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I principali prosecutori della poesia bucolica furono Mosco di Siracusa

(metà del II secolo a.C.) e Bione di Smirne (fine II secolo a.C.), le loro
opere ci sono giunte nello stesso corpus che comprendeva anche quelle
di Teocrito.

MOSCO DA SIRACUSA
Mosco (in greco antico: Μόσχος; Siracusa, II secolo a.C. – ...) è stato un
poeta siceliota (abitante delle poleis greche di Sicilia), autore di epilli (un
breve componimento a carattere epico, come suggerisce l'etimologia del
termine; in greco, infatti, ἐπύλλιον (epýllion) vuol dire "piccolo epos") e
scritti eruditi.

Biografia

Secondo il Lessico bizantino Suda, fu originario di Siracusa, fu


probabilmente allievo del filologo Aristarco, uno dei principali capiscuola
della biblioteca di Alessandria. Questo dato ci permette di datare la vita di
Mosco attorno al II secolo a.C.

Opere

Fu ben conosciuto e stimato poeta pastorale ed appare per il suo stile e la


tematica bucolica seguace ed imitatore di Teocrito.
Scrive brevi componimenti bucolici in dialetto dorico, in cui mescola temi
prettamente pastorali a altri decisamente amorosi e talvolta mitologici.
Mosco fu considerato dal Suda «secondo a Teocrito». Egli unì, come
molti autori del suo tempo, l’attività filologica a quella poetica.
Probabilmente allievo del grande Aristarco, della sua opera di grammatico
ci è rimasto solo un titolo, Sulle parole rodie, forse un lessico o una
raccolta di termini rari. Giovanni Stobeo, il quale fu uno studioso del V
secolo d.C., nativo appunto di Stobi, in Macedonia, che volendo preparare
un testo antologico (Florilegi) sulla poesia e la prosa greca a beneficio del
figlio, riunì in 4 libri circa 500 opere, molte delle quali sarebbero
altrimenti andate perdute, ci ha conservato tre frammenti di poesia
bucolica, in dialetto dorico, lo ricorda nei Florilegi, in cui il motivo
pastorale si intreccia a quello amoroso. Il primo, Mare e Campagna, è
uno dei carmi bucolici e descrive il fascino del mare quando c’è bonaccia,
e il richiamo della campagna, quando invece si scatena la burrasca. C’è lo
scendere nel particolare tipico dell’ellenismo, svolge un tema caro alla
poesia ellenistica: il confronto fra la piacevole vita del contadino e quella,
ben più dura e travagliata, del pescatore. Di maggior ampiezza è un epillio
intitolato Europa, contenuto nel corpus teocriteo: questo componimento,
in esametri, narra il mito di Europa, rapita da Zeus in forma di toro, tema
assai frequente anche nelle arti figurative. Il poemetto, di carattere
prevalentemente descrittivo, è ambientato in una cornice di paesaggio
che richiama il ratto di Persefone a opera di Ade, trattato nell’inno
omerico A Demetra. Esso contiene però anche numerose concessioni al
gusto ellenistico: il racconto di un sogno, l’ἔκφρασις del cesto d’oro in cui
la principessa Tiria depone i fiori appena raccolti, opera di Efesto, che vi
ha raffigurato il mito di Io, e, infine, un episodio di carattere romanzesco,
il rapimento della fanciulla sotto gli occhi delle compagne. La tradizione
antica attribuisce a Mosco anche un carme in esametri, Eros fuggitivo, in
cui la stessa Afrodite fornisce i connotati del terribile figlioletto,
promettendo in compenso un bacio «e anche di più», a chiunque lo
ritroverà. La graziosa descrizione insiste sul contrasto fra il delicato
aspetto infantile di Eros, fanciullo «dalla voce di miele», e la sua crudele
potenza, capace di far soffrire chiunque. Opera di livello inferiore e di
dubbia autenticità è il poemetto Megara, in esametri, in cui la sposa di
Eracle e sua madre Alcmena si confidano a vicenda le sofferenze
sopportate a causa dell’eroe. Molto discutibile l’attribuzione a Mosco di
un altro componimento della raccolta teocritea, il XXVII, Colloquio
d’amore, in cui si descrive la seduzione di una fanciulla, per la verità non
troppo restia, a opera di un pastore. Compositore colto e raffinato, Mosco
esercitò una certa influenza su autori posteriori, come Nonno di Panopoli,
che si ispirò a lui nelle Dionisiache, e Orazio, che ne imitò l’Europa in Odi
III 27.
Accanto agli altri due poeti bucolici Teocrito e Bione, Mosco si segnala per
una grazia sottile, ora venata di sensualità, ora leziosamente fredda.
Ammirato per il classico nitore dei suoi versi, è stato tradotto più volte:
tra i suoi traduttori Poliziano e Leopardi.

