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La lirica ionica

2.1 Una società dinamica: il mondo ionico


Le colonie ioniche, sulle coste dell’Asia Minore, si svilupparono economicamente tra
l’VIII e VI secolo a.C., infatti si estese il fenomeno dell’urbanizzazione e si adottò la
moneta con una conseguente crescita di classi sociali come mercanti e artigiani. La
compresenza di diversi gruppi sociali in conflitto tra loro, costituì non solo la culla di
nuove esperienze ma anche la possibilità di un pensiero che si opponeva allo statico
modello tradizionale eroico-aristocratico. Per tutta l’epoca arcaica la Ionia fu
l’ambiente culturale più evoluto del mondo greco, in Ionia prese forma la poesia
omerica e maturarono il giambo e l’elegia, qui piantano anche le radici la filosofia e
la storiografia. La lirica ionica predilesse l’esecuzione monodica rispetto a quella
corale, questo fa scorgere le spirito individualistico in contrapposizione con la
società collettivistica del mondo dorico.
2.2 Archiloco
Nacque sull’isola di Paro nella prima metà del VII secolo a.C., suo padre si chiamava
Telesicle ed era un aristocratico, mentre sua madre era una schiava di nome Enipò.
Le notizie sulla vita di Archiloco provengono in parte dalla sua opera e da biografi
antichi: in particolare da due iscrizioni ritrovate a Paro, dove il poeta ricevette onori
eroici. Una di queste iscrizioni, dedicata da Mnesiepe, sacerdote di un luogo caro ad
Apollo, alle Muse e ad Archiloco, offre una biografia romanzata del poeta: inviato
dal padre a pascolare una mucca, avrebbe incontrato le Muse che dopo aver
scherzato con lui, sarebbero scomparse insieme alla mucca, donandogli una lira.
Emigrato dalla patria, Archiloco si trasferì a Taso, colonia della madrepatria, dove
partecipò alle lotte civili che caratterizzarono il periodo dell’espansione coloniale
greca; alcuni filologi, ritenevano che Archiloco fosse un soldato mercenario. In realtà
egli fu un aristocratico che prese parte da protagonista alle vicende della
madrepatria e della lotta politica nel periodo dell’espansione coloniale. Altri
elementi biografici trattano dei spregiudicati amori con le due figlie di Licambe e il
litigio con quest’ultimo che si era rifiutato di concedergli in sposa una delle due
ragazze, Neobule. Si pensa che Archiloco morì in battaglia combattendo contro la
gente di Nasso e che la Pizia cacciò dal tempio di Apollo a Delfi l’uccisore del poeta
ovvero Calonda. La sua produzione poetica, ne sopravvivono circa 300 frammenti,
era stata raccolta dagli editori antichi sulla base del metro (elegie, giambi, trochei,
epodi, asinarteti, canti) e questo indica la varietà dei suoi temi. Tratta la “poesia del
biasimo”, fa riflessioni moraleggianti attraverso i monologhi e spesso si proietta da
protagonista al centro del testo poetico, diventa così soggetto della propria poesia.
L’originalità do Archiloco rispetto alla tradizione, si manifesta nell’anticonformismo
con cui si misura con la morale aristocratica dell’onore: in un frammento famoso
ammette di aver abbandonato il proprio scudo, gesto che nella prospettiva
tradizionale, era la forma estrema di abiezione. Lo stesso anticonformismo traspare
nel frammento in cui viene deriso un capitano borioso; il modello ideale del
guerriero omerico è quello che sarà detto “bello e valente” mentre per Archiloco il
comandante deve avere coraggio e non essere virtuoso nell’aspetto. Un esempio
archilocheo di poesia del “biasimo” si legge nell’ “epodo di Colonia” dove viene
descritto un convegno galante tra il poeta e la sorella di Neobule all’interno di un
tempio. La scena si apre con la fanciulla che sta tentando di smorzare le attenzioni
del suo interlocutore e alla fine la vicenda si concluderà in maniera positiva per il
seduttore. L’epodo ha una finalità diffamatoria nei confronti dell’odiato Licambe e di
ambedue le sue figlie, la cui rispettabilità verrà distrutta da questa performance.
Un altro esempio di poesia del biasimo è quella dell’“epodo di Strasburgo”, nel
papiro si legge il nome di Ipponatte ma oggi si ritiene archilocheo sulla base di
valutazioni stilistiche. Si tratta di un’invettiva contro un amico malvagio che ha
infranto un giuramento; il poeta si augura che il traditore naufraghi e sia catturato
dai Traci. Tema tipicamente archilocheo è anche la riflessione interiore, espressa
sotto forma di monologo o esortazione, simile meditazione di carattere etico rientra
negli schemi della letteratura simposiale. Nell’ “elegia del naufragio”, composta in
occasione di un disastro marittimo in cui erano periti vari concittadini, Archiloco
cerca di creare un lamento funebre destinato ad una pubblica cerimonia. Nei
frammenti di carattere erotico, non mancano momenti dedicati ai toni più violenti
della sessualità, alle volte accade anche che il tono si addolcisce nella
contemplazione di un gesto. In Archiloco, l’amore è presentato come una corrente
di energia che spezza ogni difesa psicologica.
2.3 Callino e Mimnermo
Callino di Efeso visse nella prima parte del VII secolo a.C. e fu contemporaneo ad
Archiloco, importante per la sua cronologia ricordare l’invasione devastante dei
Cimmeri del 670 a.C. in Asia Minore. L’elegia di Callino, ne resta un solo frammento,
è di carattere parenetico perché esorta la gioventù a battersi in difesa della patria
minacciata; lo stile e i contenuti di Callino riflettono quelli della poesia epica.
Posteriore a Callino fu Mimnermo, nato a Colofone o forse a Smirne, nelle coste
dell’Asia Minore, e probabilmente vissuto tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo
a.C. Si pensa che Mimnermo sia stato un flautista e un esecutore delle sue stesse
composizioni, si pensa anche però che possa essere stato un aristocratico cultore di
musica e frequentatore di simposi. Mimnermo fu anche cantore delle gesta dei
Greci di Smirne nelle guerre contro Gige, re dei Lidi morto attorno al 650 a.C.
Mimnermo celebrava dunque le vicende della generazione precedente, la sua opera
manifestava una tendenza “prestoriografica”. Le sue elegie furono organizzate in
due libri: uno intitolato Nannò dal nome di un flautista a cui erano dedicate le
elegie. Mimnermo ci è noto prinncipalmente come poeta d’amore, del rimpianto e
della nostalgia per la giovinezza fuggente. Non a caso i due principali frammenti di
Mmimnermo sviluppano da un lato la lode della giovinezza e dall’altro il biasimo
della vecchiaia che ispira solo orrore. L’altro frammento maggiore, sviluppa una
famosa similitudine omerica che tratta ancora una volta della fugacità della vita; il
pubblico del simposio ricercava volentieri toni ed emozioni sottili dato che mirava a
vivere l’esperienza del presente con totale intensità.
2.4 Semonide di Amorgo e Ipponatte
Semonide nacque a Samo, ma è detto di Amorgo per aver partecipato alla
fondazione di una colonia in quest’isola; visse probabilmente nella prima metà del
VII secolo a.C. Compose elegie e giambi, i filologi alessandrini lo collocarono infatti
nel canone dei poeti giambici insieme ad Archiloco ed Ipponate. Dell’opera
Archeologia dei Sami, sappiamo solo che rientrasse nel filone della poesia
storicheggiante, come la Smirneide di Mimnermo. Di Semonide ci sono pervenuti
una trentina di frammenti relativi alla sua produzione giambica; il frammento più
significativo è il “biasimo delle donne” che consiste in una satira antifemminile. Ogni
donna viene paragonata spregiativamente, con la sola eccezione della donna ape, a
un animale o ad un elemento naturale, sulla base del carattere. Il passo è un
documento dell’atteggiamento misogino radicato presso il pubblico maschile del
simposio.
Ipponatte di Efeso visse nella seconda metà del VI secolo a.C. patì un esilio presso
Clazomene, in Ionia, a causa della sua attività politica e visse in ristrettezze, secondo
i versi autobiografici. La produzione di Ipponatte è giambica, si pensa abbia
inventato il verso “coliambo” o “giambo zoppo”. Ci sono pervenuti circa 200
frammenti di minima dimensione. L’orizzonte di Ipponatte è la città, un mondo
caotico; Archiloco è stato il suo punto di riferimento. La poesia di Ipponatte è cruda
e realistica. Ermes, amico dei ladri, occupa in Ipponatte lo stesso ruolo che Atena ha
per Odisseo; spesso è Ipponatte stesso che si rivolge alla divinità, invocando il
soccorso di un paio di sandali o del denaro. Si tratta in realtà di un’esagerazione
comica che il poeta fa per delineare la propria condizione di esiliato. Famosa era la
sua rissa verbale, caratterizzata da insulti alla madre, minacce, pugni, contro lo
scultore Bupalo e suo fratello Atenide perché, il primo tra questi, aveva disegnato in
maniera troppo deforme il corpo de poeta. Ipponatte è stato interpretato in
maniera diversa: come moralista dei costumi, come poeta maledetto e realistico;
altri lo reputano un aristocratico che ha in odio il ceto commerciale, infatti, le sue
scelte letterarie lo classificano nel livello aristocratico.
2.5 Solone
Solone nacque ad Atene attorno al 640 a.C., partecipò alla vita politica e nel 594 a.C.
fu eletto arconte con poteri di pacificatore, in base ai quali riformò la costituzione
ateniese. I suoi due provvedimenti importanti furono lo “scuotimento dei pesi” che
servì a cancellare i debiti e le ipoteche che gravavano sui servi e sui piccoli
proprietari terrieri e abolì la schiavitù per debiti, garantendo un base di uguaglianza
tra i cittadini; e il riordino della cittadinanza su base censitaria in modo da fissare
diritti e doveri dei cittadini, dividendoli in quattro classi a seconda della ricchezza e
della capacità di armamento. Solone fu autore di elegie, come testimonia Diogene
Laerzio, ma anche di giambi e altre composizioni. L’elegia di Solone è di carattere
politico, nei suoi versi delinea il proprio progetto civile di equità e concordia fra i
cittadini e difende il proprio operato di legislatore ponendosi come mediatore tra le
parti in nome della Giustizia. L’Elegia alle Muse è la composizione solonica più
estesa, è una preghiera alle Muse che sviluppa la complessiva visione della vita del
poeta: la giustizia divina e la punizione che spetta ai colpevoli. Si è supposto che
Solone componesse per pubbliche esecuzioni davanti al popolo riunito, altri hanno
ipotizzato che il suo uditorio fosse il simposio. In realtà alcune composizioni come
l’Elegia Salamina, fu composta per il pubblico degli Ateniesi che doveva essere
esortato alla conquista di quest’isola, mentre altri componimenti celebravano i
piaceri dell’uomo dotto ateniese come i cavalli, gli amori per i ragazzi e la caccia. Lo
stile di Solone è di tipo arcaico: ci sono elementi di derivazione omerica, il ricorso
alla paratassi con un andamento circolare della narrazione. Il tono è piano, non vi
sono slanci della fantasia perché si mantiene un equilibrio espressivo. La lingua di
composizione è lo ionico letterario ovvero il linguaggio convenzionale della
produzione giambica ed elegiaca; viene valorizzato anche il dialetto locale di Atene.
2.6 Teognide
Nacque a Megara Nisea,città tra Atene e Corinto, e visse nel VI secolo a.C.
raggiungendo il massimo livello letterario fra il 544 e 541 a.C.. Teognide fu legato
all’oligarchia terriera e avverso all’emergere dei nuovi ceti sociali, motivo che lo
portò alla confisca dei beni e all’esilio a Sparta e poi in Sicilia. Sotto il nome di
Teognide è stata tramandata una silloge (l’unico lirico con una raccolta completa)
detta Corpus Theognideum di circa 1400 versi divisi in due libri, il secondo dei quali
dedicato all’amore efebico. Bisogna ricordare che durante il simposio i convitati
dovevano agire attivamente: c’erano infatti indovinelli formulari in versi e dialoghi
con botta e risposta su un tema proposto; altre volte, proposto un tema, i convitati
dovevano improvvisare su di esso dei versi corretti rispetto a ciò che era stato
precedentemente recitato da un altro amico del simposio; spesso il pubblico dava
anche un premio al migliore. Nel Corpus Teognideo è presente questo materiale
poetico in una forma ormai fissata; non è possibile stabilire quando si sia formata la
raccolta di Teognide perché già dal V secolo a.C., circolavano antologie simposiali
che racchiudevano i temi tipici, come amore e vino, e le massime morali. La raccolta
di Teognide è probabile che si fosse formata in età ellenistica (secoli III-I a.C.) con
l’aggiunta di versi di età posteriore ma la parte riconosciuta autentica è quella
iniziale perché si trova il “sigillo di autenticità” con il nome del poeta e il nome di
Cirno, il ragazzo da lui amato. Poeta e uditorio condividono le stesse concezioni;
uniforme appare dunque la tematica delle elegie che tocca gli aspetti dell’etica
aristocratica come l’onore, il carattere innato della virtù, il disprezzo per i tempi
nuovi, le gioie del simposio e l’amore per i ragazzi. L’insieme dei distici teognidei
propone il codice di comportamento dell’aristocratico e affianca a quest’ultimo
anche temi come la brevità della vita e la capacità di godersela in aniera lieta. La
poesia simposiale assume quindi un valore paideutico perché trasmette trasmette il
codice di sapienza custodito nella cerchia degli aristocratici. Quanto alla politica,
Teognide delinea la fisionomia di un aristocratico preoccupato per l’ascesa dei ceti
inferiori e sostenitore di una società elitaria.
2.7 Anacreonte
Anacreonte nacque intorno al 570 a.C. a Teo, divenuto poeta affermato, venne
invitato presso la corte del tiranno Policrate di Samo e dopo la morte di quest’ultimo
si trasferì ad Atene presso Ipparco figlio di Pisistrato e quando anche i tiranni furono
cacciati da Atene, si trasferì in Tessaglia, ospite degli Alevadi. Anacreonte era
dunque un poeta cortigiano, ricercato per la sua fama che morì in età tarda dopo
aver fatto ritorno nella nativa Teo. La fama di Anacreonte rimase viva e diede nome
alle tarde imitazioni delle “anacreontine”; egli offre un repertorio di temi e
personaggi quotidiani che sono affini con il mondo della commedia nuova: donne e
uomini del popolo o ancora la ragazza di Tracia simile ad una puledra selvaggia ma in
attesa di un esperto cavaliere che la doni. Anacreonte tratta di un tipo di amore
disincantato; per il poeta Eros non è una primordiale energia generativa ma lo
paragona ad un genietto dispettoso ed incostante. Per Anacreonte, inoltre,
l’esperienza d’amore viene smorzata del suo violento desiderio: Cleobulo,
corteggiato dal poeta, fu protagonista di versi che trattavano di scene ironiche ed
eleganti e non più passionali. Lo stile di Anacreonte è facile e leggero, la sua lingua è
uno ionico letterario molto evoluto.
3. La lirica a Sparta
3.1 L’ambiente dorico
Nonostante Sparta fosse abitata da cittadini-soldato con una costituzione di tipo
aristocratico-militare, il carattere conservatore della città non impedì, in epoca
arcaica, lo sviluppo della poesia. La vita poetico-musicale è documentata dalle feste
come le Gimnopedie o “danze di giovani nudi”, oppure le Carnee, cioè festival
musicali. Altre occasioni di poesia erano i simposi o le cerimoni d’iniziazione che
diedero luogo a una produzione elegiaca di carattere parenetico, incentrata sulla
figura di Tirteo. A Sparta il poeta era un tecnico della comunicazione che poneva la
propria arte al servizio della collettività; la poesia spartana è caratterizzata dalla
superiorità indiscussa della lirica corale, cioè del canto collettivo, sull’esecuzione a
solo. IL DIALETTO DORICO RIMASE DA QUI IN PONE IL DIALETTO DELLA LIRICA
CORALE. Una posizione fondamentale nell’organizzazione della vita culturale
spartana fu occupata da Terpandro di Lesbo, inventore della cetra a sette corde, e
Taleta di Gortina, organizzatore delle prime Gimnopedie; entrambi i poeti furono
attivi nel VII secolo a.C. e di loro non è conservato quasi nulla. Più note solo le figure
di Alcmane, che si specializzò in canti destinati a cori di fanciulle, e del poeta Tirteo,
collocabili entrambi nella seconda metà del VII secolo a.C. Dopo il 600 a.C. circa
questa ricca vita culturale sembra essersi inaridita e lo Stato spartano cominciò a
chiudersi in se stesso, nel tentativo di conservare l’equilibrio politico ed economico.
3.2 Tirteo
Tirteo visse attorno alla fine del VII secolo a.C. durante la seconda guerra messenica.
Alcune leggende attiche lo dicevano ateniese: secondo una tradizione già nota a
Platone, gli Spartani, in difficoltà con la guerra, per consiglio dell’oracolo di Delfi,
chiesero agli Ateniesi un comandante e questi per dileggio inviarono Tirteo, zoppo e
folle ma compositore di versi che diedero coragio agli Spartani tanto da condurli alla
vittoria. Tirteo in realtà fu un cittadino spartano a pieno diritto, sviluppò la sua
poesia nell’ambiente degli “uguali”, ovvero dei cittadini che formavano l’aristocrazia
militare. Le sue elegie non sono narrative ma parenetiche e sono destinate alla
comunità militare; secondo una testimonianza di Licurgo, gli Spartani avevano
emanato una legge secondo la quale l’esercito, prima della battaglia, doveva
ascoltare l’esecuzione delle elegie di Tirteo. Le opere di Tirteo furono raccolte in
cinque libri di elegie e canti di guerra; sappiamo il titolo di due raccolte di
argomento parenetico e guerresco: “EUNOMIA”(BUON GOVERNO),che celebrava la
costituzione spartana, e “UPOTECAI”(ESORTAZIONI AL COMBATTIMENTO). Integra è
l’elegia che appartiene alle Esortazioni e che tratta di come la virtù individuale si
manifesti all’interno della falange di opliti che combattono fianco a fianco. L’idea
centrale è quella della vergogna che si riversa sui giovani che fuggono in battaglia,
lasciando senza soccorso i vecchi. Altri frammenti celebrano i fasti della dinastia
spartana e del re Teopompo, conquistatore della Messenia e deridono la sorte dei
vinti. Due altre estese elegie contengono scene di battaglia ed esortazioni al
coraggio.
3.3 Alcmane
Secondo alcuni sarebbe nato a Sardi, in Ionia, altri lo dicono spartano; nonostante
ciò, l’attività poetica di Alcmane va collocata nell’ambiente di Sparta. La sua poesia è
prevalentemente corale e il dialetto è il dorico, diverso da quello del parlato e molto
vicino ad una lingua letteraria. Alcmane si specializzò in PARTENI, o canti di fanciulle,
destinati all’esecuzione da parte di cori femminili; questi canti si svolgevano durante
le feste dei gruppi di ragazze, nelle varie fasi della loro educazione, questa è
testimonianza del fatto che, nella Sparta arcaica, le donne godevano della loro
libertà. L’esempio più ampio della poesia di Alcmane si legge su un papiro (PAPIRO
DEL LOUVRE) trovato a Saqqara in Egitto nel 1855, questo testo secondo alcuni
sarebbe il canto per un rito celebrato alle prime luci dell’alba in onore di una dea ,
secondo altri sarebbe la celebrazione di un matrimonio simbolico tra due fanciulle.
Tali matrimoni rientravano tra le pratiche omoerotiche rituali testimoniate sia nei
gruppi maschili sia in quelli femminili nel corso dei riti di passaggio. Un altro papiro
del secolo I d.C.(PAPIRO DI OSSIRINCO),dopo l’invocazione iniziale alle Muse, passa a
lodare una ragazza di nome Astimelusa, che si intravede nel gruppo delle compagne
danzanti. Alcmane scrive anche i così detti NOTTURNI, frammenti che delineano la
cornice di una festa notturna o che istituiscono un paragone tra la calma solenne
della notte e l’agitazione psicologica di qualche personaggio. Un’altra festa notturna,
si svolge sui monti dove una donna prepara una gran forma di caccio con latte di
leone; questa scena ripropone un tipico rituale dionisiaco perché questo tipo di rito,
comportava l’isolamento sui monti e danze orgiastiche durante le quali le fedeli si
sentivano unite con la divinità. Nella poesia di Alcmane, ci sono momenti
autoreferenziali, in cui il poeta parla di se stesso enunciando i principi della propria
arte come il fatto che la poesia è mimesi della natura. La produzione di Alcamane,
però, descrive anche i cibi ed elenca i vini, questo perché a Sparta, c’erano pasti
collettivi per la comunità maschile dove i poeti potevano accompagnare con i loro
VERSI GASTRONOMICI, i banchetti. Il CERILLO, invece, è un preludio in esametri lirici
da accompagnare con la cetra; una leggenda popolare sostiene, insieme al testo di
Alcmane, che le femmine degli alcioni reggessero sulle loro ali i maschi, quando
questi diventavano troppo vecchi per volare. Se l’io parlante coincide con Alcmane,
forse il poeta anziano parla di se stesso rimpiangendo la giovinezza perduta.
4. La lirica eolica
4.1 Una brillante civiltà
Tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. l’isola di Lesbo fu la sede di poeti come
Saffo e Alceo. Le loro composizioni erano cantate dai poeti stessi e accompagnate
dalla lira, per questo motivo questo tipo di composizione veniva chiamata “melica”.
La tradizione di Lesbo era quella di usare come lingua locale, cioè come lingua
poetica, il dialetto eolico. Saffo e Alceo erano di ceto aristocratico e la loro poesia
nasceva per rispondere alle esigenze di questo gruppo; Saffo componeva per le feste
di ambiente femminile cui apparteneva (il tiaso) e forse era una poetessa che
scriveva per committenza, mentre, il pubblico di Alceo era formato dal gruppo dei
compagni di parte (l’eteria) riuniti a banchetto.
4.2 Saffo
Saffo nacque a Ereso nell’isola di Lesbo nella seconda metà del VII secolo a.C. ma
visse quasi tutta la sua vita nella città di Mitilene. Sposò un certo Cercila di Andro ed
ebbe una figlia, Cleide, a cui dedicò due frammenti. Si dice che fossse brutta, bassa e
scura di pelle; si pensa che sia morta perché la poetessa, ormai attempata, si
sarebbe precipitata dalla rupe Leucade per amore, non corrisposto, del marinaio
Faone. Le odi di Saffo, in dialetto eolico, furono raccolte dagli alessandrini in nove
libri; sopravvivono due odi e una serie di brevi frammenti. Il fulcro della vita di Saffo
è l’ambiente del TIASO che la poetessa dirigeva: un’associazione femminile collegata
al culto di Afrodite, qui si compiva per le allieve di Saffo un’educazione incentrata sui
valori che la società aristocratica richiedeva come: amore, raffinatezza, grazia e
canto. I versi di Saffo celebrano questi momenti e accompagnano le feste comuni, le
danze, le preghiere alla dea protettrice ecc. I legami tra Saffo e le sue allieve non
erano solo spirituali: l’amore tra le ragazze del gruppo ha un significato paideutico
dal momento in cui Eros opera nelle più varie forme. Saffo, con la sua poesia, tratta
del rito nuziale espresso attraverso l’epitalamio, che accompagnava le cerimonie
matrimoniale e anche della vita della famiglia. Il mondo delineato da Saffo propone
un ideale di vita di grazia raffinata, a dominare la filosofia erotica della poetessa, è
soprattutto la pena cui l’amore sottopone lo spirito. La mirabile ODE AD AFRODITE,
che apriva il primo libro di Saffo, ci è giunta integralmente grazie alla citazione di
Dionigi d’Alicarnasso. Il carme assume la forma di un inno che non ha Afrodite al
centro della composizione ma la poetessa e il suo mondo affettivo; il canto si svolge
tra le fanciulle del tiaso riunite davanti alla statua della dea, che sembra animarsi al
punto da riuscire a parlare. A conservare per intera un’altra ode, ODE DELLA
GELOSIA, di Saffo è l’Anonimo del Sublime. L’esordio descrive la scena d’intimità tra
un uomo e una donna che dura un attimo, in quest’attimo però vengono descritte
tutte le emozioni che esplodono in chi si sente escluso e spia la scena. L’esperienza
interiore si traduce in sintomi fisici. Per alcuni questo carme è un epitalamaio, come
si deduce dalla figura maschile lodata per il privilegio di sedere accanto alla ragazza
che fa battere il cuore di Saffo; per altri si tratta di un corteggiamento in cui si
analizzala mescolanza di sofferenza e piacere della persona innamorata. La
contrapposizione tra l’etica maschile della guerra e i valori femminili del tiaso è
oggetto di un’ode, LA COSA PIU’ BELLA, il cui esordio contiene un elenco di elementi
accostati tra loro per trasferire l’attenzione su quello maggiormente valorizzato.
L’ode identifica il suo modello mitico nella figura di Elena, portatrice dei valori
femminili. Il tema della memoria, che conclude l’ode, si collega ad un valore del
gruppo di Saffo: un amore non si dimentica ma continua ad esistere nel ricordo,
anche quando la giovinetta è costretta ad abbandonare il tiaso per le nozze. Il
rapporto tra le ragazze del tiaso è destinato a conoscere una fine, l’amore eterno
risulta estraneo alla poesia di Saffo infatti l’addio non è venato di disperazione ma di
una sottile malinconia. Il FRAMMENTO 55 VOIGT è l’applicazione della poesia del
biasimo ad un ambiente femminile, qui viene ricordato che chi è escluso dalla
poesia, è escluso dal ricordo. Lo spazio della notte è caratteristico in Saffo non solo
per un’ambientazione di silenzio e marginalità psicologica, ma anche perché durante
la notte avevano luogo molte feste della comunità femminile. Gli EPITALAMI (cantati
durante la processione che accompagnava gli sposi alla soglia della stanza e al loro
risveglio il mattino successivo) sono canti per cerimonie nuziali composti su
committenza, che fanno parte della produzione poetica di Saffo e che venivano
eseguito da un coro di fanciulle. Alcune scoperte papiracee hanno scoperto che
Saffo abbia scritto anche racconti mitici come quello che descrive le nozze di Ettore e
Andromaca; inoltre Saffo ha dedicato versi al fratello Carasso e alla figlia Cleide bella
come i fiori d’oro. Per la poetessa l’amore appara come una forza possente e
inevitabile, come un’esperienza psicologica che sconvolge una persona ponendola in
conflitto con se stessa, per questo motivo, i suoi versi d’amore possiedono, spesso,
un timbro drammatico, in contrasto con l’equilibrio formale.
4.3 Alceo
Alceo nacque a Mitilene negli ultimi decenni del VII secolo a.C. e le sue vicende sono
legate a Pittaco, uno dei sette sapienti di Grecia. Insieme ai fratelli di Alceo, Pittaco
eliminò il tiranno Melancro; successivamente Pittaco e Alceo combatterono insieme
contro gli Ateniesi per il possesso del promontorio Siego dell’Ellesponto: qui Pittaco
uccise l’olimpionico ateniese Frinone e Alceo fuggì abbandonando lo scudo. A causa
del fallimento del complotto contro il tiranno Mirsilo, Alceo venne costretto
all’esilio; in questo momento si divisero le strade di Alceo e Pittaco. Pittaco insieme
a Mirsilo governò la città fino alla morte del collega per diventare poi arbitro e
governatore con pieni poteri. Per Alceo, Pittaco diviene incarnazione del male e
tiranno perché, con l’appoggio di una parte del popolo usava la forza militare per
volgere a proprio favore una situazione di conflitto sociale, Pittaco era il nemico
dell’aristocrazia e privava il ceto nobiliare dei propri privilegi. La morte di Alceo è da
collocare attorno al 560 a.C. ed egli venne letto sino all’età imperiale perché la sua
poesia è legata all’attualità del suo tempo. Il mondo di Alceo è quello maschile
dell’eteria e vengono ripresi temi come l’odio per i nemici o il rispetto del codice
aristocratico; la politica di Alceo era di tipo sanguigna, che si risolveva in un’aspra
lotta fra gruppi e invocava il ricorso alle armi. La cornice del pubblico simposiale
emerge con evidenza dai vari frammenti, il vino servirà ad unire in sé una serie di
valori simbolici e sociologici. Il vino è anche un elemento tipico solo della cultura
maschile, si beve collettivamente secondo un preciso codice di comportamento
nell’ambito del simposio. Il vino può essere anche consolazione alle sventure,
riscalda dal freddo, stordisce durante la stagione estiva. Anche Alceo non
disdegnava argomenti mitici: un frammento rievoca la vicenda di Elena, disprezzata
come adultera e colpevole della guerra di Troia. Il PAPIRO DI OSSIRINCO tramanda
un carme sulla violazione di Cassandra da parte di Aiace Oileo,eroe di Locri. La
punizione di Aiace da parte di Atena, sdegnata per il sacrilegio perpetrato di fronte
alla sua statua, è narrata nell’Odissea, dove Aiace muore precipitando in mare per
volere degli dei. Questo crimine mitico diede origine ad un rituale che vedeva gli
abitanti di Locri pagare la colpa del loro antenato con l’invio di due vergini al tempio
di Atena perché servissero a vita come schiave-sacerdotesse. I frammenti politici di
Alceo sono “canti della guerra civile”, scandiscono le varie vicende dello scontro tra
le fazioni di Lesbo e grondano di odio. Il frammento più emblematico è quello
trasmesso da un papiro e parla della maledizione lanciata a Pittaco in un tempio
dove si riunisce il gruppo degli esiliati. Il FRAMMERNTO 40 DI VIGOT è la descrizione
di una sala d’armi fatta con amore perché concorde con i piaceri aristocratici,
secondo alcuni questa è la raffigurazione della stanza dove i convitati stanno
ascoltando il cantore che li esorta alla lotta politica. Inoltre per Alceo la tempesta è
allegoria della realtà politica contemporanea che vede l’avvento della tirannide di
Mirsilio; in questa maniera si capisce come la parola poetica si carica di altri
significati e quest’ultimi possono essere decifrati solo dai membri del gruppo. Una
tradizione antica parla di un corteggiamento di Alceo nei confronti di Saffo, Alceo
infatti, in un’ode ormai persa, omaggia la fama della poetessa. Infine Alceo
preferisce scene in cui si scatena la violenza degli elementi naturali: la descrizione di
un giorno d’estate o la tempesta con il mare gonfio di spuma.
4.4 Arione
Arione di Lesbo visse verso la fine del VII secolo a.C. ed esercitò la professione di
citarodo, operò presso la corte del tiranno Periandro di Corinto e in località della
Sicilia e Magna Grecia. SECONDO ERODOTO SAREBBE STATO IL PRIMO A COMPORRE
DITIRAMBI, la notizia continua ad essere incerta perché alcuni pensano che sia stato
Archiloco il primo autore di queste composizioni. Sotto il nome di Arione si conserva
l’INNO A POSEIDONE nel quale il poeta ringrazia il dio per essersi salvato da
un’avventura marina. La vicenda la racconta Erodoto: Arione aveva accumulato
molte ricchezze in Italia con l’attività di citaredo; volendo fare ritorno a Corinto,
noleggiò una nave, ma, giunti in alto mare, i traghettatori si impadronirono delle sue
ricchezze e lo gettarono in acqua. Arione per l’ultima volta riuscì con il suo canto a
commuovere i marinai, poi si tuffò in acqua con la cetra e gli abiti di esecuzione e un
delfino (animale sacro ad Apollo) lo traghettò sul dorso sino al capo Tenaro, nel
Peloponneso, dove riuscì a punire i marinai.

