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ORAZIO

VITA
Le notizie sulla vita del poeta si ricavano principalmente dalle sue stesse opere, ricche di
spunti autobiografici; altri particolari si desumono da una vita risalente con ogni probabilità al
de poetis di Svetonio. Orazio nacque a Venosa l'8 dicembre del 65 a.C. da padre liberto. Il
poeta era dunque di umili origini, ma di condizione economica non disagiata: potè infatti
seguire un regolare corso di studi, prima Roma, quindi ad Atene, dove frequentò le scuole di
filosofia. Dalla tranquillità degli Studi lo discosse la guerra civile che oppose i cesaricidi Bruto
e Cassio ad Antonio e Ottaviano. Orazio si arruolò nell'esercito di Bruto e partecipò alla
battaglia di Filippi, 42 a.C. In quest'occasione ottenne la prestigiosa carica di tribuno militare.
Dopo la sconfitta dei cesaricidi, grazie ad un'amnistia, il poeta tornò a Roma, dove esercitò
l'ufficio di scriba quaestiorius, cioè di impiegato amministrativo alle dipendenze dei questori.
La svolta decisiva della sua vita avvenne nell'anno 38 a.C. quando Virgilio e Vario, lo
presentarono a Mecenate che, dopo 9 mesi, lo ammise nel suo circolo. In alcune parole che
Orazio rivolse al suo protettore scrisse che riteneva una grande cosa l'essere piaciuto a
Mecenate, che fu capace di distinguere l'uomo onesto dall'indegno, non per la nobiltà di suo
padre, ma per purezza di vita e di cuore. Da allora l'esistenza di Orazio si svolse senza
scosse, tutta dedita alla letteratura, agli studi e alla frequentazione di una ristretta cerchia di
amici, tra cui Virgilio che nella prima ode definisce anime dimidium meae. Mecenate gli donò
una villa è un podere in Sabina, lontano dagli impegni e dai disagi della vita cittadina. A lui
Orazio fu legato da un'amicizia intima e affettuosa, e ciò spiega il fatto che gli dedicò quasi
tutte le sue opere.
Anche Orazio diede il suo contributo alla propaganda Augustea componendo Carmi
celebrativi e politicamente impegnati, tra cui spiccano le cosiddette odi romane. Nel 17 a.C.
in occasione dei Ludi saeculares, fu incaricato da Augusto nella composizione di un inno agli
dei, il cosiddetto Carmen seculare. Il Princeps fu inoltre il destinatario di una epistola poetica
di argomento letterario.
La composizione delle opere si colloca tra il 41 e il 13 a.C. circa. La cronologia delle opere si
ricava da indizi interni alle stesse. Negli anni dal 41 al 30 furono composti i due libri delle
satire o sermones e gli epodi o gli iambi. Orazio passò quindi alla lirica pubblicando nel 23 3
libri di odi.
Più tardi il poeta aggiunge ai precedenti un quarto libro di odi pubblicato verso il 13 a.C. Nel
frattempo si dedica alla composizione delle epistole divisa in due libri. Il primo fu pubblicato
nel 20 a.C, mentre il secondo, composto da due ampie epistole, scritte del 19 al 13 avanti
Cristo. Negli anni successivi la produzione di Orazio andò progressivamente diminuendo,
fino a cessare del tutto. Morì alla fine del novembre dell'8 a.C.

EPODI
● LA TRADIZIONE GIAMBICA
L'esperienza giambica oraziana, rappresentata da 17 componimenti, è parallela alla
produzione satirica. Infatti, anche se alcuni carmi si datano intorno alla battaglia a Filippi, la
raccolta fu pubblicata nel 30 a.C., con il libro II delle Satire.
In questo caso Orazio non ha bisogno di delineare una sua poetica, perché può riallacciarsi
ad alcuni precedenti nella letteratura greca e latina.
Nell'epodo 6 Orazio allude infatti ad Archilocho e ad Ipponatte come ai propri modelli, e
