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F. TISSONI, ‘’MILLE ANNI DI POESIA GRECA.

ANTOLOGIA DAI SECOLI V-XV’’

1. QUINTO SMIRNEO (III secolo d.C.)

Le notizie sulla figura di Quinto Smirneo sono poche e di scarsa attendibilità,


le uniche fonti sulla sua vita sono infatti Eustazio, Tzetzes e gli scoli omerici.
L’appellativo ‘’Smirneo’’ sembra derivare da un passo autobiografico
modellato sull’episodio dell’epifania delle muse raccontata da Esiodo, che
Quinto va dunque a ricalcare.
La probabile provenienza da Smirne pare confermata dalla conoscenza di
tradizioni e luoghi dell’Asia Minore presente nelle Postomeriche.
Incerta è invece la cronologia della biografia: a lungo si è ritenuto che egli
abbia vissuto tra III e IV secolo d.C., mentre oggi si pone la data del
millenario di Roma, festeggiato dall’imperatore Filippo l’Arabo (244-2449
d.C.) nel 248 d.C.

1.1 LE OPERE

Le Postomeriche, in quattordici libri, narrano un insieme di eventi successivi


alla conclusione dell’Iliade, dalla venuta delle Amazzoni di Pentesilea alla
caduta di Troia e al ritorno dei Greci in patria.
A lungo sottovalutata dalla critica, l’opera di Quinto è stata a lungo ritenuta
un semplice esercizio letterario.
Vi è anche chi ha ipotizzato che l’opera sia la soma dei singoli canti
originariamente indipendenti.

- L’arrivo di Pentesilea (esametri): si coglie nel passo che il linguaggio e le


espressioni puntano all’imitazione di Omero, che è richiamato in molti passi,
come ‘’Pentisela bella quanto le dee; desidera la guerra che suscita alti lamenti’’
(vv.19-20), ‘’il pudore velava le guance: e sopra le guance si stendeva una grazia
divina vestita di maschio vigore’’ (v. 60-61).

- Lo scudo di Achille (esametri): alla morte del Pelide le sue bellissime armi
sono oggetto di contesa tra Aiace Telamonio e Odisseo.
Quinto fornisce una nuova descrizione dello scudo dell’eroe, che però ricalca
l’originale omerico.
Nello scudo, che secondo molti interpreti antichi era una descrizione
dell’universo, sono presenti scene e immagini contrapposte: ‘’le guerre
assassine, e i tumulti ove regna il terrore’’ (vv. 24-25), ‘’opere stupende di pace’’ (v.
44).

- Divagazioni postomeriche: una caratteristica peculiare dell’opera di Quinto è


l’inserimento di passi che narrano avvenimenti accaduti in altri epoche, in
questo caso la vicenda di Endimione e Selene.

2. TRIFIDORO

Informazioni sulla vita di Trifidoro sono ravvisabili all’interno della Suda, il


famoso lessico bizantino del X secolo d.C., in cui si dice che è ‘’egiziano, poeta e
grammatico, autore di una Storia di Ippodamia, dell’Odissea priva di una lettera e
della Presa di Ilio’’.
In un’altra voce della Suda, quella su Nestore di Laranda, si ricorda il curioso
virtuosismo di Trifidoro, autore di un’Odissea in cui, di canto in canto,
rinuncia ad una lettera dell’alfabeto (nel Canto I manca la ‘’α’’).
Per lungo tempo si è creduto che Trifidoro fosse allievo di Nonno di
Panopoli, tuttavia è ormai certo che egli abbia vissuto tra III e IV secolo d.C.,
e che dunque sarebbe Nonno ad essersi apertamente ispirato a Trifidoro nelle
sue Dionisiache.

2.1 LE OPERE

L’opera più importante di Trifiodoro è la Presa di Ilio, un piccolo poema di


691 esametri che racconta della distruzione di Troia, evento raccontato già da
Quinto Smirneo.
La Presa di Ilio non conobbe una grande fortuna nelle letterature europee,
tuttavia merita menzione la traduzione in ottave fatta dal Cavalier Baccio dal
Borgo, professore dell’Università di Pisa, nel 1829.

- Proemio: la Presa di Ilio si apre un’invocazione alla musa Calliope, elemento


che mancava in Quinto, che voleva porsi come semplice continuatore di
Omero.
Lo stile del testo è icastico e sintetico, in contrapposizione alla lunghissima
vicenda della guerra di Troia.
‘’Subito a me che m’affretto, dimmi, o Calliope’’ (v.3); ‘’Impaziente, alma Calliope
Diva;’’ (traduzione di dal Borgo, v.5).

- Davanti al cavallo di Troia: Trifidoro sembra qui riprendere (anche nello stile)
un’altra scena famosa della vicenda troiana, il discorso di Odisseo ai soldati,
quello che verrà poi interrotto da Tersite.
Questa volta però il re di Itaca non sprona i soldati a scendere in battaglia,
bensì gli dice di aver coraggio di entrare nel cavallo: ‘’L’occulta insidia, amici,
finalmente è stata compiuta...Obbeditemi dunque, e nel ventre del cavallo di
legno/entriamo senza timore ’’ (vv.120 e 135-136).

3. GREGORIO DI NAZIANZO

Gregorio di Nazianzo (330-390 d.C.) è uno dei pensatori e poeti che meglio
rappresenta la summa della cultura bizantina.
Nel millennio bizantino la sua fama e il suo successo furono enormi: tanto
come uomo di Chiesa e campione di un ortodossia messa in pericolo dal
progetto ellenico di Giuliano l’Apostata (360-363 d.C.), quanto come filosofo.
Letterato e poeta, Gregorio fu in grado di coniugare la chiarezza ad uno stile
classicamente perfetto.
Abbiamo moltissime informazioni riguardanti la sua biografia, desumibili in
primo luogo dalle sue opere, sia dalle Orazioni che dal ricco Epistolario.
Gregorio nasce nel 330 ad Arianzo in Cappadocia, vicino a Nazianzo, da una
famiglia particolarmente agiata.
Egli si forma tra Cesarea di Cappadocia , Cesarea di Palestina , Alessandria
e Atene, dove conosce Basilio di Cesarea (che diverrà suo amico fraterno) ed
il futuro imperatore Giuliano.
Al termine della sua formazione fa ritorno a Nazianzo, dove viene nominato
presbitero dal padre.
In seguito viene nominato dall’amico Basilio, dapprima vescovo di Sasima, e
in seguito anche vescovo di Nazianzo (374) alla morte del padre.
Nel 380 d.C. l’imperatore Teodosio I () lo nominò vescovo di Costantinopoli,
e l’anno seguente venne anche incaricato di dirigere i lavori del Concilio
Ecumenico II (381 d.C.), svoltosi a Costantinopoli.
La difficoltà dell’incarico lo spingerà però a dimettersi da tutte le cariche e a
decidere di ritirarsi a Nazianzo, dove muore nel 390 d.C.

3.1 LE OPERE

In prosa: il corpus delle opere in prosa comprende principalmente le 45


Orazioni, che spaziano dall’argomento dogmatico, al panegirico funebre, sino
al polemico (si veda la disputa con l’imperatore Giuliano) e al personale.
A queste si devono poi aggiungere le 245 lettere che compongono il vasto
Epistolario.

Opere poetiche: durante l’ultimo periodo della sua vita Gregorio compose i
Carmi, un’imponente raccolta che conta ben 18.000 versi.
L’opera è caratterizzata stilisticamente da una grande varietà di metri: distici
elegiaci, esametri, trimetri giambici, strofette anacreontee.
A parte vanno considerati invece i 245 Epigrammi, contenuti nel volume VIII
dell’Antologia Palatina.

Sulla produzione di Gregorio esistono tutt’oggi dei pregiudizi duri a morire,


e questo perché si lamenta spesso la mancanza di genuinità e freschezza nella
poesia di Gregorio.
Questo però non fa di lui un cattivo poeta, anzi, si deve guardare alla sua
produzione come ad una sintesi ideale tra la classicità (la forma) e il
Cristianesimo (il contenuto).
Prima di Gregorio non esisteva poesia cristiana in lingua greca, e se anche
fosse esistito qualcosa, questo non aveva la dignità per porsi come modello.
Il successo dei Carmi di Gregorio fu enorme per tutta l’epoca bizantina, un
successo forse dovuto proprio alla loro imitabilità.
- Antologia Palatina VIII 6: l’epitimbo (epigramma funebre) dedicato all’amico
Basilio di Cesarea, ‘’Basilio, figlio di Basilio, vescovo, amico di Gregorio’’ (vv. 1-2).
In distici elegiaci.

- Antologia Palatina VIII 38: epitimbo dedicato alla madre Nonna, ‘’sorridente in
gloria fra le luci celesti’’ (v.1).
In distici elegiaci.

- Antologia Palatina VIII 98: commovente epitimbo dedicato all’amato fratello


Cesario.
‘’Ma volò via dalla vita/come rosa dai fiori, come rugiada dai petali’’ (vv.5-6).
In distici elegiaci.

- De virtute: un carme che per lunghezza (ben 998 versi), può essere
considerato come un piccolo poemetto.
Il testo è indirizzato ad un giovane promettente, che Gregorio vuole educare
alla buona volontà attraverso una serie di exempla che vogliono spiegare
come i beni materiali siano vacui e insignificanti di fronte al vero Bene, che
ogni cristiano deve ricercare.
‘’anche se possiedi i beni di Gige ricco d’oro….anche se il Persiano Ciro che vanta il
potere dei trono siede sotto di te;...di tutte queste cose che ho detto, qual è il profitto?’’
(vv.31, 34-35 e 52).
In trimetri giambici.

- De humana natura: forse il più noto dei Carmi di Gregorio.


Si tratta di un discorso dottrinale con fine didascalico che però assume dei
toni petrarcheschi grazie alla riflessione autobiografica che crea delle
atmosfere cupe e malinconiche.
Si tratta di versi che costituiscono un unicum nella letteratura bizantina per la
loro sensibilità moderna e la capacità di riflettere su temi religiosi e filosofici.
La riflessione di Gregorio è connotata da un profondo pessimismo, generato
dalla consapevolezza della contrapposizione insanabile tra l’anima e il
corpo (la prima sospinta verso il Sommo Bene, Dio, e il secondo che invece la
ostacola e la imprigiona).
‘’Chi fui, chi sono e cosa sarò? Non lo so bene….Nulla sono io’’ (vv 17 e 43),
‘’Debolezza e povertà, parto e morte, odio, cattiveria,/mostri del mare e della terra,
dolori: tutto questo è la vita’’ (vv. 53-54).
4. SINESIO DI CIRENE

Sinesio di Cirene (370-413 d.C.) potrebbe a buon diritto essere considerato il


massimo rappresentate della civiltà greca tardoantica.
Membro di una nobile famiglia di Cirene, egli si forma dapprima nella sua
città natale ed in seguito ad Alessandria presso la filosofa Ipazia (355-415
d.C.).
Nonostante la vocazione agli studi liberali, a prevalere in Sinesio è lo spirito
di responsabilità civile e morale, che lo spinge ad occuparsi della propria
città: è lui ad organizzare le difese quando Cirene è assediata dai nomadi del
deserto ed è sempre lui a condurre la missione diplomatica a Costantinopoli,
che aveva come fine quello di chiedere un abbassamento delle imposte a
carico della sua patria.
Arrivato ai quarant’anni accettò la proposta dei cittadini di Tolemaide di
divenire vescovo nonostante egli non fosse battezzzato.
La conversione non fu un semplice espediente politico per raggiungere una
posizione di prestigio, infatti l’Epistola 105 ci dimostra quanto profonde
fossero le perplessità di Sinesio; accettando egli fu costretto a ripudiare la
moglie, da cui aveva avuto tre figli.
Sinesio non fu un vescovo esemplare, sempre vicino ai fedeli della sua
diocesi, ma fu anche un intellettuale prontissimo a battersi contro il
progressivo imbarbarimento del mondo in cui era nato.
Morì a soli 43 anni, avendo condotto una vita estremamente sofferta durante
la quale aveva affrontato la morte dei tre figli (tra il 412 e il 416 d.C.), l’esilio
del fratello e la morte del padre spirituale, il patriarca Teofilo.

4.1 LE OPERE

I filoni dell’opera di Sinesio sono tre:

1) L’Epistolario, composto da 156 lettere e ammiratissimo per tutto il millennio


bizantino.
2) Una serie di operette in prosa, tra cui il Dione, una sorta di autobiografia
che culmina nella difesa delle ‘’humanae litterae’’.
3) Gli Inni, 9 in totale, in cui sono presenti le tensioni filosofiche e religiose
che caratterizzano il pensiero di Sinesio.
Ciò che più caratterizza lo stile di Sinesio è una raffinata polimetria, ormai
lontanissima dagli usi del suo tempo.

- Inno II: si tratta di una preghiera al Creatore (in 299 versi) in cui si sviluppa
la tematica della natura di Dio, che è Uno e Trino.
Gli accenti neoplatonici e cristiani si fondono nel rigore e nella sobrietà che
contraddistinguono lo stile di Sonesio, che riesce a sviluppare una dottrina
quasi a se’ stante.
L’anima di Sinesio vuole celebrare Dio come creatore del tutto, dispensatore
dei beni agli uomini.
In monometri anapestici.
‘’Te, o Beato, io canto/Signore del cosmo./Taccia la terra/al suono dei tuoi inni’’ (vv.
26-29).

- Inno VI: nonostante si tratti del testo più breve (42 versi), l’Inno VI tratta della
natura di Cristo attraverso un’interpretazione simbolica dei doni dei Magi:
l’oro come segno della regalità di Cristo, l’incenso indicatore della sua
divinità, la mirra simbolo del mistero della sua morte.
In telesillei.
‘’Quando, da ventre mortale,/ti effondesti sulla terra,/e l’arte sapiente dei Magi/di
fronte al sorgere di una stella/stupì’’ (vv. 18-22).

5. PALLADA

Vissuto al tempo dell’imperatore Arcadio (395-408 d.C.), Pallada, attivo


presso Alessandria, è autore di una raccolta di epigrammi, 150 dei quali
confluiti nell’Antologia Palatina.
La maggior parte delle notizie biografiche provengono dalla sua stessa opera,
che però, essendo caratterizzata da una forte vena parodistica, va presa con
cautela.
Pallada si rappresenta come un povero maestro di scuola, privo di ricchezze
e tormentato da una moglie insopportabile.
Il mondo che descrive sembra al collasso, lacerato da tensioni politiche e
religiose, condizioni che generano nell’autore una notevole amarezza,
smorzata però da una feroce ironia.
5.1 LE OPERE

Pallada si distingue nettamente dalla produzione precedente, non tanto per il


continuo rimandare a temi erotici, quanto piuttosto per la visione sconsolata
della vita che assume nel suo canzoniere.
Possiamo inserire la sua esperienza letteraria all’interno del filone che unisce
Leonida di Taranto (III sec. a.C.) a Teodoro Prodromo (XII secolo).

- Antologia Palatina IX 173: Pallada riprende qui il lessico del Proemio


dell’Iliade per riflettere sulla sua condizione di grammatico squattrinato.
In distici elegiaci.
‘’Il principio della grammatica è una maledizione di cinque versi:/il primo contiene
<<l’ira>>, il secondo <<funesta>>’’ (vv. 1-2).

- Antologia Palatina IX 441: il tema dell’epigramma è quello dell’abbattimento


delle statue degli dei pagani, su cui Pallada scherza descrivendo un Eracle
che ammette con tranquillità di essersi adattato ai tempi correnti.
In distici elegiaci.
‘’Anche se sono dio, ho imparato ad accettare gli eventi’’ (v. 6).

- Antologia Palatina XI 381: qui l’autore se la prende con un rivale accusato di


spacciarsi per maestro platonico, quando in realtà è solo un pessimo
grammatico.
In distici elegiaci.
‘’di cosa ti vanti, tu che nulla conosci?/Fra i grammatici <<il Platonico>> sei: ma se uno
ti chiede/di esporre le dottrine platoniche, sei di nuovo un grammatico’’ (vv. 2-4).

- Antologia Palatina XI 381: un solo distico dedicato ad un tema frequente nella


produzione di Pallada, la misoginia, che conosce i propri apici nelle poesie
indirizzate all’odiata moglie.
In distici elegiaci.
‘’Ogni donna è veleno. Solo due ore felici conosce:/una nel letto, l’altra nel cataletto’’
(vv. 1-2).

- Antologia Palatina XV 20: abbiamo qui una rivisitazione parodistica del


famoso motto attribuito ad Epicuro del ‘’λάθε βιώσας‘’ (‘’vivi nascosto’’).
Il metro usato è il trimetro giambico.
‘’vivi nascosto o, se non puoi, vivi da morto’’ (v. 3).
6. CIRO DI PANOPOLI

Sulla vita di Ciro (?-460 d.C.), nato a Panopoli nell’Alto Egitto, abbiamo poche
informazioni.
Intellettuale di notevole talento, egli ottenne la fiducia e il sostegno
dell’imperatore Teodosio II e della moglie Eudocia, grazie ai quali divenne
prefetto di Costantinopoli e in seguito console nel 441 d.C.
La sua fortuna conobbe una brusca fine probabilmente poiché coinvolto in un
intrigo di palazzo.
Ciro abbandonò il palazzo e Costantinopoli, divenendo vescovo della diocesi
di Cotieo in Frigia.
Dopo la morte di Teodosio II nel 450 d.C. tornò nella capitale, ma dopo questa
data di lui non sappiamo più nulla.