5. Poeti della Sicilia e della Magna Grecia


5.1 Le colonie d’Occidente
Le colonie fondate sulla costa dell’Italia meridionale e della Sicilia a partire dall’VIII e
VII secolo a.C., come Agrigento, Taranto, Siracusa e Crotone, divennero
determinanti per lo sviluppo della cultura greca. Era un mondo meno cosmopolita
rispetto quello della Ionia ma furono i coloni Greci a trasmettere agli Etruschi le
forme della civiltà greca. Le prospere colonie occidentali ingaggiavano poeti ed
esecutori della Grecia continentale e importante fu la lirica corale a noi nota grazie a
Sesticoro di Imera e Ibico di Reggio.
5.2 Sesticoro
Sesticoro si pensa che sia un soprannome che significa “maestro dei cori”, il suo vero
nome sarebbe stato Tisia. Sesticoro nacque probabilmente a Imera, sulla costa
settentrionale della Sicilia e visse all’incirca tra il 630 e il 550 a.C. Operò soprattutto
in Sicilia come poeta professionista ma si pensia che sia arrivato a Sparta e che morì
probabilmente a Catania. Gli alessandrini raccolsero le sue opere in 26 volumi anche
se oggi restano solo pochi frammenti. Nel PAPIRO DI ILLE ci sono frammenti dedicati
al mito di Edipo e un altro papiro è invece dedicato a un’impresa di Eracle, la
GERIONEIDE. La poesia di Sesticoro era di carattere mitologico e narrativo; in questa
produzione rientrano un’ILLUPERSIS (DISTRUZIONE DI ILIO), un’ORESTEA, una serie
di NOSTOI(RITORNI) e la PALINODIA (CANTO SU ELENA). Ci sono anche canti su
amori infelici come il DAFNI e la CALICA. Resta incerto se Sesticoro fosse un lirico
corale oppure un citarodo, cioè un esecutore solista che cantava con
l’accompagnamento della cetra. La prima ipotesi trova conforto nel fatto che gli
antichi attribuivano a Sesticoro l’invenzione della strofa triadica (schema metrico
composto da strofe-antistrofe-epodo); la seconda nel fatto che i suoi carmi erano di
argomento narrativo. La lingua di Sesticoro è un dorico letterario, con ampie
formule omeriche, apprezzata per la sublimità dell’argomento, l’ampiezza narrativa
dei suoi temi e una narrazione ampia e solenne anche per quanto riguarda la
trattazione del mito. Nella GERIONEIDE,Sesticoro narrava la decima fatica di Eeracle,
in cui l’eroe dovette recarsi sino ai confini occidentali per rubare le mandrie di
Girone, pastore gigantesco dotato di tre corpi. Giunto alle rive dell’Oceano Eracle fu
bruciato dai raggi di Elios; tese allora il suo arco contro il dio che, ammirato per la
sua audacia, gli prestò una magica coppa d’oro sulla quale l’eroe potè varcare le
acque e giungere all’isola di Girone. Questa vicenda viene narrata da Sesticoro con
uno stile narrativo simile a quello di Omero; il racconto conteneva anche momenti
patetici il passo in cui la madre lamenta la morte del figlio. Il PAPIRO DI ILLE
contiene un lungo brano in strofe triadiche (storfe-antistorfe-epodo) che
apparteneva a una TEBAIDE, anche in questo caso la composizione è estesa e
destinata ad un’esecuzione citadorica. Secondo una leggenda Sesticoro avrebbe
composto un’opera relativa a Elena (L’ELENA) in cui l’eroina era presentata come
adultera, in seguito a ciò i fratelli di Elena, avevano privato il poeta della vista. Allora
Sesticoro compose un secondo canto, la PALINODIA, in cui smetiva la versione
precedente e narrava che Elena non era mai giunta da Paride, ma era stata
trasportata in Egitto, dove aveva vissuto castamente sinchè Menelao, tornato da
Troia, era andato a prenderla; a Troia era stato inviato un “fantasma” di Elena,
pertanto la guerra tra Greci e Troiani era scoppiata a causa di un’illusione. In questo
modo i Dioscuri, placati, avrebbero restituito la vista al poeta. Alcuni parlano di due
PALINODIE di Sesticoro a causa del fatto che il poeta aveva trattato varie volte lo
stesso tema, nonostante ciò la PALINODIA fu composta per un pubblico che aveva
cara la figura di Elena.
5.3 Ibico
Ibico nacque a Reggio attorno a 580 a.C., gli antichi raccontano che si rifiutò di
diventare tiranno della propria città. La prima parte della sua attività è da collocare
in ambito siciliano o italiota, sembra che anche Ibico abbia praticato la citarodia e
composto carmi di carattere epico e mitologico; si pensa che le sue composizioni
fossero in dialetto dorico anche se i frammenti rimasti sono in un linguaggio ionico-
epico con una patina dorica. Nella seconda parte della sua vita, Ibico si trasferì a
Samo, presso il tiranno Policrate, a cui dedicò un’ode. La tradizione narra che Ibico
morì violentemente assassinato da un gruppo di predoni e uno stormo, lo stormo di
Ibico, indicò il luogo in cui era nascosto il suo cadavere smascherando così gli
assassini. Le composizioni di Ibico furono raccolte in 77 libri dagli alessandrini,
l’ispirazione di Ibico sembra essere quella amorosa anche se sappiamo che aveva
trattato temi mitici di carattere narrativo. Il frammento più esteso di Ibico ci è
pervenuto attraverso il PAPIRO DI OSSIRINCO e contiene la parte conclusiva di
un’ode di argomento troiano dedicata a Policrate, nonostante questo manca la
distesa narrazione del mito. La poesia amorosa di Ibico riguardava gli amori
omoerotici che si intrecciavano nell’ambito simposiale; l’amore appare come
sofferenza e inquietudine, un sentimento cupo. La lingua di Ibico è dorico letterario
percorso da richiami epici, il suo stile è ricco per l’abbondanza dell’aggettivazione. Le
opere sono in parte monodiche e in parte corali e il pubblico è quello del simposio,
delle corti tiranniche e delle famiglie aristocratiche.
6. La lirica corale
6.1 La società del tardo arcaismo
L’epoca del tardo arcaismo, fine VI e inizio V secolo a.C., vide il fiorire di una lirica
corale destinata a celebrare eventi e personaggi di importanza panellenica. Era una
poesia molto elaborata, affidata all’esecuzione di un coro di professionisti che
cantavano e danzavano un’ode inventata dal poeta, il quale era anche musicista e
coreografo. Questo tipo di poesia era d’occasione, il suo scopo è celebrativo, volto
ad esaltare la gloria del committente, che, a sua volta, pagava i poeti professionisti.
Il poeta non è solo artista ma il veicolo per la celebrazione di una città, egli si
afferma come un tecnico della comunicazione che possiede uno status sociale e un
prestigio così alto che può proclamarsi sapiente. La civiltà della polis entrò nel suo
periodo di massimo sviluppo, in forme che esaltavano l’autonomia dei vari ambienti
come la tirannide in Sicilia e la democrazia in Atene. Durante il VI secolo anche i
giochi atletici subirono una trasformazione tale da farli diventare occasione di
confronto tra le varie parti della società greca. In questo mondo evoluto, la classe
dominante favorì lo sviluppo della lirica corale e la presenza sulla scena di poeti
come Simonide, Pindaro e Bacchilide; comparvero le figure di poetesse che
componevano canti d’occasione su committenza come: Prasilla di Sicione e Telesilla
di Argo.
6.2 Simonide
Simonide nacque a Ceo nel 556 a.C. , ad Atene fu ospite del tiranno Ipparco figlio di
Pisistrato. Quando Ipparco fu costretto all’esilio, Simonide si trasferì presso gli
Scopadi. Nuovamente ad Atene ai tempi delle guerre persiane (490-480 a.C.), cantò
delle guerre patriottiche dei Greci contro i Persiani, commemorò i caduti a Maratona
e celebrò i morti alle Termopoli. Inoltre si trasferì a Siracusa presso la corte del
tiranno Ierone e in Sicilia morì nel 468 a.C. Simonide coltivò tutte le forme della lirica
corale come ì: epinici, lamenti funebri, peani, ditirambi, elegie, epigrammi e fu
inventore dell’epigramma letterario. Simonide adotta temi e forme nuove in base
alle esigenze dei clienti, era un uomo avido di denaro che non disdegnava i
committenti di ceti modesti. L’uomo buono per Simonide non è l’eroe eccellente ma
colui che sa aderire alla realtà, adeguandosi con moderazione alle situazioni della
vita. Nell’ ENCOMIO A SCOPAS, un compianto funebre per i membri della famiglia di
Scopas periti nel crollo di una stanza dove c’era anche Simonide che a sua volta
venne salvato dai Dioscuri, viene detto che la vita è breve come il volo di una mosca
e l’uomo è fragile. Simonide era celebrato dagli antichi per la sua raffinatezza e
l’eleganza dello stile comprensibile ad un uditorio misto; inoltre il poeta è propenso
anche a effetti patetici come nel caso del LAMENTO DI DANAE dove delle peripezie
di Danae e Perseo resta il momento più patetico, il lamento della donna chiusa
dentro la cassa alla deriva nel mare. Durante le guerre persiane (490-480 a.C.)
Simonide era all’apice della sua fama e, per i legami con aristocratiche famiglie
Spartane e i rapporti con Atene, celebrò la vittoria. Nel cantare le glorie dei Greci,
recuperò la tradizione omerica che esalta la nobile morte. L’ EPITAFIO PER I MORTI
DELLE TERMOPOLI, venne composto per essere intonato in occasione dei rituali che
Sparta celebrava in onore degli eroi caduti, sepolti alle Termopili, dove sorgeva il
monumento (del leone di marmo) al re Leonida. L’ELEGIA DI PLATEA era stata
composta da Simonide per celebrare la battaglia di Platea nella quale un esercito di
Ateniesi e Spartani sconfisse i Persiani definitivamente. Nel testo non solo si celebra
l’eroismo dei Greci rievocando il mito di Achille e Patroclo, ma compare anche il
nome di Pausania, il reggente di Sparta che comandò l’esercito vittorioso.
6.3 Pindaro
Pindaro, discendente della famiglia degli Egidi, nacque a Cinocefale presso Tebe, in
Beozia. Pindaro perfezionò la sua arte ad Atene nonostante fosse contrario alle idee
dell’Atene democratica; lasciata Atene, arrivò, dopo le guerre persiane, in Sicilia
presso le corti tiranniche di Siracusa e Agrigento. La sua prima composizione a noi
nota risale al 498 a.C. e l’ultima è del 446 a.C.; morì ad Argo nel 438 a.C. e fu poi
traslato a Tebe. Le opere di Pindaro furono suddivise in età ellenistica dal filologo
Aristofane di Bisanzio in 17 libri che contenevano componimenti di carattere
differente come: inni, peani, ditirambi, prosodi, parteni, iporchemi, encomi, treni ed
epinici che sono pervenuti per intero. Gli epinici sono raccolti sulla base
dell’occasione che diede origine al canto, in rapporto ai quattro giochi panellenici:
OLIMPICHE (14 odi); PITICHE (11 odi); NEMEE (11 odi) ed ISTMICHE (8 odi e parte di
una nona).
LE OLIMPICHE
-OLIMPICA I
L’Olimpica I fu composta per celebrare la vittoria di Ierone col corsiero nei giochi
Olimpici del 476 a.C., l’ode incomincia in un clima di forte luminosità: fuoco, oro etc.
Di lì lo sguardo si sposta sulla fastosa mensa di Ierone, attorno alla quale si radunano
gli amici per onorare il vincitore , poi si leva il canto del poeta anche se si allunga
l’ombra di un altro banchetto, quello in cui Tantalo invitò gli dei e offrì loro in pasto
le carni del proprio figlio Pelope. Pindaro rifiuta la visione cannibalica del mito e ne
adotta una più pia: Pelope scomparve dalla vista degli uomini perché Poseidone si
innamorò di lui e lo trasportò sull’Olimpo, dove divenne coppiere nei banchetti degli
dei. Poi con una nuova antitesi Pindaro riprende a parlare di Tantalo, precipitato in
fondo all’Ade e punito perché aveva osato, in un altro banchetto ancora, offrire agli
amici il cibo degli dei. L’orizzonte poetico è qui attraversato da una serie di temi che
si intrecciano, creando molte contrapposizioni (cielo/Ade, cibo degli dei/cibo dei
cannibali). Poi con un nuovo scarto narrativo, ritorna al centro della scena Pelope
giovinetto e l’atmosfera muta ancora: alle immagini luminose iniziali subentra un
clima notturno. Il giovane, che aspira alle nozze con Ippodamia, vicino alla riva del
mare e nel silenzio notturno, invoca il suo dio protettore Poseidone poiché Enomao,
si rifiuta di concedere la figlia Ippodamia ai pretendenti e li sfida a una gara di corsa
con cocchio, in cui la posta è la vita. Con un nuovo scarto narrativo Pindaro riepiloga
lo sviluppo del mito, da cui ha ormai estratto il significato essenziale: il dono dei
cavalli alati che Poseidone fa al suo protetto, la vittoria di Pelope, le nozze, la
discendenza. Così si compie il passaggio iniziatico di Pelope dalla sua fase giovanile a
quella adulta, attraverso l’eliminazione del sanguinario padre di Ippodamia, Pelope
riscatta le mostruosità famigliari e ristabilisce il giusto equilibrio sociale. Alla fine
avrà la gloria di essere sepolto ad Olimpia dove ora, attorno alla sua tomba,
gareggiano i cocchi di altri uomini assetati di gloria. La corsa di Pelope si salda così a
quella di Ierone e il racconto collega lo spazio senza tempo della leggenda a quello
della realtà in cui vive il committente. E infine, l’immagine risale in alto, là dove era
incominciata la l’ode.
OLIMPICA II
L’Olimpica II è stata composta in onore del tiranno Terone di Agrigento, per la sua
vittoria col carro da corsa nell’Olimpiade del 476 a.C. Nell’epinico c’è la descrizione
dell’Isola dei Beati, dove in una miracolosa primavera, vivono gli eroi e coloro che
furono iniziati ai misteri e dove anche Terone sarà trasportato evitando la morte:
quasi un sogno di giovinezza e felicità perenni in contrasto con l’instabile alternarsi
dei destini e delle vicende umane. Il mito dell’Isola dei Beati costituisce un motivo
profondo dell’escatologia greca, che Pindaro inserisce nell’epinico conferendogli il
compito di esprimere simbolicamente il significato più profondo dell’ode; l’istante
della vittoria viene come fermato e dilatato.
OLIMPICA VI
L’Olimpica VI fu composta in onore di Egesia di Siracusa, amico di Ierone, vincitore
col carro trainato da mule nel 468 a.C. La famiglia degli Iamidi (a cui apparteneva il
committente) era un clan sacerdotale di Olimpiache faceva risalire la propria origine
al profeta Iamo, figlio di Apollo. E’ questo il motivo che induce Pindaro a
rammentare le vicende della miracolosa nascita del capostipite, al quale gli dei
concessero il dono della profezia che si trasmette ai discendenti. Il committente non
era un grande dinasta, cosicchè i toni trionfali dell’Olimpica I sarebbero risultati fuori
luogo; questa è una peripezia da commedia borghese ( una fanciulla cerca di
nascondere il frutto del suo amore ed espone il bimbo, che viene ritrovato,
permettendo alla famiglia di ricomporsi facilmente). In Pindaro la vicenda assume i
tratti tipici dei miti di fondazione: nell’ambiente marginale del monte dov’è stato
abbandonato, al di fuori del consesso civile, il piccolo Iamo viene nutrito da animali
selvaggi e diviene il prescelto.
OLIMPICA VII
L’Olimpica VII è dedicata al pugilatore Diagora di Rodi, l’ode contiene il racconto
delle vicende di Tlepolemo, fondatore della città e del mito relativo alle origini
dell’isola: tutti gli dei si erano spartiti tra loro le terre e soltanto il sole era rimasto
senza onori. Zeus allora stava per procedere ad una nuova suddivisione, ma il Sole
non volle: infatti nel suo corso per le deserte strade del cielo aveva scorto in fondo
alle acque cristalline del mare un’isola che stava per venire alla luce: era Rodi, che
infatti sbocciò dalle acque come un fiore (RODI SIGNIFICA ROSA) e da allora l’isola è
sacra al Sole. L’ode si conclude con l’enumerazione di molti trionfi sportivi dell’atleta
Diagora.
LE PITICHE
PITICA I
La Pitica I in onore di Ierone di Siracusa, vincitore con la quadriga nei giochi del 470
a.C., è un’ode intessuta sul tema del conflitto tra norma e ribellione e sulla lode del
tiranno, vincitore degli Etruschi e fondatore della città di Etna. L’esordio comprende
l’immagine dell’aquila di Zeus che riposa nella sua forza, seguita immediatamente da
una visionaria descrizione dell’Etna, tra nevi ed eruzioni di fuoco, sotto le cui pendici
dorme il mostruoso Tifone, domato da Zeus così come Ierone ha saputo domare
l’arroganza dei nemici che insidiavano la pace. L’ode, inoltre, sviluppa il tema
dell’ordine cosmico e politico, fondato sulla distruzione delle forze oscure del male,
costrette a retrocedere davanti alla forza degli dei e al coraggio di Ierone.
PITICA IV
La Pitica IV fu composta per celebrare la vittoria col carro del re di Cirene, Arcesilao
IV, nei giochi Pitici del 462 a.C. Il mito (la saga degli Argonauti) s’intreccia qui alle
vicende dinastiche della famiglia di Cirene; infatti il capostipite, Eufamo, era stato
uno dei compagni di Giasone e in quell’occasione aveva ricevuto da un dio la
sovranità sulla regione su cui sarebbe poi sorta la città. La prima parola dell’epinicio
(la parola è oggi) si collega al contesto della celebrazione, ma immediatamente il
tempo inizia a scorrere all’indietro, per narrare il momento in cui un avo del
committente, di nome Batto, ricevette una profezia da Apollo che lo invitava a
fondare Cirene, e poi ancora più indietro, quando, 17 generazioni prima, Medea
pronunciò un’altra profezia sullo stesso argomento, rivolto all’avo comune di Batto e
di Arcesilao, appunto Eufamo. Ecco che in pochi versi in pochi versi il motivo
occasionale della celebrazione si innesta al mondo del mito con un passaggio sia
temporale che spaziale: da Cirene dove si celebra la festa, a Delfi, a Tera dove
Medea pronuncia la sua profezia, poi nuovamente in Africa. C’è una ragione per cui
l’esordio dell’ode insiste sul tema della profezia: Arcesilao si trovava a fronteggiare
una situazione d’instabilità politica, pertanto la pubblica proclamazione dell’origine
divina del suo diritto al trono tendeva a riaffermare la legittimità del suo potere.
Pindaro ama presentare solo i momenti culminanti della scena: l’arrivo di Giasone
vestito con pelli di animali selvaggi o ancora l’immane serprente che custodisce il
vello d’oro. L’ode possiede una forte tensione metaforica e una struttura unitaria
che sviluppa un tema ideologico tipico della declinante civiltà aristocratica: Giasone ,
che compie la sua prova insieme ai suoi coetanei, è il modello dell’uomo protetto
dagli dei, che non giunge a compromessi con gli avversari e i suoi compagni sono
anch’essi partecipi del medesimo spirito.
LE NEMEE, LE ISTMICHE E I FRAMMENTI
Le Nemee e le Istmiche sono composte per committenti meno prestigiosi, legati ad
ambienti vicini al poeta; prevalgono committenti di Tebe ed Egina.
NEMEA IX
La Nemea IX per Cromio di Etna, vincitore nella gara equestre, tratta il mito dei 7
contro Tebe e parla del famoso indovino Anfiarao che Zeus fece scomparire nella
terra insieme al suo carro prima che fosse ucciso dagli inseguitori.
NEMEA X
La Nemea X fu scritta in onore del lottatore Teeo di Argo; la parte finale dell’ode
descrive la vicenda di Castore e Polluce, che furono affrontati dai fratelli Ida e
Linceo; questi ferirono a morte il Dioscuro mortale, Castore; Polluce intervenne,
abbattè i nemici con l’aiuto di Zeus e poi si curvò piangendo sul fratello, ma Zeus
ebbe pietà del suo dolore e gli consentì di dividere con Castore il proprio destino
immortale, così che i fratelli vivono a turno un giorno tra gli dei e uno tra i morti.
ISTMICA I
L’Istmica I per Erodoto di Tebe vincitore col carro si ispira a un clima di orgoglio
patriottico; l’esordio è una lode alla città natale, Tebe, e agli eroi locali, in particolare
Eracle che terrorizzò il cane del mostruoso Gerione e poi Iolao che insieme a Castore
fu un guidatore del carro invincibile.
Di Pindaro si conserva anche un considerevole numero di frammenti trasmessi dalla
tradizione indiretta o da papiri.
INNO I
L’inno I (per i Tebani), contiene il mito delle origini di Delo, isola sacra ad Apollo, che
vagava sopra il mare in balia delle onde, sinchè Latona la scelse per partorirvi Apollo;
subito allora 4 colonne di roccia la saldarono per sempre al fondo marino. Altri
frammenti del’inno contengono una cosmologia cantata dalle Muse, che rievocano
la nascita degli dei, sino all’avvento di Zeus. Dopo che Zeus impose le leggi
all’universo, gli dei gli dissero di aggiungere alla sua creazione la musica e la poesia.
PAENA II
Nel Paena II (per gli Abderiti) parla la città di Abdera, orgogliosa delle sue mura che
tengono lontane le selvagge genti della Tracia.
PAENA IV
Il Paena IV, dedicato a Delo, celebra l’’amore degli abitanti per la piccola isola di Ceo
e invoca l’eroe Eussantio che per amore della sua isola rinunciò all’eredità di
Minosse e alle ricchezze di Creta.
PAENA VI
Il Paena VI fu scritto per gli abitanti di Delfi in occasione della festa della Teossenia;
la parte mitica rievoca delle vicende della guerra di troiana e il sacrilegio di
Neottolemo, figlio di Achille, che sgozzò Priamo presso l’altare ma fu punito da
Apollo e venne ucciso in Delfi
PARTENIO II
Il Partenio II era cantato da un coro di fanciulle in occasione di una festa in cui si
portava un ramo d’alloro; le fanciulle parlano di sé, degli abiti e della cerimonia in
onore di Eolada e Pagonda.
Pindaro componeva per un preciso uditorio e per questo motivo sceglieva miti e
situazioni che fossero adeguati a quest’ultimo. Il motivo più discusso è stato quello
dell’unità delle sue odi, le odi pindariche assumono un senso solo se vengono viste
nell’ottica dell’occasione per la quale furono composte. Per Pindaro l’unità dell’ode
è data dalla concreta occasione della performance rivolta ad uno specifico
committente e anche dalla compattezza dei vari elementi. Spesso l’ode inizia con un
fastoso proemio che Pindaro stesso paragona al frontone di un tempio. Anche
Pindaro adotta i tre elementi strutturali dell’epinicio: riferimenti all’attualità, alla
figura del committente e alle circostanze della sua vittoria; un mito, scelto per
collegare l’occasione del canto con il mondo esemplare del mito; una serie di
massime sapienziali. Il mito Pindarico non è però narrato per esteso, ma di scorcio,
colto in un momento in cui, una figura o un gesto condensano il valore di tutto
l’episodio. Il mondo riflesso da Pindaro costituisce il complesso di idee proprie
dell’aristocrazia dominante; il suo orizzonte è quello dei nobili partecipi di un’etica
guerriera, discendenti da famiglie illustri; è un mondo di vincitori perché non ci può
essere spazio, in Pindaro, di qualità borghesi. In Pindaro il tema della poesia
eternatrice assume colorazioni particolari: gli eventi gloriosi ma non affidati alla
memoria da parte dei poeti sono oscuri; si crea uno stretto tessuto tra la vittoria,
frutto di tenacia, la volontà degli dei, il committente che ha bisogno di un pubblico di
riconoscimento, il poeta che provvede a individuare il nesso tra mondo senza tempo
del mito e l’esperienza attuale del vincitore. Il successo e la gloria non sono altro che
un breve momento di splendore in un’esistenza difficile, l’unica però che sia degna
di un uomo. Il linguaggio di Pindaro è aspro e talvolta oscuro, questa scelta stilistica
determina una poesia di fortissimi chiaroscuri e di improvvisi scarti di pensiero.
6.4 Bacchilide
Bacchilide nacque nell’isola di Ceo come Simonide, la sua nascita è da porre attorno
al 520 a.C., mentre per la morte si indica il 450 a.C. Bacchilide fu un poeta itinerante
e venne in contatto con le grandi famiglie dinastiche siciliane; soggiornò a Siracusa,
presso Ierone, dove si trovò in concorrenza con Pindaro. Lopera di Bacchilide venne
suddivisa dagli alessandrini in 9 libri: i primi 6 erano canti di carattere culturale, gli
altri 3 canti avevano per oggetto gli uomini. Nel 1896 furono rinvenuti due rotoli di
papiro contenenti 14 resti di epinici e 6 ditirambi.
EPINICO III
L’Epinico III fu composto in onore della vittoria equestre di Ierone alle Olimpiadi del
468 a.C. La narrazione non è di argomento mitico, ma si riferisce al destino del re di
Lidia, Creso, sconfitto dai Persiani attorno al 545 a.C. Nell’immaginario collettivo
Creso era diventato un emblema, il simbolo della fortuna prospera ma instabile: un
tempo signore dell’Asia, era stato detronizzato da Ciro e aveva terminato la sua vita
in un’amara prigionia. In questo epinicio Bacchilide narra che Creso, quando vide i
nemici dilagare in città, si fece innalzare un rogo sul quale cercò di gettarsi vivo
insieme ai familiari. La scena è isolata nel momento della massima tensione
patetica: il vecchio re affronta con dignità il suo destino lamentando l’ingratitudine
degli dei, le figlie gridano disperate e lo schiavo dà fuoco alla catasta. Gli dei
spengono le fiamme e Creso viene trasportato nella beata terra degli Iperborei, cara
ad Apollo.
EPINICO V
L’Epinico V è sempre per Ierone di Siracusa e fu composto in concorrenza con
l’Olimpica I di Pindaro per la medesima vittoria di Ierone ai giochi olimpici del 476
a.C. La struttura del carme bacchilideo procede in maniera rettilinea: alla lode
iniziale per Ierone e per il suo cavallo vittorioso, fa seguito il mito, introdotto senza
fratture logiche. A questo punto la figura del committente e il presente celebrativo
vengono dimenticati, poiché il centro del carme si sposta sulla vicenda dell’incontro
nell’Ade tra Eracle e Meleagro. E’ singolare che un canto di vittoria contenga un
racconto così tragico, ma in questa scelta tematica rientra il richiamo verso la misura
nella vittoria e l’inevitabile limite dell’uomo. Il destino di Eracle si rispecchia in quello
di Meleagro, poiché entrambi sono vittime di una donna che avrebbe dovuto amarli:
uno della madre, l’altro della sposa Deianira, proprio quella donna la cui mano egli
chiede nell’Ade all’anima del morto Meleagro, di lei fratello. E qui s’interrompe il
mito.
EPINICIO XI
L’Epinicio XI è dedicato ad Alessidamo di Metaponto, vincitore ai giochi pitici nella
lotta, e narra il mito delle figlie del re Preto, che offesero Era dicendo che il loro
padre era più ricco di lei; per questo motivo la dea le rese folli e quelle vagarono tra
i boschi in delirio per tredici mesi, finchè Artemide convinse Era a perdonarle. Il
papiro riporta integri due ditriambi che trattano vicende relative a Teseo: il
ditriambo bacchilideo esclude la presenza del committeente e ogni riferimento
all’attualità, risolvendosi in un racconto mitico in cui il poeta può dispiegare il
proprio gusto narrativo.
DITRIAMBO XVII
Il Ditriambo XVII narra la sfida tra Teseo e Minosse sulla nave che trasportava Teseo
e altri giovani a Creta perché diventassero preda del Minotauro: Minosse sfidò
Teseo a dimostrare che era davvero figlio di Poseidone e gettò in mare il suo anello.
Teseo si tuffò, raggiunse in fondo al mare la reggia di Poseidone e ne ebbe in dono
un manto di porpora e una ghirlanda, con i quali ritornò alla nave. La narrazione
procede preparando la peripezia finale, ossia il prodigioso tuffo di Teseo.
DITRIAMBO XVIII
Il Ditriambo XVIII è un’ode recitata da due semicori che operano autonomamente
percgìhè questo ditriambo è di impianto drammatico e non narrativo. C’è chi vede in
questo un esempio di ditriambo tradizionle e c’è chi pensa che il ditriambo di
Bacchilide poteva essere già influenzato dalla tragedia. L’argomento è l’arrivo in
Atene del giovane Teseo che ritorna in patria dopo aver sgominato i predoni che
infestavano la regione; l’arrivo in città del giovinetto è il momento culminante di un
rito di passaggio, ossia la reintegrazione in città di una figura di salvatore che, dopo
avere trascorso un periodo di marginalità in luoghi lontani, compie le sue prime
prove di coraggio e si ricongiunge alla comunità di cui diventerà il condottiero.
Bacchilide è un poeta più facile di Pindaro perché rinuncia al ruolo di maestro, di
interprete e teologo e si abbandona al gusto del narrare con una ricchezza
espressiva degna della tradizione ionica. Anche lo stile è semplice; i miti sono narrati
per esteso con un uso abbondante dell’aggettivazione, il ricorso al dialogo tra i
personaggi, la tensione narrativa delle scene.
Età Classica
Apogeo e crisi della polis
Il secolo V a.C. è considerato “l’età classica” della civiltà greca; fu il secolo del trionfo
della democrazia ateniese, in cui Atene divenne il centro non solo politico ma anche
culturale del mondo greco. Questo secolo fu un’epoca di “boom” economico per
Atene, in cui le ricchezze rendevano splendida la città, soprattutto per impulso di
Pericle; in pochi anni l’Acropoli distrutta dai Persiani fu ricostruita e vi fu innalzato il
Partenone, dedicato ad Atena protettrice della città. Pericle promosse, inoltre, lo
sviluppo culturale di Atene, favorendo intellettuali e poeti, in quegli anni vicino a lui
operarono figure come Erodoto, Anassagora e Sofocle. Al tempo stesso, il V secolo
fu un’epoca di profondi conflitti, che sfociarono in una guerra tra Atene e Sparta (la
guerra del Peloponneso) che esaurì le forze dei belligeranti e condusse al tramonto
della polis come organismo storico; si può dire che questo conflitto pose fine all’età
dell’oro e produsse un forte disagio civile e culturale. Il dopoguerra fu percorso da
inquietudini; ormai l’uomo politico acquisisce una dimensione propria rispetto a
quella dell’intellettuale che tende a staccarsi dalla vita pratica e cercare risposte su
un piano spirituale. A livello popolare, il disagio è mostrato dal diffondersi dei culti
orientali, che segnalano un distacco dalle forme originarie di religione e la ricerca di
nuove istanze. Attorno alla metà del IV secolo a.C. l’ingresso del regno macedone
nella storia greca spazzò via come una ventata quanto restava della polis e inaugurò,
con le conquiste di Alessandro Magno, un nuovo periodo.
La letteratura della polis democratica
La letteratura del V secolo a.C. fiorisce in stretto contatto con l’ambiente politico e
culturale di Atene; fu ad Atene che si realizzò l’esperienza democratica, fondata sulla
partecipazione egualitaria dei cittadini alla vita della polis, attraverso istituzioni di
massa come l’assemblea, il tribunale popolare e il teatro. I valori elaborati dalla città
democratica trovarono espressione in generi letterari specifici: la tragedia, la
commedia, la storiografia, l’oratoria politica e giuridica. Ad Atene si insediarono le
principali scuole filosofiche e risultano estranei, alla realtà contemporanea, altri
generi letterari come la lirica di cui Pindaro ne fu l’estremo rappresentante e
l’ambiente del simposio. Al nuovo modello di cultura contribuì il movimento
sofistico: i sofisti svilupparono tecniche fondate in primo luogo sull’arte della parola;
i sofisti praticavano un insegnamento orale, tenendo dibattiti e proponendo una
cultura agonistica, orientata alla formazione di un èlite dirigente; il loro pubblico,
spesso era formato dai circoli aristocratici. Nel corso del V secolo a.C. maturò la
cognizione che scrittura e oralità costituiscono due sistemi comunicativi differenti
tra loro. Quello fondato sulla parola rimane vitale durante l’epoca classica: i testi
teatrali e storiografici sono rappresentati pubblicamente. Alla sfera dell’oralità è
connessa l’oratoria, che si esplica davanti alla platea dei giudici o dell’assemblea
popolare; contemporaneamente, però, la città democratica ha la necessità di
trasmettere conoscenze tecniche mediante linguaggi specifici. Così il libro si
conquista uno spazio maggiore, sono a mettere in crisi le forme tradizionali della
trasmissione orale: alla dimensione dell’uditorio si va affiancando quella della
lettura. Quello tra oralità e scrittura è un conflitto culturale di vasta portata; il libro
elimina una serie di elementi che avevano caratterizzato il rapporto tra poeta e
pubblico. Con il IV secolo a.C. tramonta la figura del poeta mediatore di saggezza
presso il pubblico e la poesia cessa di essere la forma più vitale della cultura greca; la
poesia recupererà la sua vitalità con l’epoca ellenistica, ossia dopo che l’esperienza
della polis avrà terminato il suo ciclo
4 Il teatro
1 La tragedia
1.1 La novità dell’invenzione teatrale
Il teatro, tragico e comico, è l’espressione caratteristica della cultura ateniese del IV
secolo. Da certi punti di vista la tragedia si colloca all’interno della tradizione
poetica precedente, sia epica che lirica, non solo perché ne derivano alcuni
strumenti espressivi (l’uso del trimetro giambico, la struttura metrica e stilistica delle
parti corali), ma soprattutto perché utilizza lo stesso materiale della poesia epica,
cioè il mito. Tuttavia rispetto all’epica ci sono delle novità: i personaggi si staccano
dalla trama del racconto per agire autonomamente sulla scena e non sono
presentati da un narratore esterno, bensì compaiono davanti al pubblico come
distinte individualità provviste di una propria vita psicologica. L’epica è una
narrazione, il teatro è un’azione; la tragedia sviluppa strumenti nuovi: è uno
spettacolo, il coro canta e danza, l’attore recita e declama ed il testo è
accompagnato dalla musica. Sotto certi aspetti, la tragedia perde alcune possibilità
espressive rispetto alla poesia precedente; il passaggio dal racconto all’azione
scenica impedisce l’incalzante succedersi di situazioni che rendevano travolgente il
racconto omerico, dove l’aedo rallentava i tempi della narrazione senza alcun tipo di
vincolo. La tragedia, invece, è obbligata a ritagliare un solo momento del mito e a
collocarlo in un tempo e in uno spazio rappresentabili sulla scena; l’azione
drammatica, però, consente la possibilità di scavare nei personaggi, nella loro
psicologia e nelle loro motivazioni. Gli eroi tragici mostrano il loro volto al pubblico,
riducendo lo spazio tra il mondo lontano del mito e l’attualità degli spettatori.
1.2 Il significato culturale della tragedia
L’esperienza teatrale diventa l’occasione per coinvolgere tutta la città, la tragedia ha
anche un aspetto rituale, dato che si svolge all’interno di una festa religiosa in onore
di Dioniso, ed è uno degli eventi fondamentali dell’Atene classica: per organizzare gli
spettacoli teatrali venivano profuse energie e ricchezze persino nei momenti più
cupi. Il teatro attico fu un fenomeno di massa e il mito diventa una metafora
dell’universo cittadino di Atene, di cui il dramma rappresenta le dinamiche culturali
e sociali. Sono tre gli elementi principale da cui deriva la struttura della tragedia
greca:
1. Il dolore. La tragedia mette in scena la sofferenza di un eroe, la cui sorte lo
conduce a spezzarsi contro le prove della vita, è questa è una metafora del
destino umano. E’ stato detto che solo il mondo greco poteva inventare la
tragedia, infatti, secondo GEORGE Steiner, la tragedia è estranea alla
concezione ebraico-cristiana del mondo. La tragedia greca non mette mai in
scena la lotta del bene contro il male e non proclama la necessità della vittoria
del primo sul secondo.
2. La scelta. E’ tipico dell’intreccio tragico mostrare l’eroe davanti a due
possibilità dolorose: la decisione non lo porta alla salvezza, bensì a nuove
sofferenze; in questo modo la tragedia propone al tempo stesso il tema della
libertà dell’uomo e quello della sua limitatezza e l’eroe tragico deve essere
pronto ad agire e ad affrontare la sua sorte pur essendo consapevole che lo
aspettano la sciagura e l’infelicità.
3. Il destino. I personaggi della tragedia se da un lato sono liberi di scegliere e di
agire autonomamente, dall’altro la loro libertà è limitata da forze esterne con
cui si scontrano: gli dei, il fato o la comunità con le sue leggi. Talvolta l’eroe è
spinto alla rovina dalle forze oscure che si agitano dentro lui, sfuggendo al suo
controllo e portandolo all’autodistruzione. All’eroe tragico non è mai
concesso di operare come se fosse completamente padrone di se stesso e del
mondo, poiché questo mondo è popolato da forze visibili e invisibili.

1.3 L’origine della tragedia


L’origine della tragedia deve confrontarsi con la Poetica di Aristotele, che fu il primo
a formulare una teoria su questo genere, raccogliendo un’ampia documentazione;
Aristotele afferma che la tragedia nasce da origini improvvisate e da coloro che
intonano il ditirambo, vale a dire il canto in onore di Dioniso. La tragedia, dice lo
stesso, da brevi e burlesche trame, assunse presto un carattere serio che ha come
metro il giambo. La tragedia ha poco in comune con Dioniso dal punto di vista del
contenuto, giacchè tratta i miti eroici; si deve pensare dunque che in una certa fase
di sviluppo del ditirambo si sia verificato un ampliamento dei temi. Una conferma
viene da Erodoto, dal quale apprendiamo che il tiranno Clistene di Sicione, nella
seconda metà del VI secolo a.C., impose una censura alle feste cittadine e vietò ai
Sicioni di celebrare il mito di Adrasto nei “cori tragici”, poiché l’eroe era di Argo, città
con la quale Clistene era in guerra. Oscura è anche l’etimologia di “tragedia” che
trova le sue radici nella definizione “canto del capro”; gli antichi ignoravano il valore
preciso dell’espressione e immaginavano che si riferisse al capro assegnato come
premio al vincitore dei primitivi agoni mimetici. Un’altra etimologia collega
“tragedia” al vocabolo “cambiare voce/assumere una voce belante come i capretti”;
si tratterebbe di un possibile riferimento agli attori, che nella rappresentazione
devono adottare un tono di voce straniato, oppure al fatto che durante i riti di
passaggio si svolgevano performance mimetiche primitive. Alla luce di queste
osservazioni è possibile dedurre che la tragedia non ha una sola origine; ovunque in
Grecia si celebravano spettacoli “tragici”, intendendo manifestazioni mimetiche a
sfondo rituale, affidate a una pubblica esecuzione con canti e danze. Un aspetto
tipico della rappresentazione teatrale è la maschera, un oggetto utilizzato nelle
società tribali non solo per nascondere il volto, ma con uno specifico valore rituale
dato che consente a una persona di alienarsi da sé, assumendo una natura
differente.
1.4 L’organizzazione degli spettacoli teatrali
Gli spettacoli teatrali di Atene si svolgevano in onore delle Grandi Dionisie, celebrate
nei giorni 9-13 della fine del mese di Marzo. Altre feste minori sempre in onore di
Dioniso sono le Lenee e furono istituite attorno al a.C. Le Dionisie erano feste
organizzate dallo stato e poste sotto la sovrintendenza dell’arconte eponimo;
quest’ultimo provvedeva a scegliere tre cittadini tra i più ricchi ai quali affidare la
“coregia”, cioè l’allestimento degli spettacoli di cui dovevano sostenere le spese. La
“coregia” era uno degli obblighi cui l’Atene democratica sottoponeva i cittadini,
spesso la coregia era sollecitata da un politico che intendeva incrementare la propria
popolarità. Le rappresentazioni tragiche in occasione delle Dionisie avevano un
carattere agonale, era cioè un festival al termine del quale si attribuivano premi al
miglior coro, attore e poeta. Alla gara partecipavano ogni anno tre poeti, ciascuno
dei quali presentava una tetralogia composta di tre tragedie e un dramma satiresco;
ogni tetralogia era recitata nello stesso giorno a partire dal primo mattino, quindi le
rappresentazioni tragiche occupavano tre giorni, mentre un quarto giorno era
dedicato alla messa in scena di tre commedie, presentate ciascuna da un poeta
diverso. La scelta dei tre poeti del concorso, era affidata all’arconte eponimo, sulla
base di un copione provvisorio o di un soggetto che il poeta sottoponeva al giudizio
dell’arconte. Nel caso la sua candidatura fosse accettata, l’autore riceveva dalla città
la commissione di terminare l’opera; subito prima degli spettacoli aveva luogo il
“proagone”, ossia l’anteprima delle tragedie: poeti, coreghi, cori, attori sfilavano
nell’Odeon (edificio presso il teatro) abbigliati dei costumi di scena ma senza
maschera, e presentavano al pubblico i drammi che erano in procinto di recitare.
Agli spettacoli partecipava la grande massa della popolazione; forse già dal V secolo
a.C. erano ammesse donne, bambini e schiavi; la polis provvedeva a versare a tutti i
cittadini non abbienti un contributo (TEORIKON) perché potessero pagarsi il biglietto
d’ingresso. Prima delle rappresentazioni si nominava la giuria, formata da dieci
persone che venivano estratte a sorte da una lista di cittadini. Al termine delle
rappresentazioni, ogni giurato poneva in un’urna una tavoletta in cui scriveva in
ordine di merito i tre poeti; l’arconte estraeva cinque tavolette sulla base delle quali
era proclamato il vincitore, che veniva incoronato con una ghirlanda d’edera, pianta
sacra a Dioniso e riceveva premi economici. Il sorteggio garantiva l’anonimato dei
giudizi, anche se spesso i giudici venivano influenzati dalle pressioni popolari.

1.5 Il teatro di Dionisio; attori, maschere, costumi


Il primo teatro, in legno, di Dionisio sorgeva alle falde dell’Acropoli; un altro teatro
provvisorio, sempre di legno, veniva allestito in mezzo all’agorà in occasione delle
feste Lenee; solo all’epoca di Licurgo il teatro di Dionisio assunse il definitivo assetto
in pietra. Il luogo destinato alla rappresentazione si chiamava “luogo della danza”
oppure “orchestra”, al centro del quale stava l’altare sacrificale in onore del dio. Gli
attori recitavano su un palcoscenico dove erano montati gli allestimenti necessari
alla rappresentazione; la scena era posta alla stessa altezza dell’orchestra, solo
successivamente venne sopraelevata e diventò simile al palcoscenico moderno. Ai
lati della scena si aprivano due ingressi per i quali il coro entrava o usciva di scena;
alcuni personaggi (soprattutto gli dei) recitavano da una piattaforma in cima
all’edificio per sottolineare la loro distanza dalla sfera umana. Nella fase più antica
della tragedia, la distinzione tra poeta e attore tragico non era rigida: Eschilo recitò e
fu anche il coreografo e lo scenografo dei suoi drammi, Sofocle lo stesso. Le esigenze
crescenti del pubblico richiesero l’impiego di attori professionisti detti
“interpretatori della parte” o “artisti di Dioniso”. I poeti tragici scrivevano su
committenza e poiché questa proveniva soprattutto dalla polis ateniese, la loro
attività fu per lo più circoscritta in ambito attici. Una tragedia era recitata da non più
di tre attori, ma spesso questi rappresentavano sulla scena più di un personaggio
grazie all’uso della maschera. Le prime maschere erano naturalistiche, nella
tragedia, invece, le maschere riproducevano tratti idealizzati: gli eroi erano
rappresentati con i capelli biondi e la carnagione dei personaggi femminili era
chiara. Le tipiche maschere tragiche, con orbite e bocca prominenti, entrarono in
uso alla fine del IV secolo a.C. Il costume era solenne e maestoso, gli eroi tragici
portavano abiti purpurei, il coro vesti sontuose e il tipico calzare della tragedia era il
“coturno” (suole alte, tali da rendere imponente la figura dell’attore). Gli attori
comici invece indossavano abiti normali: pelli per i contadini, vesti corte e
pieghettate per i damerini di città; il coro comico portava grandi imbottiture che
gonfiavano a dismisura pance e natiche.
1.6 Le parti della tragedia
La tragedia segue uno schema fisso:
1. Prologo. La tragedia inizia con un “discorso preliminare” che può essere
costituito da un monologo oppure un dialogo. In Eschilo e Sofocle il prologo è
dialogico e coincide di solito con l’inizio dell’azione drammatica. Il prologo
monologico è invece caratteristico del teatro di Euripide, egli fa ricapitolare
l’antefatto da un personaggio che poi non gioca più nessuna parte nella
tragedia e ha solo il compito di introdurre il dramma.
2. Parodo. L’entrata in scena del coro costituiva il momento iniziale della
tragedia; il coro arrivava attraverso i corridoi laterali e si disponeva al centro
dell’orchestra per intonare un canto accompagnato dalla danza. Talvolta
prologo e parodo coincidono: questo avviene solo in Eschilo (nelle Supplici e
nei Persiani).
3. Episodi. Solo dopo l’entrata del coro inizia l’azione scenica attraverso tre o più
episodi (entrate) recitati o accompagnati da comparse mute. Secondo la
tradizione, l’attore in origine era solo uno, che dialogava con il coro; sarebbe
stato Eschilo ad introdurre il secondo attore e Sofocle il terzo. Nel dialogo
interviene anche il coro con brevi battute affidate al capocoro. Il dialogo
tragico si sviluppa in 3 forme tipiche: la “resis o discorso”, la “sticomitia o
battuta di un verso solo” e la “monodia o canto a solo”. La resis è un lungo
brano recitato da un personaggio che non può essere direttamente
rappresentato agli spettatori (come le scene di sangue); spesso la resis
compare anche nelle parti dialogate. La sticomitia si verifica quando i
personaggi si scambiano una serie di battute di un verso ciascuna; può essere
corta oppure occupare uno spazio maggiore. La monodia è un brano cantato
da un attore in metri lirici, talvolta le parti cantate consistono in un duetto tra
il coro e l’attore o tra due attori. Le modalità di recitazione erano di due tipi: la
recitazione vera e propria in trimetri giambici oppure una forma di recitativo
accompagnato dal suono del flauto.
4. Stasimi. Finito l’episodio, gli attori escono di scena e il coro riprende l’azione
di protagonista. In realtà lo stasimo è l’intermezzo in cui, ad azione sospesa, il
coro commenta la situazione che si sta sviluppando sulla scena. Alcuni stasimi
contribuiscono all’approfondimento della trama o costituiscono l’occasione
per impostare temi narratici che si ampliano fino a dibattere importanti
questioni sociali. Col tempo la funzione del coro divenne meno centrale.
5. Esodo. L’esodo è la parte finale della tragedia, che si conclude con l’uscita di
scena del coro; spesso lo scioglimento della scena (per esempio la morte
dell’eroe) si colloca in questa sezione. In Euripide, quando l’azione è arrivata a
un punto in cui nessuna via d’uscita si apre ai personaggi, si manifesta un
personaggio divino che viene calato sulla scena da una macchina teatrale,
concludendo l’azione con un effetto spettacolare.

