – dicevo.
Fu lui a spaccarmi il naso con un mattone, una volta. Prima che andassimo
via dal collegio fu lui a confidarmi per la prima volta che non poteva resistere
al diavolo. Diceva: «Viene ogni notte, Marco. Mi porta ora Giuseppina
Thomass e ora quella ballerina che abbiamo visto sul manifesto quando
accompagnammo il morto, ricordi?» E io dicevo sí a Guido e volevo
confessargli che il diavolo veniva anche da me. «Ma che ci stiamo a fare
qui?» diceva lui, e quasi aveva vergogna per quel che diceva. «Senti,»
gridava. «Io scrivo a casa. Non m’importa piú di niente. Io qui non ci sto».
Si tormentava, Guido. Ed era un ragazzo piccolo, grasso, portava le unghie
sempre pulite e leggeva bene al refettorio, e noi sentivamo come leggeva
cercando di non far rumore coi piatti. Ce ne andammo insieme, lo stesso
giorno, e pensavamo a ciò che avremmo detto a casa. Io dicevo: «Non posso
raccontare queste cose a mio padre. Mi ammazzerà di botte».
Le voci della strada tornarono ancora verso la collina e si spensero dalla
parte del fiume. Ma io ripetevo sempre: – Il mio amico Guido…
Poi vennero ancora nitriti di cavallo e una raffica di raganella proprio sul
pianerottolo di casa. Potevo vedere Gino che manovrava nell’aria lo
strumento di legno. Poi Gino richiuse la porta della cucina e tornò giú. Si fece
silenzio anche sul balcone dove cantavano gli uccelli, e io non mi accorgevo
di ripetere ad alta voce, col viso pieno di lacrime: – Guido, Guido, Guido…
Quando mia madre tornò dalla messa e mi vide in quel modo disperato,
venne a sedere sul letto, nel rettangolo di sole, e disse:
– Cos’hai? Che ti prende, adesso?
Sentivo sui miei capelli la sua mano ruvida, scarna, e le lacrime non
cessavano di scendermi sul viso.
– Su, su, – disse mia madre, come si dice a un bambino. – Pensi ancora a
ieri sera?
– Macché, macché…
Sentivo la sua mano sui capelli.
– Ci sono altre cose, ma’, – dissi. – Altre cose che non posso mandar giú.
Sentivo la sua mano sui capelli.
– Passerà. Passerà tutto, – disse con un sospiro. – Tutto dovrà passare. E tu
non devi fare cosí. Alla tua età non si piange.
Le lacrime scesero piú in fretta, ma già non piangevo piú. Mi bastava che
lei stesse lí, mi parlasse in quel modo. Anch’io, mentre lei parlava, soffrivo
meno.
– Mi fa bene, – dissi, – mi fa bene sentirti, ma’. Ma ci sono ancora delle
cose…
– Tutti abbiamo dovuto sopportare delle cose. Abbiamo visto brutte cose
con la guerra, – disse lei, lisciandomi i capelli, come si fa con un bambino. –
Ma ogni cosa dovrà cambiare. Anche tu cambierai, sarai diverso. Ma ci vuole
tempo, speranza…
Mi lisciava i capelli e parlava piano, guardando verso la finestra dalla
quale veniva il sole. Poi disse, sempre guardando da quella parte dove veniva
il sole:
– Dovrai alzarti e uscire. È una bella giornata, oggi.
– Oh, ma’, – dissi. Pensavo a quando sarei uscito e tutti mi avrebbero visto
e guardato. Nicola Bissi aveva detto: «Gli domanderemo com’è stata la
guerra, da loro». E io sapevo che non avrei potuto rispondere, ma loro
avrebbero insistito per portarmi alla disperazione.
– Ho paura di qualche cosa, ma’, – dissi.
Ma lei non mi sentí. Disse:
– C’è ancora il vestito di due anni fa. L’ho conservato insieme alla camicia
bianca. Adesso ti andrà un po’ corto… sei cresciuto durante questo tempo.
– Oh, non importa, – dissi. – Andrà bene lo stesso.
Mia madre andò a prendere il vestito nel cassettone e lo posò sul letto. Vi
mise su la camicia bianca e la cravatta.
– Non ho pensato che dovevo farlo aggiustare, – disse. – Prima ci pensavo