LE OPERE

Nonostante la sua notevole carriera politica, già i contemporanei ricordavano


Ciro soprattutto come ‘’il grande poeta’’, della cui opera enigmatica e sfuggente
non restano però che solo alcuni versi contenuti all’interno dell’Antologia
Palatina.
Il suo lavoro ha un carattere celebrativo e occasionale, ma presenta anche
diverse somiglianze con l’opera di Nonno di Panopoli.
Le qualità di Ciro erano molto apprezzate dagli antichi, che ne apprezzavano
il carattere enigmatico e sfuggente.

- Epigrammi (AP IX 136): si tratta in maniera molto metaforica dell’esilio a cui


il poeta è stato costretto.

- Epigrammi (AP XV 9): Ciro va a lodare Teodosio II paragonandolo ad


Achille, di cui possiede tutti pregi, ma con cui non condivide i difetti.

EUDOCIA AUGUSTA

Le notizie sulla vita di Eudocia (401-460 d.C.) sono numerose e inattendibili:


nata ad Atene presso una famiglia pagana di alto rango, ella venne educata
nelle lettere.
Pulcheria, sorella di Teodosio II, ne apprezzò per prima la bellezza e
l’intelligenza fuori dal comune, presentandola in seguito al fratello.
Dopo essersi convertita al Cristianesimo nel 421 d.C., Eudocia sposò Teodosio
II; dalla loro unione sopravvisse solo una figlia, Eudossia, che nel 437 d.C.
sposò l’imperatore d’Occidente Valentiniano III.
Cadde in disgrazia per colpa dell’invidiosa Pulcheria, che riuscì a far esiliare
sia lei che il suo protetto Ciro di Panopoli.
Si ritirò a Gerusalemme, dove si dedicò ad opere di pietà e alla poesia, e dove
morì nel 460 d.C.

LE OPERE

L’opera più importante di Eudocia è la Storia di San Cipriano, un poemetto in


tre libri, di cui ci sono giunti solo il primo e 479 versi del secondo.
Il testo narra la vicenda di San Cipriano e Santa Giustina di Antiochia: si
tratta di un testo agiografico in prosa.
Ci sono pervenuti anche i Centoni omerici sulla vita di Cristo (una parafrasi in
esametri dei Vangeli), in cui Eudocia riprese il lavoro di un vescovo di nome
Patrizio.
Sono giunti a noi anche la Metafrai dell’Ottateuco, la Metafrasi del profeta
Zaccaria e del profeta Daniele (entrambe in esametri).
Tutte le opere di Eudocia erano molto probabilmente pensate per essere lette
da un cenacolo di eruditi.

- Storia di San Cipriano (II 220-274): la vicenda di Cipriano, definito anche


‘’l’archetipo tardoantico del Faust’’, è quella di un giovane pagano che, al
termine di un viaggio fra Frigia/Egitto/Scizia, giunge a Babilonia.
Qui, iniziato a dei misteri, arriva al cospetto di Satana, che gli promette il
dominio sul mondo.
Divenuto cristiano grazie all’esempio dell’antiochena Giusta, di cui si
innamora, Cipriano diviene vescovo di Antiochia; Giusta, divenuta Giustina,
diviene la sua diaconessa.
Insieme cadono vittime della persecuzione di Diocleziano.
Interessante è la scena in cui Cipriano incontra Satana, la cui descrizione
verrà ripresa nella demonologia bizantina.
‘’Acconsentì persino a rendermi signore del mondo, suo cooperatore’’ (v. 224-225).
8. NONNO DI PANOPOLI

Nonostante la grande fama del suo capolavoro, le Dionisiache, sulla figura di


Nonno di Panopoli (?-?, V secolo d.C.) non abbiamo praticamente nessuna
notizia.
Sappiamo che il suo è un nome cristiano, molto diffuso in Egitto e Siria, e che
era originario di Panopoli nell’Alto Egitto.
Grazie ad alcuni passi delle Dionisiache sappiamo che egli aveva una buona
conoscenza delle città fenicie di Tiro e Beirito (l’attuale Beirut), e che la sua
opera venne composta sull’isola di Faro, presso Alessandria d’Egitto.
Il problema della biografia di Nonno è dato dalla compresenza di un’opera
positivamente pagana, le Dionisiache, con una di ispirazione cristiana, la
Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, steso forse dopo un’improbabile
conversione al Cristianesimo.

LE OPERE

Le Dionisiache, opera in esametri composta da 48 canti (22.000 versi) dedicata


al dio Dioniso, sono divise in grosso modo in tre parti: la prima (canti I-XII)
narra le vicende degli antenati di Dioniso; la seconda (canti XIII-XL) tratta
della campagna indiana di Dioniso; la terza (XLI-XLVIII) parla di alcuni
episodi marginali del mito dionisiaco.

- Le tavole di Armonia (Dionisiache, XII 29-113): siamo nel fondamentale XII


canto, quello in cui il vino diviene la bevanda sacra di Dioniso, che la dona
agli uomini (‘’Saprai dalla terza tavola quando verrà il frutto vinoso...dalla quarta
chi sarà il signore del grappolo’’, vv. 38-40).
La scena qui rappresentata si svolge presso il palazzo di Helios, il Sole, che
illustra ad una fanciulla, personificazione dell’Autunno, le quattro tavole
contenenti le profezie dell’Anno Cosmico.
La prima tavola descrive una teogonia; la seconda un’antropogonia; la terza
descrive miti metamorfici, come quelli di Piramo e Tisbe, dell’amazzone
Atalanta e del pastore Argo.
Si fa riferimento anche al diluvio che Zeus scatenò sull’umanità: ‘’in che modo
tutte le città inondasse Zeus datore di pioggia’’ (v. 59).

- Tifeo e il sacerdote di Zeus (Dionisiache, XIII 474-497): nel Canto XIII è presente
un catalogo dell’esercito bacchico diretto in India.
Una descrizione molto pesante, alleggerita dalla presenza di alcune sequenze
narrative, come quella del sacerdote lidio di Zeus che sconfisse il titano
Tifone, desideroso di distruggere il mondo.
Un mito che richiama un fatto di attualità: il disperato gesto di papa Leone I
(390-461 d.C.), che nel 452 d.C. convinse miracolosamente (e in maniera
ancora oggi molto misteriosa) l’unno Attila a non valicare il Mincio.
Il sacerdote di Zeus viene definito un uomo ‘’armato di una lancia mentale’’ (v.
497).

- L’arrivo di Dioniso a Tiro (Dionisiache, XL 298-365): dopo aver sconfitto gli


Indiani, Dioniso visita alcuni luoghi dell’Asia Minore prima di rientrare in
Grecia.
Tra questi vi è la città fenicia di Tiro, una ricca e prestigiosa metropoli al
tempo di Nonno, rinomata soprattutto perché principale centro di
fabbricazione della porpora: ‘’lo straordinario mollusco, celandolo nelle mascelle
affamate,/le nivee guance arrossava col sangue della conchiglia,/imporporando le
labbra di liquido fuoco’’ (vv. 307-309).

La Parafrasi del Vangelo di San Giovanni è una trasposizione poetica del Vangelo
di San Giovanni, un’opera che si ascrive alla produzione, molto in voga nella
Tarda Antichità, di parafrasi poetiche dei testi cristiani.
Il testo è caratterizzato a livello verbale dalla ridondanza e dal pleonasmo.

- Il Verbo si è fatto carne (Parafrasi, I 1-64): si tratta della riscrittura dell’incipit


del Vangelo di Giovanni, ripreso in maniera originale e nel segno
dell’amplificatio.
Il lavoro di Nonno è molto difficile e delicato, ricco di sfumature e ambiguità,
caratterizzato probabilmente dal tentativo di conciliare la tradizione pagana e
quella cristiana.
‘’Senza tempo, inarrivabile, era il Verbo nel principio inconoscibile’’ (v. 1).

9. PROCLO

Proclo (412-485 d.C.) fu soprattutto un celebre filosofo prima che un letterato


e un poeta.
Notevole studioso, egli fu direttore della scuola di Atene ed ebbe il merito di
riorganizzare la dottrina neoplatonica.
Possediamo molte informazioni biografiche sulla vita di Proclo grazie al suo
biografo e allievo Marino di Neapoli (440-500 d.C.).

LE OPERE

Le sue opere filosofiche più famose sono gli Elementi di Teologia e la Teologia
platonica, in cui vengono trattate le nozioni generali di Platone intorno agli
dei.
Proclo fu però anche letterato e poeta, autore di 8 Inni di ispirazione
callimachea e omerica; risulta difficile invece attribuirgli la Crestomanzia, una
sorta di enciclopedia letteraria divisa per generi.

- Inno ad Helios (Inni, I): l’inno riflette il mutato atteggiamento, molto più
riflessivo-metafisico, con cui in epoca tardoantica si cominciò ad approcciare
la religione pagana tradizionale.
Rifacendosi al trattato di Giuliano l’Apostata Ad Helios Re, Proclo lo invoca
non perché protegga l’Impero, bensì perché offra all’uomo una speranza per
il proprio destino.
Ripresa da Giuliano è invece la visione del Sole come trino: inteso come ‘’Sole
di Verità’’, che fa da mediatore tra l’uomo e gli dei intellettuali; come disco
solare visibile e garante della visibilità delle cose sensibili; come Sole
supremo, il Bene in se’ identico all’Uno.
‘’Temono la minaccia della tua rapida frusta i demoni che danneggiano gli uomini,
esseri dal cuore selvaggio,/ che arrecano dolori alle nostre anime afflitte’’(si riprende
qui, ai vv. 27-29, la visione platonica del corpo come carcere dell’anima).

10. COLLUTO

Le poche notizie sulla vita di Colluto (V secolo d.C.) provengono dalla


lessico della Suda, dove si dice che egli era originario di Licopoli (nella
Tebaide, in Egitto) e che visse al tempo dell’imperatore Anastasio (491-518
d.C.).
Compose alcune opere poetiche: una Calcydonica in 6 libri e il poema Persica;
purtroppo entrambe sono andate perdute.
Pervenuto è invece il mediocre Ratto di Elena, un epillio di 392 esametri, che
probabilmente faceva parte di un componimento molto più grande intitolato
Antheomerica, in cui si narravano per l’appunto le vicende precedenti alla
guerra di Troia.

LE OPERE

Da un punto di vista formale il Ratto si rifà molto all’opera di Nonno, che


risulta essere il modello principale per lingua e stile; Colluto sfrutta però in
maniera maggiore il materiale linguistico di origine omerica.

- Il giudizio di Paride (Il ratto di Elena, 131-168): uno dei rari momenti piacevoli
del lavoro è rappresentato senza dubbio dalla descrizione del giudizio di
Paride, ‘’Non conosco le cose di guerra: che c’entra con gli scudi Afrodite?/ Invece
del valore, ti offro un’amabile sposa,/ invece di un regno, ti farò salire sul letto di
Elena:/ e Lacedemone dopo Troia ti vedrà maritato’’ (vv. 161-164).

11. MUSEO

Di Museo non rimangono notizie biografiche, se non quelle legate alla sua
opera più famosa, l’epillio Ero e Leandro.
Da un’analisi del testo possiamo comprendere che Museo era senza dubbio
un estimatore di Nonno, ma anche un profondo conoscitore delle Sacre
Scritture.
Forse Museo è il giovane letterato a cui si rivolge il retore Procopio di Gaza in
alcune lettere; ciò significa collocare Museo tra il V e il VI secolo d.C., una
collocazione non troppo distante dalla realtà.

LE OPERE

Museo è passato alla storia soprattutto per il suo epillio Ero e Leandro, che
secondo alcuni critici rappresenta ‘’l’ultima rosa prodotta nel morente giardino
della letteratura greca’’ (Arminius Koechly, filologo attivo nel XIX secolo).
La storia narrata da Museo è quella dello sfortunato amore tra Ero e Leandro,
due giovani separati dall’Ellesponto (lui di Abido, lei di Sesto).
Ogni notte Leandro attraversa il mare per incontrare la sua amata, che gli
illumina la via accendendo una luce in cima ad una torre.
Una notte però il lume si spegne, facendo perdere Leandro, che muore
travolto da un mare in tempesta.
L’indomani Ero, vedendo il cadavere dell’amato sulla spiaggia, decide a sua
volta di suicidarsi.
Lo stile dell’epillio è molto accattivante, cosa che gli assicurò una fama
notevole (il testo è stato infatti tradotto i diverse lingue), anche se solo nel
XIX secolo questa toccò il suo apice.
Schiller ne fece una propria riscrittura in tedesco nel 1801, mentre nel 1810
Byron attraversò l’Ellesponto a nuoto in un’ora per poter rivaleggiare con
l’impresa di Leandro.

- Ero e Leandro, 232-281: molto piacevole è la contrapposizione, di richiamo


nonniano, tra l’acqua marina e il fuoco dell’amore.
‘’Come vide la tenebra della notte scura che abbandona la luce/ Ero espose la
lampada; e dopo che questa fu accesa/ Amore accese il cuore di Leandro, incapace di
attendere’’ (vv. 238-240).

12. CRISTODORO DI COPTO

Il poeta epico Cristodoro (?-fine del V secolo d.C.) nacque nella Tebaide in
Egitto e visse al tempo del principato di Anastasio (491-518 d.C.).
Di lui sappiamo pochissimo, se non che fu autore di un Sugli uditori del grande
Proclo (del 485 d.C. circa) e di diversi ‘’patria’’, componimenti poetici misti,
riguardanti storia e mitologia.
Giunse a Bisanzio dopo il 497 d.C. e divenne il poeta di corte di Anastasio,
che lo incaricò di scrivere gli Isaurica, in 12 libri, in cui si parla delle vittorie
dell’imperatore sui pirati della Cilicia nel 491-498 d.C.
Cristodoro è autore anche dell’Ekphrasis delle statue presenti nel Ginnasio
pubblico detto Zeusippo, in 416 esametri; l’opera non ci dice in realtà molto a
livello descrittivo sul complesso termale, voluto da Settimio Severo, ma reso
da Costantino I il più ammirato della capitale.
Di lui ci sono pervenuti anche il poema Lydiaka e due epigrammi ; morì dopo
il 503 d.C.

- Omero, AP II 311-350: nella sua Ekphrasis Cristodoro descrive 80 statue, ma


poche descrizioni meritano attenzione come quella della statua di Omero, che
egli, come Nonno, chiama ‘’padre’’ (v. 320)
‘’Rendeva Omero il bronzo animato, né di pensiero/ né d’intelletto era privo, ma
solamente/ della voce divina, e rivelava la sua arte ispirata’’ (vv. 311-313).

- Pompeo Magno, AP II 398-406: Anastasio aveva molto probabilmente delle


origini umili, dalle quali riuscì a riscattarsi grazie al favore di Arianna (),
vedova dell’imperatore Zenone.
I panegiristi cominciarono allora ad omaggiare Anastasio attribuendogli una
discendenza illustre, a cui veniva ascritto niente meno che Gneo Pompeo
Magno (106-48 a.C.), che come Anastasio aveva vinto i pirati nella sua
campagna del 64-67 a.C.
‘’Fu quell’uomo, che per tutti fu luce, a generare/ dell’imperatore Anastasio la stirpe
divina’’.

13. AGAZIA SCOLASTICO

Agazia (536-582 d.C.) fu detto ‘’Σκολαστικος’’ (‘’scolastico’’) in quanto


esercitò la professione di avvocato.
Nato a Mirina, nell’Eolide (in Asia Minore), la sua formazione avvenne ad
Alessandria d’Egitto e a Costantinopoli, dove studiò diritto, continuando
però a mantenere la passione per la letteratura.
La sua morte è da collocare intorno al 580 d.C.

LE OPERE

Agazia è autore di un poema chiamato Dafniache, andato perduto, e del Ciclo,


una raccolta di epigrammi in distici elegiaci di diversi autori all’interno dei
quali inserì anche i suoi.
Di Agazia sono rimasti cento epigrammi, contenuti nell’Antologia Greca e
divisibili in sette sezioni di argomento differente.
I temi che egli decide di trattare non sono di per se’ molto originali , ma sono
comunque trattati con una padronanza metrica e della lingua poetica.
Agazia è autore anche di un’opera storia che riprende dal punto in cui si
erano interrotte le Guerre di Procopio: il suo Sul regno di Giustiniano copre il
periodo tra il 553 e il 559 d.C.

- Epigrammi, AP I 34: si tratta di un’ekphrasis su una statua di un arcangelo,


che spinge il poeta a riflettere sul valore devozionale ancor prima del
dibattito iconoclasta.
‘’Gli occhi incitano la mente al profondo: e l’arte/ con i suoi colori riesce a guidare la
preghiera del cuore’’ (vv.7-8).

- Epigrammi, AP V 297: l’epigramma tratta della condizione delle ragazze, che


vivono recluse e separate dalla vita.
‘’Tanta pena non hanno i ragazzi, quanta ne tocca a noi,/ fanciulle dal tenero cuore’’
(vv. 1-2).

- Epigrammi, AP VI 59: si tratta di un elogio alla virtù femminile, ‘’Ad Afrodite


corone, ad Atena la chioma,/ ad Artemide il cinto, Calliroe dedicò’’ (vv. 1-2).

- Epigrammi, AP VI 80: siamo qui di fronte allo ‘’σφραγις’’ (‘’sphraghis’’)


dell’autore, che rivendica la paternità delle Dionisiache.
‘’Le Dafniache di Agazia, in nove libri: sono io’’ (v. 1).