1.7 I primi interpreti


I concorsi drammaturgici furono introdotti intorno al 535 a.C. dal tiranno Pisistrato,
che destinò a questo scopo il recinto sacro di Dionisio Eleutereo ai piedi
dell’Acropoli. Si racconta che il primo vincitore ai concorsi fu Tespi del demo attico
Icaria; Icaria era il luogo dove Dionisio aveva mostrato per la prima volta il vino agli
uomini: si raccontava che il dio si era rivelato ad un uomo chiamato Icario e che
questi, diffondendo il vino alla popolazione, era stato ucciso da un gruppo di pastori
ubriachi, che credevano di essere stati avvelenati dalla bevanda. Le prime figure
storiche furono i tragediografi Frinico e Pratina. L’opera più nota di Frinico è la Presa
di Mileto (493 a.C.) in cui metteva in scena la distruzione della città ionica per mano
dei Persiani; egli mise in scena un’altra tragedia intitolata le Fenice che propongono
lo stesso argomento tratto da Eschilo nei Persiani. Pratina fu l’inventore del dramma
satiresco, quest’ultimo imita la struttura e l’argomento mitico della tragedia,
inserendovi un elemento fantastico e burlesco. Nell’immaginario collettivo i satiri
erano demoni e sulla scena venivano rappresentati come esseri deformi, fallaci, in
parte umani e in parte animali. Non manca chi ha individuato nel dramma satiresco
il progenitore della tragedia anche se il dramma satiresco appare dipendente dalla
tragedia anche perché i drammi erano composti solo da tragici e non dai comici.
1.8 La trasmissione dei testi teatrali
A partire dagli ultimi decenni del V secolo a.C. furono riprese le tragedie precedenti
di autori come Eschilo, Sofocle ed Euripide e le commedie di Menandro e altri poeti
della commedia nuova. I testi dei grandi autori antichi erano rappresentati in
tournèes da compagnie di attori che provvedevano a riadattarli a seconda del
pubblico; questo uso produsse una serie di alterazioni dei testi originari. I testi
drammatici venivano riutilizzati anche per destinazioni extrateatrali infatti: potevano
circolare oralmente per essere recitati nei simposi o potevano esistere copie librarie
destinate alla lettura privata. Sul finire del IV secolo a.C., per porre fine
all’alterazione dei testi, Licurgo decise di fare redigere delle edizioni ufficiali dei
grandi tragici, alle quali gli attori erano tenuti a conformarsi; questi testi erano
conservati nell’archivio del pritaneo di Atene, donde furono portati ad Alessandria
per iniziativa di re Tolomeo Evergete. Intorno alla metà del III secolo a.C. troviamo
tutti i testi attribuiti ai tre tragici ateniesi conservati nella Biblioteca d’Alessandria,
dove furono oggetto di un intenso lavoro filologico; vennero compilati cataloghi di
drammi autentici e redatte le introduzioni che tuttora precedono il testo dei drammi
nei manoscritti medievali. Per ogni poeta vennero scelte 7 tragedie con l’aggiunta di
un sintetico commento; 7 sono le tragedie conservate di Eschilo e Sofocle, di
Euripide furono selezionate 8 opere. Dei tre tragici, per quanto riguarda la scelta, è
stato privilegiato un tema mitico, in moda da creare un nesso interno fra i drammi;
così facendo, però, si perse il corpus completo dei tragici che comprendeva decine di
opere raggruppate in ordine alfabetico. Nel IX secolo i dotti bizantini si occuparono
di testi teatrali scritti dato che a Bisanzio non si rappresentarono mai testi a teatro.
2 Eschilo
2.1 La vita e le opere
Eschilo nacque nel 525 a.C. ad Eleusi, presso Atene, da una famiglia aristocratica;
iniziò l’attività di poeta tragico nel 499 a.C. e vinse per la prima volta un agone
poetico nel 484 a.C. Partecipò alle guerre persiane combattendo nell’esercito a
Maratona e dieci anni dopo, nel 484, a Salamina. Dopo la rappresentazione dei
Persiani nel 472 a.C., venne invitato a Siracusa presso la corte del tiranno Iierone,
per il quale compose la tragedia delle Etnee; tornato in patria, dopo la
rappresentazione dell’Orestea del 458 a.C., si trasferì a Gela, in Sicilia, dove morì nel
456 a.C. Eschilo ottenne 13 vittorie negli agoni teatrali e il suo prestigio presso gli
Ateniesi rimase inalterato anche dopo la sua morte Le opere a noi sopravvissute
sono: PERSIANI DEL 472 A.C.; SETTE CONTRO TEBE DEL 476 A.C.; LE SUPPLICI DEL
465-460 A.C.; PROMETEO INCATENATO;L’ORESTEA DEL 458 A.C. costituita dalla
trilogia: AGAMENNONE, COEDORE ed EUMENIDI. Ci sono anche pervenuti 200 versi
di drammi satireschi: TIRATORI DI RETI e PARTECIPANTI AI GIOCHI ISTMICI.
2.2 Eschilo drammaturgo
Le tragedie di Eschilo devono essere considerate nell’ottica della trilogia, all’interno
della quale ciascun dramma non rappresenta che un elemento, infatti, il poeta porta
sulla scena saghe mitiche di ampio respiro, sviluppate per esteso nei tre drammi
della trilogia. I drammi di Eschilo hanno la solenne rigidezza dello stile arcaico; sono
opere in cui l’azione procede lentamente, con lunghe e complesse parti corali,
mediante un linguaggio ricco di neologismi, epiteti e metafore. La scenografia ha
un’imponenza solennemente arcaica; a Eschilo si attribuivano innovazioni nel campo
della messinscena, della danza coreutica e della drammaturgia, con l’introduzione
del secondo attore. Quest’ultima è una svolta fondamentale: mettendo in scena due
personaggi a confronto, il poeta tragico può sviluppare le ragioni di entrambi,
conferendo al dramma più visioni. I personaggi di Eschilo sono stilizzati e chiusi nel
loro mondo impenetrabile: caratteri inflessibili che si scontrano senza mai piegarsi e
affrontano il loro destino fino alle estreme conseguenza. Gli eroi di Eschilo non sono
dunque psicologicamente realistici, sono personaggi a una sola dimensione perché
presentano un solo lato della loro personalità. Mancano ai personaggi di Eschilo il
dubbio e il tormento interiore, nonostante siano personaggi con una fortissima
volontà di autoaffermazione, si scontrano con forze invisibili che ne limitano
l’autonomia. Il mondo psicologico di un individuo e i suoi conflitti vengono tradotti in
termini oggettivi, secondo il principio arcaico che attribuisci gli impulsi interiori a un
sistema i interventi esterni (demoni e forze maligne), che a ogni passo ostacolano
l’uomo conducendolo verso la sciagura. Queste violenze oscure sono “violenza” e
“accecamento”, che in Eschilo assume il valore di colpa prodotta da un oscuramento
del pensiero che conduce a scelte criminose. Al di sopra dello spazio umano e di
quello sotterraneo dei demoni, sta il mondo degli dei olimpici, chiamati a garantire
la giustizia: il teatro di Eschilo si sviluppa su tre piano contrapposti (cielo-terra-
mondo sotterraneo) che fanno parte di uno stesso sistema. In questo quadro
diventa fondamentale il tema della giustizia e del suo operare nelle vicende umane;
la dike (ovvero la giustizia) per Eschilo è la legge che gli dei impongono al mondo e
che spiega la casualità degli avvenimenti, regolando con bilance la colpa e la
punizione. I temi fondamentali di Eschilo sono: la vendetta, il conflitto tra diritto
famigliare e diritto della polis o le leggi del clan famigliare; diciamo che è un poeta
che rappresenta l’ultima espressione della cultura arcaica.
2.3 Lingua e stile
Eschilo può essere considerato il fondatore del linguaggio tragico, è un linguaggio
lontano dalla quotidianità per scelta lessicale e strutture sintattiche. C’è una forte
tendenza all’invenzione verbale, come se la lingua ereditata dalla tradizione poetica
gli sembrasse inadeguata. Eschilo adotta le forme tipiche dello stile arcaico e nelle
parti liriche si muove nel solco della grande lirica corale, la quale ha una grande
densità espressiva.
2.4 Persiani
I Persiani furono rappresentati nel 472 a.C., 8 anni dopo la battaglia di Salamina,
come prima tragedia di una trilogia che comprendeva Fineo, Glauco e Prometeo
accenditore del fuoco.
Trama: La scena è ambientata a Susa; entra un coro di vecchi: sono gli unici rimasti
da quando il re Serse ha condotto tutta la gioventù asiatica a combattere in Grecia.
Fin dall’inizio oscuri presagi si addensano sulla reggia. Sopraggiunge Atossa, madre
di Serse e vedova del re Dario; è lei a evocare dall’Ade l’ombra del defunto re, che
pronuncia un severo giudizio contro il suo successore, colpevole di superbia. Subito
dopo entra un Messaggero che riferisce che la flotta è stata annientata dagli Ateniesi
nello stretto braccio di mare antistante a Salamina. La guerra è perduta, Serse è vivo
ma sconfitto: con le vesti lacere farà ingresso nella reggia, accolto con il lamento del
coro che chiude il dramma.
I Persiani costituiscono un’eccezione alle convenzioni di un teatro dove solo il mito
era soggetto di tragedia. Solo Frinico, nel 494 a.C., aveva portato sulla scesa la Presa
di Mileto, in cui si narrava la distruzione della città ionica da parte dei Ppersiani in
modo talmente impressionante che destò orrore nel pubblico; la vittoria dei Greci a
Salamina era stata raccontata dallo stesso Frinico in un dramma intitolato Fenice. La
voce di Eschilo si levava non solo per esaltare il ruolo dominante assunto da Atene,
ma anche a sostenere la politica di espansionismo verso Oriente fondata sulla
potenza della flotta; il nucleo della flotta erano i rematori, uomini dei ceti più bassi
della popolazione. Eschilo però si sottrae alle tentazioni di fare del suo dramma un
semplice manifesto della grandezza ateniese, infatti, ambienta il suo dramma nella
terra persiana. L’interpretazione che Eschilo dà alle guerre persiane si fonda sulla
contrapposizione tra due sistemi politici, la polis greca e l’impero orientale, ovvero
tra libera espressione di profondi valori morali e il dispotismo sempre esposto al
rischio della prevaricazione. Il pensiero mitico rappresenta il paradigma sulla base
del quale vanno interpretati gli eventi, Eschilo colloca proprio per questo motivo la
vicenda delle guerre persiane all’interno di un quadro in cui operano forze segrete e
potenti. Il Serse dei Persiani non è il nemico storico degli Ateniesi perché diventa
anch’egli modello mitico; i Persiani che piangono sulla scena non sono i nemici
detestati dagli Ateniesi ma un popolo sofferente per la colpa di un capo, di cui i
sudditi innocenti, pagano le colpe. I Persiani sono una tragedia collettiva, in cui i
personaggi occupano un ruolo marginale rispetto al dramma di un popolo: il vero
protagonista della tragedia è il coro. Si tratta di una tragedia che ha il suo punto
culminante nel memorabile racconto del Messaggero, il quale descrive la battaglia di
Salamina.
2.5 Sette contro Tebe
I Sette contro Tebe rappresentata nel 467 a.C. erano il terzo dramma di un’Edipodia
(preceduto da Laio ed Edipo e seguito dal dramma satiresco Sfinge).
Trama: Nei Sette contro Tebe si compie la maledizione scagliata da Edipo sui figli
Eteocle e Polinice. I due fratelli sono venuti a contesa per il potere; Eteocle ha
scacciato Polinice e questi tenta di tornare alla testa di un esercito argivo. All’inizio
della tragedia compare Eteocle; l’esercito nemico, condotto da 7 eroi tra cui
Polinice, è sotto le mura della città per l’assalto finale. Davanti alle mura i 7 eroi
hanno sacrificato un toro e versato in uno scudo capovolto, poi, immergendo le
mani nel sangue, si sono vincolati a vincere o morire. Entra in scena un coro di
donne tebane che vengono interrotte dal re che le esorta a incoraggiare i guerrieri
anziché disanimarli. Le ragazze si calmano ed entra un Messaggero che descrive le
forze nemiche schierate dinanzi a ciascuna delle 7 porte di Tebe; Eteocle
controbatte assegnando a ognuna di queste un difensore tebano. All’ultima porta si
recherà Eteocle per affrontare Polinice; segue un canto corale di preghiera, non per
la sorte della città ma per quella dei fratelli che stanno per uccidersi. Quando il coro
tace, rientra il Messaggero: la città e salva, il nemico è in fuga, ma davanti alla
settima porta ci sono i corpi di entrambi i fratelli morti. I due cadaveri vengono
portati sulla scena e con un canto di dolore del coro ha termine l’opera.
Il mito tebano era stato trattato nella Tebaide e nell’ Edipodia (dai lirici e da
Sesticoro in particolare). La leggenda racconta che Edipo era stato esposto dal padre
Laio poiché il suo concepimento era avvenuto contro il parere di un oracolo;
divenuto adulto aveva ucciso inconsapevolmente il padre e sposato la madre. Il
dramma eschileo sottolinea come una stirpe nata dalla colpa e che coltiva l’odio
dentro di sé, finisce annientata. Anche nei Sette contro Tebe il destino dell’eroe non
è isolato, ma si trova al centro di una trama che lo collega alla città e alla famiglia.
Anche in questo dramma Eschilo pone sulla scena le contraddizioni profonde del
clan arcaico; il cuore della tragedia è il dialogo, durante l’assedio, tra il Messaggero
ed Eteocle: il primo riferisce le mosse dell’esercito nemico ed il secondo decide
come disporre i suoi guerrieri davanti alle 7 porte. Giunto alla 7 porta dove si
trovava Polinice, l’atteggiamento di Eteocle cambia: egli afferra le armi e con tanta
energia positiva si spinge verso un destino comune. Si è detto che Eteocle sia il
patriota pronto a sacrificarsi per la salvezza della città; non può in nessun modo
rinunciare ad affrontare il nemico.
2.6 Supplici
Le Supplici sono l’unico dramma conservato di una trilogia che comprendeva Egizi,
Danaidi e Amimone. Si pensa che le Supplici siano il dramma più antico conservato
sino alla scoperta di un papiro contenente un frammento di didascalia tragica dalla
quale si deduce che la tragedia fu rappresentata forse nel 463 a.C.
Trama: L’argomento mitico delle Supplici è offerto dalla vicenda dinastica di Danao
ed Egitto, fratelli gemelli che condividevano il regno d’Egitto; il primo aveva 50 figlie,
il secondo 50 figli. Egitto tentò di imporre un matrimonio tra i propri figli e le nipoti,
ma Danao e le figlie rifiutarono e fuggirono ad Argo, inseguite dagli Egizi. L’inizio del
dramma mostra le fanciulle appena arrivate sulla terra di Argo; subito dopo
compare Danao che esorta le figlie a raggiungere il recinto sacro e ad attendere lì gli
abitanti di quella terra. Compare infatti il re di Argo Pelasgo, cui le Supplici narrano
la propria storia, implorando di essere difese; il re poco intenzionato, promette di
riferire all’assemblea cittadina e le ragazze giurano di impiccarsi alle statue degli dei
se non verranno aiutate. Infine il re esce con Danao, dopo il canto del coro rientra
Danao che dice che l’assemblea ha accolto la preghiera delle ragazze. A un canto di
ringraziamento delle fanciulle fa seguito il colpo di scena: gli Egizi si stanno
accingendo a rapire le ragazze; Danao parte in cerca di soccorso. Subito dopo arriva
l’araldo degli Egizi e tenta di portare via le fanciulle; l’intervento di Pelasgo lo
costringe però a ritirarsi. L’araldo egizio esce annunciando la guerra tra Egizi e Argivi.
In questa tragedia il coro occupa il ruolo centrale e domina la scena, mentre gli altri
personaggi occupano una posizione minore: Danao è solo un consigliere delle figlie;
il re Pelasgo è una figura spenta. L’interpretazione delle Supplici presenta nodi
difficili; le ragazze respingono il matrimonio forse per rifiuto dell’incesto con i cugini
(ad Atenei costumi matrimoniali, però, consentivano persino matrimoni tra fratelli)
o si è parlato di rifiuto delle nozze in sé: una sorta di femministica espressione di
libertà che si manifesta nella decisione delle ragazze di rimanere non maritate.
Certamente le figlie di Danao esprimono un modello di femminilità estraneo alla
civiltà ateniese: si ribellano alla supremazia maschile perché per loro sposarsi
significa diventare schiave di un uomo. Alle Supplici facevano seguito gli Egizi, in cui i
cugini riuscivano a ottenere le nozze con la guerra e infine le Danaidi dove: durante
la notte nuziale le Danaidi uccisero ciascuna il proprio marito tranne una. Così quelle
che all’inizio della trilogia erano vittime, si trasformano in criminali, con l’eccezione
di Ipermestra che, innamorata dello sposo, aveva deciso di risparmiarlo. Sembra che
l’inflessibilità delle ragazze assumesse alla fine un valore negativo e dovesse essere
intesa come una forma di arroganza nei confronti di una norma della natura cioè
sottostare alle leggi dell’amore.
2.7 Prometeo incatenato
Il Prometeo incatenato, di datazione incerta, faceva parte di una trilogia che
comprendeva anche Prometeo liberato e Prometeo portatore di fuoco.
Trama: Il titano Prometeo, colpevole di essersi ribellato agli dei e di aver rubato il
fuoco per donarlo agli uomini, viene incatenato a una rupe da Cratos, Bia ed Efesto,
quest’ultimo era l’unico a provare pietà per lui. Gli fa visita il coro delle ninfe
Oceanine per cercare di convincerlo a sottomettersi, a loro si unisce il padre Oceano
che si allontana e lascia il titano solo davanti al suo destino. Dopo il canto del coro,
Prometeo difende le sue azioni e si proclama benefattore dell’umanità; poco dopo
arriva una donna sul cui capo spuntano corna di vacca. E’ Io, vittima degli dei: amata
da Zeus, che non seppe difenderla dalla gelosia di Era, fu trasformata in vacca e
costretta a errare senza meta per il mondo, perché seguita da insetti che succhiano il
sangue. Prometeo la conforta, le riferisce quale famiglia avrà origine da lei e che un
suo figlio, Eracle, lo libererà dalle catene. Il titano preannuncia, poi, che un giorno
anche Zeus sarà spodestato da uno dei suoi figli; Io, punta dagli insetti, fuggirà. A
questo punto Prometeo riceve la visita del messaggero Ermes, che gli riferisce che:
se non avesse rivelato il nome del futuro avversario di Zeus, sarebbe stato gettato
nel Tartaro per l’eternità. Prometeo rifiuta e la tragedia si conclude con un
cataclisma che sprofonda Prometeo nell’oscurità.
Il soggetto del dramma è la punizione di Prometeo, incatenato a una rupe per la sua
ribellione contro Zeus. Nel seguito della trilogia (Prometeo Liberato) si narrava la sua
liberazione per mano di Eracle; forse il Prometeo portatore del fuoco poteva essere
la prima opera della trilogia oppure la terza: in quest’ultimo caso, forse parlava
dell’istituzione delle feste ateniesi in onore di Prometeo. Il Prometeo incatenato
resta una tragedia enigmatica; la stessa autenticità dell’opera è stata messa in
dubbio per motivi stilistici, metrici e contenutistici: la tragedia raffigura in modo
anomalo la figura di Zeus, il quale appare come un tiranno. Il problema
dell’autenticità è stato riproposto recentemente: le ipotesi sono che si tratti di un
dramma di età posteriore a Eschilo oppure che il dramma è stato rimaneggiato.
Bisogna notare che lo scontro tra divinità, tra due “vecchi” e “nuovi”, non risulta
estraneo al pensiero di Eschilo. Zeus è legato agli schemi di un potere assoluto e
violento; Prometeo è un ribelle che rifiuta di riconoscere la necessità di un ordine
tipico di una società civile. Il Prometeo incatenato presenta una sola prospettiva,
quella del protagonista, che resta sulla scena dall’inizio alla fine e non fa altro che
ripetere la sua avversione contro Zeus e i nuovi dei, che hanno scacciato una
saggezza antica. Alla fine della trilogia il contrasto fra queste due forze doveva
comporsi con la liberazione di Prometeo, che conciliava le ragioni di Zeus e le sue.
Grande è la distanza fra il Prometeo di Esiodo- che ruba il fuoco e sfida gli dei in una
gara d’astuzia nella quale a soccombere sarà il genere umano- da quello di Eschilo,
dove il titano è il vero promotore del progresso.
2.8 Orestea
La trilogia dell’Orestea fu rappresentata nel 458 a.C. nell’ambito di un concorso
drammatico in cui ottenne vittoria; la vicenda si sviluppa in tre drammi che
affrontano ciascuno un momento della saga degli Atridi. Il secondo dramma della
trilogia, le Coefore, è mutilo all’inizio per una lacuna del manoscritto.
Trama dell’Agamennone: L’Agamennone si apre con il monologo notturno di una
guardia, appostata sul tetto della reggia per avvistare il segnale di fuoco che
dovrebbe annunciare la caduta di Troia; il fuoco si accende, segnalando la fine della
guerra e l’arrivo di Agamennone. Entra in scena un coro di vecchi argivi che rievoca
fatti luttuosi ed esprime dei presentimenti. Quando Agamennone sbarca, la moglie
Clitennestra lo accoglie con gioia. Al seguito del re, come sua concubina c’è
Cassandra; con parole ambigue Clitennestra attira lo sposo nella reggia, facendolo
passare su un tappeto di porpora che lo porterà verso la morte. Poco prima di
entrare nella reggia, Cassandra evoca in una visione tutti gli orrori della stirpe degli
Atridi e predice il dramma che sta per avvenire dentro la casa. Si ode a questo punto
il grido di Agamennone che viene pugnalato a tradimento; la porta del palazzo si
apre e lascia vedere il cadavere nudo disteso su un lenzuolo insanguinato, con
accanto quello di Cassandra; sopra di loro sta Clitennestra con un’arma gocciolante
sangue. E’ la regina stessa- non un Messaggero- a narrare il delitto; il punto di vista è
soggettivo e Clitennestra può rivelare il suo odio covato dal momento in cui il suo
amore materno era stato oltraggiato dal sacrificio di Ifigenia. Appare Egisto, amante
della regina, circondato da un gruppo di armati; la scena finale mostra insieme i due
complici.
Trama delle Coefore: Quando iniziano le Coefore sono passati molti anni. Entra
Oreste insieme all’amico Pilade, si recide un ciuffo di capelli e li depone sulla tomba
del padre come pegno di vendetta. Ecco apparire un corteo di donne vestite di nero,
che porta sacrifici propiziatori per il defunto (il coro dà il titolo al dramma): è stata
Clitennestra a ordinarli. Insieme a loro entra Elettra, sorella di Oreste, la quale
riconosce il fratello dal ricciolo e dall’orma del piede lasciati sulla tomba. Elettra,
Oreste e il coro uniscono le voci per invocare Agamennone; viene così preparato il
piano di vendetta: Oreste si fingerà uno straniero che porta la notizia della sua
stessa morte. Clitennestra riceve la notizia della presunta morte del figlio e ne
sembra afflitta. Accorre Egisto e subito scompare come inghiottito dalla reggia: poco
dopo verrà ucciso da Oreste, nelle stanze dai tanti delitti. Stessa sorte tocca alla
regina, che invoca la pietà del figlio; Oreste trascina fuori la madre, deciso a
sgozzarla sulla tomba del padre. Oreste ha un attimo di esitazione ma Pilade lo
richiama al compito che si era prefisso; il figlio uccide la madre dentro la stessa
stanza in cui era stato trucidato il padre. Per giustificare il matricidio non basta aver
agito su consiglio di Apollo; dal terreno sorgono le Erinni vendicatrici della madre
che costringono Oreste a fuggire.
Trama delle Eumenidi: All’inizio delle Eumenidi Oreste si trova a Delfi, addormentato
sulla soglia del tempio, circondato dalle Erinni, anch’esse addormentate dopo
l’inseguimento. Apollo, intervenuto, lo affida a Ermes e lo fa accompagnare ad
Atene per essere sottoposto a giudizio; comprare lo spettro di Clitennestra che
ridesta i mostri sulle tracce dell’omicida; ad Atene Oreste viene raggiunto dalle
Erinni che compiono attorno a lui una danza terrificante. La dea Atena decide allora
di istituire un tribunale, il futuro Areopago: davanti ai cittadini ateniesi e alla stessa
dea, Apollo e Oreste sostengono le proprie ragioni pur essendo ribattuti dalle Erinni.
Apollo interviene nel dibattito a sostegno di Oreste proclamando un principio
secondo il quale il padre è superiore alla madre; al termine del dibattito i giudici
votano, grazie al voto di Atena, Oreste viene assolto. Le Erinni si trasformano in
Eumenidi, cioè Benevole.
Ogni tragedia di questa trilogia ha una sua coerenza interna. Il motivo fondamentale
della trilogia è la vendetta, che era un atto obbligatorio per compensare il sangue
versato di un parente. Nell’Orestea la vendetta si realizza all’interno dello stesso
clan: Agemennone, infatti, uccise la stessa figlia Ifigenia mentre Atreo uccise i figli di
Tieste. La tragedia, esaminando il mito dinastico della casata reale di Micene,
mostra come qualunque atto di riparazione si trasforma in una nuova
contaminazione, che precipita in una rete di sangue. Accanto al tema della vendetta
tribale, Eschilo introduce l’elemento della DIKE (la giustizia), di cui gli dei sono
garanti. Nel primo dramma Clitennestra afferma che la giustizia appartiene a chi
riesce a conquistarsela con le proprie mani. Nel secondo dramma Oreste è scisso tra
due opposte pulsioni che lo portano alla follia: se risparmia la madre si renderà
impuro agli occhi del padre morto, non compiendo la vendetta che le leggi del clan
prescrivono, ma se la uccide si macchierà anch’egli del sangue famigliare e sarà
matricida. La legge automatica della vendetta e del sangue è rappresentata dalle
Erinni, demoni persecutori che non guardano alle ragioni morali ma sono
all’oggettività degli eventi. Qualsiasi siano le ragioni, anche se Oreste ha agito per
ordine di Apollo, è stata violata una norma; pertanto Eschilo introduce altre forze
civilizzatrici come il tribunale, la città o le divinità cittadine. Dall’edificio dell’Orestea
emerge una giustizia che non è nelle mani di chi la compie ma è garantita da un
ordine superiore; sono gli dei a imporre agli uomini una legge dura ma giusta: si
impara attraverso la sofferenza, solo chi soffre può riscattarsi. La storia della famiglia
degli Atridi non è quella dei singoli individui: è una vicenda collettiva, in cui ogni
membro è collocato in una struttura più ampia, la famiglia in primo luogo e poi lo
stato. Se il primo dramma, Agamennone, parla di una donna che odia lo sposo e il
secondo, Coefore, di una vendetta famigliare, il terzo sviluppa un problema politico,
cioè, il rapporto tra famiglia e Stato, tra le arcaiche leggi del clan e quelle nuove
della polis. Così la trilogia che inizia ad Argo, in un tempo mitico, si chiude ad Atene,
nel tempo storico della città. Eschilo ci mostra come il mito defluisca nel presente
della storia e come nuovi costumi abbiano sostituito le vecchie leggi del clan.
L’Agamennone è un solo flusso di sangue: il sangue di Ifigenia, quello dei guerrieri
massacrati sotto le mura di Troia e il tappeto di porpora rosso come il sangue che
Agamennone calpesta. Le Coefore sono una tragedia cupa, il cui tono è dato
dall’episodio iniziale in cui fratello e sorella si riconoscono attorno alla tomba del
padre, il cerchio dei legami famigliari viene rinsaldato e la vendetta prende colpo. Il
dramma tocca il suo vertice nella grande scena in cui madre e figlio si affrontano in
uno scambio su battute feroce. Le Eumenidi presentano il caso di una tragedia che
infrange l’unità di luogo (la scena si apre a Delfi ma procede ad Atene) e iniziano con
la comparsa dello spettro di Clitennestra. Quanto ai personaggi, la trilogia crea due
figure fondamentali: Clitennestra che con la sua astuzia e la sua sensualità domina la
scena, e Oreste, personaggio complesso con dolorosi dubbi. Come Agamennone,
anche Egisto è un è personaggio poco connotato; i suoi tratti sono quelli del tiranno
da tragedia; ucciderlo è stato un atto di giustizia.
3 Sofocle
3.1 La vita e le opere
La vita di Sofocle si snoda per tutto il V secolo a.C. Nacque a Colono attorno al 496
a.C. quando Atene stava per affrontare lo scontro con i Persiani, e morì nel 406 a.C.,
mentre la guerra contro Sparta volgeva alla fine e l’egemonia ateniese era al
tramonto. Esordì giovane sulla scena teatrale : sembra che gli fosse stato affidato il
compito di condurre il coro di giovani che cantarono il peana di ringraziamento per
la vittoria di Salamina(480 a.C.). Come poeta tragico esordì nel 468 a.C.; fu tra gli
strateghi dell’esercito ateniese e ricoprì anche altre cariche pubbliche; fu impegnato
anche in un’attività sacerdotale, infatti, fu lui a diffondere in Atene il culto del dio
guaritore Asclepio. Dopo la morte ricevette onori eroici. Sofocle compose 130 fra
tragedie e drammi satireschi; a noi restano 7 tragedie: AIACE(anteriore al 445 a.C.);
ANTIGONE(442 a.C.); TRACHINIE; EDIPO RE(430 a.C.); ELETTRA; FILOTTETE(409 a.C.);
EDIPO A COLONO(406 a.C.). Un papiro ha restituito 400 versi del dramma satiresco
Cercatori di tracce che riprendeva il mito del furto delle vacche di Apollo da parte di
Ermes neonato: i satiri-sanguigni scoprono la grotta in cui Ermes dorme vegliato
dalla nutrice Cillene e qui il testo s’interrompe.
3.2 Il poeta e il suo tempo
Sofocle è stato identificato come l’emblema dell’Atene periclea, insieme a Fidia.
Sofocle è il più ambiguo tra i tre grandi tragici e segnala assai meno di Eschilo dove
stia il giusto e l’ingiusto. Eschilo aveva raffigurato gli dei come garanti della giustizia
mentre Sofocle lascia soli i suoi personaggi a soffrire e a morire sulla scena, spesso
ingiustamente (come Aiace, Antigone e Deianira) o senza ragione (Edipo). Sofocle
quindi allontana la sfera soprannaturale dalla vista degli uomini.
3.3 La centralità dell’eroe tragico
L’eroe di Sofocle è il primo personaggio moderno della storia del teatro; innanzitutto
è un isolato contro la sua volontà, perché una forza esterna lo pone di fronte al suo
dolore in modo così forte da separarlo dalla collettività. L’eroe sofocleo ha grandi
qualità morali e intellettuali, inoltre, egli esita, rimpiange e ammette i propri errori.
La tragedia sofoclea non si risolve solo nel rivelare le sofferenze dell’eroe, ma
mostra come il protagonista acquisisca la consapevolezza delle sue sofferenze e
maturi una nuova coscienza della propria natura. E’ tipico di Sofocle il “mutamento”
profondo che investe il protagonista nell’istante in cui riconosce il proprio destino e
realizza di non potervisi opporre. Gli uomini invece sono sottoposti a una serie di
eventi sempre nuovi: le sciagure e l’alternarsi di sventura e fortuna. Il dolore e la
consapevolezza giungono improvvisi a rovesciare l’esistenza di una persona e a
mostrare quanto fragili siano le basi su cui si fondava. Sofocle fece molto per lo
sviluppo della drammaturgia tragica: a Sofocle si devono l’introduzione della tecnica
di dividere un verso tra due personaggi; l’inserimento del terzo attore; portò il
numero dei coreuti da 12 a 15; migliorò gli impianti scenici; abbandonò la trilogia
“legata” e ogni dramma ebbe una sua autonomia ed ogni personaggio una sua
individualità. Dal punto di vista stilistico Sofocle adotta un tono medio rinunciando
alle audacie metaforiche per adottare una scrittura equilibrata; solo il coro
manifesta un livello più alto.
3.4 Aiace
L’Aiace non ha una datazione certa ma gli elementi stilistici e drammaturgici fanno
supporre che sia stato messo in scena attorno al 450 a.C.
Trama: Aiace, volendosi vendicare del torto ricevuto dai capi dell’esercito che hanno
assegnato le armi di Achille ad Odisseo invece che a lei, si precipita fuori dalla sua
tenda per sterminarli; Atena però lo spinge a fare strage di buoi, poi racconta
l’accaduto a Odisseo che sta seguendo le tracce della strage. Aiace compare in scena
nel prologo esibito come un fantoccio da Atena davanti agli occhi di Odisseo; scena
costruita per destare terrore nel pubblico. Aiace comprende di essersi reso ridicolo;
il suo senso dell’onore gli impone il suicidio, da cui tentano invano di dissuaderlo la
compagna Tecmessa e il coro, formato dai marinai di Salamina. Aiace abbraccia per
l’ultima volta il figlioletto e si reca solo sulla riva del mare e di uccide gettandosi sulla
spada. Sul cadavere, pianto dalla compagna, dal fratello Teucro e dal coro,
accorrono Agamennone e Menelao, contro cui si era rivolto l’assalto notturno di
Aiace, e dicono che vorrebbero lasciare il corpo insepolto; Teucro si oppone e grazie
anche ad Odisseo si riescono ad ottenere gli onori funebri.
L’Aiace è costituito da una struttura a “dittico” (come Antigone e Trachinie), in cui il
protagonista occupa la scena e va incontro al suo destino verso la metà del dramma,
mentre la parte finale è dedicata agli esiti che questo evento proietta sulla
comunità. Aiace era conosciuto come eroe protettore della città tra gli ateniesi: la
sua tomba sorgeva a Salamina. La sua vicenda era stata già trattata dall’Etiopide e
dalla Piccola Iliade dei poeti epici Arctino di Mileto e Lesche di Chio. La tragedia di
Sofocle mette in scena l’ultima parte della vicenda, descrivendo la presa di coscienza
dell’eroe che decide di suicidarsi. L’azione si apre con gli eventi, già avvenuti, che
danno luogo al dramma. In Sofocle il destino ha già tracciato la sua strada, così che il
drammaturgo può focalizzare l’attenzione sul percorso interiore dell’eroe. La
seconda parte del dramma si svolge attorno a un cadavere, che diviene una
presenza ingombrante per i viventi. L’Aiace ruota attorno alla figura del
protagonista: è lui l’ultimo degli eroi, un uomo rimasto fedele ai principi della
cultura aristocratica, al senso dell’onore e che muore spinto dalla vergogna in cui la
follia lo ha sprofondato e che gli impedisce di continuare a vivere dopo essersi reso
ridicolo agli occhi dei suoi nemici. Su Aiace ruota un profondo condizionamento,
ovvero il modello della figura paterna che immagina di aver disonorato, l’ossessione
di dover essere degno del padre diventa uno dei principali impulsi che spingono
Aiace al suicidio. E’ tipico dell’eroe sofocleo trovarsi di fronte al dilemma della
scelta, ma Aiace non ha la possibilità di scegliere, poiché la morale aristocratica lo
obbliga a morire. Aiace deve riscattare il disonore in cui è precipitato; in questa
prospettiva, la riabilitazione della dignità avviene tramite il suicidio. Il suicidio non è
quindi dimostrazione di cedimento ma una pubblica riaffermazione di sé. Aiace si
getta sulla spada a scena vuota: in questo modo la sua figura grandeggia isolata; il
suo addio alla vita è un monologo di grande tensione emotiva; Aiace muore senza
perdonare, senza creare una riconciliazione con i nemici. Così l’eroe appare
totalmente isolato perché vive in un mondo con cui non ne condivide gli orizzonti.
Compare nell’Aiace l’eroe sofocleo sofferente, perseguitato da un oscuro destino
che lo trascina alla sventura senza che ne possa spiegare la ragione.
3.5 Antigone
L’Antigone fu rappresentata intorno al 442-441 a.C. e dopo il suo successo, Sofocle
fu eletto stratego.
Trama: Eteocle e Polinice si sono uccisi reciprocamente, affrontandosi alle porte di
Tebe. Il re Creonte decreta che il corpo di Eteocle, morto per la patria, sia seppellito
con tutti gli onori, mentre quello di Polinice venga abbandonato ai cani; Antigone,
sorella dei due eroi, seppellisce normalmente il corpo di Polinice, malgrado i consigli
prudenti della sorella Ismene. Creonte ordina che il corpo di Polinice sia dissepolto e
che si cerchi il colpevole; scoperta a coprire di terra il cadavere, Antigone viene
trascinata davanti al re. Antigone si limita a riaffermare la giustezza della sua azione
e viene condannata a morte e sepolta viva in una caverna sotterranea, nonostante le
suppliche rivolte a Creonte dal figlio Emone, suo promesso sposo. Poco dopo arriva
l’indovino Tiresia che avverte Creonte dei terribili avvenimenti che si preparano per
la famiglia; a questo punto il re decide di liberare Antigone; la giovane, per, si è
impiccata e ai piedi di lei si toglie la vita Emone. Euridice, moglie di Creonte, rientra
in casa e si uccide; Creonte resta solo.
Nell’Antigone la cultura romantica individua il simbolo del conflitto tra le due forze
più profonde operanti nella storia – famiglia e Stato – entrambe legittimate ad
imporre le loro leggi. Nello stesso tempo Antigone poteva essere considerata il
simbolo della scelta morale, in nome della quale è giusto sacrificare la vita. Il
conflitto che divide Antigone da Creonte è quello del rapporto tra leggi dello stato e
leggi di natura. Per i due antagonisti la parola assume un valore differente, giacchè
per Antigone nomos è la legge religiosa, per Creonte un editto dello stato.
L’Antigone è anche una riflessione sul tema della civiltà umana e sulle forze degli
affetti e dei legami famigliari, cui sono dedicati due famosi corali che costituiscono
due momenti elevati del teatro sofocleo. La sfida di Antigone non è solo un conflitto
con le leggi dello stato: la sua ribellione è rivolta anche all’autorità patriarcale cui le
donne dovevano sottomettersi: questo conflitto è evidente già nel momento in cui le
due sorelle si confrontano, infatti, Ismene rappresenta la supremazia maschile e
Antigone il suo opposto. Antigone è una donna che esce dal suo stato di soggezione
sociale per affrontare a viso aperto il potere cittadino e in quanto tale poteva
apparire colpevole di Yubris; la sua ribellione, però, non va contro il potere della
polis, ma è circoscritta alla sfera degli affetti famigliari. Quanto a Creonte, il pubblico
ateniese lo paragonava ad un tiranno, condannato alla rovina dal suo carattere
intollerante; Creonte non è certo il buon cittadino di una polis democratica, ma
piuttosto il precursore del principio “lo Stato sono io”.
3.6 Trachinie
La data di rappresentazione delle Trachinie è incerta ma alcuni pensano che sia
contemporanea all’ Antigone.
Trama: Deianira attende il ritorno di Eracle; viene portata una notizia che dice che
Eracle è vivo e ha conquistato la città di Ecalia ed è prossimo al ritorno; alla notizia
del successo dell’eroe segue l’ingresso di una schiera di prigioniere catturate da
Eracle. Deianira viene a sapere che Eracle ha espugnato Ecalia per amore di Iole; pur
essendo abituata alle infedeltà del marito, si tormenta per la gelosia e si ricorda di
un filtro d’amore che il centauro Nesso le aveva donato in punto di morte,
raccomandandole di usarlo solo quando avesse avuto bisogno di riconquistare il
marito. Dopo averne cosparsa una tunica, la invia in dono a Eracle, il quale, dopo
averla indossata, viene colto da spasmi e in un eccesso di rabbia uccide l’araldo Lica.
Deianira apprende l’effetto funesto del suo regalo e viene maledetta dal figlio Illo
per il suo gesto; rientra così nella reggia e si uccide. Poco dopo Eracle entra in scena
su una lettiga desideroso di vendicarsi della moglie, ma dopo aver saputo del filtro di
Nesso, comprende che per lui si è avverato un antico oracolo e che la fine è
prossima: chiede perciò al figlio di condurlo su una pira e di prendere in moglie Iole;
da quella pila gli dei lo trasporteranno in cielo e gli doneranno l’immortalità
Anche le Trachinie (ossia le donne di Trachis, in Tessaglia, dove è ambientata la
vicenda) sono costruite su uno schema a dittico: nei primi due terzi la vicenda si
focalizza sulle ansie e sulla gelosia di Deianira e solo dopo il suicidio della donna,
compare sulla scena Eracle. E’ un Eracle descritto con tratti arcaici, delirante e
selvaggio nelle sue sofferenze. Assai più complesso è il personaggio di Deianira:
donna inquieta e fragile, vissuta in attesa di uno sposo che sempre fugge, preso dal
suo compito eroico. Per Deianira la figura maschile ha un volto aggressivo, anche lo
sposo è per lei al tempo stesso un oggetto di desiderio. Eracle e Deianira non si
incontrano mai sulla scena. Le Trachinie si potrebbero definire una tragedia degli
inganni: Eracle cerca di ingannare Deianira introducendo in casa la sua concubina,
Deianira cerca a sua volta di circuire il marito con un oggetto magico, ma tutti e due
sono ingannati da Nesso, che riesce a vendicarsi di Eracle anche dopo morto. Questa
tragedia ha un carattere privato rispetto agli altri drammi: al centro della scena sta la
vicenda di una coppia, in particolare di una donna che seguendo la voce dei propri
aspetti finisce per distruggere se stessa e lo sposo che aveva tentato di
riconquistare. Il poema nasce da pulsioni che nessuno dei due protagonisti può
dominare: l’istinto di possesso e la gelosia di Deianira, la feroce volontà di
autoaffermazione di Eracle che abbatte tutti gli ostacoli, distruggendo città. Le
Trachinie si presentano come una meditazione sui limiti delle prospettive umane e
descrivono personaggi solo davanti a un destino incomprensibile.
3.7 Edipo re
INCONSAPEVOLEZZA DI EDIPO
Nell’Edipo re, di datazione incerta, Tebe è ancora è teatro di sciagura familiare, che
vede protagonista la famiglia dei Lebdacidi.
Trama: Su Tebe regna Edipo, che dopo aver risolto l’enigma della Sfinge ha avuto in
premio il trono e la regina Giocasta in moglie, senza sapere che fosse sua madre. In
città scoppia un’epidemia che fa strage degli abitanti; per porre fine alla pestilenza si
inviano messaggeri a Delfi e l’oracolo Apollo fa sapere che il male cesserà quando
verrà trovato l’assassino di Laio, precedente sovrano. Edipo si incarica di far luce
sull’omicidio: come primo atto, maledice il colpevole e lo condanna all’esilio.
L’indovino Tiresia, dapprima rifiuta di parlare, ma poi, incalzato dalle domande di
Edipo, rivela che il responsabile è Edipo stesso. Giocasta, vedova di Laio, invita il
marito a non prestare fede agli oracoli e gli rivela che il re è stato ucciso lontano da
casa, all’incrocio di tre vie (Corinto-Delfi- Tebe) e suo figlio esposto dopo la nascita.
A questo punto Edipo inizia a temere perché ricorda di aver ucciso un uomo a un
trivio, anche se è ancora convinto di essere il figlio del re di Corinto, Polibo. Poco
dopo un messaggero riferisce la morte di Polibo e contemporaneamente Edipo
apprende di esserne il figlio adottivo: quello stesso messaggero lo aveva ricevuto da
un pastore sul monte Citerone- dove Laio aveva fatto abbandonare il figlio- e lo
aveva affidato a Polibo. Giocasta capisce e rientra sconvolta nella reggia. Così viene
convocato un vecchio pastore, testimone dell’omicidio di Laio, che ammette di aver
portato in fasce Edipo sul Citerone. Edipo si precipita distrutto nella reggia e un
nunzio gli riferisce che la regina si è impiccata mentre Edipo si è accecato nella
camera nuziale. Rientra Edipo e la tragedia si chiude con l’arrivo di Creonte,
divenuto nuovo reggente di Tebe, che fa riportare Edipo nella reggia in attesa che si
decida la sua sorte.
Aristotele individuava nell’Edipo re l’esempio perfetto di tragedia perché presenta in
forma tipica il mutamento di fortuna e la caduta di un uomo che, in un solo giorno,
passa dalla prosperità alla rovina totale a causa di un atto compiuto
involontariamente: Edipo infatti ha ucciso il padre e sposato la madre. L’Edipo re
descrive la presa di coscienza del protagonista che, al culmine della fortuna, è
investito dal suo terribile passato. Della sua natura ambigua, Edipo non aveva
ancora consapevolezza, perché fino al giorno della rivelazione non aveva conosciuto
il proprio lato oscuro di assassino incestuoso, ma soltanto il volto glorioso del re. Il
dramma mostra l’incontro improvviso del protagonista con una sciagura maturata
segretamente. Edipo è di fatto responsabile delle sue azioni, secondo il principio
arcaico della contaminazione, che colpisce chi ha commesso sacrilegi, anche se
involontariamente. L’ironia tragica sta nel fatto che all’inizio del dramma, senza
saperlo, è proprio Edipo a maledire se stesso a consegnarsi all’azione dei demoni
punitori. Edipo è l’unico a voler sapere, mentre tutti gli altri, a partire da Giocasta,
cercano di rimuovere il segreto, che pure hanno intuito.
3.8 Elettra
L’Elettra è forse stata rappresentata attorno al 418 a.C.
Trama: Oreste, accompagnato da Pilade e dal pedagogo, torna a Micene per
vendicare l’uccisione del padre Agamennone. Anni prima era stato salvato dalla
sorella Elettra, che lo aveva affidato ad un amico focese; ora Elettra vive nella
speranza del suo ritorno, covando molto odio nei confronti degli assassini che a loro
volta la maltrattano. Accanto a lei vive la sorella Crisotemide. Oreste organizza
l’intrigo che lo condurrà alla vendetta; con lo stratagemma della notizia della propria
morte, Oreste può constatare la gioia della madre e ha conferma dell’immutato
affetto di Elettra, che vorrebbe attuare la vendetta. Perciò, dopo averle rivelato la
propria identità, Oreste organizza insieme a lei il piano. Entrato nel palazzo, uccide la
madre, che invoca pietà: atteso il ritorno di Egisto, lo costringe ad entrare nello
stesso luogo dove morì il padre, dove gli darà la morte.
L’Elettra e in particolare la sua struttura drammaturgica, si avvale di un’indagine
psicologica sofistica: il dramma di Sofocle è una tragedia al femminile. Il vero perno
dell’azione è Elettra: Oreste compie solo l’atto materiale di punire i due omicidi. La
vicenda si incentra tutta intorno al personaggio di Elettra, una donna carica d’odio e
in conflitto con la madre Clitennestra. Se l’opera si apre con il ritorno di Oreste a
Micene, l’azione si sposta su Elettra, ignara del ritorno del fratello. Sofocle insiste sul
paradosso di una principessa ridotta schiava nella reggia che fu di suo padre,
consumata dal desiderio di vendetta. Né il dialogo con la sorella Crisotemide, né
l’aspro confronto con Clitennestra la vedranno piegarsi. Solo la falsa notizia della
morte di Oreste la fa vacillare per un attimo: alla gioia di Clitennestra si oppone il
desiderio disperato di Elettra. Il successivo riconoscimento tra Oreste ed Elettra dà
svolta alla tragedia: è una scena intensa, che prelude alla vendetta compiuta fuori
scena da Oreste, che uccide la madre con gioia crudele. Siamo di fronte ad una
tragedia “dell’odio femminile”, un odio radicato nella profondità della mente di
Elettra.
3.9 Filottete
Il Filottete fu rappresentato nel 409 a.C.
Trama: Filottete vive ormai da 10 anni nell’isola di Lemno, dove i compagni diretti
con lui a Troia lo hanno abbandonato per non contaminarsi con la ferita provocatagli
da una vipera. Troia però non è ancora stata espugnata e una profezia ha rivelato
che ciò sarà possibile solo con l’arco di Filottete, appartenuto un tempo a Eracle;
perciò Odisseo e Neottolemo si recano a Lemno; Odisseo ha un piano: Neottolemo
fingerà di aver abbandonato la spedizione greca e cercherà di carpire la fiducia di
Filottete e farsi consegnare l’arco. Così avviene: Filolttete, logorato dalle sofferenze,
saluta con commozione l’uomo che dopo anni si presenta alla sua vista. Tra
Neottolemo e Filottete si stabilisce una certa simpatia che promette la riuscita del
piano di Odisseo. All’intrigo dà il tocco finale un marinaio greco che fingendosi un
mercante preannuncia l’arrivo di Odisseo sull’isola allo scopo di condurre via
Filottete con la forza. Così Filottete prega Neottolemo di portarlo con sé prima che
arrivi Odisseo e la sua fiducia lo spinge ad affidargli l’arco. Ora Neottolemo ha in
mano l’arco e potrebbe tornarsene a Troia, ma la vergogna di aver ingannato un
uomo malato lo fa esitare. Arriva Odisseo, decido a portar via l’arco e ad
abbandonare Filottete al proprio destino; nel frattempo quest’ultimo capisce di
essere caduto in un tranello. Odisseo si impadronisce dell’arco e si avvia verso la
nave, ma Neottolemo lo rincorre, gli strappa l’arma e la restituisce a Filottete.
Odisseo si allontana gettando minacce; Neottolemo e Filottete, invece, si avviano
verso la nave. L’intervento di Eracle, che promette a Filottete che a Troia la sua ferita
sarebbe stata curata, contribuisce a convincere Filottete ad imbarcarsi.
Filottete è mostrato da Sofocle come un vecchio inasprito dalla solitudine e dal
dolore, un uomo che ha perso ogni fiducia negli altri ed è annientato sia dalla
sofferenza fisica che dal fatto di essere stato privato della sua identità, isolato e
costretto a regredire a uno stato selvaggio di esistenza. Filottete vive come un
animale in una grotta, è imprigionato in un luogo marginale dove mancano le forme
elementari di civiltà. Qui la natura appare non come un felice stato primitivo ma
come un nemico da cui l’umanità si era affrancata con fatica. Filottete appartiene
alla categoria degli eroi sofoclei solo davanti al destino, come Aiace ed Edipo, sui
quali si abbatte una sorte incomprensibile che in attimo sconvolge la loro vita.
Tipicamente sofocleo è anche il tema del tempo: il tempo di Filottete è vuoto,
trascorso in uno spazio selvaggio dove per dieci anni nulla è successo e ogni giorno è
uguale all’altro. Accanto al protagonista ci sono due personaggi: Odisseo, politico
astuto, e Nettolemo, generoso ma inesperto. Neottolemo è complementare a
Filottete: non è un uomo a pieno titolo; tra i due si attua un processo di
reintegrazione perché Filottete ritorna alla civiltà e Neottolemo si trasforma da
giovane a uomo. Il Filottete implica anche una riflessione sul potere e sulla politica:
Odisseo non solo ingannatore ma un esponente alla ragion di stato; egli inganna ma
per il bene comune.
3.10 Edipo a Colono
L’Edipo re lascia il protagonista in uno stato di disgregazione, cieco e maldetto.
Quando inizia l’Edipo a Colono, rappresentato nel 401 a.C., sono passati molti anni;
Edipo è un mendicante accompagnato solo dalla figlia Antigone che lo segue devota
al suo esilio
Trama: Edipo giunge del bosco sacro delle Eumenidi a Colono, nei pressi di Atene,
condotto dalla figlia Antigone che non l’ha abbandonato: un oracolo gli ha rivelato
che qua finiranno i suoi giorni. Gli abitanti del luogo vorrebbero allontanarlo, ma il
re di Atene Teseo decide di dargli ospitalità. L’altra figlia Ismene, giunge
annunciando che a Tebe i due figli maschi di Edipo, Eteocle e Polinice, sono in lotta
per il potere e che la vittoria, secondo un oracolo, toccherà a chi avrà l’appoggio
paterno. Arriva quindi Creonte, per persuadere Edipo a tornare in patria, ma dopo
aver rifiutato prende in ostaggio le figlie, che sono però salvate dall’intervento di
Teseo. Giunge poi Polinice nella speranza di ottenere l’appoggio paterno, ma Edipo
lo maledice. Una serie di malefici segnalano ad Edipo che è giunta la fine: solo Teseo
lo accompagna nel momento supremo ottenendo in cambio sicurezza e protezione
per la sua patria.
Il destino di Edipo si compie sulle strade: esposto neonato su un sentiero e trascina
la sua vecchiaia di cieco vagabondo. La tragedia inizia con l’ingresso in scena di
Edipo e Antigone, accanto a loro sfilano Creonte e Polinice. Tra loro e la coppia dei
mendicanti si spalanca un baratro: i primi sono assorbiti dai loro giochi di potere
anche se Edipo è ormai lontano dalla vita degli uomini. La tragedia è fatta
specialmente di parole e di elaborate parti corali; alla fine Edipo da mendicante si
trasforma nel prescelto protettore della città, perché la morte pone fine alle miserie
e l’ingresso nella comunità eroica. L’Edipo a Colono può essere considerato una
meditazione sulla morte; se l’Edipo re aveva lasciato il problema della colpa di Edipo,
l’Edipo a Colono lo chiude mostrando la conclusione solenne di un destino
tremendo. In questo modo, giunto alla vecchiaia, il poeta sembra congedarsi dal suo
pubblico; la vita umana è un mistero, un percorso doloroso sui cui si estende
l’ombra liberatrice della morte.
3. Euripide
3.1 La vita e le opere
Euripide nacque a Salamina intorno al 480 a.C.; non partecipò all’azione politica e
fu il prototipo dell’intellettuale appartato, dedito alla lettura e all’attività di poeta
e di pensatore. Gliene derivò una nomea di misantropo che diede origine a
racconti vari e fantasiosi, tra cui quello secondo il quale avrebbe fatto attrezzare
una grotta a Salamina per ritirarsi a leggere e meditare isolato da ogni contatto
umano. Iniziò la carriera di tragediografo nel 455 a.C.; negli agoni teatrali ottenne
scarso successo perché il carattere rivoluzionario della sua arte non era fatto per
corrispondere ai gusti soliti della massa. Attorno al 408 a.C. si trasferì in
Macedonia presso la corte di re Archelao e proprio lì morì nel 406 a.C. poco
prima della guerra fra Atene e Sparta. Di Euripide si conoscono 92 drammi,
sopravvivono 18 tragedie e 1 dramma satiresco. I drammi superstiti sono:
ALCESTI del 438 a.C.; MEDEA del 431 a.C.; IPPOLITO del 428 a.C.; ERACLIDI;
TROIANE del 415 a.C.; ANDROMACA; ECUBA del 423 a.C.; SUPPLICI; IONE;
IFIGENIA IN TAURIDE, ELETTRA; ELENA del 412 a.C.; ERACLE; FENICIE del 410 a.C.
circa; ORESTE del 408 a.C.; IFIGENIA IN AULIDE del 406 a.C.; BACCANTI del 406
a.C.; CICLOPE; RESO.
3.2 La crisi della ragione
Euripide portò il linguaggio tragico all’estremo limite; Aristofane spesso prese di
mira Euripide e scherniva i suoi eroi che parlavano come uomini e donnette
qualsiasi, hanno pensieri comuni e un concentrato di vizi. Nessun altro tragico
come Euripide ha portato così in profondità la psicologia dei personaggi , che
cessano di essere eroi per diventare vicini al sentire comune: spesso i personaggi
sono di condizione sociale inferiore e hanno un ruolo importante nell’azione
drammatica. Appiattendo la distanza tra il mito e l’esperienza quotidiana,
Euripide esprime in maniera esemplare l’atteggiamento scettico e razionalista di
molti intellettuali del suo tempo nei confronti della tradizione. Euripide riesce a
penetrare nel labirinto delle emozioni e delle angosce dei personaggi, che sono
mossi da impulsi profondi di cui non sono padroni; così, il teatro di Euripide
esprime la grandezza e la crisi della ragione umana: i suoi personaggi sono capaci
di analizzare le cause vicine e lontane dei fatti ma cadono vittime delle forze
irrazionali che operano dentro di loro. Gli antichi accusavano Euripide di
“ateismo” e infatti i suoi dei sono allo stesso tempo vicini e lontani al suo mondo;
compaiono spesso nel prologo e nell’esodo dell’azione ma non sono portatori di
valori etici o religiosi e operano solo come personaggi teatrali. Il teatro euripideo
cessa di essere un “fatto religioso” per diventare un luogo dove opera solo la
società degli uomini, con i suoi intrecci di passioni e di potere. Euripide ambienta
le sue trame sullo sfondo di un cielo vuoto; il mondo divino gli appare privo di
risposte e popolato da forze ostili; gli dei vi appaiono persino meschini, nella loro
assoluta indifferenza verso la giustizia e la vita umana. Euripide non dà
spiegazione per il destino doloroso riservato agli uomini. Sono soprattutto i
personaggi femminili a esprimere un nuovo universo di sensibilità; le donne,
escluse dalla vita politica, possono meglio esprimere sulla scena tragica
quell’immediatezza di sentimenti che Euripide sa tradurre in momenti di intesa
lucidità.
3.3 Tradizione e sperimentazione del teatro euripideo
Euripide fu un grande inventore del linguaggio tragico; dal punto di vista
drammaturgico, un aspetto tipico del suo teatro è il prologo espositivo, ossia un
monologo recitato da un personaggio che informa gli spettatoti sull’antefatto e
sulle circostanze e poi si allontana, senza più avere alcuna parte nell’azione; il
prologo diventa così una parte quasi separata dalla tragedia. Un altro aspetto
caratteristico di Euripide è la monodia, cioè il “canto a solo” dell’attore che passa
dalla parola al canto, nei momenti più tesi dell’azione. Le tragedie euripidee non
sempre sono perfettamente costruite dal punto di vista tecnico, poiché l’azione
appare slegata e l’intreccio a un certo punto si blocca, in modo da far concludere
il dramma con un intervento esterno (l’arrivo del deus ex machina); questo
avviene perché Euripide concentra l’azione sul personaggio. Nell’opera di
Euripide si può individuare un’evoluzione che lo porta da trame tradizionali,
concentrate intorno alla sofferenza dell’eroe, a trame ad intreccio, in cui il colpo
di scena cambia il destino del personaggio. La lingua di Euripide è duttile, spesso
colloquiale ma in realtà molto colta, che lascia spazio al linguaggio tecnico
elaborato dai saperi contemporanei. Il suo stile è variegato, vi sono momenti di
grande slancio lirico, altri comico-realistici, altri caratterizzati da abili gare di
eloquenza e altri da squarci descrittivi.
3.4 Il primo Euripide: Alcesti
L’Alcesti fu rappresentata nel 438 a.C. come quarta opera di una trilogia al posto
del dramma satiresco, alcuni hanno parlato perfino di tragicommedia: non solo
per il lieto fine in cui la sposa morta ritorna alla vita e può riabbracciare il marito,
ma anche per alcuni momenti comici, come la raffigurazione di Eracle mangione
che appare sulla scena ubriaco e schiamazzante.
Trama: Il prologo vede affrontarsi, davanti alla reggia di Admeto, Thanatos, il
demone della morte, e Apollo: Thanatos è venuto a prendere Admeto, destinato
ad una morte prematura, ma questi ha avuto in dono da Apollo la possibilità di
sfuggire al suo destino, purchè qualcuno offri la propria vita in cambio della sua.
Solo la moglie Alcesti è disposta a questo sacrificio e Apollo cerca di convincere
Thanatos a rinunciare alla sua preda ma egli non vuole farlo. La donna si congeda
così dal marito e dai figli con un addio straziante e Admeto arriverà anche a
giurarle che una statua con le sue sembianze la sostituirà nel loro letto. Poco
dopo si presenta Eracle, ignaro del lutto che ha colpito la reggia, e viene accolto
ospitalmente da Admeto; per discrezione Admeto avvisa Eracle che è morta una
lontana parente e perciò non potrà per quella sera condividere la cena con lui.
Segue un diverbio con il padre Ferete al quale Admeto rinfaccia di non essersi
sacrificato per lui e dal quale viene accusato a sua volta di viltà per avere
consentito che morisse la madre dei suoi figli. Ricompare Eracle, completamente
ubriaco e guardato con disapprovazione da un servo di Admeto, che non sa della
bugia detta per cortesia dal suo padrone. Messo alle strette, il servo rivela
l’accaduto e Eracle, commosso, decide di andare ad affrontare Thanatos, per
riprendere Alcesti e restituirla al marito. Compiuta l’impresa, Eracle mette alla
prova l’amore di Admeto e avutane conferma, gli restituisce la sposa.
La versione tradizionale di questo mito raccontava del re Admeto che aveva
ospitato presso la sua corte Apollo, esiliato dal cielo, e ne aveva ricevuto in
cambio il privilegio di poter evitare la morte se un altro si fosse offerto di
prendere il suo posto. Solo Alcesti aveva scelto di scendere nell’Ade al posto del
marito e il suo sacrificio era stato ripagato dagli dei, poiché Persefone l’aveva
rimandata sulla terra. Nella variante euripidea è invece Eracle, ospitato da
Admeto, ad affrontare il demone della morte e a restituire Alcesti. L’Alcesti
sviluppa quindi il tema dell’eroe che sconfigge la morte in un dramma dai tratti
fiabeschi. Come molti eroi euripidei, Admeto è un personaggio mediocre, un
uomo comune e non il nobile principe di cui parlava il mito; in realtà non è
neppure un eroe tragico. Questa mediocrità si rivela nel dialogo con il padre
Ferete, accolto a male parole, pur essendo vecchio, ha rifiutato di sostituirsi al
figlio; assistiamo quindi ad una gara di egoismo. Il valore dell’ospitalità che
Admeto in lutto offre a Eracle è presente anche in Euripide, l’ospitalità infatti è un
alto merito sociale, in quanto esprimeva in massimo grado la virtù aristocratica;
nell’Alcesti è solo una cornice al dramma personale di una donna che affronta la
morte con grande nobiltà per amore dello sposo e dei figli. Alcesti sovrasta il
marito per statura morale e generosità dei sentimenti; è la prima delle grandi
figure femminili del teatro euripideo però le manca qualcosa: è sin troppo
generosa e nobile, accetta senza discutere il suo ruolo sociale di protettrice dei
figli e della famiglia; è il modello della donna per bene e della sposa perfetta. Il
terzo personaggio, Eracle, è anch’esso una figura positiva ed elevata, anche se
connotata da tratti semiseri nella scena in cui appare ubriaco.
3.5 I grandi personaggi femminili: Medea e Ippolito
Tra il 431 e il 428 a.C., Euripide compose due tragedie: Medea e Ippolito; in
entrambe lo sviluppo del personaggio come centro dell’azione drammatica è
giunto a piena maturazione: due donne ribelli alle leggi della famiglia, inquietanti
e portatrici di sciagura.
La trama della Medea: Dopo aver aiutato Giasone nella conquista del vello d’oro,
abbandonando per lui la propria patria, e avergli dato dei figli, Medea è ripudiata
dall’eroe, che le preferisce la figlia di Creonte, re di Corinto. Disperata, Medea si
lamenta della propria sorte davanti alle donne corinzie; la sua ribellione desta i
sospetti del re che le dice di lasciare la città; Medea con abili parole riesce a
dissimulare i suoi propositi e ottiene di poter rimanere ancora un giorno, che le
servirà ad attuare un piano. Giasone viene a salutarla; dopo aver ottenuto dal re
di Atene Egeo la promessa di venire ospitata da lui, Medea finge di essersi
rappacificata con Giasone e, tramite i figli, invia una ghirlanda e una veste
avvelenate alla nuova sposa come doni nuziali. Poco dopo un servo di Creonte si
precipita a riferire l’accaduto: appena indossata la vesta, la ragazza è morta, e
insieme a lei è morto il re che si era precipitato a soccorrere la figlia, restando
invischiato anche lui nel veleno. Ora Medea può portare a compimento la
vendetta contro Giasone: con il cuore straziato, uccide i figli e lascia Giasone
annientato dal dolore.
La tragedia è costruita intorno alla vendetta di Medea, che prima elimina la rivale
e poi uccide i propri figli per infliggere a Giasone il dolore più atroce. Medea
domina il dramma dall’inizio alla fine: è una donna passionale, eccessiva, mossa
da istinti elementari e capace di manifestare una vasta gamma di stati d’animo.
La tragedia si apre sulla protagonista che maledice rabbiosa il suo destino, poi
Medea riprende il controllo ed elabora il suo piano. Così, con il procedere
dell’azione, la vediamo analizzare davanti al coro le ragioni della sua sofferenza,
prepararsi astutamente una via di fuga, ripercorrere in un disperato monologo le
ragioni del suo agire, scissa tra l’affetto materno e il desiderio di vendetta; infine
la vediamo al sicuro sopra un carro alato, mentre assapora la sua vendetta
davanti a un Giasone impotente. E’ caratteristico della visione tragica di Euripide
mostrare il personaggio in un bilico tra irrazionalità e ragione, diviso tra pulsioni
opposte; Medea sa analizzare lucidamente i suoi stati d’animo, ma non può
impedirsi di rimanere vittima delle forze oscure che si agitano dentro di lei. Nella
Medea questo mondo interiore così psicologicamente evoluto appare per la
prima volta e si afferma con una forza impressionante. Il personaggio della
protagonista, con i suoi filtri e la sua astuzia crudele, era presente in altre due
tragedie, perdute, di Euripide: le Peliadi e l’Egeo. Sarebbe limitativo vedere nella
Medea solo una storia personale di gelosia e di vendetta, dietro alla vicenda
dell’eroina si distingue una critica al modello tradizionale di famiglia. Giasone,
che arriva sulla scena stupito per la gelosia di Medea e ragiona in termini di
ordine famigliare, agli occhi del pubblico non era affatto un colpevole di
tradimento; al contrario, rappresentava le idee del cittadino medio ateniese e dal
punto di vista del cittadino aveva ragione, giacchè le leggi ateniese escludevano
dalla cittadinanza i figli di un coniuge straniero e chi non dava figli alla città era
biasimato; Medea viene, infatti, da un mondo barbaro, governato da leggi
diverse. Quello tra Giasone e Medea non è solo il conflitto tra un uomo infedele
e una donna gelosa, ma anche uno scontro tra culture e mentalità diverse, tra
cultura barbara e quella greca, tra la cultura maschile della famiglia patriarcale e
quella femminile delle passioni. E’ questa distanza antropologica a rendere
impossibile la vera comprensione fra i due personaggi. La tragedia si chiude con
una frattura totale: dietro queste stragi non c’è alcun progetto divino, alcuna
giustizia che interviene a ristabilire l’equilibrio e forse non c’è neanche un senso.
Tutti in modi diversi hanno perso qualcosa e sono stati immolati i più deboli e i
più innocenti (i figli di Medea e la giovane principessa di Corinto).
La trama dell’Ippolito: Il prologo dell’Ippolito è recitato da Afrodite, che afferma
di sentirsi offesa da Ippolito, figlio di Teseo, perché questi, devoto ad Artemide,
rifiuta l’amore e si dedica solo alla caccia, conservandosi casto: perciò la dea ha
infuso in Fedra, matrigna di Ippolito, un amore irresistibile per il figliastro. Fedra
appare sulla scena malata, sorretta dalla nutrice, ma per non disonorare se stessa
e lo sposo intende lasciarsi morire senza far parola della passione che la
consuma; la nutrice riesce però a farsi confidare la causa del suo male e lo
riferisce ad Ippolito, che si scaglia contro la stirpe femminile. Vedendosi tradita,
Fedra si impicca; in quel momento arriva Teseo e tra le mani della morta viene
trovata una lettera in cui Fedra accusa Ippolito di averle fatto violenza. Malgrado
si reputa innocente, Teseo lo maledice e la bandisce da Trezene, pregando
Poseidone di accordargli l’ultima delle tre grazie che un tempo gli aveva
promesso, punendo il figliolo; poco dopo arriva un messaggero e racconta che i
cavalli di Ippolito, imbizzarriti alla vista di un mostro marino suscitato da
Poseidone, hanno sbalzato il giovane dal carro, trascinandone il corpo sugli
scogli. Condotto in scena ormai morente, Ippolito si congeda dall’amata
Artemide, che appare ex machina, e grazie all’intervento chiarificatore della dea
il giovane può convincere il padre della propria innocenza.
Una prima versione di questa tragedia (Ippolito velato) andò incontro a un
insuccesso, qualche anno dopo Euripide rimaneggiò l’opera (questa seconda
versione è nota come Ippolito coronato) e ottenne nel 428 a.C. il primo premio ai
concorsi teatrali. Ippolito era un eroe venerato ad Atene e nella vicina città
Trezene: il suo culto vi si celebrava ancora nel II secolo d.C., quando Pausania
potè osservare un tempio e un recinto dedicati a Ippolito, dove ogni anno
venivano celebrati sacrifici in suo onore; le ragazze di Trezene, prima del
matrimonio, si tagliavano i capelli e andavano ad offrirli sulla sua tomba. Ippolito
rappresenta l’eroe che muore giovane e viene divinizzato; tra l’altro un culto di
Ippolito si celebrava anche in Italia: secondo una variante del mito, Artemide
aveva resuscitato il suo prediletto e lo aveva trasportato tra i boschi del Lazio,
affidandolo alla ninfa Egeria, alla quale Ippolito dedicò il bosco di Nemi dove sino
alla tarda antichità si celebrava il truce sacrificio umano del “re del basco”. Nella
tragedia euripidea, Ippolito è solo il protagonista di un dramma famigliare e
l’accento viene spostato sul tormento psicologico della protagonista. Il prologo è
recitato da Afrodite, la dea capace di infondere amore in chiunque e che ora, per
punire Ippolito che le preferisce Artemide, ha deciso di destare una passione
incestuosa per lui nella sua matrigna. Fedra non è quindi un’immorale, ma la
vittima di una forza possente e irresistibile contro cui nessuno può lottare; Fedra
è scissa nel conflitto tra i doveri della famiglia e la pulsione che la agita, è un
personaggio moderno nel suo tormento psicologico. Anche lei, come Medea,
porta alla rovina la sua casa, non per una colpevole volontà di vendetta, ma
perché travolta da una forza oscura. Fedra è uni dei grandi personaggi del teatro
tragico: entra in scena fuori di sé, abbandonandosi alle proprie fantasie, incapace
di confessare il suo segreto, poi lo rivela passando dalla vergogna alla speranza;
infine, quando viene respinta, si suicida e causa la rovina di chi le sta intorno.
L’eroina non è mai padrona di se stessa; al contrario di lei, Ippolito non smarrisce
mai la sua rigidità, apparo lontano dal sentire comune, inaccessibile nel suo
mondo marginale, non respinge solo la matrigna ma l’amore in generale; è
vergine e fiero di esserlo. Fedra e Ippolito sono entrambi peccatori, poiché in
modi diversi violano una legge della polis: con i loro atteggiamenti corrodono la
cellula della vita sociale, ovvero la famiglia.
3.6 Le tragedie patriottiche: Eraclidi e Supplici
Gli Eraclidi e le Supplici appartengono alla produzione patriottica di Euripide; in
queste due tragedie che si fanno risalire ai primi anni delle guerre del
Peloponneso (iniziata nel 431 a.C.), sembra affiorare l’impegno a favore della
propaganda militare ateniese: Atene è presentata come il baluardo di ogni
libertà, la patria dove regnano la giustizia e il rispetto delle leggi umane e divine.
Le due tragedie rivelano molti tratti comuni.
La trama degli Eraclidi: Perseguitati da Euristeo, re di Argo, gli Eraclidi
(discendenti di Eracle) guidati dal vecchio Iolao, giungono alle porte di Atene,
dove cercano protezione presso l’altare di Zeus. Demofonte, re della città, si
impegna a difenderli contro la prepotenza del loro persecutore, che muove
armato verso Atene. Un oracolo chiede, in cambio della vittoria, il sacrificio di
una vergine; si offre Macaria, una delle figlie di Eracle, desiderosa di salvare i
fratelli e di far vincere Atene. Euristeo viene sconfitto e fatto prigioniero grazie al
miracoloso ringiovanimento di Iolao. Alcmena, madre di Eracle, insiste, contro la
volontà degli ateniesi, di uccidere Euristeo il quale, prima di morire, promette
futura protezione alla città di Atene che ha tentato di difendere i suoi diritti di
prigioniero.
La trama delle Supplici: Un gruppo di donne si raccoglie presso l’altare di
Demetra a Eleusi, per chiedere agli Ateniesi di aiutarle a dare degna sepoltura ai
figli: si tratta delle madri dei guerrieri argivi morti nell’assedio di Tebe, alle quali i
Tebani negano la restituzione dei cadaveri. Teseo, re di Atene, si lascia
commuovere da dolore delle donne e affronta l’araldo tebano in un dibattito
politico, in cui si difendono la democrazia, il diritto, la libertà, l’uguaglianza e la
sovranità popolare di Atene in contrapposizione alla tirannide di Tebe. Alla
battaglia oratoria segue quella militare, che si conclude con la vittoria ateniese e
la restituzione dei cadaveri alle madri. Ad Adrasto, che accompagna le donne,
viene affidato il compito di celebrare i caduti con un discorso; durante il rito
funebre Evadne si getta sul rogo del marito, dando prova della sua fedeltà.
Conclude il dramma la comparsa ex machina di Atena, che fa giurare ad Adrasto
l’eterna riconoscenza della sua città nei confronti di Atene.
Gli Eraclidi si aprono con l’immagine dei figli di Eracle raccolti intorno al vecchio
Iolao nel tempio di Zeus; similmente, le Supplici si aprono con la vicenda delle
madri dei caduti di Tebe che si rivolgono al sovrano Teseo per ottenere i corpi dei
figli. Teseo nel famoso dialogo con l’araldo accumula i topoi della retorica
propagandistica, a cominciare da quello dell’isonomia e della libertà. In entrambe
le tragedie Atene esce vittoriosa, capace di difendere i deboli.
Nei primi anni della guerra contro gli Spartani la tragedia euripidea diventa piena
della propaganda bellica anche se Euripide condanna sempre l’assurdità della
guerra e delle sue conseguenze.

