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e la Commedia Nuova
Aristotele e i caratteri Seguendo l’evoluzione di alcune forme poetiche nell’Atene del IV secolo e acco-
della Commedia standoci alla prima teorizzazione dell’arte drammatica e dell’«etica dei caratteri»
compiuta da Aristotele, abbiamo individuato alcuni elementi che avrebbero inciso
nella produzione teatrale e letteraria successiva: tipizzazione dei personaggi, am-
bientazione non più legata alla polis ateniese e al contesto politico e sociale locale.
L’evoluzione tecnica Già prima, del resto, avevamo sottolineato come, dal punto di vista «tecnico«, le
dell’ultimo Aristofane opere dell’ultimo Aristofane – quello delle Ecclesiazuse, del Pluto e dei perduti
Cocalo ed Eolosicone – mostrassero caratteristiche nuove rispetto alle sue com-
medie precedenti: assenza della parabasi, impoverimento dei canti corali, che già
tendono a essere sostituiti da intermezzi improvvisati, segnalati nella tradizione
manoscritta, come nei papiri menandrei, dalla sigla ΧΟΡΟΥ), eclissi dell’ele-
mento politico a favore della fantasia utopica.
Caratteristiche Senonché, non essendoci pervenuta alcuna commedia intera appartenente a que-
della «Commedia sta fase «mediana», ci riesce difficile individuare la cesura fra di essa e la com-
di Mezzo»
media «nuova». L’unico elemento caratteristico rimane forse la diffusa presenza,
nei frammenti superstiti della Commedia di Mezzo, di quella parodia mitologica
che per altro era già stata saltuariamente praticata da poeti della Commedia An-
tica come Cratino negli Odissei. Certo è che già nella produzione del periodo
380-350 a.C. si cristallizza quella casistica di tipi fissi (in primo luogo il cuoco)
che ritroviamo nella Nea e poi nella palliata romana, mentre dal punto di vista
qualitativo due opposte ma complementari caratteristiche della Mese dovette-
ro essere «l’ingegnosità nei dettagli e la povertà d’invenzione nella costruzione
complessiva» (H.-G. Nesselrath).
Alcuni autori: La tradizione antica conosceva i nomi di 57 poeti della Commedia di Mezzo, con
Antifane 607 opere.
Antifane (Ἀντιφάνης) di Smirne (o di Rodi) nacque verso il 405 e rappresentò
la sua prima commedia fra il 386 e il 383 a.C. Riportò 13 vittorie, di cui otto alle
Alessi Alessi (Ἄλεξις) di Turi, vissuto dal 372 al 270 circa (fu più che centenario), ope-
rò a lungo in Atene, dove sarebbe stato maestro di Menandro. Avrebbe lasciato
245 opere, di 136 delle quali conosciamo i titoli (solo 15 sembrano essere di
carattere mitologico). Forse fu Alessi a introdurre nella commedia attica il tipo
del parassita, derivandolo dalla farsa dorica di Epicarmo. Fra i temi da lui trattati
ricordiamo soggetti novellistici come Esopo e Archiloco e la parodia di Platone
nel Fedro. La sua fama giunse anche a Roma, dove Plauto ne riprese il Cartagi-
nese nel Poenulus.
la Commedia nuova
Menandro e la Commedia Nuova
Caratteristiche
della Nea E sauritosi quasi completamente l’interesse per la parodia mitologica, la storia
del genere comico si concentra negli ultimi decenni del IV secolo, con la Com-
media Nuova, sulla rappresentazione di soggetti desunti dalla vita quotidiana
(specialmente di quella dell’Atene alle soglie dell’ellenismo) e dei tipi umani già
largamente fissati nella Commedia di Mezzo (l’etera, il mercenario, il parassita,
il giovane scapestrato, il padre avaro e irascibile, lo schiavo intrigante, il cuoco,
l’adulatore ecc.), e assume una definita struttura in cinque atti separati da inter-
mezzi di musica e danza (improvvisati o di repertorio).
Drammi a intrigo Vicende amorose immancabilmente a lieto fine, equivoci e malintesi, scambi
di persone, esposizioni di neonati, agnizioni impreviste: tali sono gli ingredienti
abituali di intrecci che trovano nei drammi ad intrigo dell’ultimo ventennio della
produzione di Euripide il loro principale punto di riferimento, come parimenti da
Euripide è desunto l’impiego del prologo espositivo, talora affidato a una divinità.
MENANDRO 117
menandro
notizie biografiche
Intellettuale
del circolo
di Demterio Falereo
M enandro (Μένανδρος), figlio di Diopite, nacque ad Atene, nel demo di Cefi-
sia, nel 342-341 a.C.
Apparteneva a una ricca famiglia borghese e, come si è
già ricordato, dovette essere avviato all’arte dramma-
tica da Alessi.
Educato, secondo la tradizione (cfr. Diogene Laerzio
V 36), alla scuola di Teofrasto, avrebbe fatto parte
del circolo letterario-artistico del peripatetico Deme-
trio Falereo, governatore della città per conto di Cas-
sandro a partire dal 317.
Busto di Menandro. Dopo la cacciata di Demetrio nel 307, Menandro si salvò
Marmo, copie romana di
epoca imperiale da un dall’essere processato solo grazie all’intercessione
originale greco di un parente di Demetrio che, anche dopo la cac-
(343-291 a.C.).
Roma, Museo
ciata di questi, aveva conservato una posizione in-
Chiaramonti. fluente.
Un Ateniese estraneo Di costumi raffinati, amante dei piaceri ed estraneo alle tensioni politiche, tra-
alla politica scorse quasi tutta la vita nella città natale: pare che rifiutasse anche l’invito di
Tolomeo I a trasferirsi ad Alessandria. Secondo una dubbia tradizione avrebbe
amato un’etera, Glicera (nelle Epistole di Alcifrone compaiono una lettera di
Glicera a Menandro e la relativa risposta, ma si tratta senz’altro di documenti
fittizi: è possibile leggerne un brano nel capitolo del romanzo, p. 000); una ver-
sione attestata in ambito latino (Marziale XIV 187) lo dice innamorato di un’altra
cortigiana, Taide. Morì intorno al 290, secondo un’incerta tradizione, nuotando
nelle acque del Pireo. Gli venne eretta dai figli di Prassitele, Cefisodoto e Timar-
co, una statua nel teatro di Dioniso.
… e i riconoscimenti Fu tuttavia ampiamente rivalutato dopo la morte: molte sue commedie vennero
post mortem replicate più volte ad Atene, Aristofane di Bisanzio lo additò come il secondo
più grande poeta dopo Omero, e Didimo di Alessandria, seguito da altri, redasse
commenti alle sue commedie.
118 MENANDRO E LA COMMEDIA NUOVA
Fonte La sua opera divenne anche la fonte principale delle rielaborazioni dei maggiori
dei comici latini comici latini: Plauto riprese gli Ἀδελφοί (la prima delle due commedie di questo
titolo composte da Menandro) nello Stichus, il Δὶς ἐξαπατῶν nelle Bacchidi, le
Συναριστῶσαι nella Cistellaria, l’Ἄπιστος (?) nell’Aulularia; Terenzio (che
conservò anche i titoli) rielaborò l’Andria (contaminata con la Περινθία dello
stesso Menandro), gli Ἀδελφοί (i secondi, contaminati con almeno una scena dei
Συναποθνήσκοντες di Difilo), l’Heautontimorúmenos e l’Eunuco (contaminato
con il Κόλαξ, anch’esso menandreo); Cecilio Stazio si rifece al Πλόκιον.
Fortuna e naufragio A parte le citazioni indirette, l’opera di Menandro andò completamente perduta
delle opere all’inizio del Medioevo, e il fatto è davvero singolare dal momento che un lar-
ghissimo numero di papiri compresi in un arco cronologico che va dal III secolo
a.C. al VII d.C. documenta al di là di ogni dubbio che Menandro doveva essere
un autore molto letto. Uno dei motivi di questo naufragio è probabilmente il fatto
che i puristi più rigorosi non consideravano la sua lingua un modello ineccepi-
bile.
Esamineremo dunque le commedie di cui possediamo i resti più consistenti.
dell’Arbitrato (sommandoli ai frammenti scoperti dal Tischendorf e a più recenti ritrovamenti, di questa
commedia abbiamo ora circa 800 versi), della Tosata (circa 450 versi) e della Donna di Samo (Σαμία)
(circa 350 versi). Nello stesso 1907 da un papiro berlinese fu resa nota una settantina di versi del Citarista
(Κιθαριστής). Nel 1909 G. Zereteli pubblicò una ventina di versi molto lacunosi dalle Donne che bevono
la cicuta (Κονειαζόμεναι). Dai Papiri della Società Italiana sono riemersi due frammenti per un totale di
una sessantina di versi della Invasata (Θεοφορουμένη).
Ma le maggiori scoperte menandree sono più recenti. Fra il 1959 e il 1969 è venuta la pubblicazione del
codice Bodmer (P. Bodmer 4, 25 e 26), che ci ha restituito pressoché intero il Dyskolos (L’intrattabile;
sottotitolo: «Il misantropo») nonché, priva dei due primia atti, la Samia (sommando i frammenti cairensi
e altri ossirinchiti, ne abbiamo ora più di 700 versi) e, privo degli ultimi due atti, lo Scudo (Ἀσπίς) (con
frammenti di altra provenienza, più di 500 versi). Nel 1964 da un papiro della Sorbona che faceva parte del
cartonnage di una mummia sono stati pubblicati più di 400 versi del Sicionio, mentre soprattutto a partire
dal 1965 da vari nuovi frammenti papiracei (specialmente, ma non solo, da Ossirinco) ci sono stati resi
progressivamente noti circa 600 versi dell’Odiato (Μισούμενος), una quarantina di versi del Cartaginese
e più di 100 versi del Δὶς ἐξαπατῶν («Il due volte ingannatore», «Il doppio inganno») – quest’ultima
scoperta particolarmente importante perché, come vedremo nello specifico «Dossier», per la prima volta si
è data la possibilità di verificare i modi di rielaborazione di un originale menandreo ad opera di Plauto – e
altri brani del Phasma. Oltre alle commedie fin qui citate conosciamo i titoli di più di un’ottantina di altre,
per le quali abbiamo numerosi frammenti di tradizione indiretta.
MENANDRO 119
il Dyskolos
I l Dyskolos («L’intrattabile») ovvero Misantropo è opera giovanile, essendo
stata rappresentata, ottenendo il primo premio, alle Lenee del 316 a.C.
Il δύσκολος del titolo è Cnemone, un vecchio inselvatichito e collerico che, ormai
trama abbandonato anche dalla moglie e dal figliastro Gorgia, si è ritirato lontano dal con-
sorzio umano per dissodare un sassoso podere nel demo attico di Phylé, dove ora vive
con l’unica figlia e un’anziana serva. La ragazza, cresciuta lontano dalle lusinghe della
città, si è mantenuta semplice e pura ed è devota alle ninfe e al dio Pan, che ha voluto
premiarne la devozione facendo innamorare di lei il giovane e ricco Sostrato, capitato
nella zona per una battuta di caccia in compagnia dell’amico Cherea.
Sostrato ha mandato il servo Pirria per prendere informazioni sulla ragazza, ma questi,
giunto al podere del vecchio e interpellato direttamente Cnemone, è stato bersagliato
con un lancio di zolle e di pietre: il servo torna di corsa verso il padrone incalzato da
Cnemone in persona, che sfoga anche con Sostrato, prima di ritirarsi in casa, la sua
TT. 1-2 insofferenza per i contatti umani (vv. 1-178).
Subito dopo esce di casa piangente la figlia di Cnemone, annunciando che la vecchia serva
Simiche ha lasciato cadere un secchio nel pozzo, perché la fune marcia non aveva retto e
si era spezzata: per evitare l’ira dell’intrattabile genitore, la ragazza decide di provvedere
lei stessa ad attingere acqua ed esce al pozzo, offrendo a Sostrato l’occasione di incontrarla
e scambiare due parole: il giovane è ammirato dalla modestia e dalla riservatezza della
ragazza, che ne accrescono la grazia. Del loro colloquio si accorge però il servo Davo, che
avverte il padrone Gorgia, fratellastro della ragazza cui è sinceramente affezionato. Gor-
gia allora affronta Sostrato per saggiare la serietà delle sue intenzioni e, ottenutane piena
rassicurazione, decide di collaborare coi due giovani, convinto che per la sorella non po-
trebbe trovare partito migliore: consiglia quindi a Sostrato di non affrontare direttamente
Cnemone, ma di fingere di essere un contadino avvezzo alla fatica dei campi, così da gua-
dagnarsi la sua simpatia e potergli parlare quasi lo incontrasse per caso. Sostrato, che pure
è un cittadino estraneo alle fatiche dei campi, inizia a zappare un terreno vicino a quello di
Cnemone e si sfianca dalla fatica, nella speranza di incontrare il vecchio.
Sopraggiunge intanto una rumorosa brigata, inviata dalla madre di Sostrato che intende
offrire un sacrificio a Pan per stornare il cattivo presagio inviatole in sogno dal dio stesso:
La τύχη regolatrice Quella del Dyskolos è una trama tipica della produzione menandrea, e più in
e l’ἦθος generale della commedia nuova, fondata sull’intreccio di vicende regolate dalla
dei personaggi
τύχη, in un orizzonte ristretto a pochi personaggi, fra di loro vincolati da legami
di famiglia o di amicizia. Peculiare dell’arte di Menandro già in questa com-
media giovanile è la tendenza alla caratterizzazione psicologica, che evidenzia
l’ἦθος dei personaggi e che sembra denunciare l’influsso della scuola peripate-
tica, soprattutto di Teofrasto, l’autore dei Caratteri, di cui Menandro era stato
discepolo (v. scheda «Teofrasto e Menandro», p. 000). Il personaggio più inte-
ressante è in questo caso il vecchio Cnemone, che propone il tipo del misantropo
avaro ed egoista, capace di un cambiamento (μετάνοια) che lo porta a rivedere
il proprio modo di essere, dopo lo scampato pericolo di morte (vv. 713-717; più
T. 3 ampiamente):
In una cosa forse ho sbagliato: come tutti pensavo
di bastare a me stesso e di non aver bisogno di nessuno.