- Epigrammi, AP VII 569: si tratta di un elegante epigramma funerario


dedicato ai naufraghi, un argomento classico.
‘’Innalza per me un cenotafio, che ti sia accanto,/ affinché ricordi colei che un tempo
tua sposa’’ (vv. 5-6).

- Epigrammi, AP IX 653: il poeta descrive la vista che si può ammirare in cima


alla scalinata di una villa in prossimità del mare.
‘’dall’alto, osservai l’orizzonte marino./ Della virtù è questa la dimora più vera’’ (vv.
5-6).

14. MACEDONIO CONSOLE

Pochi sono le notizie certe sulla vita di Macedonio Console (500-567 d.C.).
Nato sotto Zenone, egli riuscì a compiere una brillante carriera politica: fu
curator dominicae domus di Giustiniano e in seguito gli fu conferito il titolo,
ormai del tutto onorifico, di console.
Di lui ci sono rimasti 40 epigrammi (alcuni inseriti anche nel Ciclo di Agazia),
suddivisibili in sette categorie: 14 epigrammi erotici, 9 dedicatori, 5 epidittici
e ecfrastici, 2 protettrici, 4 simposiali, 5 scoptici e uno funerario.

- Epigrammi, V 233: il poeta si rivolge qui ad una giovane fanciulla di cui è


innamorato.
‘’Io ti vedrò domani. Ma non c’è domani per noi,/ poiché il ritardo, cui sono abituato,
sempre s’accresce’’ (vv. 1-2).

- Epigrammi, V 240: come le api per fabbricare il miele hanno bisogno dei fiori,
così gli uomini per ottenere i doni di Afrodite hanno bisogno dell’oro.
‘’così per il miele di Venere/ l’oro è l’operaio più abile’’ (vv. 3-4).

- Epigrammi, IX 645: si tratta di una lode della città di Sardi.


‘’Sotto lo Tmolo fiorito, vicino alle acque dell’Ermo meonio,/ io, Sardi, sono di Lidia
la prima città’’. (vv. 1-2).

- Epigrammi, X 70: vi è qui il richiamo ad una tradizione che comincia con


Esiodo, secondo cui la speranza ha una natura infida, tanto buona quanto
cattiva.
‘’Gabbato da speranze che non s’avverano mai,/ lo so eppure resto contento; e nel
giudicare me stesso/ mai diverrò severo come un Aristotele’’ (vv. 4-6).

- Epigrammi, XI 63: Macedonio esalta qui Dioniso e il vino, capaci di dare


coraggio anche ai più ignavi.
‘’Il mare amaro non temo, né fulmini/ con il saldo coraggio di Bacco senza paura’’
(vv. 7-8).

15. GIULIANO EGIZIO

Solo recentemente la critica ha chiuso la disputa intorno alla biografia di


Giuliano Egizio (VI secolo d.C.), originario dell’Egitto ed in seguito
nominato prefetto del pretorio dell’Impero d’Oriente.
LE OPERE

L’opera di Giuliano Egizio consta di 70 epigrammi contenuti nell’Antologia


Greca; la maggior parte dei componimenti sono epigrammi funerari, mentre
Giuliano apprezzò poco il genere erotico.
La sua opera era considerata dai suoi contemporanei e dai posteri come
inferiore solo a quella di Agazia e Paolo Silenziario.

- Epigrammi, AP VII 584: il testo si inserisce all’interno del filone degli


epigrammi funerari per i morti in mare.

- Epigrammi, AP VII 594: Giuliano commemora qui un amico di nome


Teodoro, ‘’Il tuo monumento più vero, Teodoro, non è sulla tomba,/ ma nelle pagine
dei libri’’ (vv. 1-2).

- Epigrammi, AP IX 771: viene qui proposta una variante del mito dionisiaco.

- Epigrammi, AP XVI 107: viene qui descritta una statua di Icaro, talmente ben
fatta da spingere il poeta ad immaginare che questa si alzi e prenda il volo
per poi cadere come il figlio di Dedalo nel mito; ‘’Icaro, la cera ti uccise; ma ora
grazie alla cera/ lo scultore t’ha dato una nuova forma’’ (vv. 1-2).

16. PAOLO SILENZIARIO

Paolo (520-575 d.C.), funzionario della corte di Giustiniano, deve il suo


soprannome dal ruolo che esercitava preso la corte, quello di ‘’silenziario’’,
che era preposto al mantenimento dell’ordine nei ‘’silentia’’, le assemblee
indette dall’imperatore (il quale partecipava di persona).
Paolo, che ci riferisce Agazia era figlio di Ciro (spesso identificato come Ciro
di Panopoli), era di famiglia ricca, ma non nobile, e fece parte di quel
cenacolo di poeti le cui opere furono raccolte nel Ciclo di Agazia.

LE OPERE

Seguace del modello di Nonno , Paolo compose una raccolta di epigrammi:


nell’Antologia Palatina ne sono presenti 80, per lo più di argomento erotico,
quasi tutti, ben 40, si trovano nel libro V dell’Antologia Palatina, quello
dedicato alle tematiche amorose.
Paolo fu per i Bizantini un poeta molto originale, capace di introdurre
elementi nuovi in una tradizione ormai invecchiata.
La sua opera più importante è la Descrizione del tempio di Santa Sofia in 1029
versi (anche se la descrizione vera e propria è di 889 esametri); il resto
consiste in un doppio proemio di 134 trimetri giambici.
L’opera si iscrive di diritto alla tradizione dei poemi panegirici.
Il poemetto venne recitato per la prima volta presso l’imperatore e i membri
della corte il 6 Gennaio del 563 d.C., anche se secondo altri la recita avvenne
prima, nel Natale del 562 d.C.
L’occasione era ovviamente la riapertura di Santa Sofia, rinnovata dagli
architetti Isidoro di Mileto e Artemio di Tralle.
In una seconda circostanza Paolo pronunciò un nuovo poemetto, la
Descrizione dell’ambone, in 275 esametri preceduti da 29 trimetri giambici.
Quest’opera contiene una magnifica e precisa descrizione del pulpito della
cupola.
Rispetto agli epigrammi la lingua delle due Descrizioni risulta senza dubbio
molto più elevata.

- Descrizione di Santa Sofia, 135-175: Paolo celebra qui la superiorità di Santa


Sofia sul Campidoglio.
Si tratta di un’affermazione forte, che voleva sancire lo status di Bisanzio
come ‘’nuova Roma’’: ‘’Ma anche tu, veneranda antenata, Roma Latina, vieni fra
noi/ intonando un canto concorde a quello della Roma più giovane:/ vieni orgogliosa,
poiché vedi tua figlia/ superare la madre: e questa per i genitori è una gioia’’. (vv.
164-167).

- Descrizione di Santa Sofia, 617-646: Paolo celebra la bellezza di Santa Sofia, dei
suoi ori e dei suoi argenti, degli elementi decorativi come i marmi policromi.
Una ricchezza non fine a se’ stessa, bensì segno tangibile della benevolenza
divina.
I pannelli di marmo di Santa Sofia vengono invece paragonati ad un prato.
‘’Come fiocchi di neve accanto a cupi bagliori/ la loro mista bellezza risvegliava la
pietra’’ (vv. 645-646).

- Epigrammi, AP V 217: viene qui ricordato il potere dell’oro, che ‘’sconfigge


tutti i lacci e le chiavi,/ l’oro fa inchinare le donne dallo sguardo altero’’ (vv. 5-6).

- Epigrammi, AP V 250: si racconta qui del dolore della fanciulla che ama il
poeta, che dice di temere che questo lo lasci.
‘’Temo che tu mi lasci: voi uomini siete solo spergiuri’’ (v. 8).

- Epigrammi, AP V 272: epigramma d’amore.

- Epigrammi, AP V 283: epigramma sulle sofferenze d’amore, ‘’Nulla è grato ai


mortali: se uno è schiavo/ d’amore, vorrebbe lunghissime notti’’ (vv. 5-6).

- Epigrammi, AP IX 620: epigramma sulle sofferenze d’amore, ‘’la speranza è


più dolce persino di quel che si ha’’ (v. 4).

- Epigrammi, AP X 74: epigramma sul valore della virtù, ‘’Salda e immutabile sta
la Virtù, sopra di lei/ attraversa fidente i flutti dell’esistenza’’ (vv. 5-6).

17. ROMANO IL MELODO

Nato ad Emesa in Siria ed in seguito diacono di Beirut, Romano (490-556


d.C.) detto il ‘’Melodo’’, viene considerato il primo vero poeta ‘’bizantino’’,
sia per ragioni cronologiche che per ragioni culturali.
Romano seppe andare oltre la tradizione precedente, introducendo un nuovo
modo di fare poesia, introducendo il genere del ‘’κοντακιον‘’ (il ‘’contacio’’).
Dietro l’invenzione del contacio ci sono elementi leggendari, visibili anche
all’interno del Menologio di Basilio II, in cui è presenta una raffigurazione di
Romano che nel sonno viene visitato dalla Madonna, che gli fa inghiottire un
rotolo, conferendogli il dono del canto (vedi immagine sotto).
Il contacio è un’omelia drammatica sotto forma di inno; consta di stanze
(dette ‘’tropari’’ o ‘’oikoi’’) che vanno da un minimo di 11 ad un massimo di 40,
caratterizzate da una struttura ritmica identica e da un identico numero di
versi, in modo tale che tutte replichino il ritmo della prima (detta ‘’irmo’’).
Il contacio è introdotto da un proemio, detto ‘’cuculio’’, differente sia nell’irmo
che nei tropari, che di solito riassume il contenuto del testo.
Altri elementi caratteristici sono l’efimnio, il ritornello, che si ripete al termine
di ogni tropario, e l’acrostico che connette le varie stanze (di solito riproduce
l’ordine alfabetico o il nome dell’innografo).
Il contacio rappresenta una rottura con il passato totale, in quanto abbandona
il sistema metrico per uno ritmico (che prescinde dalla quantità delle sillabe e
si basa sull’accento di intensità) e in quanto i contenuti sono cristiani (questo
perché si rivolge ad un pubblico di cristiani).

LE OPERE

La fama di Romano e il successo tra i contemporanei contaminarono la


trasmissione della sua opera, solo dopo numerosi sforzi la critica è arrivata
ad assegnare a Romano 85 contaci, anche se alcuni ne ritengono autentici solo
59.
I contaci possono essere divisi in cinque gruppi: i contaci del primo gruppo
presentano degli episodi neotestamentari; quelli del secondo hanno sempre
un argomento neotestamentario, ma riguardano episodi in cui non è presente
Cristo; quelli del terzo hanno per protagonisti episodi dell’Antico Testamento;
quelli del quarto sono più eterogenei; quelli del quinto sono dedicati ai
martiri.

- L’impotenza del male (Contacio XXI): questo contacio era in origine privo di
un titolo, furono gli editori ad assegnargli quello di ‘’Le potenze infernali’’.
Il protagonista del testo è proprio Satana, che spaventato da Cristo ricerca
l’alleanza dei Farisei e dei Giudei, che infine ottiene.
Ciò che caratterizza il testo è il fatto che Cristo rimanga sempre sullo sfondo,
lasciando ai suoi nemici diabolici il ruolo di protagonisti.
Cristo è definito ‘’ospedale’’ (Strofe 1, verso 1), in quanto porta salvezza per il
malato genere umano.
Il contacio, pieno di riferimenti ai Vangeli apocrifi non rinuncia al piacere
della poesia , si guardino i versi 1 e 2 della Strofe 13: ‘’Così l’ingannatore
rassicurò quegli empi,/ e piantò sulla sabbia le loro fondamenta’’.

- Novità della Santissima Madre di Dio (Contacio XXV): questo contacio, scritto
per celebrare la nascita della Vergine, riprende molte scene del cosiddetto
Protovangelo di Giovanni, un apocrifo che narra degli eventi miracolosi che
precedettero la nascita di Maria.
Il tutto si concentra su due elementi: la nascita di Maria da una donna sterile,
la madre Anna, e l’accostamento di questa a figure dell’Antico Testamento.
‘’La preghiera e il lamento di Gioacchino e Anna/ per sterilità e la mancanza dei figli
furono accolti,/ giunsero alle orecchie del Signore e fecero germogliare il frutto che
reca al mondo la vita’’ (Strofe 1, vv. 1-3).
Nell’ultima Strofe, l’undicesima, Romano dice che Dio da pace al popolo
‘’proteggendo i sovrani devoti’’ (v.4): da questo passo è possibile comprendere
che il contacio venne scritto nel periodo in cui Giustiniano era stato associato
al trono dallo zio Giustino I (518-527 d.C.).

18. GIOVANNI DI GAZA

Giovanni di Gaza (VI secolo d.C.) proveniva da una città, Gaza ovviamente,
che nel corso del V e del VI secolo d.C. era divenuta un vivace centro
culturale.
Si parla addirittura di una ‘’scuola di Gaza’’, all’interno della quale è
possibile ascrivere personaggi come il filosofo Enea, il retore Procopio e il suo
allievo Corcirio e per l’appunto il poeta Giovanni.
La sua fioritura avvenne nel corso del regno di Giustiniano I.

LE OPERE

Giovanni è autore dell’Εκφρασις του κοσμικου πινακος (oppure Descriptio


mundi) in due libri, per un totale di 703 esametri e due proemi giambici, il
primo di 25 versi e il secondo di soli 4.
Il testo è una descrizione poetica di una sorta di tavola geografica collocata
nelle terme di Gaza.
Del poeta di Gaza ci sono giunte anche 8 odi Anacreontee: poesie di occasione,
che rivelano una vola di più l’adesione dell’autore ai dettami delle scuole di
retorica.
Dal punto di vista stilistico/lessicale Giovanni si dimostra un fedele imitatore
di Nonno.

- Le quattro Stagioni (Descriptio, II 253-313): il testo, veramente molto piacevole,


descrive una tavola geografica presente nelle terme di Gaza.
Giovanni si concentra soprattutto sulla descrizione della parta bassa della
tavola, in cui si trovava una rappresentazione allegorica della Terra e delle
divinità corrispondenti alle Stagioni.
Il modello della descrizione sono senza dubbio le Dionisiache di Nonno di
Panopoli.
‘’Perché veramente/ il Cosmo è il cielo che corre senza mai fare una sosta/
attraversando il saldo cerchio che necessità governa’’ (vv. 266-267).

19. INNO ACASTICO

Attribuito spesso a Romano il Melodo, l’Inno Acastico, chiamato così perché


recitato in piedi, in tutti i diversi manoscritti in cui è riportato, non viene mai
attribuito a Romano.
Gli unici indizi che possediamo sull’autore dell’Inno possono essere trovati
all’interno del testo: si potrebbe trattare di un autore di origine siro-
palestinese, influenzato dalla dottrina del Concilio di Efeso.
Potrebbe anche trattarsi di un testo particolarmente arcaico, vista la limitata
componente dialogica, che normalmente caratterizza il contacio.
L’opera era cantata il 25 Marzo, durante la festa dell’Annunciazione, ma nei
libri liturgici è collegato alla quinta settimana di Quaresima; eppure l’Inno
non sembra avere a livello testuale un qualche collegamento con la
Quaresima o con l’Annunciazione.
L’Inno è tramandato da molti manoscritti, ma il testo più utilizzato è quello
modellato sul Triordion in uso nella Chiesa Greca, la cosiddetta ‘’vulgata’’.
L’Inno non è solo un testo liturgico ancora di incredibile importanza nel
mondo ortodosso, ma anche un’opera che ha conosciuto una diffusione
nell’Occidente medievale: venne infatti tradotto in latino nell’Abbazia di
Saint-Denis tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX secolo d.C.

- Inno Acastico: se Santa Sofia deve essere considerata la summa della civiltà
bizantina in ambito artistico-architettonico, questo stesso primato spetta
all’Inno, perfetto esempio di commistione tra tradizione classica e argomento
cristiano, in ambito letterario.
Il testo risulta difficilissimo da tradurre, in quanto ogni resa in un’altra lingua
va in qualche modo a tradire la versione originale, dal punto di vista formale
ma anche dottrinale.
L’Inno è composto da 24 Strofe: le stanze dispari sono più lunghe e
presentano un ‘’efimnio’’, un ritornello conclusivo; le stanze pari sono più
brevi e presentano un ritornello differente.
Nelle prime dodici strofe si trova un racconto dell’Incarnazione, mentre nelle
dodici finali un commento lirico a questo racconto.
‘’I retori dai lunghi discorsi muti come pesci/ vediamo innanzi a te, Madre di Dio;/
perché non riescono a dire come/ resti vergine pur avendo partorito’’ (Strofe XVII,
vv. 1-4).