inoltre più tardi nella Epistole, dichiarerà con orgoglio di essere stato il primo a introdurre nel
Lazio i giambi di Archiloco, seguendo l'antico poeta nei metri e nello spirito.
La poesia giambica trae il suo nome dal metro che la caratterizza, il giambo, che è una
dipodia, cioè una coppia di metri giambici, ognuno connotato dalla successione breve-lunga.
Esso è definito da Aristotele il più vicino al ritmo del linguaggio colloquiale.
In effetti la poesia giambica ha di solito argomento e tono realistici ed è caratterizzata
dall'attacco personale, che si manifesta attraverso l'irrisione dell'avversario.
Per l'epoca arcaica i giambografi più rappresentativi sono Archiloco e Ipponatte, dei loro
scritti ci sono giunti però solo frammenti. Archiloco esprime con vivacità e vigore sentimenti
intensi e passioni impetuose. Nella sua poesia trovano spazio le personali esperienze di
guerra e amore.
Invece nei giambi di Ipponatte sono rappresentati con crudo realismo e con esasperazione
grottesca ambienti e situazioni sordidi e volgari.
Dal punto di vista formale Archiloco usa l'epodo, sistema metrico composto da due versi,
uno più lungo e uno più breve. Ipponatte invece fu l'inventore del coliambo, una variante del
trimetro giambico in cui la brusca alterazione del ritmo produce un effetto di rottura.
La poesia giambica rifiorisce in età ellenistica, quando i poeti alessandrini tentano di rivivere
le varie forme della poesia arcaica. Fra loro il ruolo più importante è quello di Callimaco, i cui
giambi sono caratterizzati da una grande varietà tematica.
Il metro giambico è poi ripreso, con il senario giambico, in età arcaica, sia nelle satire di
Ennio sia in quelle di Lucilio (II sec. a.C. circa).
Poi la poesia giambica è ben rappresentata dalla produzione di Catullo, in cui alcuni
componimenti sono di evidente intonazione ipponattea.
● CARATTERISTICHE POESIA GIAMBICA ORAZIANA
Orazio si ricollega a questa tradizione giambica, ma ne rivendica l'originalità. Infatti il poeta
afferma di aver mutuato da Archiloco l'aspirazione aggressiva, ma non i contenuti. Nella
raccolta oraziana non mancano quindi gli attacchi personali, ma questi hanno carattere
letterario, cioè fittizio. Sono quindi privi della passionalità violenta e immediata dei
giambografi greci. Ad esempio nell'epodo 10, in una specie di propemptikon a rovescio,
Orazio augura ad un certo Mevio di fare naufragio. Qui si fa riferimento ad un componimento
di Archiloco, dove il poeta maledice un ex-amico che lo ha offeso. Orazio non riesce a
riprodurre la serietà e la ferocia dell'invettiva archilochea, e questo, in aggiunta al fatto che
Orazio non spiega chi sia questo Mevio e perché ce l'abbia con lui, rende la violenza delle
minacce vuota e piuttosto giocosa. L'apice della scherzosità si trova nell'epòdo 3, in cui
Orazio rivolge una giocosa maledizione contro l'aglio, propinato a Orazio da Mecenate e a
cui si attribuiscono effetti più devastanti dei veleni di Medea.
Altra caratteristica degli epòdi oraziani è una varietà di temi. Offrono infatti un complesso
panorama in cui si possono distinguere diversi filoni: quello dell'invettiva, della magia, tema
trattato con un accentuato realismo, il filone della poesia civile, in cui Orazio assume
l'atteggiamento del vates, del poeta ispirato dalla divinità, amplificando dall'alto di tale
posizione la sua angoscia per la situazione politica, poi vi è il filone erotico, in cui domina un
pathos leggero e sentimentale. Infatti alla varietà tematica corrisponde anche una varietà di
registri.

