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4.12 Il Reso
Il Reso tratta un episodio della saga troiana raccontato nel X canto dell’Iliade.
La trama del Reso: Dall’accampamento troiana vengono avvistati nella notte i
fuochi degli Achei; Enea persuade Ettore a inviare qualcuno a spiare i nemici e
Dolone si offre a questo scopo. Nel frattempo arriva in aiuto dell’esercito troiano
Reso, re di Tracia, nel quale si accampa nelle vicinanze e attende Dolone.
Giungono invece i greci Odisseo e Diomene, che lo hanno appena ucciso; grazia
all’aiuto della dea Atena, i due uccidono Reso e rubano le sue cavalle. L’auriga del
re tracio, scampato alla morte, accusa dell’omicidio Ettore, ma l’intervento della
Musa, madre di Reso, chiarisce che i colpevoli sono Odisseo e Diomede e chiude
il dramma con il compianto del figlio e la morte di Achille.
Questo dramma è considerato spurio e i personaggi sono privi di profondità,
estranei al mondo euripideo, l’azione è banale e priva di novità rispetto al mito. Il
Reso è sicuramente opera di un autore minore e posteriore, probabilmente del IV
secolo a.C.; il suo interesse risiede nel fatto che sia l’unico dramma sopravvissuto
di quel secolo.
5 La commedia
5.1 Le origini della commedia e i rituali agricoli
La commedia raggiunge il suo periodo di massimo fioritura nella seconda parte
del V secolo a.C. Al di fuori di Atene si hanno notizie di spettacoli di carattere
popolare, rimasti però a uno stadio preletterario; un esempio di queste
rappresentazioni fu la “farsa megarese”, che gli autori ateniesi additano come
modello di comicità buffonesca ben inferiore all’elevata qualità delle loro
commedie, e che era costituita da danze sguaiate, eseguite da personaggi
volgari. Le origini della commedia vanno ricercate nei rituali agricoli di fertilità.
Secondo Aristotele, la commedia si sviluppò dalle feste connesse al ciclo annuale
della vegetazione; il poeta fa derivare la parola commedia da “xomos”, il “corteo
festivo”, ma aggiunge anche che i Dori collegavano il nome “xome”, “villaggio”,
si tratterebbe quindi del “canto della festa/del villaggio”. L’etimologia esatta è la
prima, ma la seconda connette le primitive manifestazioni comiche all’ambiente
rurale da cui esse si svilupparono. La commedia attica conservò forti legami con
il clima di rinnovamento sociale tipico dei riti agricoli, che erano finalizzati al
recupero magico delle energie naturali: le feste della fertilità erano un’occasione
per rafforzare l’identità collettiva del gruppo, in una situazione in cui i
comportamenti abituali erano provvisoriamente sospesi. Nel clima tipico del
rituale agricolo trovavano spazio travestimenti e rappresentazioni mimiche,
accompagnate da espressioni sboccate sino all’oscenità.
5.2 I caratteri della commedia attica
Fu la tragedia a fornire alla commedia il modello per l’organizzazione
drammaturgica. Un altro antenato dello spirito comico fu lo “iambizein” arcaico,
rappresentato da poeti come Archiloco e Ipponatte, che ben si adattava al tono
di aggressione violenta contro i personaggi scherniti direttamente sulla scena.
Temi e situazioni della commedia accantonano il mondo aristocratico del mito
tragico per riallacciarsi a un immaginario arcaico: di lì provengono alcune
strutture della commedia, come il motivo carnevalesco, i cori animaleschi,
l’espulsione del capro espiatorio, la guerra dei sessi e i riti di passaggio. Questo
aspetto della commedia, però, resta circoscritto alla fase antica: già agli inizi del
IV secolo a.C. i commediografi sviluppano una forma di spettacolo più teatrale.
Gli antichi filologi distinsero tra commedia “antica” (sino alla fine del V secolo),
commedia “di mezzo”, e “nuova” ( a partire dal tardo IV secolo). La commedia
antica fu essenzialmente politica, infatti non solo trattava di argomenti di
attualità ma toccava anche aspetti di fondo della convivenza civile. La tragedia ha
come oggetto il mito mentre la commedia è legata all’attualità cittadina. L’eroe
comico è caratterizzato dalla capacità di sovvertire la realtà: può volare fino al
cielo e scendere nell’Ade e modificare le cose a suo piacimento, senza
macchiarsi di “hiubris” (la colpa per eccellenza). Si direbbe anzi che la hiubris sia
connaturata all’eroe comico, il quale deve sottrarsi alla norma che condiziona il
resto dell’umanità, per plasmare in tutta libertà la sua realtà fantastica: città in
mezzo alle nuvole, morti che ritornano, insomma un mondo alla rovescia. Si può
dire che mentre la tragedia, attraverso le sofferenze dell’eroe, mostra al
pubblico la necessità di osservare un limite, la commedia tenda alla rottura di
questo limite e realizza situazioni impossibili nella realtà, in un clima di
disordine. Il poeta della commedia antica non si propone affatto di creare dei
caratteri psicologicamente coerenti: i suoi personaggi sono dei tipi modellati su
figure presenti nella realtà sociale della polis (il giudice fanatico, il contadino
ignorante, il filosofo pazzo) che agiscono in base alla necessità dell’azione
scenica. In quanto rituale di rinnovamento la commedia prevede la realizzazione
di un progetto fantastico messo in opera dal protagonista per trasformare la vita
cittadina, ormai corrotta, e donarle nuova linfa vitale. Per quanto assurda e
paradossale, l’azione comica porta a una completa nascita della convivenza
civile, che in tal modo recupera la sua originaria purezza. Sulla scena è dunque
presentato un rito di morte e di rinascita, mediante il quale i mali che soffocano
la vita cittadina vengono allontanati. La commedia si conclude con una sconfitta:
mentre nella tragedia la sconfitta tocca l’eroe, nella rappresentazione comica
questo destino è riservato al suo antagonista, additato sin dall’inizio come il
cattivo, il nemico da espellere; la commedia si conclude con il trionfo del bene e
la cacciata del ribaldo. Questo scontro tra bene e male è tradotto in forma
drammatica mediante una struttura caratteristica della commedia antica, vale a
dire l’agone o scontro di parole, con cui i due antagonisti si affrontano cercando
di soverchiarsi in un violento scambio di parole. Il genere lo scontro avviene con
coppie di discorsi simmetrici, sia per metro che per numeri di versi. Il tratto più
evidente dell’eroe comico è la sua ambiguità morale; facendo ricorso all’astuzia,
l’eroe comico riesce a plasmare attorno a se una realtà nuova, modificando le
forme della convivenza sociale. In questo senso si riconnette a un “divino
briccone”, vale a dire colui che grazie ai suoi trucchi consente all’umanità un
decisivo progresso. Anche nella commedia antica l’eroe è un fondatore che
attraverso la sua opera fa inaugurare una nuova fase della vita cittadina. Un altro
tratto peculiare della drammaturgia comica è l’estrema vicinanza tra attori e
pubblico. A differenza della tragedia, che si svolge tra personaggi dialoganti sulla
scena, al personaggio comico è consentita la rottura della “quarta parete” che
separa il pubblico dalla scena: può dialogare con gli spettatori. Questo
meccanismo comico trova la sua tipica espressione nella “parabasi”,
quest’ultima consiste in una perorazione che il poeta in prima persona, per
bocca del corifeo, rivolge al pubblico, quando gli attori sono momentaneamente
usciti dalla scena. Nella parabasi dunque si realizza la completa sospensione
della finzione scenica; questo schema drammaturgico, tipico della commedia
antica, si hanno indebolendo. Questo è uno dei segnali più evidente di questo
genere letterario da commedia politica a teatro di costume, un processo che si
incrementò nel corso del IV secolo a.C. per giungere alla commedia “nuova” di
Menandro. La commedia politica di Aristofane e quella di carattere di Menandro
sono due forme teatrali così distanti che si stenterebbe persino a farle rientrare
nell’ambito dello stesso genere letterario. Infatti, rispetto alla tragedia, la cui
evoluzione si bloccò nel momento del massimo splendore, la commedia seppe
adattarsi ai tempi e ai gusti di un pubblico mutato, anche se rinunciò alla sua
identità originaria. I meccanismi del comico si realizzano in varie forme, tutte
riconducibili all’idea del rovesciamento e della deformazione; maschere
grottesche, costumi eccessivi. Oltre a proporre forme e modelli linguistici vicini
alla lingua parlata, la commedia è caratterizzata da una suprema libertà di
parola; non solo per la massiccia presenza di elementi salaci (insulti, scherzi,
allusioni) ma anche per l’uso di neologismi, il ricorso a metafore e immagini
fantastiche, che ricorrono spesso nel testo.
5.3 Commedia e mimo in Sicilia e Magna Grecia
Al di fuori di Atene, una tradizione teatrale autonoma si sviluppò nelle colonie
della Sicilia e della Magna Grecia. La perdita di questi testi ci impedisce di
definire i reciproci influssi; comunque, secondo Aristotele, la commedia siciliana
precedette quella attica per quanto riguarda l’elaborazione letteraria. Aristotele
attribuisce a Formide ed Epicarmo, il merito di avere per primi costruito una
trama comica. Epicarmo nacque in Sicilia (forse a Megara Iblea) nella seconda
metà del IV secolo a.C. e fu attivo a Siracusa sino all’epoca del tiranno Ierone (tra
478 e 466 a.C.), alla cui corte entrò in contatto con poeti quali Pindaro,
Bacchilide ed Eschilo. Di lui gli antichi conservano 10 libri di commedie; ne
restano circa 250 frammenti in dialetto dorico, poco significativi. Sembra che i
suoi drammi non comportassero l’uso del coro e che la sua arte si distinguesse
per una tendenza alla parodia mitologica. Molti titoli sono relativi a episodi e
motivi dell’Odissea; non mancava nel suo teatro la figura di Eracle mangione e
personaggi di vita quotidiana. Epicarmo non trattava solo temi mitologici, la
varietà della sua produzione è testimoniata dalla scelta di soggetti d’attualità,
come nei Persiani, versione comica della tragedia eschilea, o nelle Isole, in cui si
parlava di una contesa tra i tiranni Acusilao di Reggio e Ierone di Siracusa.
Epicarmo era un autore colto così come risulta dai suoi testi come, per esempio,
la commedia Il Discorso e la Discordia rifletteva il recente sviluppo dell’arte della
retorica in Sicilia. In genere, per questo tipo di teatro, le città siciliane erano
governate dall’aristocrazia terriera o dei tiranni, e il teatro di Epicarmo era ben
lontano da quella libertà espressiva che possiamo riscontrare nella democratica
Atene. La mancanza del coro induce a pensare che quello siciliano fosse un
teatro più povero e non visto come un fenomeno di massa. Tuttavia esisteva una
scuola locale dii attori e una tradizione di spettacoli drammatici, documentata
dal fatto che Eschilo scrisse e riprese alcuni suoi drammi per le scene di Siracusa;
mancavano però le condizioni sociologiche per lo sviluppo di un teatro regolare.
Sempre in Sicilia, nella seconda metà del V secolo, fu attivo Sofrone, autore di
mimi. E’ questo un genere legato a una vena più popolare, che comporta una
semplice azione scenica tra personaggi dialoganti. Gli esempi di questo genere in
nostro possesso appartengono a un’epoca più tarda, ma quelli di Sofrone
dovevano essere differenti, se non altro perché scritti in prosa e non in versi.
Anche Sofrone scriveva in dialetto dorico e i titoli a noi noti (come Il pescatore di
tonni, Il pescatore e il contadino) fanno pensare che prediligesse scena di vita
quotidiana e personaggi popolari. L’unico frammento di una certa estensione è
stato restituito da un papiro e appartiene a un mimo intitolato Le donne che
dicono di tirare giù la dea (vale a dire la luna) : si tratta della descrizione di un
rito magico compiuto da fattucchiere. Sofrone stimò Platone e lo annoverò tra le
sue letture preferite. In Magna Grecia si diffuse invece una forma di
rappresentazione legata alla tradizione popolare: il fiaco, che Rintone di Taranto
o di Siracusa portò a dignità letteraria fra i secoli IV e III a.C. Questo tipo
singolare di teatro, detto “ilarotragedua” per la peculiarità di deridere le vicende
mitiche così come le aveva rappresentate la tragedia, proponeva anche scene di
vita quotidiana in tono burlesco. Il nome “fiaco” poteva indicare tanto il poeta
quanto l’attore o la rappresentazione, che aveva una messa in scena piuttosto
semplice: i personaggi erano dotati di ampi camiciotti al di sotto dei quali
venivano nascoste imbottiture prominenti.
5.4 La commedia attica: Cratino, Eupoli e gli altri
Ad Atene gli agoni comici furono introdotti nel 486 a.C.; più tardi, nel 440 a.C.,
venne istituita una seconda festa comica, le Lenee, nel mese attivo di
Gamelione, tra gennaio e febbraio. Ogni anni, dunque, si svolgevano due
spettacoli comici, ai quali partecipava un numero variabile di autori (da tre a
cinque), ciascuno con una commedia sola. Fra quanti parteciparono agli agoni,
soltanto Aristofane è sopravvissuto con un discreto numero di commedie.