Ora invece che ho visto la crudele e oscura
morte, ho capito che non pensavo giustamente.
C’è sempre bisogno, vicino a te, di una persona pronta a darti aiuto.
Nella μετάνοια di Cnemone si può forse intravvedere una critica nei confron-
ti della posizione filosofica dei Cinici, che predicavano l’«autosufficienza»
(αὐτάρκεια) di cui il protagonista mostra i limiti, abbracciando piuttosto, dopo
l’incidente, la posizione peripatetica che valorizza l’uomo come «animale socia-
le» per eccellenza.
la Tosata
A ltra commedia giovanile è la Tosata (Περικειρομένη), la cui composizione
deve essere collocata a ridosso del 314 a.C. per via di un riferimento (vv.
89-91) all’uccisione di Alessandro, figlio del generale macedone Poliperconte,
vittima di una congiura a Sicione. Ce ne restano quasi 500 versi.
reciso le chiome della sua concubina, Glicera, per punirla di un bacio ricevuto dal
giovane Moschione. Senonché Moschione è fratello di Glicera, ma di ciò è a cono-
scenza soltanto la donna, che dopo la nascita era stata esposta insieme con il fratello
e raccolta da una vecchia. Costei aveva tenuto presso di sé la bimba, facendo adotta-
re il bimbo da Mirrine, una ricca signora senza figli. La vecchia però, trovandosi in
gravi ristrettezze economiche, dopo aver allevato Glicera l’aveva ceduta al soldato
Polemone e in punto di morte le aveva rivelato le vere origini sue e del fratello.
Glicera e Moschione abitano per ragioni fortuite in case vicine, ma la donna non
ha rivelato al fratello la sua identità per non pregiudicargli lo status sociale di cui
gode. Il giovane si è innamorato proprio della sorella e una sera l’ha baciata: di qui
la reazione di Polemone, che ha saputo dell’episodio e si è sentito tradito. Questi
i complessi antefatti della commedia, raccontati nel prologo dalla dea Ignoranza
(Ἄγνοια). Ora Glicera è fuggita di nascosto e ha trovato rifugio in casa di Mirrine e
Moschione; Polemone, ancora innamorato di lei, la cerca per mezzo del servo Sosia,
che viene a sapere che la donna si è trasferita nella casa vicina. A questo punto il
soldato vorrebbe lanciare un vero e proprio attacco militare, ma ne viene dissuaso
da Pateco, un vecchio vicino di casa. Poi (ma qui le lacune del papiro rendono
problematica la ricostruzione dell’azione) Pateco si ricorda, grazie alla scoperta di
alcuni ninnoli infantili, di quando molti anni prima sua moglie era morta dando alla
luce due gemelli che egli, travolto da un dissesto finanziario, era stato costretto ad
esporre. Così, adesso, può riconoscere i due figli e assegnare Glicera in moglie al
soldato con una ricca dote.
Più di quella del Dyskolos la trama della Tosata esibisce le articolazioni conven-
lo Scudo
A lla fase matura della produzione di Menandro appertiene lo Scudo (Ἀσπίς),
di cui ci restano circa 500 versi, in parte mutili.
122 MENANDRO E LA COMMEDIA NUOVA
Dal prologo informativo, recitato dalla dea Tyche e posposto a un’ampia scena ini-
trama
ziale, apprendiamo che il giovane Cleostrato, arruolatosi come soldato mercenario
in Asia Minore, è stato erroneamente creduto morto in battaglia da Davo, il suo fe-
dele pedagogo che lo accompagnava, tratto in inganno dal ritrovamento dello scudo
accanto a un cadavere irriconoscibile. Davo torna in patria con la notizia della morte
di Cleostrato e, ad un tempo, con un un cospicuo bottino di guerra, che spetta di
diritto alla giovane sorella di Cleostrato, ereditiera (ἐπίκληρος) delle sostanze del
fratello, il quale prima di partire per la guerra l’aveva lasciata sotto la tutela dello
zio Cherestrato, che viveva con la figlia e il figliastro Cherea.
Il bottino del morto presunto attira però la bramosia dell’altro zio, il vecchio e avido
Smicrine, che progetta di appropriarsene approfittando del fatto che la nipote non
ha capacità giuridica e secondo la legge dell’«epiclerato», essa può essere chiesta
in sposa dal parente più prossimo del defunto e, a parità di grado, dal più anziano.
Smicrine decide di avvalersi del privilegio concessogli dalla legge e di sposare la
fanciulla, nonostante l’opposizione del fratello Cherestrato, che cerca inutilmente di
farlo ragionare, ammonendolo sulla differenza di età e riordandogli che la ragazza
era già stata promessa a Demea e che i due giovani si amavano.
Di fronte alle pretese di Smicrine, Cherestrato e Cherea precipitano nello sconforto, ma
l’astuto Davo escogita una trappola: Cherestrato si fingerà morto in modo da indurre
Smicrine a sposare l’altra nipote, figlia dello stesso Cherestrato, divenuta ereditiera di
un patrimonio assai più cospicuo, lasciando l’altra ragazza libera di sposare il fidanzato
T. 4 (vv. 250-390).
Lo stratagemma di Davo è prontamente messo in atto e un finto medico certifica la
morte improvvisa di Cherestrato.
Qui il papiro presenta una grossa lacuna, poi il testo riprende per un breve tratto mal
ridotto, dove è riconoscibile il ritorno del morto presunto (aperto dal saluto alla sua
terra: v. 491 ὦ φιλτάτη γ[ῆ).
La commedia si doveva concludere con le doppie nozze di Cherea con la ragazza amata
e di Cleostrato con la figlia di Cherestrato.
La guerra Iniziato in un clima di tragedia, con il ritorno del fedele pedagogo Davo che
e la vita governate porta lo scudo del padrone creduto morto, e con il conseguente compianto dei
da Τύχη
famigliari, il dramma si svolge poi in un intreccio di equivoci, di beffe alternati
Menandro e la Commedia Nuova
l’Arbitrato
D ell’Arbitrato (Ἐπιτρέποντες, «Coloro che si rimettono a un arbitro»), un’al-
tra commedia della maturità, possediamo circa 800 versi: le lacune riguarda-
no specialmente il primo atto e la parte finale della commedia, di cui peraltro si
può ricostruire lo sviluppo complessivo
TT. 5-11 Nella sezione antologica puoi trovare tutto quello che resta della commedia.
In una delle due case collocate sulla scena abita Carisio con la moglie Panfile, nell’altra
trama
Samia
I ncerta e basata su criteri stilistici interni è la datazione della Samia o Donna
di Samo (Σαμία), di cui sono sopravvissuti circa 700 versi: la scaltrita tecnica
teatrale e l’abilità con cui procedono in parallelo lo sviluppo della vicenda e l’ap-
profondimento psicologico dei caratteri inducono a collocare questa commedia
nella fase più matura della produzione menandrea.
L’azione si svolge su una strada di Atene e, come al solito, la scena rappresenta due ca-
trama
se: quella del vecchio e benestante Demea e quella del suo amico Nicerato. Nonostante
l’età avanzata, Demea tiene con sé come concubina Criside di Samo e vive con il figlio
adottivo Moschione, un giovane timido e introverso. Durante un’assenza di Demea in
compagnia di Nicerato, Moschione, in una notte di festa ha sedotto Plangone, la figlia
di Nicerato, che ha poi partorito un bimbo. Innamorato della ragazza, Moschione vor-
rebbe sposarla, ma non sa come affrontare il padre, cui è legato da rispetto e gratitudine
per tutti i benefici da lui ricevuti. Al ritorno dei due vecchi e fino a che Moschione non
abbia parlato con Demea, dietro suggerimento del servo Parmenone si decide di fingere
che il bambino partorito sia di Criside.
Demea, che ritiene il neonato frutto della propria relazione con la concubina, vorrebbe
liberarsene, nel timore che Criside avanzi diritti di moglie, ma ne viene dissuaso da
Moschione, che convince il padre a tenere Criside insieme col bambino e gli confida il
proprio amore per Plangone, incontrando in questo l’assenso di Demea, che già deciso
di dare in sposa a Moschione la figlia dell’amico Nicerato. Vengono subito affrettati i
• la ρῆσις, ovvero il monologo per mezzo del quale viene Aristofane, infatti, il cosiddetto eroe comico (colui che promuove
raccontato al pubblico il fatto drammatico, avvenuto fuori il movimento drammatico principale) ottiene, ad un certo punto
scena, che costituisce il momento nodale dell’azione (il rac- della commedia, il soddisfacimento del suo desiderio. Più consi-
conto di Demea uscito dalla dispensa), o il suo scioglimento stente, invece, è il numero di tragedie a noi pervenute dal teatro
catastrofico (Nicerato che ha visto la figlia allattare); del V secolo. Lo schema diegetico che è alla base della maggior
• l’unità di azione (la Commedia Nuova, e la Samia con parte di esse prevede la rovina dell’eroe; ma ciò non accade sem-
essa, segue il canone aristotelico del «verosimile», a dif- pre. In alcuni drammi di Euripide, infatti, l’eroe tragico ottiene la
ferenza della Commedia Antica); ricostituzione di una condizione iniziale, propria dell’ antefatto,
• il materiale diegetico (l’equivoco di Demea rielabora lo oppure già presente nelle prime battute del dramma, passando
schema dell’Ippolito di Euripide e dell’Edipo re di Sofocle); attraverso una peripezia (l’Alcesti, l’Andromaca, lo Ione, l’Elena,
• la ricerca e l’occultamento della verità come motore della l’Ifigenia in Tauride). Va notato, inoltre, che in quasi tutte queste
vicenda drammatica (cfr. L’Edipo re, lo Ione, l’Elena); tragedie sono presenti anche molti altri elementi, tematici e di
• i temi euripidei della Τύχη, dell’identità (cfr. la Medea, tecnica drammaturgica, che sono assenti in Aristofane e saranno
lo Ione, l’Elena), della dialettica tra rapporti d’elezione e propri della Commedia Nuova: la peripezia, l’incidenza di forze
rapporti regolari (cfr. la Medea, le Troiane, l’Andromaca). ignote nelle vicende rappresentate (la Sorte, Τύχη, e il cosiddet-
Il confluire, in Menandro, di due tradizioni drammatiche in ori- to Αὐτόματον), il tormento per l’identità perduta o resa ambi-
gine diverse, anche se complementari, si traduce nella Samía in gua dalle circostanze, il riconoscimento fortuito.
una duplicità dello schema narrativo. [Da: M. Vilardo, Menandro. La donna di Samo. Introduzione,
I primi due atti forniscono con chiarezza le premesse che danno traduzione e note di M. V., Rizzoli, Milano 2000, 17-21]
MENANDRO 127
il mondo di menandro
Storie di ordinaria
«borghesia» N ell’opera di Menandro – che prevalga il gusto per l’intreccio paradossale o
per la descrizione del carattere – il mondo in cui ci si muove è sempre quello
dell’intimità domestica e delle relazioni sentimentali: contrastate storie d’amore di
giovani di buona famiglia; peripezie gravitanti su riconoscimenti di fanciulli; servi
che con la loro accortezza aiutano i padroni a risolvere le situazioni più intricate.
Credibilità Inoltre, anche quando il gusto per l’intreccio sembra prevalere sull’approfon-
psicologica dimento psicologico, Menandro usa una grande cura nella caratterizzazione dei
dei personaggi
personaggi. Spesso si tratta dei tipi ricorrenti nella Commedia Nuova (il vecchio
padre, il giovane di buona famiglia, l’etera generosa, il servo furbo ecc.), ma Me-
nandro si cura di renderli tutti credibili, animati ciascuno da proprie motivazioni,
anche quando gli intrecci propongano situazioni di per sé altamente improbabili.
Padri e figli, da Certo i personaggi menandrei vivono nell’angusta prospettiva del microcosmo
Aristofane chiuso delle vicende familiari e personali, e specialmente di quei contrasti genera-
a Menandro
zionali fra padri e figli che erano stati d’attualità già per Aristofane, ad esempio, nei
perduti Banchettanti e nelle Nuvole. Ma c’è grande differenza fra l’atteggiamento
di Aristofane e quello di Menandro: se in Aristofane «la pulsione edipica esplode
caricando i comportamenti dell’eroe comico di aggressività verso quelle forme di
paternità mediata che sono l’autorità politica e l’autorità degli dèi», e se la comme-
dia latina «elabora il modello dello scontro comico tra il padre detentore del potere
repressivo e il figlio che arriva a vanificare l’autorità e a godere in pieno la libido
impedita con l’alleanza di un altro subalterno, lo schiavo fedele e intelligente», Me-
nandro interpone fra queste due modalità «una pausa di cautele e di conciliazione.