SATIRE
La satira non ha un diretto corrispondente nella letteratura greca e Quintiliano la considera
come un'invenzione tipicamente Romana, satura tota nostra est. Fu probabilmente Svetonio
a distinguere nel genere satirico due diverse fasi: una prima fase rappresentata da Ennio e
da Pacuvio (III-II sec.), che ha il suo elemento distintivo nella grande varietà dei temi; una
seconda fase, che inizia con Lucilio (II sec.), caratterizzata dall'aggressività. Nell'opera di
quest'ultimo particolare importanza rivestono anche l'impostazione soggettiva, la tendenza
l'attacco personale, e, sul piano formale, l'uso dell'esametro, che resterà il metro
caratteristico di questo genere letterario.
Nelle sue satire Orazio propone una riflessione critica per cercare di precisare le
caratteristiche sostanziali e formali di questo genere. A tale scopo il poeta scrive tre
componimenti che sviluppano un pensiero omogeneo: la quarta e la decima satira del libro
primo è la prima del libro Secondo. In questi componimenti Orazio presenta Lucilio come il
vero iniziatore del genere. E allo stesso tempo, cerca di nobilitare la satira, collegandola alla
commedia greca e alla sua fase più antica, di cui cita in apertura al quarta satira del libro
primo i 3 più celebri rappresentanti: Eupoli, Cratìno, e Aristofane.
Orazio rileva l'importante differenza formale tra i due generi, costituita dall'impiego di metri
diversi, ma punta su un aspetto comune ai due tipi di poesia: la consuetudine di attaccare
direttamente personalmente gli avversari, in greco il cosiddetto onomastì komodèin.
Ma l'attacco di Lucilio è volto a far ridere dell'altro, mentre Orazio ha un intento di ricerca
morale. Con la componente moralistica si collega un altro aspetto della poesia satirica,
ovvero l'impostazione soggettiva, che consente all'autore di esprimere direttamente,
parlando in prima persona, le proprie opinioni e giudizi. Anche per tale carattere soggettivo e
autobiografico il precedente è individuato in Lucilio, il quale "come a compagni fedeli
affidava ai libri suoi segreti". E Orazio erediterà questa componente autobiografica.
Altra analogia sta nel fatto che Orazio afferma nel fatto di scrivere sermoni propiora,
accostando così la satira al sermo, inteso come conversazione, e infatti anche Lucilio aveva
chiamato i suoi componimenti sermones. La satira Infatti sceglie un livello linguistico e
stilistico adeguato ai temi trattati, non elevato, ma vicino all'uso della lingua parlata.
Sotto l'aspetto formale, tuttavia, Orazio non manca di prendere le distanze da Lucilio:
applicando il principio del Labor limae, ossia della necessità di una accurata elaborazione
stilistica, egli afferma che Lucilio scorreva fangoso, lutulentus, e lo biasima per la prolissità e
la scarsa cura dello stile, ovvero ne critica la sciatta e abbondante facilità.
Come questo vivo ed esigente interesse per la forma si collega un altro motivo caratteristico
della poetica oraziana, che riguarda il rapporto con il pubblico. L'autore afferma che la sue
produzioni è riservata a pochi intimi, indicando esplicitamente i suoi destinatari in Mecenate,
Virgilio, Vario e pochi altri scrittori e critici letterari; si riaffaccia qui la concezione, tipicamente
Alessandrina e già propria li poetae novi, di un'arte aristocratica, destinata a una cerchia
limitata di veri intenditori.
Altra differenza sta poi nella stessa impostazione soggettiva che in Orazio però non si
traduce in una semplice autobiografia, cioè pura esposizione di sentimenti e di fatti
personali, ma si presenta piuttosto come disponibilità rilevare aspetti significativi dell'Io
interiore per sviluppare da essi considerazioni di portata più ampia e di validità generale.
L'impegno morale, che era presente anche il Lucilio, si esprime qui nella tendenza a
spostare l'attenzione dagli individui ai comportamenti: ne consegue che l'attacco personale
perde molta della sua importanza, visto che ci si occupa non tanto dei viziosi quanto dei vizi,
di cui le singole persone forniscono esempi concreti. E le persone a cui fa riferimento Orazio
appartengono ad un piccolo mondo di irregolari, sono quindi cortigiane, parassiti, artisti,
filosofi di strada eccetera. Orazio segue così l'insegnamento del padre di imparare da chi gli
sta vicino, da quelli che incontra per strada.
Quanto allo spirito, esso è altamente apprezzato da Orazio come momento insostituibile sia
della vena moraleggiante sia di quella soggettiva, e tende qualche volta ad affermarsi in
modo autonomo in alcuni componimenti che si propongono di offrire una rappresentazione
arguta e divertente della realtà.
Interazione personale, riflessione morale, gusto per l'intrattenimento sono dunque le
componenti principali della satira oraziana, e questi concorrono a definire una vasta gamma
di argomenti che abbracciano la quotidianità nelle sue diverse manifestazioni.
Quale varietà di contenuti si esprime in due forme diverse: la satira descrittiva e la satira
diatribica. La prima prende le mosse da un fatto e quindi in queste il poeta rappresenta una
scena punto in questi casi la rappresentazione stessa è come la lente attraverso cui il poeta
osserva fatti personaggi. La seconda non è incentrata su un fatto su un episodio, ma svolge
una serie di argomentazioni e di riflessioni, sviluppandosi proprio sulle diatribe ovvero quei
discorsi filosofici che venivano recitati per le strade.
Le satire orazioni e presuppongono un sostrato di concetti morali che fornisce un costante
termine di riferimento. Il poeta stesso afferma la sua adesione all'epicureismo, infatti le
principali idee ispiratrici delle satire appartengono a tale dottrina, ma non solo, infatti sono
condivisi da quasi tutte le correnti filosofiche.
Si tratta dei principi designati dagli antichi con i termini greci metriotes e autarkeia. La
metriotes sanciva che la virtù consiste nel giusto mezzo, nell'equilibrio tra gli estremi opposti.
Tale norma è posta da Orazio a fondamento delle prime due satire del libro primo e si
esprime in particolare nel detto est modus in rebus. L'autarkeia, autosufficienza, consiste
nella limitazione dei desideri per evitare i condizionamenti esterni che impediscono il
raggiungimento della piena libertà interiore. Questa concezione si traduce nell'invito ad
accontentarsi del proprio stato e a cercare di soddisfare nel modo più semplice le esigenze
naturali. Questi due concetti sono dunque i due capisaldi da cui si sviluppa la riflessione
della satira oraziana.
Appunto sotto il profilo dello stile la decisione di ancorare la satira al Sermo si traduce nella
scelta di un livello linguistico e stilistico non elevato. Il lessico non disdegna quindi termini e
forme della lingua familiare o il ricorso a espressioni colloquiali. Si evitano vocaboli greci e i
grecismi e le grossolanità del sermo vulgaris che invece non mancavano in Lucilio. Orazio
crea così uno stile medio che potremmo dire ispirarsi a una conversazione elegante. Questa
apparente semplicità è in realtà il frutto di un'arte basata sul principio della brevitas, che
mediante un severo autocontrollo della forma tende alla eliminazione del superfluo e alla
concentrazione dei mezzi espressivi. Tra questi assumono particolare importanza la studiata
disposizione delle parole nelle frasi e un procedimento che prenderà poi il nome di callida
iunctura, cioè una corta e originale associazione di termini, un nesso ingegnoso capace di
trarre effetti nuovi da materiali linguistici comuni.