Cratino appartiene ad una generazione precedente rispetto Aristofane, nacque
verso l’inizio del V secolo a.C. e morì intorno al 421 a.C.; benchè ormai anziano,
fece in tempo a concorrere contro Aristofane (la sua commedia la Damigiana,
superò le Nuvole di Aristofane del 423 a.C.) Delle sue opere perdute possiamo
ricostruire soltanto una trama, quella del Dionisalessandro, il cui argomento è
trasmesso da un papiro Ossirinco: si tratta di una commedia politica a sfondo
mitologico ambientata sul monte Ida, dove Ermes giunge a condurre le tre dee
per il concorso di bellezza, che ebbe Paride Alessandro come giudice. Al suo
posto però si intrufola Dioniso, accompagnato da un coro di satiri; egli proclama
vincitrice Afrodite e si prende Elena in premio. Gli Achei vengono però a
riprendersela con le armi in pugno, al che Dioniso trasforma se stesso in
montone e la sua bella in oca, nascondendola in una cesta; il vero Paride ritorna,
smaschera l’intruso ed è sul punto di farlo trasportare sulla sua nave per
consegnarlo agli Achei; poi, affascinato da Elena, decide di prendersi lei e
rilasciare Dioniso, che se ne parte seguito dai fedeli satiri mentre si sta
preparando il banchetto nuziale. E’ una commedia strana; dalle pieghe del
racconto mitologico emerge una chiara metafora politica: il cialtronesco Dioniso
è Pericle, la bella e immorale Elena la sua amata Aspasia; sullo sfondo sono
presenti le accuse di viltà che venivano mosse a Pericle perché aveva scelto una
strategia difensiva nella guerra contro Sparta (scoppiata per sua iniziativa nel
431 a.C.) I meccanismi teatrali caratteristici del dramma antico si ritrovano anche
qui: la cacciata del “farmakos”, la figura ambigua dell’eroe, la pace ristabilita e le
nozze finali. Sembra che Cratino amasse le commedie di travestimento e le
parodie mitologiche: negli Odissei riprodusse la vicenda di Omero nella caverna
del Ciclope, in cui il mostro metteva allo spiedo i compagni dell’eroe. Negli
Archilochi inscenò una gara tra poeti, mentre nell’opera la Damigiana, ricorse
all’allegoria mettendo in scena la Commedia personificata, che brontolava
contro il marito (Cratino stesso) il quale l’aveva abbandonata per prendersi
come amante Damigiana e per correre dietro ai giovani Vinelli: in questa
commedia l’autore prendeva in giro se stesso e la sua tendenza ad alzare il
gomito. Eupoli, il terzo dei comici maggiori, nacque intorno al 445 a.C., esordì
giovane e morì nel 411 a.C.; gli antichi dicevano che Alcibiade l’avesse fatto
affogare in mare per punirlo degli attacchi personali che gli aveva rivolto. Si dice
anche che egli morì combattendo nella flotta ateniese durante la battaglia navale
di Cinossema, che si svolse proprio nel 411 a.C. Nella sua vita scrisse 14
commedie, ottenendo sette vittorie; dell’opera di Eupoli restano 500 frammenti:
nel Maricante scherniva il demagogo Iperbolo, mentre nei Battezzatori se la
prendeva con Alcibiade e i suoi costumi corrotti. Nei Prospalti, la sua prima
commedia del 429 a.C., si rivolgeva contro Pericle, che aveva favorito la guerra
contro il nemico. Erano, quelli, momenti terribili per la città: allo spettro
sanguinario della guerra si era aggiunto quello della pestilenza, di cui sarebbe
rimasto vittima lo stesso Pericle. Nell’Età dell’oro, forse del 424 a.C., veniva
preso di mira il potente demagogo Cleone. Da queste tracce superstiti si può
individuare in Eupoli un autore dedito alla satira politica e impegnato su temi
relativi alla lotta politica anche più di quanto lo f nel complesso Aristofane. Nella
sua ultima commedia, i Demi (ossia le circoscrizioni territoriali in cui era divisa
l’Attica, rappresentata nel 412 a.C.) personificati e costituenti il coro, si recavano
in delegazione nell’oltretomba per consultare grandi uomini del passato come
Solone, Pericle, Aristide perché tornassero sulla terra a liberare Atene dalla folla
di loschi individui che detenevano il potere e avevano minato la purezza dei
costumi e la potenza della polis. I morti che ritornano, la rinascita della città e la
cacciata del male mediante l’espulsione del “farmakos” sono tutti temi
tradizionali; sappiamo che Eupoli rivaleggiò con Aristofane, poichè si
scambiavano reciproche accuse di plagio. Tra gli altri comici di cui si conservano i
nomi si potrà citare Platone comico (da non confondere con il filosofo),
contemporaneo di Eupoli e Aristofane, autore di una commedia intitolata Faone,
una parodia in cui si sviluppava in forma travisata il tema dell’amore tra la
poetessa Saffo e il marito Faone. Un po’ più anziano di Platone comico fu
Cratete, attivo intorno alla metà del V secolo a.C. di cui è nota una commedia
intitolata Le bestie, che poneva sulla scena il tema del recupero dell’età dell’oro;
nell’intreccio drammaturgico trovano posto attrezzi da cucina che lavorano per
loro iniziativa e pesci che cuociono da soli, in un mondo dove non esiste né
lavoro né servitù e gli animali vivono indisturbati.
6 Aristofane
6.1 Vita e opere
Aristofane nacque ad Atene intorno al 450 a.C.; la sua prima commedia (i
Banchettanti) risale al 427 a.C. e fu rappresentata a nome di Callistrato poiché,
per la giovane età, il poeta non avrebbe potuto ottenere l’incarico di presentare
un’opera alle feste dionisiache. L’anno dopo mise in scena con lo stesso finto
nome i Babilonesi, in cui dileggiava l’uomo forte Cleone; sembra che Cleone
abbia promosso un’azione giudiziaria al poeta e al suo prestanome, davanti
all’assemblea popolare, accusandoli di aver diffamato la città di fronte agli
alleati. Il resto della vita di Aristofane si identifica con la sua attività di
commediografo, durante la quale le opere di Aristofane accompagnarono i vari
momenti della vita ateniese nel tragico periodo della guerra contro Sparta, della
sconfitta, del governo oligarchico con la successiva restaurazione democratica.
La sua ultima commedia fu l’Eolosicone del 386 a.C. messa in scena con il nome
del figlio Araros; Aristofane morì probabilmente poco dopo il 385 a.C. Delle 44
commedie di Aristofane (tra cui 4 spurie) ne restano solo 11: ACARNESI (425
A.C.); CAVALIERI (424 A.C.); NUVOLE (423 A.C.); VESPE (422 A.C.); PACE (421
A.C.); UCCELLI (414 A.C.); TESMOFORIAZUSE (411 A.C. ALLE GRANDI DIONISIE);
LISISTRATA (411 A.C. ALLE FESTE LENEE); RANE (405 A.C.); DONNE IN ASSEMBLEA
(391 A.C.); PLUTO (388 A.C.)
6.2 La realtà cittadina e l’orizzonte fantastico
Quello di Aristofane non è solo un teatro ma l’espressione dell’immaginario
collettivo e dell’orizzonte fantastico di una civiltà contadina legata al suo sistema
culturale ancestrale. Accanto a questo versante arcaico, la commedia di
Aristofane, si proietta sullo scenario molto più attuale della polis ateniese
nell’epoca del suo pieno sviluppo. E’ esemplare il confronto fra i protagonisti di
una delle commedie più geniali di Aristofane, le Nuvole: da un lato un contadino
tradizionalista, dalle idee conservatrici, dall’altro Socrate, campione del pensiero
laico e perfetto esponente dei tempi nuovi. I due personaggi hanno modi di
pensare distanti e rappresentano la polarità del teatro aristofaneo, il confronto
fra la campagna e la città, luoghi lontani nel tempo: la prima è ancorata alle
forme tradizionali di un mondo antichissimo, la seconda è ricca di idee proiettate
al futuro. Questi lati della medaglia contribuiscono entrambi a dar vita
all’intreccio variegato dei drammi di Aristofane che sono uno specchio della
società ateniese. Quella di Aristofane è un tipo di commedia che risponde a
logiche particolari: gli aspetti che nella commedia successiva diventano centrali -
intreccio, colpo di scena e definizione dei caratteri- in Aristofane sono marginali.
La commedia di Aristofane risponde a uno schema di fondo che in vari modi si
ripropone in quasi tutte le opere: l’eroe comico, scaltro e moralmente ambiguo,
si ribella allo stato di degradazione in cui è caduta la vita cittadina ed escogita
un’idea per rinnovare la polis oppure per evaderne alla ricerca di un mondo
migliore. A questo punto si realizza il passaggio dalla realtà quotidiana al mondo
surreale in cui i personaggi si immergono; spesso il personaggio attraversa la
porta che si spalanca su un mondo diverso: la porta dell’Ade nelle Rane, quella
dell’Olimpo nella Pace. E’ quasi un paradosso che la commedia di Aristofane
consenta infrazioni clamoroso all’esperienza dei sensi. Accade così che il
protagonista si liberi da ogni vincolo con la realtà che lo circonda: può volare in
cielo, discendere nell’Ade, decidere di stipulare una pace privata coi nemici o
fondare una città tra cielo e terra. Non è mai in gioco solo il destino dell’eroe ma
il processo di rinnovamento coinvolge tutta la società. E’ appunto questa idea
comica a determinare l’atmosfera della commedia antica, che oscilla tra il
realismo della raffigurazione quotidiana di fatti e personaggi e la dimensione
fantastica che si spalanca davanti al pubblico. La realizzazione del progetto
fantastico è solo la prima fase della vicenda: per portare a compimento il suo
proposito, l’eroe deve debellare uno o più antagonisti che cercano di ostacolare
il suo progetto. Questi oppositori sono fortemente connotati: in apparenza
spaventosi e temibili, in realtà sono pagliacci appartenenti alla categoria dei
cialtroni e dei furfanti. Questi individui sfilano sulla scena cercando di inquinare
la felicità della realtà creata dall’eroe e infine vengono cacciati via. Così la
commedia si conclude con la vittoria dell’eroe e spesso con il trionfo della
sessualità e del cibo, grazie alle nozze del protagonista e alla baldoria che
suggella il successo, richiamandosi al clima di ritrovata armonia e di
rinnovamento delle energie tipico delle feste agricole.
6.3 Commedia e politica
La commedia ha una fondamentale funzione di controllo sociale, essendo rivolta
a denigrare cittadini influenti e ostili al demos. Questa tendenza sembra
contraddire quanto emerge dai testi di Aristofane, che in buona parte deridono
leader democratici come Cleone e beffano la linea politica sostenuta dal popolo;
neppure il tribunale popolare esce immuni dagli scherzi comici. In realtà la logica
della satira politica non è la stessa della prassi politica, la satira era fondata sulla
massima libertà di calunniare e di attaccare direttamente personaggi pubblici,
secondo il principio di “deridere una persona col suo nome”, che a sua volta si
basa su uno dei meccanismi fondamentali promossi dal regime democratico,
vale a dire la completa libertà di parola. Prendere di mira un personaggio sulla
scena non presuppone di per sé un’opposizione politica dell’autore: nei
Cavalieri, Aristofane deride Cleone e il pubblico ne diede la vittoria, ma
nonostante ciò , dopo poche settimane, Cleone fu eletto stratego.
6.4 La tecnica drammaturgica
Il ritmo della scena è serrato, è difficile trovare momenti di cedimento o
rallentamenti in un’azione che procede incalzante sino alla fine. Aristofane poco
si cura della verosimiglianza delle situazioni e degli eroi: in personaggi non sono
caratteri, ma tipi accentuati caricaturalmente, e poco il poeta si occupa di
approfondirne lo spessore. La natura dei personaggi può cambiare
improvvisamente nel corso dell’azione, non per una reale evoluzione psicologica
ma per adeguarsi alla mutata situazione drammatica. Ciò non vuol dire che
Aristofane produca testi primitivi, è piuttosto la libertà e la fantasia di linguaggio
a determinare una trama in cui le nozioni di verosimiglianza psicologica e di
unità d' azione sono deliberatamente accantonate. Nel teatro di Aristofane si
può individuare uno sviluppo; le prime commedie sono costruite su una trama
bipartita: dove nella prima sezione l'eroe consegue il suo risultato, mentre nella
seconda, l’azione scenica si sfilaccia in una serie di scene episodiche, che
esemplificano con accentuato tono comico la nuova realtà. Ma già con le Nuvole
inizia a prevalere una tendenza verso un intreccio più organico; nell'ultima fase
della sua produzione (Donne in assemblea e Pluto) si vanno invece perdendo
alcuni aspetti tipici del teatro comico del V secolo a.C., in primo luogo la parabasi
e la funzione del coro. L'elemento comico in Aristofane scaturisce da diversi
piani; il primo è quello verbale. Aristofane usa una lingua fantasmagorica, unica
in tutta la letteratura greca, per l'ampiezza del lessico: ci sono parole
popolaresche, altre tratte dalla tradizione giambico- realistica, altre da
linguaggio musicale, dalla medicina e della scienza, giochi di parole di ogni
genere, espressioni parodiate dalla tragedia e invenzioni verbali continue.
Spesso compaiono in scena personaggi che parlano in dialetto dorico e beotico e
persino stranieri che balbettano in greco deforme: si tratta del primo esempio
del cosiddetto grammelot nella tradizione comica occidentale. Aristofane è un
fervido inventore di metafore e di neologismi: l'esempio più clamoroso è una
vera e propria parola mostro che si estende per la bellezza di 7 versi. Ciò che
incrementa l'effetto comico è soprattutto l'inatteso: in questo senso l'inventiva
non si ferma mai, mai i personaggi rinunciano a sorprendere l'uditorio con
battute, equivoci e doppi sensi. Anche in Aristofane ci sono momenti di comicità
tradizionale: personaggi bastonati, gente che danza, insomma elementi di fondo
comuni al teatro comico. Tuttavia questi tratti popolari vengono inseriti in un
progetto drammatico di più elevata dignità letteraria che tocca anche momenti
lirici. L’inesauribile inventiva verbale aristofanea si innesta su un gioco di
personaggi anch'essi tendenzialmente deformati, il cui aspetto esteriore e
ulteriormente caricato dall'utilizzo di maschere e costumi grotteschi: cori con
vestiti animaleschi, eroi con maschere di visi stravolti, grandi imbottiture a
rappresentare la pancia, il fallo appeso alla cintura. La commedia di Aristofane
vuole riplasmare in modo fantastico la realtà.
6.5 Acarnesi
Gli Acarnesi furono rappresentati nel 425 a.C., in piena guerra tra Atene e
Sparta. Ogni anno l'armata spartana invadeva la campagna attica, devastava i
raccolti, mentre i contadini erano costretti a sfollare dentro le mura di Atene.
La trama degli Acarnesi: Il contadino Diceopoli, amante della giustizia, non riesce
a convincere i suoi concittadini della necessità di porre fine al conflitto con
Sparta; anzi deve assistere, in assemblea, a una sfilata di imbroglioni che
promettono felici vittorie di scarso valore militare. Diceopoli ne ha abbastanza: si
è accorda con un mediatore e decide di stipulare una pace separata con la città
nemica. Le sue intenzioni vengono però scoperte dai contadini attici del demo di
Acarne, che costituiscono il coro e decidono di condannarlo a morte come
traditore. In questo frangente il protagonista deve convincere il coro che la
guerra non è la soluzione ai problemi e lo fa facendosi prestare l'eloquenza dal
più famoso di poeti contemporanei, Euripide, portato sulla scena da una
macchina teatrale. Diceopoli riesce a convincere delle sue ragioni metà dei
coreuti, mentre gli altri chiamano in aiuto Lamaco. Il confronto retorico fra i due,
vede prevalereDiceopoli, che allestisce un mercato libero dove giungono un
poveraccio di Megara, un sicofante e un beota accompagnato dalle figlie,
travestite da porcelline. Quindi Diceopoli si reca alla festa dei Boccali, mentre
Lamaco parte per la guerra. Al termine, i due rientro in scena in condizioni
diverse: Lamaco che si è ferito cadendo in un fosso, geme e si lamenta alla
maniera tragica, mentre Diceopoli, ubriaco, si appoggia a due ragazze e pregusta
i piaceri che lo attendono.
L’attualità della guerra domina quest'opera che descrive il progetto di una tregua
stipulata tra Dicepoli (dal nome parlante “città giusta”). ei nemici. Il messaggio
pacifista di Aristofane inizia così a prendere forma come motivo centrale del suo
teatro, insieme a quello della corruzione dei costumi prodotta dagli esponenti
della nuova cultura. La trama è bipartita: nella prima parte il protagonista
elabora il suo progetto di restaurazione della vita civile, poi una volta realizzato,
il programma si snoda in una serie di scene episodiche. Il dramma termina con il
tradizionale komos della commedia attica, vale a dire la festa in cui si celebra il
recupero di una nuova “primavera” della città finalmente liberata dalle sciagure.