20. GIORGIO DI PISIDIA

Secondo alcuni giudizi Giorgio di Pisidia (fine del VI secolo-VII secolo d.C.)
fu ‘’l’ultima luce della civiltà letteraria dell’antichità’’, dopo il quale Bisanzio
sarebbe caduta nella desolazione della lotta iconoclasta.
Nato ad Antiochia di Pisidia (nel cuore dell’Anatolia, vicino a Miriocefalo),
Giorgio divenne diacono di Santa Sofia e in seguito referendario (nunzio
patriarcale) dell’imperatore Eraclio I (610-641 d.C.).
Divenne amico del patriarca Sergio I (610-638 d.C.), celebre per aver guidato
la difesa della capitale durante l’assedio avaro del 626 d.C., e in seguito
Giorgio partecipò a diverse campagne persiane di Eraclio.
Nella prima fase della sua attività poetica, tra il 620 e il 630 d.C., Giorgio fu il
principale panegirista di Eraclio, verso il quale nutriva una sincera
ammirazione, dovuta al trionfo raccolto dal sovrano contro il secolare nemico
persiano e condivisa dalla maggior parte della popolazione dell’Impero.
Nella seconda parte, dal 630 d.C. fino alla morte (la cui data è ignota), Giorgio
cominciò a dedicarsi ad opere di argomento teologico e morale; l’Esamerone è
il capolavoro di questa fase.
Il mutamento subito da Giorgio fu molto probabilmente causato dall’avvento
della minaccia araba, che non fu affrontata dal vecchio e malato Eraclio, bensì
da generali mediocri e incapaci di affrontare il nuovo e pericoloso nemico.
LE OPERE

Giorgio fu un poeta ammiratissimo per tutto il millennio bizantino: Psello


ne fu un grande ammiratore (arrivò a chiedersi se fosse superiore ad
Euripide), l’Esamerone è presente in ben quaranta codici.
Fra le opere della prima fase merita senza dubbio menzione l’Eracliade, in cui
sono celebrate le imprese di Eraclio fino al trionfo finale del 630 d.C.
Il testo ha anche un notevole interesse storico, risultando la principale e più
completa fonte per gli anni che vanno dalla deposizione dell’usurpatore Foca
(610 d.C.) alla vittoria sui Persiano (630 d.C.).
Il poema dedicato alla prima spedizione in Persia (622-623 d.C.), intitolato dai
moderni Spedizione persiana, è particolarmente notevole perché riguarda un
avvenimento a cui il poeta partecipò personalmente (di ciò si accorse anche il
cronista Teofane, che attinse molto al lavoro di Giorgio).
L’opera più importante del secondo periodo è ovviamente l’Esamerone, in cui
vengono descritti i sei giorni della Creazione, materia già trattata in prosa da
Basilio di Cesarea.
Notevoli sono anche il poemetto morale Sulla vanità della vita, dedicato al
patriarca Sergio, e il carme Sulla vanità umana, scritto in esametri nonniani.
Le innovazioni formali introdotte da Giorgio sono notevoli: egli utilizzò il
trimetro giambico al contrario dei poeti profani delle età precedenti (che
avevano preferito l’esametro epico).
Il suo trimetro è però il primo passo verso il dodecasillabo bizantino, un
verso che nasce dal compromesso tra la metrica quantitativa classicheggiante
e la poesia popolare accentuativa.
Giorgio è dunque il ponte fra il vecchio e il nuovo, l’ultimo poeta profano in
grado di comporre in esametri nonniani, ma anche l’iniziatore di una materia
nuova, scritta in trimetri giambici.

- O fortuna, Alla vita umana vv. 1-22 e 59-90 (esametri): il carme si concentra su
un argomento classico, l’assurdità del comportamento degli uomini, che non
comprendono l’inconsistenza dei beni terreni.
Nella prima parte del carme (1-22) si dice che il diavolo, ‘’Ares vestito di carne’’
(v. 5), si nasconde dietro le azioni degli uomini peccatori; nella seconda parte
del carme (23-58) il poeta chiama in causa la Virtù perché testimoni la
debolezza umana; nella terza (59-90) viene invocata la Vergine affinché aiuti il
poeta a riportare quei sogni che ingannano gli uomini.
La terza parte, in cui la vita umana viene paragonata ad un sogno, è senza
dubbio quella più piacevole: ‘’poiché spesso il sonno, con la visione d’un potere
regale,/ rapisce l’uomo stolto, addormentato in fantasmine inani/ gli affida un
esercito e, radunata un’inferma ricchezza,/ lo persuade a tenere lo scettro fra le sue
misere mani,/ distendendo sulle sue tempie un irreale splendore’’.

- La Creazione è schiava, Esamerone vv. 353-398: l’Esamerone è un’opera teologica


e scientifica, in cui Giorgio cerca di coniugare fede e ragione, descrivendo la
Creazione con gli occhi di uno scienziato (proprio come aveva fatto Basilio di
Cesarea).
La prova che la difficoltà dell’argomento non impedisce piacevoli momenti di
pura poesia è il passo in cui si spiega che la Creazione è schiava del suo
Creatore, che così ha impedito che l’uomo la potesse eleggere a divinità.
‘’Chi vedendo questo cielo immenso/ e la forza in perenne moto che possiede….non
capisce che la natura in moto perenne è schiava?’’ (vv.363-364, 371).

21. ANDREA DI CRETA

Nato a Damasco nel 660 d.C., Andrea (660-740 d.C.) entrò nel monastero del
Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove perfezionò la forma poetica del
‘’canone’’.
In seguito si trasferì a Costantinopoli, dove divenne diacono e grande
orfanotrofo, ovvero direttore dell’Orfanotrofio, l’istituzione imperiale
preposta al mantenimento e all’educazione degli orfani.
Nel 711 d.C. venne nominato metropolita di Creta, ma in seguito venne
esiliato a Mitilene perché in contrasto con la politica iconoclasta di Leone III
(717-741 d.C.).
Morì a Mitilene nel 740 d.C.

LE OPERE

Autore di numerose opere in versi, la fama di Andrea è dovuta agli Inni


liturgici che compose.
Secondo una certa tradizione egli fu l’inventore del genere del canone, un
ampliamento del contacio, da cui si distingue per la scomparsa del dialogo e
le grandi strutture argomentative e speculative.
Il capolavoro di Andrea è il Grande Canone, formato da duecentocinquanta
tropari e suddiviso e in cui si rivedevano gli episodi dell’Antico Testamento
alla luce della rivelazione di Cristo.
L’opera, maestosamente ampia, era destinata alla liturgia della Quaresima
(per la Chiesa ortodossa momento di penitenza e riflessione) e pensata per un
pubblico di fedeli

- Il mio peccato mi sta sempre dinanzi, Grande Canone, I Strofe 5-7: l’espressione
‘’εις τυπον του Χριστου’’ (lett. ‘’a immagine di Cristo’’), è usata per indicare
Giuseppe come allegoria e prefigurazione di Cristo.
‘’Dai suoi congiunti l’anima giusta fu tradita, fu venduta/ in schiavitù – il dolce
Giuseppe prefigurazione di Cristo;/ ma tu, anima mia, tutta intera fosti venduta dai
tuoi mali’’ (vv.165-167).

22. TEODORO STUDITA

Il periodo della lotta iconoclasta fu uno dei più drammatici nella storia
dell’Impero Bizantino: minacciato da invasori esterni, gli Arabi; dalla rivalità
con l’Occidente franco, che si voleva erede di Roma; dalle lotte interne tra
iconoclasti be iconoduli.
Se l’Impero riuscì a risollevarsi, ponendosi nuovamente come erede della
Classicità, fu merito anche di personaggi come Teodoro Studita (759-826
d.C.).
Nato a Costantinopoli, Teodoro subì l’influenza dello zio materno Platone,
abate di Sakkudion in Bitinia, che favorì la sua vocazione monastica.
Durante il suo periodo in Bitinia l’indole polemica di Teodoro ebbe modo di
esprimersi: egli espresse il suo dissenso per la scelta di Costantino VI di
ripudiare la moglie e sposare una sua dama di corte.
Lasciata la Bitinia e ritornato nella capitale, Teodoro entrò nel monastero di
Studios, che grazie alla sua opera divenne il fulcro dell’ortodossia e, nei
secoli IX e X d.C., il principale centro di diffusione di cultura di tutto
l’Impero.
Quando sotto Leone V l’Armeno riaprì la lotta iconoclasta Toedoro tornò a
guidare il filone ortodosso con un’intransigenza che gli costò l’esilio nell’isola
dei Principi, dove morì nell’826 d.C.
LE OPERE

Il testo più importante di Teodoro è senza dubbio l’Epistolario, composto da


550 lettere che rappresentano, oltre che un importante documento storico,
anche un monumento stilistico dell’epistolografia bizantina.
Tra le sue altre opere si ricordano la Grande e la Piccola Catechesi, che
riguardavano l’istruzione dei monaci e i loro doveri.
Teodoro come poeta guidò la rifioritura del contacio e scrisse una raccolta di
124 Epigrammi, notevoli per metro e contenuto.
Teodoro, che nelle sue poesie prende a modello Giorgio di Pisidia, predilige
due temi: la descrizione della vita conventuale e la poesia sepolcrale.
Egli decide di dedicare attenzione proprio alle figure minori della vita
convenutale.

- Al dormitorio (in trimetri giambici dagli Epigrammi): celebrando il luogo di


riposo dei monaci, Teodoro prega per un sonno lieve; ‘’da’ anche a me, Cristo
mio, Verbo di Dio,/ lieve il sonno, dolce e dal rapido corso’’ (vv. 3-4).

- Ai calzolai (in trimetri giambici dagli Epigrammi): Teodoro paragona il lavoro


dei più umili dei monaci, i calzolai, a quello di San Paolo.
‘’Ottima è l’arte del calzolaio./ È simile a quella di Paolo, l’apostolo sommo’’ (vv. 1-2).

- A se’ stesso: Teodoro esorta la propria anima ad amare Dio, sperando di


poterlo incontrare.
‘’Ma se c’è un Dio, un principio che salva,/ rivolgiamoci a lui e cerchiamolo col
desiderio,/ per presentarci in totale franchezza/ dinanzi al Giudice e al Signore di
tutti’’ (vv. 7-10).

- Per la sposa di Leone: epitafio composto da Teodoro per una certa Anna, sposa
di Leone.
‘’Perciò anch’ella coltiva la speranza/ di correre un giorno al cielo, da Cristo stesso,/
quando Lui tutti gli uomini verrà a giudicare’’ (vv.6-8).

23. MICHELE SINCELLO

Nato a Gerusaleme , Michele (760-846 d.C.) fu monaco a San Saba , dove fu


anche presbitero e infine ‘’sincello’’ (da cui il nome ‘’Michele Sincello’’).
Secondo una notizia biografica dubbia egli venne inviato a Roma per
discutere con papa Leone III (795-816 d.C.) di questioni dogmatiche.
Ritornato a Gerusalemme nell’812 o nell’813 d.C., venne esiliato da Leone V a
causa della sua adesione al partito iconodulo.

LE OPERE

Nel panorama del ‘’secondo iconoclasmo’’ (815-843 d.C.) Michele fu uno dei
personaggi che contribuì alla vivacità culturale.
Egli scrisse un Manuale di Sintassi, dedicato alle regole di costruzione della
frase, ma si dedicò anche alla poesia.

- Per la restaurazione delle venerande e sacre immagini: questa anacreontea (verso


chiamato anche dimetro giambico catalettico) viene scritta in occasione della
restaurazione del culto delle immagini nell’843 d.C.
Si tratta do un testo breve, che presenta un ricco panorama di echi polemici
oltre che spunti dottrinali.
Oltre a ribadire la liceità del culto delle immagini, egli spiega che ritrarre
scene sacre era una cosa valida fin dalle origini della Chiesa.
Nel testo è contenuto anche un attacco ad un avversario iconoclasta, forse il
deposto patriarca Giovanni il Grammatico (VIII-IX secolo d.C.): ‘’Stia
lontano dalla gloria degli uomini pii/ il chiacchierone che ha l’infamia degli infedeli’’
(vv. 79-80).
‘’O Cristo, vedendo nelle icone i tuoi discepoli,/ sono pieno di gioia e moltissimo li
venero’’ (vv. 59-60).

24. L’EPIGRAMMA FRA IL IX E IL X SECOLO

Tra la metà del IX secolo e l’inizio del X secolo d.C. si produsse a Bisanzio un
movimento di rinascita culturale definito ‘’Umanesimo bizantino’’.
In poesia questa rifioritura significò nuovo impulso per il genere
epigrammatico, caratterizzato da una ripresa di moduli classici e dal
confronto con i grandi modelli tardoantichi come Gregorio di Nazianzio,
inventore della poesia cristiana in versi profani.
Leone il Filosofo (790-869 d.C.), ritenuto da Paul Speck ‘’l’uomo più colto del
suo secolo’’, fu un intellettuale versato nelle scienze astratte e in quelle
applicative.
A lui il Cesare Bardas (816-866 d.C.) affidò il compito di riorganizzare la
cosiddetta Università di Costantinopoli (la sede era la sala della Magnaura,
un grande edificio vicino al palazzo imperiale), di cui fu anche nominato
rettore.
I suoi epigrammi sono raccolti nell’Antologia Greca, ma di suo ci è pervenuto
anche un poemetto satirico contro un medico incapace.
Cometa (VIII-IX secolo d.C.) fu il titolare della cattedra di grammatica
all’Università della Magnaura; da alcuni suoi epigrammi sappiamo che curò
una traslitterazione in minuscolo dell’Iliade e dell’Odissea.
Anastasio Balbo (identificabile con Anastasi Questore, IX-X secolo d.C.) è un
personaggio di cui sappiamo molto poco, se non che ottenne la carica di
questore a Costantinopoli nel 907 d.C.
Costantino Siculo (IX secolo d.C.) è un autore di anacreontiche vissuto al
tempo di Leone il Filosofo.
Con lui disputò Teofane, talvolta identificato con il Santo (758-818 d.C.)
autore di una Cronaca, o con l’innografo morto nell’845 d.C.
Gli epigrammi di questi autori sono inclusi nel XV libro dell’Antologia Greca,
che ospita una silloge di epigrammisti del IX-X secolo d.C.
Questi si rifanno allo stile di Gregorio di Nazianzio sia a quello di Nonno di
Panopoli (di quest’ultimo in particolar modo la Parafrasi).
Questi autori hanno duplice obiettivo: rifarsi al registro espressivo degli
antichi poeti classici, ma avere come materia dei contenuti cristiani.
A citazioni esplicite di modelli pagani, seguono addirittura delle evidenti
riprese della lingua omerica.
Risulta dunque evidente la volontà di recuperare la tradizione classica.

- Leone il Filosofo, Per il libro di Leucippe (AP IX 203): l’autore presenta in


maniera positiva il romanzo di Achille Tazio Leucippe e Clitofonte.
‘’Amore amaro, casta invece la vita,/ come dimostra il racconto su Clitofonte’’ (vv. 1-
2).

- Leone il Filosofo (AP XV 12): epigramma autobiografico in cui Leone cerca


di reinterpretare la sua vicenda alla luce della filosofia (cita Epicuro) e del
destino (richiama la storia di Ulisse).
‘’Un favore, Fortuna, mi hai fatto, poiché provvedi a me/con la tranquillità dolcissima
di Epicuro, e con la quiete mi allieti’’ (vv. 1-2).

- Cometa (AP XV 38): epigramma utile perché ci informa del suo lavoro
sull’Iliade e l’Odissea.
‘’Quando io, Cometa, trovai i libri di Omero/ corrotti e privi di interpunzione,/ li
restaurai interpungendoli con arte’’ (vv. 1-3).

- Cometa, La resurrezione di Lazzaro (AP XV 40): uno degli epigrammi più


scorretti metricamente della letteratura greca, ma anche un apri-strada nel
filone di imitatori della Parafrasi di Nonno di Panopoli.
‘’Lazzaro, a noi caro, non lasciò la luce del sole, anche se da quattro giorni lo ricopre
terra infinita’’ (vv. 4-5).

- Costantino Siculo (AP XV 13): una cattedra prende voce e ordina ai dilettanti
di stare lontano dalla poesia (la Musa).
‘’Siedi se sei davvero un sapiente; ma se la Musa/ l’hai sfiorata appena col dito, va
via, indotto!’’ (vv. 1-2).

- Teofane (AP XV 14): l’autore risponde a Costantino Siculo invitando la


cattedra del primo ad avere più umiltà.
‘’E qual sarebbe, spocchiosa, il segno distinto/ per cui tu ami i sapienti e respingi
quanti sono ignoranti?’’ (vv. 1-2).

- Anonimo (attribuito a Leone il Filosofo): l’epigramma loda le Categorie di


Aristotele.
‘’Io diffondo la parola che annuncia le tue Categorie,/ o Aristotele, vanto di sapienti
discorsi’’ (vv. 7-8).

25. CASSIA

Cassia (810-865 d.C.) rappresenta un caso realmente eccezionale nella storia


della letteratura bizantina.
Descritta come giovane di straordinaria bellezza e sapienza, Cassia partecipò
ad un concorso di bellezza che avrebbe eletto la moglie dell’imperatore
Teofilo (829-842 d.C.).
L’imperatore ebbe una discussione sarcastica con la giovane, che alla fine non
venne scelta: le venne preferita Teodora, altrettanto bella ma meno brillante.
Cassia decise allora di farsi monaca, dedicando il resto della sua vita alla
poesia e alla letteratura.
Essa viene nominata tra l’altro in tre lettere di Teodoro Studita, in cui si dice
che essa era figlia di un cortigiano, che aveva ricevuto un’ottima educazione e
che nutriva simpatie iconodule.

LE OPERE

Tra le composizioni di Cassia spiccano quelle dedicate alla liturgia, come


l’Idomelo della peccatrice.
Le vengono attribuite anche il carme Parallelo fra l’Impero Romano e l’Impero di
Cristo, in cui sono posti a confronto Augusto (che ha fatto venir meno la
pluralità di imperi) e Cristo (che ha sconfitto il politeismo).
Cassia scrisse anche una raccolta di Epigrammi e alcune sentenze morali.