LE ODI
La produzione lirica oraziana comprende una raccolta di tre libri (1° di 38 carmi, 2° di 20 e il
3° 30) pubblicata nel 23 a.C., a cui si aggiunge un quarto libro in cui egli, verso il 13 a.C.,
raccolse i componimenti più tardi. La lirica oraziana sperimenta metri vari: la strofe alcaica,
la strofe saffica minore, la strofe asclepiadea e altri metri che sono rappresentati in esempi
isolati.
Si può rintracciare una specie di struttura nell’insieme della raccolta, vi è una disposizione
dei carmi che risponde a intenti artistici e strutturali. Ad esempio in posizioni di rilievo sono
posti i componimenti dedicati a personaggi importanti; a volte si susseguono odi di
contenuto simile, tanto da costituire un vero e proprio ciclo, le odi romane. Ma prevale la
variatio, sia dal punto di vista metrico-formale, sia del tono e del contenuto. Orazio
conferisce quasi sempre ai suoi componimenti un’impostazione “allocutiva”, cioè rivolta a un
destinatario: raramente i carmi si presentano come monologhi interiori; l’interlocutore può
essere un personaggio reale oppure una figura più o meno fittizia.
● MODELLI
Le odi si pongono all’interno di una produzione letteraria di ascendenza greca, che
prevedeva originariamente l’accompagnamento musicale con la lyra.
I modelli principali sono i poeti di Lesbo, Alceo in primo luogo e Saffo. Orazio stesso
esplicita questa dipendenza dal mondo greco, rivendicando il titolo di Alceo romano. Ciò
implica un rapporto di imitatio, cioè di obbedienza alla lex operis, rispetto del decorum
letterario. Si tratta di un rapporto non di riscrittura meccanica, ma che lascia spazio
all’originalità del poeta. Anzi in molti casi il modello greco fornisce lo spunto, il motto, che poi
si svolge secondo motivi oraziani.
Appunto Alceo è il modello principale di Orazio. Li accomunano l’attenzione per le vicende
della comunità e l’interesse alla sfera privata. Vi sono anche delle differenze: Alceo si
interessò soprattutto alle lotte intestine di Mitilene, nei suoi canti risuonano la passione per la
politica l’esaltazione dell’etica nobiliare e la preoccupazione per le sorti dello stato; invece
questa sfera i Orazio è più sfumato. inoltre Alceo componeva le sue odi per l’esecuzione
cantata durante i simposi e dunque evitava raffinatezze per rendere più eseguibili i suoi
carmi. Orazio invece ricerca quella cura formale che si esplicita nel labor limae.
C’è anche l’influenza di Saffo, anche se minore. Ciò lo spiega anche Orazio, che nell’ode
2,13 si immagina Saffo e Alceo che affascinano con il loro canto il mondo infernale, le cui
ombre sembrano preferire Alceo. Vediamo comunque delle allusioni all’ode della gelosia.
Ma la lirica oraziana risente anche di Pindaro, ciò lo vediamo nei periodi ampi, negli
ammonimenti improvvisi ad esempio. A lui tuttavia Orazio guarda come un ideale
irraggiungibile, e alla sua poesia ispirata, preferisce la poesia che è frutto di una cura infinita;
in un’ode del quarto libro Orazio, riconoscendo i propri limiti, si dedica, con l’operosità delle
api, a un’arte sottile, finemente elaborata, rinviando al labor limae.
● LE TEMATICHE
La vena gnomica costituisce il centro delle Odi oraziane. Pur nella notevole variabilità dei
motivi, i carmi gomici ruotano tutti intorno a un solo nucleo tematico fondamentale: la
coscienza dell’incertezza del futuro e della brevità della vita. E’ un’idea tutt’altro che
originale, ma sentita con profonda sincerità e inquietudine dal poeta, che la propone
ripetutamente, sviluppandola in diverse direzioni. Lo svolgimento in positivo porta al
riconoscimento di un’lternanza nelle vicende umane e all’invito a sostenere con virile
sopportazione (e magari con l’aiuto del vino) le inevitabili avversità. Lo sviluppo in negativo
conduce invece alla constatazione dell’ineluttabilità della morte e della necessità di usufruire
pienamente del breve tempo della vita. E’ il motivo del carpe diem, che non è l’istigazione a
un superficiale edonismo, ma il consiglio di cercare la felicità nel presente e non in un
ipotetico e inaffidabile futuro. Non si tratta quindi di una corsa sfrenata al piacere, ma di una
saggezza tramata di moderazione e di autolimitazione.
Particolarmente cospicuo e importante è il filone erotico, in cui rientrano numerosi
componimenti. A differenza di quanto avviene nella poesia elegiaca, i carmi non tendono a
collegarsi in un’unica vicenda, ma si presentano come episodi in sé conclusi. Anche qui il
poeta non abbandona mai l’ideale di equilibrio. A differenza di Catullo, che accentua ed
esaspera i toni e i sentimenti, Orazio, con il suo temperamento riflessivo e filosofico, evita il
coinvolgimento affettivo e tende al distacco di una lieve ironia.
Diverso è il suo atteggiamento verso l’amicizia, sentimento a lui più caro. Questa è stretta tra
persone affini spiritualmente, accomunate dalla ricerca filosofica dell’equilibrio. A questo
tema è legato il motivo dell’angulus ovvero lo spazio protetto e appartato ricco di bellezze
naturali e carico di risonanze affettive.
L’ultimo grande filone delle Odi è quello della poesia civile, per la quale Orazio prende
spunto dal precedente Alceo: la sua condizione è però molto diversa da quella del modello.
Alceo infatti partecipava direttamente alle vicende politiche della sua patria; come privato
cittadino tutto dedito alla sua attività letteraria, Orazio non è che un semplice spettatore della
vita pubblica di Roma.
A ovviare a tale difficoltà provvede il ruolo di vates che egli assume spesso nelle Odi e che,
con la sua sacralità, gli permette di rivolgersi ai Romani da una posizione di superiorità:
autorizzato da una investitura divina il poeta può esortare e ammonire gravemente i suoi
concittadini. Nasce così una lirica civile articolata in momenti diversi, che vanno dalla dura
condanna delle guerre fratricide e dalla preoccupazione per la situazione dello Stato fino alla
celebrazione di Roma e del principe. Questo tipo di poesia era incoraggiato da Mecenate e
da Augusto, che in esso vedevano un supporto per la loro azione politica. L’esaltazione
dell’imperatore può apparire eccessiva ed enfatica, ma indubbiamente sincera è la
gratitudine che Orazio nutre verso il principe per aver pacificato la civitas e avere così reso
possibile il suo otium letterario. Questa tematica è svolta particolarmente in un ciclo di sei
carmi all’inizio del libro III, le odi romane.
● GENERI