[...] Nello scorcio prospettico suggerito dalla paura, la Samia ci mostra una forte
approssimazione al dramma edipico, inclusa la minaccia dell’incesto se con esso si
intende l’appropriazione del possesso sessuale pertinente alla paternità; ma è una
sorta di incubo, da cui Demea si sveglia con sollievo. Nelle altre commedie la fun-
zione più frequentemente rappresentata non è la rivalità tra padre e figlio (maschio),
L’eco dei contrasti La società nel suo complesso resta elemento lontano, estraneo sia alla dimensione
sociali privata della famiglia sia a quella sentimentale degli individui, le uniche che interes-
sino davvero Menandro, lontanissimo in questo da Aristofane. Eppure si sa – come
ha ricordato G. Bodei Giglioni – che, proprio nello stesso anno (322-321 a.C.) in
cui Menandro riportava la sua prima vittoria, il reggente macedone Antipatro aveva
preso un provvedimento, propagandato come ritorno alla πάτριος πολιτεία di tipo
solonico, che privava della cittadinanza circa il 60% dei cittadini (cioè tutti colo-
ro che possedevano meno di 2 000 dracme). La reazione dovette essere di rancore
più o meno profondo verso il resto della società da parte dei nuovi emarginati: il
δύσκολος inselvatichito non era un carattere inventato da Menandro. Il sostanziale
128 MENANDRO E LA COMMEDIA NUOVA
silenzio di Menandro su questa nuova questione sociale non significa che egli ri-
muovesse il problema di una tale massa di esclusi: anzi, il suo teatro ci parla spesso
dei poveri con profonda simpatia, purché si tratti dell’«umile» che non si ribella. È
vero piuttosto che per il poeta ateniese i problemi della differenza di classe e della
cittadinanza o non cittadinanza dovevano diventare secondari e che occorreva ricer-
care una politica della convivenza per cui al povero è necessaria la forza di soppor-
tare con umiltà e sperare in un rivolgimento della sorte, al ricco la disposizione a una
benevola generosità senza superbia, ad entrambi un orientamento individuale molto
elastico, pronto ad afferrare le occasioni offerte dal momento propizio.
Dal sociale E così il sostanziale pessimismo che sembra conseguire sia da questa sottaciuta
all’«umano» realtà sociale carica di tensioni sia dalla caduta dei valori tradizionali della polis
trova il suo correttivo nella fiducia posta da Menandro in una fondamentale cor-
reggibilità della natura umana: il concetto di ἦθος aristotelico come insieme di
caratteristiche comportamentali marcate da una sorta di forza d’inerzia, di ostina-
ta resistenza al mutamento, risulta estraneo a Menandro. Anzi si può dire che le
sue commedie più «a tema», quelle più affini alla Commedia Antica nell’intento
di trasmettere al pubblico un messaggio sociale e culturale, sono le commedie
dove si mette alla berlina la durezza di carattere e l’inettitudine ai rapporti so-
ciali: uno dei temi principali nello Scudo è la critica dell’avarizia, nella Tosata
la critica della gelosia, nell’Arbitrato la critica del conformismo ipocrita, nel
Dyskolos la critica della selvatichezza.
Ridere Insomma, la rigidità del carattere è in Menandro l’analogo di quelle varie forme
dei «caratteri»… di depravazione o devianza che erano state messe alla berlina da Aristofane, ed
è questa nuova forma di negatività che viene più spesso sfruttata per suscitare il
riso e per sollecitare la disapprovazione del pubblico.
…che possono è un riso che Menandro non vuol far durare troppo a lungo: anche questi esempi
essre recuperati negativi sono alla fine recuperati, perché Menandro lascia sempre ai suoi per-
alla «normalità»
sonaggi il tempo per ragionare e per tornare sui propri passi fino a ritrovare la
Menandro e la Commedia Nuova
politica della convivenza; e talora, come nel caso del Dyskolos, il disvalore con-
dannato e infine beffato (appunto la δυσκολία) conserva, come abbiamo avuto
modo di sottolineare, un margine di positività tale da rendere non a senso unico
il progetto, per quanto difficile e precario, dell’integrazione del misantropo di-
sadattato nei meccanismi e nelle buone regole del vivere sociale. Anche tutti gli
altri personaggi che incorrono in una colpa e possono servire a suscitare il riso
risultano comunque redimibili e, almeno alla fine, pentiti: sono responsabili di
azioni più o meno gravi dettate da passioni inconsulte (spesso l’amore) o dal-
la rabbia di un momento, oppure sono essi stessi vittime di errori involontari,
provocati dall’imprevedibile Tyche, l’unica divinità che Menandro, in sintonia
con la religiosità dell’epoca, sente forse sinceramente come forza davvero in-
teragente con l’agire umano. L’eticità borghese che Menandro propaganda con
tanto fervore lo induce assai spesso a frasi moraleggianti, e proprio la frequenza
di tali espressioni sentenziose gli valse nella tarda antichità l’attribuzione di una
MENANDRO 129
raccolta di più di 800 sentenze lunghe un verso (e perciò dette μονόστιχοι), di
cui oggi non si pensa più che gli appartengano se non in parte.
Il relativo valore La cura stilistica non doveva essere al vertice delle ambizioni artistiche di Menan-
dello stile dro. Che sia vero o falso, riflette le scelte di priorità menandree un aneddoto rac-
contato da Plutarco (De gloria Atheniensium 347e): a un tale che gli chiedeva «Al-
lora, Menandro, le Dionisie sono vicine: non l’hai ancora scritta la commedia?»,
il poeta avrebbe risposto: «Sì, per gli dèi, il soggetto è pronto, mi resta solo da
scriverci sopra i versi» (ὠκονόμηται ἡ διάθεσις, δεῖ δ᾽ αὐτῇ στιχίδια ἐπᾷσαι).
Verosimiglianza L’unico aspetto veramente ricercato dello stile menandreo è l’attribuzione a mol-
nella costruzione ti personaggi e a talune situazioni di modalità dell’espressione in qualche misura
dei personaggi
differenziate, che mimeticamente riflettano l’umore momentaneo del personag-
gio o l’atmosfera peculiare di un certo frangente.
Mancanza di oscurità E mancano del tutto in Menandro quelle immagini oscure o ardite, comprensibili
e di oscenità solo se collegate a fatti o personaggi dell’Atene del tempo, e anche quelle battute
Capacità di conferire D’altra parte va sottolineata l’arte di creare risonanze nel ricorrere a mo’ di pa-
realismo role-chiave, in bocca a diversi personaggi, di certi vocaboli o espressioni, la dut-
alla composizione
tilità nel rallentare (ad es. con pause di sospensione: aposiopesi) o accelerare (ad
es. con gli asindeti) il ritmo del discorso e di elevarne (con riuso di moduli tragici
o di figure della retorica) o abbassarne (ad es. con colloquialismi) il registro, la
propensione ad alludere piuttosto che ad esprimere compiutamente, a schizzare
piuttosto che a definire. Tutte queste abilità fanno di un linguaggio discreto e di
per sé quasi banale uno strumento in grado, più che di suscitare l’effetto del mo-
mento, di ricreare un’atmosfera complessa e sfumata: insomma, se non possiamo
ancora parlare di uno specchio realistico della vita (come voleva la celebre frase
attribuita ad Aristofane di Bisanzio: «O Menandro, o vita! Chi di voi ha copiato
l’uno dall’altro?»), certo ci troviamo di fronte a un autore che ne coglieva e ne
valorizzava aspetti ancora inediti e tuttavia essenziali.
130 MENANDRO E LA COMMEDIA NUOVA
Filemone
Notizie biografiche
F ilemone (Φιλήμων) nacque a Siracusa o a Soli, in Cilicia, intorno al 360 e morì
quasi centenario al Pireo, soggiornando per lo più ad Atene, di cui nel 307 ot-
tenne la cittadinanza. Forse si recò anche presso la corte tolemaica. Un aneddoto
racconta di un incidente nel viaggio di ritorno: avrebbe fatto naufragio sulle coste
di Cirene, del cui re Magas aveva messo alla berlina l’incultura, e ciò nonostante
sarebbe stato trattato in modo ospitale.
Opere frammenti Portò in scena la prima commedia intorno al 330 e conseguì la prima vittoria
giunti alle Dionisie nel 327. Avrebbe composto 97 commedie, di cui conosciamo una
sessantina di titoli e possediamo oltre 200 frammenti.
Caratteristiche Due titoli (Mirmidoni e Palamede) attestano la persistenza del gusto per la pa-
rodia mitologica, mentre i Filosofi, in cui sappiamo che si nominavano Zenone
e Cratete, lascia supporre la presenza della parodia filosofica di aristofanesca
difilo
Vita
e titoli conosciuti D ifilo (Δίφιλος) nacque a Sinope, sul Mar Nero, tra il 360 e il 350 a.C. e morì
a Smirne nei primi anni del III secolo, ma fu sepolto ad Atene, dove ave-
va trascorso gran parte della vita. Autore di un centinaio di commedie, sappia-
mo che ottenne tre vittorie alle Lenee, di cui la prima verso il 318. Possediamo
Scene dall’Hecyra, da un circa 130 frammenti e conosciamo una
manoscritto conservato sessantina di titoli, che rimandano per lo
alla Biblioteca
Ambrosiana di Milano. più a temi tipici della Commedia Nuova;
alcuni altri (Danaidi, Eracle, Lemnie,
Peliadi, Teseo) sembrerebbero attesta-
re la presenza, come in Filemone, di un
filone mitologico; d’altra parte i soli ti-
toli non possono darci un’indicazione
sicura in tal senso, dal momento che al-
meno alcuni di essi potrebbero derivare
da personaggi mitici che pronunciavano
il prologo o da soprannomi attribuiti ai
personaggi (come doveva essere il caso
dell’Eracle e anche di una commedia
Fortuna Commedie di Difilo vennero utilizzate dai poeti latini: così sappiamo che i
presso i latini Κληρούμενοι («Quelli che tirano a sorte») furono ripresi nella Casina di Plauto,
il quale si servì per la Rudens di un’altra, per noi imprecisabile, commedia di Di-
filo; e dai Συναποθνήσκοντες («Quelli che muoiono insieme») lo stesso Plauto
avrebbe derivato i perduti Commorientes, secondo la testimonianza di Terenzio
nel prologo degli Adelphoe (Terenzio stesso afferma altresì di aver utilizzato una
scena della medesima commedia, tralasciata da Plauto, per i propri Adelphoe).
Confronto Dai frammenti non è possibile farsi un’idea precisa dell’arte di Difilo e dei suoi
con Menandro rapporti con Menandro, ma sulla base di caratteristiche comuni agli adattamenti
134 MENANDRO E LA COMMEDIA NUOVA
romani gli è stato attribuito da alcuni studiosi, scettici sulla «freddezza» in lui
riscontrata dai critici antichi (cfr. Ateneo XIII, 579e-580a), un tipo di comicità
basata su effetti teatrali vivaci e spettacolari.
Mosaico pavimentale. 300 d.C. Mitilene, Casa dei Mosaici; ora Mosaico pavimentale. 300 d.C. Mitilene, Casa dei Mosaici; ora Mitilene,
Mitilene, Museo Archeologico. Museo Archeologico.
La scena è la stessa di quella di Pompei; le differenze sono date La connessione di questa scena, dotata di didascalie, con il mosaico
dallo schema invertito (la vecchia è seduta a sinistra invece che a di Pompei non è immediata, come nel caso precedente, ma sono
destra) e dall’assenza della serva. In più vi sono, però, le didascalie, comunque evidenti alcune forti analogie. È ben possibile dunque che
secondo le quali il quadretto femminile illustra la commedia di siano raffigurati momenti diversi della stessa commedia di Menandro.
Menandro intitolata Le donne a colazione. In alto vi è il titolo Primo L’invasata, in cui le danze orgiastiche giocavano un ruolo importante.
atto delle donne a colazione (Sunaristwsw`n mev(ro~) a )v e poi In alto è il titolo, Atto secondo della Invasata (Qeoforoumevnh~
sotto i nomi delle tre donne: la vecchia è Filenide (Filainiv~), m(evro~) b )v , e sotto si leggono i nomi di Lisia (Lusiva~), che è
la giovane al centro è Plangone (Plaggwvn), l’ultima a destra è il giovane con i cembali, dello schiavo Parmenone (Parmevnwn) e
un’etera di nome Pitiade (Puqiav~). dell’altro giovane Clinia (Kleiniva~), che ha tra le mani forse un
tamburello. Infine, sebbene manchi la flautista, c’è il piccolo servo che
tiene in mano uno strumento musicale non ben identificabile.
Menandro e la Commedia Nuova
apollodoro
A pollodoro (Ἀπολλόδωρος) di Caristo, in Eubea, chiamato dalle fonti an-
che «l’Ateniese» (ciò che fa appunto supporre che ricevesse la cittadinan-
za ateniese), fu poco più giovane di Menandro, del quale parrebbe aver risen-
tito l’influsso. Autore di 47 opere, riportò cinque vittorie, di cui sicuramente
due alle Lenee. Terenzio rielaborò due sue commedie: la Ἑκυρά nell’Hecyra e
l’Ἐπιδικαζόμενος («Il reclamante») nel Phormio.
Dyskolos
Personaggi del dramma:
PAN divinità,
CHEREA parassita,
SOSTRATO giovane innamorato,
PIRRIA servo di Sostrato,
CNEMONE vecchio contadino,
FIGLIA DI CNEMONE
DAVO servo di Gorgia,
SICONE cuoco,
GETA servo di Callippide,
MADRE DI SOSTRATO
SIMICHE serva di Cnemone,
CALLIPIDE padre di Sostrato.
Personaggi muti:
MIRRINE madre di Gorgia,
PLANGONE probabilmente sorella di Sostrato,
T. 1 L’antefatto La scena rappresenta una strada di campagna, una grotta consacrata a Pan e alle
Ninfe e due case: a sinistra quella del protagonista, il dyskolos (il «misantropo»
o «bisbetico« o «scorbutico«), a destra quella del suo figliastro Gorgia. Nel pro-
logo espositivo il dio Pan in persona – venerato in un santuario nei pressi del
quale si svolge l’azione – esce dall’antro e informa il pubblico sull’antefatto e sul
carattere dei personaggi. Nel demo attico di Phyle l’anziano contadino Cnemone,
un tipaccio scorbutico che ha in odio l’intero genere umano, vive con la figlia e
una vecchia serva, Simiche. Per il pessimo carattere l’uomo è stato abbandonato
dalla moglie, la quale dopo una vita da cani a fianco del marito, è andata a vivere
in casa col figlio di primo letto Gorgia, un giovane onesto e generoso.