BIONE DI SMIRNE
Bione di Smirne (in greco antico: Βίων, Bíōn; III secolo a.C. – ...) è stato un
poeta greco antico, esponente della poesia pastorale ellenistica.

Biografia

Della sua vita si conosce pochissimo, ma pare che la sua attività poetica
sia da collocare all'incirca intorno al III secolo a.C., sotto il regno di
Tolomeo Filadelfo, verso il 280 a.C. Qualche notizia è contenuta nel
lessico bizantino Suda, da cui si apprende che sarebbe nato a Flossa, un
sobborgo della città di Smirne. Sempre la Suda lo annovera nella triade
bucolica (i tre maggiori poeti bucolici greci) insieme a Teocrito e Mosco.
Poche e incerte sono anche le notizie circa Bione di Flossa, presso Smirne;
da un elogio funebre in versi, l'Epitaffio di Bione, imitato anche da
Catullo, opera di un suo sconosciuto discepolo (alcuni lo hanno attribuito,
con poco fondamento, a Mosco), sappiamo che il poeta soggiornò a lungo
in Sicilia e che morì avvelenato; ma la notizia è tutt’altro che certa.

Opere
Giovanni Stobeo ci ha trasmesso sedici componimenti in dialetto dorico
(alcuni sono forse epigrammi, altri parti di opere più ampie); il suo carme
più esteso, l’Epitaffio di Adone, in 96 esametri dorici, che gli fu attribuito
nel Rinascimento dall’umanista tedesco Camerario, proviene da altre
raccolte. Il modello è l’idillio teocriteo sulla morte di Dafni; ciò risulta
evidente anche dall’uso dell’ἐφύμνιον, il «ritornello», che Teocrito
riprese forse dai lamenti funebri (θρῆνοι o γόοι) e che ha la funzione di
scandire le varie fasi della lamentazione rituale. Il componimento di Bione
è caratterizzato dall’insistita evidenza dei particolari, macabri ed erotici
insieme: Afrodite, folle d’amore, supplica il giovane morente di non
perdere coscienza, almeno fino al momento in cui ella raccoglierà dalle
sue labbra, con un ultimo bacio, l’estremo respiro. Intanto, il sangue che
sgorga dalla mortale ferita macchia il grembo e il seno della dea, le cui
tenere carni sono state crudelmente lacerate dai rovi in mezzo ai quali ha
vagato in cerca dell’amante. In fine al suo lamento si associa tutta la
natura. Sofferenza e sensualità, Eros e Thanatos, si fondono in questa
descrizione, che ispirò al giovane Foscolo l’inizio dell’ode A Luigia
Pallavicini caduta da cavallo.
In età umanistica venne attribuito a Bione anche il frammento di una
composizione intitolata l’Epitalamio di Achille e Deidamia, in cui si
narravano, in una cornice bucolica, gli amori dell’eroe con la figlia di
Licomede, re di Sciro, presso il quale egli era stato nascosto sotto mentite
spoglie, quindi dove l'autore narra le avventure amorose che l'eroe ebbe
a Sciro, nella stessa forma sensuale e 'orrida' del componimento
precedente. Anche un frammento papiraceo, pubblicato nel 1932, e
contenente un dialogo fra Pan e Sileno, è stato attribuito, per motivi
stilistici, a Bione.

IN SEGUITO
Il genere bucolico ebbe in seguito riconoscimento ufficiale con l’opera del
grammatico Artemidoro di Tarso, scrittore e filosofo greco antico, vissuto
nel I secolo a.C., in età augustea, il quale raccolse in un’edizione
miscellanea «le Muse bucoliche, prima disperse», come affermò egli
stesso in un epigramma dell’Anthologia Palatina (IX 205). è una celebre
raccolta di epigrammi attribuiti a una cinquantina di poeti greci compilata
a Bisanzio intorno alla metà del X secolo. Essa costituisce una copia
arricchita della perduta antologia epigrammatica compilata da Costantino
Cefala alcuni decenni prima. La Palatina consta di circa 3700 epigrammi
(per un totale di circa 23000 versi), suddivisi, nelle moderne edizioni e già
nel manoscritto originale, in 15 capitoli o libri. Quindi fu probabilmente
attraverso la sua silloge che Virgilio venne a conoscenza di questo genere
letterario e dei suoi maggiori esponenti.