● STILE
Il quadro complessivo delle odi dunque rivela dunque un'estesa gamma di temi.
Parallelamente a tale molteplicità tematica è possibile individuare, sotto il profilo stilistico,
una pluralità di registri che dalla finezza leggera della poesia amorosa giunge all'altezza, e
talora alla sublimità pindarica, della lirica civile.
Il vero fulcro dello stile oraziano è costituito dalla disposizione delle parole, che sono
incastonate con somma maestria in modo da valorizzarsi reciprocamente. Particolarmente
efficaci sono le iuncture, le associazioni di vocaboli, talvolta ingegnose e al limite
dell'ossimoro, come aura mediocritas, preziosa mediocrità, strenua inertia, affannata
immobilità. Così le tendenze stilistiche che già si erano manifestate nelle satire raggiungono
qui il loro coronamento: rinunciando a tutto ciò che può essere superfluo, mirando
all'essenziale e sfruttando al massimo le possibilità insite nell'uso accorto di elementi
semplici e comuni, Orazio crea una forma nitida e cristallina.

EPISTOLE
Le epistole o sermones, nome che Orazio dà alle sue lettere in versi. Sono distinte in due
libri. Il primo fu pubblicato nel 20 a.C. e comprende 20 componimenti in esametri di
lunghezza varia che va dai 16 ai 112 versi.
La convenzione epistolare determina talora componimenti di occasione, come lettere di
convenienza, con la richiesta di notizie a un amico, biglietti di raccomandazione, inviti a
cena, istruzioni a un servo per la consegna ad Augusto della sua opera. Assai frequenti
sono i componimenti che svolgono temi morali. Il fulcro della riflessione oraziana è ancora lo
stesso delle satire: la fiducia nella divina sapienza. Tale saggezza non è presupposta nella
figura dell’autore, ma è presente soprattutto come intenzione e aspirazione di Orazio, che si
propone e si sforza di realizzare il proprio miglioramento interiore. Le epistole dei 1 libro si
situano in un momento in cui il poeta decide di cambiare vita: mentre il passato è stato il
tempo dei “versi e degli altri divertimenti”, il presente è il momento della presa di coscienza e
della riflessione critica su se stesso. Nella epistola che fa da proemio, dedicata a Mecenate,
Orazio annuncia la sua decisione di rinunciare al genere lirico per comporre un breve trattato
di etica, di impostazione eclettica. Infatti l’autore non esita a ricorrere a precetti di scuole
differenti, qualora gli sembrino efficaci per affrontare le difficoltà della vita, infatti dice,
assimilando la vita a un viaggio per mare “senza vincolarmi a giurare sulle parole di alcun
maestro, mi lascio portare, come un ospite, dovunque mi trascina la tempesta”. L’obiettivo di
Orazio infatti non è la trattazione teorica di principi dottrinali, ma piuttosto la proposta di uno
stile di vita volto a mantenere la tranquillità dell’animo. Il tema della serenità data dalla
filosofia è ripreso con pacata autoironia ad esempio anche nell’epistola indirizzata a Tibullo.
Il 2 libro fu composto negli anni fra il 19 e il 13, conta di due sole epistole, in cui è ripreso il
tema letterario. L’epistola ad augusto tratta della possibile rinascita del teatro latino, al quale
il princeps era interessato nel quadro generale di restaurazione degli antichi valori. Avendo
infatti un carattere popolare, la rappresentazione di nuove opere drammatiche,
adeguatamente conformate dai loro autori all’ideologia dominante, avrebbe potuto costituire
uno strumento atto ad assicurare una più larga diffusione di quei valori, rispetto alla lettura o
alla recitazione nell’ambito di ristretti circoli culturali o aristocratici. Riguardo a questo
progetto Orazio si mostra piuttosto incredulo considerando incompatibile con i gusti
grossolani del pubblico una produzione teatrale di qualità. Quest’ultima deve distaccarsi, per
il poeta, dall’antica tradizione. Affronta così in questa lettera la questione della superiorità ei
poeti antichi o dei moderni. Nonostante l’opinione diffusa, l’autore ritiene che gli arcaici non
costituiscano se non uno stadio primitivo e imperfetto del processo di miglioramento
originatosi nella letteratura latina per influsso greco. Orazio proclama dunque l’eccellenza
della poesia contemporanea e la difende contro i fanatici cultori del passato.
La 2 epistola, a Giulio floro, è incentrata sulla figura dell’autore, che si scusa con l’amico per
la scarsa fecondità della sua vena poetica, adducendo la pigrizia, l’incipiente vecchiaia, gli
impegni sociali e soprattutto il suo interesse per la filosofia.

ARS POETICA
È una sorta di trattato in versi, si tratta però di un'epistola ad Pisones, di grandi dimensioni,
dove Orazio espone in modo sistematico i precetti di poetica. L'epistola è basata sulla
dottrina aristotelica, ma risente anche, soprattutto per l'esigenza formale, dell'estetica di
Callimaco. La prima parte dell'ars poetica tratta della poesia, poi del perfetto poeta.
Qui Orazio enuncia due principi estetici fondamentali: l'idea che la grande poesia sia frutto
dell'ingenium e dell'ars e la preferenza accordata del poeta che sa sa miscere utile dulci,
dilettando e insieme ammaestrando il lettore

T1, UN VOLGARE ARRICCHITO, EPODI, 4


L'epodo è diviso in due parti nella prima sembra che l'avversione sia personale, ma poi il
poeta dà la parola, attraverso l'artificio della persona loquens, al popolo così da rendere più
oggettiva l'indignazione. In sostanza in questo epodo, Orazio si scaglia con violenza contro
un ex schiavo arricchito che, nonostante la sua origine, di cui porta ancora visibili i segni sul
corpo, siede nelle prime file del teatro, fra i cavalieri. Del personaggio non è rivelato il nome,
ma probabilmente non ce n'era bisogno, perché tutti erano in grado di identificarlo. Ma non
solo per questo infatti la vittima dell'invettiva rappresenta un tipo, più che un individuo.
L'invettiva è caratterizzata dalla ricerca di toni volutamente esagerati nella rappresentazione
del parvenu che, dispetto dell'ascesa sociale, rimarrà sempre volgare e susciterà
l'indignazione delle persone perbene.
L'epodo presenta un interessante spaccato della società romana: ecco un personaggio fino
a ieri schiavo e oggi proprietario terriero di successo, in grado di competere con i cavalieri.
Si tratta di una figura piuttosto comune in una società che vive profonde trasformazioni
economiche e sociali come quella romana nella fase di transizione dall'età repubblicana
all'età Imperiale, dove erano appunto stati applicati radicali mutamenti dei ceti sociali.
Personaggi come questo protagonista costituiscono per certi versi un pericolo sociale,
perché generano incertezza e sfiducia: quale senso ha, chiede la vox populi alla fine del
componimento, combattere i pirati gli schiavi, se poi uno di essi può diventare Cavaliere fare
carriera militare
Potrebbe stupire che Orazio, Libertino patre natus, abbia parole di così profondo disprezzo
per chi è riuscito ad affrancarsi dalla sua umile condizione; ma bisogna considerare che per
il poeta l'elevazione sociale era legata soprattutto al riconoscimento di doti morali e
intellettuali. Dunque l'autore non ritiene biasimevole il desiderio di elevarsi socialmente, ma
condanna sicuramente l'arrivismo, la volgare ostentazione della ricchezza, ovvero la
mancanza di quel Modus in rebus di quella giusta misura che Orazio enuncia nelle satire e
che dovrebbe spingere quest'uomo a non occupare un posto che non gli spetta né a teatro
né all'interno della società.