3.7 Le donne troiane: Ecuba, Andromaca e Troiane.


Il tema della guerra appare anche in tre tragedie di epoca diversa, tutte legate
alla vicenda mitica della conquista di Troia –vista come atto di violenza- vista
nella prospettiva dei vinti, e in particolare dei più deboli tra i vinti, cioè donne e
bambini.
La trama dell’Ecuba: Il prologo è recitato dal fantasma Polidoro, il più giovane dei
figli di Priamo che era stato affidato a Polimestore, re di Tracia, per sottrarlo ai
pericoli della guerra; ma Polimestore, dopo aver sentito della caduta di Troia, l’ha
ucciso per impadronirsi dei suoi beni e il suo cadavere, gettato in mare, è arrivato
nel punto in cui è accampata la flotta dei Greci. Dopo la vittoria su Troia, i Greci
sono sbarcati in Tracia a causa dei venti avversi: per ottenere di poter tornare in
patria devono sacrificare sulla tomba di Achille la vergine Polissena, figlia della
regina di Troia Ecuba, che cerca di convincere Odisseo a risparmiare la figlia. La
fanciulla viene immolata e l’araldo Taltibio racconta la disperazione della madre;
quando però ad Ecuba viene portato il cadavere di Polidoro, il dolore della regina
si tramuta in ferocia. La sua vendetta nei confronti dell’ospite traditore, che ha
ucciso il ragazzo per impadronirsi delle sue ricchezze, è spaventosa: dopo averlo
attirato nella propria tenda, lo acceca con l’aiuto delle schiave troiane e gli uccide
i figli. Si svolge un’azione giudiziaria in cui Ecuba e Polimestore sostengono le
proprie ragioni davanti ad Agamennone, che al termine dà ragione ad Ecuba;
Polimestore predice la metamorfosi di Ecuba in cagna e la fine di Agamennone e
Cassandra per opera di Clitennestra.
L’Ecuba, rappresentata nel 424 a.C., evidenzia una netta separazione tra le
vittime e i loro carnefici, dove le vittime sono ancora una volta gli innocenti:
Polidoro, vittima di un uomo che avrebbe dovuto essergli amico, Polissena viene
sgozzata come un animale e i figli di Polimestore innocenti delle colpe del padre.
La tragedia è costruita intorno al personaggio di Ecuba, la vecchia regina è una
donna piegata e umiliata, ma capace di trarre dal suo dolore la ferocia e la
vendetta.
La trama delle Troiane: Troia è caduta e le Troiane vengono assegnate come
schiave e concubine ai vincitori. Taltibio annuncia che Cassandra è toccata ad
Agamennone, Andromaca e Neottolemo ed Ecuba ad Odisseo. Cassandra intona
un lugubre canto nuziale predicendo le sventure che attendono lei e il suo
padrone al ritorno in Grecia e preannuncia anche il destino di Odisseo, avviato ad
un lungo ritorno. Su Andromaca di abbatte una nuova sciagura: i Greci hanno
deciso di precipitare da una rupe il piccolo Astianatte, temendo che possa in
futuro vendicare il padre. Nella scena dopo Ecuba ed Elena si contrappongono in
un agone giudiziario, nel quale Elena si difende facendo appello al giudizio di
Paride e all’intervento di Afrodite, mentre Ecuba ne dimostra la responsabilità. Al
termine, il corpo di Astianatte viene consegnato ad Ecuba e la tragedia si chiude
con l’incendio di Troia e l’addio alla città da parte delle prigioniere, che vengono
condotte alle navi.
Quando le Troiane iniziano, tutto si è già compiuto: la città è stata conquistata, gli
uomini massacrati, le donne prigioniere e attendono solo di essere distribuite tra
i vincitori. Questa tragedia inizia là dove un dramma greco termina, vale a dire
con la catastrofe, una trama dalla struttura statica, scandita per scene parallele in
cui l’azione è bloccata. La vita delle donne è spezzata: sono oggetti e anche gli dei
sembrano lontani dalla loro condizione di schiavitù. Sono donne sole e umiliate e
devono subire senza difesa gli oltraggi e le violenze dei vincitori. Ad Andromaca i
vincitori hanno tolto tutto: le hanno ucciso il marito e distrutto la casa,
condannato il figlio a morte e resa schiava. Il vincitore pretende anche di
impadronirsi del suo dolore, la vuole docile, pronta a salire nel letto del suo
nuovo signore e a dare piacere all’uomo le cui mani grondano del sangue del
figlio. Euripide fa emergere le contraddizioni e la follia di chi crede che la forza da
sola basti a piegare per sempre un essere umano e un popolo; nel momento in
cui le navi greche salpano per tornare a casa cariche di bottino, si vedrà che la
rovina starà attendendo anche i vincitori tra le onde del mare. Il discorso di
Euripide non era astratto; questo dramma infatti fu rappresentato nel 415 a.C. in
un momento particolare della storia ateniese, quando si stava discutendo della
spedizione militare in Sicilia. Poco prima gli Ateniesi avevano assalito e
conquistato l’isola di Melo, trattando i vinti secondo la legge del più forte: gli
uomini uccisi, le donne e i bambini venduti come schiavi. Molti di loro si
trovavano ad Atene quando il dramma venne rappresentato e molti ateniesi
aveva anche partecipato a quella carneficina. Melo assume i contorni della Troia
del mito. Le Troiane trasmettono perciò un messaggio pacifista, Euripide sceglie
dunque di vedere la sopraffazione e la violenza dalla prospettiva delle donne, così
estranee alla cultura della guerra e della violenza. Sono appunto le donne le
protagoniste collettive di questa tragedia; gli uomini incombono dall’esterno del
dramma ma compaiono solo marginalmente sulla scena e quando lo fanno sono
presenze grottesche. Se le donne sembrano più deboli dei loro carnefici, in realtà
non è così: queste prigioniere senza più né casa né patria, ridotte a oggetti di
scambio, sono animate da un’indomabile volontà ce le spinge a lottare. Questo è
il ruolo affidato ad Ecuba: la vecchia regina rappresenta la memoria vivente della
sua famiglia e della sua città, che deve essere trasmessa a chi sopravvive.
La trama dell’Andromaca: Andromaca (vedova di Ettore) è diventata la concubina
di Neottolemo (figlio di Achille) e gli ha dato un figlio, che Menelao e sua figlia
Ermione (sposa legittima di Neottolemo) tramano di uccidere, ma quando
Andromaca sembra ormai spacciata interviene in difesa Peleo, che mette a nudo
la viltà di Menelao. Sopraggiunge poi Oreste, cui Ermione in passato era stata
promessa; temendo l’ira del marito Neottolemo, Ermione fugge con lui. Un
messaggero informa della morte di Neottolemo, caduto sotto i colpi dei sicari di
Oreste. L’apparizione finale di Tetide ex machina ha lo scopo di consolare Peleo
per la perdita del nipote Neottolemo e di predirgli l’immortalità. Andromaca
invece convolerà a nuove nozze con l’indovino Eleno e porterà in Epiro il figlio
Molosso, da cui avrà origine la stirpe dei Molossi.
Il giudizio sull’Andromaca non era particolarmente positivo a causa, per esempio,
della netta frattura in due parti (nella prima la protagonista è Andromaca, nella
seconda Ermione), sono presenti anche soluzioni drammaturgiche poco riuscite,
come il goffo andirivieni del cadavere di Neottolemo. Ancora una volta il fattore
“tragico” scaturisce dalle difficoltà di rapporti tra gli individui e dalla
prevaricazione che i forti si sentono in diritto di esercitare sui deboli. Andromaca
ed Ermione sono donne molto diverse: madre una, sterile l’altra, umile e
remissiva Andromaca, gelosa ed egoista Ermione. Tra i temi dell’Andromaca
spicca quello della salvazione: nella prima parte Andromaca viene salvata in
extremis dall’arrivo di Peleo, mentre nella seconda parte Ermione è soccorsa
dall’intervento di Oreste. Le due situazioni non sono tuttavia equivalenti: per
Andromaca la minaccia è concreta, in quanto rischia di essere uccisa insieme al
figlio da Ermione, che la accusa di averla resa sterile con filtri magici; per
Ermione, invece, il pericolo è relativo, perché ha solo da temere la punizione che
il marito le infliggerà per le trame da lei ordite contro la rivale. Neottolemo, vero
fulcro di tutto il dramma, non compare mai; solo alla fine del dramma viene
portato in scena il suo cadavere. Menelao viene dipinto come un individuo
meschino, succube della figlia; Peleo, invece, sembra mosso più dal suo odio nei
confronti del re di Sparta e dal desiderio di garantirsi la successione al trono di
Ftia, che da un affetto disinteressato per la sua protetta.
3.8 La riscrittura del mito: Elettra, Eracle, Fenicie
Euripide mostra la tendenza a rivisitare il mito in forme nuove e ciò appare
evidente in tre opere destinate a trattare uno dei cicli mitici più celebri: quello di
Eracle, quello di Edipo e quello degli Atridi. Sono opere della maturità
dell’autore: l’Eracle furente è del 416 a.C., l’Elettra composta tra il 416 e il 413 e
la Fenicie tra il 411 e il 409.
La trama dell’Elettra: Temendo che da Elettra possa nascere un vendicatore di
Agamennone, Clitennestra ed Egisto l’hanno data in sposa ad un povero
contadino che non l’ha mai toccata. Giungono successivamente Pilade e Oreste, il
quale non rivela alla sorella la propria identità; ma un vecchio servo lo riconosce
da una cicatrice lungo il sopracciglio, rendendo così possibile il ricongiungimento
dei due fratelli, che si apprestano alla vendetta. Per primo viene ucciso Egisto, poi
Clitennestra, attirata da Elettra, uccisa da Oreste. Castore, apparso ex machina
insieme con Polluce sul tetto della casa, fa ricadere la colpa dell’accaduto
sull’oracolo di Apollo e preannuncia il destino che attende i due fratelli: Oreste
sarà processato ad Atene, mentre Elettra abbandonerà la sua terra insieme a
Pilade.
Euripide muta totalmente la prospettiva dell’azione: è geniale la trovata di
trasformare Elettra da principessa in contadina, egli presenta personaggi umili e
non nobili e solenni. Elettra vive in campagna, sposa di un povero contadino che
la rispetta e che sembra più nobile di quelli della casata reale che, dentro la
reggia, si scannano e non risparmiano alcun crimine: dall’adulterio, all’inganno e
al matricidio. Anche Clitennestra non appare sanguinaria assassina ma una donna
debole; Egisto, come Oreste, sono personaggi di tono tutt’altro che epico. Tutta
l’azione si svolge in un quadro bucolico.
Trama dell’Eracle: Mentre Eracle è sceso agli Inferi per compiere un’impresa, a
Tebe il tiranno Lico si è impadronito del potere e minaccia di eliminare la famiglia
dell’eroe, che si è rifugiata presso l’altare di Zeus. Quando la moglie Megara, i
figli e il padre Anfitrione sembrano spacciati, giunge Eracle che uccide Lico e li
salva. Poi Era, nemica di Eracle, invia Lyssa, demone della follia, a convincere
l’eroe ad uccidere madre e figli; quando Eracle si rende conto dell’accaduto,
pensa di suicidarsi, ma l’intervento di Teseo lo convince ad accettare il dolore.
I Greci vedevano in Eracle l’eroe maggiore della mitologia, egli aveva liberato
terre e mari da esser mostruosi che prima li popolavano. Eracle era anche l’eroe
del mondo dorico, trova la sua ragion d’ essere nell’esaltazione del coraggio e
della lealtà, era considerato l’antenato dei re di Sparta. L’Eracle di Euripide è per
metà dell’opera l’eroe tradizionale, poi, dopo l’accesso di follia durante il quale
uccide la famiglia, appare un essere solo. Ora l’eroe deve confrontarsi con il lato
più debole della sua natura: è questo sprofondare nell’abisso della follia che
forma il nodo della tragedia; dopo un gesto disonorevole un eroe omerico
sarebbe voluto morire, in realtà, alla morte pensa anche Eracle ma alla fine
preferisce accettare il consiglio dell’amico Teseo. In questo senso è significativo il
tema della filantropia introdotto da Teseo: soltanto nella solidarietà di altri
uomini un individuo sofferente e piegato può trovare un riscatto.
La trama delle Fenicie: Gli Argivi si accingono ad assalire Tebe, dove attendono
Giocasta e Antigone; Giocasta inutilmente cerca di far riappacificare i figli Eteocle
e Polinice che sono divisi da una rivalità insanabile. Tiresia predice la morte di
entrambi e afferma che Tebe sarà salva solo se Meneco, figlio di Creonte, verrà
sacrificato: Meneco, volontariamente si uccide. Eteocle e Polinice si affrontano in
duello e muoiono, seguiti dalla madre che si uccide sui loro cadaveri. Creonte,
nuovo sovrano di Tebe, emette un bando d’esilio contro Edipo (che vive cieco
dentro la reggia) e Antigone, la quale promette di seppellire il fratello Pollinice
nonostante il divieto di Creonte.
Le Fenicie furono rappresentate dopo il 411 a.C., quando la guerra contro Sparta
aveva preso un brutto corso; in questo dramma, infatti, si dovrebbe vedere il
richiamo alla concordia. Le Fenicie riprendono un’antica variante del mito in cui
Edipo non viene scacciato ma vive recluso nella reggia; intorno a lui, il resto della
famiglia prosegue sulla strada di un destino sciagurato. E’ una tragedia collettiva,
dai toni epici, in cui nessun protagonista emerge sugli altri: Euripide costruisce
un’opera con lunghi squarci narrativi.
3.9 I drammi d’intreccio: Oreste, Ione, Ifigenia in Tauride, Elena
Il tardo Euripide inventa un nuovo tipo di tragedia, vale a dire il dramma
d’intreccio: all’interesse per la psicologia dei personaggi si sostituisce il gusto per
un intreccio pieno di colpi di scena e spettacolare. Sono drammi a lieto fine, in cui
una parte è affidata al caso (tuke); in alcune fra queste tragedie, l’ambientazione
è esotica e lontana dall’ambiente della polis. Queste opere sono: L’ELENA (412
A.C.), IONE e IFIGENIA IN TAURIDE (INTORNO AL 412) E L’ORESTE (408 A.C.)
La trama dell’Oreste: Il prologo è recitato da Elettra: Oreste ha commesso il
matricidio con l’aiuto della sorella Elettra e dell’amico Pilade, e giace sul giaciglio.
Lo attende il processo per matricidio davanti agli Argivi e spera di trovare un
difensore in Menelao, quest’ultimo sta tornando da Troia e ha mandato avanti
sua moglie Elena e sua figlia Ermione. Tindaro, padre di Clitennestra, vuole far
lapidare dal popolo Oreste e la sorella e perciò dissuade Menelao dall’aiutarli.
Mentre l’assemblea argiva decreta la loro morte, i due fratelli e Pilade, delusi da
Menelao, per vendicarsi vogliono uccidere Elena, ma la donna, scompare
misteriosamente. Presa in ostaggio anche Ermione i tre minacciando di
trafiggerla; l’apparizione di Apollo ex machina salverà Elena, farà prendere a
Menelao in sposa un’altra donna, Oreste sarà assolto ad Atene e Pilade sposerà
Elettra.
Il dramma è pieno di colpi di scena e i personaggi diventano a turno carnefici e
vittime. Dell’Oreste rimane solo la follia e l’eroe non è più il difensore delle leggi
del clan aristocratico, ma un povero malato che cerca di sottrarsi ad una
condanna per omicidio. Il dramma è ricco di personaggi e tutto si risolverà senza
sangue e con un lieto fine. Sembra che Euripide voglia dare valore all’intreccio.
La trama dello Ione: Ione è frutto di un’avventura di Apollo con Creusa, che l’ha
esposto subito dopo la nascita; strappato alla madre per ordine del dio, il
bambino è stato condotto a Delfi. Qui, dopo anni, giungono Creusa e il marito
Xuto, re di Atene, per chiedere al dio un rimedio contro la sterilità che li colpisce;
madre e figlio si incontrano e senza riconoscersi, si raccontano le loro storie.
L’oracolo di Apollo predice a Xuto che il primo che incontrerà uscendo dal tempo
sarà suo figlio. Imbattendosi in Ione, Xuto lo abbraccia convinto che sia il frutto di
una sua antica avventura e lo convince a seguirlo ad Atene; Creusa, poi,
addolorata, decide di uccidere Ione. Il piano fallisce e Creusa rischia a sua volta di
essere uccisa dal figlio; solo l’intervento della Pizia, che mostra la cesta in cui
Ione fu abbandonato, rende possibile il riconoscimento tra madre e figlio. Atene
ex machina chiude il dramma dicendo che: Xuto penserà che Ione sarà suo figlio,
da Ione avranno origine gli Ioni e dai due figli che Xuto e Creusa avranno insieme,
Doro e Acheo, nasceranno altre stirpi.
Lo Ione è il dramma dove si manifesta meglio il meccanismo drammatico della
fortuna. Un figlio senza genitori e una madre, che ha rinunciato alla sua creatura
e ora vive nella condizione di un matrimonio sterile, si incontrano nello stesso
luogo, ignorando la loro identità; su questo elemento di partenza si innestano
cambiamenti improvvisi. Ogni episodio, anziché sciogliere l’enigma, lo complica e
rallenta la soluzione, mantenendo viva la tensione. L’opera si chiude con il deus
ex machina, Atena, che ha il compito di consacrare la ritrovata armonia familiare
e lo status di Ione e Creusa. Nel corso del dramma i due erano stati inizialmente
estranei, poi nemici e infine si ricongiungono con affetto.
La trama dell’Ifigenia in Tauride: Ifigenia si trova nell’inospitale terra dei Tauri
come sacerdotessa della dea Artemide, che l’ha salvata dal sacrificio in Aulide
sostituendola con una cerva. Per volere di Apollo, giunge in Tauride Oreste con
Pilade perché vogliono impossessarsi della statua della dea e portarla in Attica: i
due vengono però catturati e dovrebbero essere sacrificati ad Artemide. Ifigenia
a questo punto pensa di servirsi di uno di loro per mandare in patria una lettera,
che diventa lo strumento di riconoscimento tra i fratelli. Si prepara la fuga:
Ifigenia fa credere al re Toante che gli stranieri e la statua della dea abbiano
bisogno di una purificazione in mare; i tre prendono il largo e a Toante, che vuole
approfittare dell’ondata che li ha respinti a riva, appare la dea Atena ex machina
che gli spiega che è accaduto per volontà divina.
L’Ifigenia in Tauride è una tragedia a lieto fine, dove i singoli episodi hanno uno
sviluppo positivo. Anche in quest’opera domina la fortuna, a cui capricci è legata
la vita e la morte dei personaggi; il dramma è ambientato in una terra lontana e
marginale, abitata da barbari che praticano il sacrificio umano e non conoscono
possibilità di contatto con gli stranieri che non sia la morte.
La trama dell’Elena: Elena è rimasta in Egitto ospite del re Proteo, e una divinità
con le sue sembianze ha seguito Paride. Morto Proteo, suo figlio Teoclimeno la
insidia con le sue profferte, costringendola a rifugiarsi supplice presso la tomba di
Proteo. L’arrivo del greco Teucro le reca la notizia della scomparsa di Menelao in
mare; mentre Elena entra nel palazzo per avere conferma da Teonoe, sorella del
re, del destino di Menelao, quest’ultimo fa naufragio in Egitto e viene a sapere
che la sua vera moglie si trova lì. Quando Elena esce dal palazzo i due sposi si
riconoscono e con Teonnoe complice, preparano la fuga: Menelao, sotto le
spoglie di naufrago, annuncia la propria morte a Teoclimeno, mentre Elena
promette al re di sposarlo, chiedendo di compiere un sacrificio in mare per il
marito morto. Saliti sulla nave concessa da Teoclimeno, Elena e Menelao
fuggono, mentre l’ira del re viene placata dall’intervento ex machina dei Dioscuri.
L’Elena di Euripide da un lato crea un divertissiment sapiente, dall’altro non
rinuncia a costruire una trama allusiva i cui riferimenti all’attualità degli anni della
guerra appaiono scoperti; spesso il tragico sconfina nel comico, ma ogni
contaminazione di genere risulta godibile. La scena dell’incontro tra Elena e
Menelao è una delle più accattivanti dell’opera; l’agone tra posizioni
contrapposte qui diventa gioco dell’assurdo. Nel dialogo con la vecchia serva
della reggia di Teoclimeno, Menelao apprende che all’interno è custodita Elena e
subito viene colto da uno strano turbamento, ma pensa ad uno strano caso di
omonimia; quando poi appare la vera moglie si convince di essere pazzo e gli
occorre tempo per tacitare i suoi dubbi e persuadersi che la guerra di Troia non è
che il risultato di un’illusione.
3.10 L’ultimo Euripide: Ifigenia in Aulide e Baccanti
Baccanti e Ifigenia in Aulide furono composte quando Euripide si trovava in
Macedonia presso la corte del re Archelao, tra il 408 e 406 a.C. e vennero
rappresentate postume ad Atene nel 403 a.C. In queste ultime opere, Euripide
abbandona il dramma a intreccio e sembra tornare a forme più tradizionali di
tragedia.

La trama dell’Ifigenia in Aulide: Con il pretesto di darla in sposa ad Achille,


Agamennone fa chiamare in Aulide la figlia Ifigenia; in realtà la fanciulla è
destinata al sacrificio, chiesto dall’oracolo per propiziare la partenza della flotta
greca. Giunge Ifigenia con la madre Clitennestra. Quando le due donne vengono
informate dell’oracolo, si ribellano e Achille, adirato per il fatto che il suo nome
sia stato utilizzato nell’inganno, difende le due donne ma l’esercito lo contrasta.
A questo punto Ifigenia, compresa l’importanza che la spedizione contro Troia
riveste per i Greci, si offre spontaneamente al sacrifico ma, al momento
dell’immolazione, la fanciulla scompare e al suo posto appare una cerva, inviata
da Artemide.
Nell’Ifigenia in Aulide sono ridotte alcune soluzioni drammaturgiche: ad esempio
la strutturazione delle parti corali, che con il loro stile ricercato, indicano una
tendenza verso forme d’arte elaborate. Questa raffinatezza formale però è in
contrasto con la psicologia di molti personaggi, incapaci di incidere sugli eventi:
Agamennone non è nemmeno in grado di evitare la morte della figlia, Menelao
assume un atteggiamento vittimistico, Achille si lascia travolgere dalle grida
dell’esercito; sono quindi eroi negativi cui manca il male e la follia. Colpisce
anche la discontinuità del carattere di Ifigenia, è poco convincente la sua
trasformazione da vittima che supplica il proprio carnefice in eroina disposta a
morire per la gloria. A differenza di Alcesti, Medea, Fedra e Cassandra, Ifigenia ha
un cambiamento repentino, non psicologicamente giustificato, e si compie
direttamente sulla scena. La sua risoluzione sancisce la superiorità delle ragioni di
Stato sulla vita individuale e si inserisce nel filone patriottico del sacrificio per la
salvezza della patria. Se Artemide alla fine preferisce che venga immolata una
cerva al posto di Ifigenia, non sminuisce il significato del gesto della fanciulla, ma
anzi ne esalta il coraggio.
La trama delle Baccanti: Dioniso e i suoi seguaci giungono a Tebe dall’Oriente per
dimostrare la propria natura divina alle sorelle della madre Semele e al cugino
Penteo, re della città, che lo escludono da preghiere; il dio ispira la sua divina
follia alle donne di Tebe, che abbandonano la città e si ritirano sui monti a
celebrare i suoi riti, con grande rabbia di Penteo che si promette di reprimere
questo disordine. Cedono al suo richiamo anche il vecchio re Cadmo e l’indovino
Tiresia, che esortano Penteo ad accogliere il dio nella città. Compare poi Dioniso
stesso, nei panni di un sacerdote e Penteo lo fa imprigionare e lo sottopone ad
un interrogatorio; ma subito dopo il dio si libera dai ceppi e si fa beffe di Penteo.
Venuto a conoscenza delle imprese prodigiose compiete dalle Baccanti sul
Citerone, Penteo ne è al tempo stesso spaventato e attratto; Dioniso gli fa
perdere la ragione e lo convince a seguirlo sul monte per assistere, travestito da
donna, ai riti. Qui Penteo viene sorpreso dalle donne, fra cui la madre Agave, le
quali, scambiatolo per un leone, lo fanno a pezzi; quando la madre scopre di
avere tra le mani la testa del figlio si fa spiegare da Cadmo l’accaduto. Nel finale
Dioniso bandisce Agave e Cadmo da Tebe, ma annuncia a quest’ultimo che avrà
dimora fra i beati.
Le Baccanti sembrano proporre un ritorno alle forme tradizionali di tragedia: il
coro partecipa all’azione interagendo con i personaggi, le sene sono concatenate
tra loro e anche l’argomento riporta l’ambiente dionisiaco da cui scaturì il teatro.
Le Baccanti costituiscono una riflessione sul culto dionisiaco e sui riti estatici che
vi si celebravano. C’è chi ha visto nelle Baccanti l’opera di un poeta che avrebbe
riscoperto il significato dell’operare divino nel mondo; viceversa, alcuni hanno
notato nelle Baccanti l’estrema polemica contro la religione tradizionale,
identificando in Dioniso il dio crudele e privo di qualsiasi dimensione etica. Un
Euripide convertito non avrebbe accentuato gli aspetti più sconcertanti della
religione dionisiaca: nelle Baccanti, Dioniso esce vincitore, ma è impossibile
identificare in lui una divinità gioiosa. Quando Dioniso ormai indifferente alle
sciagure umane, si allontana da Tebe alla fine del dramma, lascia dietro sé una
famiglia annientata e una madre che ha fatto a pezzi il proprio figlio con le sue
stesse mani. Anche Penteo, rivale di Dioniso, non è un personaggio positivo, ma
appare come un individuo autoritario, ostinato e violento; Penteo esprime la crisi
della religione, nella sua rigida chiusura e nel suo conservatorismo: una mente
che pretende di razionalizzare tutto e non lascia spazio al dubbio è anche una
mente che fallisce il suo compito. All’inizio della tragedia, Penteo è un uomo
ostinato e orgoglioso, Dioniso infatti si rivolge a lui deridendolo e ironizzando sul
suo aspetto femmineo, Dioniso, d’altra parte, appare sin dall’inizio più forte del
rivale perchè a Penteo, questo rituale straniero in cui le donne vagano senza
controllo sui monti, pare pericoloso socialmente. Nella sua mentalità bigotta
quest’uomo si spinge ad affermare che i riti notturni delle Baccanti non sono
altro che una trappola che inganna le donne stesse. Al centro dell’opera sta
infatti non solo un culto religioso, ma soprattutto una dimensione della psiche da
cui Euripide fu attratto: vale a dire la follia, l’operare di forze cieche e possenti
all’interno della mente umana. La follia rappresenta nelle Baccanti non un
semplice cedimento della mente ma è l’espressione di un rito e una forma
profonda di sapienza. Nelle seguaci di Dioniso Euripide sembra vedere non solo
un gruppo di fanatiche invasate, ma anche l’espressione di una forma diversa di
umanità. Queste donne sul monte hanno rinunciato alla città e alla famiglia,
vivono un’esperienza nuova sentendo dentro le loro membra scorrere un’energia
selvaggia, che si esprime attraverso la danza. Ciò che si crea sul monte è una
specie di “anticittà”, in cui domina non la ragione ma l’irrazionale, non la civiltà
costruita dall’uomo ma una naturalità indifferenziata governata dalle donne, che
si sono liberate dai loro condizionamenti. Il dramma propone dunque uno
scontro tra due modelli di civiltà: quella che ha prodotto la polis e il suo mondo di
valori e quella del mistico ambiente dionisiaco. Né l’uno e nell’altro prevalgono: il
mondo dionisiaco è pericoloso, quello cittadino è chiuso e limitato.
3.11 Euripide satiresco: Ciclope
Il Ciclope è l’unico dramma satiresco pervenuto per intero; la vicenda è tratta dal
IX canto dell’Odisseo, con l’inserimento nella trama di un coro di satiri che, sotto
la guida del padre Sileno, sono costretti a servire Polifemo, dal quale erano stati
catturati.
La trama del Ciclope: Sileno e i suoi compagni lavorano in Sicilia come schiavi al
servizio di Polifemo, che li ha catturati dopo un naufragio. Odisseo, spinto dal
vento, sbarca nell’isola e ottiene da Sileno, in cambio del buon vino che reca con
sé, agnelli e formaggi che il satiro sottrae dall’antro del Ciclope. Quado questi
sopraggiunge, Sileno, temendone la punizione, accusa Odisseo di aver rubato le
provviste. A nulla valgono le parole di difesa dell’eroe: Polifemo né teme gli dei
né conosce le leggi del vivere civile. Mentre il Ciclope comincia a divorare i suoi
compagni, Odisseo gli offre da bere del vino e riesce ad uscire dall’antro; quindi
insieme ai satiri, prepara la fuga. Rientrato nella grotta, fa ubriacare Polifemo e lo
acceca con un palo ardente; mentre l’eroe riprende il largo con i stiri e con i
compagni sopravvissuti, il Ciclope gli predice le peregrinazioni che lo attendono
per punizione.
Il tono del racconto è determinato dalle doti negative dei satiri: viltà e
imprudenza. Il protagonista è il Ciclope, che non è più l’orribile mostro cannibale
di Omero, ma un essere perfino accattivante nella sua caratterizzazione
campagnola. Polifemo è una specie di filosofo autodidatta che vive al di fuori
della società, estraneo alle leggi della città e della religione, che ha elaborato un
suo modo di vivere equilibrato, ma è al tempo stesso una sorta di enorme
fantoccio mosso dall’intemperanza alimentare e sessuale. Il Ciclope di questo
racconto rifugge dalla corruzione della civiltà e si gode una vita beata nei campi,
è dominato dai propri desideri ed è indifferente agli dei.

4.12 Il Reso
Il Reso tratta un episodio della saga troiana raccontato nel X canto dell’Iliade.
La trama del Reso: Dall’accampamento troiana vengono avvistati nella notte i
fuochi degli Achei; Enea persuade Ettore a inviare qualcuno a spiare i nemici e
Dolone si offre a questo scopo. Nel frattempo arriva in aiuto dell’esercito troiano
Reso, re di Tracia, nel quale si accampa nelle vicinanze e attende Dolone.
Giungono invece i greci Odisseo e Diomene, che lo hanno appena ucciso; grazia
all’aiuto della dea Atena, i due uccidono Reso e rubano le sue cavalle. L’auriga del
re tracio, scampato alla morte, accusa dell’omicidio Ettore, ma l’intervento della
Musa, madre di Reso, chiarisce che i colpevoli sono Odisseo e Diomede e chiude
il dramma con il compianto del figlio e la morte di Achille.
Questo dramma è considerato spurio e i personaggi sono privi di profondità,
estranei al mondo euripideo, l’azione è banale e priva di novità rispetto al mito. Il
Reso è sicuramente opera di un autore minore e posteriore, probabilmente del IV
secolo a.C.; il suo interesse risiede nel fatto che sia l’unico dramma sopravvissuto
di quel secolo.