Quello che gli Acarnesi esemplificano è un rito di morte e di rinascita,
l'espulsione dal mare rappresentato da Lamaco, il ritorno a un primitivo stato di
pace. Anche gli Acarnesi esigono un antagonista da eliminare per restaurare
l’antica felicità. La commedia rivela lo straordinario talento del giovane autore,
con una freschezza e un’energia che non conoscono soste lungo il tutto il
dramma: trovate verbali idee sempre nuove che percorrono il testo
conferendogli un ritmo eccezionale. Gli Acarnesi ottenere il primo premio e
questa fu, a quanto pare, l'unica occasione in cui i tre grandi autori, (cioè
Aristofane, Eupoli e Cratino), della commedia Antica si sfidarono nello stesso
concorso teatrale.
6.6 Cavalieri
Rappresentata nel 424 a.C., i Cavalieri costituiscono la più feroce satira politica
trasmessa dalla letteratura antica.
La trama dei Cavalieri: Due servi del vecchio Demos, (cioè il popolo ateniese), si
lamentano di un terzo, di nome Paflagone, (sotto cui si cela il demagogo Cleone),
che ha ottenuto la fiducia del padrone ormai rimbambito con l'adulazione e
spadroneggia nella casa tiranneggiando tutti. I due decidono perciò di
contrastarlo opponendogli una figura ancora peggiore, quella del Salsicciaio,
sostenuto anche dei Cavalieri, i quali formano ancora il coro incarnano il ceto
nobile. Paflagone e il Salsicciaio si fronteggiano in una scena in una serie di scene
agonali, che mettono a nudo l'ignoranza di entrambi. Alla fine il Salsicciaio riesce
a sostituire Paflagone nel favore di Demos, il quale tuttavia spiega al coro di non
essere così stupito come sembra, dato che attendeva il momento opportuno per
punire i disonesti. Il Salsicciaio, con un rito magico, ridona la giovinezza a Demos,
che nella scena finale compare tutto allegro insieme a una ragazza, simbolo della
pace; a Paflagone, invece, tocca la punizione di esercitare il mestiere del rivale.
La commedia vuole demolire l'uomo del partito radicale Cleone, fautore della
guerra. Il dramma è costruito intorno ad un allegoria e la trama è
sostanzialmente costruita sulla sfida tra due fantocci che sono un concentrato di
volgarità: Paflagone e un provvidenziale salvatore. Uno dei momenti più intensi
della commedia, è l'apparizione di quest'uomo, un essere di una volgarità e di un
di un'arroganza sconvolgenti, la sua professione è quella difendere salsicce al
mercato; sarà il suo lavoro ad aiutarlo, infatti avrà la meglio sul rivale. Così la
commedia si risolve nello scontro tra il Salsicciaio e Paflagone attraverso una
serie di scene condotte con una tensione comica che porta a esiti talvolta
sensazionali e surreali. Vincerà alla fine il Salsicciaio: il vecchio Demos tornerà in
sennò, Paflagone verrà scacciato e il Salsicciaio, ormai trasformato in un uomo
perbene, otterrà tutti gli onori per aver restaurato L'antica felicità cittadina. Il
tema del "pharmacos" e della necessità che questi venga cacciato perché la città
possa risorgere è nei Cavalieri più evidente che mai: questo motivo carnevalesco
trova la sua espressione nella scena finale, in cui Demos ringiovanisce convola a
nozze con una giovane Pace. È carnevalesco anche lo stile: il ritmo procede
incalzante, con invenzioni verbali, battute in cui la capacità linguistica dell'autore
trova una delle espressioni più efficaci. I Cavalieri riflettono sulla facilità con cui
muta l'umore dell'assemblea, i mezzi elementari ma infallibili con cui si manipola
l'opinione pubblica. SI delinea nei Cavalieri l'esigenza di separare la conquista del
potere dell'azione politica di chi lo esercita.
6.7 Nuvole
Nel 423 a.C. Aristofane partecipò alle grandi Dionisie con una prima versione
delle Nuvole
La trama delle Nuvole: Il contadino Strepsiade è assediato dai debiti contratti per
soddisfare la passione per i cavalli del figlio Fidippide, che disprezza il padre, rozzo, e
vuole frequentare solo i parenti della madre, donna raffinata. Strepsiade decide di
inviare il figlio presso una scuola di filosofi, sotto la guida di Socrate, che vivono in
una catapecchia (chiamata Pensatoio), affinché apprenda l'arte sofistica di far
trionfare la propria opinione. ConstatatA la mancanza di collaborazione del figlio,
Strepsiade decide di recarsi di persona a studiare nel Pensatoio dove incontra
Socrate, sospeso per aria dentro una cesta mentre sta studiando. Sotto la guida di
Socrate, il vecchio si dedica a ricerche astruse, assistito dalle Nuvole, le nuove
divinità che hanno preso il posto degli Dei tradizionali. Strepsiade non capisce nulla
di ciò che ascolta e viene cacciato via in malo modo. Alla fine però ottiene di
mandare al suo posto il figlio, che assiste all'agone tra il tradizionalista Discorso
Forte e blasfemo Discorso Ddebole, conclusosi con il trionfo dell'ultimo. Filippide
torna a casa dal pensatoio trasformato in un sofista, e così, Strepsiade caccia via con
arroganza i creditori che si presentano alla sua porta. Ma Fidippide comincia a far
valere le sue ragioni anche a danno di Strepsiade arrivando a percuoterlo e a
difendere il suo gesto con sofismi. Allora resosi conto di aver compiuto uno sbaglio,
Strepsiade incendia il Pensatoio e assieme tutti i sofisti.
La prima versione della commedia non ebbe successo, infatti le Nuvole che adesso
leggiamo non sono le stesse che gli spettatori ateniesi condannano alla sconfitta. Ad
Atene si era fatto promulgare un decreto con cui si condannava chi praticasse
l'astronomia, infatti, proprio sulla base di questo decreto, Socrate viene condannato.
Il padre fondatore della filosofia occidentale viene presentato nelle Nuvole come un
imbroglione che corrompe la gioventù, appare come un maestro cialtronesco che
disprezza gli dei e venera divinità nuove come le Nuvole. Il Socrate delle Nuvole è sia
sofista che mistico cioè sacerdote di divinità straniere. In opposizione c’è il vecchio
Strepsiade che rappresenta in tutto e per tutto la mentalità comune. Ciò che
Aristofane vuole rappresentare è il conflitto tra due culture contrapposte e
l'emergere del pensiero laico scientifico. Il cuore della commedia è costituito
dall’agone tra il Discorso Forte e il Discorso Debole, il primo sostenitore
dell'educazione tradizionale, il secondo sostenitore della sofistica. L'azione subisce
un'impennata quando il Fidippide, ormai ribelle a ogni morale, percuote il padre e
gli dimostra anche di aver agito bene. Tuttavia la commedia si chiude ugualmente
con l'espulsione del male della città, infatti, Strepsiaede dà alle fiamme il Pensatoio
insieme a tutti i suoi abitanti. Le Nuvole per il tono elevato della drammaturgia e la
raffinatezza dei temi sono un'opera del tutto nuova e matura.
6.8 Vespe
La commedia venne rappresentata alle Lenee del 422 a.C., sotto il nome di
Filonide; il tema prende spunto dall’ambiente dei tribunali.
La trama delle Vespe: Il vecchio Filocleone è fissato per i processi e per porre
fine a questo suo disagio, il figlio Bdeliclone lo rinchiude in casa con gli schiavi. Il
vecchio tenta di fuggire finché non giunge il coro, costituito dai compagni di
tribunale di Filocleone, affetti dalla sua stessa Mania e travestiti da vespe, con
allusione alle loro sentenze pungenti. Padre e figlio si fronteggiano: Filocleone
spiega la sua passione per i processi motivandola con il grande potere che
detiene in qualità di giudice, mentre Bdelicleone lo confuta dimostrandogli lo
sfruttamento di cui è vittima a opera dei demagoghi. Bdelicleone, poi, allestisce
al padre un processo domestico in cui deve essere giudicato un furto di
formaggio commesso dal cane di casa. Grazie ad un trucco del figlio, il processo
si conclude con l'assunzione dell'imputato. Tutto ciò sconvolge Filocleone che,
nella sua carriera di giudice, non aveva mai pronunciato una sentenza
assolutoria; grazie al figlio inizia a frequentare banchetti in cui si ubriaca e
combina guai di ogni genere. Al termine una danza sfrenata chiude la commedia.
6.9 Pace
La commedia venne rappresentata nel 421 a.C., dopo l’effimera pace tra Atene e
Sparta (la pace di Nicia).
La trama della Pace: Il contadino Trigeo si reca sull’Olimpo per chiedere a Zeus la
cessazione della guerra tra Atene e Sparta; gli dei però sono andati via perché
disgustati dalla cattiveria umana. Accolto in cielo da Ermes, Trigeo assiste ai
preparativi del gigante Polemo (la Guerra) e il suo servo Tumulto, che hanno
sequestrato la Pace, e si accingono a maciullare in un mortaio le città greche. Il
proposito dei due viene però accantonato perché mancano i pestelli, Cleone e
Brasida, fautori della guerra, morti nella battaglia. Mentre Polemo prepara un
nuovo pastello, Trigeo libera la Pace che fa riacquistare libertà anche a Opora e
Teoria. Tornati sulla terra, tutti godono dei benefici della pace mentre i
guerrafondai sono ridotti in rovina. Trigeo alla fine si sposa con Opora.
La fine delle ostilità con Sparta, sembrava aprire prospettive favorevoli per la
città e gli spettacoli teatrali. Così nella Pace vediamo un poeta che sembra
inclinare verso un clima di liberazione fantastica: la scalata al cielo di Trigeo.
Scalare il cielo è per il mito manifestazione di “hiubris”: un atto tentato da mostri
che vengono castigati per il loro sacrilegio; nella prospettiva comica, invece, la
violazione del limite è ciò che consente di infrangere le barriere del reale per
penetrare nel ondo dell’utopia, dove tutto è lecito. Questo clima di liberazione
de un incubo, si traduce in una commedia dal tono leggero nonostante l’incontro
sbigottito del protagonista con i due fantocci: Guerra e Tumulto che stanno
triturando le città greche. La Pace propone il tema dell’evasione spazio-
temporale.
6.10 Uccelli
Gli Uccelli furono rappresentati nel 414 a.C., nel clima di grande speranza
provocato dalla spedizione in Sicilia.
6.11 Lisistrata
La trama della Lisistrata: Le donne greche, stanche della guerra tra Atene e
Sparta, assecondano la protagonista Lisistrata (Dissolvitrice di eserciti), che
propone un’astensione correttiva dei rapporti sessuali con i mariti, fino a che
non si sarà posto fine al conflitto. Inoltre, ad Atene, le donne occupano
l'acropoli, dov’è custodito il bene dello stato, per evitare che gli uomini si
riforniscono di nuovi fondi per finanziare la guerra. Un gruppo di vecchi, che
voleva allontanare le donne, viene affrontato a secchiate d'acqua e un
commissario, venuto per imporre la propria autorità, è costretto a ritirarsi.
Mentre alcune donne cedono al desiderio e abbandonano la lotta, la maggior
parte di essere resiste. L’arrivo di un ambasciatore spartano, mostra che a Sparta
la situazione è critica e che gli uomini sono prossimi alla resa; con la mediazione
di Lisistrata si conclude infine la pace e la commedia termina fra canti e danze.
Le donne, appartenenti a città nemiche, si alleano per soppiantare gli uomini alla
guida della polis e ottenere la pace, con l'astensione dal sesso. La Lisistrata può
essere vista come una pura evasione oppure come manifesto denigratorio
contro la classe dirigente e il sistema istituzionale ateniese. E, poiché gli uomini
hanno fallito, tocca alle donne risolvere la situazione. La commedia propone un
tema tipico dello scherzo carnevalesco, cioè la guerra tra i sessi, che si realizza
attraverso il consueto si schema del sovvertimento: la parte della cittadinanza
esclusa dell'esercito e dalla vita politica e le donne, che tengono sulla scena
comica un riscatto impossibile. Tuttavia nella Lisistrata le donne vincono senza
bisogno di armi: basta far leva sulla sfera della sessualità, per smascherare la
fragilità dei maschi che, per quanto sono forti, si arrendono. Così la commedia
ripone l'antico schema antropologico del “re per un giorno”, infatti, i ruoli
vengono rovesciati.
6.12 Tesmoforiazuse
6.13 Rane
La trama delle Rane: Accompagnato dal servitore Xantia, Dioniso scende nell’Ade
per riportare sulla terra Euripide. Dioniso, per facilitarsi l’impresa, assume le
vesti di Eracle, che lo aveva preceduto nella discesa all’Ade, ma incappa in
personaggi che non vedono l’ora di farla pagare al vero Eracle. Dopo una serie di
avventure, Dioniso attraversa la palude infernale sulla barca di Caronte,
accompagnato dal canto delle rane che vi abitano, con le quali si misura in una
contesa musicale; arrivando, si odono anche i cori degli iniziati ai Misteri
Eleusini. Dioniso giunge infine al regno dei morti, dove trova Eschilo ed Euripide
che stanno litigando per aggiudicarsi il trono di primo poeta tragico e l’onore di
sedere accanto a Platone. Il dio dei morti istituisce allora una gara tra i due dove
il giudice sarà Dioniso: Euripide rinfaccia ad Eschilo il linguaggio troppo solenne e
la staticità dei personaggi, a sua volta Eschilo accusa il rivale di aver degradato la
nobiltà della tragedia. Sulla bilancia, i versi di Eschilo risultano più pesanti e per
questo motivo Dioniso decide a favore di quest’ultimo e lo riporta sulla terra,
affinchè sia ottimo consigliere dei concittadini.
Siamo nell’ultimo periodo di guerra: pochi mesi prima gli Ateniesi avevano
sconfitto la flotta spartana alle Arginuse, ma gli ammiragli vittoriosi erano stati
mandati a morte dal popolo per non aver raccolto i naufragi. Nel settembre del
405 a.C. la flotta ateniese sarebbe stata annientata ad Egospotami e nella
primavera del 404 a.C. la città si sarebbe arresa, perdendo la sua potenza. In
questo periodo decade anche la tragedia: Euripide muore nel 406 a.C. e l’anno
seguente Sofocle giunge al termine della sua vita. La scena tragica rimane così
priva di due dei suoi più grandi autori e le Rane prendono spunto da questa
situazione. La commedia è costruita sullo schema della discesa agli Inferi
(catabasi), che gli autori avevano utilizzato per trattare il tema del rinnovamento
cittadino, affidato al ritorno alla vita di uomini del passato. La prima parte delle
Rane è la fantastica raffigurazione di un oltretomba pieno di mostri minacciosi
ma innocui; la seconda, costruita sull’agone tra Euripide ed Eschilo, è un’analisi
critico-letteraria, in cui lo stile dei grandi tragici è analizzato con intelligenza.