- Idomelo della peccatrice: in questo tropario (un inno breve tipico della liturgia
bizantina) Cassia riprende l’argomento che Romano il Melodo aveva trattato
nel suo decimo contacio.
Se Romano rende impossibile al lettore provare empatia per la peccatrice, al
contrario Cassia identifica la peccatrice a Maria Maddalena.
‘’La moltitudine dei miei peccati e l’abisso dei tuoi giudizi/ chi saprà ripercorrere, o
Redentore di anime, mio salvatore?/ Non disprezzare me, la tua serva, Tu che
possiedi immensa misericordia’’ (vv. 16-18).

- Epigramma II: forse un commento di Cassia alla propria vicenda.


Lo ‘’sciocco giovane’’ di cui si parla è forse proprio l’imperatore Teofilo.
‘’Terribile che uno sciocco consegua qualche conoscenza:/ ma il peggior disastro è che
abbia anche un’opinione;/ se poi lo sciocco è giovane e governa,/ ah! Davvero, che
guaio, ahimè, mio Dio, che guaio’’ (vv. 1-4).

26. CRISTOFORO PROTASECRETIS

Ogni tentativo di identificare Cristoforo (IX secolo d.C.) sono risultati inutili,
sappiamo solo che egli fu ‘’protasecretis’’, ovvero capo della cancelleria
imperiale.
Egli è autore di due anacreontiche contenute nel codice Vaticano Barberiniano
310, le quali alludono alla conversione forzata degli Ebrei voluta
dall’imperatore Basilio I (867-887 d.C.).
Il tema è davvero molto interessante, perché sono rarissime le occasioni in cui
il potere bizantino attuò delle politiche antisemite: solo al tempo di Eraclio,
di Leone III e di Basilio I si attuarono vere e proprie persecuzioni (nonostante
il Secondo Concilio di Nicea del 787 d.C. avesse proibito le conversioni
forzate).

- Esortazione ai Giudei: il testo di Cristoforo è un esortazione agli Ebrei affinché


si convertano, accettando Cristo come vero Messia e figlio di Dio, così come
era stato annunciato dai profeti nell’Antico Testamento.
‘’La parola del profeta/ s’è compiuta chiaramente,/ e Sion fu costruita/ con pietre
incomparabili’’ (vv. 13-16).

27. ARETA

Nato a Patrasso e in seguito divenuto arcivescovo di Cesarea in Cappadocia,


Areta (860-935 d.C.) fu una delle figure chiave della generazione successiva a
quella di Fozio (810-897 d.C.), di cui sarebbe stato allievo.
Bibliofilo ed ricercatore di antichi manoscritti, fu lui a riscoprire i Pensieri di
Marco Aurelio.
A lui sono attribuiti commenti a diversi autori dell’Antichità, come Pausania
ed Elio Aristide (ma anche Luciano, Marco Aurelio, Platone, Eusebio).

LE OPERE

Come la maggior parte dei suoi contemporanei Areta scrisse principalmente


in prosa, anche se ci sono pervenuti dei suoi componimenti poetici, 5
epigrammi per essere più precisi.
I tre epigrammi attribuitigli contenuti nell’Antologia Palatina (libro XV, 32, 33,
34): il primo è composto in onore della defunta sorella Anna, il secondo per la
monarca Febronia, il terzo dedicato all’opera di Euclide.
Un altro epigramma, adespoto , è presente sempre nell’Antologia Palatina (XV,
23) ed è dedicato ai Pensieri di Marco Aurelio.
Il linguaggio di Areta è caratterizzato da neologismi e vocaboli ricercati,
termini votati ad uno sfoggio di erudizione grammaticale.

- Epigrammi, AP XV 23: il testo è dedicato alla ritrovata opera di Marco


Aurelio, che viene lodata dicendo ‘’Se l’afflizione vincere vuoi,/ apri questo libro
beato/ e scorrilo attentamente’’ (vv. 1-3).

- Epigrammi, AP XV 33: si tratta di un epigramma funerario per la sorella


Anna, lodata per la sua ‘’φιλανδρια’’, virtù principale della moglie cristiana.
‘’Di luce i miei elogi sinceri per quella degna monogama:/ la tomba di Anna non
cancellerà tutto questo’’ (vv. 9-10).

- In Euclidem, AP XV 23: viene qui lodata l’opera di Euclide.


‘’Euclide l’acuto suo pensiero con eterni disegni/ disvelava esattamente ai mortali e
tutto/ quanto la natura fiorente meditò che esistesse’’ (vv. 1-3).

28. COSTANTINO RODIO

Nativo di Lindo, nell’isola di Rodi, Costantino Rodio (IX-X secolo d.C.) visse
sotto il regno di Leone VI (886-912 d.C.) e di Costantino VII Porfirogenito
(913-959 d.C.).
Durante il regno di quest’ultimo compose la sua Descrizione della Chiesa dei
Santi Apostoli, un testo di 981 dodecasillabi che si riallaccia al filone tardo-
antico del genere ecfrastico.
Si tratta di un’opera molto interessante sia dal punto di vista stilistico-
letterario sia da quello storico-archeologico.
Vengono infatti descritte le ‘’sette meraviglie di Costantinopoli’’, argomento
che si rifà alla descrizione delle sette meraviglie di Roma, che a sua volta si
rifaceva al più celebre epigramma di Antipatro di Sidonia (170-100 d.C.)
sulle sette meraviglie del mondo.
Di Costantino possediamo anche tre epigrammi contenuti nel libro XV
dell’Antologia Palatina, un’invettiva contro Leone Cheresfatta in 34 giambi
composti in stile aristofanesco.
Sembra inoltre che egli abbia partecipato attivamente alla realizzazione
dell’Antologia Greca.
- Le colonne gemelle, Descrizione delle opere d’arte e della Chiesa dei Santissimi
Apostoli a Costantinopoli, vv. 202-254: l’ultima parte del lunghissimo proemio
dell’opera (ben 254 versi) Costantino ricorda la sesta e la settima meraviglia
della città: le colonne gemelle di Teodosio e Arcadio (395-408 d.C.).
Il confronto tra quanto dice il poeta e la realtà storico-architettonica risulta
però impietoso, sopratutto se si pensa che i due monumenti (ammiratissimi
anche dai visitatori stranieri) vengono entrambi erroneamente attribuiti ad
Arcadio.
La ‘’colonna del Tauro, splendida anch’essa,/ che l’inclito Arcadio un tempo elevò’’
(vv. 202-203) fu in realtà costruita da Teodosio I il Grande (379-395 d.C.) nel
386 d.C.
I ‘’barbari Sciiti’’ (v. 209) la cui sconfitta è descritta nei rilievi della colonna non
sono altro che i Grutungi, una popolazione gotica sconfitta da Teodosio nel
386 d.C.
Lo ‘’Xeropholos’’ (v. 242) è il nome della colonna di Arcadio (Costantino gliela
attribuisce giustamente stavolta), costruita tra il 403 e il 421 d.C. per celebrare
la vittoria dell’imperatore sul generale ribelle Gainas.

29. LEONE MAGISTRO

Rivale di Costantino Rodio, Leone Magistro (824-919 d.C.) viene solitamente


confuso con Loene il Filosofo.
Il Magistro ricoprì gli incarichi di magistro, proconsole e ambasciatore presso
la corte di Leone VI.
Rimane il dubbio sulla sua effettiva parentela con la quarta moglie di Leone
VI, Zoe Carbonospina (); sicuro è invece che egli fu condannato per alto
tradimento e che finì i suoi giorni come monaco del monastero di Studios.

LE OPERE

Di Leone Magistro restano solo alcuni epigrammi, dei carmi religiosi e delle
anacreontee (genere in cui era molto portato).
La sua anacreontea più celebre è Per le terme fatte costruire nel palazzo imperiale
dall’imperatore Leone, un interessante connubio tra il genere lirico e quello
ecfrastico.
L’argomento è assolutamente originale: i Bizantini , veri eredi della Romanità,
amavano le terme.
Anche Leone VI fece costruire delle terme, non di uso pubblico, bensì un
complesso privato di dimensioni ridotte, a uso proprio e di una ristretta
cerchia di amici e familiari.
Fra le meraviglie presenti nell’edificio spiccano gli automi, oggetti meccanici
in grado, se caricati, di emettere suoni e di compiere dei movimenti.

- Per le terme fatte costruire nel palazzo imperiale dall’imperatore Leone: gli automi
sono detti ‘’πνευματικα’’.
‘’Poi, ai piedi del sovrano,/ tra verdi ramoscelli, si lava/ un uccello dal trillo
melodioso/ cinguettando dolci melodie’’ (vv. 63-66).

30. GIOVANNI GEOMETRA

Giovanni Geometra (935 d-C.-1000) è una figura alquanto sfuggente, in


primo luogo perché gli unici dati biografici che possediamo su di lui
provengono dalla sua stessa opera.
Giovanni parla molto di se’ stesso: dice di aver occupato una posizione di
rilievo alla corte di Niceforo Foca (963-969 d.C.): la sua attività si colloca
dunque nel pieno della cosiddetta ‘’rinascenza macedone’’, un’epoca di
rinnovato prestigio politico e di espansione territoriale, ma anche di
riduzione dell’influenza culturale esercitata dall’Impero.
Rimase attivo fino al 985-986 d.C., quando Basilio II (976-1025) lo esiliò a
causa della sua probabile adesione al partito del reggente Basilio Noto; il
poeta terminò la propria esistenza nel monastero del Kyros.

LE OPERE

Giovanni fu in primo luogo un poeta, del quale ci sono giunti componimenti


in endecasillabi, in esametri e in distici che riprendono lo stile della poesia
epigrammatica antica.
Sembra potervi essere un accordo tra la poesia di Giovanni e l’Antologia
Palatina di cui Costantino Rodio aveva terminato la stesura.
La sua è una poesia fortemente personale, caratterizzata da uno stile ibrido,
a metà tra la classicità e il Cristianesimo.
La forte presenza dell’io-poeta nel lavoro di Giovanni ha fatto sì che
Lauxetrmann paragonasse il suo lavoro a quello di Archiloco (680-645 d.C.),
anche se si devono sottolineare gli elementi di novità che caratterizzano il
lavoro del poeta bizantino.

- A suo padre: testo caratterizzato da sobrietà e eleganza di forma.


‘’Ma lontano dalla patria, dalla sposa e dai figli/ il destino funesto per gli uomini ti
ha trascinato nell’Ade’’ (vv. 3-4).

- La cosa più bella: un’imitazione di un noto passo di Saffo (630-570 d.C.),


ripreso in chiave cristiana anche da Gregorio di Nazianzo.
‘’Per alcuni la sposa, i figli, gli amici, un trono elevato,/ sono il piacere della vita……
Ma per me è l’unico Dio, Sole, ricchezza infinita,/ salda speranza, gioia totale di vita’’
(vv. 1-2, 5-6).

- A se’ stesso: anche qui vi è un chiaro riferimento a Gregorio di Nazianzo.


‘’Misera anima, quanto hai sofferto!’’ (v. 1).

- Per un eunuco dissoluto: un epigramma caratterizzato da icasticità.


‘’Qui nasconde la terra la sua testa immonda,/ maschile e femminile, infine neutra’’
(vv. 1-2).

- Per la prostituta: epigramma che richiama un passo del Vangelo di Giovanni,


in cui la peccatrice onora Gesù lavandogli i piedi.
‘’La saggia prostituta onora col profumo il Profumo!’’ (v.1).

- Epitafio per Niceforo Foca: un tradizionale epigramma funerario, che ricorda


le vittorie dell’imperatore sui nemici (chiamati con termini anacronistici,
‘’Assiri’’/’’Sciiti’’/’’Fenici’’; si veda Mango, ‘’Byzantine Literature as a Distorting
Mirror’’), arricchito però da considerazioni sulla debolezza umana.
‘’C’era la città, c’era l’esercito, c’era anche un duplice muro all’interno,/ ma
veramente nulla è più debole degli uomini’’ (vv. 11-12).

31. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

Simeone (949/950 d.C.-1022) nacque in Paflagonia da una famiglia nobile , ma


in seguito si trasferì presso uno zio nella capitale, dove occupò il ruolo di
‘’spatariocubiculario’’ (funzionario della corte imperiale).
Per motivi poco chiari, forse perché sopraffatto dall’esigenza di una vita
contemplativa, Simeone lasciò ogni incarico ed entrò nel monastero di
Studios, dove conobbe Simeone Studita, che divenne il suo mentore.
Entrato in contrasto con l’abate di Studios, Simeone si trasferì nel monastero
di San Mamas (sempre a Bisanzio), dove rimase vent’anni divenendo in
seguito abate.
Alla morte del maestro, Simeone gli tributò onori ritenuti eccessivi dalla
gerarchia ecclesiastica: il sincello del patriarca Gregorio II riuscì così a far
esiliare Simeone a Crisopoli sul Bosforo.
Qui egli fondò un nuovo monastero, che governò con un tale afflato mistico
da fargli attribuire l’appellativo di ‘’Nuovo Teologo’’, per distinguerlo da
Gregorio di Nazianzo, il ‘’teologo’’ per antonomasia.

LE OPERE

L’opera di Simeone è molto vasta: da un’annotazione contenuta nel


manoscritto Mosquensis 417 sappiamo che egli scrisse numerosi testi in prosa
di argomento etico.
Egli scrisse anche 58 Inni in metri vari, anche se senza dubbio predilesse il
dodecasillabo.

- Inno IV: come un vero mistico illuminato da Dio, Simeone riflette in maniera
limpida sulla vanità delle cose del mondo.
Per Simeone vincere le seduzioni del mondo significa essere consapevoli che
quella con la vanità è una lotta quotidiana: solo conducendo una vita retta,
basata sul rifiuto del peccato, Dio si mostrerà all’uomo.
‘’Non badare a null’altro al di fuori di questo;/ persino il tuo corpo consideralo come
un estraneo/ e, come un condannato, tieni in basso la sguardo’’ (vv. 6-8).

32. TEODOSIO DIACONO

Di Teodosio (X secolo d.C.) sappiamo solo che fu diacono della Chiesa di


Costantinopoli , e che compose un poema dedicato alla conquista di Creta
(960-961 d.C.) intitolato Αλωσις της Κρητης (De Creta Capta in latino).
Niceforo morì prima che il poema potesse essere pubblicato, cosa di cui il
poeta da notizia attraverso l’epistola dedicatoria che apre il poema.

LE OPERE

Il De Creta Capta è un’opera di 1039 endecasillabi, utile in primo luogo come


fonte storica in quanto fa luce su alcuni momenti decisivi dell’importante
spedizione condotta dall’allora generale Niceforo Foca per riconquistare
Creta.
L’isola era stata catturata nell’825-826 d.C. dagli Arabi, che la difesero con
successo dai tentativi dei Bizantini di riconquistarla (nel 912 d.C. l’intera
flotta imperiale fu distrutta, nel 949 d.C. l’esercito, appena sbarcato, venne
distrutta).
Niceforo si distinse nella sua campagna di riconquista per la sua abilità, ma
anche per la sua spietatezza, che viene ricordata anche da Teodosio (si pensi
a quando ordinò di decapitare 250 uomini e di impalarne le teste per
scatenare una sortita del nemico).
Niceforo cercò anche di far martirizzare i soldati morti, ma la Chiesa
bizantina si oppose nettamente alla proposta, continuando a preferire l’ideale
del ‘’vincere senza uccidere’’.

- Gli orrori della guerra, De Creta Capta vv. 307-401: il tono che accompagna la
narrazione di Teodosio è senza dubbio l’accuratezza nei vocaboli militari.
‘’Niceforo mosse gli arieti e le testuggini,/ le catapulte che scagliano massi e le
composizioni tremende/ di scale non connesse contro di loro’’ (vv. 325-327).

33. CRISTOFORO DI MITILENE

Ritenuto il miglior poeta bizantino dell’XI secolo, su Cristoforo di Mitilene


(XI secolo d.C., il suo soprannome è dovuto forse alla sua famiglia di origene)
non possediamo praticamente nulla; nella sua opera si definisce ‘’segretario
dell’imperatore’’.
La sua attività va collocata tra i 1034 e il periodo di attività di Costantino IX
Monomaco (1042-1055).
LE OPERE

Cristoforo compose quattro calendari metrici, di cui due in metri classici, e


una raccolta di 145 carmi intitolata Στιχοι Διαφοροι, ribattezzata Canzoniere.
Il Canzoniere comprende carmi brevissimi, epigrammi, monodie, epitimbi e
anche epigrammi scoptici e satirici.
Il testo è suddiviso in tre parti: i carmi (1-52) della prima sono scritti fino alla
deposizione di Michele V Calafato nel 1042; quelli della seconda (53-95) sono
invece composti durante il regno del Monomaco; quelli della terza (96-145)
hanno datazione incerta.
Ciò che caratterizza il lavoro di Giovanni è la varietà metrica (anche se a
dominare è il dodecasillabo), ma anche la notevole consapevolezza e l’abilità
nell’arte retorica (si dimostra anche un buon conoscitore della lingua antica).

- La festa di San Tommaso: il componimento riprende un fatto di cronaca


mondana, una rissa avvenuta nel corso della festa di San Tommaso.
‘’Un gran macello, non un giorno di festa:/ correvano tutti fra i colonnati,/ correvano
tutti fra le navate,/ cercavano un angolo per rifugiarsi/ dalle tante botte – erano
picchiati a gran forza –/ ed erano anche colpiti per la novità’’ (vv. 5-10).