5 La commedia
5.1 Le origini della commedia e i rituali agricoli
La commedia raggiunge il suo periodo di massimo fioritura nella seconda parte
del V secolo a.C. Al di fuori di Atene si hanno notizie di spettacoli di carattere
popolare, rimasti però a uno stadio preletterario; un esempio di queste
rappresentazioni fu la “farsa megarese”, che gli autori ateniesi additano come
modello di comicità buffonesca ben inferiore all’elevata qualità delle loro
commedie, e che era costituita da danze sguaiate, eseguite da personaggi
volgari. Le origini della commedia vanno ricercate nei rituali agricoli di fertilità.
Secondo Aristotele, la commedia si sviluppò dalle feste connesse al ciclo annuale
della vegetazione; il poeta fa derivare la parola commedia da “xomos”, il “corteo
festivo”, ma aggiunge anche che i Dori collegavano il nome “xome”, “villaggio”,
si tratterebbe quindi del “canto della festa/del villaggio”. L’etimologia esatta è la
prima, ma la seconda connette le primitive manifestazioni comiche all’ambiente
rurale da cui esse si svilupparono. La commedia attica conservò forti legami con
il clima di rinnovamento sociale tipico dei riti agricoli, che erano finalizzati al
recupero magico delle energie naturali: le feste della fertilità erano un’occasione
per rafforzare l’identità collettiva del gruppo, in una situazione in cui i
comportamenti abituali erano provvisoriamente sospesi. Nel clima tipico del
rituale agricolo trovavano spazio travestimenti e rappresentazioni mimiche,
accompagnate da espressioni sboccate sino all’oscenità.
5.2 I caratteri della commedia attica
Fu la tragedia a fornire alla commedia il modello per l’organizzazione
drammaturgica. Un altro antenato dello spirito comico fu lo “iambizein” arcaico,
rappresentato da poeti come Archiloco e Ipponatte, che ben si adattava al tono
di aggressione violenta contro i personaggi scherniti direttamente sulla scena.
Temi e situazioni della commedia accantonano il mondo aristocratico del mito
tragico per riallacciarsi a un immaginario arcaico: di lì provengono alcune
strutture della commedia, come il motivo carnevalesco, i cori animaleschi,
l’espulsione del capro espiatorio, la guerra dei sessi e i riti di passaggio. Questo
aspetto della commedia, però, resta circoscritto alla fase antica: già agli inizi del
IV secolo a.C. i commediografi sviluppano una forma di spettacolo più teatrale.
Gli antichi filologi distinsero tra commedia “antica” (sino alla fine del V secolo),
commedia “di mezzo”, e “nuova” ( a partire dal tardo IV secolo). La commedia
antica fu essenzialmente politica, infatti non solo trattava di argomenti di
attualità ma toccava anche aspetti di fondo della convivenza civile. La tragedia ha
come oggetto il mito mentre la commedia è legata all’attualità cittadina. L’eroe
comico è caratterizzato dalla capacità di sovvertire la realtà: può volare fino al
cielo e scendere nell’Ade e modificare le cose a suo piacimento, senza
macchiarsi di “hiubris” (la colpa per eccellenza). Si direbbe anzi che la hiubris sia
connaturata all’eroe comico, il quale deve sottrarsi alla norma che condiziona il
resto dell’umanità, per plasmare in tutta libertà la sua realtà fantastica: città in
mezzo alle nuvole, morti che ritornano, insomma un mondo alla rovescia. Si può
dire che mentre la tragedia, attraverso le sofferenze dell’eroe, mostra al
pubblico la necessità di osservare un limite, la commedia tenda alla rottura di
questo limite e realizza situazioni impossibili nella realtà, in un clima di
disordine. Il poeta della commedia antica non si propone affatto di creare dei
caratteri psicologicamente coerenti: i suoi personaggi sono dei tipi modellati su
figure presenti nella realtà sociale della polis (il giudice fanatico, il contadino
ignorante, il filosofo pazzo) che agiscono in base alla necessità dell’azione
scenica. In quanto rituale di rinnovamento la commedia prevede la realizzazione
di un progetto fantastico messo in opera dal protagonista per trasformare la vita
cittadina, ormai corrotta, e donarle nuova linfa vitale. Per quanto assurda e
paradossale, l’azione comica porta a una completa nascita della convivenza
civile, che in tal modo recupera la sua originaria purezza. Sulla scena è dunque
presentato un rito di morte e di rinascita, mediante il quale i mali che soffocano
la vita cittadina vengono allontanati. La commedia si conclude con una sconfitta:
mentre nella tragedia la sconfitta tocca l’eroe, nella rappresentazione comica
questo destino è riservato al suo antagonista, additato sin dall’inizio come il
cattivo, il nemico da espellere; la commedia si conclude con il trionfo del bene e
la cacciata del ribaldo. Questo scontro tra bene e male è tradotto in forma
drammatica mediante una struttura caratteristica della commedia antica, vale a
dire l’agone o scontro di parole, con cui i due antagonisti si affrontano cercando
di soverchiarsi in un violento scambio di parole. Il genere lo scontro avviene con
coppie di discorsi simmetrici, sia per metro che per numeri di versi. Il tratto più
evidente dell’eroe comico è la sua ambiguità morale; facendo ricorso all’astuzia,
l’eroe comico riesce a plasmare attorno a se una realtà nuova, modificando le
forme della convivenza sociale. In questo senso si riconnette a un “divino
briccone”, vale a dire colui che grazie ai suoi trucchi consente all’umanità un
decisivo progresso. Anche nella commedia antica l’eroe è un fondatore che
attraverso la sua opera fa inaugurare una nuova fase della vita cittadina. Un altro
tratto peculiare della drammaturgia comica è l’estrema vicinanza tra attori e
pubblico. A differenza della tragedia, che si svolge tra personaggi dialoganti sulla
scena, al personaggio comico è consentita la rottura della “quarta parete” che
separa il pubblico dalla scena: può dialogare con gli spettatori. Questo
meccanismo comico trova la sua tipica espressione nella “parabasi”,
quest’ultima consiste in una perorazione che il poeta in prima persona, per
bocca del corifeo, rivolge al pubblico, quando gli attori sono momentaneamente
usciti dalla scena. Nella parabasi dunque si realizza la completa sospensione
della finzione scenica; questo schema drammaturgico, tipico della commedia
antica, si hanno indebolendo. Questo è uno dei segnali più evidente di questo
genere letterario da commedia politica a teatro di costume, un processo che si
incrementò nel corso del IV secolo a.C. per giungere alla commedia “nuova” di
Menandro. La commedia politica di Aristofane e quella di carattere di Menandro
sono due forme teatrali così distanti che si stenterebbe persino a farle rientrare
nell’ambito dello stesso genere letterario. Infatti, rispetto alla tragedia, la cui
evoluzione si bloccò nel momento del massimo splendore, la commedia seppe
adattarsi ai tempi e ai gusti di un pubblico mutato, anche se rinunciò alla sua
identità originaria. I meccanismi del comico si realizzano in varie forme, tutte
riconducibili all’idea del rovesciamento e della deformazione; maschere
grottesche, costumi eccessivi. Oltre a proporre forme e modelli linguistici vicini
alla lingua parlata, la commedia è caratterizzata da una suprema libertà di
parola; non solo per la massiccia presenza di elementi salaci (insulti, scherzi,
allusioni) ma anche per l’uso di neologismi, il ricorso a metafore e immagini
fantastiche, che ricorrono spesso nel testo.
5.3 Commedia e mimo in Sicilia e Magna Grecia
Al di fuori di Atene, una tradizione teatrale autonoma si sviluppò nelle colonie
della Sicilia e della Magna Grecia. La perdita di questi testi ci impedisce di
definire i reciproci influssi; comunque, secondo Aristotele, la commedia siciliana
precedette quella attica per quanto riguarda l’elaborazione letteraria. Aristotele
attribuisce a Formide ed Epicarmo, il merito di avere per primi costruito una
trama comica. Epicarmo nacque in Sicilia (forse a Megara Iblea) nella seconda
metà del IV secolo a.C. e fu attivo a Siracusa sino all’epoca del tiranno Ierone (tra
478 e 466 a.C.), alla cui corte entrò in contatto con poeti quali Pindaro,
Bacchilide ed Eschilo. Di lui gli antichi conservano 10 libri di commedie; ne
restano circa 250 frammenti in dialetto dorico, poco significativi. Sembra che i
suoi drammi non comportassero l’uso del coro e che la sua arte si distinguesse
per una tendenza alla parodia mitologica. Molti titoli sono relativi a episodi e
motivi dell’Odissea; non mancava nel suo teatro la figura di Eracle mangione e
personaggi di vita quotidiana. Epicarmo non trattava solo temi mitologici, la
varietà della sua produzione è testimoniata dalla scelta di soggetti d’attualità,
come nei Persiani, versione comica della tragedia eschilea, o nelle Isole, in cui si
parlava di una contesa tra i tiranni Acusilao di Reggio e Ierone di Siracusa.
Epicarmo era un autore colto così come risulta dai suoi testi come, per esempio,
la commedia Il Discorso e la Discordia rifletteva il recente sviluppo dell’arte della
retorica in Sicilia. In genere, per questo tipo di teatro, le città siciliane erano
governate dall’aristocrazia terriera o dei tiranni, e il teatro di Epicarmo era ben
lontano da quella libertà espressiva che possiamo riscontrare nella democratica
Atene. La mancanza del coro induce a pensare che quello siciliano fosse un
teatro più povero e non visto come un fenomeno di massa. Tuttavia esisteva una
scuola locale dii attori e una tradizione di spettacoli drammatici, documentata
dal fatto che Eschilo scrisse e riprese alcuni suoi drammi per le scene di Siracusa;
mancavano però le condizioni sociologiche per lo sviluppo di un teatro regolare.
Sempre in Sicilia, nella seconda metà del V secolo, fu attivo Sofrone, autore di
mimi. E’ questo un genere legato a una vena più popolare, che comporta una
semplice azione scenica tra personaggi dialoganti. Gli esempi di questo genere in
nostro possesso appartengono a un’epoca più tarda, ma quelli di Sofrone
dovevano essere differenti, se non altro perché scritti in prosa e non in versi.
Anche Sofrone scriveva in dialetto dorico e i titoli a noi noti (come Il pescatore di
tonni, Il pescatore e il contadino) fanno pensare che prediligesse scena di vita
quotidiana e personaggi popolari. L’unico frammento di una certa estensione è
stato restituito da un papiro e appartiene a un mimo intitolato Le donne che
dicono di tirare giù la dea (vale a dire la luna) : si tratta della descrizione di un
rito magico compiuto da fattucchiere. Sofrone stimò Platone e lo annoverò tra le
sue letture preferite. In Magna Grecia si diffuse invece una forma di
rappresentazione legata alla tradizione popolare: il fiaco, che Rintone di Taranto
o di Siracusa portò a dignità letteraria fra i secoli IV e III a.C. Questo tipo
singolare di teatro, detto “ilarotragedua” per la peculiarità di deridere le vicende
mitiche così come le aveva rappresentate la tragedia, proponeva anche scene di
vita quotidiana in tono burlesco. Il nome “fiaco” poteva indicare tanto il poeta
quanto l’attore o la rappresentazione, che aveva una messa in scena piuttosto
semplice: i personaggi erano dotati di ampi camiciotti al di sotto dei quali
venivano nascoste imbottiture prominenti.
5.4 La commedia attica: Cratino, Eupoli e gli altri
Ad Atene gli agoni comici furono introdotti nel 486 a.C.; più tardi, nel 440 a.C.,
venne istituita una seconda festa comica, le Lenee, nel mese attivo di
Gamelione, tra gennaio e febbraio. Ogni anni, dunque, si svolgevano due
spettacoli comici, ai quali partecipava un numero variabile di autori (da tre a
cinque), ciascuno con una commedia sola. Fra quanti parteciparono agli agoni,
soltanto Aristofane è sopravvissuto con un discreto numero di commedie.
Cratino appartiene ad una generazione precedente rispetto Aristofane, nacque
verso l’inizio del V secolo a.C. e morì intorno al 421 a.C.; benchè ormai anziano,
fece in tempo a concorrere contro Aristofane (la sua commedia la Damigiana,
superò le Nuvole di Aristofane del 423 a.C.) Delle sue opere perdute possiamo
ricostruire soltanto una trama, quella del Dionisalessandro, il cui argomento è
trasmesso da un papiro Ossirinco: si tratta di una commedia politica a sfondo
mitologico ambientata sul monte Ida, dove Ermes giunge a condurre le tre dee
per il concorso di bellezza, che ebbe Paride Alessandro come giudice. Al suo
posto però si intrufola Dioniso, accompagnato da un coro di satiri; egli proclama
vincitrice Afrodite e si prende Elena in premio. Gli Achei vengono però a
riprendersela con le armi in pugno, al che Dioniso trasforma se stesso in
montone e la sua bella in oca, nascondendola in una cesta; il vero Paride ritorna,
smaschera l’intruso ed è sul punto di farlo trasportare sulla sua nave per
consegnarlo agli Achei; poi, affascinato da Elena, decide di prendersi lei e
rilasciare Dioniso, che se ne parte seguito dai fedeli satiri mentre si sta
preparando il banchetto nuziale. E’ una commedia strana; dalle pieghe del
racconto mitologico emerge una chiara metafora politica: il cialtronesco Dioniso
è Pericle, la bella e immorale Elena la sua amata Aspasia; sullo sfondo sono
presenti le accuse di viltà che venivano mosse a Pericle perché aveva scelto una
strategia difensiva nella guerra contro Sparta (scoppiata per sua iniziativa nel
431 a.C.) I meccanismi teatrali caratteristici del dramma antico si ritrovano anche
qui: la cacciata del “farmakos”, la figura ambigua dell’eroe, la pace ristabilita e le
nozze finali. Sembra che Cratino amasse le commedie di travestimento e le
parodie mitologiche: negli Odissei riprodusse la vicenda di Omero nella caverna
del Ciclope, in cui il mostro metteva allo spiedo i compagni dell’eroe. Negli
Archilochi inscenò una gara tra poeti, mentre nell’opera la Damigiana, ricorse
all’allegoria mettendo in scena la Commedia personificata, che brontolava
contro il marito (Cratino stesso) il quale l’aveva abbandonata per prendersi
come amante Damigiana e per correre dietro ai giovani Vinelli: in questa
commedia l’autore prendeva in giro se stesso e la sua tendenza ad alzare il
gomito. Eupoli, il terzo dei comici maggiori, nacque intorno al 445 a.C., esordì
giovane e morì nel 411 a.C.; gli antichi dicevano che Alcibiade l’avesse fatto
affogare in mare per punirlo degli attacchi personali che gli aveva rivolto. Si dice
anche che egli morì combattendo nella flotta ateniese durante la battaglia navale
di Cinossema, che si svolse proprio nel 411 a.C. Nella sua vita scrisse 14
commedie, ottenendo sette vittorie; dell’opera di Eupoli restano 500 frammenti:
nel Maricante scherniva il demagogo Iperbolo, mentre nei Battezzatori se la
prendeva con Alcibiade e i suoi costumi corrotti. Nei Prospalti, la sua prima
commedia del 429 a.C., si rivolgeva contro Pericle, che aveva favorito la guerra
contro il nemico. Erano, quelli, momenti terribili per la città: allo spettro
sanguinario della guerra si era aggiunto quello della pestilenza, di cui sarebbe
rimasto vittima lo stesso Pericle. Nell’Età dell’oro, forse del 424 a.C., veniva
preso di mira il potente demagogo Cleone. Da queste tracce superstiti si può
individuare in Eupoli un autore dedito alla satira politica e impegnato su temi
relativi alla lotta politica anche più di quanto lo f nel complesso Aristofane. Nella
sua ultima commedia, i Demi (ossia le circoscrizioni territoriali in cui era divisa
l’Attica, rappresentata nel 412 a.C.) personificati e costituenti il coro, si recavano
in delegazione nell’oltretomba per consultare grandi uomini del passato come
Solone, Pericle, Aristide perché tornassero sulla terra a liberare Atene dalla folla
di loschi individui che detenevano il potere e avevano minato la purezza dei
costumi e la potenza della polis. I morti che ritornano, la rinascita della città e la
cacciata del male mediante l’espulsione del “farmakos” sono tutti temi
tradizionali; sappiamo che Eupoli rivaleggiò con Aristofane, poichè si
scambiavano reciproche accuse di plagio. Tra gli altri comici di cui si conservano i
nomi si potrà citare Platone comico (da non confondere con il filosofo),
contemporaneo di Eupoli e Aristofane, autore di una commedia intitolata Faone,
una parodia in cui si sviluppava in forma travisata il tema dell’amore tra la
poetessa Saffo e il marito Faone. Un po’ più anziano di Platone comico fu
Cratete, attivo intorno alla metà del V secolo a.C. di cui è nota una commedia
intitolata Le bestie, che poneva sulla scena il tema del recupero dell’età dell’oro;
nell’intreccio drammaturgico trovano posto attrezzi da cucina che lavorano per
loro iniziativa e pesci che cuociono da soli, in un mondo dove non esiste né
lavoro né servitù e gli animali vivono indisturbati.
6 Aristofane
6.1 Vita e opere
Aristofane nacque ad Atene intorno al 450 a.C.; la sua prima commedia (i
Banchettanti) risale al 427 a.C. e fu rappresentata a nome di Callistrato poiché,
per la giovane età, il poeta non avrebbe potuto ottenere l’incarico di presentare
un’opera alle feste dionisiache. L’anno dopo mise in scena con lo stesso finto
nome i Babilonesi, in cui dileggiava l’uomo forte Cleone; sembra che Cleone
abbia promosso un’azione giudiziaria al poeta e al suo prestanome, davanti
all’assemblea popolare, accusandoli di aver diffamato la città di fronte agli
alleati. Il resto della vita di Aristofane si identifica con la sua attività di
commediografo, durante la quale le opere di Aristofane accompagnarono i vari
momenti della vita ateniese nel tragico periodo della guerra contro Sparta, della
sconfitta, del governo oligarchico con la successiva restaurazione democratica.
La sua ultima commedia fu l’Eolosicone del 386 a.C. messa in scena con il nome
del figlio Araros; Aristofane morì probabilmente poco dopo il 385 a.C. Delle 44
commedie di Aristofane (tra cui 4 spurie) ne restano solo 11: ACARNESI (425
A.C.); CAVALIERI (424 A.C.); NUVOLE (423 A.C.); VESPE (422 A.C.); PACE (421
A.C.); UCCELLI (414 A.C.); TESMOFORIAZUSE (411 A.C. ALLE GRANDI DIONISIE);
LISISTRATA (411 A.C. ALLE FESTE LENEE); RANE (405 A.C.); DONNE IN ASSEMBLEA
(391 A.C.); PLUTO (388 A.C.)
6.2 La realtà cittadina e l’orizzonte fantastico
Quello di Aristofane non è solo un teatro ma l’espressione dell’immaginario
collettivo e dell’orizzonte fantastico di una civiltà contadina legata al suo sistema
culturale ancestrale. Accanto a questo versante arcaico, la commedia di
Aristofane, si proietta sullo scenario molto più attuale della polis ateniese
nell’epoca del suo pieno sviluppo. E’ esemplare il confronto fra i protagonisti di
una delle commedie più geniali di Aristofane, le Nuvole: da un lato un contadino
tradizionalista, dalle idee conservatrici, dall’altro Socrate, campione del pensiero
laico e perfetto esponente dei tempi nuovi. I due personaggi hanno modi di
pensare distanti e rappresentano la polarità del teatro aristofaneo, il confronto
fra la campagna e la città, luoghi lontani nel tempo: la prima è ancorata alle
forme tradizionali di un mondo antichissimo, la seconda è ricca di idee proiettate
al futuro. Questi lati della medaglia contribuiscono entrambi a dar vita
all’intreccio variegato dei drammi di Aristofane che sono uno specchio della
società ateniese. Quella di Aristofane è un tipo di commedia che risponde a
logiche particolari: gli aspetti che nella commedia successiva diventano centrali -
intreccio, colpo di scena e definizione dei caratteri- in Aristofane sono marginali.
La commedia di Aristofane risponde a uno schema di fondo che in vari modi si
ripropone in quasi tutte le opere: l’eroe comico, scaltro e moralmente ambiguo,
si ribella allo stato di degradazione in cui è caduta la vita cittadina ed escogita
un’idea per rinnovare la polis oppure per evaderne alla ricerca di un mondo
migliore. A questo punto si realizza il passaggio dalla realtà quotidiana al mondo
surreale in cui i personaggi si immergono; spesso il personaggio attraversa la
porta che si spalanca su un mondo diverso: la porta dell’Ade nelle Rane, quella
dell’Olimpo nella Pace. E’ quasi un paradosso che la commedia di Aristofane
consenta infrazioni clamoroso all’esperienza dei sensi. Accade così che il
protagonista si liberi da ogni vincolo con la realtà che lo circonda: può volare in
cielo, discendere nell’Ade, decidere di stipulare una pace privata coi nemici o
fondare una città tra cielo e terra. Non è mai in gioco solo il destino dell’eroe ma
il processo di rinnovamento coinvolge tutta la società. E’ appunto questa idea
comica a determinare l’atmosfera della commedia antica, che oscilla tra il
realismo della raffigurazione quotidiana di fatti e personaggi e la dimensione
fantastica che si spalanca davanti al pubblico. La realizzazione del progetto
fantastico è solo la prima fase della vicenda: per portare a compimento il suo
proposito, l’eroe deve debellare uno o più antagonisti che cercano di ostacolare
il suo progetto. Questi oppositori sono fortemente connotati: in apparenza
spaventosi e temibili, in realtà sono pagliacci appartenenti alla categoria dei
cialtroni e dei furfanti. Questi individui sfilano sulla scena cercando di inquinare
la felicità della realtà creata dall’eroe e infine vengono cacciati via. Così la
commedia si conclude con la vittoria dell’eroe e spesso con il trionfo della
sessualità e del cibo, grazie alle nozze del protagonista e alla baldoria che
suggella il successo, richiamandosi al clima di ritrovata armonia e di
rinnovamento delle energie tipico delle feste agricole.
6.3 Commedia e politica
La commedia ha una fondamentale funzione di controllo sociale, essendo rivolta
a denigrare cittadini influenti e ostili al demos. Questa tendenza sembra
contraddire quanto emerge dai testi di Aristofane, che in buona parte deridono
leader democratici come Cleone e beffano la linea politica sostenuta dal popolo;
neppure il tribunale popolare esce immuni dagli scherzi comici. In realtà la logica
della satira politica non è la stessa della prassi politica, la satira era fondata sulla
massima libertà di calunniare e di attaccare direttamente personaggi pubblici,
secondo il principio di “deridere una persona col suo nome”, che a sua volta si
basa su uno dei meccanismi fondamentali promossi dal regime democratico,
vale a dire la completa libertà di parola. Prendere di mira un personaggio sulla
scena non presuppone di per sé un’opposizione politica dell’autore: nei
Cavalieri, Aristofane deride Cleone e il pubblico ne diede la vittoria, ma
nonostante ciò , dopo poche settimane, Cleone fu eletto stratego.
6.4 La tecnica drammaturgica
Il ritmo della scena è serrato, è difficile trovare momenti di cedimento o
rallentamenti in un’azione che procede incalzante sino alla fine. Aristofane poco
si cura della verosimiglianza delle situazioni e degli eroi: in personaggi non sono
caratteri, ma tipi accentuati caricaturalmente, e poco il poeta si occupa di
approfondirne lo spessore. La natura dei personaggi può cambiare
improvvisamente nel corso dell’azione, non per una reale evoluzione psicologica
ma per adeguarsi alla mutata situazione drammatica. Ciò non vuol dire che
Aristofane produca testi primitivi, è piuttosto la libertà e la fantasia di linguaggio
a determinare una trama in cui le nozioni di verosimiglianza psicologica e di
unità d' azione sono deliberatamente accantonate. Nel teatro di Aristofane si
può individuare uno sviluppo; le prime commedie sono costruite su una trama
bipartita: dove nella prima sezione l'eroe consegue il suo risultato, mentre nella
seconda, l’azione scenica si sfilaccia in una serie di scene episodiche, che
esemplificano con accentuato tono comico la nuova realtà. Ma già con le Nuvole
inizia a prevalere una tendenza verso un intreccio più organico; nell'ultima fase
della sua produzione (Donne in assemblea e Pluto) si vanno invece perdendo
alcuni aspetti tipici del teatro comico del V secolo a.C., in primo luogo la parabasi
e la funzione del coro. L'elemento comico in Aristofane scaturisce da diversi
piani; il primo è quello verbale. Aristofane usa una lingua fantasmagorica, unica
in tutta la letteratura greca, per l'ampiezza del lessico: ci sono parole
popolaresche, altre tratte dalla tradizione giambico- realistica, altre da
linguaggio musicale, dalla medicina e della scienza, giochi di parole di ogni
genere, espressioni parodiate dalla tragedia e invenzioni verbali continue.
Spesso compaiono in scena personaggi che parlano in dialetto dorico e beotico e
persino stranieri che balbettano in greco deforme: si tratta del primo esempio
del cosiddetto grammelot nella tradizione comica occidentale. Aristofane è un
fervido inventore di metafore e di neologismi: l'esempio più clamoroso è una
vera e propria parola mostro che si estende per la bellezza di 7 versi. Ciò che
incrementa l'effetto comico è soprattutto l'inatteso: in questo senso l'inventiva
non si ferma mai, mai i personaggi rinunciano a sorprendere l'uditorio con
battute, equivoci e doppi sensi. Anche in Aristofane ci sono momenti di comicità
tradizionale: personaggi bastonati, gente che danza, insomma elementi di fondo
comuni al teatro comico. Tuttavia questi tratti popolari vengono inseriti in un
progetto drammatico di più elevata dignità letteraria che tocca anche momenti
lirici. L’inesauribile inventiva verbale aristofanea si innesta su un gioco di
personaggi anch'essi tendenzialmente deformati, il cui aspetto esteriore e
ulteriormente caricato dall'utilizzo di maschere e costumi grotteschi: cori con
vestiti animaleschi, eroi con maschere di visi stravolti, grandi imbottiture a
rappresentare la pancia, il fallo appeso alla cintura. La commedia di Aristofane
vuole riplasmare in modo fantastico la realtà.
6.5 Acarnesi
Gli Acarnesi furono rappresentati nel 425 a.C., in piena guerra tra Atene e
Sparta. Ogni anno l'armata spartana invadeva la campagna attica, devastava i
raccolti, mentre i contadini erano costretti a sfollare dentro le mura di Atene.
La trama degli Acarnesi: Il contadino Diceopoli, amante della giustizia, non riesce
a convincere i suoi concittadini della necessità di porre fine al conflitto con
Sparta; anzi deve assistere, in assemblea, a una sfilata di imbroglioni che
promettono felici vittorie di scarso valore militare. Diceopoli ne ha abbastanza: si
è accorda con un mediatore e decide di stipulare una pace separata con la città
nemica. Le sue intenzioni vengono però scoperte dai contadini attici del demo di
Acarne, che costituiscono il coro e decidono di condannarlo a morte come
traditore. In questo frangente il protagonista deve convincere il coro che la
guerra non è la soluzione ai problemi e lo fa facendosi prestare l'eloquenza dal
più famoso di poeti contemporanei, Euripide, portato sulla scena da una
macchina teatrale. Diceopoli riesce a convincere delle sue ragioni metà dei
coreuti, mentre gli altri chiamano in aiuto Lamaco. Il confronto retorico fra i due,
vede prevalereDiceopoli, che allestisce un mercato libero dove giungono un
poveraccio di Megara, un sicofante e un beota accompagnato dalle figlie,
travestite da porcelline. Quindi Diceopoli si reca alla festa dei Boccali, mentre
Lamaco parte per la guerra. Al termine, i due rientro in scena in condizioni
diverse: Lamaco che si è ferito cadendo in un fosso, geme e si lamenta alla
maniera tragica, mentre Diceopoli, ubriaco, si appoggia a due ragazze e pregusta
i piaceri che lo attendono.
L’attualità della guerra domina quest'opera che descrive il progetto di una tregua
stipulata tra Dicepoli (dal nome parlante “città giusta”). ei nemici. Il messaggio
pacifista di Aristofane inizia così a prendere forma come motivo centrale del suo
teatro, insieme a quello della corruzione dei costumi prodotta dagli esponenti
della nuova cultura. La trama è bipartita: nella prima parte il protagonista
elabora il suo progetto di restaurazione della vita civile, poi una volta realizzato,
il programma si snoda in una serie di scene episodiche. Il dramma termina con il
tradizionale komos della commedia attica, vale a dire la festa in cui si celebra il
recupero di una nuova “primavera” della città finalmente liberata dalle sciagure.
Quello che gli Acarnesi esemplificano è un rito di morte e di rinascita,
l'espulsione dal mare rappresentato da Lamaco, il ritorno a un primitivo stato di
pace. Anche gli Acarnesi esigono un antagonista da eliminare per restaurare
l’antica felicità. La commedia rivela lo straordinario talento del giovane autore,
con una freschezza e un’energia che non conoscono soste lungo il tutto il
dramma: trovate verbali idee sempre nuove che percorrono il testo
conferendogli un ritmo eccezionale. Gli Acarnesi ottenere il primo premio e
questa fu, a quanto pare, l'unica occasione in cui i tre grandi autori, (cioè
Aristofane, Eupoli e Cratino), della commedia Antica si sfidarono nello stesso
concorso teatrale.
6.6 Cavalieri
Rappresentata nel 424 a.C., i Cavalieri costituiscono la più feroce satira politica
trasmessa dalla letteratura antica.
La trama dei Cavalieri: Due servi del vecchio Demos, (cioè il popolo ateniese), si
lamentano di un terzo, di nome Paflagone, (sotto cui si cela il demagogo Cleone),
che ha ottenuto la fiducia del padrone ormai rimbambito con l'adulazione e
spadroneggia nella casa tiranneggiando tutti. I due decidono perciò di
contrastarlo opponendogli una figura ancora peggiore, quella del Salsicciaio,
sostenuto anche dei Cavalieri, i quali formano ancora il coro incarnano il ceto
nobile. Paflagone e il Salsicciaio si fronteggiano in una scena in una serie di scene
agonali, che mettono a nudo l'ignoranza di entrambi. Alla fine il Salsicciaio riesce
a sostituire Paflagone nel favore di Demos, il quale tuttavia spiega al coro di non
essere così stupito come sembra, dato che attendeva il momento opportuno per
punire i disonesti. Il Salsicciaio, con un rito magico, ridona la giovinezza a Demos,
che nella scena finale compare tutto allegro insieme a una ragazza, simbolo della
pace; a Paflagone, invece, tocca la punizione di esercitare il mestiere del rivale.
La commedia vuole demolire l'uomo del partito radicale Cleone, fautore della
guerra. Il dramma è costruito intorno ad un allegoria e la trama è
sostanzialmente costruita sulla sfida tra due fantocci che sono un concentrato di
volgarità: Paflagone e un provvidenziale salvatore. Uno dei momenti più intensi
della commedia, è l'apparizione di quest'uomo, un essere di una volgarità e di un
di un'arroganza sconvolgenti, la sua professione è quella difendere salsicce al
mercato; sarà il suo lavoro ad aiutarlo, infatti avrà la meglio sul rivale. Così la
commedia si risolve nello scontro tra il Salsicciaio e Paflagone attraverso una
serie di scene condotte con una tensione comica che porta a esiti talvolta
sensazionali e surreali. Vincerà alla fine il Salsicciaio: il vecchio Demos tornerà in
sennò, Paflagone verrà scacciato e il Salsicciaio, ormai trasformato in un uomo
perbene, otterrà tutti gli onori per aver restaurato L'antica felicità cittadina. Il
tema del "pharmacos" e della necessità che questi venga cacciato perché la città
possa risorgere è nei Cavalieri più evidente che mai: questo motivo carnevalesco
trova la sua espressione nella scena finale, in cui Demos ringiovanisce convola a
nozze con una giovane Pace. È carnevalesco anche lo stile: il ritmo procede
incalzante, con invenzioni verbali, battute in cui la capacità linguistica dell'autore
trova una delle espressioni più efficaci. I Cavalieri riflettono sulla facilità con cui
muta l'umore dell'assemblea, i mezzi elementari ma infallibili con cui si manipola
l'opinione pubblica. SI delinea nei Cavalieri l'esigenza di separare la conquista del
potere dell'azione politica di chi lo esercita.
6.7 Nuvole
Nel 423 a.C. Aristofane partecipò alle grandi Dionisie con una prima versione
delle Nuvole
La trama delle Nuvole: Il contadino Strepsiade è assediato dai debiti contratti per
soddisfare la passione per i cavalli del figlio Fidippide, che disprezza il padre, rozzo, e
vuole frequentare solo i parenti della madre, donna raffinata. Strepsiade decide di
inviare il figlio presso una scuola di filosofi, sotto la guida di Socrate, che vivono in
una catapecchia (chiamata Pensatoio), affinché apprenda l'arte sofistica di far
trionfare la propria opinione. ConstatatA la mancanza di collaborazione del figlio,
Strepsiade decide di recarsi di persona a studiare nel Pensatoio dove incontra
Socrate, sospeso per aria dentro una cesta mentre sta studiando. Sotto la guida di
Socrate, il vecchio si dedica a ricerche astruse, assistito dalle Nuvole, le nuove
divinità che hanno preso il posto degli Dei tradizionali. Strepsiade non capisce nulla
di ciò che ascolta e viene cacciato via in malo modo. Alla fine però ottiene di
mandare al suo posto il figlio, che assiste all'agone tra il tradizionalista Discorso
Forte e blasfemo Discorso Ddebole, conclusosi con il trionfo dell'ultimo. Filippide
torna a casa dal pensatoio trasformato in un sofista, e così, Strepsiade caccia via con
arroganza i creditori che si presentano alla sua porta. Ma Fidippide comincia a far
valere le sue ragioni anche a danno di Strepsiade arrivando a percuoterlo e a
difendere il suo gesto con sofismi. Allora resosi conto di aver compiuto uno sbaglio,
Strepsiade incendia il Pensatoio e assieme tutti i sofisti.
La prima versione della commedia non ebbe successo, infatti le Nuvole che adesso
leggiamo non sono le stesse che gli spettatori ateniesi condannano alla sconfitta. Ad
Atene si era fatto promulgare un decreto con cui si condannava chi praticasse
l'astronomia, infatti, proprio sulla base di questo decreto, Socrate viene condannato.
Il padre fondatore della filosofia occidentale viene presentato nelle Nuvole come un
imbroglione che corrompe la gioventù, appare come un maestro cialtronesco che
disprezza gli dei e venera divinità nuove come le Nuvole. Il Socrate delle Nuvole è sia
sofista che mistico cioè sacerdote di divinità straniere. In opposizione c’è il vecchio
Strepsiade che rappresenta in tutto e per tutto la mentalità comune. Ciò che
Aristofane vuole rappresentare è il conflitto tra due culture contrapposte e
l'emergere del pensiero laico scientifico. Il cuore della commedia è costituito
dall’agone tra il Discorso Forte e il Discorso Debole, il primo sostenitore
dell'educazione tradizionale, il secondo sostenitore della sofistica. L'azione subisce
un'impennata quando il Fidippide, ormai ribelle a ogni morale, percuote il padre e
gli dimostra anche di aver agito bene. Tuttavia la commedia si chiude ugualmente
con l'espulsione del male della città, infatti, Strepsiaede dà alle fiamme il Pensatoio
insieme a tutti i suoi abitanti. Le Nuvole per il tono elevato della drammaturgia e la
raffinatezza dei temi sono un'opera del tutto nuova e matura.
6.8 Vespe
La commedia venne rappresentata alle Lenee del 422 a.C., sotto il nome di
Filonide; il tema prende spunto dall’ambiente dei tribunali.
La trama delle Vespe: Il vecchio Filocleone è fissato per i processi e per porre
fine a questo suo disagio, il figlio Bdeliclone lo rinchiude in casa con gli schiavi. Il
vecchio tenta di fuggire finché non giunge il coro, costituito dai compagni di
tribunale di Filocleone, affetti dalla sua stessa Mania e travestiti da vespe, con
allusione alle loro sentenze pungenti. Padre e figlio si fronteggiano: Filocleone
spiega la sua passione per i processi motivandola con il grande potere che
detiene in qualità di giudice, mentre Bdelicleone lo confuta dimostrandogli lo
sfruttamento di cui è vittima a opera dei demagoghi. Bdelicleone, poi, allestisce
al padre un processo domestico in cui deve essere giudicato un furto di
formaggio commesso dal cane di casa. Grazie ad un trucco del figlio, il processo
si conclude con l'assunzione dell'imputato. Tutto ciò sconvolge Filocleone che,
nella sua carriera di giudice, non aveva mai pronunciato una sentenza
assolutoria; grazie al figlio inizia a frequentare banchetti in cui si ubriaca e
combina guai di ogni genere. Al termine una danza sfrenata chiude la commedia.

L'istituzione dei Tribunali popolari era importante per il sistema


democratico, dove la giustizia era amministrata da giudici popolari le cui
sentenze rispecchiavano gli umori delle masse. Anche le Vespe sono costruite su una
struttura bipartita: l'azione procede compatta fino alla conversione del vecchio
protagonista che, dopo la prima assoluzione della sua carriera di giudice, attraversa
una crisi di coscienza che lo fa tornare alle baldorie di un tempo. Assistiamo quindi a
una cerimonia di rinascita; è la parodia di un rito di passaggio. Alcune volte le Vespe
sono state giudicate un'opera minore anche a causa della scena del processo al cane
di casa, di una comicità quasi surreale. Certamente la commedia sembra impoverirsi
nella parte finale, molto banale, e l'attacco è l'attacco al tribunale popolare non è
portato fino in fondo.

6.9 Pace

La commedia venne rappresentata nel 421 a.C., dopo l’effimera pace tra Atene e
Sparta (la pace di Nicia).

La trama della Pace: Il contadino Trigeo si reca sull’Olimpo per chiedere a Zeus la
cessazione della guerra tra Atene e Sparta; gli dei però sono andati via perché
disgustati dalla cattiveria umana. Accolto in cielo da Ermes, Trigeo assiste ai
preparativi del gigante Polemo (la Guerra) e il suo servo Tumulto, che hanno
sequestrato la Pace, e si accingono a maciullare in un mortaio le città greche. Il
proposito dei due viene però accantonato perché mancano i pestelli, Cleone e
Brasida, fautori della guerra, morti nella battaglia. Mentre Polemo prepara un
nuovo pastello, Trigeo libera la Pace che fa riacquistare libertà anche a Opora e
Teoria. Tornati sulla terra, tutti godono dei benefici della pace mentre i
guerrafondai sono ridotti in rovina. Trigeo alla fine si sposa con Opora.

La fine delle ostilità con Sparta, sembrava aprire prospettive favorevoli per la
città e gli spettacoli teatrali. Così nella Pace vediamo un poeta che sembra
inclinare verso un clima di liberazione fantastica: la scalata al cielo di Trigeo.
Scalare il cielo è per il mito manifestazione di “hiubris”: un atto tentato da mostri
che vengono castigati per il loro sacrilegio; nella prospettiva comica, invece, la
violazione del limite è ciò che consente di infrangere le barriere del reale per
penetrare nel ondo dell’utopia, dove tutto è lecito. Questo clima di liberazione
de un incubo, si traduce in una commedia dal tono leggero nonostante l’incontro
sbigottito del protagonista con i due fantocci: Guerra e Tumulto che stanno
triturando le città greche. La Pace propone il tema dell’evasione spazio-
temporale.

6.10 Uccelli

Gli Uccelli furono rappresentati nel 414 a.C., nel clima di grande speranza
provocato dalla spedizione in Sicilia.

La trama degli Uccelli: Evelpide e Pistetero, alla ricerca di un luogo sicuro in


Atene, arrivano alla terra degli uccelli dove, alleatisi con Upupa, re degli uccelli,
decidono di costruire una città tra cielo e terra; viene così fondata la città degli
uccelli, Nubicuculia (Città dei cuculi tra le nubi). Alle sue porte si presenta Iride,
messaggera degli dei, con l’ordine di demolire le mura, ma viene cacciata.
Arrivano poi ad Atene personaggi che voglio approfittarsi della situazione, tutti
rimandati a casa in malo modo. Giunge allora Prometeo, che non ha perso
l’abitudine di tradire gli dei: viene a riferire che la città tra cielo e terra ha
intercettato i fumi dei sacrifici destinati alle divinità e che queste sono allo
stremo per la fame. Un’ambasceria divina, composta da Poseidone, Eracle e
Triballo, negozia la pace tra dei e uccelli e si decide che il potere passi agli uccelli.
Così Pistetero ottiene di succedere a Zeus e di sposare Basilia. (Sovranità)

Gli Uccelli descrivono la partenza di due ateniesi che, disgustati dalla


degradazione della loro città, trovano la strada per raggiungere il mondo degli
uccelli e stabilire un patto di alleanza. Da questo accordo avrà origine la “Città
Dei Cuculi Tra Le Nubi” dove sono in vigore le leggi degli uccelli. Mentre nelle
altre commedie il meccanismo prevedeva l’allontanamento del “pharmakos” da
Atene e il ripristino della città felice, qui è tutta la città di Atene ad andarsene e
la commedia si sviluppa lontano dalla feroce tensione corrosiva delle prive
opere. Gli Uccelli sono una commedia di evasione dalla realtà politica cittadina,
nessun personaggio pubblico viene demolito e nessuna guerra allontanata; si
accede, semplicemente, con la fantasia ad una realtà che non può esistere. Gli
Uccelli sono in definitiva la parodia di una teomachia (guerra tra generazioni
divine).

6.11 Lisistrata

Rappresentata alle Lenee del 411 a.C. con lo pseudonimo di Callistrato, la


Lisistrata descrive un colpo di stato messo in atto dalle donne di Atene e Sparta.

La trama della Lisistrata: Le donne greche, stanche della guerra tra Atene e
Sparta, assecondano la protagonista Lisistrata (Dissolvitrice di eserciti), che
propone un’astensione correttiva dei rapporti sessuali con i mariti, fino a che
non si sarà posto fine al conflitto. Inoltre, ad Atene, le donne occupano
l'acropoli, dov’è custodito il bene dello stato, per evitare che gli uomini si
riforniscono di nuovi fondi per finanziare la guerra. Un gruppo di vecchi, che
voleva allontanare le donne, viene affrontato a secchiate d'acqua e un
commissario, venuto per imporre la propria autorità, è costretto a ritirarsi.
Mentre alcune donne cedono al desiderio e abbandonano la lotta, la maggior
parte di essere resiste. L’arrivo di un ambasciatore spartano, mostra che a Sparta
la situazione è critica e che gli uomini sono prossimi alla resa; con la mediazione
di Lisistrata si conclude infine la pace e la commedia termina fra canti e danze.

Le donne, appartenenti a città nemiche, si alleano per soppiantare gli uomini alla
guida della polis e ottenere la pace, con l'astensione dal sesso. La Lisistrata può
essere vista come una pura evasione oppure come manifesto denigratorio
contro la classe dirigente e il sistema istituzionale ateniese. E, poiché gli uomini
hanno fallito, tocca alle donne risolvere la situazione. La commedia propone un
tema tipico dello scherzo carnevalesco, cioè la guerra tra i sessi, che si realizza
attraverso il consueto si schema del sovvertimento: la parte della cittadinanza
esclusa dell'esercito e dalla vita politica e le donne, che tengono sulla scena
comica un riscatto impossibile. Tuttavia nella Lisistrata le donne vincono senza
bisogno di armi: basta far leva sulla sfera della sessualità, per smascherare la
fragilità dei maschi che, per quanto sono forti, si arrendono. Così la commedia
ripone l'antico schema antropologico del “re per un giorno”, infatti, i ruoli
vengono rovesciati.

6.12 Tesmoforiazuse

La Tesmoforiazuse (cioè le “Donne che celebrano la festa delle Tesmoforie)


furono rappresentate nel 411 a.C.; il dramma fu rappresentato sotto lo
pseudonimo di Callistrato.
La trama delle Tesmoforiazuse: Euripide teme che le donne di Atene, in occasione
delle Tesmoforie, si vendichino di lui, che ha portato sulla scena personaggi
immorali come Fedra e Medea. Dopo aver chiesto al tragediografo Agatone di
travestirsi da donna per spiarle, Euripide ottiene questo favore da Mnesiloco, che
però, a causa di un imprudente tentativo di difendere il tragediografo tra le donne,
si fa subito smascherare e viene imprigionato sotto sorveglianza di un arciere scita.
Con una serie di espedienti, Mnesiloco cerca di invocare l’aiuto di Euripide per
essere liberato; la guardia scita viene distratta da un’attraente prostituta, condotta
al suo cospetto dallo stesso Euripide travestito da mezzana. In cambio della
promessa fatta alle donne, di non parlare più male di loro, Euripide riesce a trarre in
salvo il suo parente.

Le Tesmoforiazuse sono una commedia di argomento femminile che parla di una


congiura che si sviluppa, poi, verso la parodia letteraria. Le feste Tesmoforie,
dedicate a Demetra e Persefone, erano rituali esclusivamente femminili, riservati
alle donne sposate e aristocratiche. Il nucleo di questo dramma tratta della polemica
letteraria contro i poeti e gli intellettuali della nuova generazione, quali Euripide e
Agatone; il dito, qui, è puntato verso Euripide. Negli Acarnesi, Euripide venne già
criticato per aver portato sulla scena personaggi vestiti di stracci e nelle
Tesmoforiazuse, la polemica continua. Quest’opera è un esempio di “metateatro”,
vale a dire di teatro sul teatro, costruito parodiando trame e situazioni tragiche;
inoltre, il testo gioca su due aspetti: il travestimento e lo scambio dei sessi. L’opera è
costruita sull’equivoco di un uomo che si è travestito da donna e viene fatto
prigioniero da donne che hanno tratti maschili, aiutato da un altro uomo, Euripide,
che per liberarlo si traveste assumendo diverse identità.

6.13 Rane

L’ultima grande commedia di Aristofane risale al 405 a.C. e fu rappresentata alle


feste Lenee sotto il nome di Filonide (stesso nome usato per le Vespe)

La trama delle Rane: Accompagnato dal servitore Xantia, Dioniso scende nell’Ade
per riportare sulla terra Euripide. Dioniso, per facilitarsi l’impresa, assume le
vesti di Eracle, che lo aveva preceduto nella discesa all’Ade, ma incappa in
personaggi che non vedono l’ora di farla pagare al vero Eracle. Dopo una serie di
avventure, Dioniso attraversa la palude infernale sulla barca di Caronte,
accompagnato dal canto delle rane che vi abitano, con le quali si misura in una
contesa musicale; arrivando, si odono anche i cori degli iniziati ai Misteri
Eleusini. Dioniso giunge infine al regno dei morti, dove trova Eschilo ed Euripide
che stanno litigando per aggiudicarsi il trono di primo poeta tragico e l’onore di
sedere accanto a Platone. Il dio dei morti istituisce allora una gara tra i due dove
il giudice sarà Dioniso: Euripide rinfaccia ad Eschilo il linguaggio troppo solenne e
la staticità dei personaggi, a sua volta Eschilo accusa il rivale di aver degradato la
nobiltà della tragedia. Sulla bilancia, i versi di Eschilo risultano più pesanti e per
questo motivo Dioniso decide a favore di quest’ultimo e lo riporta sulla terra,
affinchè sia ottimo consigliere dei concittadini.

Siamo nell’ultimo periodo di guerra: pochi mesi prima gli Ateniesi avevano
sconfitto la flotta spartana alle Arginuse, ma gli ammiragli vittoriosi erano stati
mandati a morte dal popolo per non aver raccolto i naufragi. Nel settembre del
405 a.C. la flotta ateniese sarebbe stata annientata ad Egospotami e nella
primavera del 404 a.C. la città si sarebbe arresa, perdendo la sua potenza. In
questo periodo decade anche la tragedia: Euripide muore nel 406 a.C. e l’anno
seguente Sofocle giunge al termine della sua vita. La scena tragica rimane così
priva di due dei suoi più grandi autori e le Rane prendono spunto da questa
situazione. La commedia è costruita sullo schema della discesa agli Inferi
(catabasi), che gli autori avevano utilizzato per trattare il tema del rinnovamento
cittadino, affidato al ritorno alla vita di uomini del passato. La prima parte delle
Rane è la fantastica raffigurazione di un oltretomba pieno di mostri minacciosi
ma innocui; la seconda, costruita sull’agone tra Euripide ed Eschilo, è un’analisi
critico-letteraria, in cui lo stile dei grandi tragici è analizzato con intelligenza.
Dietro questo scontro si avverte un problema culturale: il significato della
tragedia e in particolare l’antitesi tra un’arte impegnata e posta al servizio della
comunità, e un’arte che rivendica la sua autonomia da ogni vincolo morale. Alla
fine s riaffaccia il solito schema comico della cacciata del “pharmakos”: l’utopia
dei morti che ritornano ha come conseguenza la rinascita di uno dei cardini della
cultura cittadina, la tragedia, mentre Euripide, resterà recluso nell’Ade e cesserà
di corrodere con le sue tragedie i buoni costumi di una città che in Eschilo ha
ritrovato il vero maestro.

6.14 Donne in assemblea

La commedia fu rappresentata alle feste Lenee del 391 a.C.

La trama delle Donne in assemblea: Le donne ateniesi, guidate da Prossagora,


compiono un colpo di stato: travestite da uomini approvano in assemblea un
ordinamento in base al quale tutti i beni saranno messi in comune e ogni
favoritismo verrà eliminato; saranno le donne a scegliere e gli uomini dovranno
soddisfare le partner. Il nuovo ordinamento non viene però accettato da tutti:
qualcuno si rifiuta di mettere in comune i propri beni, anche se poi approfitta di
quelli altrui. Tre vecchie megere pretendono che un uomo si unica a loro prima
che alla sua innamorata. La commedia si conclude con un banchetto comune.
Quando Aristofane riemerge dopo 13 anni con quest’opera, il suo teatro cambia
il pubblico: chi era nato nell’anno della commedia i Banchettanti, ora si
avvicinava ai quarant’anni e gli spettatoti che avevano applaudito ai successi
della sua gioventù, ora stavano invecchiando o morendo, come pure erano
scomparsi Euripide, Socrate, Cleone e tanti altri. Anche Atene era cambiata: non
era più la potenza greca dominatrice dei mari, ma una città ridotta a piccoli
progetti politici e alle prese con un dopoguerra difficile. Le Donne in assemblea
sono un tipo nuovo di commedia, in cui Aristofane si adegua ai gusti di una
nuova generazione, che si orientava a gusti diversi e alla “commedia di mezzo”.
Le Donne in assemblea presentano tratti diversi e originali: i dati più vistosi sono
la scomparsa della parabasi (momento che caratterizzava la commedia antica) e
la riduzione delle parti corali. Inoltre nella commedia comprare in due casi la
sigla KOPOY (“canto del coro”) che indica la presenza di un intermezzo, solo
musicato e danzato, finalizzato a separare un episodio dall’altro. Assistiamo a
uno sviluppo della tecnica drammaturgica che prelude a ciò che avverrà nella
(“commedia nuova), dove il coro è estraneo all’azione e costituisce solo un
intermezzo tra un atto e l’altro. Anche il frequente dialogare tra Aristofane e il
pubblico è molto raro. Il tema ripropone lo schema del “mondo alla rovescia”, in
una città delle donne, proponendo un modello di comunismo integrale, dove
non esiste né proprietà privata né famiglia. Rispetto alla Lisistrata, il colpo di
stato femminile si muove su un piano più universale, essendo rivolto non alla
soluzione del problema specifico ma a proporre un’utopia sociale priva di una
possibilità reale di realizzazione, proiettata verso il ringiovanimento del mondo e
il superamento della società patriarcale. La protagonista, Prossagora, scompare
dalla trama circa a metà del dramma per non fare più ritorno, neppure nella fase
di trionfo; l’azione prosegue con scene episodiche e comiche, come nella parte
finale quando un giovanotto deve soddisfare le avances di una serie di vecchie
prima di recarsi dalla sua innamorata.

6.15 Pluto

Il Pluto fu composto nel 388 a.C. e rappresenta l’ultima commedia a noi


pervenuta (ne scrisse altre due: il Cocalo e l’Eolosicone, che sono state perse).

La trama del Pluto: Recatosi a Delfi per interrogare l’oracolo, Cremilo viene a
sapere dal responso di portare a casa propria il primo che incontrerà uscendo da
lì. Trovato un vecchio mendicante cieco, Cremilo riconosce il lui Pluto, demone
della ricchezza, che essendo cieco distribuisce a caso i suoi doni. Cremilo spera di
servirsene per arricchire se stesso e tutti gli onesti; cerca perciò di fare in modo
che Pluto riacquisti la vista così da distinguere i buoni dai malvagi, ma Penia (la
povertà) gli si oppone affermando che è proprio la povertà a voler far lavorare gli
uomini. Nonostante risulti convincente dal punto di vista dialettico, Penia viene
allontanata e Pluto riacquista la vista grazie all’intervento di Ascelpio. L’effetto è
immediato: tutti diventano ricchi, i sicofanti vanno in rovina e Zeus si lamenta
del fatto che gli uomini non hanno più bisogno di fare sacrifici in suo onore e
sulla scena si presenta Ermes, protettore degli affari, alla ricerca di u nuovo
impiego. La commedia si conclude con una processione che accompagna Pluto
alla sua antica sede presso il Partenone.

La commedia è il rifacimento di un’opera messa in scena 20 anni prima.


Possiamo dedurre che il testo a noi giunto, seguisse la trama della prima stesura.
L’argomento introduttivo alla commedia dice che essa fu rappresentata insieme
ad altre quattro commedie, di cui tre (Admeto, Adone, Pasifae) erano parodie
mitologiche, categoria in cui rientra anche il Pluto. E’ una commedia molto vicina
a quella “di messo”: le parti corali sono quasi scomparse, si riscontra la presenza
di interludi lirici che dividono un episodio dall’altro quasi delimitando dei veri e
propri atti. Il Pluto è una commedia di carattere utopistico, poiché affronta il
tema del cambiamento del mondo; l’eroe comico Cremilo è capace con la sua
destrezza di rimodellare la realtà grazie ad una trovata fantastica. Tuttavia nella
parte finale il dramma si impoverisce e si conclude in modo troppo sbrigativo,
forse a causa delle modifiche fatte nella seconda edizione dell’opera. Il Pluto è
una commedia poco politica, perché tocca un tema di carattere generale mentre
la città di Atene appare soffocata in lontananza.

7 La commedia nuova

7.1 La metamorfosi della commedia

Le ultime opere di Aristofane mostrano un indebolimento della commedia


antica: riduzione della presenza del coro nell’azione scenica, rinuncia alla
parabasi e di conseguenza alla relazione tra poeta e pubblico. Aristofane adegua
la tensione espressiva ad un linguaggio più pacato. Nei decenni successivi il
dramma della commedia è suddiviso in cinque atti separati l’uno dall’altro da
intermezzi corali e da danze per intrattenere gli spettatori, sono brani senza
legame con la trama. La commedia menandrea comporta una vicenda d’amore,
sviluppata con una trama compatta e un intreccio unitario, che attraverso
peripezie giunge ad un lieto fine; infine ha un carattere realistico. Nella
commedia si restringe lo spazio scenico, con la chiusura della “quarta parete”
che divide gli spettatori dalla scena: ciò significa che i personaggi cessano di
dialogare col pubblico. Quello di Menandro è un teatro quasi moderno dove i
personaggi vivono la loro vicenda circoscritta nello spazio scenico e gli spettatori
si commuovono ma restano al di là del palcoscenico. Le trame comiche del IV
secolo sono nello stesso tempo illusorie e realistiche: illusorie perché l’attualità
della vita cittadina risulta ormai esclusa, per dare spazio a figure fittizie;
realistiche perché le vicende portate in scena evitano le infrazioni spazio-
temporali della commedia antica e delineano in forma psicologicamente
approfondita i personaggi. Varie ragioni concorsero a determinare
quest’evoluzione; la più importante fu la fine della democrazia radicale. L’Atene
del IV secolo, anche dopo la restaurazione del sistema democratico, si avvia ad
un’inevitabile decadenza, sancita dal completo asservimento della città al reno
macedone di Filippo II e Alessandro Magno. La politica è ora nelle mani della
classe “borghese”: si tratta degli stessi uomini che Menandro mette in scena
nelle sue commedie (proprietari terrieri, servitori, cuochi). Questo tipo di
commedia si adatta bene ai gusti di un pubblico fatto di piccolo proprietari
terrieri e di cittadini benestanti, più interessati a tematiche private; anche
l’abolizione del contributo statale (teorikon) ai cittadini poveri contribuì a
incrementare un teatro di gusti meno popolari. La commedia diventa uno
spettacolo di evasione, in quanto consente agli spettatori un distacco dalla realtà
quotidiana e li conduce in uno spazio fittizio.

7.2 Verso un nuovo teatro

Nel IV secolo anche la tecnica teatrale cambia: la recitazione è in versi ma sono


versi di timbro e di linguaggio medio, il costume comico è modificato e le
maschere tendono a diventare tipi fissi. La commedia nuova diventa uno
spettacolo intermedio tra commedia e tragedia e in ciò consiste la sua rinnovata
vitalità.

7.3 Commedia di mezzo e commedia nuova

I critici antichi adottarono uno schema tripartito: commedia “antica” del V secolo
a.C. rappresentata da Aristofane, Eupoli, Cratino; la commedia “di mezzo” della
prima metà del IV secolo a.C. raffigurata da Anassandrire, Antifane e Alessi e
infine la commedia “nuova”, la cui più alta espressione fu Menandro, accanto al
quale c’erano Difilo e Filemone.

7.4 I predecessori di Menandro

Degli autori precedenti a Menandro restano quasi soltanto i nomi e alcuni


frammenti di tradizione indiretta; sembra che le opere di quel periodo
comprendessero polemiche politiche e che il coro avesse ancora una parte
nell’azionne, altro tema tipico fu la parodia mitologica. La triade della commedia
di “mezzo” fu formata da Antifane, Anassandrire e Alessi. Antifane di Smirne
(390-310 a.C.) compose opere in cui aveva largo spazio la parodia mitologica.
Anassandrire di Rodi (nato nel 400 a.C.) portò in scena amori e seduzioni di
fanciulle; il suo frammento più esteso è un elenco di cibi e ghiottonerie, che
viene da una scena in cui i mercenari traci imbandiscono un banchetto per
festeggiare lo startego ateniese Ificrate. Alessio, nato a Turi in Magna Grecia,
morì nel 270 a.C. Di lui resta una scena proveniente da una commedia incentrata
su Lino, maestro di Eracle: nel dialogo il maestro, cerca di insegnare la poesia e il
discepolo, preferisce la lettura di trattati gastronomici. Gli altri autori della
commedia nuova- -a parte Menandro- non ci sono molto noti.

8 Menandro

8.1 La vita

Menandro nacque ad Atene nel 342 a.C. da famiglia agiata. Egli esordì ad Atene
nel 322 a.C. con la commedia Iira e rimase sempre legato alla sua città,
rifiutando gli inviti del re d’Egitto e della Macedonia, segno di una fama che
aveva già decisamente varcato i confini cittadini.

8.2 Le opere

La fama di Menandro è giunta all’epoca moderna solo attraverso i giudizi degli


antichi; le sue opere, in epoca medievale, cessarono di essere incluse tra le
letture scolastiche. Per gli antichi Menandro era uno degli autori prediletti e fino
al VII secolo a.C. circolavano copie delle sue opere. La “resurrezione” di
Menandro è una conquista del XX secolo: la prima scoperta fu un papiro del
Cairo reso noto nel 1907, che conteneva ampi squarci di cinque commedie; il
ritrovamento più clamoroso risale però al 1957, quando venne scoperto il
Bisbetico, unica commedia ancora leggibile per intero.

8.3 Bisbetico

Il Bisbetico è una commedia concentrata su di un vecchio acido e scorbutico, che


grazie ad un imprevisto si avvia sulla strada del cambiamento.

La trama del Bisbetico: Il prologo è affidato al dio Pan: in un podere ai confini


dell’Attica vive il vecchio Cnemone, uomo scorbutico, che dopo aver costretto la
moglie ad andarsene presso il primo figlio, vive con la sola compagnia della figlia
e di una serva. Sostrato, giovane della buona società, mentre andava a caccia ha
visto la ragazza e se n’è innamorato, manda un suo messaggero a Cnemone che
lo cacci a sassate. La sorte vuole però che Cnemone precipiti in un pozzo e ne
approfitta Sostrato che, insieme a Gorgia- figlio di Cnemone- lo trae in salvo. Per
gratitudine Cnemone adotta Gorgia e gli affida il compito di trovare marito a sua
figlia; Sostrato riceve in sposa la sorella di Gorgia e a sua volta concede in moglie
sua sorella al fratello della sua sposa.

Cnemone trascorre le sue giornate lontano dalla città perché detesta la presenza
della gente. Egli è più di una semplice maschera: è un uomo roso da un segreto
male di vivere che lo porta a manifestare odio nei confronti dell’umanità.
Tuttavia Cnemone non è solo un individuo malvagio, innanzitutto perché il suo
male logora soltanto lui stesso, in secondo luogo perché è sufficiente un solo
episodio per far maturare la “redenzione”: la sua cattiveria si sgretola quando il
figlio gli salva la vita. In quel momento capisce che il mondo non è fatto solo di
persone malvagie e questo ci fa comprendere come non sia un personaggio
totalmente negativo; sa anzi riconoscere i suoi vizi. Da questa commedia emerge
un ottimismo nei confronti della natura umana e dellla possibilità per l’uomo di
comprendere i suoi limiti e di ravvedersi; è la ragione che riscatta l’uomo dalla
sua imperfezione e lo rende capace di analizzare i propri comportamenti.
Rrispetto al vecchio, ha meno importanza la vicenda amorosa che coinvolge la
figlia di Cnemone, Sostrato e il fratellasto della ragazza, Gorgia, che teme che
Sostrato voglia solo sedurre la giovane. L’evento risolutore dell’intreccio è molto
schematico: Cnemone cade nel pozzo e viene salvato da Sostrato, al quale darà
in sposa la figlia; si tratta di una trovata elementare. Il finale, però, dimostra
come l’amore e l’amicizia, riesano ad unire anche individui appartenenti a classi
sociali diverse.

8.4 Ragazza tosata

Questa commedia è nota da cinque papiri, che ne hanno conservati vari


spezzoni.

La trama della Ragazza tosata: Moschione e Glicera, abbandonati in fasce dai


genitori, crescono separati: Moschione viene adottato dalla ricca Mirrine e
Glicera diventa concubina del soldato Polemone. Mentre Glicera viene a sapere
che Moschione è suo fratello, Moschione ne è ignaro e si innamora di lei.
Sorpresi ad abbracciarsi, Polemone si vendica su Glicera rasandole i capelli, per
umiliarne la bellezza; la giovane si rifugia nella casa di Mirrine, rivelandole la
verità. Dopo tentativi di assalto alla casa di Mirrine da parte di Polemone, la
situazione si avvia a scioglimento grazie a Pateco che scopre di essere padre dei
due fratelli. Glicera e Polemone possono così rappacificarsi e convolare a nozze,
mentre Moschione ottiene una sposa grazie al padre.
L’intreccio della Ragazza tosata segue gli schemi fondamentali della commedia
nuova: c’è l’equivoco, c’è la rivalità in amore e c’è il riconoscimento. La
commedia si sviluppa intorno al progressivo svelamento dei fatti di tutti i
personaggi, che acquistano una pari consapevolezza degli eventi. Alla fine
troviamo il ripristino della situazione originaria, rappresentato dalla
ricostruzione dell’unità familiare. Anche in questa commedia la svolta risolutiva
non è determinata meccanicamente dalla scena del riconoscimento, ma è
anticipata dal pentimento di Polemone per l’oltraggio compiuto nei confronti
dell’amata. Polemone è impetuoso, ma anche capace di passione, di sincerità e
infine dell’onestà mentale di riconoscere gli errori commessi. Il tempo
dell’azione comica si configura come il tempo di maturazione interiore del
personaggio: il ricongiungimento con Glicera può fondarsi ora su basi più solide,
perché avendo ritrovato il padre, la ragazza può sposarsi in maniera libera.

8.5 Arbitrato

La vicenda dell’Arbitrato rivela all’inizio una situazione poco accettabile secondo


le comuni norme morali: il matrimonio di una coppia di giovani sposi rischia di
naufragare a causa della moglie Panfile, che ha esposto il figlio frutto di una
violenza subita prima delle nozze, e della relazione scandalosa del marito Carisio,
che è andato a vivere con la flautista Abrotono.

La trama dell’Arbitrato: Si dice che Carisio ha abbandonato la moglie Panfile


dopo aver appreso che quest’ultima aveva avuto un figlio da un altro uomo.
Segue la scena in cui il carbonaio Sirisco e il pastore Davi ricorrono ad un giudizio
arbitrato per dirimere una controversia privata: Davo aveva ceduto un bambino
abbandonato a Sirisco, il quale pretende che gli vengano consegnati anche gli
oggetti trovati con il trovatello. Avendo ragione, Sirisco mostra gli oggetti al
cuoco Onesimo e quest’ultimo riconosce l’anello che il suo padrone Carisio
aveva perso durante la celebrazione delle Tauropolie, quando aveva violentato
da ubriaco una fanciulla. Abrotono, la flautista, parzialmente testimone, finge
all’inizio di esserne la vittima ma verso la fine troviamo Carisio che riflette
sull’amore che lo lega alla moglie; quando Panfile scopre che era stato Carisio a
violentarla, la situazione può dirsi risolta.