Dietro questo scontro si avverte un problema culturale: il significato della
tragedia e in particolare l’antitesi tra un’arte impegnata e posta al servizio della
comunità, e un’arte che rivendica la sua autonomia da ogni vincolo morale. Alla
fine s riaffaccia il solito schema comico della cacciata del “pharmakos”: l’utopia
dei morti che ritornano ha come conseguenza la rinascita di uno dei cardini della
cultura cittadina, la tragedia, mentre Euripide, resterà recluso nell’Ade e cesserà
di corrodere con le sue tragedie i buoni costumi di una città che in Eschilo ha
ritrovato il vero maestro.
6.15 Pluto
La trama del Pluto: Recatosi a Delfi per interrogare l’oracolo, Cremilo viene a
sapere dal responso di portare a casa propria il primo che incontrerà uscendo da
lì. Trovato un vecchio mendicante cieco, Cremilo riconosce il lui Pluto, demone
della ricchezza, che essendo cieco distribuisce a caso i suoi doni. Cremilo spera di
servirsene per arricchire se stesso e tutti gli onesti; cerca perciò di fare in modo
che Pluto riacquisti la vista così da distinguere i buoni dai malvagi, ma Penia (la
povertà) gli si oppone affermando che è proprio la povertà a voler far lavorare gli
uomini. Nonostante risulti convincente dal punto di vista dialettico, Penia viene
allontanata e Pluto riacquista la vista grazie all’intervento di Ascelpio. L’effetto è
immediato: tutti diventano ricchi, i sicofanti vanno in rovina e Zeus si lamenta
del fatto che gli uomini non hanno più bisogno di fare sacrifici in suo onore e
sulla scena si presenta Ermes, protettore degli affari, alla ricerca di u nuovo
impiego. La commedia si conclude con una processione che accompagna Pluto
alla sua antica sede presso il Partenone.
7 La commedia nuova
I critici antichi adottarono uno schema tripartito: commedia “antica” del V secolo
a.C. rappresentata da Aristofane, Eupoli, Cratino; la commedia “di mezzo” della
prima metà del IV secolo a.C. raffigurata da Anassandrire, Antifane e Alessi e
infine la commedia “nuova”, la cui più alta espressione fu Menandro, accanto al
quale c’erano Difilo e Filemone.
8 Menandro
8.1 La vita
Menandro nacque ad Atene nel 342 a.C. da famiglia agiata. Egli esordì ad Atene
nel 322 a.C. con la commedia Iira e rimase sempre legato alla sua città,
rifiutando gli inviti del re d’Egitto e della Macedonia, segno di una fama che
aveva già decisamente varcato i confini cittadini.
8.2 Le opere
8.3 Bisbetico
Cnemone trascorre le sue giornate lontano dalla città perché detesta la presenza
della gente. Egli è più di una semplice maschera: è un uomo roso da un segreto
male di vivere che lo porta a manifestare odio nei confronti dell’umanità.
Tuttavia Cnemone non è solo un individuo malvagio, innanzitutto perché il suo
male logora soltanto lui stesso, in secondo luogo perché è sufficiente un solo
episodio per far maturare la “redenzione”: la sua cattiveria si sgretola quando il
figlio gli salva la vita. In quel momento capisce che il mondo non è fatto solo di
persone malvagie e questo ci fa comprendere come non sia un personaggio
totalmente negativo; sa anzi riconoscere i suoi vizi. Da questa commedia emerge
un ottimismo nei confronti della natura umana e dellla possibilità per l’uomo di
comprendere i suoi limiti e di ravvedersi; è la ragione che riscatta l’uomo dalla
sua imperfezione e lo rende capace di analizzare i propri comportamenti.
Rrispetto al vecchio, ha meno importanza la vicenda amorosa che coinvolge la
figlia di Cnemone, Sostrato e il fratellasto della ragazza, Gorgia, che teme che
Sostrato voglia solo sedurre la giovane. L’evento risolutore dell’intreccio è molto
schematico: Cnemone cade nel pozzo e viene salvato da Sostrato, al quale darà
in sposa la figlia; si tratta di una trovata elementare. Il finale, però, dimostra
come l’amore e l’amicizia, riesano ad unire anche individui appartenenti a classi
sociali diverse.
8.5 Arbitrato
8.6 Scudo
Della commedia manca la parte finale, quella che doveva far terminare
l’intreccio in maniera felice.
Nello Scudo ci sono colpi di scena, travestimenti, un finto medico che parla in
dialetto dorico, una morte simulata, un intrigo per mettere alle corde Smicrine,
uomo arido e senza scrupoli. La commedia permette di analizzare la figura del
servo Davo, uomo nobile e generoso malgrado l’origine straniera; Davo è uno
schiavo, un barbaro, ma è impregnato dei valori tipici della filantropia greca
(l’onestà intellettuale e la generosità umana). E’ Davo il vero motore dell’azione
drammatica: a lui si deve la creazione dell’intreccio che porterà allo
smascheramento del malvagio e al trionfo della giustizia. L’attenzione dedicata
allo sviluppo della trama sottrae qualcosa alla definizione psicologica dei
protagonisti: sia Davo che Smicrine sono personaggi ad una sola dimensione, sin
troppo generoso l’uno, sin troppo malvagio l’altro.
6 La storiografia
La storia compare nel panorama delle forme letterarie attorno all’inizio del V
secolo a.C. e vede le sue prime manifestazioni in Ionia; nelle sue prime fasi è
“logografia”, vale a dire qualcosa di differente dalla storia. I logografi scrivono in
prosa su contenuti nuovi rispetto a quelli della tradizione letteraria: la historie
dei logografi è al tempo stesso storia, raccolta di tradizioni mitiche e locali,
etnografia, geografia, e si contrappone alla poesia dei rapsodi e dei lirici per la
natura e la quantità d’informazioni che trasmette all’uditorio. Per certi aspetti
nasce dalla medesima radice dell’epica, nel senso che si propone di conservare
nella memoria collettiva la “fama” che fissa per l’eternità gli atti gloriosi. La
figura di maggior rilievo tra questi logografi fu Ecateo di Mileto (circa 550-480
a.C.) autore di un’opera in due libri dal titolo Descrizione della terra, che
conteneva il resoconto di viaggi in varie regioni del Mediterraneo,
accompagnato dalla descrizione dei luoghi e degli usi dei popoli: un’opera di
etnografia e di geografia insieme; lo scritto era forse accompagnato da una carta
geografica. Ecateo compose anche 4 libri di Genealogie, in cui i fatti storici del
passato venivano disposti secondo l'ordine cronologico. Delle sue opere
rimangono pochi frammenti: il primo di questi contiene un’ importante
affermazione programmatica dove, Ecateo di Mileto, dice che egli scrive cose
che gli sembrano vere e prende posizione contro discorsi dei predecessori,
contrapponendovi la verità della sua documentazione. In generale Ecateo
mostra affinità con l'atteggiamento intellettuale dei filosofi ionici proponendosi
come uno scienziato che fondò il suo racconto sulle sulla precisione
dell'osservazione. Anche Acusilao di Argo compose tre libri di Genealogie, in
dialetto ionico in cui tentava di dare un ordine alla mitologia tradizionale,
scrivendo in prosa racconto delle origini dei Greci dalla creazione del mondo alla
caduta di Troia.
Erodoto
2.1 La vita
Erodoto nacque ad Alicarnasso, in Asia Minore, attorno al 484 a.C.; alla sua
famiglia apparteneva il poeta e anche indovino Paniassi. In quell’epoca
Alicarnasso era sotto il dominio della regina Artemisia, la stessa regina è
immortalata dallo storico mentre combatte sul ponte della sua nave, durante la
battaglia di Salamina: durante un tentativo di abbattere Ligdami, figlio di
Artemisia, Paniassi trovò la morte e la famiglia di Esiodo andò in esilio. In questo
periodo Erodoto fece una serie di viaggi da cui trasse la materia per la sua opera
storiografica: percorse l'Egitto, la Fenicia, la Mesopotamia e il Mar Nero.
Successivamente Alicarnasso si affrancò dal dominio persiano ed entrò nella lega
ateniese; Erodoto strinse forti rapporti con Atene e partecipò anche alla
conquista della colonia di Turi in Magna Grecia dove morì e fu sepolto nell' agorà
(forse ebbe onori eroici). La data di morte è da porre dopo il 430 a.C. giacché
Erodoto dimostra di conoscere alcuni aspetto della guerra del Peloponneso.
La trama delle Storie (LIBRO I: CLIO): Erodoto nel proemio vuole esporre le cause
del conflitto tra Greci e barbari, ma il racconto storico scivola poi nel mito. Già in
epoca remota vi furono screzi tra Greci e Barbari per le donne: Giasone rapì
Medea in Colchide, Paride strappò Elena ai Greci. Quindi la storia inizia a
dipanarsi con le vicende dei re di Lidia, nella loro capitale, Sardi. Il racconto ha
vari inserti narrativi. Il primo è la novella di Candaule, innamorato della bellezza
della moglie al punto di volerla mostrare nuda, al suo scudiero Gige; la donna
però se ne vendica aizzando Gige ad uccidere il marito per diventare suo sposo e
re. Il racconto è esemplare per la capacità di delineare con estremo risparmio di
parole lo sfondo della situazione e i personaggi, come, ad esempio, la vanità di
un marito troppo sicuro della fedeltà dell’amico e della sposa. L'ultimo
successore di Gige fu Creso, il quale iniziò una politica di espansione che lo portò
a imporre la sua egemonia sull' Asia Minore. In una Sardi al culmine dello
splendore è ambientato l'incontro tra Creso e Solone, allontanatosi da Atene per
non essere costretto a modificare nessuna delle sue leggi. Solo ora Dopo aver
visto i tesori di Creso, si rifiutò di riconoscere in lui l'uomo più felice del mondo.
La risposta risentita di Creso offre a Solone lo spunto per esporre la sua opinione
sulla felicità umana, ed egli dice che, nessun uomo può essere definito felice,
prima di aver concluso la propria vita, poiché la condizione umana è mutevole e
la divinità invidiosa. Nel dialogo tra Creso e Solone affiora anche la
contrapposizione tra Greci e barbari, tra l’ideale orientale di un potere e una
ricchezza smisurati e il modello ellenico di semplicità e moderazione. Si torna poi
alla narrazione degli avvenimenti; dopo essersi assicurato alleati in Grecia, Creso
sfida la potenza in ascesa dei Persiani di Ciro il Grande, ma il conflitto, si
conclude disastrosamente. Sardi cade e Creso viene catturato e condannato al
rogo, ma riesce a salvarsi e diviene consigliere di Ciro. A questo punto passano in
primo piano i Persiani: Erodoto risale indietro nel tempo per raccontare la storia
della dinastia, dal fondatore Deioce fino a Ciro, che diviene sovrano dei Medi e
dei Persiani. Ciro conquista le città dell'Asia Minore e infine l'impero babilonese,
questo evento dà lo spunto per una descrizione etnografica di Babilonia e dei
suoi abitanti; Ciro cadrà in battaglia nella spedizione contro i Massageti della
regina Tomiri. (LIBRO II: EUTERPE): A Ciro succede Cambise, il quale progetta d’
invadere l'Egitto, l'ultimo regno rimasto indipendente davanti alla potenza
persiana; ciò offre lo spunto per una digressione sulla società, la storia e costumi
degli egizi. Anche in questo libro etnografico sono intercalate novelle e inserti
narrativi, come la novella di Rampsinito (Ramses, grande faraone) e dei ladri che
saccheggiano il suo tesoro. Erodoto attingerà per la massima parte, alla sua
esperienza di viaggiatore e infatti in questa occasione lo vediamo nei panni del
“ricercatore sul campo”. (LIBRO III: TALIA): Il raccolto riprende con la storia della
spedizione di Cambise contro l'Egitto. L'esercito Egizio è sconfitto in un’accanita
battaglia sui confini, poi dopo un breve assedio cade anche la capitale di Menfi. Il
breve regno di Cambise, dà segni di squilibrio, è oscurato dalla sua empietà e
funestato dagli attacchi contro la Libia e l'Etiopia. Segue una descrizione su
Samo, il cui tiranno Policrate aveva conquistato grande potere nell'Egeo: anche
questa sezione non è priva di digressioni narrative. Così la Grecia si affianca per
la prima volta nelle Storie ed Erodoto tratta brevemente le vicende di Sparta e
Corinto. Dopo la morte di Cambise, è Dario a prendere il potere con una
congiura; a Dario Erodoto affida la celebre discussione sulla migliore forma di
governo (monarchia, democrazia e oligarchia). Dario riorganizza l’impero, poi
attacca Samo, dopo che Policrate era stato assassinato a tradimento da un
satrapo persiano, e reprime una rivolta a Babilonia. (LIBRO IV: MELPOMENE):
Anche Dario, si lascia tentare dei rischi della conquista di terre lontane e invade
la Scizia. Il resoconto della spedizione si alterna a un'ampia digressione
etnografica sulla cultura nomade degli Sciti. L'armata persiana, esaurita da un
inseguimento dei nemici, che si ritirano facendo terra bruciata, sfugge alla
catastrofe. Alla conquista persiana di Brace, in Libia, si legano ulteriori excursus
sulla storia dei Battiadi di Cirene e sui costumi degli abitanti della Libia. (LIBRO V:
TERSICORE): Dopo una parentesi sull’espansione persiana in Tracia, l’attenzione
di Erodoto si rivolge al mondo greco, dove scoppia la rivolta delle città greche
d’Asia contro l’oppressore persiano (498 a.C.) sotto la guida di Aristagora di
Mileto: solo Atena ed Eretria offrono un piccolo contingente, che suscita l’ira di
Dario; i Persiani infatti riprendono Cipro e le colonie greche della costa, mentre
Aristagora trova la morte in Tracia. (LIBRO VI: ERATO): Con la distruzione di
Mileto (494 a.C.) la rivolta ionica giunge all’ultimo atto. Dario, desideroso di
punire Atene ed Eretria, sollecitato da Ippia, invia una prima spedizione in
Grecia, che finisce con il naufragio della flotta presso il monte Athos (492 a.C.).
Una nuova spedizione al comando di Dati e Artaferne salpa due anni dopo: la
flotta sbarca nei pressi di Eretria, che viene conquistata; dopo l’esercito persiano
si trasferisce nella pianura di Maratona, a pochi chilometri da Atene. Gli Ateniesi
passano all’azione, attestandosi sulle pendici dei colli che circondano la pianura,
in attesa di un contingente di soccorso in arrivo da Sparta (non arriverà in
tempo). I Persiani vengono sconfitti a Maratona dagli Ateniesi camandati da
Milziade (490 a.C.) e devono rientrare in Asia. Milziade attacca le Cicladi,
l’impresa fallisce per la resistenza di Paro e Milziade, muore a causa delle ferite
riportate nel conflitto. (LIBRO VII: POLIMNIA): La sconfitta di Maratona
rappresentava per la Persia una sfida; Dario progetta una seconda spedizione ma
muore prima di metterla in atto. Sarà il suo successore, Serse, a realizzarla nel
480 a.C., dopo aver attraversato l’Ellesponto su un ponte di barche passa la
Tracia affacciandosi sui confini della Grecia. Nel congresso panellenico del 481
a.C. tra le città: Argo dichiara la propria neutralità, mentre Tessali e Beoti si
ritirano dalla lega non appena i Persiani si avvicinano alle loro terre. Inoltre
sorgono contrasti sulla strategia da adottare: gli Spartani vogliono che le truppe
si attestino sull’Istmo di Corinto, mentre gli Ateniesi esigono che la resistenza sia
posta più a nord. Alla fine, un piccolo contingente spartano viene inviati alle
Termopoli sotto il comando del re Leonida, mentre la flotta prende posizione
sulla punta settentrionale dell’Eubea, al capo Artemisio. Leonida viene
accerchiato, a causa di un traditore che mostra ai Persiani un sentiero per
accerchiare l’esercito greco; gli Spartani muoiono sul capo senza arrendersi.