136 DYSKOLOS
La figlia del protagonista, cresciuta lontano dalle tentazioni cittadine, è sem-
plice e onesta, ignara del male e dedita al culto di Pan e delle Ninfe. Il dio,
volendone ricompensare la devozione, ha fatto innamorare di lei un giovane
facoltoso e dabbene, Sostrato. Il giovanotto, che intende sposarla, ha inviato il
fido Pirria a prendere informazioni sulla ragazza. Ma il servo ha avuto la sventura
di imbattersi proprio in Cnemone che, furibondo per il solo fatto d’essere stato
avvicinato, lo ha rincorso lanciandogli proiettili improvvisati.
Scena A File, un borgo a circa 20 km a nord-est di Atene, sulle pendici del Parnete e
al confine con la Beozia, di fronte al santuario naturale consacrato a Pan e alle
Ninfe, ai lati del quale stanno la casa di Cnemone e quella di Gorgia.
1. Il ninfeo è un sacrario delle ninfe, divinità femminili personificazioni di elementi o fenomeni naturali; in
effetti a poca distanza da File sono stati rinvenuti resti di un tale luogo di culto in una grotta, con iscrizio-
ni e dediche a Pan e alle ninfe, spesso associati nella tradizione religiosa greca. Con la caratterizzazione
dei Filasii come «coloro che sanno coltivare anche le pietre», il dio pone subito in risalto il carattere forte
dei cittadini di questo demo, associandolo all’asprezza del suolo che essi lavorano e anticipando in tal
modo la natura burbera e irascibile del vecchio Cnemone.
2. La descrizione di Pan comincia dal podere del vecchio Cnemone, su cui i commentatori si sono a lungo
soffermati nel tentativo di ricostruire la scenografia della commedia. In genere, nel teatro attico, il lato
destro della scena, secondo la visuale degli spettatori, è rivolto verso la città, il sinistro verso la campa-
Menandro e la Commedia Nuova
gna. Inoltre i personaggi in scena parlano di «destra» e «sinistra» a partire dal proprio punto di vista. Se
consideriamo inoltre che l’altra casa cui si fa riferimento nella commedia è quella di Gorgia, più vicina
alla città rispetto alla campagna isolata scelta dal vecchio Cnemone, si può pensare che casa e podere di
quest’ultimo fossero all’estrema sinistra degli spettatori e a destra di Pan che recita il prologo.
3. In tal modo è introdotto fin dall’inizio della commedia quel concetto di φιλανθρωπία caratteristico
del teatro menandreo, che rifluirà in seguito anche nella commedia latina di Terenzio. L’aggettivo
ἀπάνθρωπος «che non ama la gente» si trova già in tragedia, a partire da [Eschilo], Prometeo 20, ad
indicare un luogo selvaggio, deserto, lontano dagli uomini: è proprio questo il tratto saliente del perso-
naggio Cnemone, che rifugge la gente non solo in senso fisico, ma anche sul piano spirituale; l’aggettivo
si carica allora anche di un valore diverso, ad indicare la «disumanità», come è confermato dal nesso
δύσκολος πρὸς ἅπαντας, in cui l’aggettivo vale lett. «difficile da accontentare», «sempre scontento»,
«scontroso». Cnemone rientra in una galleria di misantropi che hanno il loro prototipo nella figura semi-
leggendaria dell’ateniese Timone e infinite (e fortunate) riprese teatrali in varie epoche e letterature (cfr.
scheda La figura del misantropo nella commedia, p. 000).
4. Cnemone si sente costretto a mantenere qualche rapporto col dio per due motivi: il vicinato e la necessità
ineludibile di passare davanti al ninfeo in cui il dio viene onorato. I commentatori richiamano per questo
passo l’ἀπροσηγορία, lett. «mancanza di relazioni» (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea 1157b 13), che
nei Caratteri di Teofrasto è attribuita all’αὐθάδης, lo «scortese», avvezzo a non ricambiare il saluto di
chi lo incontra (15, 3): qui Cnemone si pente subito della cortesia che rivolge al dio passandogli accanto.
5. Che Cnemone sia sposato stride un po’ con la sua caratterizzazione di burbero, ma è indispensabile ai fini
dell’intreccio.
L’ANTEFATTO 137
tutto il giorno, ma la maggior parte della notte. Una vita da cani. Gli nasce una
bambina: peggio ancora. Resasi conto che quella vita era più che mai dolore,
amarezze, dispiaceri, la donna se ne è andata dal figlio di primo letto.6 Questi
possiede un piccolo podere nelle vicinanze, grazie al quale mantiene a stento sé,
la madre e un unico servo, ereditato dal padre, fedelissimo. 7 È un ragazzo che
ha più cervello della sua età; perché l’esperienza delle difficoltà fa crescere.8 Il
vecchio invece vive con la figlia e una vecchia serva, zappando, raccogliendo
legname, faticando sempre e detestando tutti quanti, a cominciare da sua moglie
e dai vicini, per finire fino ai Colargesi.9 La ragazza, grazie all’educazione ricevu-
ta, ignora totalmente il male.10 La cura che si prende delle Ninfe, mie compagne,
la venerazione e gli onori che rende ad esse, ci hanno persuaso a prenderei a
nostra volta cura di lei.11 Un giovane, figlio di un uomo ricco, che possiede qui
terreni per parecchi talenti, ma abita in città, trovandosi una volta a caccia con
un compagno è capitato per caso12 in questo luogo e io l’ho fatto innamorare di
lei. Questa è l’azione per sommi capi. I dettagli li saprete tra poco, se vorrete. Ma
lo vorrete certamente. Ecco; vedo che stanno arrivando l’amoroso e il suo amico
e stanno parlando proprio di questo.
6. La figlia è una delle rare persone con cui il misantropo ha un buon rapporto. Quanto al divorzio dei
coniugi, esso è in genere indicato col verbo tecnico ἀπολείπειν, riferito alla moglie che lascia il
marito con il consenso dell’arconte: qui invece è usato il verbo ἀπέρχεσθαι, che indica una sepa-
razione consensuale, pure possibile.
7. Si noti l’insistenza sulle dimensioni ridotte della proprietà, nel quadro di un tenore di vita assai mo-
desto, che consente di sbarcare a mala pena il lunario, completato dall’unico servitore che il giovane
ha ereditato dal padre.
8. l’esperienza delle difficoltà fa crescere: espressione gnomica, secondo una caratteristica tipica della
commedia nuova e in particolare dei prologhi menandrei. Per Paduano si tratta di una «trascrizione
in esperienza e in linguaggio quotidiano del grande principio eschileo del πάθει μάθος».
9. Le indicazioni topografiche fornite da Pan sono da intendersi in senso letterale: probabilmente il
dio indica prima la casa di Gorgia (il vicino più prossimo al podere di Cnemone) e poi la direzione
di Colargo, il centro del demo in cui si svolge la commedia, distante circa dieci miglia dal ninfeo di
Pan.
10. Dopo aver presentato i caratteri del giovane (virtuoso) e del vecchio (misantropo), Pan descrive ora
14. È un topos della commedia (già antica, poi nuova e palliata latina) l’atteggiamento canzonatorio di
schiavi, servi e amici nei riguardi delle pene d’amore del proprio padrone; qui l’ironia è ben esempli-
Menandro e la Commedia Nuova
ficata dalla litote οὐκ ἀπιστῶ, lett. «non (è vero che) non ti credo».
15. Il rapimento di una fanciulla da parte dell’innamorato non è infrequente nella commedia, specie quan-
do si tratti di un’etera o di una schiava. Qui Cherea suggerisce un rapimento per procura, come negli
Adelphoe di Terenzio e una serie di altri comportamenti che descrivono le sue abitudini in simili situa-
zioni: «dò fuoco» (κατακάω) allude alla possibilità di bruciare una porta per forzarla. Per una scena
simile, cfr. Plauto, Curculio 76 ss. dove Fedromo riesce ad avvicinare la fanciulla amata solo dopo
avere attirato fuori di casa la sua custode, Leonessa, con una generosa offerta di vino di cui la vecchia
è grande amante.
16. A Cherea non importa sapere chi sia la fanciulla oggetto dell’amore dell’amico: egli passa subito
all’azione, che qui giustifica con una massima tipica dello stile menandreo, elegantemente costruita
sull’opposizione tra lentezza (βραδύνω) e rapidità (ταχέως/ ταχύ).
17. Cherea illustra ora il suo diverso atteggiamento nel caso in cui la fanciulla non sia un’etera, ma una
donna libera: la sua indagine prematrimoniale riguarda γένος («stirpe», «famiglia»), βίος («mezzi di
vita», «risorse») e τρόποι («modi», «comportamenti»). Resta il fatto che il servizio reso da Cherea
all’amico resterà un ricordo (μνεία) per sempre.
18. Sostrato riconosce la validità generale delle parole di Cherea ma, a parte, commenta che la riflessione
per lui non è tanto soddisfacente, in quanto, come dirà appena più sotto, ha già incaricato dell’indagine
il servo Pirria.
19. La reazione di Cherea è di stupore e sorpresa, sia per l’improprietà dell’azione (inviare un servo per un
compito così delicato presso un uomo di differente condizione sociale), sia perché ormai pregustava di
svolgere lui stesso questo incarico.
UN UOMO INTRATTABILE 139
T. 2 Un uomo La commedia si apre con la comparsa del servo trafelato – archetipo del ser-
intrattabile vus currens della palliata latina – inseguito dal folle misantropo: «Attenzione,
attenzione, toglietevi tutti di mezzo, c’è un matto che m’insegue»! (v. 81).
Pirria, in preda al terrore, racconta al padrone – che nel frattempo stava con-
fidando il proprio innamoramento all’amico Cherea – i particolari dell’incontro
col dyskolos. Questi, appena contattato da Pirria, ha dato in escandescenze
investendolo di male parole («Maledetto, vieni nel mio campo, che vuoi?») e
ha preso a inseguirlo bersagliandolo con zolle, pietre e persino pere. Mentre il
servo racconta il cattivo esito della propria missione, penando nel convincere il
padroncino di non essere responsabile dell’esplosione d’ira del vecchio, questo
entra in scena ancora fuori di sé per la violazione della propria solitudine. È il
momento di massima tensione comica: l’uomo rimpiange di non essere Perseo,
che grazie al cavallo alato Pe-
gaso poteva sollevarsi al di
immagini topiche sopra dei propri simili e, col
l’antitesi della philanthropia volto della Gorgone, mutare
in pietra gli scocciatori. La
La misantropia di Cnemone non è solo un tratto che serve a caratterizzare un perso-
PIRRIA Attenzione, attenzione, toglietevi di mezzo tutti, c’è un matto che mi insegue.
SOSTRATO Che c’è?
PIRRIA Scappate.
SOSTRATO Ma che c’è?
PIRRIA Mi tira addosso zolle, pietre. Sono morto.
SOSTRATO Ti tirano addosso ... Ma dove vai sciagurato?
PIRRIA Non m’insegue più?
SOSTRATO Ma no.
PIRRIA Credevo.
SOSTRATO Ma che dici?
PIRRIA Andiamocene, ti supplico.
SOSTRATO Dove?
PIRRIA Via da questa porta, il più lontano possibile. È un matto, un disperato, un indemonia-
to quello che abita qui.2 Povero me! Mi sono rotto quasi tutte le dita.
SOSTRATO [ ] Avrà combinato qualche guaio.
CHEREA [ ] È chiaro.
PIRRIA Ma no, te lo giuro. Mi possa venire un accidente. Ma tu sta in guardia, Sostrato. Non
riesco a parlare: mi manca il fiato. Busso alla porta di casa dicendo: «Chiamate il
padrone», e mi vien fuori una vecchia disgraziata, la quale, stando dove vi parlo io in
questo momento, me lo mostra che stava su una collina al lavoro, a raccogliere pere,
o piuttosto legna, per farsene una gogna.3
CHEREA Sei proprio arrabbiato.
PIRRIA Che ci vuoi fare? Vado nel campo, e ancora camminando, già da lontano, volendo
mostrarmi amichevole e garbato, lo chiamo. «Vengo – dico – per un certo affare per-
sonale, che ti riguarda».4 E lui subito: «Maledetto,5 vieni nel mio campo? Che vuoi?».
Prende una zolla e me la tira in faccia.
CHEREA Al diavolo!
1. La scena, finora piuttosto statica, si anima repentinamente per l’ingresso di Pirria da sinistra, dove si
Menandro e la Commedia Nuova
Esce
6. Giova alla comicità della scena la descrizione del vecchio che si presume non velocissimo e tuttavia in-
segue spietato il servo, lanciando come con una fionda (usa il verbo σφενδονάω, tecnico del linguaggio
militare) proiettili non ortodossi. Il commento finale di Pirria assume colorazione tragica.
7. Si osservi come Cherea, spaventato dall’idea di incontrare il vecchio furioso, s’ingegni a sostenere la
necessità di differire l’incontro ricorrendo a una massima che suggerisce l’inazione (proprio lui, che
Sostrato stima uomo πρακτικός, v. 56) e come il servo Pirria si affretti a dichiararsi d’accordo, espri-
mendosi al plurale («avete ragione»), come se Sostrato avesse già accolto il consiglio dell’amico.
8. La battuta di Sostrato è esplicitamente rivolta al servo che viene maledetto per avere mandato a monte i
piani del padrone.
9. L’attribuzione di questa battuta è problematica: nonostante le incertezze si accetta l’ipotesi secondo cui
sia Sostrato che parla a Pirria.
