colte per il suo amato. Può il fiore essere il simbolo allegorico dell’Amore per antonomasia? caduco
elemento della natura, la sua fine è sicura e la sua vita è incerta, ma mai pallida. Nulla possiamo noi
contro il colore di un fiore, se non ammirarlo e sentire la nostra impotenza in tutta la sua pienezza e
umanità. Così è l’amore. Petrarca, uomo di chiesa e di letteratura, ben conosceva la grandezza (per
quanto limitata) del sentimento umano; nonostante questo, però, lo troviamo sopraffatto dai sentimenti
in questo sonetto topico, che sottende l’espressione dell’Amore in tutta la sua ferinità e naturalezza,
che fin dal principio l’uomo-poeta ha cercato, fallendo, di catalogare. Catullo, nel suo cruccio, dettato
dall’impeto dei suoi sentimenti, s’appiglia a una verità passionale che mai come allora gli era apparsa
così cristallina: è grazie alla sofferenza che grava su di lui che ha modo di scendere a patti con un
sentimento ormai ben delineato.
Per il primo la condizione d’amore è affrontata in un modo nuovo, dove ogni passo potrebbe essere
incauto e ogni parola potrebbe avere un doppio significato; Ogni secondo potrebbe durare una vita, e
ogni ora un secondo soltanto. Brancolando nel buio, Petrarca è costretto a guardare alle cose terrene
con una luce nuova, poiché innegabilmente legate a lui in una maniera che di certo non è propria
dell’ideale di uomo che poeta sperava di perseguire. Sente il mettere radici di un fiore di campo
variopinto e florido e ibrido condurlo a un odio verso se stesso direttamente proporzionale all’amore
nei confronti della donna del desiderio; percepisce l’irreversibile mutare della sua vita in una
condizione fittizia che null'altro fa desiderare ( il ritorno alla normalità di una vita abitudinaria o la
cessazione di ogni cosa contenuta nella morte) se non questa stessa. Amore è un signore vile,
devastante, infido e oscuro.
Il secondo invece mai ritiene che l’amore sia vile, ma conserva sempre quella patina di intoccabilità
attorno al sentimento, idealizzandolo. Catullo perviene a noi prevalentemente con i suoi carmina
amorosi, e quindi ci è facile pensare a lui come ad un uomo che la vita dedicò a comprendere
l’immensità cosmica del nostro (proprio dell’Uomo) inconscio amare. Quando dunque sentiamo lui
parlare, quasi scientificamente ci atteniamo alle sue definizioni. Mentre il primo, come neonato,
muove i primi passi terrorizzato, il secondo sembra tendergli la mano, tranquillizzandolo e narrandogli
una rapsodia di sentimenti eternamente intensi e permanentemente oscuri alla limitata conoscenza
umana.
Entrambi affrontano i loro turbamenti con irrazionalità, senza essere in grado di vedere realmente
quello che nell’animo è; non credo però possa essere considerata come finitudine particolare
dell’Uomo, quanto più del poetare: ambedue sono Amanti e, in qualità di essi, sono propensi ad una
visione dell’Amore drammatica e irrazionale, insormontabile: per nessuno dei due vi è speranza in
quanto non viene neanche partorito un desiderio di rielaborazione razionale delle cause dei
turbamenti. Questo è l’elemento segreto che permette la crescita rigogliosa del poema d’amore:
Catullo, resosi conto dell’incomprensibilità della sua passione, ha sacrificato il suo futuro con la (
oramai chimerica) Clodia a favore della poesia. “Amo” all’interno del primo verso non è altro che
una presa coscienza del sentimento indomabile e straniero al senno del poeta, che quindi decide di
arrotondarlo per eccesso (o difetto?) al distico, conscio però del fatto che la poesia e la
melodrammaticità sono sì parte dell’Amore, ma non unica prerogativa; impossibilitato però alla
conoscenza omnia dell’Amor, Catullo si rifugia nella ben più familiare lirica, che gli concede una
rielaborazione spontanea e già nota, sicuramente per lui più accessibile e che permette una calma e un
riordino delle viscere.