(LIBRO VIII: URANIA): Dopo la descrizione dello scontro navale dell’Artemisio, è
descritta l’invasione persiana dell’Attiva, il Sacco di Atene e la battaglia di
Salamina. Temistocle riesce a imporre la decisione di affrontare i persiani in una
battaglia navale nelle acque di Salamina, contro Sparta che avrebbe voluto
ritirarsi. La flotta greca viene annientata da quella persiana sotto gli occhi di
Serse, posizionatosi su un’altura, Serse rientra, dopo il disastro, in Asia ma lascia
a svernare in Tessaglia il luogotenente Mardonio. (LIBRO IX: CALLIOPE): Alcune
città greche si schierano con Mardonio, che penetra in Attica, saccheggia Atene e
si ritira in Beozia. Gli Spartani, sotto la guida di Pausania, lasciano l’Istmo e si
ricongiungono con gli alleati. Molto spazio è dedicato ai preparativi della
battaglia di Platea (479 a.C.), che si conclude con la vittoria dei Greci e la morte
di Mardonio. Tebe viene punita per il suo atteggiamento filopersiano, mentre la
flotta greca coglie un grande successo a Micale, in Asia Minore. Il racconto si
conclude con la presa di Sesto sull’Ellesponto (478 a.C.) da parte degli Ateniesi.
L’unita delle storie erodotee è costituita dal logos (il racconto), cioè una sezione
omogenea riservata alla trattazione di un personaggio o alla descrizione di un
popolo. Forse fu ad Atene che Erodoto pensò ai logoi; nel corso del lavoro si
osserva una specie di conversione, in cui gli interessi etnologici predominanti
nella fase iniziale, vengono accantonati per un’analisi più storiografica.
Nelle Storie erodotee le novelle occupano uno spazio considerevole: sono inserti
narrativi più o meno ampi, che interrompono la narrazione storica e
scaturiscono dal flusso affabulatorio dell’autore, quando questi tocca
determinati personaggi o eventi. Le novelle sono presentate come racconti di
informatori e testimoni locali: Erodoto attinse il suo materiale novellistico dalla
tradizione orale e popolare. Le Storie furono composte per essere declamate
oralmente nel corso di pubbliche esibizioni; le novelle dunque, rispondendo a
moduli narrativi tradizionali, risultavano gradite alle orecchie degli ascoltatori.
Tuttavia in Erodoto le novelle hanno anche funzioni innovative precise perché
consentono di interrompere e riannodare i fili dell'azione creando effetti di
attesa e di sospensione, introducono materiale narrativo parallelo alla
narrazione vera e propria, tengono desta l'attenzione dell'uditorio con episodi
interessanti. Si potrebbe dire che nell'insieme svolgono una funzione mitica, in
quanto contenitori di memoria e di riflessioni. In questo senso, le novelle
contribuiscono a determinare lo sfondo etico della narrazione, mostrando la
visione morale che percorre l'intera opera con cui si vuole spiegare l’alternanza
di fortuna e sventura di un individuo. Tucidide indica nell'elemento favoloso una
caratteristica degli storici che lo hanno preceduto, dai quali intende
differenziarsi: per lui questi sono da considerarsi esponenti di una concezione
artistico-letteraria e non scientifica della storia. Il richiamo al favoloso evoca una
categoria vasta, nella quale possono rientrare elementi diversi. Questi ultimi
peraltro rappresentano un’eredità della poesia eroica che Erodoto, non poteva
escludere dalla propria opera.
Erodoto scrive nel dialetto ionico letterario, anzi le sue Storie rappresentano
l’esempio più perfetto di prosa ionica. Tuttavia non si tratta di uno ionico puro:
Erodoto realizza una singolare commistione, dove trovano posto forme elevate
di derivazione poetica (in particolare omerica) e forme attiche, tenendo presente
che aveva un pubblico ateniese. Non troviamo in Erodoto un utilizzo rigoroso
della terminologia storiografica; la sua è una lingua non tecnica ma duttile, con
un vocabolario ricco di ogni sfumatura. Erodoto crea frasi ampie e predilige la
paratassi. Tipico del suo stile è l’uso sistematico della “composizione ad anello”.
3. Tucidide
3.1 La vita
Tucidide nacque ad Atene attorno al 460 a.C.; era legato alla Tracia e al clan dei
Filaidi; tra gli antenati del padre Oloro, c’era un re trace la cui figlia era andata
sposa a Milziade. È credibile la notizia secondo la quale Tucidide possedesse
miniere in Tracia, territorio strategico per gli Ateniesi e alle rive del Bosforo,
dove Atene aveva insediato colonie. Nei primi anni della guerra del
Peloponneso, Tucidide era impegnato nell’attività politica; nel 424 a.C. comandò
una spedizione di soccorso guidata in Tracia per contrastare il tentativo spartano
di conquistare Anfipoli, ma la città fu conquistata ugualmente. Ad Atene
l’impressione suscitata da questo rovescio fu enorme: secondo la tradizione,
Tucidide sarebbe stato condannato all’esilio. Sembra che Tucidide abbia
continuato a vivere ad Atene, rimanendo escluso dalla vita politica: poté
dedicarsi alla stesura della storia che narrava gli eventi della guerra del
Peloponneso. Nient’altro si sa di lui, se non che morì dopo la fine della guerra e
la restaurazione del regime democratico, nel 403 a.C. Tucidide, secondo la
tradizione, fu assassinato da mano ignota, la sua tomba sorgeva nelle vicinanze
di Atene accanto a quella di Cimone, figlio di Milziade.
3.2 Le Storie
La trama delle Storie: (LIBRO I: FINO AL 431 A.C.): Dopo il proemio in cui l’autore
nomina se stesso e giustifica la ragione della sua opera, circoscritta al racconto di
una guerra che avrebbe cambiato il volto della Grecia, viene tratteggiata una
storia della Grecia dalle origini fino alle guerre persiane (2-19). Questa
introduzione (chiamata “archeologia”) è un ‘introduzione che si contrappone alle
opere di altri autori, come Erodoto. L’antichissima storia greca, narrata
attraverso le notizie dei racconti mitici, è ripercorsa alla luce di uno spirito
razionalista; e poiché per Tucidide la storia è fondata sul principio che essa sia
governata da rapporti di forza, egli dimostra che non il passato o la guerra di
Troia sono gli eventi capitali della storia greca, ma lo scontro che vide la potenza
dominante del Mediterraneo, spaccarsi in due durante una guerra ventennale.
Tucidide liquida la guerra di Troia come un evento secondario, mentre è
significativo il suo impiego del mito in chiave storiografica. Anche sulle
migrazioni Tucidide aveva ragione, quando supponeva che la Grecia fosse in
origine abitata da popoli non greci, impiega pagine per parlare anche della
pirateria e delle tirannidi. Precisato il proprio metodo storiografico, Tucidide
nell’ascesa di Atene e nella conseguente ospitalità di Sparta la causa del
conflitto; poi passa a descrivere l’ingerenza ateniese nei rapporti tra Corinto e le
sue colonie Corcira e Potidea. L’inconciliabilità tra Atene e i Peloponessiaci porta
Sparta a non riuscire a tenere le tensioni. Il racconto viene interrotto per un
excursus sulla storia greca nel 50ntennio tra la presa di Sesto (478 a.C.) e l’inizio
del conflitto peloponnesiaco (431 a.C.), la cosiddetta “penteconteatia”, periodo
in cui mutarono l’impero marittimo ateniese e l’ostilità spartana davanti alla
rottura degli equilibri (89-117). L’ultima sezione del libro è dedicata al resoconto
di un nuovo vertice della lega peloponnesiaca, in cui viene infine votata la
guerra, e dal discorso di Pericle, che espone la propria strategia con una
digressione sulla fine di Temistocle e Pausania, leader della vittoriosa guerra
contro la Persia. (LIBRO II: 431-429 A.C.): Il conflitto inizia con l’aggressione dei
Tebani a Platea, alleata degli Ateniesi, e l’invasione dell’Attica da parte degli
Spartani e dei loro alleati, guidati dal re Archidamo (da qui derina la definizione
di “guerra archidamica”). La strategia di Pericle è di evitare una battaglia
terrestre e di rispondere alla strategia spartana con scorreria navali sulle coste
del Peloponneso, per logorare le risorse del nemico. La fine del primo anno di
guerra è lo spunto per introdurre l’”epitafio”. La consuetudine voleva che ogni
anno si celebrassero le esequie dei caduti per la patria; nel 431 a.C., primo anno
di guerra, questo compito fu affidato a Pericle. Nel riferirne il discorso, Tucidide
scrive che le parole del suo Pericle sono servite a definire l’essenza della potenza
ateniese, all’acme del suo splendore: si esalta la democrazia e la libertà pubblica
e privata di Atene, il rispetto delle leggi, si tratta di un manifesto del “miracolo
ateniese”. Subito dopo viene descritta l’epidemia che si abbattè su Atene nel
secondo anno di guerra; si trovano così contrapposte l’Atene idealizzata
dell’epitafio e l’Atene devastata e sofferente a causa della malattia. Cos’ al tema
dell’epitafio viene affiancata un altro tema caro a Tucidide, ovvero l’intervento
della sorte che sopraggiunge a sconvolgere i piani degli uomini. Nella città si
diffuse un’epidemia importata dall’Egitto: generalmente si parla di peste, ma i
sintomi non sono quelli della peste bubbonica; forse si trattava di vaiolo o di tifo
o di una forma particolare di morbillo, ma era comunque una malattia
contagiosa e ignota ai medici dell’epoca. L’evento portò a gravi perdite umane,
Pericle fu ucciso dalla malattia e ad Atene venne a mancare la mente politica che
l’aveva guidata fino a quel momento. Le pagine sull’epidemia sono notevoli
anche per un altro motivo: alla descrizione dei sintomi Tucidide affianca quella
degli effetti morali che l’epidemia produsse nelle città. Il mancato rispetto alla
legge, il capovolgimento dei valori abituali e tutto ciò che si può definire la
psicologia della pestilenza. A Pericle morto viene dedicato un elogio da parte
dello storico. Nell’ultima parte del libro il teatro dell’azione si sposta verso nord,
dove Atene cerca di volgere a proprio vantaggio un conflitto tra Traci e
Macedoni. (LIBRO III: 428-426 A.C.): Mentre l’Attica è nuovamente invasa dai
Peloponnesiaci, scoppia una ribellione a Mitilene. A questo punto sulla scesa
politica si affaccia Cleone, leader della corrente democratica radicale e per
questo inviso a Tucidide e ad Aristofane. Cleone vorrebbe occupare il ruolo di
Pericle. La sua prima manifestazione è estremistica: vorrebbe lo sterminio dei
Mitilenesi, in un primo tempo riesce a far votare la sua risoluzione, ma una
seconda assemblea sostiene Diodoto, che limita la punizione ai responsabili. I
Peloponnesiaci rispondono con un duro trattamento agli abitanti di Platea,
capitolata dopo tre anni di assedio. Ad aggravare il quadro delle atrocità giunge
la guerra civile esplosa a Corcira tra democratici e oligarchici, dove quest’ultimi
tentando di sganciarsi dalla sfera d’influenza, vengono soffocati in un bagno di
sangue. (LIBRO IV: 425-422 A.C.): I teatri di guerra si moltiplicano: mentre in
Attica si rinnovano le devastazioni dei Peloponnesiaci, Demostene riesce a
creare una testa di ponte sulle coste del Peloponneso, occupando Pilo; gli
Spartani reagiscono inviando un contingente all’isola di Sfacteria, di fronte a Pilo.
Cleone, al comando, dice allora che avrebbe espugnato l’isola; infatti gli Ateniesi
riescono a sbarcare su Sfacteria e costringono gli Spartani alla resa. La guerra
sarebbe potuta terminare se gli Ateniesi non avessero rifiutato le proposte di
pace. Le operazioni si spostano a nord, nella Calcidica, dove lo spartano Brasida
riesce ad espugnare la città di Anfipoli (Tucidide stesso manda una spedizione di
soccorso) e a spostare l’equilibrio di quel fronte a favore dei Peloponnesiaci.
(LIBRO V: 422-415 A.C.): Con la morte di Brasida e Cleone ad Anfipoli, prevalgono
in entrambi i campi le “colombe”. Si concretizza una pace cinquantennale che
porta il nome di PACE DI NICIA. Nell’ultima parte del libro Tucidide narra un
evento atroce di questa specie di “guerra fredda”, avvenuto nel 416 a.C. : la
distruzione di Melo, colonizzata anticamente dagli Spartani, che era riuscita fino
a quel momento ad essere neutrale. Al centro dell’episodio è il dialogo tra gli
ambasciatori ateniesi e gli isolani (DIALOGO DEI MELI): questi ultimi chiedono di
rimanere neutrali e fanno appello alla protezione divina e all’aiuto degli Spartani;
gli Ateniesi, per non sembrare deboli, spiegano ai Meli quanto sia inutile la loro
opposizione. Malgrado un tentativo di difesa dei Meli accade che: gli uomini
saranno passati tutti a fil di spada, le donne e i bambini venduti come schiavi.
Tucidide con la tecnica sofistica del discorso doppio, mette a nudo i meccanismi
dell’imperialismo ateniese. (LIBRO VI: 415-414 A.C.): A questo punto si verifica la
sconfitta di Atene. Alcibiade, astro nascente della politica ateniese, caldeggiava
un intervento di Atene nel conflitto tra Siracusa e Segesta, alla scopo di includere
la Sicilia nella sfera d’influenza ateniese. Alcibiade riuscì a far valere il proprio
parere su quello del prudente Nicia. Fu organizzata una spedizione , guidata da
Alcibiade e dal suo rivale Nicia, ma al momento della partenza, nel maggio del
415 a.C. la città fu scossa da un evento: lo scandalo della mutilazione delle erme
(immagini di Ermes che sorgevano nelle strade); la vox populi incolpò subito
Alcibiade. Nell’Atene democratica, l’accusa di ateismo era un forte strumento di
lotta politica; nonostante ciò, la flotta partì ugualmente per la Sicilia. Intanto gli
avversari di Alcibiade riuscirono a farlo richiamare in patria per sottoporlo a
processo; temendo il peggio si rifugiò a Sparta. La spedizione arrivò in Sicilia e si
ebbe l’illusione di un successo ateniese. (LIBRO VII: 413 A.C.): Gli Ateniesi posero
assedio a Siracusa per mare e per terra, ma giunse, in soccorso dei Siracusani, un
contingente spartano comandato da Galippo. Atene mandò allora una flotta di
rinforzo al comando di Demostene, lo stesso che aveva sconfitto gli Spartani a
Pilo. Demostene e Nicia tentarono un attacco notturno che venne respinto. A
causa di un’eclissi di luna, Nicia rimandò di un giorno la ritirata. A questo punto
l’esercito, abbandonando la flotta e l’accampamento pieno di feriti, tentò una
ritirata per via di terra, ma venne raggiunto dai Siracusani e costretto alla resa.