qualche volta, poi dissi che poteva stare lí se non lo metteva piú nessuno.
– Mamma! – dissi afferrandole la mano. – Anche tu credevi che non
l’avrei piú messo?
Accomodò il vestito sul letto; lo spolverava con gesti minuti, amorevoli.
Vedevo come le tremava la sua grigia testa di passero, e mi sentivo stringere,
come da una mano.
Mia madre guardò la cravatta e disse:
– È stato mezz’anno fa, alla fiera di Guardia. C’era Rosa Mileto e
Giovannina Frezza. Loro volevano riportare qualcosa ai loro uomini e cosí
presero una cravatta ciascuno. «E tu, Concetta, non prendi una cravatta?»
disse Giovannina. «Vanno tanto adesso, le portano tutti.» Io guardavo la fiera
e pensavo che avrei dovuto prendere, come loro, una cravatta buona, che
potesse stare su questo vestito. E cosí presi la cravatta e Rosa disse: «Hai
scelto un colore acceso, Concetta. Pietro non la metterà. Questa è cravatta di
giovane». E io dissi a Rosa Mileto: «Questa è per il mio figlio giovane,
quello che adesso non c’è».
– E cosí ho preso la cravatta accesa e l’ho riposta col vestito e la camicia.
Tu non avevi mai portato una cravatta prima, ma io dicevo, quando la
riponevo: «Questo è il regalo per il mio figlio uomo».
– Dicevo cosí e piangevo come una stupida, e quando piangevo non mi
giovava pensare che avevo altri due figli vivi e che potevo vederli come
crescevano.
Sentivo la mano scarna di mia madre sopra i capelli, e potevo capire i suoi
sforzi per non piangere. Poi disse:
– Dovrai vestirti e uscire. Oggi è festa, ritroverai i tuoi compagni.
– Oh!… Non ritroverò i miei compagni, – dissi pensando a Guido e avrei
voluto che Cocca, sua madre, adesso sapesse com’era stata triste e ingiusta la
guerra anche per me. Dissi a mia madre: – Non mi hai domandato cosa ho
fatto tutto questo tempo, lontano di casa. Non mi hai domandato niente,
ma’…
– Lascia, figlio, – disse mia madre. – Quello che è stato è stato, e per te,
come per noi, non è stato una bella cosa.
Mi lisciava i capelli.
– Io, per molti giorni, per molti mesi, avevo la mia forza per aspettare. Poi,
quando i giorni cominciarono a essere uguali ai mesi, e non riuscivo piú a
distinguere l’ora di notte dal mattutino, io dissi che mi stavo abituando, come
si abituava Cocca Divota per la morte di Guido.
– Ma adesso sono qua, mamma, sono vivo, – dissi.
Mi lisciava i capelli con la sua mano rozza, scarna, e disse:
– Sí, figlio, ti vedo e ti tocco e mi dico che non è un inganno. Ti tocco e ti
vedo, ma non capisco perché sento ancora paura, come se mi stesse
mangiando il ventre una banda di cani.
– Mamma, non dire cosí, – dissi. – Non voglio che parli cosí.
– Non parlerò piú cosí, – disse lei. – Ma ora capisco perché ho dovuto
piangere da sola. E ho pianto e mi sono presa tutte le ingiurie e le male
parole. Quando mi dicevano: «Concetta, dov’è andato tuo figlio?» io dicevo
che mio figlio era andato con la sua mala fortuna. «È andato a sparare contro
di noi, Concetta,» dicevano i vecchi della Società Operaia. Tuo padre
diventava pazzo con quelle voci nel paese. Ma io rispondevo: «Lo sa Iddio se
mio figlio spara contro di noi. Io non gli compravo fucili, da ragazzo.
Famiglia d’operai non compra fucili ai figli. Lui, quand’era qui, non sapeva
sparare che col legno di sambuco».
– Ma quelli parlavano come se ti vedessero.
– Oh, mamma! Quello è stato un tempo pazzo, per me, – dissi. – Io sono
andato dove non dovevo andare, e ho imparato tante cose. Ho imparato anche
come si spara. C’erano tanti come me e piú giovani di me, e tutti abbiamo
imparato presto come si spara. Era come il tiro a segno, e campava chi