L’Arbitrato mostra la sensibilità dell’arte menandrea, soprattutto nel finale,


verso il quale converge l’itinerario psicologico dei due personaggi; la
riconciliazione finale ha le sue indispensabili premesse nell’amore reciproco, vivo
nonostante la separazione, tanto che è proprio l’affetto che impedisce a Carisio
di avere rapporti con la flautista Abrotono e a Panfile di tornare nella casa
paterna. La trama è già decisa quando, a metà vicenda, Carisio apprende la falsa
notizia che, ubriaco, Carisio ha violentato Abrotono nel corso di una festa
notturna e ha concepito da lei un figlio: così l’uomo accusa se stesso di non
avere compreso la sofferenza della moglie, vittima in passato di una situazione
analoga a quella in cui egli aveva assunto il ruolo dell’aggressore. La scoperta
della verità da parte dei personaggi da una sistemazione formale agli esiti di un
processo di evoluzione psicologica che i due sposi avevano già maturato dentro
loro. La “tuke” ha un ruolo accessorio, dato che determina solo il riconoscimento
tra personaggi, dato che tutti pensano di essere artefici della propria sorte. Il
loro agire è mosso da un forte senso di altruismo e di solidarietà umana; è così
per Sirisco, il carbonaio che nella scena dell’arbitrato agisce nell’interesse del
trovatello, è così pure per Smicrine, padre di Panfile, il cui tentativo di ricondurre
la figlia a casa non è solo determinato dall’avarizia ma dal desiderio di sottrarre
Panfile all’umiliante situazione n cui vive per colpa del marito. Abtrono è il
personaggio che rimane più nella memoria quando si cala il sipario; la sua
professione le ha insegnato a stare al mondo e a destreggiarsi nelle più svariate
situazioni. Carisio, invece, sentendosi tradito cede a una reazione poco decorosa,
abbandonando la moglie, ma immediatamente dopo si pente e rinuncia ad avere
rapporti con la flautista. Anche la figura di Panfile è importante dato che è una
donna che, pur nella sua fragilità, ha la forza di rifiutare la condotta che il decoro
le imporrebbe (vale a dire tornare nella casa paterna abbandonando un marito
che la offende) e di obbedire ai propri sentimenti.

8.6 Scudo

Della commedia manca la parte finale, quella che doveva far terminare
l’intreccio in maniera felice.

La trama dello Scudo: L’inizio della commedia è di tono paratragico. Entra il


vecchio pedagogo Davo, portando lo scudo spezzato del soldato Cleostrato,
morto durante un assolto notturno all’accampamento; in realtà Cleostrato è u
prigioniero. Queste informazioni vengono date attraverso il “prologo ritardato”,
in cui un personaggio divino –in questo caso la Fortuna (Tike)- interviene a
spiegare aspetti della trama ignoti all’uditorio. Lo zio di Cleostrato, Smicrine,
fiuta la possibilità di arricchirsi: la legge gli consente di sposare la nipote, sorella
ed erede del defunto. La giovane, però, è stata promessa a Cherea, figliastro di
Cherestrato. L’astuzia di Davo può evitare le nozze: costui intende far credere
che Cherestrato sia morto di dolore per la perdita di Cleostrati e che la figlia ne
abbia ereditato l’ingente patrimonio. In questo modo Smicrine avrebbe voluto
sposare l’altra nipote, ancora più ricca della sorella di Cleostrato. La parte finle si
interrompe durante l’attuazione del piano anche se dovrebbe verificarsi: il
ritorno di Cleostrato; le nozze incrociate fra Cherea e la sorella di Cleostrato e fra
quest’ultimo e la figlia di Cherestrato.

Nello Scudo ci sono colpi di scena, travestimenti, un finto medico che parla in
dialetto dorico, una morte simulata, un intrigo per mettere alle corde Smicrine,
uomo arido e senza scrupoli. La commedia permette di analizzare la figura del
servo Davo, uomo nobile e generoso malgrado l’origine straniera; Davo è uno
schiavo, un barbaro, ma è impregnato dei valori tipici della filantropia greca
(l’onestà intellettuale e la generosità umana). E’ Davo il vero motore dell’azione
drammatica: a lui si deve la creazione dell’intreccio che porterà allo
smascheramento del malvagio e al trionfo della giustizia. L’attenzione dedicata
allo sviluppo della trama sottrae qualcosa alla definizione psicologica dei
protagonisti: sia Davo che Smicrine sono personaggi ad una sola dimensione, sin
troppo generoso l’uno, sin troppo malvagio l’altro.

8.7 Ragazza di Samo

Da una violenza durante le celebrazioni in onore di Adone, ha origine l’intreccio


della Ragazza di Samo, che porta in scena il dramma di una famiglia alle prese
con la nascita di un bimbo i cui genitori rimangono, inizialmente, nell’ombra.

La trama della Ragazza di Samo: Durante una festività religiosa il giovane


Moschione, figlio adottivo di Demea, ha violentato Plagone, figlia di Nicerato,
che ha dato alla luce un bambino: poiché Moschione non vuole rivelare la
propria paternità, il piccolo viene affidato alla concubina di Demea, Criside, che
finge di esserne la madre. Demea, irritato perché teme che Criside si faccia forte
della nascita del bimbo per chiedergli di sposarla, sente diire per caso che il
padre è Moschione; sospettando un tradimento scaccia Criside, che si rifugia da
Nicerato. Al culmine della tensione, Moschione racconta al padre la verità: la
vera madre del bambino non è Criside bensì Plagone. Chiarito l’equivoco,
Moschione fa l’offeso per i sospetti di cui è stato oggetto e minaccia di partire
come soldato, ma viene convinto dal padre e dal suocero Nicerato a rimanere e
si possono celebrare le nozze.

La Ragazza di Samo è una commedia degli equivoci, che in effetti si succedono


uno dopo l’altro con una tale frequenza da scatenare, in questa piccola comunità
di persone, reazioni violente. Mettendo i personaggi davanti alla crisi (fittizia) del
loro microcosmo, Menandro si compiace di far emergere la natura di ciascuno; la
tensione cresce fino a provocare una serie di scontri, come quello tra due vecchi
che vengono alle mani. Ognuno si crede ingannato, tradito, offeso, eppure non è
vero. Ancora una volta Menandro porta sulla scena una figura femminile di
elevata qualità umana: è Criside, ragazza di Samo, che dà il nome alla commedia,
capace di lealtà, di tacere e subire offese. Originale è la figura di Demea; un
uomo anziano innamorato di una donna molto più giovane, Demea si vergogna
delle sue smanie senili, ma non può nemmeno impedirsi di essere geloso e di
soffrire del suo sentimento; alla fine però sa riconoscere i suoi eccessi e trova le
parole giuste per riconciliarsi con il figlio adottivo.

8.8 Storie private e pubbliche virtù

La commedia menandrea sviluppa vicende private focalizzate su un tema


amoroso che ripete uno schema identico: due innamorati separati da vicende
fortunose riescono infine a coronare il loro sentimento oppure a ritrovare la
felicità che per un errore è stata turbata. Menandro punta l’attenzione sulle
relazioni famigliari: anche le sue commedie, come quelle di Aristofane,
comportano un rinnovamento del rapporto fra individuo e collettività, ma in un
ambito ristretto, in cui i personaggi aspirano a recuperare la stabilità affettiva. E’
un microcosmo che ha orrore del disordine; al contrario di Aristofane, che faceva
della rottura dell’ordine gli strumenti per rinnovare la convivenza cittadina. In
Menandro tutto alla fine deve ricomporsi e gli eventuali elementi di scandalo
sociale devono essere rimossi. Non è però solo nella trama che deve essere
cercata la ragione profonda del successo di Menandro; il valore della sua
commedia risiede principalmente nella predisposizione a costruire caratteri,
nella capacità di dare un linguaggio a emozioni e sentimenti e soprattutto nel
seguire l’evoluzione interiore dei personaggi. Non c’è figura, creata da
Menandro, che non possieda una specifica identità; è vero che riproduce tipi
umani ormai standardizzati , ma in questa commedia umana nessuno è tanto
tipico da non essere se stesso. I suoi personaggi imparano attraverso le loro
esperienze e mutano man mano che l’azione procede. Così la vicenda si
ricompone nel rassicurato lieto fine, ma gli individui che ne hanno preso parte
hanno cambiato la loro psicologia: hanno sofferto e hanno imparato a conoscere
un po’ meglio se stessi e l’umanità. Per questo i personaggi menandrei risultano
moralmente positivi e dotati di una sensibilità squisita: è nella comprensione
della natura umana che l’autore raggiunge i migliori risultati, oltre che nello
sviluppo di temi come la solidarietà e della comprensione. I personaggi
menandrei sono realistici dal punto di vista psicologico, in quanto operano
all’interno di codici morali condivisi dall’uditorio, come la temperanza, il rispetto
per la gerarchia famigliare e per le leggi cittadine; sono individui mediocri, nel
senso che appartengono ad un’umanità comune e consapevole dei propri limiti.
E’ emblematico il modo in cui viene rappresentata la figura dell’innamorato: un
individuo insicuro, per il quale l’amore non si manifesta come violenta energia,
ma piuttosto come malinconico tormento che consuma; l’innamorato
menandreo non manifesta verso la donna un atteggiamento predatorio ma
appare dominato dal desiderio di essere amato e compreso. Uomini e donne,
inoltre, non sono più portatori di culture contrapposte, ma parti di un’unica
umanità che prova identici sentimenti: la capacità di creare personaggi femminili
di grande dignità morale proviene dalla tragedia di Euripide e del resto, la donna
che Menandro rappresenta, continua ad operare all’interno di ambiti che la
società ateniese era disposta a riconoscerle, vale a dire l’intimità delle mura
domestiche e la sfera dell’amore. Si riduce quindi uno dei grandi conflitti
antropologici proposti dalla commedia di Aristofane, ossia lo scontro tra mondo
femminile e maschile; allo stesso modo, risulta attenuato anche il conflitto tra
vecchia e nuova generazione, ciascuna portatrice di una propria visione del
mondo. Menandro dà vita ad un teatro raffinato: la società che tratteggia è
insicura e fragile, dominata dalla percezione che la vita umana è retta dal
capriccio del caso. I suoi personaggi non osano uscire dai propri limiti, né si
propongono di modificare la realtà, ma preferiscono ripiegare nel pentimento di
una felicità individuale.

8.9 Lingua e stile

La lingua di Menandro si colloca a un livello medio, lontano dalla possente


inventiva verbale caratteristica di Aristofane e della commedia antica. Menandro
non cede al gusto per l’immagine colorita, non ama le metafore audaci, non
conia parole nuove; il suo stile è piano, si direbbe colloquiale, che si sviluppa con
facilità. Lo stile di Menandro, realistico nella misura in cui si adatta al carattere
del singolo personaggio, rende le sfumature psicologiche e caratteriali, nonché le
specificità linguistiche dei personaggi e del loro strato sociale.

6 La storiografia

1 Le origini della storiografia

1.1 I primi logografi ionici

La storia compare nel panorama delle forme letterarie attorno all’inizio del V
secolo a.C. e vede le sue prime manifestazioni in Ionia; nelle sue prime fasi è
“logografia”, vale a dire qualcosa di differente dalla storia. I logografi scrivono in
prosa su contenuti nuovi rispetto a quelli della tradizione letteraria: la historie
dei logografi è al tempo stesso storia, raccolta di tradizioni mitiche e locali,
etnografia, geografia, e si contrappone alla poesia dei rapsodi e dei lirici per la
natura e la quantità d’informazioni che trasmette all’uditorio. Per certi aspetti
nasce dalla medesima radice dell’epica, nel senso che si propone di conservare
nella memoria collettiva la “fama” che fissa per l’eternità gli atti gloriosi. La
figura di maggior rilievo tra questi logografi fu Ecateo di Mileto (circa 550-480
a.C.) autore di un’opera in due libri dal titolo Descrizione della terra, che
conteneva il resoconto di viaggi in varie regioni del Mediterraneo,
accompagnato dalla descrizione dei luoghi e degli usi dei popoli: un’opera di
etnografia e di geografia insieme; lo scritto era forse accompagnato da una carta
geografica. Ecateo compose anche 4 libri di Genealogie, in cui i fatti storici del
passato venivano disposti secondo l'ordine cronologico. Delle sue opere
rimangono pochi frammenti: il primo di questi contiene un’ importante
affermazione programmatica dove, Ecateo di Mileto, dice che egli scrive cose
che gli sembrano vere e prende posizione contro discorsi dei predecessori,
contrapponendovi la verità della sua documentazione. In generale Ecateo
mostra affinità con l'atteggiamento intellettuale dei filosofi ionici proponendosi
come uno scienziato che fondò il suo racconto sulle sulla precisione
dell'osservazione. Anche Acusilao di Argo compose tre libri di Genealogie, in
dialetto ionico in cui tentava di dare un ordine alla mitologia tradizionale,
scrivendo in prosa racconto delle origini dei Greci dalla creazione del mondo alla
caduta di Troia.

1.2 Dalla logografia alla storia

Sia la logografia sia la storia scaturiscono da un'attitudine mentale nuova non


solo perché si utilizza la prosa anziché la poesia, ma soprattutto per
l'atteggiamento critico che caratterizza l'indagine dello storico. Anche la poesia
epica racconta il passato, assumendo come soggetto il mito; i primi storici, da
Ecateo ad Erodoto, non mettono al bando il mito, ma lo rivisitano secondo una
prospettiva critica e razionalistica. Il mito però si avvia a occupare una parte
sempre meno rilevante: se la poesia epica trasfondeva nel racconto mitico la
storia delle origini delle piccole comunità arcaiche, la logografia risponde invece
all'esigenza di un mondo in atto a dilatare i propri orizzonti. Questo lento
distaccarsi dalla tradizione poetica orale, spiega alcune cose dell’historie ionica:
la sua natura soprattutto polimorfa. Il padre della ricerca storica, Erodoto, un
etnografo, un geografo, un narratore, non compone un manuale sistematico, ma
dei logoi, resoconti da narrare al suo uditorio. Ormai la cultura greca si sta
avviando a diventare la cultura dominante di tutto il Mediterraneo. Di qui
l'interesse che logografi manifestano per l'etnografia, l'analisi dei costumi e della
storia di popoli diversi. Così, alle radici della storiografia greca troviamo vari
filoni: i miti e le tradizioni locali, i racconti sulle fondazioni in città, le genealogie
di famiglie illustri; tutti elementi che si innestano in un organismo molto più
complesso in cui i documenti scritti e i dati archeologici sono sottoposti
all'autopsia. E’ significativo questo proposito il fatto raccontato da Erodoto che
ha per protagonista Ecateo e i sacerdoti egizi: dopo che Ecateo ebbe esposto la
propria genealogia pretendono di avere un Dio come sedicesimo progenitore, i
sacerdoti egizi lo condussero in un tempio dove si ergevano statue raffiguranti i
loro ascendenti e, rifiutando l'idea che un uomo fosse nato da un dio,
affermarono che prima di loro vi erano stati altri uomini. Rispetto alla memoria
scritta, la storiografia greca apporta un’innovazione fondamentale, che
condiziona in modo definitivo il concetto di storiografia presso la cultura
occidentale. Le cronache egizie o babilonesi sono cronache di palazzo redatte da
una casta di scribi, mentre, la storiografia greca è laica e si sviluppa dalla libera
osservazione degli eventi da parte di un interprete che non si limita ad essere
portavoce del potere costituito, ma è fiducioso nella sua possibilità di analizzare
la realtà. Gli storici greci vedono se stessi al centro dell'indagine e si sentono
liberi di proporre al pubblico fatti e personaggi meritevoli. Naturalmente
l'imparzialità dello storico e la sua pretesa di essere testimone oggettivo degli
eventi, sono affermazioni di principio, che non possono trovare un effettivo
riscontro.

Erodoto

2.1 La vita

Erodoto nacque ad Alicarnasso, in Asia Minore, attorno al 484 a.C.; alla sua
famiglia apparteneva il poeta e anche indovino Paniassi. In quell’epoca
Alicarnasso era sotto il dominio della regina Artemisia, la stessa regina è
immortalata dallo storico mentre combatte sul ponte della sua nave, durante la
battaglia di Salamina: durante un tentativo di abbattere Ligdami, figlio di
Artemisia, Paniassi trovò la morte e la famiglia di Esiodo andò in esilio. In questo
periodo Erodoto fece una serie di viaggi da cui trasse la materia per la sua opera
storiografica: percorse l'Egitto, la Fenicia, la Mesopotamia e il Mar Nero.
Successivamente Alicarnasso si affrancò dal dominio persiano ed entrò nella lega
ateniese; Erodoto strinse forti rapporti con Atene e partecipò anche alla
conquista della colonia di Turi in Magna Grecia dove morì e fu sepolto nell' agorà
(forse ebbe onori eroici). La data di morte è da porre dopo il 430 a.C. giacché
Erodoto dimostra di conoscere alcuni aspetto della guerra del Peloponneso.

2.2 La composizione delle Storie

L’opera le Storie ci è pervenuta divisa in 9 libri, ognuno intitolato con il nome di


una Musa: divisione dovuta ai filologi alessandrini. L’opera non era destinata ad
una lettura privata perché Erodoto teneva pubbliche recitazioni della sua opera,
come una sorta di rapsodia in prosa.

La trama delle Storie (LIBRO I: CLIO): Erodoto nel proemio vuole esporre le cause
del conflitto tra Greci e barbari, ma il racconto storico scivola poi nel mito. Già in
epoca remota vi furono screzi tra Greci e Barbari per le donne: Giasone rapì
Medea in Colchide, Paride strappò Elena ai Greci. Quindi la storia inizia a
dipanarsi con le vicende dei re di Lidia, nella loro capitale, Sardi. Il racconto ha
vari inserti narrativi. Il primo è la novella di Candaule, innamorato della bellezza
della moglie al punto di volerla mostrare nuda, al suo scudiero Gige; la donna
però se ne vendica aizzando Gige ad uccidere il marito per diventare suo sposo e
re. Il racconto è esemplare per la capacità di delineare con estremo risparmio di
parole lo sfondo della situazione e i personaggi, come, ad esempio, la vanità di
un marito troppo sicuro della fedeltà dell’amico e della sposa. L'ultimo
successore di Gige fu Creso, il quale iniziò una politica di espansione che lo portò
a imporre la sua egemonia sull' Asia Minore. In una Sardi al culmine dello
splendore è ambientato l'incontro tra Creso e Solone, allontanatosi da Atene per
non essere costretto a modificare nessuna delle sue leggi. Solo ora Dopo aver
visto i tesori di Creso, si rifiutò di riconoscere in lui l'uomo più felice del mondo.
La risposta risentita di Creso offre a Solone lo spunto per esporre la sua opinione
sulla felicità umana, ed egli dice che, nessun uomo può essere definito felice,
prima di aver concluso la propria vita, poiché la condizione umana è mutevole e
la divinità invidiosa. Nel dialogo tra Creso e Solone affiora anche la
contrapposizione tra Greci e barbari, tra l’ideale orientale di un potere e una
ricchezza smisurati e il modello ellenico di semplicità e moderazione. Si torna poi
alla narrazione degli avvenimenti; dopo essersi assicurato alleati in Grecia, Creso
sfida la potenza in ascesa dei Persiani di Ciro il Grande, ma il conflitto, si
conclude disastrosamente. Sardi cade e Creso viene catturato e condannato al
rogo, ma riesce a salvarsi e diviene consigliere di Ciro. A questo punto passano in
primo piano i Persiani: Erodoto risale indietro nel tempo per raccontare la storia
della dinastia, dal fondatore Deioce fino a Ciro, che diviene sovrano dei Medi e
dei Persiani. Ciro conquista le città dell'Asia Minore e infine l'impero babilonese,
questo evento dà lo spunto per una descrizione etnografica di Babilonia e dei
suoi abitanti; Ciro cadrà in battaglia nella spedizione contro i Massageti della
regina Tomiri. (LIBRO II: EUTERPE): A Ciro succede Cambise, il quale progetta d’
invadere l'Egitto, l'ultimo regno rimasto indipendente davanti alla potenza
persiana; ciò offre lo spunto per una digressione sulla società, la storia e costumi
degli egizi. Anche in questo libro etnografico sono intercalate novelle e inserti
narrativi, come la novella di Rampsinito (Ramses, grande faraone) e dei ladri che
saccheggiano il suo tesoro. Erodoto attingerà per la massima parte, alla sua
esperienza di viaggiatore e infatti in questa occasione lo vediamo nei panni del
“ricercatore sul campo”. (LIBRO III: TALIA): Il raccolto riprende con la storia della
spedizione di Cambise contro l'Egitto. L'esercito Egizio è sconfitto in un’accanita
battaglia sui confini, poi dopo un breve assedio cade anche la capitale di Menfi. Il
breve regno di Cambise, dà segni di squilibrio, è oscurato dalla sua empietà e
funestato dagli attacchi contro la Libia e l'Etiopia. Segue una descrizione su
Samo, il cui tiranno Policrate aveva conquistato grande potere nell'Egeo: anche
questa sezione non è priva di digressioni narrative. Così la Grecia si affianca per
la prima volta nelle Storie ed Erodoto tratta brevemente le vicende di Sparta e
Corinto. Dopo la morte di Cambise, è Dario a prendere il potere con una
congiura; a Dario Erodoto affida la celebre discussione sulla migliore forma di
governo (monarchia, democrazia e oligarchia). Dario riorganizza l’impero, poi
attacca Samo, dopo che Policrate era stato assassinato a tradimento da un
satrapo persiano, e reprime una rivolta a Babilonia. (LIBRO IV: MELPOMENE):
Anche Dario, si lascia tentare dei rischi della conquista di terre lontane e invade
la Scizia. Il resoconto della spedizione si alterna a un'ampia digressione
etnografica sulla cultura nomade degli Sciti. L'armata persiana, esaurita da un
inseguimento dei nemici, che si ritirano facendo terra bruciata, sfugge alla
catastrofe. Alla conquista persiana di Brace, in Libia, si legano ulteriori excursus
sulla storia dei Battiadi di Cirene e sui costumi degli abitanti della Libia. (LIBRO V:
TERSICORE): Dopo una parentesi sull’espansione persiana in Tracia, l’attenzione
di Erodoto si rivolge al mondo greco, dove scoppia la rivolta delle città greche
d’Asia contro l’oppressore persiano (498 a.C.) sotto la guida di Aristagora di
Mileto: solo Atena ed Eretria offrono un piccolo contingente, che suscita l’ira di
Dario; i Persiani infatti riprendono Cipro e le colonie greche della costa, mentre
Aristagora trova la morte in Tracia. (LIBRO VI: ERATO): Con la distruzione di
Mileto (494 a.C.) la rivolta ionica giunge all’ultimo atto. Dario, desideroso di
punire Atene ed Eretria, sollecitato da Ippia, invia una prima spedizione in
Grecia, che finisce con il naufragio della flotta presso il monte Athos (492 a.C.).
Una nuova spedizione al comando di Dati e Artaferne salpa due anni dopo: la
flotta sbarca nei pressi di Eretria, che viene conquistata; dopo l’esercito persiano
si trasferisce nella pianura di Maratona, a pochi chilometri da Atene. Gli Ateniesi
passano all’azione, attestandosi sulle pendici dei colli che circondano la pianura,
in attesa di un contingente di soccorso in arrivo da Sparta (non arriverà in
tempo). I Persiani vengono sconfitti a Maratona dagli Ateniesi camandati da
Milziade (490 a.C.) e devono rientrare in Asia. Milziade attacca le Cicladi,
l’impresa fallisce per la resistenza di Paro e Milziade, muore a causa delle ferite
riportate nel conflitto. (LIBRO VII: POLIMNIA): La sconfitta di Maratona
rappresentava per la Persia una sfida; Dario progetta una seconda spedizione ma
muore prima di metterla in atto. Sarà il suo successore, Serse, a realizzarla nel
480 a.C., dopo aver attraversato l’Ellesponto su un ponte di barche passa la
Tracia affacciandosi sui confini della Grecia. Nel congresso panellenico del 481
a.C. tra le città: Argo dichiara la propria neutralità, mentre Tessali e Beoti si
ritirano dalla lega non appena i Persiani si avvicinano alle loro terre. Inoltre
sorgono contrasti sulla strategia da adottare: gli Spartani vogliono che le truppe
si attestino sull’Istmo di Corinto, mentre gli Ateniesi esigono che la resistenza sia
posta più a nord. Alla fine, un piccolo contingente spartano viene inviati alle
Termopoli sotto il comando del re Leonida, mentre la flotta prende posizione
sulla punta settentrionale dell’Eubea, al capo Artemisio. Leonida viene
accerchiato, a causa di un traditore che mostra ai Persiani un sentiero per
accerchiare l’esercito greco; gli Spartani muoiono sul capo senza arrendersi.
(LIBRO VIII: URANIA): Dopo la descrizione dello scontro navale dell’Artemisio, è
descritta l’invasione persiana dell’Attiva, il Sacco di Atene e la battaglia di
Salamina. Temistocle riesce a imporre la decisione di affrontare i persiani in una
battaglia navale nelle acque di Salamina, contro Sparta che avrebbe voluto
ritirarsi. La flotta greca viene annientata da quella persiana sotto gli occhi di
Serse, posizionatosi su un’altura, Serse rientra, dopo il disastro, in Asia ma lascia
a svernare in Tessaglia il luogotenente Mardonio. (LIBRO IX: CALLIOPE): Alcune
città greche si schierano con Mardonio, che penetra in Attica, saccheggia Atene e
si ritira in Beozia. Gli Spartani, sotto la guida di Pausania, lasciano l’Istmo e si
ricongiungono con gli alleati. Molto spazio è dedicato ai preparativi della
battaglia di Platea (479 a.C.), che si conclude con la vittoria dei Greci e la morte
di Mardonio. Tebe viene punita per il suo atteggiamento filopersiano, mentre la
flotta greca coglie un grande successo a Micale, in Asia Minore. Il racconto si
conclude con la presa di Sesto sull’Ellesponto (478 a.C.) da parte degli Ateniesi.

L’unita delle storie erodotee è costituita dal logos (il racconto), cioè una sezione
omogenea riservata alla trattazione di un personaggio o alla descrizione di un
popolo. Forse fu ad Atene che Erodoto pensò ai logoi; nel corso del lavoro si
osserva una specie di conversione, in cui gli interessi etnologici predominanti
nella fase iniziale, vengono accantonati per un’analisi più storiografica.

2.3 Caratteri generali della storiografia erodotea

La storia di Erodoto comprende molto materiale: la descrizione di popoli lontani,


le leggende, gli oracoli e i racconti folklorici. Erodoto dunque può essere
considerato il padre dell'antropologia, per la sua prospettiva policentrica che lo
porta ad includere, nella sua opera, la “cultura” di un popolo. Più che procedere
ad una descrizione sistematica di un popolo, Erodoto seleziona e pone in
evidenza gli aspetti che possono colpire. Oltre a fornire una serie di informazioni
di grande valore, le sezioni etnografiche delle storie offrono la chiave per
individuare la prospettiva secondo la quale i greci vedevano l'”altro”, vale a dire
chi non era greco, confrontandosi con lui. Nelle sezioni etnografiche si identifica
uno schema ricorrente articolato secondo le cosiddette “rubriche”: la religione,
gli uomini con la loro archeologia, cioè con la loro storia del passato, le usanze e
le leggi. Gli storici successivi eliminarono questi elementi dal loro orizzonte
perché ritennero degna di indagine la sola storia politica, mentre, Erodoto ha
degli orizzonti più ampi. Per Erodoto l’historie è l'indagine di tutto ciò che appare
degno di memoria e di osservazione, quindi non solo i grandi eventi ma anche le
opere meravigliose prodotte dalla civiltà umana. Ciò spiega il suo procedere per
così dire orizzontale: eventi importanti come guerre e mutamenti politici, eventi
minori e caratteri persistenti di una civiltà (come vicende private o usanze).
Ampio è anche l'orizzonte mentale di Erodoto, che, ingloba nella sua storia le
grandi forze che influiscono sugli eventi umani. Erodoto non crede che la storia
sia determinata solo dai rapporti di forza, ma è convinto dell'esistenza di energie
invisibili che si muovono dietro le cose umane: la storia è partecipe dello stesso
clima culturale della tragedia. In Erodoto gli dei sono parte integrante della
storia, così come veniva nella poesia epica. Questo non significa che abbia una
visione provvidenziale dell'intervento divino nel mondo; Erodoto individua
piuttosto alcune costanti dell'agire umano. È tipico del sistema ideologico
erodoteo il ricorso a concetti come la tracotanza e l'invidia divina, per spiegare
una legge metastorica che intende a riequilibrare fortuna e disgrazia, successi e
insuccessi. Accade allora che la fortuna si rovesci e che alla prosperità subentri la
rovina, com’è accaduto a Creso. Accanto allo storico impegnato di idee
tradizionali sta l'indagatore curioso e animato da un interesse illuministico. Uno
degli aspetti essenziali del procedere erodoteo è l'interesse per il nomos e la
concezione fortemente relativistica che Erodoto ha delle leggi e dei costumi,
come prodotto dell'evoluzione di società differenti. È in questo senso che la
prospettiva erodotea manifesta la sua più ampia e valida apertura, rifiutando
uno schematico etnocentrismo, in cui la contrapposizione tra greci e barbari è
anche un giudizio di valore, Erodoto propone una visione policentrica della
storia, priva di rigidità, senza mai rinunciare alla consapevolezza di appartenere
a un preciso ambito culturale, quello greco, di cui proclama con fierezza i valori.

2.4 Erodoto narratore: le novelle

Nelle Storie erodotee le novelle occupano uno spazio considerevole: sono inserti
narrativi più o meno ampi, che interrompono la narrazione storica e
scaturiscono dal flusso affabulatorio dell’autore, quando questi tocca
determinati personaggi o eventi. Le novelle sono presentate come racconti di
informatori e testimoni locali: Erodoto attinse il suo materiale novellistico dalla
tradizione orale e popolare. Le Storie furono composte per essere declamate
oralmente nel corso di pubbliche esibizioni; le novelle dunque, rispondendo a
moduli narrativi tradizionali, risultavano gradite alle orecchie degli ascoltatori.
Tuttavia in Erodoto le novelle hanno anche funzioni innovative precise perché
consentono di interrompere e riannodare i fili dell'azione creando effetti di
attesa e di sospensione, introducono materiale narrativo parallelo alla
narrazione vera e propria, tengono desta l'attenzione dell'uditorio con episodi
interessanti. Si potrebbe dire che nell'insieme svolgono una funzione mitica, in
quanto contenitori di memoria e di riflessioni. In questo senso, le novelle
contribuiscono a determinare lo sfondo etico della narrazione, mostrando la
visione morale che percorre l'intera opera con cui si vuole spiegare l’alternanza
di fortuna e sventura di un individuo. Tucidide indica nell'elemento favoloso una
caratteristica degli storici che lo hanno preceduto, dai quali intende
differenziarsi: per lui questi sono da considerarsi esponenti di una concezione
artistico-letteraria e non scientifica della storia. Il richiamo al favoloso evoca una
categoria vasta, nella quale possono rientrare elementi diversi. Questi ultimi
peraltro rappresentano un’eredità della poesia eroica che Erodoto, non poteva
escludere dalla propria opera.

2.5 Fra Greci e barbari: lo storico politico

Le guerre persiane ebbero profonde ripercussioni culturali come l’antitesi Greci-


barbari che acquistò sempre maggiore peso. La vittoria dei Greci fu interpretata
come il frutto di un regime politico fondato sulla libertà e sull’osservazione di
leggi scelte liberamente, in contrapposizione con la servitù cui i barbari sono
sottomessi. In Erodoto questa contrapposizione non è condotta alle estreme
conseguenze: in epoche successive i barbari diventarono quasi caricature dei
veri esseri umani, protagonisti di azioni crudeli. Nella sua opinione i difetti umani
sono ripartiti in ugual misura tra Greci e barbari; la differenza sta nel fatto che
sono retti da sistemi politici differenti. Particolarmente significativo è l’esempio
del dibattito sulle costituzioni avvenuto dopo il soffocamento della rivolta dei
Magi, impadronitisi del potere durante la campagna di Cambise in Egitto. Nella
realtà questo dibattito non è mai avvenuto; infatti le teorie politiche espresse (la
distinzione tra potere di uno, di pochi e di molti) sono chiaramente greche e
ritornano con diverse varianti in autori contemporanei, da Platone a Polibio, che
fissano tre forme possibili di costituzioni: monarchia, oligarchia, democrazia.

2.6 Lingua e stile

Erodoto scrive nel dialetto ionico letterario, anzi le sue Storie rappresentano
l’esempio più perfetto di prosa ionica. Tuttavia non si tratta di uno ionico puro:
Erodoto realizza una singolare commistione, dove trovano posto forme elevate
di derivazione poetica (in particolare omerica) e forme attiche, tenendo presente
che aveva un pubblico ateniese. Non troviamo in Erodoto un utilizzo rigoroso
della terminologia storiografica; la sua è una lingua non tecnica ma duttile, con
un vocabolario ricco di ogni sfumatura. Erodoto crea frasi ampie e predilige la
paratassi. Tipico del suo stile è l’uso sistematico della “composizione ad anello”.
3. Tucidide

3.1 La vita

Tucidide nacque ad Atene attorno al 460 a.C.; era legato alla Tracia e al clan dei
Filaidi; tra gli antenati del padre Oloro, c’era un re trace la cui figlia era andata
sposa a Milziade. È credibile la notizia secondo la quale Tucidide possedesse
miniere in Tracia, territorio strategico per gli Ateniesi e alle rive del Bosforo,
dove Atene aveva insediato colonie. Nei primi anni della guerra del
Peloponneso, Tucidide era impegnato nell’attività politica; nel 424 a.C. comandò
una spedizione di soccorso guidata in Tracia per contrastare il tentativo spartano
di conquistare Anfipoli, ma la città fu conquistata ugualmente. Ad Atene
l’impressione suscitata da questo rovescio fu enorme: secondo la tradizione,
Tucidide sarebbe stato condannato all’esilio. Sembra che Tucidide abbia
continuato a vivere ad Atene, rimanendo escluso dalla vita politica: poté
dedicarsi alla stesura della storia che narrava gli eventi della guerra del
Peloponneso. Nient’altro si sa di lui, se non che morì dopo la fine della guerra e
la restaurazione del regime democratico, nel 403 a.C. Tucidide, secondo la
tradizione, fu assassinato da mano ignota, la sua tomba sorgeva nelle vicinanze
di Atene accanto a quella di Cimone, figlio di Milziade.

3.2 Le Storie

Tucidide scrisse un resoconto storico della guerra del Peloponneso, pervenuto


diviso in 8 libri; inizia con una retrospettiva sulle cause senza giungere ad una
conclusione della guerra, interrompendosi al 411 a.C. L’ultimo libro offre indizi di
una composizione non rielaborata: mancano infatti i discorsi, caratteristici della
storiografia tucididea. L'opera fu interrotta a seguito della morte dell’autore.

La trama delle Storie: (LIBRO I: FINO AL 431 A.C.): Dopo il proemio in cui l’autore
nomina se stesso e giustifica la ragione della sua opera, circoscritta al racconto di
una guerra che avrebbe cambiato il volto della Grecia, viene tratteggiata una
storia della Grecia dalle origini fino alle guerre persiane (2-19). Questa
introduzione (chiamata “archeologia”) è un ‘introduzione che si contrappone alle
opere di altri autori, come Erodoto. L’antichissima storia greca, narrata
attraverso le notizie dei racconti mitici, è ripercorsa alla luce di uno spirito
razionalista; e poiché per Tucidide la storia è fondata sul principio che essa sia
governata da rapporti di forza, egli dimostra che non il passato o la guerra di
Troia sono gli eventi capitali della storia greca, ma lo scontro che vide la potenza
dominante del Mediterraneo, spaccarsi in due durante una guerra ventennale.
Tucidide liquida la guerra di Troia come un evento secondario, mentre è
significativo il suo impiego del mito in chiave storiografica. Anche sulle
migrazioni Tucidide aveva ragione, quando supponeva che la Grecia fosse in
origine abitata da popoli non greci, impiega pagine per parlare anche della
pirateria e delle tirannidi. Precisato il proprio metodo storiografico, Tucidide
nell’ascesa di Atene e nella conseguente ospitalità di Sparta la causa del
conflitto; poi passa a descrivere l’ingerenza ateniese nei rapporti tra Corinto e le
sue colonie Corcira e Potidea. L’inconciliabilità tra Atene e i Peloponessiaci porta
Sparta a non riuscire a tenere le tensioni. Il racconto viene interrotto per un
excursus sulla storia greca nel 50ntennio tra la presa di Sesto (478 a.C.) e l’inizio
del conflitto peloponnesiaco (431 a.C.), la cosiddetta “penteconteatia”, periodo
in cui mutarono l’impero marittimo ateniese e l’ostilità spartana davanti alla
rottura degli equilibri (89-117). L’ultima sezione del libro è dedicata al resoconto
di un nuovo vertice della lega peloponnesiaca, in cui viene infine votata la
guerra, e dal discorso di Pericle, che espone la propria strategia con una
digressione sulla fine di Temistocle e Pausania, leader della vittoriosa guerra
contro la Persia. (LIBRO II: 431-429 A.C.): Il conflitto inizia con l’aggressione dei
Tebani a Platea, alleata degli Ateniesi, e l’invasione dell’Attica da parte degli
Spartani e dei loro alleati, guidati dal re Archidamo (da qui derina la definizione
di “guerra archidamica”). La strategia di Pericle è di evitare una battaglia
terrestre e di rispondere alla strategia spartana con scorreria navali sulle coste
del Peloponneso, per logorare le risorse del nemico. La fine del primo anno di
guerra è lo spunto per introdurre l’”epitafio”. La consuetudine voleva che ogni
anno si celebrassero le esequie dei caduti per la patria; nel 431 a.C., primo anno
di guerra, questo compito fu affidato a Pericle. Nel riferirne il discorso, Tucidide
scrive che le parole del suo Pericle sono servite a definire l’essenza della potenza
ateniese, all’acme del suo splendore: si esalta la democrazia e la libertà pubblica
e privata di Atene, il rispetto delle leggi, si tratta di un manifesto del “miracolo
ateniese”. Subito dopo viene descritta l’epidemia che si abbattè su Atene nel
secondo anno di guerra; si trovano così contrapposte l’Atene idealizzata
dell’epitafio e l’Atene devastata e sofferente a causa della malattia. Cos’ al tema
dell’epitafio viene affiancata un altro tema caro a Tucidide, ovvero l’intervento
della sorte che sopraggiunge a sconvolgere i piani degli uomini. Nella città si
diffuse un’epidemia importata dall’Egitto: generalmente si parla di peste, ma i
sintomi non sono quelli della peste bubbonica; forse si trattava di vaiolo o di tifo
o di una forma particolare di morbillo, ma era comunque una malattia
contagiosa e ignota ai medici dell’epoca. L’evento portò a gravi perdite umane,
Pericle fu ucciso dalla malattia e ad Atene venne a mancare la mente politica che
l’aveva guidata fino a quel momento. Le pagine sull’epidemia sono notevoli
anche per un altro motivo: alla descrizione dei sintomi Tucidide affianca quella
degli effetti morali che l’epidemia produsse nelle città. Il mancato rispetto alla
legge, il capovolgimento dei valori abituali e tutto ciò che si può definire la
psicologia della pestilenza. A Pericle morto viene dedicato un elogio da parte
dello storico. Nell’ultima parte del libro il teatro dell’azione si sposta verso nord,
dove Atene cerca di volgere a proprio vantaggio un conflitto tra Traci e
Macedoni. (LIBRO III: 428-426 A.C.): Mentre l’Attica è nuovamente invasa dai
Peloponnesiaci, scoppia una ribellione a Mitilene. A questo punto sulla scesa
politica si affaccia Cleone, leader della corrente democratica radicale e per
questo inviso a Tucidide e ad Aristofane. Cleone vorrebbe occupare il ruolo di
Pericle. La sua prima manifestazione è estremistica: vorrebbe lo sterminio dei
Mitilenesi, in un primo tempo riesce a far votare la sua risoluzione, ma una
seconda assemblea sostiene Diodoto, che limita la punizione ai responsabili. I
Peloponnesiaci rispondono con un duro trattamento agli abitanti di Platea,
capitolata dopo tre anni di assedio. Ad aggravare il quadro delle atrocità giunge
la guerra civile esplosa a Corcira tra democratici e oligarchici, dove quest’ultimi
tentando di sganciarsi dalla sfera d’influenza, vengono soffocati in un bagno di
sangue. (LIBRO IV: 425-422 A.C.): I teatri di guerra si moltiplicano: mentre in
Attica si rinnovano le devastazioni dei Peloponnesiaci, Demostene riesce a
creare una testa di ponte sulle coste del Peloponneso, occupando Pilo; gli
Spartani reagiscono inviando un contingente all’isola di Sfacteria, di fronte a Pilo.
Cleone, al comando, dice allora che avrebbe espugnato l’isola; infatti gli Ateniesi
riescono a sbarcare su Sfacteria e costringono gli Spartani alla resa. La guerra
sarebbe potuta terminare se gli Ateniesi non avessero rifiutato le proposte di
pace. Le operazioni si spostano a nord, nella Calcidica, dove lo spartano Brasida
riesce ad espugnare la città di Anfipoli (Tucidide stesso manda una spedizione di
soccorso) e a spostare l’equilibrio di quel fronte a favore dei Peloponnesiaci.
(LIBRO V: 422-415 A.C.): Con la morte di Brasida e Cleone ad Anfipoli, prevalgono
in entrambi i campi le “colombe”. Si concretizza una pace cinquantennale che
porta il nome di PACE DI NICIA. Nell’ultima parte del libro Tucidide narra un
evento atroce di questa specie di “guerra fredda”, avvenuto nel 416 a.C. : la
distruzione di Melo, colonizzata anticamente dagli Spartani, che era riuscita fino
a quel momento ad essere neutrale. Al centro dell’episodio è il dialogo tra gli
ambasciatori ateniesi e gli isolani (DIALOGO DEI MELI): questi ultimi chiedono di
rimanere neutrali e fanno appello alla protezione divina e all’aiuto degli Spartani;
gli Ateniesi, per non sembrare deboli, spiegano ai Meli quanto sia inutile la loro
opposizione. Malgrado un tentativo di difesa dei Meli accade che: gli uomini
saranno passati tutti a fil di spada, le donne e i bambini venduti come schiavi.
Tucidide con la tecnica sofistica del discorso doppio, mette a nudo i meccanismi
dell’imperialismo ateniese. (LIBRO VI: 415-414 A.C.): A questo punto si verifica la
sconfitta di Atene. Alcibiade, astro nascente della politica ateniese, caldeggiava
un intervento di Atene nel conflitto tra Siracusa e Segesta, alla scopo di includere
la Sicilia nella sfera d’influenza ateniese. Alcibiade riuscì a far valere il proprio
parere su quello del prudente Nicia. Fu organizzata una spedizione , guidata da
Alcibiade e dal suo rivale Nicia, ma al momento della partenza, nel maggio del
415 a.C. la città fu scossa da un evento: lo scandalo della mutilazione delle erme
(immagini di Ermes che sorgevano nelle strade); la vox populi incolpò subito
Alcibiade. Nell’Atene democratica, l’accusa di ateismo era un forte strumento di
lotta politica; nonostante ciò, la flotta partì ugualmente per la Sicilia. Intanto gli
avversari di Alcibiade riuscirono a farlo richiamare in patria per sottoporlo a
processo; temendo il peggio si rifugiò a Sparta. La spedizione arrivò in Sicilia e si
ebbe l’illusione di un successo ateniese. (LIBRO VII: 413 A.C.): Gli Ateniesi posero
assedio a Siracusa per mare e per terra, ma giunse, in soccorso dei Siracusani, un
contingente spartano comandato da Galippo. Atene mandò allora una flotta di
rinforzo al comando di Demostene, lo stesso che aveva sconfitto gli Spartani a
Pilo. Demostene e Nicia tentarono un attacco notturno che venne respinto. A
causa di un’eclissi di luna, Nicia rimandò di un giorno la ritirata. A questo punto
l’esercito, abbandonando la flotta e l’accampamento pieno di feriti, tentò una
ritirata per via di terra, ma venne raggiunto dai Siracusani e costretto alla resa.
Nicia e Demostene furono passati per le armi, gli altri prigionieri vennero chiusi
nelle Latomie, le cave di pietra che a Siracusa fungevano da prigioni. Solo pochi
tornarono ad Atene. (LIBRO VIII: 412-411 A.C.): La notizia del disastro in Sicilia
venne accolta ad Atene con sgomento, ma gli Ateniesi proseguirono ugualmente
la guerra. Intanto nella scesa del conflitto si affacciò la Pperisa, rappresentata dai
satrapi Tissaferne e Farnabazo, che si schierò a fianco degli Spartani fornendo
denaro e navi. Atene nel frattempo affrontò il colpo di stato oligarchico del 411
a.C., al seguito del quale fu abolita la costituzione democratica e l’assemblea
popolare fu sostituita dal consiglio dei Quattrocento. La reazione democratica,
guidata da Tiramene, portò alla restaurazione della democrazia con l’istituzione
dell’assemblea dei Cinquemila. Il resoconto di Tucidide si interrompe
bruscamente dopo il ritorno di Alcibiade dall’esilio e la vittoria della flotta
ateniese a Cinossema e non comprende gli ultimi anni del conflitto, che
terminerà solo nel 404 a.C.

3.3 Il ruolo dello storico

Le storie di Tucidide costituiscono la prima opera storiografica nel senso


moderno del termine, perché narrano criticamente della guerra del
Peloponesso, di cui l'autore si propone di descrivere in modo scientifico i
movimenti, le cause e gli sviluppi. Tucidide prende in considerazione soprattutto
eventi di storia politica e militare, secondo una concezione storica che si
affermerà nell'antichità sino a diventare esemplare per l'età moderna. La
prospettiva dello storico e la sua materia, si restringono rispetto a Erodoto,
poiché Tucidide seleziona con decisione ciò che a suo giudizio appartiene alla
storia, scartando tutto ciò che non può essere oggetto di un'indagine scientifica.
Erodoto aveva fermato che lo scopo della sua ricerca era di trasmettere le
imprese grandi e “meravigliose”, ma il “meraviglioso” non rientra negli interessi
storiografici di Tucidide. Per lui la storia è una ricerca delle cause profonde e
degli eventi del passato, intesa a permettere una possibile diagnosi del futuro. La
storia, come afferma l'autore stesso all'inizio dell'opera, “è un possesso per
l'eternità”, vale a dire un testo destinato “a coloro che vogliono indagare la
verità delle cose passate e di quelle che si verificheranno in un futuro in modo
simile, secondo l’agire umano”. Questa dichiarazione programmatica è da
intendere in polemica con una storiografia come quella di Erodoto, destinata ad
una pubblica esecuzione e rivolta ad un uditorio generico. L'opera di Tucidide,
invece, è destinata alla lettura, costituisce anzi un libro scritto per un pubblico
specializzato di persone colte, legate all'ambiente degli aristocratici moderati,
esperti di politica e interessati a riflettere sull'evento che Tucidide considerava
fondamentale per la storia contemporanea: lo scontro tra la democrazia
imperialistica ateniese e il tradizionale sistema oligarchico, che aveva in Sparta la
sua roccaforte.

3.4 Tucidide e la democrazia ateniese

Tucidide sa illuminare con cinica lucidità, i meccanismi dell’Atene democratica,


sforzandosi di valutare in che modo questo sistema può condurre a un
incremento del potere dello stato. Pregiudicate azioni militari, uomini politici
costretti ad assecondare le speranze del demos, il popolo sovrano che
tiranneggia la polis, sono temi analizzati in modo eccezionalmente acuto, al
punto che nessun periodo della storia antica è per noi più chiaro di quelle 10
pagine descritte da Tucidide. Egli descrive una guerra in cui l'uomo mostra la sua
faccia peggiore: violenza, sangue, ferocia segnano ogni pagina della sua opera.
Ben consapevole che la guerra sovverte ogni costume e privo di illusioni a
proposito della naturale bontà del genere umano, Tucidide riesce a cogliere il
carattere destabilizzante della democrazia ateniese. Atene si pone in collisione
con le altre città greche a causa della sua natura protesa un incremento di
potere e di ricchezza. Per la democrazia ateniese non esiste possibilità di
compromesso: o abbatte gli avversari o si impone su di loro come potenza
egemone. Questo meccanismo è indicato da Tucidide come grande peccato del
regime democratico e al tempo stesso come la sua più profonda ragione
d'essere. Per quanto dichiari di essere imparziale, Tucidide è necessariamente
orientato in base alla logica del pubblico a cui si rivolge: scrive infatti secondo la
prospettiva dell’ateniese moderato, contrario allo strapotere del Popolo con il
quale tuttavia è costretto a venire a patti. Talvolta il suo particolare punto di
vista appare evidente, come quando osserva che l’Atene dell'epoca di Pericle era
di nome una democrazia, ma di fatto era governata da un solo cittadino, o
quando loda la costituzione moderata prodotta dal colpo di stato del 411 a.C.
che aveva abbattuto le istituzioni più radicali della democrazia.

3.5 Lo sguardo sul presente: principi e metodi

L’orizzonte di Tucidide è laico: mette al bando l’apparato di forze trascendenti


operate da Erodoto, perché per Tucidide la storia è dominata da dinamiche che
hanno origine nella natura dell’uomo e nella legge del più forte. La storia
tucididea è dunque antropocentrica e trova giustificazione nello studio
scientifico dei procedimenti che inducono un gruppo umano a operare allo
scolpo di prevalere sugli avversari, con ogni mezzo possibile. Le Storie di Tucidide
sono condizionate dall’insegnamento sofistico: sono tratti sofistici il porre
l’uomo e le sue azioni al centro della storia, l’attenzione rivolta a decifrare le
leggi della natura umana e l’importanza attribuita alle arti politiche. Anche la
concezione del progresso mostra il segno dei tempi nuovi. Secondo
l’antropologia del mito, che ritroviamo in Esiodo e in Erodoto, la vicenda
dell’umanità era un progressivo allontanamento dal’ “età dell’oro” primitiva.
Tucidide invece respinge la concezione ciclica del tempo e accoglie
l’antropologia dei sofisti: l’essenza della storia è il progresso da un’età debole, in
cui le risorse accumulate a poco a poco dai Greci hanno prodotto una tale
concentrazione di forze da fare di questa guerra une evento di importanza
mondiale. Lo schema tucidideo del discorso, insegnato dai sofisti, ricorre in tutta
l’opera e formano pagine dense di analisi politica. Tucidide afferma che i suoi
discorsi corrispondono a quelli realmente tenuti dai personaggi, ma sono
modificati sulla base del “verosimile”; è in questa verosimiglianza che si apre la
possibilità di introdurre nell’oggettività della vicenda la soggettività dell’autore.
Alla descrizione dei fatti storici corrisponde quella dei sintomi della malattia, ciò
ci fa capire che Tucidide abbia familiarità con i movimenti vitali della cultura e
della scienza contemporanea. A determinare il corso della vicenda vi è in primo
luogo la “sorte” che interviene a sovvertire i progetti meglio concepiti,
imprimendo agli eventi sorti inattese, e in secondo luogo elementi come la
bramosia di potere, la paura e l’odio verso la fazione avversa. Tucidide si può
considerare il primo psicologo dei fenomeni di massa, (basti pensare alle pagine
dedicate all’epidemia in Atene o alla disfatta dell’esercito davanti a Siracusa)
dove l’emotività e la ferocia sovvertono ogni convivenza civile e producono
decisioni irrazionali.