Nicia e Demostene furono passati per le armi, gli altri prigionieri vennero chiusi
nelle Latomie, le cave di pietra che a Siracusa fungevano da prigioni. Solo pochi
tornarono ad Atene. (LIBRO VIII: 412-411 A.C.): La notizia del disastro in Sicilia
venne accolta ad Atene con sgomento, ma gli Ateniesi proseguirono ugualmente
la guerra. Intanto nella scesa del conflitto si affacciò la Pperisa, rappresentata dai
satrapi Tissaferne e Farnabazo, che si schierò a fianco degli Spartani fornendo
denaro e navi. Atene nel frattempo affrontò il colpo di stato oligarchico del 411
a.C., al seguito del quale fu abolita la costituzione democratica e l’assemblea
popolare fu sostituita dal consiglio dei Quattrocento. La reazione democratica,
guidata da Tiramene, portò alla restaurazione della democrazia con l’istituzione
dell’assemblea dei Cinquemila. Il resoconto di Tucidide si interrompe
bruscamente dopo il ritorno di Alcibiade dall’esilio e la vittoria della flotta
ateniese a Cinossema e non comprende gli ultimi anni del conflitto, che
terminerà solo nel 404 a.C.
4 Senofonte
4.1 La vita e le opere
L’Agesilao è invece una biografia encomiastica del re spartano che ebbe tanta parte
nella vita di Senofonte; si tratta del primo esempio di biografia destinato a godere di
straordinaria fortuna.
Dalla frequentazione di Socrate derivano altre opere di Senofonte tra cui i quattro
libri dei Memorabili, raccolta di aneddoti relativi al filosofo ateniese. L'intento
dell'opera è apologetico, nei confronti tanto del filosofo, quanto più in generale
della sua cerchia. Tra l'altro Senofonte vuole scagionare Socrate dalle accuse che gli
erano state rivolte in tribunale e separare la sua figura da personaggi politicamente
compromessi con il regime tirannico dei Trenta e che erano amici di Socrate, come
Alcibiade e Crizia. Alla figura di Socrate sono dedicate altre due opere ovvero
l'Apologia, che si propone di spiegare le ragioni del comportamento superbo del
filosofo durante il processo e ci presenta un Socrate stanco della vita e fermamente
deciso a farsi condannare, e il Simposio, nel quale sono riferiti in modo disorganico i
discorsi di vari argomenti ottenuti dai convitati durante un banchetto a casa del ricco
Callia. Socrate appare infine come protagonista di uno scritto di carattere più
tecnico, ovvero l'Economico, in cui Senofonte racconta di aver udito un dialogo tra
Socrate e Critobulo sul tema della corretta amministrazione al patrimonio familiare.
All'interno di questo dialogo, Socrate riferisce a sua volta una sua conversazione con
Iscomaco, gentiluomo di campagna assunto a modello dell'amministrazione ideale.
L'etica che traspare dall’ encomio è decisamente aristocratica. E, in
contrapposizione al lavoro artigianale e al commercio l'agricoltura è vista come la
più nobile tra le attività, capace di formare i cittadini migliori. Lo scritto presenta
anche degli elementi innovativi, tra i quali è da sottolineare il ruolo attivo attribuito
alla donna, che deve essere comproprietaria dei beni insieme al marito e
amministratrice dello spazio interno della casa, si tratta però sempre di una donna
subordinata al proprio consorte, che ha il compito di plasmarla a sua immagine e
somiglianza.
Al centro dell’opuscolo intitolato Ierone, c’è la riflessione politica sul tema della
tirannide; è un dialogo immaginario tra il poeta Simonide e il tiranno siracusano.
Non autobiografici sono alcuni scritti molto più tecnici, sempre scritti da Senofonte:
l’Ipparchico, un trattato sui compiti del comandante di cavalleria, l'Equitazione e il
Cinegetico, (quest'ultimo di attribuzione non certa), dedicati agli sport preferiti da
Senofonte a dagli aristocratici, ovvero l'equitazione la caccia. Con le Entrate, uno
studio delle finanze ateniesi, Senofonte intende indicare alla città la strada migliore
per sistemare il proprio bilancio e reggersi autonomamente. A questo scopo,
secondo lui, gli ateniesi più che sull'agricoltura dovranno puntare sullo sfruttamento
delle miniere d'argento del Laurion, da potenziarsi tramite l'acquisto di schiavi
pubblici. L’opuscolo scritto negli ultimi anni della vita dell'autore, è un segnale della
volontà di riappacificazione con la sua città, nella quale tornerà a stabilirsi da lì a
poco, al termine del suo avventuroso percorso esistenziale.
Nel corpus degli scritti di Senofonte è trasmessa anche una breve opera dal titolo
“Costituzione degli ateniesi”. Lo stile particolarmente arcaico del testo e il fatto che
si riferisca al regime democratico del V secolo fanno escludere che sia senefontea.
L’autore del libello è un ignoto partigiano dell’oligarchia, che si è perfino tentato di
identificare con Tucidide o con Crizia. Comunque sia, la Costituzione degli ateniesi è
un violento libro antidemocratico in cui l’autore sottopone a un esame acuto il
funzionamento del sistema democratico. L breve opera è perciò una fonte preziosa
per ricostruire i meccanismi istituzionali dell’Atene democratica. L’opuscolo si apre
proponendo i termini della questione e definendo senza dubbio la prospettiva
politica dell’autore, un oligarca che riconosce che i democratici hanno saputo
realizzare in modo geniale il progetto di far funzionare una città. L’anonimo autore
riconosce che il “malgoverno” dei democratici è un governo ottimo: infatti è capace
di accattivarsi il consenso delle masse e di sostenere gli interessi in modo
spregiudicato. Secondo Luciano Canfora l’opera sarebbe un dialogo tra due
interlocutori; è un’ipotesi possibile, dato che nel testo mancano quei segnali tipici
che nella tradizione dialogica antica indicano al lettore la presenza di personaggi
dialoganti.
10 La poesia ellenistica
1 Callimaco
Callimaco figlio di Batto nacque nella colonia dorica di Cirene, intorno al 305 a.C.
Era di famiglia nobile: sembra che dipendesse da Batto mitico fondatore della città e
che suo nonno, fosse stato comandante della flotta di Cirene. Cirene gravitava intorno
al potente regno egiziano dei Tolomei; non a caso ritroviamo Callimaco ad
Alessandria, dove si ridusse a fare il maestro di scuola nel sobborgo di Eleusi.
Callimaco venne introdotto a corte in qualità di giovane paggio, come accadeva di
norma e discendenti delle famiglie nobili. Era comunque destinato a salire in alto; nel
283 a.C., quando salì al trono Tolomeo II Filadelfo, Callimaco entrò nel suo palazzo
si distinse nell'ambiente della Biblioteca per i suoi lavori grammaticali, tra quali in
particolare le Tavole, un catalogo complessivo di tutta la letteratura greca. La sua
posizione presso i Tolomei crebbe sempre più, tanto che lui divenne il poeta di Corte
degli alessandrini; celebrò con i suoi versi le nozze tra Tolomeo Filadelfo e Arsione e
l'apoteosi della regina (270 a.C.). Quando il successore designato di Tolomeo
Filadelfo, Tolomeo III Evergete sposò Berenice, (247 a.C.) e poco dopo salì al trono,
la posizione di Callimaco acquisì rilievo: lo dimostra l'elegia la Chioma di Berenice,
dedicata alla nuova regina. Morì intorno al 240 a.C. Callimaco fu uno dei poeti più
letti e celebrati. Ci restano per intero solo sei Inni agli dei e un gruppo di circa 60
epigrammi; i primi si conservano perché furono inclusi nel corpus che raccoglieva la
tradizione innografica e religiosa antica, i secondi per cui confluiranno nella
Antologia Palatina. Accanto alle opere maggiori (Aitia, Giambi, Inni, Eracle)
compose carmi d'occasione, come gli epinici per le vittorie nei giochi sportivi di
personaggi di corte, il poemetto polemico Ibis (imitato a Roma da Ovidio) e altre
opere sia poetiche sia erudite. Coesistono quindi in lui la figura del poeta
professionista che compone per una committenza e quella del letterato erudito, dedito
una poesia destinata alla divulgazione libresca.
Gli Aitia (Cause) sono una raccolta di elegie in quattro libri. Era un punto di
riferimento per il pubblico dotto dell’antichità che venne letto fino al VII secolo a.C.;
forse questa raccolta andò perduta nelle devastazioni provocate dalla conquista di
Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204. Numerosi frammenti papiracei e le
Diegesi, riassunto in prosa, consentono di delineare il tracciato dell’opera: l’ipotesi
più verosimile è quella di una prima edizione in due libri che divennero quattro,
preceduti da un nuovo prologo, nella seconda edizione, databile agli ultimi anni della
vita del poeta. Buona parte delle elegie degli Aitia è probabile che circolasse in forma
autonoma; il secondo prologo degli Aitia è un vero e proprio manifesto di poetica,
rivolti contro i detrattori di Callimaco, definiti demoni invidiosi e maligni della
tradizione mitologica. Callimaco evita i toni acri dell’invettiva per adottare un humor
allusivo, in cui si intravede la tranquillità di chi ha vinto la propria battaglia. Nella
prima edizione, gli Aitia iniziavano con un sogno nel quale Callimaco veniva portato
sull’Elicona, dove incontrava le Muse che soddisfacevano la sua curiosità erudita, e
gli spiegavano le ragioni di usi e abitudini insolite. Il pretesto del sonno fungeva da
tessuto connettivo dell’opera anche nell’edizione successiva, utilizzando questo
metodo narrativo, Callimaco si richiamava all’antico modello di Esiodo, che nella
Teogonia aveva raccontato la sua iniziativa poetica sul monte Elicona. Gli Aitia,
però, sono in realtà una successione di testi autonomi, ciascuno concluso in se stessi e
destinato a sviluppare un argomento di natura erudita, rivolto a illustrate costumi e
racconti antichi rari, adatti ad attirare l’attenzione del ristretto circolo di lettori ai
quali Callimaco si rivolgeva. Solo pochi episodi sono leggibile tra cui quello di
Acontio e Cidippe: si tratta di una leggenda dell’isola di Ceo. La storia è narrata dal
tardo epistolografo Aristeneto e vi allude anche Ovidio. Durante una festa di Apollo e
Delo, il giovane Acontio incontra Cidippe, già promessa in sposa ad un altro.
L’amore gli suggerisce una cosa: gettare alla ragazza un pomo, con incise le parole
“giuro per Artemide di sposare Acontio”. La ragazza, leggendo la scritta ad alta voce,
pronuncia il giuramento e si ritrova vincolata; il giuramento impedirà le nozze, in
modo che Acontio potrà avere la sua Cidippe e da quelle nozze avrà origine una
famiglia nobile dell’isola di Ceo. In questo caso vediamo Callimaco cimentarsi nella
narrazione di una storia d’amore, anche se è privo di passionalità: il tono è mantenuto
su un livello medio e l’interesse per la psicologia dei due innamorati è
completamento assente, il lettore deve percorrere una via erudita e non arrivare ad
una tensione emotiva.
1.3 I Giambi
Gli Aitia erano seguiti dai Giambi, una raccolta di 13 composizioni in dialetto ionico
letterario a imitazione dei giambografi arcaici; possediamo il riassunto della Diegesi
che ne ricostruisce la trama.
Il Giambo I: Quelli meglio leggibili sono i giambi I e IV. Nel Giambo I, Callimaco da
rivivere l’antico Ipponatte, che torna dall’Ade per convocare i filologi nel Sarapeo di
Alessandria, raccomandando di mettere da parte le invidie; per illustrare la sua
morale, racconta la favola della coppa dei sette sapienti. Il ricco Baticle d’Arcadia, in
punto di morte, aveva detto ai figli di consegnare una coppa d’oro al più sapiente tra i
Greci ma, nessuno dei 7 sapienti si era ritenuto degno di averla, e la coppa era
tornata, infine, nelle mani di Talete (primo che l’aveva ricevuta) che l’aveva
consacrata ad Apollo.
Il Giambo IV: Il Giambo IV descrive una contesa letteraria, recuperando il tema della
favola utilizzato tra i giambografi arcaici. In questo testo Callimaco parla della
contesa tra un allora e un ulivo sul monte Tmolo: i due gareggiano per il primato fra
le piante, interrotti da un buffo rovo spinoso che cerca di conciliarli, ma viene
rimesso al posto suo. La Diegesi spiega che costui era un certo Simo, un presuntuoso
che aveva messo bocca in una disputa tra Callimaco e un suo rivale.
Il Giambo XIII: Qui Callimaco si giustifica per la varietà dei suoi componimenti
invocando il precedente del poligrafo del secolo V Ione di Chio.
Nei Giambi Callimaco dà nuova forma al genere letterario usato già da Archiloco e
Ipponatte. I suoi antichi modelli utilizzavano il giambo come strumento della “poesia
del biasimo”, fatta di contenuti violenti sviluppati nel contesto del simposio e
destinati alla recitazione; i Giambi callimachei sono invece concepiti per la
divulgazione scritta e assumono un carattere moralistico. Caratteristica di queste
composizioni è soprattutto la varietà sia dei motivi sia delle tipologie: vi si trovano
temi di contenuto etico, polemiche letterari e componimenti che fanno riferimento
all’attualità, ma non possiedono il carattere graffiante e i valori di satira sociale o
politica propri dei modelli arcaici, né i tratti selvaggi dello spirito giambico. Si fa
ampio ricordo alla fiaba o all’allegoria, e non mancano riferimenti ai miti e costumi
rari.
I sei Inni celebrano le divinità cittadine nelle pubbliche feste; la destinazione degli
Inni è incerta, anche se pare che alcuni (come quello a Demetra) siano stati composti
su commissione per una precisa festa, mentre per altri (come l’Inno ad Artemide) il
riferimento rituale è fittizio.
L’inno a Zeus: Il primo inno è dedicato a Zeus e descrive il parto di Rea, che salvò il
figlio dagli impulsi cannibalici di Crono generandolo al riparo di una grotta, situata
tradizionalmente a Creta, ma collocata da Callimaco in Arcadia; qui il bambino
crebbe rapidamente, accudito dalla capra Amaltea che gli offriva il suo latte e
dall’ape Panacride che distillava miele nella sua bocca, mentre intorno i Cureti
danzavano battendo le spade sugli scudi perché i vagiti del neonato non arrivassero
alle orecchie del terribile padre. L’inno termina con un elogia al protettore del poeta,
Tolomeo Filadelfo.