A ROMA
Virgilio è forse il primo fra i latini a riprendere la poesia bucolica, che altri
poeti contemporanei si siano cimentati in questo genere non sappiamo:
due passi dello stesso Virgilio farebbero pensare ad una conversione di
Cornelio Gallo alla poesia bucolica (ecl. VI 64 ss.; X 50 ss.): ma non è certo
né che si tratti di un fatto reale, né che sia precedente all’inizio del
poetare di Virgilio.
Virgilio si rifà esplicitamente a Teocrito, pur traducendone i modi e
reinventandone i personaggi e gli sfondi paesaggistici secondo una
diversa sensibilità poetica, perché vuole creare con la sua arte
alessandrina una poesia di evasione da una realtà piena di guerre.
L’obiettivo di Virgilio si poggia sull’aspirazione di costruire un mondo
coeso e pregno di solidarietà, dove gli uomini si supportino l’un l’altro.
Abbandona l’ideale dell’egoismo e dell‘homo homini lupus per
concentrarsi sulla reciprocità solidale teorizzando un rinnovamento
sociale: teorizza il sopraggiungere di un’età aurea dove sarà un puer a
ristabilire gli interi principi della societas romana. Nelle dieci Bucoliche il
grande poeta latino fissa due elementi destinati a diventare centrali nella
letteratura bucolico-pastorale: la collocazione del mondo dei pastori in
Arcadia – la regione montuosa del Peloponneso, resa però in termini di
pura idealizzazione – e l'attribuzione di un significato allegorico ai
contenuti. Virgilio introduce nel mondo pastorale aspetti della realtà, sia
politica che personale, e li mette a contatto con attese, speranze e valori
ideali. Per questo motivo l'idillio teocriteo appare più lieve, sereno e
spensierato a confronto del carattere realistico e dei toni malinconici usati
da Virgilio.
Infatti il paesaggio in Teocrito è un paesaggio ridente, assolato, ricco di
frutti e primizie mentre il paesaggio di Virgilio è caratterizzato dalle luci
tenui del tramonto, quindi è un paesaggio che rispecchia lo stato d'animo
dell'autore, che non è positivo perché c'è la minaccia della storia e quindi
con questo paesaggio vuole esprimere la necessità di evadere dal mondo
reale che continua a insidiare il locus amoenus.

Tematiche e atmosfere malinconiche


Nelle Bucoliche le principali tematiche trattate sono, essenzialmente, tre:
Paesaggio arcadico: strumento di sublimazione dei dolori propri della
tragicità della vita. Attraverso la creazione del locus amoenus, Virgilio
ricrea una sintesi fra realtà e sogno;
Rimpianto del mondo perduto: la campagna apollinea si identifica
perfettamente con l’assenza di turbamenti, riflettendo il concetto
epicureo di atarassia: ovvero, la perfetta pace delle anime che sgorga
naturale dalla liberazione delle passioni. La natura è il mondo perduto di
un tempo, in contrasto con la cultura ed il progresso vigenti;
Ritorno alle origini: l’aspirazione alla ricerca di una nuova età dell’oro
attesa da ogni individuo dopo i lunghi secoli di guerra.

DANTE
Il paradiso Terrestre di Dante (XXVIII canto). Il genere bucolico viene
ripreso anche da Dante nel canto XXVIII del Purgatorio. Il canto parla del
Paradiso Terrestre. Questa si presenta come una foresta viva, popolata
da uccelli, ricca di alberi di ogni genere e attraversata da due fiumicelli.
Il paradiso è diviso in due selve: una molto oscura, ricca di vegetazione
intrecciata, popolata da bestie selvagge, l’altra chiara e serena, dove la
luce è temperata e gli uccelli cantano gioiosamente. Entrambe hanno un
valore allegorico: una rappresenta il lato negativo e oscuro dell’uomo, la
sua caducità e malvagità, il lato peccatore, e l’altra rappresenta la
salvezza dell’uomo attraverso il cammino sino al paradiso. Infatti il locus
amoenus dell’età dell’oro di Dante è caratteristico per le due facce che
rappresentano la salvezza dell’uomo: l’incontro con i mostri può solo
essere utile all’uomo per scappare dal peccato e andare incontro alle
creature belle, e ai pastorelli, con le loro storie d’more, che ti avviano alla
verità e ti distolgono dall’errore.