sparava prima, ma’…
Mia madre mi teneva la mano sulla testa e guardava dalla parte della
finestra, davanti a sé, da dove veniva il sole. E io aggiunsi:
– Era fatta cosí quella guerra, e io sparavo contro quelli che mi sparavano.
Era come se fossi ubriaco, e non avevo molto tempo per pensare a come
soffrivo. Elia sapeva come soffrivo… Mi chiamava salame. Poi ci è rimasto.
Ci è rimasto quando cominciava a soffrire anche lui. Lui aveva fatto altre
guerre… ma adesso cominciava a soffrire e voleva che gli riportassi il
berretto…
Mi asciugai gli occhi col lenzuolo e strinsi i denti. Mi dissi: «Che ti
prende, che piangi come un cretino?»
Sollevai la testa per guardarla in viso. Mia madre chiuse gli occhi come se
volesse disperdere un colpo di vertigine. Poi disse:
– Tu hai fatto quello che hai voluto e quello che non volevi. Tante cose hai
fatto senza riflettere. Non riflettesti il giorno che tornasti dal collegio. «Non
ci resistevo,» dicesti. E io non ti capivo, ma poi dissi che saresti stato un
uomo giusto anche senza farti prete. Poi te ne sei andato, sei finito in guerra e
non so cosa hai fatto in guerra. Io non so se hai colpa o no. Io non so niente.
Ma ho dovuto piangerti morto e portarti morto nel cuore. Quando Cocca mi
disse certe cose… quando lei piangeva per il figlio morto e non capiva niente
del mio dolore, io non sapevo se mio figlio era colpevole o no. Io senz’altro
dicevo di no. Sapevo solo che dovevo piangere e basta, come piangeva
Cocca, perché ci colpiva la stessa sventura.
Sentivo la sua mano sui capelli, percorsa dai tremiti. Poi continuò, piú
calma:
– Tu sei stato uno che è voluto andare e ti sei perso nella guerra. Non era
una guerra che volevamo noi, ma tu ti ci sei perso lo stesso. Hai fatto tante
cose… che ne so? Ma a Cocca Divota non potevo rispondere niente.
– Sí, ma’, – dissi. – Non potevi rispondere niente.
– Eri un ragazzo, anche Guido era un ragazzo. Lo ricordo ancora quando
veniva a chiamarti e io strillavo che andavate per male vie. Poi tu sei sparito,
sei andato a conoscere il mondo… Oh, adesso ti guardo e ti tocco e sono
contenta che ti ho riavuto. Ma penso a tutti quelli che non sono tornati, io.
Debbono essere molti quelli che non sono tornati.
Mia madre era nel rettangolo di sole, ancora con la sua mano sui miei
capelli, guardando davanti a sé. Io ripensai alla vecchia di Cava, la madre
dell’uomo con la casa sulla palude. Era contenta che io tornassi a casa,
riscaldò i maccheroni e preparò il letto pulito, ma anche lei pensava a quelli
che non sarebbero piú tornati, a tutti i morti della guerra che non avrebbero
piú ritrovato il sentiero di casa. Sí, pensavo, le madri non si domanderanno
mai se i figli sono morti per una ragione. Esse sanno solo che debbono
piangere e maledire, perché i figli morti pesano sul cuore piú dei figli vivi.
Mia madre mi lisciava i capelli, ma pensava a quelli che non sarebbero piú
tornati. Forse pensava a Cocca Divota e al mio compagno Guido. Guido
Mairana era un poco anche suo figlio, come io ero un poco figlio a Cocca
Divota. Mia madre pensava a queste cose, perciò la sua gioia nel vedermi
vivo accanto a lei, in casa sua come un tempo, non poteva essere gioia piena,
e le rughe non sarebbero mai piú sparite dal suo viso.
Poi mia madre si scosse dal torpore. Uscí dal rettangolo di sole. Disse:
– Dovrai farti la barba. Dovrai salutare la gente con la faccia pulita.
– Sí, ma’, – allora dissi, e adesso sapevo che era necessario tornare in
mezzo alla gente, vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una
ragione.