L’inno a Delo: L’inno a Delo è il quarto; celebra l’isola sacra ad Apollo e descrive le
peregrinazioni di Latona, che vaga per il mondo perseguitata dalla gelosia di Era, alla
ricerca di una terra disposta ad ospitare il suo parto. Nel racconto Callimaco inserisce
un encomio al suo protettore: la dea sta per partorire a Cos, ma dal suo ventre il figlio
la ferma: quell’isola darà luce ad un altro dio, Tolomeo Filadelfo. Infine è Delo ad
accoglierla: qui dà alla luce ad Apollo e Artemide, mentre una corona di cigni sacri
volteggia intorno all’isola accompagnando il parto con il canto.
L’inno per i lavacri di Pallade: L’inno per i lavacri di Pallade è il quinto; è una festa
riservata alle sole donne e celebrata ad Argo, durante la quale la statua di Pallade
Atena era trasportata da tempio al fiume Inaco, dove veniva lavata per poi essere
riportata in città; non si sa se fosse un canto commissionato a Callimaco o una
finzione letteraria.
Una prima novità callimachea è costituita dalla metrica: l’inno è composto in distici
elegiaci, che sostituiscono l’esametro impiegato nell’innografia tradizionale. A livello
compositivo, il mito narrato si salda con il rituale che fa da cornice al canto: la festa
femminile del bagno dell’idolo di Atena viene collegata con un altro bagno, mitico,
della dea e della sua ninfa più cara che si ristorano dalla calura meridiana nelle acque
di una sorgente. Qui il mito sviluppa il tema del tabù violato: poiché nessuno può
vedere nuda una dea , l’incauto Tiresia, che involontariamente contempla la dea al
bagno, viene accecato. Così l’inno racconta un’iniziazione (il terribile momento in
cui un dio investe dei suoi poteri un uomo, segnandolo per tutta la vita).
1.5 L’Eracle
2 Teocrito
2.1 La vita
Teocrito figlio di Prossagora nacque a Siracusa intorno al 315 a.C. I luoghi importanti
della sua esperienza letteraria furono però altri come l'isola di Cos, sede di un
importante cenacolo poetico, Alessandria dove si trasferì intorno al 270 a.C. e si
pensa che qui abbia trascorso il resto dei suoi giorni, sotto la protezione dei Tolomei.
Del resto lo Ierone (carme XVI), scritto (intorno al 275 a.C.) per ottenere prebende
dal dinasta di Siracusa, con il suo insistere sulla necessità di trovare patroni, indica la
difficoltà che un poeta, per quanto apprezzato, incontrava in quella città ridotta
ormai a fare da vaso di coccio nella lotta fra le grandi potenze di Roma e Cartagine.
Ad Alessandra Teocrito entrò in rapporti di familiarità con i letterati del tempo; la
sua morte va collocata intorno al 260 a.C. o poco più tardi.
Con gli idilli bucolici di Teocrito la campagna diventa lo scenario privilegiato della
poesia: la campagna teocritea è quella che poteva piacere al dotto pubblico della
cosmopolita Alessandria, luogo collocato nella Sicilia pastorale e nell’Italia
campestre, popolata da gente che parla l’antico dialetto dorico in un’epoca in cui
anche la realtà linguistica del pubblico stava mutando, con lo sgretolarsi degli antichi
dialetti locali e a favore della koine, lingua comune. Teocrito non fu un erudito
vissuto dietro le siepi di libri della Biblioteca, né un teorico della letteratura, eppure
sa esprimere i nuovi orizzonti artistici elaborati dal circolo di Callimaco, sa stabilire
un sottile legame con il lettore, assecondandone i gusti, ed è capace di variare il
timbro delle sue composizioni- Tteocrito usò la lingua a base ionica dell’epos, il
dorcio della natia Siracusa e perfino l’eolico della poesia amorosa di Saffo e Alceo; va
ascritta la capacità di piegare la lingua greca alle proprie necessità espressive. Tra gli
imitatori dell’arte teocritea si contano i poeti Mmosco, Bione e Longo Sofista (secolo
II d.C.); ma fu Virgilio che seppe far rivivere più di ogni altro il mondo pastorale degli
idilli di Teocrito.
Le notizie sulla vita di Apollonio provengono dal lessico Suda e da due brevi biografie
premesse ai codici che contengono la sua opera. Nato ad Alessandria intorno al 295
a.C., entrò in rapporto con la corte dei Tolonei e intorno al 260 a.C. ottenne
l’incarico di bibliotecario; a questa carica si accompagnava il compito di educare il
futuro Tolomeo III Evergete. Abbiamo notizie contradditorie intorno ai suoi rapporti
con Callimaco: le biografie antiche lo dicono suo allievo, mentre altre fonti parlano
di una contesa letteraria tra i due. Un epigramma anticallimacheo è attribuito ad
Apollonio nell’Antologia Palatina(XI), ma è di dubbia autenticità; si diceva che a sua
volta, Callimaco avesse composto contro Apollonio il carme Ibis, anche se il nome di
Apollonio non compare nella lista dei rivali fornita dagli Scoli Fiorentini. Più tardi
Apollonio venne sostituito alla guida della Biblioteca da Eratostene, forse per
decisione di Tolomeo III, salito al trono nel 247 a.C. Ad un certo punto, il poeta si
trasferì a Rodi (Rodio è il soprannome con cui viene chiamato) dove attese a
rimaneggiare le Argonautiche, che probabilmente aveva già pubblicato in una prima
edizione e che a noi è giunta nella seconda redazione databile tra il 245 e il 240 a.C.
E’ probabile che sia morto in tarda età, forse intorno al 215 a.C., a Rodi. Apollonio
compose poemetti relativi a fondazioni di città (Alessandria, Rodi, Naucrati) e un
poemetto in coliambi, il Canobo, che narrava il mito di questo personaggio,
timoniere della nave di Menelao, che dopo la morte fu trasformato in astro e diede
nome a un insediamento presso le foci del Nilo. Di questa produzione restano solo
pochi frammenti, infatti, la fama di Apollonio è legata alle Argonautiche, opera che ci
è giunta per intero. Il testo si sviluppa in 4 libri, estensione molto ridotta rispetto ai
poemi omerici perché corrisponde alle raccomandazioni di Aristotele per la
composizione di un poema epico organico e unitario; le Argonautiche raggiungono
all’incirca l’ampiezza di una tetralogia, che Aristotele aveva indicato come misura
ideale.
LIBRO II: Il racconto prosegue con la gara fra Polluce e Amico, l’arrogante re dei
Bebrici che aveva l’abitudine di sfidare nel pugilato chiunque mettesse piede nel suo
regno, uccidendolo; affrontato da Polluce, però, soccombe. In Bitinia gli Argonauti
aiutano il vate Fineo, cieco, a liberarsi dalle Arpie che lo puniscono per un’antica
colpa rubandogli il cibo; Zeto e Calais, argonauti con piedi alati figli di Borea,
inseguono le Arpie mettendole in fuga. In cambio gli Argonauti ottengono da Fineo
profezie sul proseguimento del viaggio. L’impresa più difficile è il superamento delle
rupi Simplegadi, che cozzano fra loro all’ingressi del Ponto schiacciando qualsiasi
cosa tenti di passare nel mezzo; davanti alla prua della nave Argo viene allora
liberata una colomba, che passa tra le rocce facendole cozzare tra loro, sicchè
quando le rocce si ritirano prima di un nuovo colpo la nave fila attraverso lo
spirsglio, con l’aiuto di Atena. Gli Argonauti giungono, dopo varie tappe, all’isola di
Ares, infestata dagli uccelli Stinfalidi, che hanno l’abitudine di bersagliare i viandanti
con le loro durissime penne, ma anche questo pericolo viene superato. Nell’isola
incontrano i figli di Frisso e di Calciope, sorella di Medea, e con il loro aiutono
giungono in Colchide.
LIBRO III: Erato, musa della poesia amorosa, è invocata in un altro proemio, affinchè
aiuti il poeta a cantare come Giasone conquistò il vello d’oro grazie all’amore di
Medea. La scena poi si sposta sull’olimpo, dove Era e Atena pregano Afrodite di far
intervenire Eros perché colpisca con i suoi dardi la giovane Medea; Afrodite
sorprende il figliolo mentre sta giocando ai dadi con il fanciullo Ganimede e bara,
come si addice a quel genietto. Rimproverato dalla madre, Eros promette di
riscattarsi: sceso sulla terra scocca la sua freccia contro il cuore di Medea, sicchè non
appena Giasone entra nella reggia di Eeta, la ragazza se ne innamora. Nel seguito del
libro il poeta descrive lo sbocciare dell’amore nell’animo di Medea. Nel frattempo
Giasone discute con il re le condizioni per ottenere il vello d’oro: Eeta gli impone di
aggiogare due tori spiranti fuoco e quindi di arare un campo, seminarvi denti di
serpente e affrontare i guerrieri nati da questi. Giasone riesce nell’impresa grazie ad
un filtro magico procuratogli da Medea, che lo rende invulnerabile alle fiamme dei
tori; è ancora Medea a suggerire a Giasone come fare per sbarazzarsi dei guerrieri
sorti dal suolo, cioè gettando tra loro una pietra, in modo che si uccidano
accusandosi reciprocamente.
LIBRO IV: I filtri di Medea tornano utili anche per addormentare il drago custode del
vello d’oro; dopo aver staccato quest’ultimo dalla quercia cui era appeso, Giasone
riparte insieme ai compagni, mentre Medea fugge nella notte per raggiungere
l’innamorato. Argo fila veloce sulla via del ritorno, ma Eeta invia il figlio Apsirto
all’inseguimento dei fuggiaschi. Apsirto riesce a raggiungerli, ma viene attirato in
agguato da Medea, cosicchè Giasone può trucidarlo. La rotta del ritorno si snoda in
un itinerario fantastico dal Daubio al Po e al Rodano. Nel mar Tirreno Circe, sorella di
Eeta, purifica dall’omicidio commesso i due innamorati, che poi scampano alle
Sirene, a Scilla e a Cariddi e giungono presso i Feaci, a Corcira, dove si sposano grazie
al Re Alcino. Quindi, spinti da una tempesta, approdano in Libia, dove sono costretti
a trasportare sulle spalle la loro imbarcazione per 12 giorni. Ripreso il mare,
giungono a Creta dove Medea, con la magia, uccide il gigante di bronzo Talo che
custodiva l’isola. Infine gli Argonauti fanno ritorno in patria.
Un altro aspetto consono alla sensibilità ellenistica è l’attenzione per l’interiorità dei
personaggi, analizzati nella complessità dei loro moti psicologici; qui la distanza da
Omero è immensa. Ai personaggi di Apollonio manca l’energia feroce che è
sostituita dall’autore da una complessa rete di vibrazioni psicologiche in cui si
avverte la mediazione della tragedia, in particolare euripidea. Nel libro III delle
Argonautiche, l’azione viene sospesa per far spazio all’indagine introspettiva della
passione di Medea per Giasone; la donna esprime bene il passaggio dagli schemi
della “civiltà di vergogna” arcaica a quelli di una “civiltà di colpa”. D’altra parte
Giasone appare tutt’altro che un comprimario; Medea è istintiva, psicologicamente
complessa, dotata di una sensibilità inquieta, tanto Giasone appare fragile ed
esitante. Giasone sembra il personaggio principale perché è privo di un’antagonista,
egli non si misura con nessun rivale non mostra la sua aretè in una sfida solitaria
contro il destino, non soffre, non è dotato di qualità morali. Lo si può interpretare
come una specie di antieroe, il cui valore consiste in quella componente di umana
fragilità che lo avvicina alla dimensione quotidiana. Nelle Argonautiche risulta
evidente la riduzione del mito da interpretazione complessiva dell’esistenza e
contenitore di valori civili o sociali. Alla società eroica che esige ad ogni costo la
pubblica affermazione di valore dell’eroe davanti alla comunità guerriera, si
sostituisce un mondo complessi, in cui l’amore diviene elemento fondamentale. In
questo senso Apollonio ha fato propria l’esperienza della lirica e della tragedia
euripidea, realizzando una fusione di generi. Le Argonautiche non sono solo
l’esercitazione di un poeta alessandrino, ma anche il tentativo di ridare slancio in
forme rinnovate a un genere letterario agonizzante.
11 La storiografia ellenistica
Se la storiografia del IV secolo proseguiva quella dei decenni precedenti, con l’epoca
di Alessandro inizia una nuova fase. I primi storici, da Erodoto a Senofonte, erano
stati storici della polis, poi l’impresa di Alessandro fece sì che gli orizzonti non solo
geografici ma mentali degli scrittori di storia prendessero un respiro più ampio; fra
III e II secolo, cominciò l’ascesa della potenza di Roma, capace di estendere la
propria egemonia su tutto il mediterraneo. In un quadro ambientale rinnovato, la
tradizione storiografica greca elaborò nuove tendenze senza mettere da parte i
modelli creati da Erodoto e Tucidide. La straordinaria personalità di Alessandro
contrassegnò la storiografia dell’epoca anche se restano solo pochi frammenti
inerenti alle imprese di Alessandro; un’idea può essere creata attraverso
compilazioni tarde: l’Anabasi di Alessandro di Arriano (II secolo d.C.), poi la Vita di
Alessandro di Plutarco (I-II secolo d.C.) e alcune sezioni della Biblioteca di Diodoro
Siculo (fine secolo I a.C.); in queste opere campeggia la personalità titanica di
Alessandro. La nuova storiografia nasce dall’ambiente della corte ed è soggetta alle
sue regole; inoltre è contrassegnata dai rapporti di amicizia che sussistono fra il re e
gli storici al seguito. E’ dunque una storiografia tendenziosa, piuttosto che
imparziale. Un’altra sua caratteristica è l’interesse per il meraviglioso, conseguenza
della penetrazione di Alessandro in India; ritroviamo qui l’approccio etnografico che
era già stato di Erodoto.
2 Polibio
2.1 La vita
Polibio, nato a Megalopoli in Arcadia intorno al 200 a.C., era figlio di Licorta,
personaggio di primo piano della lega achea; egli cominciò da giovane a partecipare
a varie missioni diplomatiche e militari e nel 169 a.C. fu eletto ipparco, carica
importantissima dopo quella di stratego. Il 168 a.C. costituì l’anno decisivo della
biografia polibiana: dopo la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna contro il re Perseo
di Macedonia, nelle città della lega prese il sopravvento la fazione filoromana, che
denunciò gli avversari per una presunta ostilità contro il potere di Roma. I Romani
vincitori appoggiarono il regolamento di conti interno chiesto dagli alleati: Polibio
stesso, venne condotto in Italia per giustificarsi di fronte al senato. In realtà il
processo non ebbe mai luogo e Polibio ottenne protezione dalla cerchia
dell’aristocrazia romana, il cui capo era la famiglia degli Scipioni; rimase a Roma,
sfuggendo ai vari conflitti in Etruria. Polibio e Scipione Emiliano fecero importanti
missioni come quella in Spagna (151 a.C.) e quella a Numanzia (133 a.C.). Dopo la
distruzione di Corinto (146 a.C.), Polibio rientrò in patria, maturò il progetto delle
Storie e morì intorno al 120 a.C. per caduta da cavallo.