Le Egloghe
Sono due componimenti poetici in esametri latini, rispettivamente di 68 e
97 versi, di argomento pastorale e scritti secondo il modello delle
Bucoliche di Virgilio. Furono composte fra il 1319 e il 1320, che
rappresentano gli ultimi della sua vita, in cui Dante si trova a Ravenna,
ospite di Guido Novello da Polenta, in risposta all'invito rivolto a Dante da
Giovanni Del Virgilio, professore di retorica a Bologna, che lo esortava a
scrivere in latino secondo il modello della tradizione classica e a recarsi in
quella città per ricevere l'alloro poetico: Dante ribadisce le proprie scelte
di stile e di lingua, adottando cioè il latino ma difendendo l'uso del
volgare nella propria poesia (l'interlocutore risponde alla prima Egloga di
Dante con un componimento pastorale, cui segue un altro scambio dello
stesso tenore). Quindi lui esorta Dante ad abbandonare il volgare e a
rivolgersi al latino per comporre un poema, in grado di assicurargli la
fama e l’alloro poetico nello Studio di Bologna.
Dante replica non con una lettera in versi, ma con un’egloga in cui
dialogano due pastori: Mopso (che rappresenta Giovanni del Virgilio) e
Titiro (ossia Dante stesso).
Dante, nelle vesti di novello Titiro, replica a Giovanni-Mopso con
un’egloga dialogata sul modello della prima bucolica virgiliana,
respingendo con cortesia l’invito a Bologna e rivendicando la possibilità di
ricevere l’incoronazione poetica sulle rive dell’Arno appena terminato il
suo Paradiso. Giovanni del Virgilio, riconosciuto a Dante il merito di aver
rinnovato, come un Virgilio redivivo, l’antica poesia pastorale, insiste
nell’invitarlo a Bologna, dove numerosi discepoli lo attendono ansioso, e
aggiunge che, di fronte a un ulteriore rifiuto, sarà costretto a rivolgersi
per soddisfare la propria sete al padovano Albertino Mussato, autore di
una nota tragedia in latino. Dante nella seconda sua egloga, modellata
sulla settima bucolica virgiliana, declina anche il secondo invito in cui
Dante ripete di preferire i pascoli noti (Ravenna, la poesia volgare) e di
non volerli lasciare per una nuova città (Bologna, identificabile forse con
la poesia).
Allontanatisi i dubbi di una falsificazione boccacciana, le due egloghe si
rivelano notevoli, nell’itinerario poetico di Dante, non solo per la
suggestiva presenza di motivi autobiografici e per l’estrema appassionata
difesa del volgare, ma perché segnano anche (ulteriore esempio di
quell’incessante sperimentalismo capace di innovare profondamente gli
statuti dei generi letterari) la rinascita in età medievale del genere
bucolico, destinato a grande fortuna da Petrarca a Boccaccio fino a tutto
l’Umanesimo.
L’importanza dei quattro testi è dovuta – oltre che alle informazioni che
essi ci danno circa l’accoglienza non entusiastica che la poesia di Dante
aveva ricevuto negli ambienti umanistici bolognesi – alla storia dei generi
poetici: con queste egloghe, ispirate chiaramente alle Bucoliche di Virgilio
(a cominciare dai nomi dei protagonisti della prima: Titiro e Melibeo sono
anche i nomi dei due pastori messi in scena nella prima egloga virgiliana),
rinasce in Italia il genere bucolico, che avrà notevole fortuna nei due
secoli successivi.

BOCCACCIO
Quest’opera, scritta in latino, è legata alla tradizione allegorica e allusiva
del genere bucolico virgiliano (ripreso nel ’300 da Dante e da Giovanni
del Virgilio, e rielaborato dal Petrarca).
Il Bucolicum Carmen comprende 16 egloghe, ossia componimenti
poetici espressi in dialoghi, che si riconducono a temi generalmente
pastorali e campestri, scritti in diverse date, a partire dal 1349 ca. fino
alla loro sistemazione nel 1367. L’opera è dedicata a Donato degli
Albanzani (grammatico italiano, che volgarizzò il De Viris Illustribus del
Petrarca, ed il De Claris Mulieribus del Boccaccio) amico comune con il
Petrarca.