3.6 Lo stile e la fortuna

La grandezza di Tucidide sta nella sua intelligenza narrativa, in grado di


raggiungere esiti di estremo pathos, e nella capacitò di analizzare, con la stessa
lucidità, eventi di grande e minore importanza. Il suo stile è arduo, in cui
dominano strutture complesse, frasi in cui prevale l’ipotassi, con un uso preciso
e pertinente della lingua. L’opera di Tucidide risultò un punto di riferimento per
gli storici delle generazioni successive, anche se, la selezione dei soli eventi
politici e militari si rivelò problematica per i nuovi tempi: ben presto la
storiografia fu caratterizzata da un’accentuata tendenza moralistica e retorica
estranea a Tucidide. Polibio (II secolo a.C.) fu lo storico greco più vicino a
Tucidide, un greco trapiantato a Roma, la cui storia si propone di trovare le
cause dell’egemonia romana, privilegiando eventi politici e bellici. In ambito
romano è Sallustio (86-35/34 a.C.) che mostra tratti tucididei: compone
monografie storiche (di cui le Storie di Tucidide possono considerarsi
precorritrici) su eventi contemporanei, mette in evidenza il ruolo della sorte
(fortuna) nella storia e utilizza il discorso fittizio per presentare dinamiche o
personaggi.

4 Senofonte
4.1 La vita e le opere

Senofonte nacque ad Atene attorno al 430 a.C. da famiglia aristocratica; conobbe e


frequentò Socrate. Nel 401 a.C., al termine della guerra del Peloponneso, si imbarcò
per l’Asia, accettando l’invito di Prosseno, che stava arruolando mercenari in Grecia
per contro del principe persiano Ciro. Quest’ultimo stava pensando di detronizzare il
fratello Artaserse: Ciro rivelò il suo obiettivo solo quando era ormai troppo tardi per
tornare indietro. Senofonte racconta di aver consultato Socrate al riguardo della
spedizione e di aver ricevuto il consiglio di chiedere un responso ad Apollo; ma
Senofonte non domandò se fosse opportuno prendere parte all’impresa bensì a
quale divinità sacrificare per fare un buon viaggio, La scelta di Senofonte è rivelatrice
di un rapporto difficile con la sua città: in effetti è probabile che Senofonte fosse
compromesso con il regime reazionario dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.) Al seguito
di Ciro, Senofonte partecipò alla battaglia di Cunassa, presso Babilonia, in cui rimase
ucciso il pretendente al trono; poco dopo anche i capi del contingente ellenico
furono assassinati e i mercenari greci si ritrovarono isolati in un territorio ostile.
Senofonte, insieme ad altri, fu scelto come stratega per riorganizzare il ritorno in
patria: i Greci (10.000 in tutto) riuscirono ad aprirsi un varco e a raggiungere il Mar
Nero; una parte di mercenari si imbarcò, mentre gli altri, con Senofonte,
proseguirono il viaggio lungo la costa. Alla fine Senofonte potè consegnare i resti
dell’armata allo spartano Tibrone; poi invece di tornare ad Atene, si trattenne al
servizio degli Spartani e strinse amicizia con il re Agesilao, cui dedicherà una
biografia encomiastica. Tornato in Grecia attorno al 394 a.C., Senofonte combatté a
fianco degli Spartani a Coronea contro gli Ateniesi e i Tebani; per il suo
atteggiamento filospartano o per i suoi trascorsi durante il regime dei Trenta,
Senofonte fu condannato all’esilio e si ritirò in una tenuta a Scillunte (in Elide) che gli
era stata donata da Agesilao, dove visse vent’anni. Dopo la battaglia di Leuttra (371
a.C.), che segnò la fine dell’egemonia spartana in Elide, Senofonte si rifugiò a
Corinto, sebbene l’esilio fosse stato revocato. L’anno della sua morte, ignoto, va
collocato dopo il 377 a.C. Il corpus (composto dall’ opuscolo di poche pagine o
dall’opera in più libri; dal dialogo o dalla narrazione continua) delle opere di
Senofonte, che ci è giunto completo, è percorso da una vena autobiografica, se non
proprio diaristica. Inoltre i suoi scritto sono ripartiti in categorie omogenee, sulla
base del contenuto o della destinazione: parliamo così di opere storiche, socratiche
e tecniche.

4.2 Opere storiche

I sette libri dell’Anabasi sono il frutto dell’avventura asiatica; tuttavia il titolo


complessivo che significa “spedizione verso l’interno” della Persia, i riferisce proprio
al contenuto del libro, che si conclude con la morte di Ciro il Giovane nella battaglia
di Cunassa. L’opera circolò sotto lo pseudonimo di Temistogene Siracusano per
volontà dello stesso autore; la ragione dello mascheramento è da cercare, più che
nel desiderio di apparire obiettivo (ciò che di fatto non è), nella volontà di riscattare
la figura dell’esule Senofonte per mezzo del resoconto del suo comportamento
esemplare nel corso della difficile impresa. L’Anabasi è il resoconto di una
spedizione militare vissuta in prima persona e raccoglie dati, nomi, distanze, quasi
fosse un libro di memorie redatto sulla base di annotazioni registrate
quotidianamente. Il carattere cronachistico dell’opera rende anche ragione dello
stile non di rado secco e senza velleità di elaborazione artistica; ci sono però anche
momenti in cui Senofonte dà prova delle sue doti da osservatore, facendo percepire
il dramma di questi uomini, la cui vita è legata all’istante di una scelta, che se errata,
può essere fatale. E’ l’epopea di un esercito di mercenari, animati da una feroce
volontà di sopravvivenza, e la loro forza risiede non solo nell’addestramento ma
nella disciplina cui un esercito di opliti sa organizzarsi, provvedendo ai rifornimenti e
pianificando le marce. Le pagine dell’Anabasi ci rivelano appunto il testimone
oculare, il prototipo dell’inviato in guerra sulla linea del fronte: un esempio è
rappresentato dalla descrizione della stessa battaglia di Cunassa, osservata nella
prospettiva del soldato in prima linea. Per il suo tema circoscritto, ovvero quello di
una guerra raccontata con crudezza, l’Anabasi rimase uno scritto a carattere
monografico e non confluì all’interno delle Elleniche, che narrano in sette libri gli
avvenimenti dal 410 a.C. (battaglia di Cizico) al 362 a.C. (battaglia di Mantinea). I
problemi maggiori sono posti dalla prima sezione (libri I-II, 3,10) che descrive le
ultime fasi del conflitto peloponnesiaco, riallacciandosi con un inizio assai brusco al
punto in cui si interrompeva la narrazione tucididea e seguendo fino alla resa di
Atene. Questa parte sembra scritta a integrazione delle Storie tucididee e adottano
anche la caratteristica periodizzazione per estati e inverni (Luciano Canfora sostiene
questa tesi). Il corpo centrale delle Elleniche è costituito dal resoconto del periodo di
supremazia spartana e, dopo la battaglia di Leuttra, tebana, in Grecia. L’origine
diaristica dell’opera ne spiega il carattere specifico; ai resoconti minuti di certi
avvenimenti (come le vicende della cavalleria ateniese, nelle quali lo storico fu
coinvolto personalmente) si affiancano ampie lacune relative a fatti dei quali egli
non potè essere testimone (come la battaglia di Cnido). L’opera si chiude sullo
sgomento dello storico di fronte alla situazione di confusione successiva alla
battaglia di Mantinea, dove non emerse un chiaro vincitore. Le Elleniche divennero il
modello di un genere storiografico chiamato “le elleniche”, ovvero l’esposizione
della storia greca attraverso il succedersi dei periodi egemonici delle diverse città.

L’Agesilao è invece una biografia encomiastica del re spartano che ebbe tanta parte
nella vita di Senofonte; si tratta del primo esempio di biografia destinato a godere di
straordinaria fortuna.

4.3 Opere socratiche

Dalla frequentazione di Socrate derivano altre opere di Senofonte tra cui i quattro
libri dei Memorabili, raccolta di aneddoti relativi al filosofo ateniese. L'intento
dell'opera è apologetico, nei confronti tanto del filosofo, quanto più in generale
della sua cerchia. Tra l'altro Senofonte vuole scagionare Socrate dalle accuse che gli
erano state rivolte in tribunale e separare la sua figura da personaggi politicamente
compromessi con il regime tirannico dei Trenta e che erano amici di Socrate, come
Alcibiade e Crizia. Alla figura di Socrate sono dedicate altre due opere ovvero
l'Apologia, che si propone di spiegare le ragioni del comportamento superbo del
filosofo durante il processo e ci presenta un Socrate stanco della vita e fermamente
deciso a farsi condannare, e il Simposio, nel quale sono riferiti in modo disorganico i
discorsi di vari argomenti ottenuti dai convitati durante un banchetto a casa del ricco
Callia. Socrate appare infine come protagonista di uno scritto di carattere più
tecnico, ovvero l'Economico, in cui Senofonte racconta di aver udito un dialogo tra
Socrate e Critobulo sul tema della corretta amministrazione al patrimonio familiare.
All'interno di questo dialogo, Socrate riferisce a sua volta una sua conversazione con
Iscomaco, gentiluomo di campagna assunto a modello dell'amministrazione ideale.
L'etica che traspare dall’ encomio è decisamente aristocratica. E, in
contrapposizione al lavoro artigianale e al commercio l'agricoltura è vista come la
più nobile tra le attività, capace di formare i cittadini migliori. Lo scritto presenta
anche degli elementi innovativi, tra i quali è da sottolineare il ruolo attivo attribuito
alla donna, che deve essere comproprietaria dei beni insieme al marito e
amministratrice dello spazio interno della casa, si tratta però sempre di una donna
subordinata al proprio consorte, che ha il compito di plasmarla a sua immagine e
somiglianza.

4.4 Opere di carattere pedagogico-politico


In polemica scoperta con il sistema democratico ateniese, Senofonte rintraccia i
modelli ideali delle due realtà politiche intorno alle quali ruotò la vicenda biografica,
Sparta e la Persia; Senofonte, infatti, individua nell’educazione aristocratica ed
elitaria la sola via per creare un buon cittadino e governatore. Nella Costituzione dei
Lacedemoni si illustra ed esalta l’ordinamento spartano, modello insuperato di
addestramento militare, in grado di creare cittadini perfetti. La riflessione sul
problema dell’educazione politica ritorna anche nell’opera intitolata Ciropedia, che
narra in otto libri la biografia di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano. In
realtà, il racconto dell’educazione di Ciro fanciullo, che in Senofonte figlio di
Cambise, re dei Persiani, occupa solo il primo libro; nei libri successivi vengono
narrate le imprese contro gli Assiri e gli Armeni come alleato di Ciassare re dei Medi
(libri II-VI), le spedizioni contro Creso re dei Lidi e le regioni dell’Asia minore e
l’occupazione di Babilonia (libro VII). Ciro sposa quindi la figlia di Ciassare ricevendo
in dote il regno dei Medi, che viene unito a quello dei Persiani; dopo aver narrato la
morte di Ciro, l’autore afferma la decadenza dei costumi persiani (libro VIII). Il
racconto delle vicende di Ciro si alterna a digressioni di carattere politico, morale e
filosofico. Si tratta di idee e problemi greci, nonostante questa biografia sia
ambientata in Persia. Senofonte cerca un modello statale al di fuori della realtà della
polis e lao trova nella “buona costituzione” di Ciro, fondata su un’educazione diretta
dallo Stato. La Ciropedia pur basandosi sulla conoscenza diretta della realtà persiana
da parte di Senofonte, può essere considerata il primo romanzo storico della cultura
occidentale e il precursore del cosiddetto “romanzo di formazione”, caro all’800.
Alla narrazione principale si intreccia la tragica storia d’amore di Abradate e Pantea,
una novella che si conclude con la morte dell’uomo in battaglia e il conseguente
suicidio della moglie. Il carattere teorico di questi due scritti cerca di esaltare il
passato: nel momento in cui Senofonte scrive, tanto Sparta quanto la Persia
avevano imboccato la strada della decadenza. Pertanto la Costituzione dei
Lacedemoni e la Ciropedia posso essere lette come una sorta di annotazione che
emerge dalle opere di Senofonte, in cui appaiono il crollo della supremazia spartana
(nelle Elleniche) e la debolezza della Persia (nell’Anabasi).

Al centro dell’opuscolo intitolato Ierone, c’è la riflessione politica sul tema della
tirannide; è un dialogo immaginario tra il poeta Simonide e il tiranno siracusano.

4.5 Opere tecniche

Non autobiografici sono alcuni scritti molto più tecnici, sempre scritti da Senofonte:
l’Ipparchico, un trattato sui compiti del comandante di cavalleria, l'Equitazione e il
Cinegetico, (quest'ultimo di attribuzione non certa), dedicati agli sport preferiti da
Senofonte a dagli aristocratici, ovvero l'equitazione la caccia. Con le Entrate, uno
studio delle finanze ateniesi, Senofonte intende indicare alla città la strada migliore
per sistemare il proprio bilancio e reggersi autonomamente. A questo scopo,
secondo lui, gli ateniesi più che sull'agricoltura dovranno puntare sullo sfruttamento
delle miniere d'argento del Laurion, da potenziarsi tramite l'acquisto di schiavi
pubblici. L’opuscolo scritto negli ultimi anni della vita dell'autore, è un segnale della
volontà di riappacificazione con la sua città, nella quale tornerà a stabilirsi da lì a
poco, al termine del suo avventuroso percorso esistenziale.

4.6 Senofonte scrittore

Senofonte si propone come esponente di un ideale di vita aristocratico; inoltre la


varietà dei suoi scritti ci conduce a pensare che egli fu un poligrafo e che ebbe il
merito di anticipare nuovi stili come la memorialistica, la biografia e il romanzo
storico, di cui opere quali l’Anabasi, L’Agesilao o la Ciropedia. Senofonte fu
contemporaneamente l’espressione di un vecchio modo di essere (l’aristocrazia
urbana) e l’antesignano di un tipo di intellettuale, che si andava annunciano in quei
decenni, ovvero un uomo sempre più cittadino del mondo e padrone del suo
destino. Le opere di Sefonte sono l’immagine di uno scrittore capace di muoversi
con versatilità nel campo militare e tecnico amministrativo come quello letterario;
egli non fu una mente acuta e originale, né uno scrittore veramente grande dato che
le sue pagine sono monocordi e lo stile è medio, ma anche semplice ed elegante.

4.7 La Costituzione degli Ateniesi pseudo-senofontea

Nel corpus degli scritti di Senofonte è trasmessa anche una breve opera dal titolo
“Costituzione degli ateniesi”. Lo stile particolarmente arcaico del testo e il fatto che
si riferisca al regime democratico del V secolo fanno escludere che sia senefontea.
L’autore del libello è un ignoto partigiano dell’oligarchia, che si è perfino tentato di
identificare con Tucidide o con Crizia. Comunque sia, la Costituzione degli ateniesi è
un violento libro antidemocratico in cui l’autore sottopone a un esame acuto il
funzionamento del sistema democratico. L breve opera è perciò una fonte preziosa
per ricostruire i meccanismi istituzionali dell’Atene democratica. L’opuscolo si apre
proponendo i termini della questione e definendo senza dubbio la prospettiva
politica dell’autore, un oligarca che riconosce che i democratici hanno saputo
realizzare in modo geniale il progetto di far funzionare una città. L’anonimo autore
riconosce che il “malgoverno” dei democratici è un governo ottimo: infatti è capace
di accattivarsi il consenso delle masse e di sostenere gli interessi in modo
spregiudicato. Secondo Luciano Canfora l’opera sarebbe un dialogo tra due
interlocutori; è un’ipotesi possibile, dato che nel testo mancano quei segnali tipici
che nella tradizione dialogica antica indicano al lettore la presenza di personaggi
dialoganti.
10 La poesia ellenistica

1 Callimaco

1.1 Un poeta dotto e cortigiano

Callimaco figlio di Batto nacque nella colonia dorica di Cirene, intorno al 305 a.C.
Era di famiglia nobile: sembra che dipendesse da Batto mitico fondatore della città e
che suo nonno, fosse stato comandante della flotta di Cirene. Cirene gravitava intorno
al potente regno egiziano dei Tolomei; non a caso ritroviamo Callimaco ad
Alessandria, dove si ridusse a fare il maestro di scuola nel sobborgo di Eleusi.
Callimaco venne introdotto a corte in qualità di giovane paggio, come accadeva di
norma e discendenti delle famiglie nobili. Era comunque destinato a salire in alto; nel
283 a.C., quando salì al trono Tolomeo II Filadelfo, Callimaco entrò nel suo palazzo
si distinse nell'ambiente della Biblioteca per i suoi lavori grammaticali, tra quali in
particolare le Tavole, un catalogo complessivo di tutta la letteratura greca. La sua
posizione presso i Tolomei crebbe sempre più, tanto che lui divenne il poeta di Corte
degli alessandrini; celebrò con i suoi versi le nozze tra Tolomeo Filadelfo e Arsione e
l'apoteosi della regina (270 a.C.). Quando il successore designato di Tolomeo
Filadelfo, Tolomeo III Evergete sposò Berenice, (247 a.C.) e poco dopo salì al trono,
la posizione di Callimaco acquisì rilievo: lo dimostra l'elegia la Chioma di Berenice,
dedicata alla nuova regina. Morì intorno al 240 a.C. Callimaco fu uno dei poeti più
letti e celebrati. Ci restano per intero solo sei Inni agli dei e un gruppo di circa 60
epigrammi; i primi si conservano perché furono inclusi nel corpus che raccoglieva la
tradizione innografica e religiosa antica, i secondi per cui confluiranno nella
Antologia Palatina. Accanto alle opere maggiori (Aitia, Giambi, Inni, Eracle)
compose carmi d'occasione, come gli epinici per le vittorie nei giochi sportivi di
personaggi di corte, il poemetto polemico Ibis (imitato a Roma da Ovidio) e altre
opere sia poetiche sia erudite. Coesistono quindi in lui la figura del poeta
professionista che compone per una committenza e quella del letterato erudito, dedito
una poesia destinata alla divulgazione libresca.

1.2 Gli Aitia

Gli Aitia (Cause) sono una raccolta di elegie in quattro libri. Era un punto di
riferimento per il pubblico dotto dell’antichità che venne letto fino al VII secolo a.C.;
forse questa raccolta andò perduta nelle devastazioni provocate dalla conquista di
Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204. Numerosi frammenti papiracei e le
Diegesi, riassunto in prosa, consentono di delineare il tracciato dell’opera: l’ipotesi
più verosimile è quella di una prima edizione in due libri che divennero quattro,
preceduti da un nuovo prologo, nella seconda edizione, databile agli ultimi anni della
vita del poeta. Buona parte delle elegie degli Aitia è probabile che circolasse in forma
autonoma; il secondo prologo degli Aitia è un vero e proprio manifesto di poetica,
rivolti contro i detrattori di Callimaco, definiti demoni invidiosi e maligni della
tradizione mitologica. Callimaco evita i toni acri dell’invettiva per adottare un humor
allusivo, in cui si intravede la tranquillità di chi ha vinto la propria battaglia. Nella
prima edizione, gli Aitia iniziavano con un sogno nel quale Callimaco veniva portato
sull’Elicona, dove incontrava le Muse che soddisfacevano la sua curiosità erudita, e
gli spiegavano le ragioni di usi e abitudini insolite. Il pretesto del sonno fungeva da
tessuto connettivo dell’opera anche nell’edizione successiva, utilizzando questo
metodo narrativo, Callimaco si richiamava all’antico modello di Esiodo, che nella
Teogonia aveva raccontato la sua iniziativa poetica sul monte Elicona. Gli Aitia,
però, sono in realtà una successione di testi autonomi, ciascuno concluso in se stessi e
destinato a sviluppare un argomento di natura erudita, rivolto a illustrate costumi e
racconti antichi rari, adatti ad attirare l’attenzione del ristretto circolo di lettori ai
quali Callimaco si rivolgeva. Solo pochi episodi sono leggibile tra cui quello di
Acontio e Cidippe: si tratta di una leggenda dell’isola di Ceo. La storia è narrata dal
tardo epistolografo Aristeneto e vi allude anche Ovidio. Durante una festa di Apollo e
Delo, il giovane Acontio incontra Cidippe, già promessa in sposa ad un altro.
L’amore gli suggerisce una cosa: gettare alla ragazza un pomo, con incise le parole
“giuro per Artemide di sposare Acontio”. La ragazza, leggendo la scritta ad alta voce,
pronuncia il giuramento e si ritrova vincolata; il giuramento impedirà le nozze, in
modo che Acontio potrà avere la sua Cidippe e da quelle nozze avrà origine una
famiglia nobile dell’isola di Ceo. In questo caso vediamo Callimaco cimentarsi nella
narrazione di una storia d’amore, anche se è privo di passionalità: il tono è mantenuto
su un livello medio e l’interesse per la psicologia dei due innamorati è
completamento assente, il lettore deve percorrere una via erudita e non arrivare ad
una tensione emotiva.

Un altro passo famoso è la Chioma di Berenice, giunta frammentaria attraverso un


papiro, ma tradotta da Catullo nel carme LXVI. Il pretesto della composizione,
inserita nel IV libro dell’Aitia, fu la scoperta di un gruppo di stelle –note ancora oggi
come “Chioma di Berenice” - a opera dell’astronomo di corte Conone di Samo. Poco
prima la regina Berenice aveva offerto alcune ciocche della sua chioma nel tempio di
Afrodite Zefiritide come pegno votivo per il ritorno dello sposo, il re Tolomeo III
Evergete, impegnato in una spedizione militare in Siria; la chioma scomparve e la
tradizione dice che fosse stata trasportata in cielo dagli dei. Gli Aitia sono il primo
esempio di poesia eziologica, che si sforza di far emergere da un tempo mitico
l’origine di un rito o di una tradizione; infine questa raccolta è la manifestazione
dell’operare di un poeta doctus.

1.3 I Giambi
Gli Aitia erano seguiti dai Giambi, una raccolta di 13 composizioni in dialetto ionico
letterario a imitazione dei giambografi arcaici; possediamo il riassunto della Diegesi
che ne ricostruisce la trama.

Il Giambo I: Quelli meglio leggibili sono i giambi I e IV. Nel Giambo I, Callimaco da
rivivere l’antico Ipponatte, che torna dall’Ade per convocare i filologi nel Sarapeo di
Alessandria, raccomandando di mettere da parte le invidie; per illustrare la sua
morale, racconta la favola della coppa dei sette sapienti. Il ricco Baticle d’Arcadia, in
punto di morte, aveva detto ai figli di consegnare una coppa d’oro al più sapiente tra i
Greci ma, nessuno dei 7 sapienti si era ritenuto degno di averla, e la coppa era
tornata, infine, nelle mani di Talete (primo che l’aveva ricevuta) che l’aveva
consacrata ad Apollo.

Il Giambo IV: Il Giambo IV descrive una contesa letteraria, recuperando il tema della
favola utilizzato tra i giambografi arcaici. In questo testo Callimaco parla della
contesa tra un allora e un ulivo sul monte Tmolo: i due gareggiano per il primato fra
le piante, interrotti da un buffo rovo spinoso che cerca di conciliarli, ma viene
rimesso al posto suo. La Diegesi spiega che costui era un certo Simo, un presuntuoso
che aveva messo bocca in una disputa tra Callimaco e un suo rivale.

Il Giambo XIII: Qui Callimaco si giustifica per la varietà dei suoi componimenti
invocando il precedente del poligrafo del secolo V Ione di Chio.

Nei Giambi Callimaco dà nuova forma al genere letterario usato già da Archiloco e
Ipponatte. I suoi antichi modelli utilizzavano il giambo come strumento della “poesia
del biasimo”, fatta di contenuti violenti sviluppati nel contesto del simposio e
destinati alla recitazione; i Giambi callimachei sono invece concepiti per la
divulgazione scritta e assumono un carattere moralistico. Caratteristica di queste
composizioni è soprattutto la varietà sia dei motivi sia delle tipologie: vi si trovano
temi di contenuto etico, polemiche letterari e componimenti che fanno riferimento
all’attualità, ma non possiedono il carattere graffiante e i valori di satira sociale o
politica propri dei modelli arcaici, né i tratti selvaggi dello spirito giambico. Si fa
ampio ricordo alla fiaba o all’allegoria, e non mancano riferimenti ai miti e costumi
rari.

1.4 Gli Inni

I sei Inni celebrano le divinità cittadine nelle pubbliche feste; la destinazione degli
Inni è incerta, anche se pare che alcuni (come quello a Demetra) siano stati composti
su commissione per una precisa festa, mentre per altri (come l’Inno ad Artemide) il
riferimento rituale è fittizio.
L’inno a Zeus: Il primo inno è dedicato a Zeus e descrive il parto di Rea, che salvò il
figlio dagli impulsi cannibalici di Crono generandolo al riparo di una grotta, situata
tradizionalmente a Creta, ma collocata da Callimaco in Arcadia; qui il bambino
crebbe rapidamente, accudito dalla capra Amaltea che gli offriva il suo latte e
dall’ape Panacride che distillava miele nella sua bocca, mentre intorno i Cureti
danzavano battendo le spade sugli scudi perché i vagiti del neonato non arrivassero
alle orecchie del terribile padre. L’inno termina con un elogia al protettore del poeta,
Tolomeo Filadelfo.

L’inno ad Apollo: L’inno ad Apollo è il secondo; dopo un esordio di suggestione


religiosa, Callimaco loda il dio attraverso una serie di riferimenti a riti e luoghi di
culto, si sofferma sui legami con Cirene, patria di Callimaco, e termina con
l’immagine di Apollo nel suo ruolo di protettore della poesia. L’invidia sussurra
all’orecchio di Apollo: “apprezzo solo i poeti che cantano cose grandi come il mare”,
ma Apollo la scaccia. L’occasione rituale dell’inno diventa cornice di una polemica
letteraria.

L’inno ad Artemide: L’inno ad Artemide è il terzo; contiene il bozzetto tutto


ellenistico di Artemide che come una bambina viziata corre a sedersi sulle ginocchia
del padre Zeus, ottiene con le moine i suoi privilegi, poi corre alla fumante officina di
Efesto, sull’isola di Lipari, e si fa costruire le armi dai Ciclopi. L’inno si conclude
con digressioni sui luoghi e sui culti cari alla dea.

L’inno a Delo: L’inno a Delo è il quarto; celebra l’isola sacra ad Apollo e descrive le
peregrinazioni di Latona, che vaga per il mondo perseguitata dalla gelosia di Era, alla
ricerca di una terra disposta ad ospitare il suo parto. Nel racconto Callimaco inserisce
un encomio al suo protettore: la dea sta per partorire a Cos, ma dal suo ventre il figlio
la ferma: quell’isola darà luce ad un altro dio, Tolomeo Filadelfo. Infine è Delo ad
accoglierla: qui dà alla luce ad Apollo e Artemide, mentre una corona di cigni sacri
volteggia intorno all’isola accompagnando il parto con il canto.

L’inno per i lavacri di Pallade: L’inno per i lavacri di Pallade è il quinto; è una festa
riservata alle sole donne e celebrata ad Argo, durante la quale la statua di Pallade
Atena era trasportata da tempio al fiume Inaco, dove veniva lavata per poi essere
riportata in città; non si sa se fosse un canto commissionato a Callimaco o una
finzione letteraria.

Una prima novità callimachea è costituita dalla metrica: l’inno è composto in distici
elegiaci, che sostituiscono l’esametro impiegato nell’innografia tradizionale. A livello
compositivo, il mito narrato si salda con il rituale che fa da cornice al canto: la festa
femminile del bagno dell’idolo di Atena viene collegata con un altro bagno, mitico,
della dea e della sua ninfa più cara che si ristorano dalla calura meridiana nelle acque
di una sorgente. Qui il mito sviluppa il tema del tabù violato: poiché nessuno può
vedere nuda una dea , l’incauto Tiresia, che involontariamente contempla la dea al
bagno, viene accecato. Così l’inno racconta un’iniziazione (il terribile momento in
cui un dio investe dei suoi poteri un uomo, segnandolo per tutta la vita).

L’inno a Demetra: L’inno a Demetra è il sesto; è ambientato durante le Tesmoforie,


una festa femminile in onore di Demetra. La critica non ha accertato se l’inno fosse
stato composto per accompagnare il rito oppure come spunto per una declamazione
letteraria; discussa è anche l’ambientazione, che potrebbe essere collocata a Cirene,
oppure ad Alessandria. In effetti, a Cirene esistevano due templi di Demetra e il
dialetto dorico dell’inno manifesta alcuni tratti caratteristici della lingua della città.
Inoltri alcuni segnali sparsi nel testo sembrano riferirsi a situazioni rituali: la
processione che porta attraverso la città il canestro sacro sopra un carro tirato da
cavalli bianchi, i fedeli che seguono a piedi nudi e a capo scoperto, il riferimento a
luoghi come il Pritaneo. Il cuore del carme è la narrazione del miro, ma Callimaco
evita i temi più ovvi del culto di Demetra (come il tradizionale ratto di Persefone solo
accennato) e sceglie di narrare la storia poco nota del tessalo Erisittione. Si tratta del
resoconto di un’empietà punita con una sorta di contrappasso: Erisittone, colpevole di
aver abbattuto un albero del bosco sacro di Demetra, affamato divora tutte le sue
greggi e tutti i suoi armenti e infine manda in rovina la sua casa. Il tema religioso
dell’empio punito si stempera una rappresentazione umoristica: Erisittone non è n
peccatore, cui viene concessa la dignità di una punizione, bensì un giovane
scapestrato sottoposto alla pena esemplare e ridicola della bulimia. Inoltre Callimaco
sposta l’accento a scene quotidiane: la graziosa descrizione del bosco sacro svettante
di alberi, le pietose bugie della madre o la scenetta umoristica del padre che enumera
gli animali che Erisittone ha divorato.

1.5 L’Eracle

Callimaco si cimenta anche nell’epillio, breve composizione di argomento mitico in


esametri. In questo campo il suo capolavoro fu l’Ecale, un poemetto in cui l'estetica
callimachea della poesia raffinata trova espressione. Vi si narra un mito locale
ateniese: il giovane Teseo, inviato a catturare il selvaggio toro di Maratona che
devasta la regione, è sorpreso da una bufera e viene ospitato per la notte da una
vecchietta, Ecale, che lo intrattiene nella sua capanna. L'oscura popolana e l'eroe
condividono una povera cena, durante la quale Ecale racconta la sua storia, dove un
tempo era felice e ora triste. Al mattino Teseo parte per affrontare il toro,
promettendo di ritornare dalla sua ospite dopo l'impresa; riesce a soggiogare l'animale
a condurlo ad Atene, ma quel giorno stesso Ecale muore, forse di crepacuore, per il
timore che Teseo sia stato ucciso. Allora Teseo, commosso, onora la vecchia
istituendo una festa e dando il suo nome a un villaggio dell'Attica. Secondo i moduli
della poesia nuova, l'interesse non sta tanto sull'aspetto teorico del mito quanto su un
dettaglio secondario, vale a dire l'incontro fra la vecchia contadina e il giovane eroe,
che costituiva il vero nucleo artistico dell'episodio e da una spiegazione eziologica di
un nome. Di quest'opera, restano scherni frammenti papiracei grazie ai quali si
possono intuire la maniera callimachea di sviluppare temi epici, mediante una trama
fitta di glosse e forme epiche rare o utilizzate con nuovi significati. L’Ecale costituì
hai un punto di riferimento letterario di prima importanza; in età ellenistica
composero epilli anche Teocrito e Mosco, questa tradizione fu portata avanti da
Cinna e Catullo.

1.6 Gli epigrammi

Nell’Antologia Palatina sono contenuti circa 60 epigrammi attribuiti a Callimaco,


molti dei quali riguardano l'ambiente del Simposio e sono di contenuto amoroso.
L'epigramma erotico di Callimaco tratta temi tradizionali della letteratura
simposiale, infatti, l'epigramma in epoca ellenistica eredita i temi dell'elegia
amorosa arcaica. Di questo genere letterario, Callimaco è uno degli iniziatori, uno
degli autori più raffinati: delinea il codice erotico di un ambiente elegante ed elitario
infatti si descrive l’innamorato felice che cerca di nascondere la pena bevendo, le
varie forme di corteggiamento sia etero che omosessuali, il topos della ferita
d'amore, la serenata davanti alla porta di una bella crudele. Altri epigrammi sono di
natura funeraria scritti alle volte per commissione e destinati ad essere incisi sul
sepolcro, in parte composti come elaborazione letteraria di epitafi reali, altri di
contenuti epidittico o di polemica letteraria. L'epigramma sembra congeniale a
Callimaco, poeta della brevità: i suoi programmi sono coincisi.

1.7 Un intellettuale dei tempi nuovi

Callimaco è il primo poeta moderno perché la poesia la intende come un'arte


raffinata, destinata a un pubblico colto e ristretto di lettori. L'arte callimache è il
frutto di una scelta e una rinuncia: la rinuncia a trasmettere contenuti elevati e
intellettualmente impegnati e a essere un maestro di pensiero. In tal modo, il poeta
Callimaco conferma anche la qualifica di sapiente, ma a differenza dei poeti di età
arcaica (da Esiodo a Pindaro), che erano sapienti perché erano chiamati a
trasmettere il patrimonio tradizionale della civiltà, Callimaco è sapiente perché
manifesta una completa padronanza degli strumenti espressivi e possiede una
sconfinata erudizione. Callimaco nel museo della Biblioteca di Alessandria ha il suo
habitat naturale: è un erudito, un filologo depositario del sapere di generazioni di
poeti, un intellettuale che è capace di comprendere l'enorme potenziale presente
nei volumi della Biblioteca Alessandrina. Callimaco ha la genialità di fondare un
modello poetico nuovo, tanto da fluire in modo determinante sulla storia della
letteratura europea Infatti determinante fu il suo influsso sui poeti latini, da Ennio a
Catullo e Ovidio. Callimaco sceglie di fare della metaletteratura, ossia una letteratura
che si ispira ad altra letteratura, il che potrebbe sembrare una limitazione delle
energie creative dell'artista, come appare dalle sue scelte espressive. Sembra che
abbia uno stile senza voli, senza accensioni, senza la forza la fantastica. Callimaco
adotta un tono stilistico medio, eppure riesce nell'impresa di risultare comunque
difficile, infatti, le sue scelte lessicali lo portano a privilegiare parole rare,
espressione dotti, allusioni. Complicando il tessuto stilistico e semantico, Callimaco
lo rende però prezioso e ne esalta la potenzialità rendendo visibile l'artificio. Il tono
dominante della sua arte è lo humor, non dimentica mai di essere un poeta che
gioca sulla poesia, in modo da generare un’impressione di freddezza e persino di
distacco dalla materia trattata.

2 Teocrito
2.1 La vita

Teocrito figlio di Prossagora nacque a Siracusa intorno al 315 a.C. I luoghi importanti
della sua esperienza letteraria furono però altri come l'isola di Cos, sede di un
importante cenacolo poetico, Alessandria dove si trasferì intorno al 270 a.C. e si
pensa che qui abbia trascorso il resto dei suoi giorni, sotto la protezione dei Tolomei.
Del resto lo Ierone (carme XVI), scritto (intorno al 275 a.C.) per ottenere prebende
dal dinasta di Siracusa, con il suo insistere sulla necessità di trovare patroni, indica la
difficoltà che un poeta, per quanto apprezzato, incontrava in quella città ridotta
ormai a fare da vaso di coccio nella lotta fra le grandi potenze di Roma e Cartagine.
Ad Alessandra Teocrito entrò in rapporti di familiarità con i letterati del tempo; la
sua morte va collocata intorno al 260 a.C. o poco più tardi.

2.2 Il corpus teocriteo

Sotto il nome di Teocrito ci è stato tramandato un corpus di trenta componimenti


poetici in esametri e in dialetto dorico, noti con il titolo di Idilli; sono di natura
differenti: mimi, epilli, poesie d’occasione, componimenti di carattere simposiale ed
erotico. Il corpus teocriteo comprende anche posizione non autentiche, scritte da
imitatori: spurii sono i canti VIII, IX, XIX, XX, XXI, XXIII, XXVII e probabilmente non
autentici il XXV e il XXVI. A Teocrito si attribuiscono anche degli epigrammi o un
breve frammento (la Bernice) e il carme La Zampogna. Un idillio bucolico è la
composizione che apre la raccolta, Tirsi o la canzone (I), in cui il pecoraio Tirsi, su
richiesta di un amico capraio, canta la morte di Dafni, il mitico pastore siciliano
assurto a simbolo del mondo bucolico: a lui rendono omaggio animali, contadini e gli
dei. Come ricompensa Tirsi ottiene una coppa di legno istoriata, che offre spunto per
una descrizione. Nella Serenata (III) un capraio cerca di convincere l’amata
Amarillide a mostrarsi sulla soglia, con un canto fitto di allusioni mitologiche. L’Idillio
Capraio e pastore (V) contiene l’agone pastorale fra Comata e Lacone, che
gareggiano scambiandosi coppie di versi in forma di botta e risposta (“canto
amebeo”): il giudice, il taglialegna Morsone, attribuisce la vittoria a Comata. Una
gara di canto ha luogo nei Poeti pastori (VI): Dafini canta la passione della ninfa
Galeta per Polifemo, mentre Dameta dà voce al Ciclope che vuole farla ingelosire,
convinto di essere bello, col suo unico occhio. Alla fine i due cantori si scambiano le
loro armi come due eroi omerici: un flauto contro una zampogna. Le Talisie (VII), è
un canto bucolico, che prende nome da una festa della fertilità dell’isola di Cos,
durante la quale si offrivano sacrifici a Demetra; il motivo religioso, tuttavia, è subito
accantonato, per descrivere l’incontro sull’assolata strada tra Simichida (che
simboleggia Teocrito stesso) e Licida, un capraio dall’apparenza selvatica. L’incontro
fra i due dà luogo a uno scambio di canzoni e al simbolico dono a Simichida di un
bastone pastorale, degno della sua iniziazione poetica. L’ambientazione a Cos è
significativa perché lì aveva sede un famoso cenacolo letterario, raccolto intorno alla
figura di Fileta. L’idillio X (i Mietitori) è la serenata e il canto di lavoro secondo il
principio ellenistico della mescolanza dei generi letterari; il componimento si
distingue dagli altri idilli perché la cornice non è pastorale ma agricola, dove alla
quieta contemplazione del pastore si sostituisce la crudele fatica di chi miete sotto il
sole cocente. Su questo sfondo Teocrito delinea due personalità contrapposte:
l’innamorato di Buceo, insicuro e fragile e il suo compagno di lavoro Milone, uomo
chiudo nel suo pragmatismo un po’ beffardo. Il Ciclope (XI) è una lettera poetica
dedicata all’amico Nicia, medico e poeta, cui Teocrito addita l’esempio di Polifemo,
folle d’amore per la ninfa Galeta, ma capace di consolarsi cantando. Il carme
consiste nel monologo di Polifemo: è un Polifemo visto come un giovane pastore
che nella semplicità tenta di sedurre la ninfa Galeta con doni di formaggio. Già
nell’Odissea il mostro aveva manifestato segni di incivilimento. L’idillio fa emergere
l’amore pastorale, l’ironia e la grazia della composizione sta nella
ricontestualizzazione in chiave ironica di una serie di luoghi comuni della letteratura
erotica: il desiderio di essere tutt’uno con l’amata, l’insonnia etc. Al gruppo dei mimi
letterari appartiene l’Incantatrice (II), in cui la protagonista, Simeta, aiutata
dall’ancella Testili, cerca di ricondurre a sé l’amante infedele Delfi. L’incantesimo
descritto nella prima sezione dell’Idillio è spiegabile sulla base della magia simpatica,
fondata sul principio che il simile produce il simile: operando su qualcosa che
raffigura una persona o le appartiene, si ottiene un effetto sulla persona stessa. Lo
scopo di Simeta è di riconquistare l’amato, mentre con insistenza ripete un ritornello
magico, l’incantatrice lega fili di lana per legare il cuore di Delfi. I gesti che la donna
compie trovano un corrispettivo in quelli dell’Ecloga VIII virigiliana, di cui l’idillio
teocriteo fu il modello; anche in Virgilio la donna cerca con la magia di riconquistare
un innamorato e il suo incantesimo si dimostra efficace. Ciò invece non accade in
Teocrito e non solo perché il rito non raggiunge l’obiettivo nello spazio del
componimento, ma perché sembra che alla sua utilità non creda neppure la stessa
Simeta. Per spiegare il significato dei gesti di Simeta si è fatto riferimento ai papiri
magici; il confronto con questi, benchè da un lato confermi che i termini utilizzati
nell’idillio appartengono al lessico tecnico della magia, dall’altro dimostra che gli
incantesimi di Simeta rappresentano l’idea che i colti fruitori dell’arte teocritea
dovevano avere dei riti magici popolari. Nell’Amore di Cinisca (XIV) Eschine dialoga
con l’amico Tionico: la passione frustrata per Cinisca sfocia nella decisione di Eschine
di farsi mercenario del Tolomeo, di cui viene tessuto l’elogio. Uno dei capolavori di
Teocrito è il mimo Le Siracusane ovvero le donne che partecipano alla festa di Adone
(XV). Il motivo centrale di questo mimo è la scoperta della vita cittadina di
Alessandria percepita attraverso gli occhi di Gorgo e Prassinoa, donne, popolane e
straniere. L’azione inizia nella casa di Prassinoa e termina nella reggia di Tolomeo, il
che comporta un mutamento spaziale che esclude la possibilità di una reale messa
in scena; le Siracusane sono un mimo letterario, destinato alla lettura privata. Tra gli
epilli, l’Ila (XIII) estrae dalla grande saga degli Argonauti un episodio secondario, che
ha per protagonista l’amato di Eracle, il giovane Ila, rapito in una sorgente dalle
ninfe innamorate; al disperato Eracle non resta che vagare per monti e selve alla sua
ricerca, mentre gli Argonauti riprendono il mare senza di lui. Il rapimento di Ila da
parte delle ninfe innamorate si ricollega a un modello antropologico arcaico, quello
del fanciullo catturato dagli spiriti della natura, ma la vicenda mitica non è un
pretesto narrativo e il racconto si ramifica in una serie di dettagli. In questo placido
quadro campestre avviene l’improvviso incontro col mistero, rappresentato
dall’apparizione delle Ninfe che trascinano Ila sott’acqua. In un attimo il ragazzo
scompare nella fonte; si odono le sue parole affievolite, mentre si intravedono le
Ninfe intente a una danza senza fine nell’acqua. Questo elemento interrompe per
qualche minuto il sereno ambiente dell’epillio; il testo poi torna a svilupparsi
secondo i consueti moduli compositivi dell’arte ellenistica. La storia di Ila si trova
anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Al mito degli Argonauti si riallaccia
anche l’epillio Dioscuri (XXII),che prende avvio e si conclude nella forma di inno
cletico (“di invocazione”) ai due figli di Zeus e Leda, ma è costituito anche dalla
narrazione del pugilato di Polluce con Amico, re dei Bebrici, e della lotta di Castore
con Linceo e il fratello di Ida. L’altro epillio Piccolo Eracle (XXIV) racconta il gesto
dell’eroe neonato che, ancora nella culla, uccide strozzandoli due serpenti velenosi
inviati da Era, che minacciavano lui e il fratellino Ificle. Anche questo epillio
conferma il gusto alessandrino per bozzetti e scene familiari, inquadrati nel tessuto
narrativo del mito. La materia mitico-eroica accompagna questi epilli all’Epitalamaio
di Elena (XVIII), in cui una breve sezione narrativa introduce il canto delle vergini
spartane in onore delle nozze di Elena e Menelao, recuperando molti elementi dei
rituali spartani; l’inno nuziale presenta reminiscenze Saffo. Due composizioni
cortigiane ci mostrano Teocrito nella sua veste di poeta d’occasione: il primo, le
Cariti o Ierone (XVI), fu composto con l’intento di ottenere un sussidio quando
questo personaggio prese le redini dello stato siracusano, subito dopo la partenza
dalla Sicilia del re Pirro, il secondo, l’ Encomio di Tolomeo (XVII) celebra il sovrano
d’Egitto Tolomeo II Filadelfo, che concesse a Teocrito la sua protezione. Benchè
poesia cortigiana, l’encomio a Ierone sviluppa il tema della funzione eternatrice
dell’arte, destinata a immortalare le gesta dei grandi; dall’ironica immagine inziale,
in cui le Cariti tornano a casa lacere a mani vuote, dopo aver mendicato un sussidio,
e si rinchiudono irritate nella cassaforte vuota del poeta, si può misurare quanta
distanza corra ormai tra la posizione di un Pindaro, che si rivolgeva a pari a pari ai
suoi committenti come maestro di sapienza, a quella del poeta ellenistico, ridotto a
mendicare impieghi. Questa immagine sottolinea la frattura fra chi detiene il potere
e l’intellettuale, costretto ad una posizione subalterna; all’inizio dell’encomio viene
evocata la figura di Simonide di Ceo, allo scopo di richiamare un tempo passato in
cui ben diversa era la funzione del poeta nei confronti dell’aristocrazia.

2.3 Caratteri della poesia di Teocrito

Teocrito è l’inventore della poesia pastorale o bucolica, che tratteggia situazioni di


vita agreste sullo sfondo di scenari campagnoli: tematiche privilegiate sono gli amori
campestri e le sfide di canto che hanno come protagonisti bovari, pecorai e caprai.
La poesia bucolica ha dei precedenti nell’Iliade di Omero (ci sono allusioni a gare
musicali tra pastori) e Sesticoro, che scrisse poemetti di ambientazione pastorale.
L’originalità di questo tipo di poesia risiede in primo luogo nella sua ambientazione
campestre: la letteratura aveva avuto come centro focale la polis, il solo luogo in cui
sembrava che l’operare degli uomini avesse un significato. Il mondo cittadino si
dissolve e prende spazio il mondo campestre: per Teocrito non è solo un isolato
spazio extracittadino ma è il mondo arcaico della pastorizia, estraneo al fluire della
civiltà, isolato e fermo nella storia, cristallizzato in un tempo immobile. I personaggi
che lo popolano sono qualcosa di intermedio tra le miniature di un letterato e
l’utopia di un’umanità diversa che sappia ancora intendere le voci della natura
(ruscelli, vento). L’operazione teocritea ripropone il tema della dialettica tra natura e
cultura; è significativo che proprio uno degli emblemi del mondo selvaggio, il
Polifemo omerico che non consce leggi, divenga in Teocrito un bonario protagonista
di vicende d’amore. L’ambientazione in un paesaggio ideale consente a Teocrito di
recuperare alla poesia figure che ne erano state fino a quel momento escluse
(pastori, mietitori); non per questo è lecito parlare di verismo o di realismo, nel
senso specifico del termine. Quello teocriteo è un mondo idealizzato, ai limiti
dell’artificioso: è una campagna filtrata attraverso una prospettiva cittadina,
popolata da pastori di animo delicato dediti al canto e all’amore e ben lontana
dall’aspra vita agricola cantata da Esiodo. Le trame di questi canti presuppongono
una finzione mimetica (il dialogo tra i pastori) e si risolvono nel tratteggio di bozzetti
di vita campestre, incentrati su situazioni standard come la descrizione del locus
amenus, il carme amebeo tra i pastori e i palpiti di un amore infelice. I mimi
teocritei, destinati alla lettura e non alla recitazione, si ispirano a una tradizione
drammatica di matrice popolare molto radicata in ambiente siceliota. I pochi epilli
della raccolta costituiscono il più vistoso omaggio dell’autore alla poetica
callimachea e ci mostrano un Teocrito dotto, capace di rivisitare i modelli letterari
del passato, facendo emergere dalla tradizione epico-eroica figure di eroi fanciulli
(Ila) o bambini (Eracle).
2.4 L’arte di Teocrito

Con gli idilli bucolici di Teocrito la campagna diventa lo scenario privilegiato della
poesia: la campagna teocritea è quella che poteva piacere al dotto pubblico della
cosmopolita Alessandria, luogo collocato nella Sicilia pastorale e nell’Italia
campestre, popolata da gente che parla l’antico dialetto dorico in un’epoca in cui
anche la realtà linguistica del pubblico stava mutando, con lo sgretolarsi degli antichi
dialetti locali e a favore della koine, lingua comune. Teocrito non fu un erudito
vissuto dietro le siepi di libri della Biblioteca, né un teorico della letteratura, eppure
sa esprimere i nuovi orizzonti artistici elaborati dal circolo di Callimaco, sa stabilire
un sottile legame con il lettore, assecondandone i gusti, ed è capace di variare il
timbro delle sue composizioni- Tteocrito usò la lingua a base ionica dell’epos, il
dorcio della natia Siracusa e perfino l’eolico della poesia amorosa di Saffo e Alceo; va
ascritta la capacità di piegare la lingua greca alle proprie necessità espressive. Tra gli
imitatori dell’arte teocritea si contano i poeti Mmosco, Bione e Longo Sofista (secolo
II d.C.); ma fu Virgilio che seppe far rivivere più di ogni altro il mondo pastorale degli
idilli di Teocrito.