gennaio-febbraio 1947.
Assonanze
Tiro al piccione (1961)

Genere: di guerra.
Regia: Giuliano Montaldo.
Soggetto: dal romanzo omonimo di Giose Rimanelli.
Sceneggiatura: Ennio De Concini, Fabrizio Onofri, Luciano Martino.
Fotografia: Carlo Di Palma.
Musica: Carlo Rustichelli.
Scenografia: Carlo Egidi.
Montaggio: Nino Baragli.
Interpreti: Jacques Charrier, Eleonora Rossi Drago, Francisco Rabal, Sergio Fantoni,
Carlo D’Angelo.
Produzione: Ajace Cinematografica.

Incasso accertato a tutto il 31 marzo 1964: L. 329.546.481.


È la storia di un giovane milite fascista della Repubblica di Salò, che vede cadere a uno
a uno i suoi ideali e il desiderio di vivere a contatto con una realtà tragica e orrenda, nella
furia di una guerra fratricida che pone faccia a faccia fascisti e partigiani, sullo sfondo delle
valli piemontesi sconvolte dalla guerra. Il tema era interessante, perché prospettava una
diversa possibilità di osservare la crisi di una generazione e i tragici momenti di un periodo
critico della nostra storia recente, normalmente visti dalla parte dei vincitori. Sennonché il
film non riesce ad andare oltre la semplice descrizione di luoghi e personaggi, oltretutto
insufficientemente espressi e non perviene mai a una completa e problematica
rappresentazione storica.

Da: Vent’anni di cinema italiano, tutti i film dal 1945 al 1965. Catalogo Bolaffi del
cinema, diretto da G. Rondolino, a cura di O. Levi, G. Bolaffi editore, Torino 1967.
Testimonianza di un regista
di Giuliano Montaldo