Entro il convenzionale, ma qui concettoso schema dialogico, Boccaccio


introduce elementi storici e autobiografici nei termini della finzione
pastorale in esametri. Alla giovinezza dell’autore nel periodo napoletano
sono ispirate le prime due egloghe Galla e Pampinea, che ricalcano da
vicino l’VIII e la VII egloga virgiliana. Alle sanguinose disgrazie del regno di
Napoli e della corte angioina, sono dedicate le egloghe III - Faunus, la IV -
Dorus, la V- Silva Cadens, la VI- Alcestus. La VII - Iurgium e l’VIII - Lipis,
riportano a Firenze e ai rapporti di questa città con l’Imperatore Carlo IV.
La IX egloga - Midas, è ferocemente dedicata all’amico-rivale Niccolò
Acciaiuoli, grande siniscalco del regno (il mestiere di siniscalco nelle corti
medioevali era un titolo spettante al maestro di casa o ad alti dignitari). La
X - Vallis Opaca, vuole rappresentare il mondo degl’Inferi. L’XI -
Pantheon, è un dialogo mistico-teologico fra la Chiesa e S. Pietro. La XII -
Sophos e la XIII - Laurea, esaltano la poesia. La XIV - Olympia, è dedicata
alla figlia Violante, deceduta precocemente. La XV - Phylostrofos, è un
elogio del Petrarca. La XVI ed ultima egloga, Aggelos, è una dedica
all’opera dell’amico.
Il Bucolicum Carmen, com'è convenzione della poesia bucolica, da Virgilio
in poi, rappresenta avvenimenti personali sotto le artificiose sembianze
della vita praticata nelle campagne. Inoltre, questi componimenti sono
pieni di oscure allusioni, di dubbi religiosi, di espressioni di entusiasmo
verso il Petrarca che gli aveva ispirato l’ambizione di meritarsi il nome di
poeta.

PETRARCA
È costituito da 12 egloghe in esametri ispirate alle Bucoliche e alle
Georgiche di Virgili, sono poesie di ambientazione pastorale in forma di
dialogo fra personaggi allegorici.
Nell'egloga I, i protagonisti sono i pastori Silvio e Monico; attraverso di
loro Petrarca parla di vicende storiche contemporanee e di fatti personali.
Ad esempio, Silvio (che rappresenta Petrarca) e Monico (il fratello
Gherardo) dialogano sul contrasto fra i desideri mondani e l’aspirazione
alla vita religiosa, Monico (il fratello Gherardo) esorta Silvio (Petrarca) a
dedicarsi alla poesia di argomento sacro.
Nella III Dafne (Laura), dopo lunghe preghiere, incorona di alloro Stupeo
(Petrarca).
Nella VIII Amiclade (Petrarca) lascia il servizio di Ganimede (il cardinale
Giovanni Colonna) per offrire il suo canto a Gillia (Azzo da Correggio).
La nona, la decima e l’undicesima raccontano il dolore del poeta per la
morte di Laura e degli amici più cari a causa della peste. Le IX, X e XI
lamentano le devastazioni provocate dalla peste nera, e in particolare la
morte di Laura.
La XII descrive lo scontro fra Pan e Artico (i re di Francia e di Inghilterra).
Il Bucolicum carmen venne iniziato nel 1346 e una prima stesura fu
condotta a termine entro il 1349; ma Petrarca la arricchì di varie
inserzioni fino al 1357, quando ne esemplò di suo pugno una copia
conservata presso la Biblioteca Vaticana. Nel 1359 concesse all'ospite
Giovanni Boccaccio, in visita a Milano, di trascriverla per sé a patto di non
renderla nota; seguirono altri interventi testuali fino all'invio di un
esemplare a Jan ze Středa nel 1361, che segnò l'inizio della divulgazione
ufficiale dell'opera. Un nuovo, consistente ampliamento interessò l'egloga
X nel 1364 e riguardò l'elenco dei contadini che Silvano aveva consultato
per coltivare il suo alloro (ossia, fuor di metafora, dei poeti antichi che
Petrarca aveva studiato per poter celebrare degnamente Laura): quelle
che Petrarca chiama "grandi giunte" furono da lui inviate ai possessori di
una copia dell'opera, fra i quali Donato Albanzani, Boccaccio e Moggio
Moggi. Nel frattempo egli aveva dovuto rispondere ad alcune critiche di
ordine stilistico che erano state mosse ad essa e all'Africa (Seniles II 1);
ma dopo il 1366 non risulta che si sia più occupato del Bucolicum carmen.
Evidentemente ispirato alle Bucoliche virgiliane, il Bucolicum carmen ne
accentua l'aspetto allegorico (come aveva fatto Dante Alighieri in un
esperimento isolato, e come di lì a poco avrebbe fatto Boccaccio nel suo
Buccolicum carmen) fino a rendere necessaria per il lettore la chiave
interpretativa: di tre egloghe la fornì Petrarca stesso (della I a Gherardo,
della II a Barbato da Sulmona, della V a Cola di Rienzo), ma altri punti
restano oscuri (si discute tuttora sul significato della IV).