T2, L'INSODDISFAZIONE DEGLI UOMINI, SATIRE, 1,1


Il tema centrale della satira, che è dedicata a Mecenate, è quello della insoddisfazione che
ciascuno ha della propria sorte, con il corollario dell'invidia nei confronti della presunta
felicità altrui. Il motivo è svolto secondo una struttura ad anello, ovvero con la ripresa alla
fine dello spunto iniziale. La struttura della satira divisibile in tre sezioni. Nella prima sezione
ora si espone l'argomento generale della satira, punto l'incontentabilità degli uomini. Per
esporre la sua argomentazione ricorre a 4 esempi concreti, ovvero riporta l'esperienza e il
pensiero di quattro personaggi: il soldato, Il mercante, l'avvocato, il contadino. La prima
sezione si conclude poi con una specie di apologo in cui Orazio dice che dal momento che
anche se giovedì se gli uomini la possibilità di cambiare la propria sorte questi decidere
Ebbero di non mutarla, e quindi Giove deciderebbe di non accontentare più gli uomini. Nella
seconda sezione Orazio tratta dell'insoddisfazione che deriva dalla incontentabilità
dell'uomo, che a causa di questa è portato ad accumulare le proprie ricchezze punto
stavolta non porta argomentazioni tratte dalla vita quotidiana, manti dalla favola. Infatti porta
l'esempio della formica che accumula come l'uomo ma che più saggiamente di quest'ultimo
si gode quanto ha messo da parte. Nella terza sezione Orazio ricorre a esempi tratti dalla
sua contemporaneità e dunque dando un nome ai vizi: Ummidio e Nevio rappresentano
l'avarità, mentre Nomentano lo sperpero. E Orazio dà una soluzione acquista
incontentabilità dell'uomo, e Appunto questa sta nella via di mezzo fra Nevio e Nomentano.
Alla fine della satira appunto Orazio torna altri mi iniziare. Modus è un termine di uso
frequente. Il valore della sua radice rinvia anzitutto al concetto di misura. L'idea della misura
richiama anche a quella di confine e di limite.
Di qui il frequente riferimento, con Modus, alla virtù morale della moderazione e
dell'equilibrio, cioè la capacità di misurare i propri comportamenti e le proprie emozioni. Il
senso della giusta misura è un concetto centrale in Orazio, Cantore della Aurea mediocritas.
Per l'autore delle satire ogni cosa ha un limite oltre il quale non può esserci il giusto. La
giusta misura si traduce nella sobrietà del convito, ma anche nel l'ideale estetico del labor
limae, della capacità di misurare e pesare le parole e i versi. La stessa idea del carpe diem
consiste nell'abilità di misurare la propria felicità.
L'immagine del conviva Satur con cui Orazio chiude la satira è presente anche nella
letteratura diatribica ma resa famosa da Lucrezio nel suo De rerum natura, dove indica il
giusto atteggiamento da tenere verso la morte.
Non è l'unica allusione a Lucrezio, Infatti anche l'immagine dei ministri che danno biscotti ai
bambini riprende quella del miele sui bordi dell'amaro calice. Entrambe le metafore stanno
indicare che per essere rivelata la verità deve essere in un certo senso addolcita.

T3, LIBERTINO PATRE NATUS, SATIRE 1,6


Nella prima parte della satira Orazio si rivolge a Mecenate valorizzandolo per il fatto che,
diversamente da altri, lui non si lascia condizionare dalle origini di una persona ma dalle sue
qualità, infatti come dimostra l'esempio di Levino, ci sono nobili incapaci. Passa poi a
raccontare la sua esperienza personale, proclamando con orgoglio le sue umili origini, per
cui è sempre stato deriso. Ma la fine a queste maldicenze è stata posta dall'amicizia con
Mecenate, che Orazio tiene a precisare non essere avvenuta per caso, ma grazie a Virgilio e
a Vario. E fatto ancora più straordinario è che Orazio è piaciuto a Mecenate, non perché era
di padre illustre ma perché puro di vita e anima, quindi onesto. E il merito di questa onestà è
dovuto solo al padre del poeta che lo ha educato secondo retti principi e lo ha portato a
Roma a istruirlo nelle arti destinate ai figli dei cavalieri e dei senatori. Ed è talmente fiero e
grato al padre che mai, nemmeno se ne avesse l'occasione, rinuncerebbe ad averlo come
tale. E inoltre le sue umili origini, afferma al termine della satira, gli consentono di vivere
molto meglio di chi proviene da una nobile stirpe, libero dal peso e dalle catene
dell'ambizione.

T4, IL SECCATORE, SATIRE 1,9


La satira ha una struttura lineare che risulta dal susseguirsi di quadri in cui avvengono i
dialoghi tra i personaggi. È un componimento pieno di verve e di spirito. Il poeta si
abbandona al piacere di raccontare il suo incontro con un petulante quanto aggressivo
scocciatore che gli si pianta alle costole e vuole a tutti i costi strappargli una
raccomandazione per entrare nel circolo di Mecenate.
La satira si costruisce su un modello di Lucilio, che raccontava di un incontro di Scipione
Emiliano con un buffone. Tra i due vi è un dialogo. Lo scopo di Lucilio è lodare l'umorismo e
la superiorità di Scipione deridendo invece l'interlocutore. Con Orazio invece assistiamo a un
esempio di autoironia: è proprio lui a risultare un perdente, incapace di liberarsi dallo scurra
che si rivela più astuto. Ma se da un lato perde, dall'altro, quello morale, è vincitore.
Dietro il piacevole racconto si intravedono comunque alcune realtà che non hanno nulla di
comico e di scherzoso, prima fra tutte l'invidia nei confronti di chi, partendo da un ceto
piuttosto umile, era entrato a fare parte di una ristretta e privilegiata elite culturale. Non è
difficile immaginare i commenti acidi che accompagnarono l'ascesa di Orazio e gli epiteti con
cui veniva gratificato, ad esempio fortunae filius. E non è neppure difficile immaginare quali
maldicenze circolassero sui rapporti tra i convictores di Mecenate, visti come arrampicatori
sociali. Orazio in questa satira replica anche a tali voci, di cui si fa portatore un piccolo
intellettuale senza nome che non è mai riuscito ad affermarsi e guarda con invidia i colleghi
che hanno risolto tutti i loro problemi grazie alla fortuna, secondo lui. Il poeta, quando
racconta del circolo di Mecenate, contrappone alla rozza etica del seccatore, centrata
sull'arrivismo, la pulizia di un ambiente in cui non esistono rivalità e gelosie, perché ciascuno
ha il suo posto.