142 DYSKOLOS
CNEMONE Quant’era fortunato Perseo!10 E per due ragioni: perché grazie alle ali non si trovava
tra i piedi quelli che camminavano per terra, e perché tutti gli scocciatori poteva tra-
sformarli in pietre.11 Magari potessi anch’io! Non ci sarebbero altro che statue di pie-
tra in giro. Non si può più vivere; entrano nel mio podere e parlano, parlano. Sembra
che passi il mio tempo in mezzo alla strada, quando invece non coltivo più neppure
questa parte del campo per sfuggire alla gente che passa. Niente, ora mi vengono a
dare la caccia sulla collina. Una folla soffocante. E ora chi è quest’altro che se ne sta
impalato davanti alla mia porta?
SOSTRATO Che mi voglia picchiare?
CNEMONE Non ci si può godere la solitudine da nessuna parte, neanche se ci si volesse impic-
care!12
SOSTRATO Ce l’ha con me? (a Cnemone) Sto aspettando una persona; eravamo rimasti d’accordo
di trovarci qui.
CNEMONE Lo dicevo io! L’avete preso per un portico, per un luogo di riunione.13 Se volete ve-
dervi davanti alla mia porta, fate le cose per bene: costruite dei sedili, magari anche
una sala. Povero me! Mi sembra che questa sia una sopraffazione bella e buona.
(Entra in casa)
[Tr. di G. Paduano]
10 Comincia il soliloquio di Cnemone: i commentatori osservano che egli è già da un po’ sulla scena (da
nove versi) e che il suo silenzio ha accresciuto l’attesa curiosa del pubblico nei suoi confronti, ulterior-
mente stimolata – è probabile – dall’aspetto fisico dell’attore (abito e maschera). Ora egli comincia a
parlare con un riferimento sarcastico al mito di Perseo, che certo il pubblico non si attendeva: la particel-
la con cui inizia il discorso (εἶτα) ha una sfumatura di rabbia, sarcasmo e disprezzo. Del mito dell’eroe
argivo interessano Cnemone quei particolari mirabolanti di cui egli vorrebbe disporre per non imbattersi
in alcun seccatore: i sandali alati, munito dei quali Perseo partì alla ricerca della Gorgone Medusa, e la
testa di quest’ultima (il «possesso») che, come noto, trasformava in pietre chiunque la guardasse e che
l’eroe riuscì a mozzare per eliminare Polidette.
11. Il mondo ideale di Cnemone sarebbe privo di persone e popolato da statue (con la testa di Gorgone, par
di capire: il misantropo renderebbe di pietra tutti i seccatori che lo incontrassero), l’opposto – dal suo
punto di vista – rispetto alla massa di curiosi che rendono invivibile il suo stesso campo. Si noti anche
l’impiego del verbo ἐπεμβαίνω, con cui il vecchio descrive l’assalto al suo campicello: il verbo vale
«salire», «montare», «penetrare», «calpestare» e l’invasione è per giunta accompagnata da insoppor-
tabile ciarlare: «parlano» (λαλοῦσι) si riferisce certamente alla visita di Pirria, ma il plurale enfatizza
l’incursione, come se i disturbatori fossero ben più numerosi.
Menandro e la Commedia Nuova
12. Sostrato, memore del trattamento riservato dal vecchio al servo Pirria, teme di essere il prossimo obiet-
tivo della furia di Cnemone. Questi commenta la situazione con l’ennesima iperbole, che assume una
formulazione gnomica, ricordata da Libanio (Declamationes 26, 4) probabilmente proprio in relazione
al Dyskolos menandreo.
13. Nella sua foga polemica Cnemone ritiene che gli estranei abbiano scambiato la sua terra per un portico
(στοά) o una piazza, tradizionali luoghi d’incontro pubblico: nella mente del misantropo prende forma
la paura che casa sua diventi un permanente punto di riferimento per incontri e riunioni, per lui insop-
portabile affronto.
Nessuno mi farà cambiare idea, e su questo mi darete ragione anche voi. L’unico
errore è stato forse quello di credermi autosufficiente, di non avere bisogno di
nessuno. Ora che ho visto da vicino la morte, rapida, imprevedibile, ho capito
che sbagliavo. Bisogna avere sempre vicino qualcuno che ti possa dare un aiuto.
Ma, per Efesto, sono stato messo fuori strada dal vedere il modo di vivere degli
altri, i loro calcoli, l’attenzione esclusivamente rivolta al guadagno. Non avrei
mai pensato che ci fosse tra tutti una persona capace di fare il bene altrui.
Questo era l’ostacolo che avevo davanti. Solo Gorgia ora mi ha dato coi fatti la
prova di essere un uomo generoso. Io non lo lasciavo neppure avvicinare alla mia
porta; non l’ho mai aiutato, non gli ho mai dato neppure una parola di saluto,
una parola gentile... eppure mi ha salvato. Un altro avrebbe detto, e con ragione:
«Non mi vuoi nella tua casa? E io non ci vengo. Non mi hai mai fatto un piacere?
E neanche io lo faccio a te». Che c’è, ragazzo? Se muoio – e credo proprio di sì,
Menandro e la Commedia Nuova
lo Scudo
T. 4 Una trappola Se il primo atto ha visto l’esposizione dei fatti, sia attraverso il monologo
Esce
CHERESTRATO (...) [A Cherea] Pensavo che tu avresti sposato questa ragazza, e lui, Cleostrato, mia
figlia, e che vi avrei lasciato padroni di tutti i miei averi. Potessi morire subito, prima
Menandro e la Commedia Nuova
DAVO Cherestrato, non fare così! Tirati su. Non puoi perderti d’animo, lasciarti andare,
giacere inerme. Su, Cherea, avvicinati, confortalo! Non cedere! Per noi tutto dipende
UNA TRAPPOLA PER SMICRINE, LO ZIO «CATTIVO» 147
da questo. Piuttosto, apri la porta16, fatti vedere. Cherestrato, vuoi abbandonare i
tuoi cari così ignobilmente?
CHERESTRATO Mio buon Davo, sto male. Mi sento depresso per questa storia, sì, per gli dèi, e non
sono più in me, mi sembra proprio di impazzire. È il galantuomo di mio fratello
che con la sua malvagità mi ha ormai ridotto in questo stato di prostrazione. Vuole
sposarla lui.
DAVO Sposarla? Ci riuscirà?
CHERESTRATO È deciso, quel galantuomo, anche se gli ho offerto tutto ciò che Cleostrato ha spedito
qua.
DAVO Infame!
CHERESTRATO Infame, proprio! Non resisterò, per gli dèi, se dovrò assistere a un fatto simile.
DAVO Ma come si può avere la meglio su un essere così spregevole? È dura... è dura, sì, ma
forse si può.
CHERESTRATO Si può? Ah, varrebbe davvero la pena di impegnarsi a fondo, per Atena.
DAVO Se qualcuno, per gli dèi (...)
(...) due talenti [... Se diamo] a Smicrine una speranza, (...) lo vedrai subito finire
precipitosamente fuori strada, stravolto, e potrai rigirartelo a piacere; e poiché vede e
prevede solo ciò che desidera, sarà un giudice scriteriato della verità.
CHERESTRATO Che hai in mente? Per me, sono pronto a fare ciò che vuoi.
DAVO Voi dovete mettere in scena un’altra tragedia. Quello che dicevi poco fa ora devi farlo
sembrar vero, cioè che per la disgrazia di Cleostrato e per le nozze della ragazza sei
caduto in una profonda prostrazione, e che vedi nello sconforto questo giovane che
consideri figlio tuo, e insomma che sei stato colto da uno di quei mali fulminanti...
Del resto la maggior parte delle malattie nascono da qualche dolore, e so che tu già
per natura sei incline a sconforti e depressioni. Poi faremo venire qua un medico che
sputerà sentenze e dirà che trattasi di pleurite o di frenite o di qualche altra malattia
che ammazza alla svelta.
CHERESTRATO E allora?
DAVO All’improvviso sei stecchito. Noi gridiamo «Cherestrato è morto» e ci battiamo il
petto davanti alla porta. Tu sei chiuso dentro, e in mezzo alla stanza sarà esposta la
tua salma coperta di veli.
Escono
analisi drammaturgica
Gioco metateatrale piazza, se non c’è nessuno in casa»). Come spesso in Menan-
Mai come qui Menandro (ma si ricordi che già nell’Elena di dro, un effetto naturalistico è ottenuto col presentare la con-
Euripide la salvezza veniva raggiunta attraverso un finto rito versazione come già in fieri, riferendone quel tanto che basta
funebre) ha fatto del “metateatro” l’occasione per un arguto per toccare il nocciolo del problema (qui la ferma determina-
gioco di specchi grazie al quale una situazione patetica, senza zione di Smicrine a sposare la ben più giovane nipote). Subito
nulla perdere della propria dichiarata serietà, può esser risolta emerge un problema di attribuzione delle battute, giacché il
Menandro e la Commedia Nuova
su un registro inconfondibilmente mediano fra i poli estremi rimprovero che abbiamo assegnato con Sandbach a Cherestra-
della “vera” tragedia e della “vera” (aristofanesca) commedia: to ai vv. 256 s. («Smicrine, un po’ di misura!») è stato da alcuni
una dimensione di arte riflessa e cosciente di sé al cui inter- attribuito al giovane Cherea sulla base della replica di Smicrine
no anche la gestualità e gli spostamenti degli attori (con il (v. 257 διὰ τί, παῖ; «Perché, ragazzo?»), trascurando però il
complesso meccanismo di entrate e uscite che articolano la valore puramente interiettivo che può assumere (cfr. ad es. Dy-
divisione delle scene) e la vivace segmentazione del dialogo in skolos 500 e Samía 360) il vocativo παῖ (non necessariamente
direzioni continuamente cangianti tendono a porsi come una riferito a un ragazzo), e sciupando l’effetto che ha invece l’im-
dimostrazione pratica delle risorse del genere, trasformando il provvisa interruzione del suo silenzio da parte di Cherea al v.
doppio πάθος (quello vero e quello simulato) in un divertito 284 con l’apostrofe a Cleostrato. Assai meglio dunque lasciare
“andante” patetico. alla coppia dei fratelli tutto il dialogo fino all’uscita di Smicrine
(v. 278), e in particolare a Cherestrato, il fratello minore, il di-
dinamiche sceniche plomatico seppur improbabile tentativo di ricondurre Smicrine
Dopo l’intermezzo corale, marcato dalla sigla ΧΟΡΟΥ e prean- alla ragione.
nunciato da Davo (vv. 245 ss.), nell’area scenica rimasta vuota
sopraggiunge un terzetto formato da Smicrine, Cherestrato e Collasso emotivo
Cherea, che sappiamo provenienti dall’agorà o dai suoi dintor- È il fallimento di questa prova che promuove, una volta al-
ni, cioè dalla direzione lungo la quale si era mosso Smicrine lontanatosi Smicrine, quel pathos risolto in stratagemma a cui
(cfr. vv. 211-213: «Devo vedere qualcuno di questi; andrò in facevamo riferimento. Cherestrato chiude il suo sfogo con un
CARISIO E PANFILE: RELAZIONE «COMPLICATA» 149
disperato «Potessi morire subito, prima di vedere cose che mai di Cherea perché si avvicini e conforti il patrigno, poi si rivolge
mi sarei immaginato...», Cherea esordisce al v. 284 con un’in- nuovamente a quest’ultimo (a partire da μὴ ᾽πίτρεπε «Non
teriezione che suole denotare la transizione a un nuovo argo- cedere» del v. 301), infine cerca di avviarlo verso casa perché,
mento (εἶεν «ebbene», «eh, sì»), dando voce a un monologo aperta la porta, si faccia vedere dai familiari (τοὺς φίλους
carico di amara rassegnazione che evidentemente già stava 304, da riferire specialmente alle donne in lutto).
svolgendo silenziosamente dentro di sé. Due collassi emoti-
vi, due simultanee ἀθυμίαι: troppe per essere prese davvero l’abile regia del servus callidus
sul serio, tanto più se (ma anche su questo punto le opinioni Controparte positiva di Smicrine, in quanto a lui accomunato
divergono) Cherestrato non sviene né rientra in casa dopo il da una carica comunque costruttiva che necessariamente man-
v. 283 ma resta in scena, assiste in silenzio al monologo di ca alla coppia di depressi (oltretutto, parrebbe, un po’ tardi
Cherea e solo alla fine di esso è colto da un collasso, crolla a a comprendere: cfr. v. 346), Davo sa opporre alla competen-
terra e viene soccorso da Davo, uscito dalla casa dello stesso za legale del vecchio, esperto in lasciti e in tutela del minore
Cleostrato. Ed ecco appunto che le apostrofi e il gesticolare (cfr. vv. 269 ss.), l’arma del suo poeta, quella regia drammatica
affannato di Davo riducono a una nota velatamente umoristica, che avrà per protagonista Cherestrato, per comprimari Cherea,
senza esplicitamente ridicolizzarla, questa doppia disperazio- Davo stesso e un finto medico, e per spettatore lo sciagurato
ne: egli invita Cherestrato a tirarsi su, chiede la collaborazione Smicrine.
L’Arbitrato
P resentiamo per intero quello che rimane della commedia, nella traduzione di F.
Ferrari (da Menandro e la Commedia Nuova, a c. di F. F., Einaudi, Torino 2001).
Personaggi muti:
moglie di Siro, forse Sofrona e Simia.
Scena Una via di un borgo dell’Attica, forse non lungi da Halai Araphénides (sulla
costa, a est di Atene), dove si celebrava la festa delle Tauropolie. Sullo sfondo le
case di Carisio e del suo amico Cherestrato.