ANGELO POLIZIANO
L'Arcadia del Sannazaro influì lui sul sorgere di un nuovo genere, il
dramma pastorale, Che ebbe origine dalla forma dialogata dell’egloga e
dall'usanza di fare recitare i carmi bucolici da attori vestiti da pastori,
durante le feste che si svolgevano presso le corti. Carattere più
spiccatamente teatrale, rispetto all' Arcadia, ebbe la Favola di Orfeo
(1480) di Angelo Poliziano (dove “favola” è da intendere nel senso latino
di fabula, “rappresentazione scenica”), i cui protagonisti sono Orfeo ed
Euridice, ossia personaggi mitologici, ma che si apre, dopo il prologo, con
un dialogo in terzine tra due pastori. Si impone come la prima opera
drammatica in lingua italiana di argomento non religioso.
Questa la vicenda. Il pastore Aristeo confessa al “collega” Mopso di
essere innamorato di Euridice. Dopo la confessione Aristeo si lancia
all’inseguimento della donna, tentando di convincerla a ricambiare il suo
amore, ma Euridice perde la vita, morsa da un serpente. Orfeo, disperato
per la morte della moglie, scende negli Inferi e con il suo canto riesce ad
ammaliare l’intero oltretomba, compreso l’implacabile Plutone, che
accetta la proposta del vedovo: può riportare Euridice nel mondo dei vivi,
ma senza voltarsi. Come è noto Orfeo non resiste, si volta e perde
Euridice per sempre. Senza più una ragione di vita ripudia l’amore. La sua
fine è drammatica e violenta: le Baccanti lo dilaniano, lo decapitano, in
preda alla loro proverbiale, folle ebbrezza.
Nella Fabula Poliziano realizza una sintesi tra la fortunata materia
pastorale e la materia mitologica, nel segno dei grandi classici
naturalmente. Modello principale è senza dubbio Virgilio, dal quale
Poliziano trae ispirazione sia per il motivo pastorale, dalle Bucoliche, che
per quello mitologico, con il poeta latino che narra la triste storia di Orfeo
ed Euridice nel IV libro delle Georgiche. Come in tutta la produzione
poetica di Poliziano, anche nella Fabula compare l’aspirazione ad una vita
idilliaca, di fatto estranea alla devastante dimensione spazio-temporale e
dilatata nell’illimitato e nell’eterno, dove le supreme idee di bellezza e di
amore possano concretizzarsi in tutto il loro splendore, in un’atmosfera
astratta e fuori della realtà. Orfeo incarna inoltre il sogno del poeta, e
della poesia tutta, capace di vincere persino la morte, di piegare al
proprio cospetto l’oltretomba. Ma tutto questo crolla, va in frantumi
insieme con il triste destino dell’eroe, Orfeo, straziato dalle Baccanti.
Poliziano dapprima esalta e poi spazza via i valori della sua stessa poesia,
e della poesia di un intero secolo, il Quattrocento. È come se egli
abbattesse un intero mondo, quello umanistico, rivelandone
spietatamente la fragilità. E nella conclusiva danza macabra delle Baccanti
assassine, ubriache fradice, si riflette forse quella forza barbara e
inarrestabile che domina e dominerà sempre la vita reale, annientando la
poesia.