Polibio definì la propria opera “storia pragmatica”, intendendo con questo termine
una storia di carattere politico-militare, rivolta ad analizzare la realtà
contemporanea e non le vicende di un remoto passato. La storia pragmatica,
secondo Polibio, comprende tre parti: lo studio accurato dei documenti e delle
memorie, l’osservazione diretta dei luoghi e degli eventi e infine l’esperienza della
politica. Il primo elemento è di relativa importanza; non a caso Polibio critica gli
storici che dipendono solo da fonti libresche, ma ritiene indispensabile la
conoscenza dei meccanismi della politica e dei segreti dell’arte militare. Pero Polibio
l’utilità della storia sta negli insegnamenti di politica: di qui la costante attenzione a
problemi particolari di tecnica di guerra. Nel complesso le Storie hanno una marcata
impronta politico-militare, ma è presente anche la componente geoetnografica,
dato che il teatro degli eventi narrati abbraccia il bacino del Mediterraneo. Polibio si
rivolge ad un pubblico esperto ed è consapevole che un lettore casuale, non sarà
interessato alla sua opera; la geografia serve a chiarire al lettore la natura dei luoghi
che fanno da sfondo all’azione storica. Più limitato è lo spazio offerto all’etnografia.
Per Polibio l’elemento capace di fare la differenza tra i Romani e gli altri popoli è la
forma costituzionale.
Polibio è il più teorico fra gli storici greci e spesso polemizza con i suoi predecessori
su questioni di metodo. Tuttavia dal punto di vista della teoria storiografica Polibio
non è un pensatore originale; l’impianto storiografico di base è sostanzialmente
tucidideo: allo storico ateniese risalgono la distinzione tra cause prossime e remote,
la contrapposizione tra una storiografia che si prefigge di dilettare il suo pubblico e
una storiografia utile a chi dalla storia desidera trarre un insegnamento. La storia è
concepita come insegnamento e il destinatario della sua opera è il desideroso di
apprendere. Se dal passato deriva una conoscenza che è utile per l’azione futura,
non manca lo spazio per una forma irrazionale: la tuke, ovvero la Sorte. Il libro Vi
illustra le istituzioni politiche di Roma in rapporto a una più grande teoria delle
istituzioni. Polibio distingue tre forme di governo primarie (monarchia, aristocrazia,
democrazia) e le rispettive degenerazioni ( tirannide, oligarchia e oclocrazia): la
costituzione mista rappresenta un momento di perfezione ideale. Lo storico delinea
quindi il ciclo in base al quale le forme di governo principali e le relative
degenerazioni sono destinate a succedersi secondo un processo naturale e
inevitabile; questo ciclo riproduce il ritmo biologico degli individui, ovvero nascita,
maturità, declino. Il modello di Roma appare come un esempio riuscito di
costituzione mista. Anche in questo caso il contributo personale di Polibio è limitato:
uomo politico e di azione più che pensatore. Descrivendo le basi del potere romani e
le ragioni del suo successo, Polibio tenta di renderlo accettabile al mondo greco,
mostrando che è inevitabile e legittimo. Polibio comprende bene che Roma è il
fulcro della storia futura e che è destinata a conservare a lungo il potere; è il primo
intellettuale che si pone programmaticamente al servizio di Roma in una prospettiva
di attivo collaborazionismo a fianco dei dominatori, inaugurando una stretta alleanza
tra ceto dominante romano e classe intellettuale greca destinata a costituire il
cemento della civiltà sino alla fine dell’epoca antica. Polibio è il primo storico a
mettere in prima posizione un mondo estraneo al proprio, un mondo di barbari – i
Romani- che non devono essere civilizzati ma hanno saputo organizzare uno stato in
modo nuovo
Dal punto di vista stilistico Polibio è un autore che utilizza una lingua piena di
elementi tecnici del linguaggio delle cancellerie, e si fonda sulla Koinè; lo stile è
disadorno anche se il nucleo dell’opera sta nella precisione dell’impianto
documentario. Polibio fu apprezzato nel periodo dal 264 al 146 a.C.; fu ripreso da
Livio e riscoperto in età umanistica da Leonardo Bruni, Poliziano e Machiavelli.
4 Età imperiale
La fine di un’era
Le cose cambiano molto nel secolo seguente, a causa dell'instabilità politica, della
crisi economica e delle calamità naturali come la peste. Il III secolo d.C., è un'età di
regresso culturale; proprio in quest'epoca si colloca l'ultimo grande movimento di
pensiero ossia il neoplatonismo.
Il cristianesimo è ormai un movimento importante, che sta costruendo un suo
sistema culturale in contrapposizione ai valori della società pagana: l'etica cristiana
primitiva, respinge alcuni elementi fondamentali della civiltà ellenica come lo sport,
la cura del corpo i giochi e i teatri; anche la poesia e l'arte sono viste con sospetto
per i loro contenuti legati alla religione pagana. Ma in seguito il cristianesimo
vittorioso si pensa che abbia accolto, nel suo seno, alcuni aspetti importanti della
cultura ellenica e li abbia fatti propri. Altri eventi legati alle contingenze storiche
portano fieri colpi alla cultura greca; il disastro peggiore fu la distruzione della
Biblioteca di Alessandria avvenuta nel 380 d.C. ad opera delle truppe
dell'imperatore Aureliano, impegnate a domare una rivolta. Cominciarono poi le
invasioni barbariche, che devastarono città d'arte intatte e ridussero la Grecia un
mucchio di rovine (come il tempio di Artemide a Efeso, venne dato alle fiamme dai
Goti). La pestilenza e la crisi economica finirono di compiere l'opera di
spopolamento e di impoverimento. Alla fine di questa bufera, cioè all’inizio del IV
secolo, si affermano nuovi gruppi dirigenti di formazione assai diversa rispetto a
quella dei colti imperatori provenienti dalle file dell’aristocrazia. Tra gli imperatori
del III secolo troviamo soldati poco più che analfabeti oppure esponenti del mondo
greco-siriaco. All’inizio del IV secolo, il mondo greco-romano è fortemente mutato
(inizia il periodo detto tardo-antico): in questo ambiente il cristianesimo si è imposto
definitivamente e la classe dirigente è composta da uomini di bassa estrazione
sociale, giunti al potere grazie ai loro meriti militari. Il cristianesimo vittorioso
accetta l’eredità culturale dei Greci e diventa patrocinatore della loro cultura. E’ in
quest’epoca che si verifica l’estrema reviviscenza della poesia greca, grazie al
recupero del genere epico: è un’epica fastosa e un po’ barbarica, il mito può essere
reincorporato nelle opere di autori cristiano sotto forma di favola destinata
all’intrattenimento. Nel frattempo è sorta la capitale di Costantinopoli, qui il greco è
la lingua della popolazione e della corte; nel 425 d.C. l’imperatore Teodosio II fonda
un’università a Costantinopoli, che diventa centro della nuova cultura, cristiana ma
erede della grecità classica, controllato dallo Stato. Inoltre la cultura si restringe a
un’elite sempre più assediata alle barbarie. L’impero romano d’Oriente, greco e
cristiano, inizia la sua storia autonoma: nel 529 d.C. il restauratore dell’Impero,
Giustiniano, sopprime la scuola filosofica di Atene. Tuttavia alla corte di Giustiniano
gli uomini di cultura leggono Omero, scrivono poesie d’amore con lo stesso tono dei
poeti alessandrini e si esprimono nella lingua letteraria degli attici.
16 Plutarco e la biografia
1 La biografia antica
Il genere letterario della biografia si sviluppò a partire dal IV secolo a.C. L’esempio
più antico è l’Evagora di Isocrate, scritto intorno al 370 a.C.: si tratta di un encomio
al re di Cipro, un’opera che si situa a metà strada fra la biografia e il panegirico. Poco
dopo, Senofonte scrisse su questo modello l’Agesilao, per celebrare le azioni del re
spartano. Durante i secoli V e VI a.C. si andò affermando una nuova coscienza storica
che influenzò anche la biografia; è in quest’epoca che si acquisisce l’idea che le
grandi personalità non bastano a fare la storia. Inoltre la nascita della biografia come
genere autonomo presuppone alcuni orientamento di fondo come: l’individualismo
e la nozione di carattere inteso come fenomeno unitario. La biografia antica si
differenzia dalla storia per la consapevolezza di avere una finalità diversa; non a caso
è patrimonio dei filosofi. Il resoconto di un’esistenza illustre non ha lo scopo di
narrare aspetti specifici o monografici della storia, ma tende a proporre delle figure
da analizzare in tutti gli aspetti psicologici e morali.
2.3 I Moralia
Il titolo Moralia si riferisce ad una raccolta di scritti di varia estensione, che
rispecchiano i numerosi interessi di Plutarco (storia naturale, critica letteraria,
etica, retorica) e testimoniano la prodigiosa erudizione dell’autore. La raccolta
dei Moralia comprende saggi brevi e trattazioni di natura epistolare o
declamatoria, in cui prevale la forma del dialogo, di ispirazione platonica.
Tuttavia a differenza di Platone, che poneva Socrate al centro del dialogo e gli
affidava il compito di orientare la discussione, Plutarco compone opere aperte,
cui tutti i personaggi concorrono in pari misura. Mentre nei dialoghi platonici si
trovano un vincitore e un vinto, Plutarco, che non ama la conflittualità, privilegia
la dialettica fra le diverse posizioni, piuttosto che concludere il conflitto a favore
dell’uno o dell’latro interlocutore; nel dialogo platonico ci sono serrati scambi di
battute, in quello plutarcheo ciascuno dei personaggi tende a sviluppare lunghi
discorsi. Il gruppo più numeroso è rappresentato dagli scritti di carattere etico.
Nella raccolta troviamo opuscoli in cui Plutarco si occupa dell’analisi delle
diverse malattie dell’animo o delle possibili cure (Il controllo dell’ira, La curiosità,
La cupidigia); i Precetti sul matrimonio, raccolta di aneddoti e aforismi che
mostrano la via a una durevole felicità coniugale; la Consolazione alla moglie,
composta alla morte della figlioletta; l’Amatorio, in cui la concezione platonica
dell’eros come guida verso la conoscenza viene aggiornata alla mentalità del
mondo greco-romano (viene svalutata la passione omoerotica).
Plutarco dedicò alcuni scritti all’interpretazione e alla disamina critica dei filosofi
più antichi: tra quelli di argomento platonico ci sono giunti La generazione
dell’anima nel Timeo e le Ricerche su Platone; altre opere testimoniano un
atteggiamento critico nei confronti dell’insegnamento storico (Le idee comuni
contro gli storici) ed euripideo (Non si può vivere felici secondo Epicuro).
Un intento didascalico e pedagogico appare in Come si studiano i poeti, dove
Plutarco indica in quali modi la poesia possa risultare utile per i giovani; nello
scritto Come si ascolta espone, rivolgendosi agli allievi, il modo corretto per
ascoltare i maestri. Interessanti sono due scritti, forse non di paternità
plutarchea: L’educazione dei figli e Sulla musica.
Tra gli scritti politici ci sono i Precetti politici, dove sono offerti consigli a un
amico in procinto di assumere una carica pubblica, e l’opuscolo Gli anziani
devono fare politica? , che contiene un invito all’impegno civile e politico anche a
uomini più anziani.
Fra i trattati di argomento teologico ci sono i Dialoghi delfici: L’eclissi degli
oracoli, che ha per tema il declino degli oracoli contemporanei, Gli oracoli della
Pizia, Sulla “E” di Delfi, che esamina diverse ipotesi riguardo al segno “E” inciso
all’ingresso del tempio. Plutarco fu per molti anni sacerdote a Delfi; i Dialoghi
delfici costituiscono una difesa della religione greca tradizionale in un’epoca in
cui questa era messa in crisi dalle religioni salvifiche provenienti dall’Oriente. Ha
notevole importanza per la storia Iside e Osiride, che espone i miti relativi a due
fra le figure più significative del pantheon egiziano, qui Plutarco cerca le
corrispondenze fra il mito egiziano e quello greco; I ritardi della punizione divina
affronta invece un tema arcaico, quello di conciliare l’esistenza di dei giusti che
operano nel mondo con la giustizia che invece sembra regnare incontrastata.
Ci sono anche testi scientifici come Il volto sul disco della luna (composto da
Keplero) e le Cause naturali, relativi ai problemi della medicina e della biologia.
Ci sono scritti di carattere antiquario come le Cause romane e le parallele Cause
greche, che espongono usi e costumi tipici delle due società, e nell’opuscolo
Mulierum virtutes, che raccoglie imprese eroiche compiute da donne.
Di argomento letterario sopravvivono solo un astioso libello che prende di mira
Erodoto (La maldicenza di Erodoto), accusato di ostilità verso i Beoti (Plutarco
era nato in Beozia), e il Confronto fra Aristofane e Menandro, che si conclude
proclamando la superiorità di Menandro e della commedia nuova.
La grande varietà di interessi della dottrina plutarchea si rivela nelle Questioni
conviviali: l’uso del simposio o banchetto come cornice letteraria per discussioni
di vario genere che non è certamente nuovo.
17 La seconda sofistica
1 I grandi comunicatori
L’Alessandro o il falso profeta, che risale agli ultimi anni di Luciano, è un libello
destinato a demolire la personalità do un santone che aveva fondato un culto
personale nella città di Aboneutico in Paflagonia, dove convenivano folle di pellegrini
che ivi si manifestavano. La storia di questo personaggio, che Luciano racconta
seguendo lo schema delle biografie antiche (giovinezza, formazione, carattere e
imprese, sino alla morte), è in realtà la carriera di un truffatore che, grazie alla sua
intelligenza senza scrupoli, riuscì ad allestire una vera e propria industria religiosa
che produceva un colossale giro d’affari, con la vendita degli oracoli. Questo è il
ritratto che Luciano delinea di un personaggio che rappresenta un fenomeno di
notevole rilevanza sociale e antropologica; il santuario fondato da questo
Alessandro continuò a prosperare anche dopo la sua morte, sino alla metà del III
secolo d.C. In questo libello Luciano trasforma un fenomeno di rilevanza sociale
nello studio di un carattere, dove l’eroe negativo grandeggia con tutte le sue male
arti; tuttavia Luciano si preclude la possibilità di analizzare il riemergere
dell’irrazionale che filtra fra le crepe di una società in apparenza ricca.
L’Amante della menzogna è un dialogo che tocca un tema antico della cultura
popolare, ovvero le credenze su mostri e fantasmi. Quest’opera si colloca nel filone
degli scritti di Luciano dedicati alla confutazione delle credenze tradizionali e alla
serrata polemica contro l’irrazionalismo dilagante.