T. 5 Carisio e Panfile: Prima del fr. 6, da collocare alla fine del I atto, possiamo ipotizzare, soprattutto
relazione sulla base di alcune citazioni, tre scansioni principali:
«complicata»
1. un dialogo iniziale fra Onesimo, servo di Carisio, e il cuoco Carione, noleggiato
per un banchetto in casa di Cherestrato (frr. 1, 2, 3 e 5): nel corso di questo
150 L’ARBITRATO
dialogo Onesimo doveva raccontare a Carione di aver scoperto che Panfile,
moglie di Carisio, durante l’assenza del marito ha dato alla luce, solo cinque
mesi dopo le nozze, un bimbo e lo ha abbandonato nella campagna circo-
stante; al padrone appena tornato Onesimo ha subito spifferato la notizia, e
così Carisio ha abbandonato Panfile trasferendosi nella casa adiacente del suo
amico Cherestrato, dove ha reclutato anche un’etera, la giovane suonatrice
Abrotono;
2. un prologo espositivo recitato da una divinità, che non siamo in grado di iden-
tificare, la quale doveva comunicare agli spettatori due dati essenziali della
trama: che il padre del bimbo partorito da Panfile è Carisio stesso, che in stato
di ubriachezza aveva violentato Panfile in una festa notturna, e che il bimbo
esposto è stato ritrovato da uno schiavo di Cherestrato (Davo);
3. un monologo di Cherestrato (o un dialogo fra Cherestrato e un altro perso-
naggio, eventualmente Abrotono) seguito dall’arrivo di Smicrine (il padre di
Panfile che ha appena saputo dell’abbandono della figlia da parte di Carisio),
con un monologo del vecchio intercalato da commenti ‘a parte’ di Cherestrato.
T. 6 L’arbitrato Dopo una lacuna che ci porta direttamente all’inizio del secondo atto, assistiamo
alla scena «madre» da cui prende il titolo la commedia: l’alterco per strada fra
il pastore Davo e il carbonaio Siro. Il primo, che ha consegnato a Siro il neo-
nato esposto che ha trovato, pretende di tenere per sé gli oggetti preziosi che
del bambino, che invece il carbonaio reclama, in quanto possesso del bambino
stesso. I due quindi affidano il verdetto a Smicrine, presente lì per caso, nomi-
nandolo arbitro del contenzioso.
ONESIMO Ritenendo che tutte le umane vicende [siano] precarie [...] il padrone [...] il vecchio
[...].1
Entrano, provenienti dalla campagna, il carbonaio Siro, il pastore Davo e la moglie di Siro con in
braccio un bimbo
1. La lacuna che si apre dopo i primi, malridotti 6 versi del II atto doveva contenere una sequenza in cui
Onesimo dapprima recitava un monologo e poi dialogava con Smicrine (che dopo la lacuna vediamo già
sulla scena, in procinto di tornare in città), forse cercando di tranquillizzarlo con qualche menzogna dopo
il colloquio avuto dal vecchio con Panfile.
L’ARBITRATO 151
SIRO Non devi avere ciò che non ti appartiene. Abbiamo bisogno di un giudice di pace.
DAVO Bene, sottoponiamoci alle decisioni di un arbitro.
SIRO Quale?
DAVO Per me uno vale l’altro. Ho quello che mi merito. Ma che bisogno avevo di coinvol-
gerti?
SIRO (indicando Smicrine) Ti sta bene lui come giudice?
DAVO Perché no?
SIRO (a Smicrine) Scusa, amico, avresti un po’ di tempo da dedicarci?
SMICRINE A voi? A che scopo?
SIRO Abbiamo un contenzioso.
SMICRINE E a me?
SIRO Siamo alla ricerca di un arbitro imparziale. Se non hai impegni, risolvi tu la nostra
lite.
SMICRINE Accidenti a voi! Con queste giubbe di pelle andate in giro a proporre controversie?
SIRO Ma tant’è... La questione non richiede tempo ed è facile da inquadrare. Sii gentile,
signore, e non umiliarci, in nome del cielo. La giustizia deve prevalere in ogni circo-
stanza e in ogni luogo e chi si trova presente a una lite dovrebbe sentirsi impegnato a
offrire il suo contributo: è un principio universale della convivenza civile.2
DAVO (fra sé) Eh sì, mi tocca fronteggiare un bravo oratore. Ma che bisogno avevo di coin-
volgerlo?
SMICRINE E dimmi, rispetterete il mio verdetto?
SIRO Scrupolosamente.
SMICRINE Bene, vi darò udienza. Cosa me lo impedisce? (A Davo) Parla prima tu che hai taciuto
finora.
DAVO Vorrei risalire un po’ indietro, al di qua della controversia con lui, affinché la que-
stione ti risulti perfettamente chiara. Devi sapere, egregio signore, che una trentina
di giorni fa ero intento a pascolare tutto solo le pecore nella boscaglia al confine con
questi campi quando in terra trovai un bimbo abbandonato con accanto una collana
e questi pochi monili.
SIRO Di questi si tratta.
DAVO (A Smicrine) Mi interrompe.
2. La gnome, di profilo molto alto, sembra porsi soprattutto sulla linea della rivendicazione di una solida-
rietà comunitaria (οἰκείωσις) quale era stata teorizzata da Teofrasto nel De pietate (vedi Porfirio, De
abstinentia III 25).
3. Il motto ἐν νυκτὶ βουλή è registrato da Zenobio (III 97) e appare presupposto in Erodoto VII 12, 1 νυκτὶ
δὲ βουλὴν διδούς e altrove.
152 L’ARBITRATO
tutto pensieroso?». E io: «Me lo domandi?». Sono un pettegolo e così gli racconto
la storia: che avevo trovato il bimbo, che l’avevo raccolto. Lui non mi lascia neppure
concludere e ripetendo continuamente «Dio te ne renda merito, Davo!» mi scongiu-
ra: «Cedilo a me, il piccolo. Il cielo ti benedica e ti liberi dalla schiavitù. Ho moglie e
le è morto il piccolo che aveva appena partorito». Si riferiva appunto alla donna che
tiene in braccio il bimbo in questo momento. Mi supplicavi o no, caro il mio Siro?4
SIRO Sì.
DAVO Mi tormentò per tutto il giorno finché cedetti alle sue insistenze. Glielo diedi e lui
si congedò colmandomi di benedizioni: mi stringeva le mani, me le baciava.5 Non è
vero?
SIRO È vero.
DAVO Sparì, ma ora eccolo di nuovo qui con la moglie a reclamare tutt’a un tratto gli
oggetti che allora erano deposti accanto al bimbo – ma sono robetta, cianfrusaglie,
niente di prezioso – e dice che gli faccio una prepotenza se non li consegno a lui e
pretendendo di tenermeli. Secondo me dovrebbe dirmi grazie per aver ottenuto ciò
che chiedeva ed è assurdo che mi metta sotto inchiesta se trattengo qualcosa. Anche
se questi oggetti li avesse trovati andando in giro con me e la scoperta l’avessimo fatta
insieme,6 una parte l’avrebbe presa lui, un’altra io. (A Siro) Invece li ho trovati da solo
e tu [in quel momento] non c’eri: ti pare giusto che tu abbia tutto e io niente? In
conclusione, io ti ho dato una cosa che era mia: se ci tieni, conservala; se non ci tieni
e ti sei pentito, restituiscila senza fare il prepotente o la vittima. Ma che tu ti prenda
tutto, un po’ col mio consenso e un po’ con la forza, non è ammissibile. Ho finito.
SIRO (a Smicrine) Ha finito?
SMICRINE (a Siro) Non hai le orecchie? Ha finito.
SIRO Bene! Ora tocca a me. Il bimbo lo trovò da solo, tutto ciò che ha raccontato rispon-
de a verità. È andata proprio così, caro signore, e non posso negare che ho avuto il
piccolo a furia di preghiere e di suppliche. Un pastore però, un compagno di lavoro
con cui si era confidato, mi ha riferito che trovò anche dei gioielli, ed è qui a riven-
dicarli il suo stesso proprietario. – (Alla moglie) Porgimi il bimbo, cara. (Prende il bimbo
e lo protende verso Davo) È lui, Davo, che reclama da te la collana e gli altri segni di
riconoscimento: è come se dicesse che furono sistemati lì per suo ornamento, non
Menandro e la Commedia Nuova
per dar da mangiare a te. E anch’io ti chiedo di restituirli, ora che sono diventato suo
tutore:7 – eh sì, tale mi hai reso tu stesso con l’affidarmelo. (A Smicrine) Ora, signore,
sta a te giudicare, io credo, se questi oggetti, d’oro o d’altro materiale, devono essere
custoditi per il bimbo, come un dono di sua madre, chiunque ella fosse, fino al mo-
mento in cui sarà diventato grande, o se deve tenerseli chi li trafugò solo perché trovò
per primo cose che non gli appartenevano. (A Davo) Perché mai – potresti obiettare
4. Nel testo greco è Συρίσκ(ε) che è stato spesso interpretato come il nome del personaggio (Sirisco); in
realtà si tratta di un diminutivo (cfr. Terenzio, Adelphoe 763, dove Syrus apostrofa se stesso con Syrisce),
come è attestato dal mosaico di Mitilene che raffigura questa scena, dove il personaggio è appunto indi-
cato come SUROS.
5. Baciare le mani è un gesto raramente ricordato nei testi greci (ma cfr. Odissea XXI 225, Senofonte,
Ciropedia VII 5, 32).
6. Letter. «se fosse stato un Hermes comune» (Hermes era il dio dei guadagni fortunati e il nesso κοινὸς
Ἕρμης compare anche in Teofrasto, Caratteri 30, 9).
7. In senso lato, dato che uno schiavo non poteva assumere tutela.
L’ARBITRATO 153
– non li reclamai quando presi il bimbo? Ma perché non ne avevo ancora il diritto.
Ora invece sono qui per toccare di questo argomento, ma senza rivendicare nulla per
me. Parli di scoperta in comune? Ma non si può parlare di “scoperta” quando c’è un
essere umano violato nei suoi diritti: questa non è una scoperta, è un furto. (A Smicri-
ne) Considera un altro aspetto della questione, gentile signore. Forse questo infante
è di condizione superiore alla nostra e pertanto, dopo essere stato allevato in mezzo
a lavoratori di campagna, comincerà a disprezzare il nostro stato e assecondando
l’impulso incoercibile della sua origine oserà cimentarsi in qualche nobile impresa:
cacciare leoni, andare in guerra, correre nelle gare atletiche. Sono sicuro che sei stato
a teatro e queste cose le sai. Quegli eroi famosi, Neleo e Pelia, furono trovati da un
anziano pastore che indossava come me una giubba di pelle: quando capì che erano
di condizione superiore alla sua rivelò il segreto raccontando come li aveva trovati e
raccolti e consegnò loro una borsa contenente quei segni di riconoscimento grazie ai
quali ricostruirono la loro origine e da pastori quali erano diventarono dei sovrani.8
Se quegli oggetti li avesse presi Davo, li avrebbe venduti per una dozzina di dracme
e personaggi tanto egregi e di tale lignaggio avrebbero trascorso tutta la vita nell’om-
bra. Non è bello, signore, che, mentre io allevo questo bimbo, Davo ne soffochi la
prospettiva di un avvenire migliore. C’è chi, in virtù di qualche oggetto di riconosci-
mento, evitò di sposare la sorella e c’è chi incontrò e liberò la madre e chi salvò il
fratello.9 Dal momento che la vita umana è per sua natura esposta alla precarietà,
dobbiamo tutelarla con l’arte di prevedere il futuro, intuendo con largo anticipo i
fattori che possono condizionarla. Lui dice: «Se non ti va di tenerlo, restituiscilo»,
e crede di avere addotto un valido argomento. Ma non è giusto. (A Davo) Essendo
costretto a restituire qualcosa che appartiene al bimbo cerchi di prenderti anche lui
per tornare a compiere più comodamente le tue mascalzonate, ora che la Fortuna ha
salvato un po’ delle sue cose? (A Smicrine) Ho finito. Giudica tu chi ha ragione.
SMICRINE Il verdetto è facile. Tutti gli oggetti esposti insieme col neonato gli appartengono.
Questa è la mia sentenza.
DAVO Bene. E il bimbo?
SMICRINE Diamine, non lo assegnerò sicuramente a te che gli vuoi nuocere, ma a chi lo proteg-
ge e cerca di parare le tue ribalderie.
8. Neleo e Pelia erano stati esposti dalla madre Tirò dopo averli generati da Posidone. Riconosciuti figli
suoi (l’agnizione avveniva tramite la tinozza in cui i neonati erano stati abbandonati alla corrente del
fiume), Neleo divenne re di Pilo, Peleo della Tessaglia. L’argomento era stato trattato da Sofocle nella
perduta Tirò.
9. Per il secondo caso si possono richiamare la già ricordata vicenda di Tirò o quella di Ipsipile, per il terzo
quella di Ifigenia e Oreste nell’Ifigenia fra i Tauri di Euripide, ma per il primo non abbiamo un preciso
punto di riferimento anche se qualche affinità si può intravedere con la trama della Perikeiromene.
154 L’ARBITRATO
SIRO Apri la borsa e fammi vedere: di sicuro gli oggetti li tieni lì. (A Smicrine che si è mosso per
andarsene) Aspetta un momento, per favore, finché me li consegna.
DAVO (fra sé) Ma perché mi sono affidato a questo tizio?
SIRO (a Davo) Consegna, avanzo di galera!
DAVO (consegnando con riluttanza gli oggetti a Siro) È una vergogna.
SMICRINE (a Siro) Hai preso tutto?
SIRO Credo di sì, a meno che, sentitosi sconfitto, non abbia ingoiato qualcosa mentre di-
cevo le mie ragioni.
DAVO (fra sé) Incredibile!
SIRO (A Smicrine) Addio e buona fortuna, nobile signore. Ogni giudice dovrebbe compor-
tarsi alla tua maniera.
DAVO [Una vera ingiustizia!] Non si è mai udito verdetto più crudele.
SIRO Non sei stato onesto.