T6, CARPE DIEM, ODI, 1,11


"Tu non chiedere (non è lecito saperlo) quale fine a me, quale a te gli dei abbiano
assegnato, o Leuconoe, e non mettere alla prova i calcoli babilonesi. Quanto è meglio
accettare qualunque cosa accadrà! Sia che Giove ci abbia attribuito ancora numerosi
inverni, sia che invece ci abbia attribuito come ultimo (questo) che ora sfianca contro le
opposte scogliere del mare Tirreno, sii saggia, filtra i vini e contieni in breve spazio le
speranze troppo lunghe. Mentre parliamo sarà già fuggito il tempo ostile: cogli l’attimo,
confidando il meno possibile nel domani”.
In questa ode Orazio riprende temi a lui cari e già affrontati: il futuro ignoto, e la
conseguente necessità di approfittare del presente, il vino che scaccia gli affanni, l’amore, la
descrizione della natura.
Il componimento sembra essere un frammento di una conversazione simposiale, in cui
Orazio interloquisce con una figura femminile, Leuconoe, nome carico di valenze simboliche,
che significa “dalla mente serena”. Lei ha interrogato gli indovini caldei per conoscere il
destino suo e della persona amata. E Orazio la ammonisce, la invita a trascurare gli
oroscopi. E non dice questo per polemica, anzi gli interessa esortare Leuconoe a una vita
che prescinda dalla conoscenza del futuro e impedire che la tensione verso il futuro la
distolga dall’unica felicità possibile, che si trova nel presente.
Dal punto di vista dello stile l’ode è caratterizzata da un’apparente linearità e fluidità
sintattica, e da una scelta lessicale che è molto ricercata.
L’incipit con il tu caratterizza il tono colloquiale e intimo dell’ode. Il tema centrale è introdotto
sin dai primi versi: l’anafora di quem sottolinea il carattere di indeterminatezza del finem,
ribadito dall’inciso ut melius … pati. La riflessione del poeta si amplia nei versi successivi:
l’anafora di seu...seu rapidamente contempla le ignote alternative poste dal futuro; hiemes è
metonimico per anni ma significativamente ne indica la stagione più triste, e nel contempo
introduce l’immagine del mare invernale che si affatica contro gli scogli, drammatico simbolo
dell’affaticarsi degli uomini. Il tono si fa più pacato, adeguandosi al carattere gnomico negli
ultimi versi; i tre congiuntivi sapias, liques, reseces sono esempi di attività proprie di una vita
saggiamente condotta.
Gli ultimi due versi hanno come protagonista l’invida aetas, come evidenziato
dall’enjambement e dalla novità dell’aggettivazione, che la pone tra gli esempi più
significativi di callida iunctura; il futuro anteriore fugerit rende il senso della fuga del tempo. Il
verbo carpere dell’espressione conclusiva è tratto dal lessico dell’agricoltura, come resecare
e rende con precisione il rapido gesto dell’afferrare: per carpere la vita come un frutto
occorre infatti rapidità, ma anche quella saggezza che consente di goderne appieno.

T10, LA FONTE BANDUSIA, ODI, 3,13


Quest'ode è dedicata alla fonte Bandusia, ed è costruita su una successione di immagini,
evocate con essenzialità descrittiva, e nel contempo cariche di valenze simboliche. Il carme
ha inizio con un'apostrofe alla fonte stessa, della quale si celebra la splendida limpidezza,
con la promessa di offerte. È dunque evidente, in questi primi versi, la ripresa strutturale
dello schema della preghiera. I versi seguenti, dopo un cenno alla freschezza della Fonte,
sono dedicati a una promessa di immortalità poetica, che si chiude con la rievocazione
sonora del mormorio delle acque, che integra e perfeziona la descrizione del locus amoenus
iniziata al verso 1. Per la raffinatezza stilistica, Orazio si rifà il modello callimacheo, mentre è
il Teocrito degli Idilli a suggerire temi e motivi. Ma il tutto è filtrato e rielaborato attraverso la
personalissima esperienza del poeta.
Appunto in questa ode è presente un motivo molto caro Orazio, ovvero quello della funzione
eternatrice della poesia. Verrà ripreso in altre odi sempre con registri solenni ed elevati,
poiché Orazio intende proiettare nell'immortalità se stesso e le imprese di Augusto.
La fonte, che probabilmente è sita nel podere di Orazio in Sabina, è da lui così chiamata in
ricordo di una fonte omonima presso Venosa, è un esempio dell'angulus a lui caro, quel
luogo protetto è lontano dalla vita della città che si ritrova in altre odi.

T9, VITA PURA E POESIA D'AMORE


Quest'ode è dedicata all'amico Aristio Fusco, il burlone male salsus che in sermones 1,9
abbandona Orazio nelle grinfie di un seccatore. Questa ode sottolinea come l'attività
poetica, se unita a una condotta di vita integerrima, possa garantire libertà e autonomia
interiore. La struttura dell'ode è tripartita. Le prime due strofe, nel tono impersonale tipico
della poesia gnomica, propongono un discorso morale di carattere generale: chi ha la
coscienza pulita non ha nulla da temere e può dedicarsi alle attività che ama senza dover
continuamente stare in guardia per timore di essere aggredito. Nella seconda coppia di
strofe, l'io del poeta porta il discorso entro le coordinate della propria vita attraverso il
racconto di un'esperienza personale, che costituisce l'exemplum cioè la dimostrazione di ciò
che ha affermato prima: l'incontro con un lupo che se ne andò senza fargli alcun danno,
mentre era in condizioni di otium e compiva gesti privi di alcun fine utilitaristico. La terza
coppia di strofe illustra la conseguenza, sul piano personale, del discorso precedente.
Orazio, che nel quadro generale dell' integrità di vita e della purezza di cuore inserisce
anche l'attività poetica e una dimensione di vita orientata verso Otium, gode evidentemente
del massimo di libertà e di autonomia interiore: dovunque si trovi, perfino nelle regioni più
inospitali, egli si ritaglierà un angolo in cui scrivere versi.

T13, LA NAVE DELLO STATO, ODI, 1,14


In questo caso l'ode non è indirizzata a una persona, bensì ad una nave, che il poeta si
immagina personificata, e a prova di ciò sono i sostantivi saucius, ferito, oppure voces. L'ode
è strutturata ad anello: nei primi versi invita la nave a rifugiarsi presso il porto, da qui passa
alla descrizione della nave, malridotta a causa della tempesta, per poi tornare a esortarla a
evitare il mare.
Orazio ricorre all'immagine della nave per descrivere le difficili condizioni in cui versa lo
Stato. Forse il riferimento è alla guerra fra Sesto Pompeo e i triumviri Ottaviano,
Marcantonio, Emilio Lepido. Un'altra ipotesi suppone che l'ode dia voce al clima di
apprensione nell'imminenza della battaglia di Azio, con cui si sarebbe concluso il conflitto fra
Ottaviano e Pompeo.
Ben più chiaro è il modello preso in considerazione da Orazio: si tratta di un componimento
di Alceo che ci è giunto frammentato. Anche questo è incentrato sulla descrizione di una
nave sorpresa dalla tempesta, con cui Alceo voleva indicare in modo simbolico le sciagure
causate dai tiranni. È insomma uno dei tanti carmi con cui il poeta lesbio descriveva la
travagliata situazione politica della propria città, Mitilene, minacciata dall'avvento della
tirannide di Mirsilo.
Ma fra i due componimenti vi è una fondamentale differenza: mentre Alceo si immagina
all'interno della nave, Orazio osserva la scena con distacco. Ciò presenta anche il diverso
ruolo che i due poeti svolgono all'interno della politica.