- A Salomone Cartulario (carme 2): viene preso di mira un certo Salomone, che
a dispetto del nome può vantare ben poca saggezza.
‘’Coraggio Salomone, nel giudizio tu l’avrai:/ sei meno saggio dei neonati e dei
bambini’’ (vv. 4-5).

- Al mendicante Leone (carme 29): viene qui ridicolizzato un tale Leone, la cui
vita di povertà lo fa assomigliare, senza volerlo, ad un apostolo.
‘’Una vita da apostolo vivi, Leone, senza volerlo!’’ (v. 3).

- A Lazzaro (carme 80): viene qui lodato Lazzaro, perché mantenne il segreto
sui misteri dell’oltretomba.
‘’Fu un ringraziamento per la grazia della resurrezione,/ il non dir nulla, nulla
davvero di quanto è laggiù’’ (vv. 5-6).

- Al monaco Andrea (carme 114): con l’acutezza del miglior Luciano (120-
180/192 d.C.) Cristoforo prende in giro un collezionista di improbabili
reliquie.
‘’Tu dici, o venerabile, di avere sessanta denti,/- una vera scemenza- di Tecla la proto-
martire/ e del Sommo Precursore le chiome canute’’ (vv. 30-32).

- La bilancia: un enigma, genere che fiorì a Bisanzio al tempo di Cristoforo.


‘’Sei sono le mie gambe, anche se i piedi sono due’’ (v.2).

- La neve: un enigma.
‘’Se pure mi stringi in mezzo alla mano,/ io fuggirò lasciandola vuota’’ (v. 4).

- Le ore dell’orologio:

34. GIOVANNI MAVROPODE

Giovanni Mavropode (1000-?) è unanimemente considerato una delle tre


corone della poesia bizantina, assieme a Giovanni Geometra e Cristoforo di
Mitilene, del periodo precomneno.
Nato a Claudiopoli in Paflagonia intorno all’anno 1000, Giovanni visse gran
parte della sua vita nella capitale, dove si guadagnò la reputazione di valido
insegnante; Michele Psello fu suo allievo.
Ricevette anche numerosi incarichi prestigiosi: Costantino IX Monomaco lo
incaricò di riorganizzare l’Università di Costantinopoli.
Intorno al 1045 egli però cadde in disgrazia per motivi non noti: nel 1048 fu
costretto ad accettare la carica di metropolita di Eucaita, presso Amasea nel
Ponto.
Grazie ad alcune testimonianze, come un encomio tributatogli da Psello,
sappiamo che nel 1075 tornò nella capitale, dove visse il resto della sua vita in
monastero.

LE OPERE

L’opera più importante di Giovanni è la sua raccolta di 99 poesie, di vario


argomento e in dodecasillabi, conservata nel Vaticano Greco 676, una copia
della raccolta molto vicina ai tempi dell’autore e quindi molto probabilmente
rispondente alla sua diretta volontà.
Giovanni compose anche 150 canoni religiosi, molti ancora inediti; tenne un
epistolario e scrisse un lessico etimologico in dodecasillabi.
Nelle sue opere Mavropode parlò molto di se’, ma in maniera meno ironica e
burlona rispetto a Cristoforo di Mitilene.
L’altro elemento che contraddistingue i lavori di Giovanni è senza dubbio la
profonda fede religiosa.

- Per Platone e Plutarco (Carmi, 43): Giovanni chiede qui a Cristo che salvi
dall’Inferno le anime di due pagani, Platone (428/427-348/347 d.C.) e Plutarco
(46/48-125/127 d.C.), affinché anche essi possano così godere della Salvezza.
‘’Se non seppero che tu sei il Dio di tutti,/ c’è solo bisogno della tua magnanimità,/
con cui gratuitamente tutti vuoi salvare’’ (vv. 6-8).

- Per se’ stesso, a Cristo (Carme, 89): il poeta, commosso, ringrazia Dio per
avergli concesso una vita lunga e felice.
‘’Portami, conducimi, mio Verbo,/ saldo, inconcusso e senza turbamento,/ restando
dentro nei limiti fissati’’ (vv. 29-31).

- Quando cessai di scrivere la Cronografia: Giovanni racconta di aver interrotto la


stesura di un’opera storica per timore che questa venisse inquinata da
qualche encomio imposto dall’etichetta.
‘’La sfrenatezza degli applausi non conosce sazietà./Ma si lasci tutto questo agli
encomi,/ la storia non si spinga più innanzi’’ (vv. 6-8).

- Per i libri corretti: vengono qui ricordate le fatiche nel copiare ed emendare i
libri e si invoca la preghiera a Dio come rimedio.
‘’Ai libri io ho reso un buon servizio….Ho risanato le malattie di quelli/ ma io sto
male e perso la salute’’ (vv. 1, 3-4).

35. MICHELE PSELLO

Costantino Psello (1018-1078/1081/1097), divenuto Michele una volta entrato


in monastero, nacque a Costantinopoli nel 1018 da una nobile originaria
famiglia della Bitinia, decaduta per qualche motivo.
Si dedicò agli studi fin dalla gioventù, dimostrando di possedere una
memoria eccezionale (pare sapesse recitare l’intera Iliade).
Ebbe notevoli maestri, tra cui Niceta di Bisanzio per la retorica e Giovanni
Mavropode per la filosofia.
La prima fase della sua vita fu caratterizzata da una folgorante ascesa
sociale, che non venne in alcun modo ostacolata dal succedersi di imperatori
e di potenti.
Fu segretario di Michele V Calafato (1041-1042), poi fu protasecretis e ‘’console
dei filosofi’’ sotto Costantino IX Monomaco; fu invece costretto ad indossare
l’abito monacale (1055) al tempo di Isacco I Comneno (1057-1059), quando in
teoria fu anche obbligato ad andare a vivere in Bitinia.
In realtà egli rimase nella capitale, dove lo troviamo anche al tempo di
Costantino X Ducas (1059-1067); venne anche nominato ministro da Michele
VII Duca Parapinace (), che in gioventù era stato suo allievo.
Di lui si perdono tracce dopo il 1078: alcuni ipotizzano che sia morto proprio
in quell’anno, altri che sopravvisse fino al 1081 o al 1097.

LE OPERE

Ciò che caratterizza la personalità di Psello è senza dubbio la sua inesausta


curiosità: scrisse e lesse moltissimo su ogni argomenti dello scibile filosofico e
umanistico.
Il nucleo principale delle sue opere investe in primo luogo la sua attività di
professore di filosofia (restano numerosi commenti e interpretazioni dedicati
ad Aristotele, Platone e Porfirio), anche se non si può sorvolare sul suo
immenso epistolario, che comprende oltre 500 lettere.
L’opera più celebre è invece la Cronografia, che narra, offrendo il punto di
vista della corte, gli avvenimenti principali del periodo in cui visse: tra il
regno di Basilio II (976-1025) e quello di Michele VII (1071-1078).
Un altro lavoro molto celebre è il De operatione daemonum (L’attività dei
demoni), che ebbe grande fortuna in Occidente nel corso dell’attività
umanistica.
Psello si cimentò anche nella poesia, riuscendo ad eccellere soprattutto
nell’invettiva giambica, mezzo con il quale attaccò diversi rivali, ma
soprattutto il monaco Sabbaita e il monaco Iacopo, che aveva accusato Psello
di aver abbandonato il monastero a causa dell’assenza di donne.

- Contro un monaco Sabbaita (Carmi, 21): l’attacco che questo anonimo monaco
del convento di San Saba (presso Gerusalemme) fece a Psello, viene rievocato
da quest’ultimo anche in una sua lettera a Giovanni Mavropode.
Per vendicarsi di questo affronto Psello scrive una lunga invettiva in cui va a
prendere di mira i difetti del rivale, accusato di possedere una natura
perversa (‘’Tu che per natura sei un ibrido di contrari’’, v. 9), di essere l’opposto
dei grandi personaggi dell’Antico Testamento.
Nella conclusione si nasconde però l’attacco più duro: il sabbaita, proprio
come Tersite nell’Iliade, deve essere grato a Psello, perché con la sua invettiva
gli ha garantito una sgradita e imperitura fama.
‘’E tu potresti vantarti ed essere colmo d’orgoglio,/ poiché nei miei giambi sei messo
in ridicolo:/ anche Tersite, infatti, se mai fosse esistito,/ non avrebbe disdegnato
Calliope/ che in versi lo mise melodiosamente in ridicolo,/ ma avrebbe amato
moltissimo quella commedia’’ (vv. 316-321).

36. CHRISTUS PATIENS

Nonostante la paternità e la datazione del Christus Patiens restano incerte, la


maggior parte della critica sostiene che l’opera debba essere collocata tra l’XI
e il XII secolo.
Vi sono però anche delle opinioni differenti: secondo André Tuilier l’opera va
attribuita a Gregorio di Nazianzio; Antonio Garzya ha sostenuto, su base
paleografica, che vada datato tra il IV e il V secolo d.C.; più recentemente
Erica Follieri ha sostenuto che sia posteriore all’VIII-IX secolo d.C.
Il Christus Patiens, composto da 2602 versi (per la maggior parte trimetri
giambici), rappresenta una delle poche testimonianze della letteratura
teatrale bizantina.
Nonostante i Bizantini non concepirono mai il teatro come spettacolo, essi
continuarono a leggere e a studiare le tragedie e le commedie della classicità,
con le quali il Christus Patiens si mette coraggiosamente in continuità.
Per questo motivo l’autore ha fatto confluire nel testo molti versi presi da
opere della classicità, cosa che è di notevole interesse per i filologi, che lo
hanno ritenuto una fonte indiretta per il finale, mutilo, delle Baccanti di
Euripide.

- Il prologo e l’arresto di Cristo, vv. 1-30 e 148-187: la vicenda della Passione non
è certo priva di fascino tragico: narra della virile accettazione di un fato sovra-
umano.
Nonostante il materiale però, l’opera non può certo definirsi un capolavoro, e
questo a causa della presenza di interi passi presi dai grandi capolavori della
tragedia classica, proprio quell’aggiunta che il compositore aveva senza
dubbio considerato come la parte privilegiata del suo lavoro.

1) Argomento del dramma: l’autore introduce la materia della tragedia, che il


lettore sentirà ‘’alla maniera di Euripide’’ (v. 3).

2) L’ultima cena e l’arresto di Cristo: un messo racconta a Maria del discorso che
Gesù rivolse a Dio nell’orto del Getsemani.
‘’E Dio Padre di nuovo parlò con voce umana,/ svelando la gloria di Cristo con un
grido che percorse il cielo:/ <<Già prima ti ho glorificato, ora ti glorificherò ancora di
più>>’’ (vv. 170-172).

37. NICOLA CALLICLE

Stando a quanto dice Teodoro Prodromo, Nicola Callicle (fine del XI secolo-
metà del XII secolo) fu un medico e un professore di medicina, attivo nella
capitale, che ebbe tra i suoi pazienti anche personaggi di altissimo livello
della corte.
Il più illustre dei suoi pazienti fu senza dubbio l’imperatore Alessio I
Comneno (1081-1118), morto a causa di un’incurabile malattia di natura
polmonare.
I carmi di Nicola, in totale 31 o 32 componimenti, forniscono interessanti
informazioni sui rapporti di amicizia che egli intrattenne con la famiglia dei
Paleologi.
Secondo alcuni egli compose anche il Timarone, un dialogo pseudo-lucianeo
in cui si racconta il viaggio del protagonista nell’Ade.
Le sue composizioni non sono caratterizzate da originalità, ma da brevità e
raffinatezza formale, e si richiamano ai grandi modelli tardoantichi, in primo
luogo Gregorio di Nazianzio.

- Carmi, X: con tono realmente commosso, viene qui ricordata la prematura


morte di Andronico Paleologo.
‘’Tu ragazzo, hai occupato per primo la tomba destinata ai genitori,/ come possesso
paterno e grande eredità’’ (vv. 6-7).

- Carmi, XXIII: nel carme, intitolato ‘’Per l’immagine di Cristo Salvatore ornata da
Anna Duca, il poeta attua un climax che lo porta dalla descrizione di
un’immagine alla contemplazione del mistero di Cristo.
‘’Ma, o Signore, proteggi me Anna e Alessio/ Paleologo, mio sposo,/ me Comnena,
pansebastos della stirpe dei Duca’’ (vv. 10-12).

38. GIOVANNI TZETZE

Nato a Costantinopoli da una famiglia agiata, Giovanni Tzetze (1110-


1180/1185) svolse la professione di insegnante e grazie alla sua notevolissima
erudizione riuscì anche ad entrare in contatto con i membri della corte
imperiale.
Egli godette della protezione della sebastocratorissa Irene, moglie del fratello di
Manuele I Comneno (1143-1180), e animò il circolo letterario da lei fondato.
La quantità delle opere che ci ha lasciato ci spinge a credere che egli abbia
avuto un’esistenza tranquilla e serena, dedita solo alla letteratura e
all’insegnamento.

LE OPERE

Tzetze fu il letterato più prolifico del suo tempo.


Nella sua produzione spicca l’attività come editore e commentatore di testi
antichi (di Omero, Esiodo, Eschilo, Aristofane e altri): dai suoi scolii possiamo
constatare la grande dottrina che possedeva.
Il grande numero di opere composte ha fatto sì che la critica muovesse a
Tzetze l’accusa di essere spesso mancante di genuina ispirazione.
Tra i lavori poetici vanno sicuramente segnalati le Chiliadi, una miscellanea in
versi politici che affronta tematiche filologiche/mitologiche/storiche, e i
Carmina Iliaca, una trilogia di circa mille esametri che prende e varia il
materiale omerico e la tradizione successiva a questo (Quinto Smirneo e
Trifodoro in primo luogo).
Il suo essere professore sopra ogni altre cosa fa sì che la poesia di Tzetze sia
molto lontana dal gusto moderno, che poco apprezza componimenti scritti
più utilizzati più che altro come epitome di nozioni ritenute fondamentali.

- Sulla varietà dei poeti: versi che ci spiegano cosa fosse divenuto a Bisanzio lo
studio della poesia antica.
‘’Del lirico ciclo ecco l’insieme:/ Corinna, Saffo, Bacchilide, Pindaro,/ Anacreonte,
Ibico, Alcmane, Alceo,/ Stesicoro e insieme Simonide,/ nobile decade perfettamente
compiuta’’ (vv. 18-22).

42. TEODORO PRODROMO

Come per molti altri autori, anche per Teodoro Prodromo (1110-1156/1158/
1180) la fonte principale per la biografia risultano essere le sue stesse opere,
in cui parla molto, e spesso eccessivamente bene di se’.
Nato a Costantinopoli da una famiglia agiata, sappiamo che fu allievo di
Stefano Scilitze e di Michele Italico, che lo avviarono agli studi filosofici e
letterari.
Si dedicò poi all’insegnamento (Niceta Eugeniata, che scrisse una toccante
monodia per la sua morte, fu suo allievo), senza però che questo gli
impedisse di avere contatti a corte.
Fu amico della sebastocratorissa Irene, moglie di Andronico Comneno (figlio
secondogenito di Giovanni II Comneno), ed entrò nel suo circolo letterario.
Morì di vaiolo nel 1156/1158 per alcuni, nel 1180 per altri.

LE OPERE

Teodoro fu uno scrittore molto prolifico, che si dedicò a numerosi generi della
prosa e della poesia.
Scrisse dialoghi alla maniera di Luciano (120-180 d.C.), autore che riportò in
auge a Costantinopoli, e anche un romanzo in versi intitolato Rodante e
Dosicle, in nove libri per un totale di 4614 endecasillabi.
Scrisse anche la Catiomiomachia, la Battaglia dei gatti e i topi, che si rifà alla
pseudo-omerica Batracomiomachia.
Scrisse un dialogo filosofico sull’amicizia e anche molte poesie di argomento
religioso, encomiastico e satirico (in esametri e giambi).
Merita un menzione a parte le composizioni satiriche in lingua demotica
intitolate Ptochoprodromica (‘’Composizioni di [Teodoro?] Prodromo il pitocco’’),
in cui il poeta narra della difficoltà dei problemi di tutti i giorni.
Gli epigrammi tetrastici (7a-7b,9a-9b) sulla vita di Gregorio di Nazianzio sono
invece da collocare all’interno di una più vasta controversia religiosa apertasi
nel 1081, al tempo di Alessio I Comneno.
Si erano infatti formate a Costantinopoli delle fazioni che si scontravano sulla
gerarchia dei padri della chiesa: chi sosteneva il primato di Giovanni
Crisostomo, chi quello di Gregorio di Nazianzio e chi quello di Basilio di
Cesarea.
Si sfiorò lo scisma, evitato grazie ad Alessio I, che per mitigare gli animi
incaricò Giovanni Mavropode di istituire una festa in cui i tre fossero
celebrati assieme (il 30 Gennaio).
Nei suoi componimenti Giovanni va a spiegare quanto sciocche siano queste
dispute.

- Epitafio per Teodora, nuora del fortunatissimo Cesare Niceforo Briennio: lo stile
raffinato di Teodoro emerge chiaramente nella composizione funeraria per
Teodora, figlia di Anna Comnena (1083-1153) e Niceforo Briennio.
Nel testo oltre ad Anna, viene ricordata anche Irene Sebastocratorissa, donna
di grande liberalità.
‘’Irene, famosa fra le donne,/ abisso spalancato di elargizioni inesauribili...ancora
dopo di lei ma simile a lei nei costumi/ il vanto dei Doukas, la saggia Anna,/ mente
retta, dimora delle grazie’’ (vv. 38-39, 42-44).