DAVO Disonesto sarai tu. E ora [bada] di conservare questi oggetti per lui, [finché sarà di-
ventato grande.] Non smetterò mai di tenerti gli occhi addosso.
SIRO Va’ all’inferno! (Alla moglie) Tu, moglie, prendi queste cose e portale dentro dal nostro
giovane padrone, da Cherestrato. Per questa notte staremo qui, domani pagheremo
il tributo e torneremo al lavoro. Ma prima contami gli oggetti uno per uno. Hai una
cesta? (La moglie fa cenno di no) Mettili nel grembiule.
ONESIMO (fra sé) Un cuoco così lento non si era mai visto. Ieri a quest’ora bevevano da un pezzo.
SIRO (Alla moglie) Questo sembra un gallo... come è rinsecchito! Prendi. Questo amuleto è
tempestato di pietre preziose. Questa è una scure.
Menandro e la Commedia Nuova
T. 7 L’anello Si presenta in scena Onesimo che afferma di aver tentato più volte di avvicinarsi
di Carisio a Carisio per mostrargli l’anello, ma di non aver poi mai avuto il coraggio di
parlargli: i rapporti con il padrone si sono del resto fatti tesi, da quando lo ha
informato del parto della moglie in sua assenza. L’anello smarrito da Carisio alle
Tauropolie, che è parte del corredo del bambino raccolto da Davo e adottato da
Siro, diviene elemento centrale per lo scioglimento dell’intreccio, poiché alla
festa ha partecipato anche Abrotono, che ricorda un episodio di violenza consu-
mato in quell’occasione.
156 L’ARBITRATO
vv. 464-556
ABROTONO (avvicinandosi) Ehi, Onesimo, il bimbo che ora quella donna allatta in casa lo ha tro-
vato questo carbonaio?
ONESIMO Così dice.
ABROTONO Com’è grazioso, poverino!
ONESIMO E sostiene che accanto c’era questo anello del mio padrone.
ABROTONO Disgraziato! Se è figlio del tuo padrone, permetterai che sia tirato su come uno schia-
vo? Ti meriti la morte.
ONESIMO La madre, ti ripeto, nessuno sa chi è.
ABROTONO L’anello, dicevi, lo smarrì alle Tauropolie?
ONESIMO Sì: era ubriaco, come mi riferì il servo che lo accompagnava.
ABROTONO Evidentemente si imbatté nelle donne che celebravano da sole la festa notturna. A un
5. Le madri delle ragazze ricordate poco prima («suonavo la cetra per un gruppo di ragazze e mi divertivo»,
v. 477).
158 L’ARBITRATO
ONESIMO Forse è lei.
ABROTONO Non so. Era con noi, ma a un certo momento si allontanò, poi all’improvviso tornò
di corsa, sola, in lacrime, strappandosi i capelli e con la veste – molto elegante e raf-
finata: una tarantina6 – ridotta a uno straccio.
ONESIMO (mostrandole l’anello) Questo lo aveva?
ABROTONO È possibile, ma a me non lo mostrò. Non voglio dire bugie.
ONESIMO Adesso che devo fare?
ABROTONO Vedi tu. Però, se sei intelligente e vuoi seguire il mio consiglio, racconta tutto al tuo
padrone. Se il piccolo è figlio di una donna libera, perché dovrebbe restare all’oscuro
dell’accaduto?
ONESIMO Ma prima, Abrotono, cerchiamo di scoprire chi è la ragazza, e tu dammi una mano.
ABROTONO Non me la sento, prima di sapere [con certezza] chi è l’autore dello stupro.7 Temo
di offrire indizi senza ragione alle donne di cui ti [dicevo]. Potrebbe averlo smarrito
qualcun altro dei presenti dopo averlo ricevuto in garanzia da lui. Magari lo diede in
pegno per una partita a dadi oppure perse una scommessa e fu costretto a cederlo.8
Episodi simili ne accadono tanti nei conviti. Insomma, prima di conoscere il respon-
sabile non ho intenzione né di mettermi in cerca della ragazza né di pronunciare una
sola parola sull’argomento.
ONESIMO Non ti posso dare torto. Che fare, allora?
ABROTONO Guarda un po’, Onesimo, se la mia idea ti piace. Attribuirò l’accaduto a me stessa e
andrò in casa da lui con questo anello.
ONESIMO Chiarisci! Comincio a seguirti.
ABROTONO Vedendomi l’anello al dito mi domanderà dove l’ho preso. Gli risponderò: «Alle
Tauropolie, quando ero ancora una vergine», e riferirò a me stessa tutto quello che
capitò alla ragazza. Di queste cose me ne intendo.
ONESIMO Sei imbattibile!
ABROTONO Se il fatto lo riguarda personalmente, si lascerà indurre a darmene la prova e, brillo
com’è, dirà lui ogni cosa per primo, d’impulso, e io confermerò ogni sua frase stando
attenta, per evitare errori, a non parlare mai per prima.
ONESIMO Splendido, perdinci!
ABROTONO E sempre per non sbagliare snocciolerò le solite banalità: «Com’eri brutale! Com’eri
Menandro e la Commedia Nuova
audace!»
ONESIMO Bene!
ABROTONO «Con che impeto mi gettasti a terra! Che bel vestito mi sciupai, povera me!» Così gli
dirò. Ma prima voglio entrare a prendere il bimbo per consolarlo e baciarlo, e poi
chiedere alla donna che lo tiene da chi lo ha avuto.
ONESIMO Per Eracle!
ABROTONO Da ultimo gli dirò: «Ti [è] nato un figlio», e gli mostrerò il trovatello.
ONESIMO Furba la donnina! Appena si è accorta che con le arti della seduzione perdeva il suo
tempo e non si sarebbe guadagnata la libertà, ha imboccato l’altra via. Io invece che
sono un moccioso, uno stupido, un inetto resterò uno schiavo per tutta la vita. Forse
da lei otterrò qualcosa, e sarebbe l’ora, se riesce nel suo intento. Ma come sono vani
i miei calcoli, povero me, se mi aspetto di ricevere da una donna un qualche segno
di gratitudine.
Spero solo di non rimetterci. Ora per la mia padrona la situazione è a rischio: se salta
Entra il cuoco Carione con il suo assistente Simia dalla casa di Cherestrato
[...]
SMICRINE Consumano un pranzo pieno di sorprese.13
CARIONE Povero me, che rabbia! Non so perché adesso si sparpagliano fuori. Ma se un’altra
volta [avrete bisogno] di un cuoco, andate all’inferno!
[...]
Carione esce con Simia in direzione della città. Entra Cherestrato dalla sua casa
[...]
SMICRINE14 Il vostro amico non si è vergognato di [avere] un figlio da una puttana [...]
[...]
SMICRINE Lui, in nome di Dioniso! Forse mi intrometto [più] di quanto sarebbe nei miei diritti,
ma è nella logica delle cose che io prenda mia figlia e me la porti via. Sì, faro così, ho
quasi deciso. Vi chiamo a testimoni [...] o Cherestrato [...]
[...]
SMICRINE [Non] odia [affatto] la dolce vita. Ma se, dopo aver bevuto con una ragazza, alla sera
ne aveva un’altra e la mattina dopo un’altra ancora!
[...]
CHERESTRATO [...]
casa [...]
12. A questo punto vi è una zona estremamente mutila o del tutto lacunosa che si estende per circa 25 versi
e che doveva essere per gran parte occupata da un monologo di Smicrine, in cui il vecchio si lamentava
dello scandalo propagatosi per tutta la città e deplorava la vita dissipata condotta ora dal genero. Poi il
cuoco Carione (la sigla nominale καρ è apposta in margine al v. 622) usciva dalla casa di Cherestrato,
accompagnato da un assistente (Simia), e si produceva in un monologo mentre Smicrine, senza notar-
ne la presenza, snocciolava una serie di «a parte».
13. Il termine usato, ποικίλον è forse ambiguo: «vario», indicando sia le portate, sia i colpi di scena.
14. Dopo la sezione assai mutila dei versi precedenti, che era occupata prima da un dialogo fra Smicrine e
il cuoco e poi, verosimilmente, da un monologo di Cherestrato (preoccupato per la sceneggiata messa
in atto da Abrotono?) e da alcune battute di Smicrine, troviamo il vecchio, in dialogo con Cherestrato,
chiamare a testimoni gli amici del genero in merito al suo censurabile comportamento nei confronti
della moglie.
PADRE E FIGLIA 161
T. 9 Padre e figlia Venuto a conoscenza di quanto rivelato da Abrotono, Smicrine ha buoni argo-
menti per convincere la figlia ad abbandonare il marito, reo di tradimento e
inaffidabile. Ma Panfile resiste, per un senso del dovere coniugale e soprattutto
per l’amore che nutre nei confronti di Carisio, che è più forte dell’offesa subita
dalla donna.
[...]
PANFILE [...] Ma se pur cercando la mia salvezza non riuscirai a persuadermi, sarai giudicato
non più mio padre ma il mio padrone.
SMICRINE E c’è bisogno di parole, c’è bisogno di convincerti? Non è [una cosa evidente? I
fatti,] Panfile, acquistano voce e gridano la verità. Ma se devo esprimere anch’io la
mia opinione, sono pronto e ti metterò davanti tre argomenti.1 Non c’è più speran-
1. A quanto si ricava o si arguisce da ciò segue, si tratta dello scialo del patrimonio, delle arti da meretrice
di Abrotono e del (presunto) figlio di Abrotono e Carisio.
162 L’ARBITRATO
za né per lui né per te [...] a suo agio e piacevolmente, mentre tu [non] molto [...]
[...]
[...] lo scialo. Prova a calcolare. Tesmoforie? Il doppio.2 Scire? Il doppio. Dilapida il
suo patrimonio, capisci? E’ alla rovina, irreparabilmente. Pensa alla tua situazione!
Dice che deve andare al Pireo: ci andrà e si piazzerà lì. La cosa ti farà soffrire. Re-
sterai in attesa [...] senza toccare cibo mentre lui, naturalmente, è a bere con quella.
[...]
E questo per lei sarà motivo di incoraggiamento: assumerà un’aria corrucciata, farà
prediche continue e assumendo pose da moglie legittima alla fine sarà alla pari con te
da ogni punto di vista. Così ti farà saltare i nervi. E’ dura, Panfile, per una donna li-
bera combattere con una sgualdrina: è più furba e più esperta, non conosce scrupoli,
è più adulatrice, [ricorre] a ogni bassezza. Fa’ pure conto che queste cose te le [abbia
dette] la Pizia: si verificheranno per filo e per segno. Anteponendo questo a ogni [...]
Non concluderai nulla andando contro [la mia] volontà.
PANFILE [Padre mio,] esprimere un’opinione insincera [su] tutte le cose che tu ritieni giovino
[...]3
Fr. 8
PANFILE Gli occhi mi bruciano tutti per il pianto.4
ABROTONO (verso l’interno della casa)5 [...] Esco con il bimbo. È da un pezzo che piange, poverino:
non so che cosa lo infastidisce.
PANFILE (fra sé) Quale dio avrà pietà di me?
ABROTONO [Piccino] caro, [quando] vedrai la tua mamma?6 [...]
PANFILE Rientrerò.
ABROTONO (fermandola) Aspetta un momento, signora.
PANFILE Dici a me?
ABROTONO Sì. Guardami.
PANFILE Mi conosci, donna?
Menandro e la Commedia Nuova
ABROTONO (fra sé) Sì, è proprio lei la ragazza che vidi alla festa. (A Panfile) Salve, carissima!
PANFILE Chi sei?
2. Le Scire o Sciroforie (in onore di Atena Skirás, di Posidone-Eretteo e di Demetra e Kore) erano una
festa ateniese celebrata a principio dell’estate e riservata, al pari delle più celebri Tesmoforie (in onore
di Demetra thesmophóros «legislatrice»), alle sole donne. Smicrine vuol dire che Carisio in occasione di
queste feste dovrà raddoppiare le spese.
3. Il discorso di Panfile (che si doveva esprimere in termini in parte comparabili con quelli del personaggio
femminile che recita la rhesis di P. Didot I) proseguiva per più di una trentina di versi, mentre Carisio
origliava non visto presso la porta della casa dell’amico (si veda più avanti la battuta di Onesimo: «poco
fa, in casa, è rimasto a lungo a spiare sulla porta, mentre il padre di sua moglie evidentemente parlava con
lei»). Dalle parole superstiti si arguisce fra l’altro che Panfile ribadiva la sua scelta di vita in comune col
marito (si legge al v. 820 κοινωνὸς τοῦ βίου, che sarà ‘citato’ alla lettera da Carisio al v. 920), dichiarava
di voler sopportare la situazione presente (οἴσω τοῦτ[ v. 821) e si prefigurava le calunnie della rivale (ἡ]
μᾶς ἐκείνη διαβ[αλεῖ v. 834).
4. Forse il frammento faceva parte di un monologo di Panfile successivo al dialogo col padre.
5. Ma è non è escluso che Abrotono si rivolga piuttosto agli spettatori.
6. Evidente l’ironia per cui la battuta viene pronunciata alla presenza di Panfile.
CARISIO RICONOSCE I SUOI ERRORI 163
ABROTONO Porgimi la mano. Dimmi, cara, l’anno scorso [partecipasti alla festa] delle Tauropolie
[...]?
PANFILE Ma tu, donna, dove hai preso il bimbo che tieni in braccio?
ABROTONO Forse, carissima, riconosci qualcosa in ciò che ha indosso? Non aver paura di me,
signora.
PANFILE Non è figlio tuo?
ABROTONO Fingevo, non per fare un torto a sua madre ma per poterla cercare con calma. Ora
però ti ho trovata: sei tu quella che allora ...
PANFILE E il padre?
ABROTONO È Carisio.
PANFILE Sei sicura, carissima?