BATTISTA GUARINI
IL PASTOR FIDO
L'opera teatrale più importante del Guarini è Il pastor fido, composto tra
il 1580 e il 1583, e pubblicato a Venezia nel 1590.
È un dramma pastorale in endecasillabi e settenari, ad imitazione
dell'Aminta del Tasso, di cui il Guarini fu amico e rivale. La vicenda si
svolge in Arcadia (Grecia) ed ha per protagoniste due coppie di giovani,
Amarilli e Mirtillo, Dorinda e Silvio, che coronano il loro amore dopo
molte vicissitudini. Amarilli e Mirtillo si amano, ma vengono ostacolati
dall'interpretazione sbagliata di un oracolo; Dorinda soffre per
l'indifferenza di Silvio, del quale finalmente ottiene l'amore dopo che egli
l'ha ferita scambiandola per un lupo. La favola, complicata da numerosi
episodi collaterali, si conclude festosamente con le doppie nozze.
In ossequio alle concezioni moralistiche della Controriforma, il Guarini
propone una società saldamente retta dalle leggi e basata sull'istituto del
matrimonio; nella sua opera corre tuttavia una vena sensuale,
particolarmente evidente nella visione dell'amore, esaltato come
espressione sana e gioiosa dell'istinto vitale. Al di là del suo valore
letterario, Il pastor fido è un testo-chiave per seguire l'evoluzione della
favola pastorale. Esso infatti non è destinato solo alla lettura, ma anche
alla rappresentazione teatrale; in tal modo è possibile far rivivere sulla
scena la vita della corte, alla quale l'autore rimanda con chiare allusioni, e
rendere più forti i legami tra la corte stessa e il luogo mitico nel quale si
svolge l'opera. Già il Tasso si era posto su questa strada con l'Aminta, ma
il Guarini la segue con maggior decisione: i personaggi e le situazioni della
sua Arcadia, infatti, sono assai più concreti e vicini al mondo reale,
sebbene conservino ancora i caratteri stilizzati di un ambiente fantastico.
Un'altra interessante novità del Pastor fido è l'intreccio tra elementi
drammatici e comici. Infatti il carattere dei personaggi e gli avvenimenti
hanno una forte componente tragica (soprattutto evidente nel
minaccioso incombere del fato e degli dei sulla vita degli uomini), ma
alcuni aspetti sono peculiari della commedia; tra questi lo scambio di
persona, le peripezie amorose e la lieta fine dovuta al riconoscimento del
personaggio (agnizione). Lo stile e il tono medio dell'opera sono dati da
un decoroso equilibrio formale, che fa leva sull'armonia dell'espressione,
su un'elegante scorrevolezza e su una facile musicalità, che ammorbidisce
ogni eccesso a favore di un andamento lineare e fluido. I princìpi applicati
nel Pastor fido sono esposti dallo stesso Guarini in un importante testo
teorico, il Compendio della poesia tragicomica, del 1601. L'autore vi
sostiene che scopo della poesia è dilettare e non ammaestrare, e
dichiara la sua preferenza per la favola pastorale, sintesi perfetta fra la
tragedia e la commedia. A suo giudizio, infatti, essa concilia la grandezza
dei personaggi, la verosimiglianza della "favola" (intreccio) e l'altezza del
tono propri della tragedia con la "piacevolezza modesta", il "riso"
dignitoso e la conclusione lieta tipici della commedia. Nel Compendio lo
scrittore si sofferma anche sullo stile e sul linguaggio, suggerendo un
periodare non troppo lungo né troppo breve e una lingua elegante ma
non difficile; essa deve essere non "bassa e spregevole", "non gonfia,
tenera, non languente [...] non lontana dal parlare ordinario, [ma] non
vicina a quel della plebe". Paradossalmente, il Compendio, scritto per
legittimare davanti ai rigidi sostenitori delle regole aristoteliche la fusione
tra generi diversi, si presenta come un vero e proprio dettato di leggi
compositive; è quasi una dimostrazione dell'incertezza di un periodo di
transizione nel quale è in atto il passaggio da concezioni letterarie in forte
declino a forme nuove. Restano centrali nell'autore sia l'attenzione che
egli pone nel ricercare uno stile ricco di armonia e di equilibrio, sia
l'esigenza di giungere a forme espressive delicate ed eleganti, basate su
un ritmo scorrevole e su quelle melodie musicali dolci e fluide, che
saranno tipiche del melodramma.

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