La fine degli anni Cinquanta ha segnato l’esordio di un numero nutrito di registi. Questo
è avvenuto anche perché prima di registi ce n’erano pochi in rapporto alle possibilità del
mercato, perché per un lungo periodo di tempo gli esordi erano stati soffocati da un cinema
consuetudinario e fiacco. Tra la fine del neorealismo e gli anni Sessanta c’è stato un
periodo magari di maestri operanti, ma non di grosse rivelazioni. Invece poi ci furono gli
esordi di Pasolini, Olmi, De Seta, Petri, Damiani, eccetera. Il pubblico tornava ad andare al
cinema, e cosí anche i produttori hanno avuto voglia di continuare una certa esplorazione
anche con gente nuova. Ebbi qualche difficoltà nel senso che la produzione, la Ajace di
Cervi e Jacovoni, volle in qualche modo impormi un attore francese, Charrier, mentre io
avevo un piccolo gruppo di attori con cui mi sentivo in grado di lavorare. Ho pagato la mia
piccola esperienza, e dovevo probabilmente impormi di piú, ma tutto sommato l’esordio
non l’avevo cercato, mi veniva offerto… Avevo ventinove anni e mi sembrava che poteva
andar bene lo stesso. Cosí ho fatto Tiro al piccione.
Se non era facile trovare produttori per film come Tiro al piccione, lo è stato però anche
di piú negli anni successivi a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, e personalmente ho fatto
molta piú fatica a montare i progetti di Sacco e Vanzetti, di Giordano Bruno… Infatti film
come Kapò, come La lunga notte del ’43, avevano avuto un buon successo di pubblico e
avevano spinto i produttori alla ricerca di esordienti, in quei primi anni Sessanta. I
produttori mi avevano imposto un attore francese, Jacques Charrier, che non mi pareva
andasse bene: il ruolo era difficile, quello molto scabroso di un milite repubblichino.
Avevo letto il romanzo di Giose Rimanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e
appassionato questa storia «vista dall’altra parte», la storia di un giovane che in quegli anni
aveva fatto la scelta sbagliata.
Personalmente non ebbi un’esperienza molto simpatica della politica culturale del Pci.
Forse, facendo un film cosí «diverso», avrei dovuto rivolgermi con ancora maggiore
attenzione, con maggiore senso documentario a quelle che erano le mie sensazioni e
impressioni. Mi chiesero di vederlo, mi chiese Alicata di vederlo, e c’era già un’aria di
sospetto che io non avvertii, forse perché non ero legato a clan o gruppi e allora nessuno mi
ha consigliato. Era un po’ una chiesa, quel gruppo, e io ero uno strano credente perché
infine in chiesa non ci sono andato e questo poté essere un boomerang. Il film trovò tutti
impreparati e accigliati…
Poi il film andò a Venezia in un anno in cui Pasolini arrivava con Accattone, con un
linguaggio piú moderno, piú nuovo. Io avevo tanto frugato, avendo già fatto film sulla
Resistenza (G.M. era stato attore e organizzatore in film come Achtung, banditi! di Carlo
Lizzani, 1951 e Gli sbandati di Francesco Maselli, 1945, n.d.r.), avevo maturato l’idea che
bisognava rivisitare anche le altre parti della guerra. Forse ho anticipato troppo… Ma il
film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che mi brucia ancora è questa, perché
non era vero, e piú tardi alcuni mi hanno riconfermato in questo, ma allora sono rimasto tre
anni senza lavorare perché mi dicevo: «non riesco a esprimermi, a farmi capire», anche se
avevo attestati dal pubblico. Quello che mi ha imbarazzato di piú è stata l’accoglienza di
certi miei amici, di quella parte che avrebbe dovuto capire il film e sostenerlo. Allora erano
ancora stalinisti, c’era il rifiuto di capire l’altra parte, di tendere la mano… di qui l’accusa
di ambiguità. Cosí mi chiusi in me stesso, restando senza lavorare, finché non mi sono
accorto che dovevo ricominciare daccapo.

Da: L’avventurosa storia del cinema italiano, 1960-1969, a cura di F. Faldini e G. Fofi,
Feltrinelli, Milano 1981.
Il libro

«H O LETTO TIRO AL PICCIONE D’UN FIATO, CON UN INTERESSE CHE NON


esiterei a definire “morboso”. Perché il sapore e l’ossessione
di quei terribili venti mesi ci sono in pieno… è certo una delle
cronache piú vive che si siano scritte su quei tempi che ti prende e che
raggiunge il suo effetto d’orrore e schifo».
Italo Calvino

«La storia di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte
sbagliata», cosí Rimanelli presentava a Cesare Pavese, nel 1950, il romanzo
che sarebbe poi stato pubblicato da Mondadori. Sullo sfondo di un Molise
arcaico, segnato dal bisogno e attraversato da una violenza sotterranea,
Marco Laudato, il giovane protagonista, viene coinvolto nell’agonia della
Repubblica sociale spinto da deboli motivazioni patriottiche che lo
porteranno a scontrarsi con il fanatismo dei gerarchi e le disillusioni
personali.
Descrivendo con un flusso narrativo impetuoso i venti mesi di orrore
della guerra civile, Tiro al piccione si delinea come una delle poche
testimonianze su vicende, passioni e confusioni di allora che ancora oggi
conservano un’innegabile autenticità. Da questo romanzo è stato tratto
l’omonimo film di Giuliano Montaldo (1961).

Introduzione di Sebastiano Martelli.


L’autore

GIOSE RIMANELLI (Casacalenda 1926) vive negli Stati Uniti dal 1960. È
professore di Italiano e Letteratura comparata all’Università di Stato di New
York ad Albany. Tra le sue opere segnaliamo Peccato originale (1954),
Biglietto di terza (1958), Molise Molise (1979), Arcano (1990), Moliseide
(1992), Benedetta in Guysterland (1993).
© 1991 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino

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Ebook ISBN 9788858424414

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