Petrarca allo stesso modo si concede alla confusione, senza poter permettere alla razionalità di
adempiere al suo dovere. La “prigione” in cui l’amata lo tiene rinchiuso è facilmente oppugnabile
dall’interno, ma le rime del poeta sottendono una riluttanza alla scelta: mai Petrarca ci parla di una sua
attività rispetto all’amore, ma solo di un suo essere succube del sentimento e della donna, senza
possibilità di ribellione alcuna. Petrarca si trova in un perpetuo stato di limbo che nemmeno lui
sembra intenzionato a rompere: che fosse spaventato dalla fine di un sentimento che ha capitalizzato
la sua vita per sì tanto tempo o che, come ogni poeta che si rispetti, traesse dalla disgrazia gli elementi
necessari per immortalizzare la sua poesia, e permettere al lettore l’unione quasi carnale con il verbo,
questo non possiamo saperlo. Credo però che questa sia un’ elisione poetica (e probabilmente
inconsapevole) di svariate facce che l’Amor Semplice comporta e, nonostante fosse probabilmente
sconsiderato per il poeta a livello psichico, è infine proprio questo smussamento che permette a noi
oggi di cogliere nelle sue parole la pulsante bellezza dell’Amor Poetico, che null’ è se non dramma e
conturbazione.
l’Odio all’interno di questa narrativa si colloca perfettamente, in quanto diametrale nemesi
dell’Amore: questo permette al poeta di delineare una linea di confine che nemmeno a lui stesso
pareva così chiara. Catullo sente però di dover spiegare questo suo sentimento all’amata, che
probabilmente non comprende questa sua antitesi: mi piace pensare che l’incipit del distico si
confaccia parzialmente alla teoria dei Contrari di Eraclito, che non permette la conoscenza di un’
elemento senza la precedente assimilazione del suo opposto; così Catullo giustifica il suo turbamento,
sapendo che è un passaggio inevitabile dell’Eros: “non ti ho amata veramente finchè non ti ho odiata,
mia Lesbia, e di questo mi dispiaccio, ma allo stesso tempo l’odio che provavo per te mi ha permesso
di realizzare l’intensità del sentimento che in me ardeva. ” la crux che tortura Catullo è tanto nociva
quanto indispensabile nell’Amor (poetico), ed è questo che credo spinga il poeta, quasi esasperato, all’
(indiretta) domanda fatidica: come è possibile che per amare tanto si debba altresì soffrire? identica
domanda implicano le opposizioni del Petrarca, che ritrova nella sofferenza un peccato non solo nei
confronti della ragione, ma anche della religione, in cui l’uomo medievale trovava conforto, guida e
unicità d’amore. Laura non travia solo la ragione che caratterizza l’ Amor semplice (=/ poetico, quello
tipico della famiglia), ma anche quello che inevitabilmente avrebbe condotto ad una passione unica
per la teologia e la cristianità: Petrarca è inoltre consapevole, dunque, del suo sentimento religioso
indelebilmente macchiato e inequivocabilmente impuro agli occhi del Dio medievale.
la sua è una metasofferenza, perché attraverso il patimento riconosce di star provando l’odio che nella
classicità era simbolo d’Amore (Catullo, Ovidio,..) e che dunque lo porta maggiormente verso uno
stato di disperazione laica che non gli è familiare né tantomeno gradita.
Mi ritrovo però a pensare, come alla fine, nessuna di queste mie parole possa essere realmente
confutata o meno; posso analizzare all’infinito vocaboli che, per quanto semplici, nascondono la
complessità dell’indicibile, ovvero quel foedus sanctae amicitiae di cui esclusivamente gli amanti
possono far parte. Ed è questa la sensazione che permea quando noi, alieni lettori, ci troviamo di
fronte allo straripante ed inchiostrato Amor Poetico: l’infinito mondo che si cela dietro a quel voi,
come a sottendere un bilinguismo passionale, accessibile solamente agli amanti che si guardano negli
occhi.
Questa la lettera di cui parlavo prima, trovata in un remoto angolo di un negozio dell’usato e conservo
con gelosa apprensione.