- La presa di Castamone: il breve poemetto scritto per celebrare la conquista di


Castamone (1132) da parte di Giovanni II Comneno (1118-1143) insiste sul
fatto che il sovrano abbia preso la città praticamente senza mietere vittime,
onorando il principio bizantino del ‘’vincere senza uccidere’’.
‘’I nemici dovunque fuggivano; ma tu, prode sovrano del mondo,/ lasci loro la fuga –
ti bastò il loro grande spavento / e giungesti fino all’eccelsa rocca di Castamone’’ (vv.
56-58).

- Sull’amicizia di Gregorio e Basilio (7a-7b): è inutile discutere su chi tra i due


Santi sia più grande, perché essendo amici entrambi cederebbero il primato
all’altro.
‘’Vita comune, identità di spirito, comune anche il respiro,/ parlo di Gregorio e di
Basilio’’ (7a).

- Per Gregorio poeta di versi epici, a causa del divieto di Giuliano che i cristiani
leggessero Omero: si ricorda in questi epigrammi l’editto di Giuliano l’Apostata
che vietava ai Cristiani di insegnare.
‘’Giuliano perché mi vieti i discorsi/ e mi togli la Calliope di Omero’’ (9a).
‘’Cristo è molto più forte delle funeste dee./ Possa io recitare Gregorio: tu nascondimi
pure tutti gli Omeri’’ (9b).

40. COSTANTINO MANASSE

Nato a Costantinopoli, Costantino Manasse (1130-1187) nella fase terminale


della sua vita fu metropolita di Naupatto, dove morì nel 1187.
Egli era stato però anche un diplomatico: nel 1160 venne inviato a
Gerusalemme per prendere parte alle trattative matrimoniali che Manuele I
Comneno aveva avviato con Raimondo conte di Tripoli, di cui voleva sposare
la figlia Melisenda.
Alla fine però il matrimonio saltò perché l’imperatore sposò Maria
d’Antiochia (1145-1182), figlia di Raimondo di Poitiers.
Dalle fonti in nostro possesso possiamo affermare in conclusione che
Costantino fu un letterato professionista che si dedicò all’attività diplomatica
solo occasionalmente.

LE OPERE

L’opera più famosa di Costantino è la sua Cronaca in 6733 versi politici, in cui
racconta la storia del mondo in compendio dalle origini fino alla morte di
Niceforo Botaniate nel 1081.
Egli scrisse anche un romanzo in versi, Aristandro e Callitea, anche se dei nove
libri originali non restano che vasti frammenti.
La sua opera più originale è però l’Hodoiporikòn, un testo unico nella
letteratura bizantina (e greca), paragonabile solo ai Discorsi Sacri di Elio
Aristide.
Nel testo si racconta dell’ambasciata del 1160, ma lo spazio per le descrizioni
dei luoghi è molto scarso, e a prevalere sono l’egocentrismo e l’ipocondria
dell’autore.

- Vita di Oppiano: scritta in versi politici, questo resoconto della vita del poeta
Oppiano di Apamea (III secolo d.C.) ci ribadisce che la poesia era usata a
Bisanzio spesso a scopo didattico.
‘’Oppiano il poeta era cilicio di nascita...nato da genitori illustri, tre volte beati……..
uomo dotato di educazione e saggezza/ la più vasta e la più sublime’’ (vv. 1, 3, 5-6).

- Hodoiporikòn, II 91-152: mentre viaggiava verso la Palestina, Costantino fu


colpito a alcuni malanni, che lo costrinsero a soggiornare a Cipro, una meta
esotica su cui però l’autore si sofferma poco o nulla, preferendo aggiornarci,
con pesanti lamentele, sulla sua precaria condizione fisica.
‘’Vivo nell’ozio, e di speranze mi nutro;/ oppure attendo il movimento delle acque/
come quel paralitico un tempo, per la salute’’ (vv. 109-111).

41. IL ROMANZO BIZANTINO IN VERSI

Il romanzo bizantino in versi è un genere letterario nato e fiorito nel corso


del XII secolo, al tempo del dominio comneno.
Dal punto di vista tematico e strutturale esso riprende il romanzo greco di età
imperiale e tardoantica, quello di Achille Tazio (III secolo d.C.), Eliodoro di
Emesa (III secolo d.C.) e Longo Sofista (III secolo d.C.).
Il contenuto pure resta identico: una coppia di bellissimi giovani innamorati
viene separata e affronta peripezie che li conducono lontani dalla patria.
Superate le avversità e riunitisi, i giovani amanti, con la benedizione della
famiglia e dei genitori, possono finalmente sposarsi.
I più importanti autori di romanzi bizantini sono per lo più già stati nominati:
il primo fu Teodoro Prodromo, che fu seguito dal suo allievo Niceta
Eugeniano (XII secolo), che scrisse il romanzo Drosilla e Caricle, ma di cui
vanno segnalati anche l’Epitafio per Stefano Comneno e la monodia per la morte
del maestro nel 1156.
Anche Costantino Manasse scrisse un romanzo in versi (Aristandro e Callitea);
diverso il caso di Eustazio Macrembolita (XII secolo), il cui romanzo Ismine e
Ismina è scritto in prosa.

LE OPERE

Rodante Dosicle: ispirato alle Etiopiche di Eliodoro, il lavoro di Teodoro (che


risale forse al 1140) sicuramente riprende molto dal modello del III secolo d.
C., con il quale vuole mettersi in competizione.
La principale novità sta senza dubbio nella scelta di aumentare gli elementi
bucolici recuperando, come già fatto da Longo Sofista in Dafni e Cloe, la
lezione di Teocrito (315-260 a.C.).
Drosilla e Caricle: anche Niceta riprende Longo ed Eliodoro, e nemmeno in lui
manca l’elemento bucolico di ispirazione teocritea.
Aristandro e Callitea: del testo di Costantino Manasse non rimangono che
frammenti, tuttavia anche da essi possiamo recuperare informazioni molto
interessanti.
I frammenti posseduti sono tutti di carattere gnomico: sono delle sententiae,
un tratto caratteristico anche del romanzo tardoantico.

- La coppa di Gobria (Teodoro Prodromo, Rodante e Dosicle, IV 311-411): la scelta


di descrivere dettagliatamente i fregi di una coppa non è una scelta casuale, le
descrizioni di elementi artistici vennero introdotta proprio da Teocrito, che li
aveva resi il premio delle immaginarie tenzoni tra i poeti bucolici.
‘’Se ti fossi fatto vicino, avresti potuto vedere/ da una parte i grappoli, come dentro a
un vigneto,/ belli, maturi, rigogliosi e dagli acini gonfi,/ che parevano richiamare alla
vendemmia’’ (vv. 344-347).

- Gioie e patimenti d’amore (Niceta Eugeniano, Drosilla e Caricle, IV 220-288): il


povero protagonista, Caricle, reso schiavo di Clinia, racconta al padrone, in
un monologo denso di sensualità, come ottenne l’amore di una fanciulla.
‘’E che c’è di strano? Anche io, il tuo schiavo,/ il povero Caricle, sventurato, infelice
straniero/ fui una volta terribilmente preso di una tenera fanciulla’’ (vv. 225-227).

- Frammenti 37/41/52 (Costantino Manasse, Aristandro e Callitea): il romanzo di


Costantino Manasse, che a differenza degli altri è in pentadecasillabi,
riprende Eliodoro nel suo stile sentenzioso.
‘’Perché colui che ama, come si dice, è abile a scoprire/ l’amore mosso da identiche
passioni:/ i desideri e gli impulsi del cuore, di dice,/ appaiono sui volti come in un
luminoso specchio’’ (fr. 41).

42. MICHELE CONIATA

Michele Coniata (1138-1222), fratello maggiore dello celebre storico Niceta


(1155-1217) , nacque a Chonae in Frigia da una famiglia che lo avviò alla vita
ecclesiastica.
Venne istruito da alcuni dei migliori eruditi del tempo, uno su tutti Eustazio
di Tessalonica (1110-1194), autore di importanti commenti omerici.
Michele fu nominato metropolita di Atene nel 1182, carica mantenuta fino al
1204, quando la conquista crociata di Costantinpoli lo spinse verso il ritiro
nell’isola di Ceo, dove rimase per quindici anni.
Si trasferì poi a Nicea, dove morì.

LE OPERE

Definito da Lauxtermanna come ‘’uno degli scrittori bizantini più dotati’’,


Michele scrisse molte e diverse opere: dalle orazioni funebri (per il fratello
Niceta, per il maestro Eustazio) alle omelie composte in qualità di
metropolita di Atene.
Il suo lavoro più celebre è appartiene però alla produzione poetica: si tratta
del Lamento sulla perduta gloria di Atene, in cui, con gusto decadente, parla
dello sconforto della morte della civiltà classica.
Viene a lui attribuito anche il poemetto Theanò, in 457 esametri, che si rifà
molto all’Ecale di Callimaco, che fu tra gli ultimi a leggere integralmente.

- Lamento sulla perduta gloria di Atene: il testo, proprio per il suo sentore
nostalgico, ebbe una grande fama in Europa tra il XIX e il XX secolo.
Il poeta non si dispiace per la corruzione dei monumenti, che al suo tempo
erano ancora tutti intatti, bensì per la fine della civiltà classica, di cui non
restano che tracce.
‘’Io soffro davvero la pena degli innamorati,/ i quali non potendo vedere coi loro
occhi/ l’aspetto di coloro che amano,/ ne guardano solo l’immagine, e col pensiero/
mitigano la fiamma del loro dolore’’ (vv. 8-12).

I POETI SICULO-BIZANTINI

Il 1204 rappresenta uno spartiacque decisivo nella storia dell’Impero e della


cultura bizantina.
In precedenza arroccata nella capitale, la cultura bizantina si propagò anche
in nuovi centri più periferici: la Trebisonda di David e Alessio Comneno , la
Nicea di Teodoro Lascaris, ma anche Sicilia e Italia Meridionale.
Di particolare interesse fu il movimento poetico che si sviluppò fra Italia
Meridionale e Sicilia per circa un secolo, tra il 1130, anno dell’incoronazione
di Guglielmo II (1166-1189) a re di Sicilia, e il 1250, anno della morte di
Federico II di Svevia (1194-1250).
Attorno alla corte di Federico II si sviluppò ovviamente il movimento poetico
noto come ‘’scuola siciliana’’, di cui facevano parte Giacomo da Lentini/ Pier
delle Vigne/ Stefano Protonotaro/ Giacomino Pugliese/ Michele ‘’Cielo’’
d’Alcamo, ma essa promosse anche un interesse per la cultura greca e araba.
L’obiettivo era quello di poter recuperare, tramite le traduzioni, la sapienza
dei testi antichi; fu grazie a questo tipo di attività che fiorì l’interesse anche
per l’Oriente bizantino.
Alla corte normanna si sviluppò anche un movimento lirico composto da
autori che scrivevano carmi in greco: Eugenio da Palermo, Nicola Idruntino,
Nettario di Casole, Giovanni Grasso, Nicola d’Otranto, Giorgio Cartofilace da
Gallipoli.

43. EUGENIO DA PALERMO

Eugenio (1130-1203), nato a Palermo, fu un personaggio di spicco della corte


normanna sotto Guglielmo II, Tancredi ed Enrico VI, non solo come uomo
politico e militare, ma anche come poeta e letterato.
Egli tradusse dall’arabo l’Ottica di Tolomeo, e collaborò anche all’anonima
versione latina dell’Almagesto.
Come poeta invece si distinse in quanto autore di carmi religiosi e morali, ne
restano 24 in totale.
Venne imprigionato nel 1194 da Enrico VI, che lo spedì in Germania, dove
morì nel 1203.

- Incarcere (vv. 29-64 e 121-181): la prigionia in Germania permette al poeta di


riflettere sull’instabilità della condizione umana e su se’ stesso.
Eugenio, come la maggior parte degli autori bizantini, non si riferisce a se’
stesso direttamente, ma cerca di evocare la propria condizione personale
attraverso dei τοποι comuni come l’instabilità della fortuna.
Mentre celebra il suo commiato dal mondo, Eugenio riflette sulla sua vita da
cortigiano , caratterizzata dal lusso e dalla ricchezza , ma anche dall’odio e
dalla malevolenza.
‘’Se un po’ ti soffermi – più velocemente, per così dire, di una parola / vedrai stupito
un rivolgimento totale:/ quelli in basso, sollevati a terra,/ corrono su, verso la parte
più alta’’ (vv. 36-39).

44. GIOVANNI GRASSO

Allievo di Nettario di Casole, anche noto come Nicola Idruntino (1155-1235),


Giovanni Grasso (XIII secolo) visse in Italia e in Sicilia, alla corte di Federico
II di Svevia e dei suoi successori.
Le notizie su di lui sono purtroppo molto scarse: sappiamo che fu
‘’grammatico regio’’ e in seguito ‘’cancelliere’’ di Federico II, che pare avesse
così tanta stima di lui da affidargli la stesura del suo stesso testamento.
Di Giovanni restano solo 13 carmi, di contenuto sacro/profano e anche
politico.
Probabilmente l’atemporalità bizantina avrebbe fatto sì che i suoi carmi, nel
caso in cui non fossero stati tramandati con il suo nome, fossero attribuiti ad
un altro autore (potenzialmente anche molto distante temporalmente).
Senza dubbio però Giovanni fu il più importante dei cosiddetti poeti siculo-
bizantini, e questo perché egli è capace di trattare in modalità nuove dei temi
tradizionali (per non dire abusati) della letteratura bizantina.

- Carme XI: si tratta di un dialogo di uno straniero con Ero e Leandro, che
però non si presentano come una coppia di amanti sconsolati, bensì felici che
nella morte abbiano potuto cominciare una nuova vita assieme.
‘’Ci dilettiamo d’un tenero amore senza paura dei genitori,/ né del mare pieno di
amarezza’’ (vv. 23-24).

- Carme XII: Apollo dialogando con uno straniero rievoca l’amore per Dafne.
‘’La inseguo e inseguendola non la raggiungo:/ è più veloce di me nella corsa/ e non
riesco a prenderla in nessun modo’’ (vv. 22-24).

- Carme XIII: viene qui rievocato il tradimento del comune di Parma (1247),
che venne meno agli accordi con Federico II, che cercava di rimettere in
comunicazione diretta la Germania e l’Italia.
La città venne posta sotto assedio , ma nel 1249 gli assedianti riuscirono a
sconfiggere l’esercito imperiale, facendo venire meno i sogni del sovrano, che
morì l’anno seguente.
Parma merita dunque il nome di ‘’Palma’’ per il poeta, che attinge all’originale
significato greco della parola ‘’παλμα‘’ (lett. ‘’instabile’’) per sostenere che la
stabilità delle alleanze di Parma non è solida.
‘’Sei ammalata poveretta, del morbo dell’infedeltà,/ - i tuoi abitanti si sono ribellati /
per i consigli di uomini senza Dio’’ (vv. 8-10).

45. GIORGIO ACROPOLITA

Nato a Costantinopoli nel 1217, al tempo dell’Impero Latino d’Oriente,


Giorgio Acropolita (1217-1280) si trasferì a sedici anni a Nicea, dove si formò
con Niceforo Blemmida e dove conobbe l’imperatore Teodoro II Lascaris
(1254-1258), di cui fu in seguito anche maestro.
Oltre all’insegnamento si dedicò anche alla carriera diplomatica, anche se in
questa ebbe molta meno fortuna che nella prima.
Nel 1257, quando era al fianco di Michele VIII Paleologo (1261-1282) in una
spedizione contro Michele II despota d’Epiro, venne catturato e fatto
prigioniero.
Tornato in libertà nel 1259, fece ritorno nella capitale; in seguito fu anche tra i
rappresentanti del sovrano al Concilio di Lione (1261), i cui accordi furono
molto contestati dai Bizantini.

LE OPERE

La sua opera più importante è la Cronaca, una narrazione dei fatti dal 1203 al
1261, una fonte molto importante perché si sforza di essere imparziale anche
nei confronti dei Latini.
Scrisse anche trattati di Teologia (prima del Concilio di Lione) , mentre come
poeta la sua opera più celebre è l’Epitafio per Irene Comnena.

- Per la morte di Irene Comnena: figlia di Teodoro I Lascaris (1205-1222), Irene


fu dapprima promessa in sposa ad un rampollo della famiglia dei Paleologi,
in seguito venuto a mancare.
Dopo essere stata coinvolta negli scontri tra il padre e suo zio Alessio III
Angelo Comneno, essa venne data in sposa a Giovanni III Vatatze (1222-
1254): un matrimonio che si rivelò un’esperienza molto felice per entrambi,
ma solo fino al 1241, quando Irene morì.
Nel suo componimento in onore della basilissa, Giorgio riesce ad unire uno
stile classicheggiante con gli ideali cristiani.
A colpire però è la sincerità di sentimenti propria del testo, in cui tra l’altro
sono rievocati anche fatti storici, come la calata dei Bulgari su Bisanzio (vv.
65-68).
‘’Io Basilissa della Nuova Roma, / fortunata erede del potere avito,/ e vanto della mia
famiglia per la purpurea veste/ nacqui parto della sacra Porhyra (la sala di marmo
in cui erano partoriti gli eredi imperiali),/ amata figlia di sovrani’’ (vv. 18-22).