T14, NUNC EST BIBENDUM, ODI, 1,37


La struttura di quest'ode è piuttosto complessa e risente degli epinici di Pindaro. Tuttavia
possiamo suddividerlo in tre blocchi: nella prima parte vi è un grido di esultanza, un invito a
bere per la morte di Cleopatra, di cui rievoca con disgusto i progetti; nella seconda sezione
racconta la fuga di Cleopatra di fronte a Ottaviano, di cui sono messe in rilievo le capacità e
l'eroismo; nell'ultima parte viene descritto il comportamento di Cleopatra che di fronte alla
consapevolezza della disfatta si dà al suicidio. Ben evidenti appaiono i motivi della
propaganda augustea,che mirava a trasformare una lotta di potere in un grande scontro
culturale tra Oriente e Occidente, portatori di due modelli di civiltà e di cultura antitetici. Ma le
circostanze non impediscono a Orazio, nella seconda parte dell'ode, di tracciare un
indimenticabile ritratto di Cleopatra, fatale monstrum.
La figura centrale non è Antonio, ma Cleopatra, dapprima descritta come in preda a un
furore devastante, poi ricondotta alla realtà ad opera di Ottaviano. Infine, gli ultimi versi
mostrano il coraggio di Cleopatra, a cui viene ridata dignità.
L'esplosione di esultanza dell'ode richiama un tema di Alceo, che aprì un componimento con
lo stesso grido di gioia, per la vittoria contro Mirsilo, che era uno dei tiranni di Mitilene, patria
di Alceo.
T17, NON OMNIS MORIAR, ODI, 3,30
In questa ode Orazio attribuisce all'opera poetica la dignità di monumentum, di ciò che è
degno di essere ricordato, per la sua durata nel tempo, superiore a quella del bronzo, per la
sua grandezza, maggiore di quella delle piramidi, per la sua incorruttibilità di fronte agli
insulti della natura, lo scorrere degli anni e il precipitoso trascorrere del tempo infliggono a
ogni cosa.
Poi dall'opera poetica l'attenzione si sposta sul poeta; dell'uomo Orazio sopravviverà il frutto
dell'ingegno, e questo frutto è indissolubilmente connesso con il destino della civiltà che l'ha
prodotto, quella di Roma, qui personificata nel richiamo all'immagine del pontefice che sale
le scale del Campidoglio con la Vestale, per compiere un rito antichissimo. L'orgoglio di
Orazio di aver dato a Roma un nuovo genere di poesia è poi accresciuto dalla
consapevolezza della propria modesta origine.
E appunto Orazio qui Rivendica orgogliosamente, di aver compiuto un'opera immortale,
emulando per primo la lirica eolica di Saffo e Alceo nella letteratura latina. L'ode riprende e
completa il tema della prima ode, dell'ode proemiale, con l'affermazione che sia realizzato
quanto Talora auspicato. Il tema a illustri antecedenti: in Simonide di Ceo a sfidare il tempo
è l'oggetto del canto; Nella sesta pitica di Pindaro è il canto medesimo, la superiorità
assoluta della poesia.
quindi centrale in questa ode e il fatto che Orazio si proclama inventore della poesia lirica
latina. È vero che già Catullo e poeti neoterici avevano preso a riferimento lirici Greci,
Catullo in particolare Saffo, ma tuttavia si trattava di tentativi sporadici. Mentre Orazio ha
dedicato tutto il suo impegno poetico per creare un linguaggio lirico nuovo.
Appunto lode conclude la raccolta dei primi tre libri costituendone Quindi una sottospecie di
sigillo in cui l'autore Si congeda dai suoi lettori tracciando un bilancio della sua attività e
dando qualche notizia di sé.
Inoltre al termine Inoltre al termine dell'ode, nell'epilogo, vi è una apostrofe a Melponene, a
cui Orazio si riferisce non per l'ispirazione poetica, ma per ricevere il premio.

AUREA MEDIOCRITAS, ODI, 2,10


Orazio nella prima satira aveva sostenuto che il segreto di un'esistenza serena consiste
nell'evitare gli eccessi e nel saper conservare in ogni circostanza il Modus, la giusta misura.
Il medesimo tema e riproposto in questo, in cui è presente un intreccio di motivi filosofici che
ruotano intorno al concetto dell' Aurea mediocritas, la formulazione oraziana della metriotes.
Secondo il codice proprio della poesia lirica, l'autore affida il suo pensiero non tanto a
un'enunciazione teorica quanto a un'associazione di immagini, che simboleggiano la
medietà: essa costituisce la chiave per una disincantata gestione della propria vita, e
consente di resistere nei momenti difficili e di non illudersi troppo in quelli favorevoli.

T18, AD ALBIO, PER CONSOLARLO, EPISTOLE 1,4


Questa epistola è una lettera consolatoria che Orazio dedica all’amico e poeta elegiaco
Tibullo, colpito da una profonda malinconia. Invitando Tibullo a combattere questa
inquietudine e insoddisfazione, l’autore riflette sui concetti fondamentali dell’epicureismo e lo
esorta ad accettare la condizione umana, vivendo ogni momento come se fosse l’ultimo e
godendo del presente senza rimandare la felicità al domani. Il tema è svolto con una
elaborazione sintetica ma profonda: si parte dall’elencazione delle grandi qualità di Tibullo,
la ricchezza e le capacità di goderne, l’intelligenza, l’abilità nell’esprimersi; Orazio riprende
poi un tema a lui caro, quello del carpe diem, come mezzo per dimenticare speranze e
affanni; lla controprova è nell’ironico ritratto che Orazio fa di sé, rotondetto e in ottima forma.

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