ABROTONO Sicurissima. (Indicando la casa di Carisio) [Ma] tu non sei la sposa che abita in quella
casa?
PANFILE Sì.
ABROTONO Sei fortunata. Un dio ha avuto pietà di voi.7 Ma ho sentito cigolare la porta: uno dei
vicini sta uscendo. Fammi entrare in casa tua. Ti spiegherò per bene anche tutto il
resto.
7. Variazione del v. 855 («quale dio avrà pietà di me sventurata?») con μακαρία in luogo di τάλαιναν.
T. 10 Carisio
riconosce i suoi
errori
vv. 878-931
ONESIMO (agli spettatori)8 Pazzo, pazzo, ah, è ammattito Carisio, il mio padrone. Deve essergli
preso un attacco di bile nera o [qualche accidente] del genere. Che altro pensare?
Poco fa, in casa, è rimasto [a lungo] a spiare sulla porta mentre il padre di sua moglie
8. Che Onesimo si rivolga agli spettatori è chiaro da ἄνδρες (tradotto con «gente»), del v. 887.
164 L’ARBITRATO
885 ὁ πατὴρ δὲ τῆς νύμφης τι περὶ [τοῦ πράγματος
ἐλάλει πρὸς ἐκείνην, ὡς ἔοιχ’, ὁ δ’ οἷα μὲν
ἤλλαττε χρώματ’, ἄνδρες, οὐδ’ εἰπεῖν καλόν.
«Ὦ γλυκυτάτη - δὲ - τῶν λόγων οἵους λέγεις»
ἀνέκραγε, τὴν κεφαλήν τ’ ἀνεπάταξε σφόδρα
890 αὑτοῦ. Πάλιν δὲ διαλιπών, «οἵαν λαβὼν
γυναῖχ’ ὁ μέλεος ἠτύχηκα». Τὸ δὲ πέρας,
ὡς πάντα διακούσας ἀπῆλθ’ εἴσω ποτέ,
βρυχηθμὸς ἔνδον, τιλμός, ἔκστασις συχνή.
«Ἐγὼ – γὰρ – ἁλιτήριος» πυκνὸν πάνυ
895 ἔλεγεν «τοιοῦτον ἔργον ἐξειργασμένος
αὐτὸς γεγονώς τε παιδίου νόθου πατὴρ
οὐκ ἔσχον οὐδ’ ἔδωκα συγγνώμης μέρος
οὐθὲν ἀτυχούσῃ ταὔτ’ ἐκείνῃ, βάρβαρος
ἀνηλεής τε». Λοιδορεῖτ’ ἐρρωμένως
900 αὑτῷ βλέπει θ’ ὕφαιμον ἠρεθισμένος.
Πέφρικ’ ἐγὼ μέν, αὖός εἰμι τῷ δέει.
οὕτως ἔχων γὰρ αὐτὸν ἂν ἴδῃ μέ που
τὸν διαβαλόντα, τυχὸν ἀποκτείνειεν ἄν.
Διόπερ ὑπεκδέδυκα δεῦρ’ ἔξω λάθραι.
905 Καὶ ποῖ τράπωμαί γ’; Εἰς τί βουλῆς; Οἴχομαι.
Ἀπόλωλα· τὴν θύραν πέπληχεν ἐξιών·
Ζεῦ σῶτερ, εἴπερ ἐστὶ δυνατόν, σῷζέ με.
evidentemente parlava con lei della [faccenda], e mi vergogno, gente, perfino a riferi-
Menandro e la Commedia Nuova
re come trascolorava in viso. «Amore mio – esclamò – quali parole dici!» e cominciò
a percuotersi violentemente il capo. E dopo un po’: «Che tesoro di moglie avevo e
come l’ho perduta, povero me!» Da ultimo, udita tutta la conversazione, è rientrato
in casa e lì urla, capelli strappati, vaneggiamenti continui. «È tutta colpa mia – ripe-
teva –. Ho fatto quel che ho fatto, sono diventato padre di un piccolo bastardo e non
ho avuto la minima comprensione per lei che aveva sofferto la stessa disavventura.
Barbaro, spietato!» Nel suo furore lancia contro se stesso gli insulti più feroci e ha gli
occhi iniettati di sangue. Io mi sento i capelli ritti e sono secco per lo spavento. Nello
stato in cui si trova, se vede me che ho fatto la spia, potrebbe uccidermi. Ecco perché
sono sgattaiolato qua fuori. Ma per andare dove? Per decidere che cosa? Sono finito,
rovinato. Ecco, la porta cigola, sta uscendo. Zeus Salvatore, salvami tu, se puoi!
CARISIO Io, l’uomo senza peccato, preoccupato del proprio onore, che sa valutare che
CARISIO RICONOSCE I SUOI ERRORI 165
καὶ τὸ καλὸν ὅ τι πότ’ ἐστι καὶ ταἰσχρὸν σκοπῶν,
910 ἀκέραιος, ἀνεπίπληκτος αὐτὸς τῷ βίῳ –
εὖ μοι κέχρηται καὶ προσηκόντως πάνυ
τὸ δαιμόνιον – ἐνταῦθ’ ἔδειξ’ ἄνθρωπος ὤν.
«Ὦ τρισκακόδαιμον, μεγάλα φυσᾷς καὶ λαλεῖς,
ἀκούσιον γυναικὸς ἀτύχημ’ οὐ φέρεις,
915 αὐτὸν δὲ δείξω σ’ εἰς ὅμοι’ ἐπταικότα,
καὶ χρήσετ’ αὐτή σοι τότ’ ἠπίως, σὺ δὲ
ταύτην ἀτιμάζεις· ἐπιδειχθήσει θ’ ἅμα
ἀτυχὴς γεγονὼς καὶ σκαιὸς ἀγνώμων τ’ ἀνήρ».
Ὅμοιά γ’ εἶπεν οἷς σὺ διενόου τότε
920 πρὸς τὸν πατέρα, κοινωνὸς ἥκειν τοῦ βίου
[ κ]οὐ δεῖν τἀτύχημ’ αὐτὴν φυγεῖν
τὸ συμβεβηκός. Σὺ δέ τις ὑψηλὸς σφόδρα
[ ]ν̣
[ ]βάρβαρος
925 [ ]υ̣ν ταύτῃ σοφῶς
[ ]ε̣ μέτεισι διὰ τέλους
[ ]ονων τις· ὁ δὲ πατὴρ
[ ]έ̣σ̣τ̣ατ’ αὐτῇ χρήσεται. Τί δέ μοι πατρός;
Ἐρ]ῶ δ̣ι̣α̣ρ̣ρ̣ήδην «ἐμοὶ σύ, Σμικρίνη,
930 μὴ πάρεχε πράγματ’· οὐκ ἀπολείπει μ’ ἡ γυνή.
τί σ̣υνταράττεις καὶ βιάζῃ Παμφίλην;
cosa è bene e che cosa è male, io, l’individuo integerrimo, irreprensibile in ogni
atto della sua esistenza…9 Eh sì, la divinità mi ha dato la lezione che mi merita-
vo... questa volta ha puntato il dito su di me dicendomi: «Disgraziato, tu che sei
9. Il v. 910 è quasi identico a Euripide, Oreste 922 in relazione a un contadino che lavora personalmente la
propria terra, ma più che a un’imitazione cosciente occorrerà forse pensare – data la diversità di situazio-
ne – a «una reminiscenza formale spontanea» (Barigazzi).
166 L’ARBITRATO
Entra Abrotono dalla casa di Carisio
ONESIMO (fra sé) Povero me, sono in crisi profonda. (Ad Abrotono) Ti supplico, [donna,] non la-
sciarmi andare alla deriva.
CARISIO (scorgendo Onesimo) Stavi origliando, furfante?
ONESIMO Neanche per sogno! Sono appena uscito.10
[...]11
CARISIO Come dici, Onesimo? Mi avete messo alla prova?
ONESIMO Ma l’idea è stata sua, per Apollo [e per tutti gli dei.]
CARISIO [...] mi prendi in giro, furfante?
ABROTONO Non ti arrabbiare, carissimo! Tua moglie, e nessun’altra, è la madre del [piccolo].
CARISIO Magari!
ABROTONO Te lo giuro su Demetra.
CARISIO Cosa dici?
ABROTONO [Cosa dico? La] verità.
CARISIO Il bimbo è di Panfile? [...]
ABROTONO Sì, e anche tuo.
CARISIO Di Panfile? Ti scongiuro, [Abrotono,] non illudermi [...]
10. Credo si tratti di una bugia e che Onesimo sia rimasto a origliare durante il soliloquio del padrone.
11. Negli assai mutili 13 versi successivi interveniva nel dialogo anche Abrotono rivelando che il bimbo che
aveva finto di aver partorito non era suo.
T. 11 Verso Il finale della commedia è trasmesso in condizioni molto precarie: la prima scena è
la soluzione incentrata sulla figura enigmatica di Cherestrato, cui qualcuno (ma potrebbe anche
trattarsi di monologo interiore) raccomanda di rimanere fedele amico di Carisio e
(forse) di rispettare Abrotono. Nella scena successiva troviamo Onesimo che si fa
beffe di Smicrine, nel momento in cui il vecchio viene a sapere di essere nonno
di un inaspettato nipotino. Nel finale poi tutto si doveva ricomporre con l’affran-
camento di Abrotono e (forse) le sue nozze con Cherestrato, che nel corso della
commedia aveva seminato indizi che dimostravano il suo interesse per la flautista.
La Samia
T. 12 Reticenze Mentre si stanno apprestando i preparativi per le nozze fra Moschione e la figlia
di Nicerato, per caso Demea capita nella stanza della dispensa e sentendo una
vecchia domestica rivolgersi al bambino come figlio di Moschione, è colto dal
sospetto che Criside lo abbia tradito con il figlio: la situazione peggiora di fronte
ai tentennamenti del servo Parmenione che, messo alle strette dalle domande
incalzanti di Demea non trova di meglio che sottrarsi con la fuga. Dopo un mo-
nologo in cui è combattuto fra l’amore per Criside e quello per il figlio, Demea
arriva alla conclusione che l’iniziativa sia partita dalla donna, che pertanto viene
cacciata. Il dialogo fra i due è tutto giocato sull’incomprensione, poiché Demea
non esplicita le ragioni che lo portano a cacciare la donna, e d’altra parte la
durezza delle sue parole è raddolcita da espressioni affettuose da cui traspare il
rimpianto per l’amore perduto.
analisi drammaturgica
Silenzi allusivi, riferimenti lasciati cadere a metà, accenni equi- casmo (v. 371: «Certo, fanno pietà queste lacrime»; vv. 390 s.:
voci: uno dei modi più intensamente e originalmente perseguiti «La nobile donna! Ora, in città, vedrai bene chi sei») copre la
da Menandro consiste nella comunicazione dell’incomunicabilità preoccupazione per la sorte che attende l’etera cacciata di casa
(di quel blocco delle relazioni umane indotto da ignoranza della (e immaginata nel quadro di quei conviti in cui le sue future
situazione reale o da cecità psicologica). Nulla di analogo, in ve- colleghe «per far dieci dracme corrono ai banchetti, bevono
rità, alla moderna poetica dell’incomunicabilità e dell’alienazione vino puro fino a morire»), e lo stesso sdegno con cui la ripudia
(variamente articolata da Ibsen a Pirandello a Sartre). Quest’ulti- si confonde contraddittoriamente alla premura di assicurarle
Menandro e la Commedia Nuova
ma sembra piuttosto radicarsi nel disagio connesso a una crisi di il massimo di conforto per i tempi duri che verranno (vv. 381
identità della persona entro un contesto familiare o sociale che s.: «Hai tutte le tue cose; in più ti dono anche delle ancelle,
non appare in grado di rispondere alle sue aspirazioni più auten- Criside»). E se il motivo dichiarato dell’allontanamento è l’aver
tiche; al contrario, il personaggio menandreo sa in genere ciò che tenuto con sé il neonato, la ragione reale (gelosia verso Mo-
vuole e ciò che i ruoli sociali, con sua piena soddisfazione, sono schione e amarezza nel credersi non più ricambiato affettiva-
in grado di offrirgli (né il suo orizzonte di attesa si allarga al di là mente da Criside) trova modo di affiorare nel ricordo di quando
dei loro confini). Eppure gli accidenti del vivere o le macchinazio- – sottolinea Demea – «ero io che rappresentavo tutto per te,
ni magari a fin di bene di uno schiavo ingegnoso (qui Parmenone, allora, quando te la passavi male» (vv. 379 s.).
il servo di Demea) possono creare situazioni al cui interno gli Per parte sua anche Criside potrebbe rivelare ciò che a sua vol-
esseri umani non solo si muovono secondo una conoscenza delle ta Demea non sa, eppure non fa nessun tentativo per salvare
cose e dei fatti diversamente graduata, ma si scambiano parole la propria situazione pur di tener fede al patto stretto con Mo-
che mascherano più di quanto esprimano o addirittura enunciano schione, fino a ridursi ben presto a un quasi completo silenzio
l’esatto contrario del sentimento che ne sta alla radice. a cui fanno da bordone gli approcci insistenti del cuoco venuto
Il voler dire di Demea si scontra qui con un non poter dire (per per il banchetto destinato ad allietare il ritorno di Demea: più
delicatezza verso il figlio) che giunge a frammentare l’espres- che un inserto farsesco, un controcanto ironico che segnala
sione in un balbettio impacciato (vv. 374 s.: «DEMEA ... lonta- come anche in mezzo agli affanni più cocenti la vita quotidiana
no da me! CRISIDE Perché non ho esposto il bambino? DEMEA continui, con i suoi forse banali ma impellenti problemi (per il
Sì, per questo e... CRISIDE E? DEMEA Per questo»), il suo sar- cuoco, una giornata di lavoro andata in fumo).