46. MANUELE FILE

Manuele File (1270-1332) è il poeta più prolifico dell’età paleologa (1259-


1453): la sua vastissima produzione, in dodecasillabi e versi politici, conta
oltre 25.000 versi caratterizzati da uno stile classicheggiante, levigato e allo
stesso tempo facile (eccetto per i proemi, di solito oscura a causa dell’utilizzo
delle metafore).
Il fatto che Manuele sia stato di fatto un tradizionale poeta bizantino ne fa un
caso raro per la sua epoca, quando, a causa della frammentazione dei centri
culturali, anche la lingua letteraria bizantina era mutata acquisendo i tratti del
volgare.
Nato ad Efeso, ma trasferitosi ancora giovanissimo a Costantinopoli, Manuele
fu allievo di Giorgio Pachimere (1242-1310) e Massimo Planude (1255-1305).
Di lui possediamo in realtà poche informazioni certe, se non che operò anche
come diplomatico: compì infatti viaggi in Russia, Persia, Arabia e persino in
India.
Secondo un aneddoto egli compose una Cronaca che offese in qualche modo
un imperatore (non sappiamo quale), che lo fece rinchiudere in prigione per
poi liberarlo dopo qualche tempo.

LE OPERE

La vastissima opera di Manuele è stata ad oggi poco studiata: l’edizione più


recente dei suoi carmi è quella di Miller del 1855-1857.
Il motivo dello scarso interesse suscitato dall’opera da Manuele va forse
ricercato in una colpa che da sempre la critica (Lauxtermann su tutti) gli ha
attribuito: il fatto di aver scritto troppo e con un lessico troppo vicino a
quello dei classici.
A ben vedere però la scelta di Manuele dovrebbe essere premiata: in un’epoca
di sfaldamento dell’identità culturale bizantina, egli riuscì a mantenere un
buon livello di conoscenza della lingua classica e del metro.
I suoi testi più interessanti sono senza dubbio quelli naturalistici, dedicati
alle piante e agli animali (il suo modello sono Oppiano ed Eliano); la sua
poesia è però anche contraddistinta dalla presenza di aneddoti favolosi.
Interessanti sono anche i poemi dialogici, fra cui si ricordano la Disputa di un
uomo con la sua anima, e i componimenti ecfrastici.

- Sulla natura degli animali: l’opera è composta da 2015 versi politici e riprende
il titolo dell’opera di Eliano (170/165-235 d.C.).
Il testo si colloca in continuità con un tradizione classica dunque, che trovò
nel Medioevo una nuova vita con la produzione di bestiari.
L’opera di Manuele, e in generale tutti questi tipi di testi, non sono
caratterizzati dall’accuratezza scientifica, quanto piuttosto dal gusto per
l’esotico e il meraviglioso.
Lo stile dell’opera è scorrevole, fatta eccezione per le parti proemiali, rese
oscure dalle metafore.
‘’Un’isola nutre gli aironi:/ che nobilitano essi stessi la propria stirpe’’ (vv. 152-153).

- Contro un avversario: Manuele si rivolge qui contro un anonimo che aveva


dichiarato di non credere a quanto lui avesse detto della Persia.
‘’Tu invece, che uccello non sei, raduni i tuoi frutti/ nascondendoli nel nido
dell’anima/ e coll’ampia ala del cuore/ li proteggi, cingendoli con volumi pieni
d’insulti’’ (vv. 11-14).

- Una famosa taverna: un carme di natura ironica e di linguaggio scurrile, in


cui il poeta ironizza sull’ingenuo marito di un’ostessa nota a tutti per essere
particolarmente ‘’accogliente’’ con i suoi clienti.
‘’Anche se qualcuno beve un po’ troppo e sfonda il letto/ mentre si scopa la padrona
di casa,/ lui non fa una piega e reprime l’ira’’.
47. DIGHENIS AKRITAS (Διγενις Ακριτας)

Il Dighenis Akritas è un’opera adespota tramandata in varie redazioni molto


diverse tra di loro.
Sono cinque i manoscritti che riportano l’opera, che però a seconda delle
diverse versioni risulta molto (o poco) differente tra versione e versione.
Questa varietà di versioni ha spinto i diversi editori a compiere scelte diverse
riguardo la pubblicazione.
Senza dubbio però la versione G, risalente al XII secolo e riportata da un
manoscritto ritrovato nel monastero di Grottaferrata, risulta forse il prodotto
letterario più completo e coerente.
Il merito del ‘’discevasta’’ (lett. ‘’adattatore’’) di G è quello di aver modificato
la lingua del testo e di aver modificato alcuni episodi che il pubblico della
raffinata corte comnena avrebbe ritenuto sconveniente per la moralità del
tempo.
Il testo di G conta 4304 versi, divisibili in due parti: la prima (Canti I, II, III)
narra delle vicende anteriori alla vita del protagonista, nato dall’unione di
Musur, un emiro arabo, con la figlia di uno stratego bizantino che aveva
catturato nel corso di una scorreria.
Musur in seguito si convertì al Cristianesimo e andò a vivere nei territori
dell’Impero, riuscendo così a sposarsi legittimamente con l’amata.
La seconda parte dell’opera (Canti IV-VIII) trattano invece dell’Akritas
(termine che designava i soldati di frontiera) ‘’dalle due stirpi’’ (‘’δυο-γενεις’’),
che agisce sempre come il tipico ‘’apelato’’, il soldato di frontiera impegnato a
compiere razzie in terra nemica.
La prima impresa del protagonista consiste nella cattura di una fanciulla
libera e nella strage dei suoi parenti, fatta eccezione per il padre, risparmiato
su richiesta della giovane.
In seguito l’Akritas compie gesti eccezionali, che spingono l’imperatore
Basilio (molto probabilmente Basilio I) ad invitarlo nella capitale: un invito
che il protagonista rifiuta.
I Canti V e VI trattano delle grandi imprese del protagonista, che agisce
contro gli apelati arabi per proteggere la moglie o altre belle donne, che
spesso l’eroe seduce, per farsi poi schiacciare dal senso di colpa, elemento
della morale del buon cristiano che probabilmente fu aggiunto dal redattore
di G.
Il Canto VII parla della morte del padre del protagonista, che viene molto
onorato dall’Akritas, che muore nel Canto successivo.
Giustamente considerato l’epopea nazionale bizantina, il Dighenis Akritas
racconta simbolicamente la lotta di Bisanzio contro le popolazioni che
colpivano alla frontiera orientale.
Il protagonista è costantemente impegnato a combattere questi nemici, da cui
però non differisce quasi per nulla: dopo secoli di scontri infatti, i soldati di
frontiera arabi e bizantini avevano cominciato ad assomigliarsi molto.
L’Akritas non combatte per la fede cristiana, ma solo per se’ stesso, perché la
sua è in primo luogo una guerra personale, senza amici, senza compagni,
senza esercito.
Il Dighenis è un soldato di frontiera, il cui scopo è quello di vivere alla meno
peggio, difendere il proprio patrimonio e sconfiggere nemici e rapire quante
più donne possibili.

- La fanciulla di Meferké: il protagonista si imbatte per caso in una fanciulla


araba originaria di Meferké, che chiede l’aiuto del nostro eroe.
La giovane è stata sedotta, derubata e abbandonata da un Greco, che per pura
coincidenza era stato salvato proprio qualche giorno prima dall’Akritas, cosa
di cui la ragazza era informata.
Il protagonista accetta di aiutare la giovane, ma ecco che arrivano gli apelati
arabi, che vengono facilmente sconfitti.
A questo punto l’Akritas decide di aiutare l’araba, ma proprio mentre si sono
messi in marcia l’uomo, preso da un desiderio irrefrenabile, violenta la
donna, che inutilmente cerca di opporsi.
L’episodio andava ovviamente contro la morale bizantina, una problematica
che il redattore cerca di risolvere facendo raccontare l’episodio direttamente
dal protagonista, che afferma al suo interlocutore cappadoce di essersi
pentito.
‘’Accadde proprio tutto quello che avevo desiderato,/ da quell’azione illecita fu
macchiato il viaggio,/ per l’intervento di Satana e per la debolezza dell’anima,/ anche
se la fanciulla tentava di opporre resistenza/ scongiurando Dio e l’anima dei genitori’’
(vv. 246-250).

48. GIOVANNI PEDIASIMO

Giovanni Pediasimo (XIII-XIV secolo) fu un uomo di scienze, lettere e


filosofia vissuto a Costantinopoli in un arco cronologico indeterminabile con
precisione; l’unica cosa certa che sappiamo su di lui è una lettera scrittagli nel
1283 da Gregorio di Cipro.
La scarse informazioni che possediamo su di lui provengono dalle
inscriptiones dei codici che riportano le sue opere: sappiamo che fu diacono,
cartofilace di Ocrida in Bulgaria e anche ‘’console dei filosofi’’ (titolo onorifico
ma che testimonia la sua competenza).
Alcuni hanno proposto di attribuire al Pediasimo il nome di ‘’Pothos’’, cosa
che permetterebbe di identificarlo con Giovanni Pothos, gran sacellario di
Tessalonica.

LE OPERE

Gli scritti del Pediasimo sono numerosi ed eterogenei, anche se senza dubbio
i suoi interessi furono principalmente di tipo scientifico (medicina e
matematica soprattutto); si occupò anche di filosofia, scrivendo dei commenti
ad Aristotele.
Scrisse anche opere di retorica e letteratura.

- Versi su una donna malvagia e perversa I/ Versi sulla donna buona e virtuosa II:
nella letteratura antica e in quella bizantina, la misoginia è senza dubbio un
tema costante.
Partendo da Elena e Clitemnestra, passando per la Pandora di Esiodo e
arrivando alla patristica, i motivi di accusa contro le donne rimasero per lo
più invariati.
Il poemetto di Giovanni è dovuto al fatto che esso riprende lo schema retorico
αντισκευη-κατασκευη, basato sull’equilibrio tra una posizione e la risposta a
questa.
Quindi in questi dodecasillabi il vero merito del poeta è soprattutto quello di
aver cercato di rendere più interessante un tema stupido e insensato.
‘’La donna malvagia è per gli uomini un naufragio;/ infermità mentale inguaribile
sotto lo stesso tetto’’ (vv. 1-2, I).
‘’La donna virtuosa è navigazione senz’onde per lo sposo;/ forza a lui affine, che non
viene meno’’ (vv. 1-2, II).
49. LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

Gli eventi che portarono alla caduta di Costantinopoli nel 1453 vennero da
molti inquadrati nell’alveo dello scontro tra Cristianesimo ed Islam, in quello
della lotta fra la civiltà e la barbarie.
A lungo si è cantato delle brutalità atroci compiute dai Turchi nel momento
in cui presero la città, e di come queste furono qualcosa di inconcepibile e mai
visto prima.
Nonostante la tremenda violenza, talvolta veramente gratuita, con cui nella
norma agivano i Turchi sia qualcosa di verificato a livello storico, non si deve
pensare che quando i crociati presero Bisanzio nel 1204 non compirono
violenze paragonabili.
Gli stessi Bizantini si erano macchiati di violenze atroci, come quelle narrate
da Teodosio Diacono nel suo De Creta Capta, in cui si racconta di come gli
assalitori bizantini lanciarono le teste mozzate dei prigionieri nella città
assediata.
Paradossalmente l’esercito turco si macchiò di crimini spaventosi a danno dei
civili proprio mentre era guidato da uno dei sultani più europei e colti:
Maometto II il Conquistatore (1451-1481).
Figlio di Murad II (1421-1451), Maometto II parlava cinque lingue, amava la
filosofia ed era appassionato di storia e poesia a tal punto da voler visitare le
rovine di Troia e voler ripetere le gesta di Alessandro Magno.
Questa formazione, unita ad un inconsueto fanatismo religioso lo spinsero
forse a desiderare sopra ogni cosa la distruzione definitiva dell’Impero
Bizantino e la presa di Costantinopoli.
Contro di lui si stagliò eroicamente Costantino XI Paleologo (1449-1453),
figlio di Manuele II Paleologo (1391-1425), egli aveva combattuto in Morea
contro i potentati cattolici e poi anche contro i Turchi in Beozia.
Costantino guidò la resistenza della città in prima persona, perdendo la vita
presso la porta San Romano, mentre cercava di impedire ai Turchi di dilagare
in città.
Il suo cadavere non fu mai trovato: alcuni sostengono che Santa Sofia si aprì e
ne fece scomparire il cadavere, altri che il suo spirito ritornava nella notte a
cavallo per combattere i nemici.
A questo eroe romantico si accompagnava il mercenario genovese Giovanni
Giustiniani Longo (1418-1453), che guidò un manipolo di duemila uomini
nella difesa della città.
Ferito durante l’assalto finale , decise di fuggire a Chio, macchiando l’eroismo
che aveva contraddistinto la sua difesa con un gesto che gli abitanti
marchiarono come tradimento.
La presa di Costantinopoli fu raccontata in poesia attraverso il genere dei
‘’lamenti’’.
Contraddistinti da una lingua molto vicina a quella del parlato, i lamenti, per
lo più anonimi, appartengono ad un genere molto diffuso a Bisanzio, che si
richiamava alla letteratura antica (caduta di Troia) e alle lamentazioni di
Geremia sulla caduta di Gerusalemme.

- Lamento di Costantinopoli: il testo, composto in lingua popolare, sa esprime il


senso di angoscia e rassegnazione che attraversò il mondo greco e occidentale
quando la città cadde nelle mani degli Ottomani.
Ad emergere nel testo è soprattutto la romantica figura di Costantino XI, che
cerca di resistere anche se abbandonato dagli Occidentali traditori.
Il testo, che ovviamente ricorda le violenze dei Turchi, si conclude con
un’allegoria tra Costantino e il Sole e tra Costantinopoli e la Luna e con il
recupero di una profezia male interpretata: al posto di annunciare la venuta
di un fanciullo che salverà il mondo (sembra un richiamo al ‘’veltro’’
dantesco) essa prefigurava la venuta dell’anticristo Maometto II.

50. FRANCESCO FILELFO

Nato a Tolentino, Francesco Filelfo (1398-1481) compì i suoi studi a Padova e


in seguito cominciò ad esercitare la professione di precettore per i figli della
nobiltà veneziana.
Si trasferì a Costantinopoli nel 1420 desideroso di imparare il greco: qui fu in
un momento iniziale segretario del bailo veneziano.
Dal 1422 entrò a servizio di Giovanni VIII Paleologo (1425-1448), che lo inviò
presso la corte del sultano Murad II, presso il re di Polonia e anche presso
l’imperatore di Germania Sigismondo di Lussemburgo (1433-1437).
Si sposò con Teodora, figlia di Giovanni Crisolora, il professore dello Studio
Fiorentino che aveva insegnato il greco alla prima generazione di umanisti.
Filelfo condusse una vita tumultuosa, sempre alla ricerca di uno stile di vita
più elevato di quello che potesse realmente permettersi (fu perseguitato dai
creditori a lungo).
Nel 1427 tornò a Venezia , dove il nobile Leonardo Giustinian pretese , come
parziale restituzione di una somma prestata a Filelfo, la consegna di alcuni
rari manoscritti greci acquistati da questo a Costantinopoli.
Filelfo lasciò Venezia a causa della peste: dapprima andò a Bologna (1428),
poi andò a Firenze nel 1429.
Rimase qui fino al 1434, anno in cui i suoi contrasti con Cosimo de’Medici il
‘’Vecchio’’ (1389-1464), che cercò di farlo eliminare, lo costrinsero a scappare
prima a Siena (1434-1438) e poi di nuovo a Bologna (1439).
Insegnò a Pavia per più di trent’anni (1439-1473), vivendo invece a Roma tra
il 1474 e il 1476.
Morì nel 1481, dopo aver fatto ritorno nella sua amata Firenze.

LE OPERE

L’opera poetica di Filelfo, tanto quella in greco quanto quella in latino, è poco
studiata.
Ciò che lo distingue dagli altri umanisti italiani è la sua facilità di versificare
in greco, dimostrando una conoscenza della lingua classica e della metrica
antica realmente notevole.
Nella sua Psychagogia egli cerca di rievocare le forme antiche, riuscendoci a
metà forse, ma comunque compiendo un tentativo davvero notevole.
L’opera contiene solo carmi in greco, indirizzati ai potenti e riguardanti tutti
fatti d’attualità.
Di grande interesse è l’ode saffica, accompagnata da una lettera, dedicata a
Maometto II, a cui l’umanista chiedeva di lasciare libere la madre della
moglie e le sue figlie.
Facendo leva sul grande interesse che il sultano nutriva per la storia e la
letteratura antica (Maometto chiamava Atene ‘’la città dei sapienti’’ e si
circondò di artisti e poeti greci).
Nel 1454 il sultano lasciò libere le donne, che morirono tra il 1464 e il 1466 a
Creta.

- A Maometto, gran Signore e grande Emiro dei Turchi (Psychagogia, II 8): l’ode di
Filelfo suscitò ovviamente enorme scandalo tra gli intellettuali d’Europa, che
vedevano nel suo opportunismo un atto indegno, che andava a ritrarre in
modo positivo il conquistatore di Bisanzio.
Quello che però si deve ammettere è che Filelfo seppe toccare i tasti giusti,
specialmente quando andò a sostenere che Maometto era discendente dei
Troiani (cosa di cui anche il sultano era convinto davvero: arrivò a scrivere a
papa Niccolò II che anche i Romani erano discendenti dei Troiani).
‘’La tua gloria vince gli uomini antichi/ sia quelli degli illustri Greci, a tutti noti,/ sia
i Romani, quanti nei trionfi/ furono grandi’’ (vv. 13-16).

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