3 Apollonio Rodio e l’epica didascalica


3.1 La vita e l’opera

Le notizie sulla vita di Apollonio provengono dal lessico Suda e da due brevi biografie
premesse ai codici che contengono la sua opera. Nato ad Alessandria intorno al 295
a.C., entrò in rapporto con la corte dei Tolonei e intorno al 260 a.C. ottenne
l’incarico di bibliotecario; a questa carica si accompagnava il compito di educare il
futuro Tolomeo III Evergete. Abbiamo notizie contradditorie intorno ai suoi rapporti
con Callimaco: le biografie antiche lo dicono suo allievo, mentre altre fonti parlano
di una contesa letteraria tra i due. Un epigramma anticallimacheo è attribuito ad
Apollonio nell’Antologia Palatina(XI), ma è di dubbia autenticità; si diceva che a sua
volta, Callimaco avesse composto contro Apollonio il carme Ibis, anche se il nome di
Apollonio non compare nella lista dei rivali fornita dagli Scoli Fiorentini. Più tardi
Apollonio venne sostituito alla guida della Biblioteca da Eratostene, forse per
decisione di Tolomeo III, salito al trono nel 247 a.C. Ad un certo punto, il poeta si
trasferì a Rodi (Rodio è il soprannome con cui viene chiamato) dove attese a
rimaneggiare le Argonautiche, che probabilmente aveva già pubblicato in una prima
edizione e che a noi è giunta nella seconda redazione databile tra il 245 e il 240 a.C.
E’ probabile che sia morto in tarda età, forse intorno al 215 a.C., a Rodi. Apollonio
compose poemetti relativi a fondazioni di città (Alessandria, Rodi, Naucrati) e un
poemetto in coliambi, il Canobo, che narrava il mito di questo personaggio,
timoniere della nave di Menelao, che dopo la morte fu trasformato in astro e diede
nome a un insediamento presso le foci del Nilo. Di questa produzione restano solo
pochi frammenti, infatti, la fama di Apollonio è legata alle Argonautiche, opera che ci
è giunta per intero. Il testo si sviluppa in 4 libri, estensione molto ridotta rispetto ai
poemi omerici perché corrisponde alle raccomandazioni di Aristotele per la
composizione di un poema epico organico e unitario; le Argonautiche raggiungono
all’incirca l’ampiezza di una tetralogia, che Aristotele aveva indicato come misura
ideale.

LA TRAMA DELLE ARGONAUTICHE (LIBRO I): Dopo un’invocazione ad Apollo, viene


esposto l’antefatto dell’impresa. Pelia ha usurpato il regno di Iolco al fratellastro
Esone; quando Giasone, figlio di Esone, si presenta per reclamare l’eredità paterna,
Pelia gli impone di impadronirsi del vello d’oro che si trovava presso il re Eeta, nella
terra di Colchi. Seguono un secondo proemio, con l’invocazione alla Musa, e il
catalogo degli Argonauti. Viene armata la magica nave Argo, capace di parlare, che
scende in mare con i suoi eroi: è Orfeo a pronunciare le invocazioni di rito. La prima
tappa della spedizione è l’isola di Lemno, dove vivono solo donne, il cui capo è la
regina Issipile: tempo prima le donne di Lemno, trascurate dai mariti, avevano
ucciso tutti gli uomini dell’isola. A Lemno gli Argonauti si trattengono in un soggiorno
gradevole, accompagnandosi alle Lemniadi, nel frattempo ammansite, finchè Eracle
non decide di riprendere la navigazione. A Cizico, isola della Propontide, Giasone e i
suoi aiutano i Dolioni a respingere l’assalto dei Terrigeni, giganti con sei braccia, ma
quando nella notte vengono risospinti dal vento sulla medesima isola, non
riconoscono i loro alleati e ingaggiano con essi una lotta; dopo l’istituzione di un
santuario dedicato a Cibele, gli Argonauti ripartono. In Misia perdono il giovane Ila,
trascinato da una sorgente, mentre stava attingendo l’acqua, da una ninfa
innamorata dalla sua bellezza. Insieme ad Ila, gli Argonauti perdono anche Eracle
che per cercare l’eroe scomparso, abbandona la spedizione.

LIBRO II: Il racconto prosegue con la gara fra Polluce e Amico, l’arrogante re dei
Bebrici che aveva l’abitudine di sfidare nel pugilato chiunque mettesse piede nel suo
regno, uccidendolo; affrontato da Polluce, però, soccombe. In Bitinia gli Argonauti
aiutano il vate Fineo, cieco, a liberarsi dalle Arpie che lo puniscono per un’antica
colpa rubandogli il cibo; Zeto e Calais, argonauti con piedi alati figli di Borea,
inseguono le Arpie mettendole in fuga. In cambio gli Argonauti ottengono da Fineo
profezie sul proseguimento del viaggio. L’impresa più difficile è il superamento delle
rupi Simplegadi, che cozzano fra loro all’ingressi del Ponto schiacciando qualsiasi
cosa tenti di passare nel mezzo; davanti alla prua della nave Argo viene allora
liberata una colomba, che passa tra le rocce facendole cozzare tra loro, sicchè
quando le rocce si ritirano prima di un nuovo colpo la nave fila attraverso lo
spirsglio, con l’aiuto di Atena. Gli Argonauti giungono, dopo varie tappe, all’isola di
Ares, infestata dagli uccelli Stinfalidi, che hanno l’abitudine di bersagliare i viandanti
con le loro durissime penne, ma anche questo pericolo viene superato. Nell’isola
incontrano i figli di Frisso e di Calciope, sorella di Medea, e con il loro aiutono
giungono in Colchide.
LIBRO III: Erato, musa della poesia amorosa, è invocata in un altro proemio, affinchè
aiuti il poeta a cantare come Giasone conquistò il vello d’oro grazie all’amore di
Medea. La scena poi si sposta sull’olimpo, dove Era e Atena pregano Afrodite di far
intervenire Eros perché colpisca con i suoi dardi la giovane Medea; Afrodite
sorprende il figliolo mentre sta giocando ai dadi con il fanciullo Ganimede e bara,
come si addice a quel genietto. Rimproverato dalla madre, Eros promette di
riscattarsi: sceso sulla terra scocca la sua freccia contro il cuore di Medea, sicchè non
appena Giasone entra nella reggia di Eeta, la ragazza se ne innamora. Nel seguito del
libro il poeta descrive lo sbocciare dell’amore nell’animo di Medea. Nel frattempo
Giasone discute con il re le condizioni per ottenere il vello d’oro: Eeta gli impone di
aggiogare due tori spiranti fuoco e quindi di arare un campo, seminarvi denti di
serpente e affrontare i guerrieri nati da questi. Giasone riesce nell’impresa grazie ad
un filtro magico procuratogli da Medea, che lo rende invulnerabile alle fiamme dei
tori; è ancora Medea a suggerire a Giasone come fare per sbarazzarsi dei guerrieri
sorti dal suolo, cioè gettando tra loro una pietra, in modo che si uccidano
accusandosi reciprocamente.

LIBRO IV: I filtri di Medea tornano utili anche per addormentare il drago custode del
vello d’oro; dopo aver staccato quest’ultimo dalla quercia cui era appeso, Giasone
riparte insieme ai compagni, mentre Medea fugge nella notte per raggiungere
l’innamorato. Argo fila veloce sulla via del ritorno, ma Eeta invia il figlio Apsirto
all’inseguimento dei fuggiaschi. Apsirto riesce a raggiungerli, ma viene attirato in
agguato da Medea, cosicchè Giasone può trucidarlo. La rotta del ritorno si snoda in
un itinerario fantastico dal Daubio al Po e al Rodano. Nel mar Tirreno Circe, sorella di
Eeta, purifica dall’omicidio commesso i due innamorati, che poi scampano alle
Sirene, a Scilla e a Cariddi e giungono presso i Feaci, a Corcira, dove si sposano grazie
al Re Alcino. Quindi, spinti da una tempesta, approdano in Libia, dove sono costretti
a trasportare sulle spalle la loro imbarcazione per 12 giorni. Ripreso il mare,
giungono a Creta dove Medea, con la magia, uccide il gigante di bronzo Talo che
custodiva l’isola. Infine gli Argonauti fanno ritorno in patria.

3.2 Tradizione e modernità delle Argonautiche

L’opera di Apollonio si presenta come un poema d’impianto tradizionale, costruito


sulla saga mitica dell’Odissea; Omero è il modello col quale Apollonio deve
misurarsi. Del tutto nuovo è l’esito cui Apollonio perviene: il primo scarto rispetto ad
Omero riguarda le modalità di comunicazione, le Argonautiche erano concepite per
la lettura privata di un pubblico colto e non per il vasto uditorio. Apollonio usa
elementi tratti dall’antico formulario epico, ma li rimodella, la cellula del suo
linguaggio è la parola. Sotto la veste epica si avverte l’influsso di altri generi come la
tragedia; risultano, inoltre, estranei all’epica elementi come l’intervento dell’io
narrante nell’azione e la scansione episodica del racconto. Conforme al gusto del
pubblico ellenistico è la tendenza al bozzetto, alla scenetta realistica o patetica in cui
si manifesta il virtuosismo del poeta alessandrino, capace con pochi tocchi di
delineare un atteggiamento. Il poema è costruito come una sequenza di scene
concluse in se stesse: l’unità d’azione è solo apparente, dato che il racconto si
disperde in molti risvolti; si è parlato di “poema del frammento”, in quanto può
sembrare che le Argonautiche consistono in una serie di epilli o bozzetti incastonati
nel racconto. In definitiva Apollonio è un autore dotto e arduo nello
sperimentalismo del linguaggio poetico.

3.3 Personaggi e temi

Un altro aspetto consono alla sensibilità ellenistica è l’attenzione per l’interiorità dei
personaggi, analizzati nella complessità dei loro moti psicologici; qui la distanza da
Omero è immensa. Ai personaggi di Apollonio manca l’energia feroce che è
sostituita dall’autore da una complessa rete di vibrazioni psicologiche in cui si
avverte la mediazione della tragedia, in particolare euripidea. Nel libro III delle
Argonautiche, l’azione viene sospesa per far spazio all’indagine introspettiva della
passione di Medea per Giasone; la donna esprime bene il passaggio dagli schemi
della “civiltà di vergogna” arcaica a quelli di una “civiltà di colpa”. D’altra parte
Giasone appare tutt’altro che un comprimario; Medea è istintiva, psicologicamente
complessa, dotata di una sensibilità inquieta, tanto Giasone appare fragile ed
esitante. Giasone sembra il personaggio principale perché è privo di un’antagonista,
egli non si misura con nessun rivale non mostra la sua aretè in una sfida solitaria
contro il destino, non soffre, non è dotato di qualità morali. Lo si può interpretare
come una specie di antieroe, il cui valore consiste in quella componente di umana
fragilità che lo avvicina alla dimensione quotidiana. Nelle Argonautiche risulta
evidente la riduzione del mito da interpretazione complessiva dell’esistenza e
contenitore di valori civili o sociali. Alla società eroica che esige ad ogni costo la
pubblica affermazione di valore dell’eroe davanti alla comunità guerriera, si
sostituisce un mondo complessi, in cui l’amore diviene elemento fondamentale. In
questo senso Apollonio ha fato propria l’esperienza della lirica e della tragedia
euripidea, realizzando una fusione di generi. Le Argonautiche non sono solo
l’esercitazione di un poeta alessandrino, ma anche il tentativo di ridare slancio in
forme rinnovate a un genere letterario agonizzante.

11 La storiografia ellenistica

1 Gli storici di una nuova epoca


1.1 Un nuovo contesto socio-culturale

Se la storiografia del IV secolo proseguiva quella dei decenni precedenti, con l’epoca
di Alessandro inizia una nuova fase. I primi storici, da Erodoto a Senofonte, erano
stati storici della polis, poi l’impresa di Alessandro fece sì che gli orizzonti non solo
geografici ma mentali degli scrittori di storia prendessero un respiro più ampio; fra
III e II secolo, cominciò l’ascesa della potenza di Roma, capace di estendere la
propria egemonia su tutto il mediterraneo. In un quadro ambientale rinnovato, la
tradizione storiografica greca elaborò nuove tendenze senza mettere da parte i
modelli creati da Erodoto e Tucidide. La straordinaria personalità di Alessandro
contrassegnò la storiografia dell’epoca anche se restano solo pochi frammenti
inerenti alle imprese di Alessandro; un’idea può essere creata attraverso
compilazioni tarde: l’Anabasi di Alessandro di Arriano (II secolo d.C.), poi la Vita di
Alessandro di Plutarco (I-II secolo d.C.) e alcune sezioni della Biblioteca di Diodoro
Siculo (fine secolo I a.C.); in queste opere campeggia la personalità titanica di
Alessandro. La nuova storiografia nasce dall’ambiente della corte ed è soggetta alle
sue regole; inoltre è contrassegnata dai rapporti di amicizia che sussistono fra il re e
gli storici al seguito. E’ dunque una storiografia tendenziosa, piuttosto che
imparziale. Un’altra sua caratteristica è l’interesse per il meraviglioso, conseguenza
della penetrazione di Alessandro in India; ritroviamo qui l’approccio etnografico che
era già stato di Erodoto.

1.2 Gli storici di Alessandro

Gli storici di Alessandro sono spesso soldati o personaggi che accompagnarono il re


nelle sue imprese; consapevoli dell’importanza degli avvenimenti da loro vissuti in
prima persona, vollero lasciarne testimonianza. Tra i più importanti si ricorda
Callistene, nato intorno al 370 a.C. e parente di Aristotele; aveva in precedenza
composto delle Elleniche (dalla pace di Antalcida alla fine della prima guerra sacra) e
prese parte alla spedizione asiatica di Alessandro. Nell’opera Gesta di Alessandro,
Callistene insisteva sul valore panellenico delle imprese del re; pur avendo adulato
Alessandro fino all’adulazione, Callistene cadde in disgrazia per essersi opposto alla
pretesa del re di essere onorato con l’inchino secondo l’uso dei sovrani orientali. In
seguito Callistene fu implicato nella CONGIURA DEI PAGGI, che aveva come obiettivo
l’assassinio di Alessandro, e venne messo a morte nel 327 a.C. Accanto a Callistene si
ricordano due importanti scritti: le Efemeridi, redatte da Eumene di Cardia, ovvero il
diario delle campagne militari di Alessandro e i Commentari, che dovevano riportare
gli ultimi piani di Alessandro, rimasti incompiuti a causa della sua morte prematura.
A Carete di Mitilene, ciambellano del re, si deve una Storia di Alessandro interessata
alla vita di corte. Il più celebre fra gli storici militari di Alessandro fu Tolomeo figlio di
Lago, fondatore della dinastia dei Tolomei d’Egitto; Tolomeo compose delle
memorie nelle quali confluirono dati desunti delle Efemeridi, dove forniva una
trattazione realistica, privilegiando gli aspetti politico-militari.

1.4 Altre tendenze della storiografia

La vicenda di Alessandro riuscì a focalizzare l’interesse degli storici intorno a una


figura centrale da cui sembrava dipendere il destino del mondo intero; già con la
generazione successiva questo centro di attrazione venne meno e la storia del regno
macedone si frantumò nelle storie degli stati ellenistici. L’età dei diadochi
(successori di Alessandro) fu caratterizzata da lotte sanguinose che erano difficile da
seguire nei loro sviluppi; la storiografia ritroverà vita con Polibio. Il naufragio della
stoiografia prima di Polibio è totale; non solo le opere di Duride di Samo (autore di
una storia che copriva il periodo dal regno di Aminta III di Macedonia fino ai suoi
tempi) e quelle di Ieronimo di Cardia sono andate perdute, ma non esiste più
nessuna compilazione che le supplisca.

1.5 Megastene e gli etnografi

Come conseguenza delle conquiste di Alessandro abbiamo da un lato un rinnovato


interesse per le culture dei popoli entrati a far parte dei regni ellenistici e per la
letteratura etnografica, dall’altro gli scritti il lingua greca composti da nativi
ellenizzati allo scopo di far conoscere il proprio popolo e le proprie tradizioni
all’elemento greco. Certo i Greci imposero la loro cultura più avanzata e
l’ellenizzazione dei nativi fu il presupposto indispensabile perché questi potessero
accedere a posizioni qualificate. All’epoca di Tolomeo I (morto nel 287 a.C.) visse
Ecateo di Abdera, autore dei Sugli Iperborei e di un’opera dedicata all’Egitto, di cui
rimangono pochi estratti. Ecateo fonde una visione idealizzata della società egiziana
infatti la sua opera non è propriamente storiografica, ma è a metà tra etnografia e
filosofia. Al filone utopistico appartiene anche Evemero di Messene, autore di una
Sacra iscrizione: si tratta del resoconto immaginario di un viaggio nell’Oceano
Indiano, in cui all’autore vide un’iscrizione in geroglifici incisa su una colonna d’oro,
in cui si diceva che Zeus e Urano erano stati un tempo sovrani di quella terra,
Panara, e che per le loro benemerenze erano stati deificati dopo la morte. Evemero
si richiama alle idee dei sofisti come Crizia, i quali pensavano che l’umanità avesse
inventato gli dei per rispondere a esigenze di carattere sociale. Inoltre il gusto per
vicende fanatsiche diede vita a un genere letterario, la “paradossografia”, che era un
di tipo fantasy.

2 Polibio
2.1 La vita
Polibio, nato a Megalopoli in Arcadia intorno al 200 a.C., era figlio di Licorta,
personaggio di primo piano della lega achea; egli cominciò da giovane a partecipare
a varie missioni diplomatiche e militari e nel 169 a.C. fu eletto ipparco, carica
importantissima dopo quella di stratego. Il 168 a.C. costituì l’anno decisivo della
biografia polibiana: dopo la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna contro il re Perseo
di Macedonia, nelle città della lega prese il sopravvento la fazione filoromana, che
denunciò gli avversari per una presunta ostilità contro il potere di Roma. I Romani
vincitori appoggiarono il regolamento di conti interno chiesto dagli alleati: Polibio
stesso, venne condotto in Italia per giustificarsi di fronte al senato. In realtà il
processo non ebbe mai luogo e Polibio ottenne protezione dalla cerchia
dell’aristocrazia romana, il cui capo era la famiglia degli Scipioni; rimase a Roma,
sfuggendo ai vari conflitti in Etruria. Polibio e Scipione Emiliano fecero importanti
missioni come quella in Spagna (151 a.C.) e quella a Numanzia (133 a.C.). Dopo la
distruzione di Corinto (146 a.C.), Polibio rientrò in patria, maturò il progetto delle
Storie e morì intorno al 120 a.C. per caduta da cavallo.

2.2 Genesi e contenuto delle Storie

Il progetto iniziale di Polibio prevedeva di narrare in 29 libri il cinquantennio


compreso tra l’inizio della seconda guerra punica e la terza guerra mecedonica (220-
168 a.C.) I primi due libri costituiscono l’introduzione: dopo il proemio con
l’annuncio del tema, sono esposti brevemente gli eventi dal 264 a.C., anno di inizio
della prima guerra punica, al 220 a.C. Con il libro III inizia la narrazione sistematica; i
libri III-V contengono la descrizione degli avvenimenti in Italia e Grecia dall’inizio
della seconda guerra punica fino alla battaglia di Canne (216 a.C.) Dopo la parentesi
del libro VI, che illustra la costituzione romana, inizia con il libro VII una trattazione
di tipo annalistico, che riportava gli eventi in Occidente e in Oriente ordinati
cronologicamente per Olimpiadi (Es: anno 4 dell’Olimpiade 143= 204 a.C.) Polibio si
proponeva di illustrare come i Romani abbiano conquistato in 53 anni quasi tutta la
terra abitata. L’opera non era una semplice esposizione dei fatti che avevano
portato al dominio di Roma, ma doveva condurre un’analisi teorica sulle cause
profonde di questo processo. Polibio, a causa dell’importanza degli eventi successivi,
proseguì la narrazione fino al 144 a.C. (LIBRI XXX-XL) includendo eventi come le
distruzioni di Cartagine e Corinto (146 a.C.) Giunse fino al 133 a.C. narrando in una
monografia la distruzione di Numanzia (erano 40 libri totali più la monografia di
Numanzia). Delle Storie conserviamo i primi cinque libri per intero, ampi estratti dei
libri VI-XVIII e frammenti dei restanti.

2.3 Polibio e la storia pragmatica

Polibio definì la propria opera “storia pragmatica”, intendendo con questo termine
una storia di carattere politico-militare, rivolta ad analizzare la realtà
contemporanea e non le vicende di un remoto passato. La storia pragmatica,
secondo Polibio, comprende tre parti: lo studio accurato dei documenti e delle
memorie, l’osservazione diretta dei luoghi e degli eventi e infine l’esperienza della
politica. Il primo elemento è di relativa importanza; non a caso Polibio critica gli
storici che dipendono solo da fonti libresche, ma ritiene indispensabile la
conoscenza dei meccanismi della politica e dei segreti dell’arte militare. Pero Polibio
l’utilità della storia sta negli insegnamenti di politica: di qui la costante attenzione a
problemi particolari di tecnica di guerra. Nel complesso le Storie hanno una marcata
impronta politico-militare, ma è presente anche la componente geoetnografica,
dato che il teatro degli eventi narrati abbraccia il bacino del Mediterraneo. Polibio si
rivolge ad un pubblico esperto ed è consapevole che un lettore casuale, non sarà
interessato alla sua opera; la geografia serve a chiarire al lettore la natura dei luoghi
che fanno da sfondo all’azione storica. Più limitato è lo spazio offerto all’etnografia.
Per Polibio l’elemento capace di fare la differenza tra i Romani e gli altri popoli è la
forma costituzionale.

2.4 Le ragioni dello storico

Polibio è il più teorico fra gli storici greci e spesso polemizza con i suoi predecessori
su questioni di metodo. Tuttavia dal punto di vista della teoria storiografica Polibio
non è un pensatore originale; l’impianto storiografico di base è sostanzialmente
tucidideo: allo storico ateniese risalgono la distinzione tra cause prossime e remote,
la contrapposizione tra una storiografia che si prefigge di dilettare il suo pubblico e
una storiografia utile a chi dalla storia desidera trarre un insegnamento. La storia è
concepita come insegnamento e il destinatario della sua opera è il desideroso di
apprendere. Se dal passato deriva una conoscenza che è utile per l’azione futura,
non manca lo spazio per una forma irrazionale: la tuke, ovvero la Sorte. Il libro Vi
illustra le istituzioni politiche di Roma in rapporto a una più grande teoria delle
istituzioni. Polibio distingue tre forme di governo primarie (monarchia, aristocrazia,
democrazia) e le rispettive degenerazioni ( tirannide, oligarchia e oclocrazia): la
costituzione mista rappresenta un momento di perfezione ideale. Lo storico delinea
quindi il ciclo in base al quale le forme di governo principali e le relative
degenerazioni sono destinate a succedersi secondo un processo naturale e
inevitabile; questo ciclo riproduce il ritmo biologico degli individui, ovvero nascita,
maturità, declino. Il modello di Roma appare come un esempio riuscito di
costituzione mista. Anche in questo caso il contributo personale di Polibio è limitato:
uomo politico e di azione più che pensatore. Descrivendo le basi del potere romani e
le ragioni del suo successo, Polibio tenta di renderlo accettabile al mondo greco,
mostrando che è inevitabile e legittimo. Polibio comprende bene che Roma è il
fulcro della storia futura e che è destinata a conservare a lungo il potere; è il primo
intellettuale che si pone programmaticamente al servizio di Roma in una prospettiva
di attivo collaborazionismo a fianco dei dominatori, inaugurando una stretta alleanza
tra ceto dominante romano e classe intellettuale greca destinata a costituire il
cemento della civiltà sino alla fine dell’epoca antica. Polibio è il primo storico a
mettere in prima posizione un mondo estraneo al proprio, un mondo di barbari – i
Romani- che non devono essere civilizzati ma hanno saputo organizzare uno stato in
modo nuovo

2.5 Stile e fortuna

Dal punto di vista stilistico Polibio è un autore che utilizza una lingua piena di
elementi tecnici del linguaggio delle cancellerie, e si fonda sulla Koinè; lo stile è
disadorno anche se il nucleo dell’opera sta nella precisione dell’impianto
documentario. Polibio fu apprezzato nel periodo dal 264 al 146 a.C.; fu ripreso da
Livio e riscoperto in età umanistica da Leonardo Bruni, Poliziano e Machiavelli.

4 Età imperiale

L’eredità culturale dei Greci

La letteratura greca dell’età imperiale appare in decadenza; è in quest’epoca che la


retorica esce dalle scuole, per diventare un fenomeno di massa (rappresentato dal
movimento della Seconda Sofistica). La retorica di quest’epoca, concentrata sulla
declamazione, si concentra in se stessa e rinuncia a sviluppare i grandi temi socio-
culturali. La letteratura divenne lo strumento essenziale del curriculum pedagogico,
anche se volto al culto della forma, e la retorica il passaporto per l’affermazione
nella vita sociale: non si intraprendeva una carriera politica o statale, non si entrava
nell’entourage dell’imperatore senza una solida preparazione di retorica. La vita
pubblica ha ormai il suo centro a Roma, ed in questo periodo si compie il processo
d’integrazione degli intellettuali greci, che in cambio della loro lealtà verso Roma
ottengono onori e distinzioni: Roma è il centro principale della cultura greca. I vecchi
centri di cultura, come Alessandria, sono in declino; resta, come città della filosofia,
Atene. A Roma insegnano maestri greci di retorica che si occupano di cose romane:
Dionigi di Alicarnasso scrive un libro sulle Antichità Romane, Plutarco scrive biografie
di romani illustri come Lucillio e Crinagora. Nel II secolo d.C. quando l’impero tocca il
suo apogeo politico, le città greche dell’Asia Minore raggiungono il loro assetto
definitivo: teatri, terme, sale da concerto, stadi costruiti senza risparmio da
un’aristocrazia municipale ambiziosa. Intorno a queste isole di ricchezza si estende
una campagna depauperata; il secolo II fu quello degli imperatori filelleni: Adriano
risiede ad Atene, fa restaurare monumenti e templi e si circonda di intellettuali
greci; più tardi Marco Aurelio scrive in greco il suo libro di memorie.

La fine di un’era
Le cose cambiano molto nel secolo seguente, a causa dell'instabilità politica, della
crisi economica e delle calamità naturali come la peste. Il III secolo d.C., è un'età di
regresso culturale; proprio in quest'epoca si colloca l'ultimo grande movimento di
pensiero ossia il neoplatonismo.
Il cristianesimo è ormai un movimento importante, che sta costruendo un suo
sistema culturale in contrapposizione ai valori della società pagana: l'etica cristiana
primitiva, respinge alcuni elementi fondamentali della civiltà ellenica come lo sport,
la cura del corpo i giochi e i teatri; anche la poesia e l'arte sono viste con sospetto
per i loro contenuti legati alla religione pagana. Ma in seguito il cristianesimo
vittorioso si pensa che abbia accolto, nel suo seno, alcuni aspetti importanti della
cultura ellenica e li abbia fatti propri. Altri eventi legati alle contingenze storiche
portano fieri colpi alla cultura greca; il disastro peggiore fu la distruzione della
Biblioteca di Alessandria avvenuta nel 380 d.C. ad opera delle truppe
dell'imperatore Aureliano, impegnate a domare una rivolta. Cominciarono poi le
invasioni barbariche, che devastarono città d'arte intatte e ridussero la Grecia un
mucchio di rovine (come il tempio di Artemide a Efeso, venne dato alle fiamme dai
Goti). La pestilenza e la crisi economica finirono di compiere l'opera di
spopolamento e di impoverimento. Alla fine di questa bufera, cioè all’inizio del IV
secolo, si affermano nuovi gruppi dirigenti di formazione assai diversa rispetto a
quella dei colti imperatori provenienti dalle file dell’aristocrazia. Tra gli imperatori
del III secolo troviamo soldati poco più che analfabeti oppure esponenti del mondo
greco-siriaco. All’inizio del IV secolo, il mondo greco-romano è fortemente mutato
(inizia il periodo detto tardo-antico): in questo ambiente il cristianesimo si è imposto
definitivamente e la classe dirigente è composta da uomini di bassa estrazione
sociale, giunti al potere grazie ai loro meriti militari. Il cristianesimo vittorioso
accetta l’eredità culturale dei Greci e diventa patrocinatore della loro cultura. E’ in
quest’epoca che si verifica l’estrema reviviscenza della poesia greca, grazie al
recupero del genere epico: è un’epica fastosa e un po’ barbarica, il mito può essere
reincorporato nelle opere di autori cristiano sotto forma di favola destinata
all’intrattenimento. Nel frattempo è sorta la capitale di Costantinopoli, qui il greco è
la lingua della popolazione e della corte; nel 425 d.C. l’imperatore Teodosio II fonda
un’università a Costantinopoli, che diventa centro della nuova cultura, cristiana ma
erede della grecità classica, controllato dallo Stato. Inoltre la cultura si restringe a
un’elite sempre più assediata alle barbarie. L’impero romano d’Oriente, greco e
cristiano, inizia la sua storia autonoma: nel 529 d.C. il restauratore dell’Impero,
Giustiniano, sopprime la scuola filosofica di Atene. Tuttavia alla corte di Giustiniano
gli uomini di cultura leggono Omero, scrivono poesie d’amore con lo stesso tono dei
poeti alessandrini e si esprimono nella lingua letteraria degli attici.

16 Plutarco e la biografia
1 La biografia antica
Il genere letterario della biografia si sviluppò a partire dal IV secolo a.C. L’esempio
più antico è l’Evagora di Isocrate, scritto intorno al 370 a.C.: si tratta di un encomio
al re di Cipro, un’opera che si situa a metà strada fra la biografia e il panegirico. Poco
dopo, Senofonte scrisse su questo modello l’Agesilao, per celebrare le azioni del re
spartano. Durante i secoli V e VI a.C. si andò affermando una nuova coscienza storica
che influenzò anche la biografia; è in quest’epoca che si acquisisce l’idea che le
grandi personalità non bastano a fare la storia. Inoltre la nascita della biografia come
genere autonomo presuppone alcuni orientamento di fondo come: l’individualismo
e la nozione di carattere inteso come fenomeno unitario. La biografia antica si
differenzia dalla storia per la consapevolezza di avere una finalità diversa; non a caso
è patrimonio dei filosofi. Il resoconto di un’esistenza illustre non ha lo scopo di
narrare aspetti specifici o monografici della storia, ma tende a proporre delle figure
da analizzare in tutti gli aspetti psicologici e morali.

2 Un uomo a cavallo tra due epoche: Plutarco


2.1 Vita e opere
Plutarco nacque a Cheronea, in Beozia, intono al 50 d.C.; studiò ad Atene con
Ammonio e trovò nella filosofia di Platone un punto di riferimento. Viaggiò
molto soprattutto in Egitto e in Italia; a Roma tenne anche delle lezioni . Ottenne
la cittadinanza romana grazie ai buoni uffici di Lucio Mestrio Floro, sicché
aggiunse al proprio nome il gentilizio Mestrio; in età traianea ricevette le insegne
consolari. Il rapporto di Plutarco con Roma rappresenta il processo di alleanza
tra classe dirigente greca e aristocrazia romana, inoltre gli scritti di Plutarco
manifestano una conoscenza ampia del mondo roani e della lingua latina. È
indicativo della personalità di Plutarco che abbia trascorso quasi tutta la sua
esistenza a Cheronea, non disdegnando di coprire cariche locali piuttosto
modeste; fu anche sacerdote del tempio di Apollo a Delfi. Plutarco visse fino al
125 d.C. circa, arrivando a vedere i primi anni del principato di Adriano; la sua
famiglia mantenne una posizione di rilievo grazie al prestigio dell’avo: suo nipote
Sestio fu maestro dell’imperatore Marco Aurelio e nel IV secolo l’oratore Imerio
sposò una donna che poteva vantare di discendere dal grande scrittore di
Cheronea. Plutarco fu autore di 54 Vite di uomini illustri greci e romani,
generalmente unite in coppia (per questo si usa indicare come Vite parallele), e
un corpus di circa 80 opuscoli di carattere vario, raggruppati sotto la definizione
di Moralia. Da un’antica lista delle sue opere (CATALOGO DI LAMPRIA) si ricava
l’informazione che ci riferisce di circa 260 scritti di Plutarco, molti autentici.
2.2 Le Vite parallele
Plutarco è l’ultimo della letteratura greca per l’influsso che esercitò su lettori
illustri delle epoche successive. Le Vite parallele sono dedicate a Sosio
Senecione, due volte console e amico di Traiano e di Plinio il Giovane; quasi tutte
le biografie sono raggruppate a coppie in cui si associa a un personaggio greco
ad uno romano, a conclusione di ciascuna coppia c’è una valutazione di tipo
etico )es_ Teseo/Romolo; Nicia/Crasso) Individuando le costanti dell’agire
umano nell’infinita varietà degli eventi e riconoscendo in uomini di epoche e
ambienti diversi la stessa forza morale, Plutarco riconduce tutte queste
esperienze ad un modello universale di umanità; al tempo stesso presenta il
mondo greco e quello romano come omologhi. Plutarco tende a grecizzare il
mondo romano. Le Vite parlando di grandi uomini: nell’opera non compare un
solo artista, filosofo o poeta che non sia stato anche un uomo d’azione (come
Cicerone). La virtù per Plutarco è in primo luogo virtù politica nel senso greco del
termine; le Vite non sono solo storia bensì biografia, e la biografia deve avere un
intento pedagogico e morale, mostrando il bene e il male dei grandi. Gli eroi
plutarchei possiedono una forte individualità, hanno passioni, vizi e virtù che
giganteggiano; presentando personaggi di grande statura, ma percorsi da oscure
tensioni, Plutarco crea un affresco vario dell’agire umano. Componenti essenziali
delle biografie plutarchee sono “il carattere” e “le imprese”, difficilmente
separabili: il carattere è rilevante per il biografo nella misura in cui si manifesta
nelle imprese; queste ultime, oggetto privilegiato del discorso degli storici, a loro
volta sono significative in quanto capaci di rilevare nei fatti il carattere del
personaggio. Plutarco ha un intento preciso, cioè, quello di concentrare
l’attenzione su quanto è effettivamente utile a un inquadramento etico del
personaggio e alla sua valutazione. La differenza più grande rispetto alla
storiografia è nella finalità dell’opera storia, che per Plutarco, non è l’indagine
delle cause profonde condotta analizzando gli aspetti economici, sociali e
militari, bensì la declamazione del carattere del personaggio. Tuttavia, accanto a
fattori interni all’uomo quali la buona o cattiva indole, agisce anche la cieca sorte
(la tuke); il tema della mutevolezza della fortuna costituisce un elemento
portante di moltissime biografie. I bruschi mutamenti della sorte da un lato
esprimono la generale incertezza che avvolge l’esistenza di tutti gli uomini,
dall’altro contribuiscono a delineare i caratteri dei personaggi, che rivelano gli
aspetti profondi della loro natura nel modo in cui reagiscono ai rovesci della
sorte. (In punto di morte i personaggi rivelano tutta la loro personalità)

2.3 I Moralia
Il titolo Moralia si riferisce ad una raccolta di scritti di varia estensione, che
rispecchiano i numerosi interessi di Plutarco (storia naturale, critica letteraria,
etica, retorica) e testimoniano la prodigiosa erudizione dell’autore. La raccolta
dei Moralia comprende saggi brevi e trattazioni di natura epistolare o
declamatoria, in cui prevale la forma del dialogo, di ispirazione platonica.
Tuttavia a differenza di Platone, che poneva Socrate al centro del dialogo e gli
affidava il compito di orientare la discussione, Plutarco compone opere aperte,
cui tutti i personaggi concorrono in pari misura. Mentre nei dialoghi platonici si
trovano un vincitore e un vinto, Plutarco, che non ama la conflittualità, privilegia
la dialettica fra le diverse posizioni, piuttosto che concludere il conflitto a favore
dell’uno o dell’latro interlocutore; nel dialogo platonico ci sono serrati scambi di
battute, in quello plutarcheo ciascuno dei personaggi tende a sviluppare lunghi
discorsi. Il gruppo più numeroso è rappresentato dagli scritti di carattere etico.
Nella raccolta troviamo opuscoli in cui Plutarco si occupa dell’analisi delle
diverse malattie dell’animo o delle possibili cure (Il controllo dell’ira, La curiosità,
La cupidigia); i Precetti sul matrimonio, raccolta di aneddoti e aforismi che
mostrano la via a una durevole felicità coniugale; la Consolazione alla moglie,
composta alla morte della figlioletta; l’Amatorio, in cui la concezione platonica
dell’eros come guida verso la conoscenza viene aggiornata alla mentalità del
mondo greco-romano (viene svalutata la passione omoerotica).
Plutarco dedicò alcuni scritti all’interpretazione e alla disamina critica dei filosofi
più antichi: tra quelli di argomento platonico ci sono giunti La generazione
dell’anima nel Timeo e le Ricerche su Platone; altre opere testimoniano un
atteggiamento critico nei confronti dell’insegnamento storico (Le idee comuni
contro gli storici) ed euripideo (Non si può vivere felici secondo Epicuro).
Un intento didascalico e pedagogico appare in Come si studiano i poeti, dove
Plutarco indica in quali modi la poesia possa risultare utile per i giovani; nello
scritto Come si ascolta espone, rivolgendosi agli allievi, il modo corretto per
ascoltare i maestri. Interessanti sono due scritti, forse non di paternità
plutarchea: L’educazione dei figli e Sulla musica.
Tra gli scritti politici ci sono i Precetti politici, dove sono offerti consigli a un
amico in procinto di assumere una carica pubblica, e l’opuscolo Gli anziani
devono fare politica? , che contiene un invito all’impegno civile e politico anche a
uomini più anziani.
Fra i trattati di argomento teologico ci sono i Dialoghi delfici: L’eclissi degli
oracoli, che ha per tema il declino degli oracoli contemporanei, Gli oracoli della
Pizia, Sulla “E” di Delfi, che esamina diverse ipotesi riguardo al segno “E” inciso
all’ingresso del tempio. Plutarco fu per molti anni sacerdote a Delfi; i Dialoghi
delfici costituiscono una difesa della religione greca tradizionale in un’epoca in
cui questa era messa in crisi dalle religioni salvifiche provenienti dall’Oriente. Ha
notevole importanza per la storia Iside e Osiride, che espone i miti relativi a due
fra le figure più significative del pantheon egiziano, qui Plutarco cerca le
corrispondenze fra il mito egiziano e quello greco; I ritardi della punizione divina
affronta invece un tema arcaico, quello di conciliare l’esistenza di dei giusti che
operano nel mondo con la giustizia che invece sembra regnare incontrastata.
Ci sono anche testi scientifici come Il volto sul disco della luna (composto da
Keplero) e le Cause naturali, relativi ai problemi della medicina e della biologia.
Ci sono scritti di carattere antiquario come le Cause romane e le parallele Cause
greche, che espongono usi e costumi tipici delle due società, e nell’opuscolo
Mulierum virtutes, che raccoglie imprese eroiche compiute da donne.
Di argomento letterario sopravvivono solo un astioso libello che prende di mira
Erodoto (La maldicenza di Erodoto), accusato di ostilità verso i Beoti (Plutarco
era nato in Beozia), e il Confronto fra Aristofane e Menandro, che si conclude
proclamando la superiorità di Menandro e della commedia nuova.
La grande varietà di interessi della dottrina plutarchea si rivela nelle Questioni
conviviali: l’uso del simposio o banchetto come cornice letteraria per discussioni
di vario genere che non è certamente nuovo.

2.4 Plutarco scrittore


Plutarco fu filosofo (soprattutto morale), scrittore, religioso, biografo, storico,
retore e tanto altro; i suoi scritti si distinguono per la dignità letteraria e per le
doti di divulgatore dell’autore, infatti, i Moralia, trasmettono diversi aspetti del
mondo antico. Non è da trascurare il solido razionalismo di Plutarco e dal punto
di vista stilistico fu un seguace moderato dell’atticismo (nonostante nella sua
lingua ci siano termini tratti dalla koinè). Plutarco si sforzò di evitare lo iato (ossia
l’accostamento di due vocali consecutive alla fine di una parola e all’inizio di
quella successiva); i periodi tendono ad un’architettura di ampio respiro, fatta di
membri lunghi e ricca di subordinate.

2.5 Plutarco nella cultura occidentale


Plutarco fu apprezzato da molti autori appartenenti alla generazione successiva
(Gellio, Galeno, Marco Aurelio) e dai cristiani d’Oriente, cui era gradita
l’impronta etica degli scritti plutarchei. Plutarco fu una presenza di primo piano
nella cultura bizantina, mentre fu sconosciuto al Medioevo latino; fu riscoperto
solo a partire del XV secolo, quando giunsero in Occidente i dotti greci fuggiti da
Costantinopoli in seguito alla presa della città da parte dei Turchi. Incontrarono
fortuna soprattutto le Vite che si trovavano in sintonia con l’esaltazione
dell’uomo tipica della cultura del tempo. Gli umanisti italiani lo lessero e
tradussero in latino e lo ebbe presente Niccolò Machiavelli. Fuori dall’Italia
Plutarco trovò un incondizionato ammiratore nel principe Erasmo da Rotterdam,
che collaborò alla prima edizione a stampa dei Moralia, raccolta che giudicò
inferiore soltanto alla Bibbia. Nel 600 le Vite parallele fornirono materia per le
tragedie francesi di Corneille (Sertorio, Agesilao) e Racine (Mitridate); ma la
fortuna teatrale di Plutarco è legata principalmente a William Shakespeare, che
lesse le Vite nella traduzione inglese di Sir Thomas North, condotta a sua volta su
quella di Amyot.
Nel 700 Plutarco occupò una posizione di prestigio, fu apprezzato da Goethe a
Schiller, da Lichtenberg a Jean Paul in Germania, da Thomas a Pope in
Inghilterra.
In Italia un lettore illustre di Plutarco fu Vittorio Alfieri che affermò con
prontezza che la lettura delle opere plutarchee gli fecero passare “dell’ore di
rapimento e beate”.

17 La seconda sofistica

1 I grandi comunicatori

1.1 Il frutto maturo della retorica

La Seconda Sofistica è la corrente letteraria in cui confluisce la prosa d’arte greca


nelle sue varie forme lungo tutta l’epoca imperiale. Uno dei suoi massimi
rappresentanti, Flavio Filostrato (vissuto fra II e III secolo a.C.), con le sue Vite dei
sofisti, riconosce che, come l’antica, anche questa nuova sofistica si fonda sull’arte
del parlare, ma mentre la prima trattava di temi universali come a giustizia o il
progresso, la Seconda Sofistica “ritrae poveri e ricchi…” La Seconda Sofistica si
identifica con l’oratoria ed è anzi il prodotto delle scuole di retorica in tutto il mondo
greco-romano; chi usciva dalle scuole di retorica era padrone di una perfetta tecnica
oratoria, che gli permetteva di improvvisare declamazioni su ogni argomento
davanti ad un pubblico o ad una folla. La produzione letteraria della Seconda
Sofistica è varia: dialoghi, trattati, libelli satirici, opere di divulgazione erudita,
novelle, encomi e panegirici per i committenti. Il sofista è nello stesso tempo un
professore, un letterato, un opinion maker, un uomo di spettacolo – il suo primo
scopo è quello di apparire, di avere successo e di essere popolare-. La Seconda
Sofistica raccoglie l’eredità di una letteratura che sin dalle origini attribuiva un ruolo
predominante all’oralità e alla forza comunicativa della parola; i sofisti sono quindi,
un importante fenomeno di costume, in cui le classi elevate sono partecipi di un
fondo culturale comune. Il sofista è un uomo proveniente dall’alta società, solidale
con il potere; a differenza degli antichi sofisti, che manifestavano un atteggiamento
corrosivo verso la cultura tradizionale, l’oratore della Seconda Sofistica è legato al
potere politico; è affamato di onori e cariche pubbliche e partecipa
all’amministrazione della società. Il secolo II d.C., l’età dell’oro della Seconda
Sofistica, fu anche l’età d’oro dell’Impero, specialmente nelle città d’Asia; è in
quest’epoca di stabilità politica, sotto imperatori filelleni come Traiano, Adriano,
Marco Aurelio, che le città antiche si ornarono di edifici splendidi voluti da una ricca
borghesia municipale. La produzione dei sofisti esprime bene lo spiritò di
quest’epoca, in bilico tra splendore e decadenza.

1.2 Luciano di Samosata


Luciano nacque a Samosata sull’Eufrate intorno al 120 d.C., da una famiglia di
modeste condizioni: lo padre faceva lo scultore e voleva avviare il figlio allo stesso
mestiere, ma Luciano ottenne di allontanarsi dalla sua città per frequentare una
scuola di retorica. Successivamente iniziò la carriera di sofista che lo portò a
viaggiare per ogni terra dell’Impero: a Roma stabilì ottimi rapporti con la famiglia
imperiale, tanto che ottenne intorno al 170 un incarico nell’amministrazione
imperiale in Egitto. Alcuni anni dopo perse il posto, a causa di una ribellione che
aveva coinvolto il prefetto d’Egitto; morì il 180 d.C. Di Luciano si possiede un corpus
di circa 80 opere (una decina di dubbia autenticità) : declamazioni riservate alle
tournèes oratorie, dialoghi nello stile della diatriba cinica, opere epistolari, libelli
parodistici e satirici, romanzi e novelle, redatti in lingua attica. Le opere di Luciano
non si risolvono solo in un puro esercizio letterario, ma esprimono coerentemente
l’adesione a una visione laica e razionalistica della realtà, fortemente contraria a
certe tendenze irrazionali che si diffondevano in quegli anni. Ciò emerge negli scritti
dedicati a denigrare i profeti, santoni e le superstizioni popolari in generale, come
l’Alessandro o la Morte di Peregrino; contemporaneamente Luciano manifesta
simpatia sia per il cinismo, sia per l’epicureismo, che gli offre il sottofondo dottrinale
per la sua polemica antireligiosa, rivolta anche contro il cristianesimo. Altre opere
sono dedicate alla satira di costume o a una generica polemica culturale (Contro un
ignorante che comprava libri, Come si deve scrivere la storia); gli manca la tempra da
moralista e la satira lieve, benchè graffiante, è diretta verso fenomeni di costume
che Luciano si limita sostanzialmente a registrare. La sua Storia vera, in due libri, si
può considerare il prototipo del romanzo fantastico. È il racconto di un viaggio
impossibile, narrato in prima persona: una nave parte verso l’ignoto, varca le
colonne d’Ercole, si trasforma in astronave e, spinta da un vento, approda sulla Luna
dove i marinai sono coinvolti in una “guerra stellare” tra Lunari e Solari.
Successivamente la nave viene inghiottita da una balena grande come l’isola, nel cui
interno pullula un microcosmo di creature fantastiche. Dopo uno sbarco sull’isola
dei sogni, la nave giunge all’isola dei Beati dove i viaggiatori si intrattengono con gli
eroi del mito. Nel corso di questo viaggio sono descritti fiumi di vino in cui nuotano
pesci ubriachi, pericolose donne-viticci, esseri che si nutrono solo di fumo: in
sostanza si tratta di un campionario di mirabilia. Il libro finisce con la promessa
(fittizia) di un seguito che non ci sarà. Luciano si prefigge di parodiare un certo tipo
di letteratura in voga alla sua epoca, in particolare le narrazioni geografiche che
avevano delineato un universo fantastico collocato ai confini del mondo; al
contempo prende di mira la letteratura romanzesca e novellistica di consumo.
L’intento metaletterario cede il posto a una libera escursione in un modo che
sembra prodotto da una fantasia visionaria. Il Luciano dei Dialoghi è quello che
mostra il volto del beffardo critico della religione tradizionale; si tratta di scenette
lievi e ironiche, scritte in stile piacevole e in pura lingua attica, ambientate del
mondo fantastico del mito. Fra le varie raccolte di dialoghi (Dialogo degli dei,
Dialoghi marini) i più significativi sono i trenta Dialoghi dei morti, ambientati
nell’oltretomba che si ispirano alla tradizione di Menippo (filosofo cinico). I temi
trattati sono le vanità delle cose umane, l’eguaglianza dei destini degli uomino, il
carattere effimero dei beni di fortuna.

La novella Lucio o l’asino è il corrispondente greco delle Metamorfosi di Apuleio.


Attratto dalle arti di una maga, il giovane Lucio viene trasformato in asino per
errore; sarà liberato dall’incantesimo solo se rosicherà delle rose. Una serie di
peripezie diverse porteranno, alla fine, alla trasformazione in uomo nel bel mezzo di
un teatro, dove l’asino era stato portato per dare un saggio delle sue capacità
mirabolanti. (si dice che nel II secolo d.C. circolassero tre opere dal contenuto
identico: quella di Luciano, quella di Apuleio e quella di Lucio di Patre)

L’Alessandro o il falso profeta, che risale agli ultimi anni di Luciano, è un libello
destinato a demolire la personalità do un santone che aveva fondato un culto
personale nella città di Aboneutico in Paflagonia, dove convenivano folle di pellegrini
che ivi si manifestavano. La storia di questo personaggio, che Luciano racconta
seguendo lo schema delle biografie antiche (giovinezza, formazione, carattere e
imprese, sino alla morte), è in realtà la carriera di un truffatore che, grazie alla sua
intelligenza senza scrupoli, riuscì ad allestire una vera e propria industria religiosa
che produceva un colossale giro d’affari, con la vendita degli oracoli. Questo è il
ritratto che Luciano delinea di un personaggio che rappresenta un fenomeno di
notevole rilevanza sociale e antropologica; il santuario fondato da questo
Alessandro continuò a prosperare anche dopo la sua morte, sino alla metà del III
secolo d.C. In questo libello Luciano trasforma un fenomeno di rilevanza sociale
nello studio di un carattere, dove l’eroe negativo grandeggia con tutte le sue male
arti; tuttavia Luciano si preclude la possibilità di analizzare il riemergere
dell’irrazionale che filtra fra le crepe di una società in apparenza ricca.

L’Amante della menzogna è un dialogo che tocca un tema antico della cultura
popolare, ovvero le credenze su mostri e fantasmi. Quest’opera si colloca nel filone
degli scritti di Luciano dedicati alla confutazione delle credenze tradizionali e alla
serrata polemica contro l’irrazionalismo dilagante.

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