Sei sulla pagina 1di 6

Callimaco (Cirene 310–240 a.C.

Nacque a Cirene attorno al 310 a.C. da nobile famiglia ed entrò alla


corte del secondo Tolomeo, il Filadelfo. Qui si impose all'attenzione di
tutti prima come erudito, poi come poeta ufficiale, raggiungendo il
culmine della notorietà sotto Tolomeo Evergete. Morì intorno al 240.
La sua attività di erudito è testimoniata dai perduti Pinakes o Tavole,
una monumentale rassegna e descrizione degli autori e delle opere
raccolte nella Biblioteca.

L'OPERE

Della sua produzione poetica ci sono giunti sei Inni, numerosi Epigrammi,
quasi tutti contenuti nell'Antologia Palatina (raccolta di epigrammi,
risalente al X sec., che vanno dall'età arcaica all'età bizantina) e poi
frammenti degli Aitia, dei Giambi e dell'Ecale.

Gli Aitia

Gli Aitia costituiscono senza dubbio l'opera maggiore di Callimaco.


Divisi in 4 libri, per circa 4000 versi narrano le cause o le origini (aitia)
di riti, feste, nomi di città sotto forma di leggende e di miti. Nonostante
l'ampiezza, le varie elegie che li scandiscono non si compongono in unità; è
così salvaguardata una delle regole fondamentali della nuova poesia: la
brevità.
Gli studiosi distinguono due proemi: uno più antico di tipo esiodeo, che
parla dell'investitura poetica di Callimaco rapito in sogno sull'Elicona, il
sacro monte delle Muse; l'altro preposto molto più tardi a una seconda
edizione dell'opera, enuncia i canoni della nuova poesia all'interna di
un'aspra polemica contro certi Telchini (demoni invidiosi, petulanti,
localizzati soprattutto a Rodi; nel proemio sono chiamati così gli
avversari del poeta).
Poiché gli avversari del poeta nel proemio gli rimproverano di non
sapere comporre "un solo canto continuato", "in molte migliaia di
versi", a gloria di "re" e di "eroi", si è pensato subito e prima di tutto
ad Apollonio Rodio, che con le Argonautiche, ha composto un poema di
stampo omerico.
Secondo un'altra possibile lettura i Telchini sarebbero epigrammisti,
come Asclepiade, non certo lontani dagli ideali poetici di Callimaco.
Appare comunque eccessivo negare l'esistenza di una polemica tra
Callimaco e Apollonio che un'antica autorevole tradizione documenta. I suoi
termini sono definiti da una folla di immagini opposte, avvalorate
dall'apparizione di Apollo sceso a insegnare al poeta la nuova misura
del canto; "la via angusta" e i "sentieri non calcati" devono essere
preferiti al "largo cammino".
Dietro le immagini si individuano con chiarezza i caratteri dominanti della
nuova poetica, che sono l'originalità e la leptòtes, cioè la brevità,
intesa come massima concentrazione di dottrina e di splendore
formale.
Nasce così una poesia preziosa, colta difficile, che una ristretta élite
apprezza come espressione di un raffinato "gioco" intellettuale e di
aristocratici sentimenti, ma che non conosce di certo le valenze etiche
e politiche di quella arcaica e classica.
Gli Aitia non sono l'unica opera in cui compare la polemica contro i passatisti,
pensiamo ad esempio all'Inno ad Apollo e all'epigramma di Lisania: in entrambi
i passi si ricrea, con la polemica contro i malevoli detrattori, l'enunciazione di
un nuovo manifesto letterario.

Aconzio e Cidippe e la Chioma di Berenice

Degli Aitia possediamo pochi frammenti. I più estesi e significativi sono,


oltre al prologo, la storia di Aconzio e Cidippe e la Chioma di Berenice.
Aconzio, giovane di Ceo, incontra alle feste di Artemide a Delo Cidippe e se ne
innamora. Per legarla a sé escogita uno stratagemma: getta ai piedi delle
ragazza una mela con la scritta: "Giuro per Artemide di sposare Aconzio".
Cidippe la raccoglie, legge e rimane vincolata per sempre al giuramento
pronunciato. Il padre, ignaro, vorrebbe dare alla figlia un altro sposo, ma ogni
volta che si avvicina il giorno delle nozze Cidippe è colpita da una misteriosa
malattia.
L'elegia, mutila nella prima parte, prosegue con una digressione sulle
antiche leggende dell'isola, in cui i poeta sfoggia la sua erudizione
geografica e mitologica.
A ben guardare però la stessa storia dei due giovani è narrata con
distacco, senza concessioni al sentimentalismo romantico e, invece,
con una nuova attenzione ai particolari poco noti, ai paragoni bizzarri,
alle glosse rare.
All'inizio si elencano i vari tentativi e preparativi di nozze e se ne
registra di volta in volta l'interruzione a causa delle malattie che
affliggono la ragazza; del suo dramma intimo non si fa parola; Aconzio,
d'altro canto, è sullo sfondo, lontano, sembra quasi inesistente.
Il ritmo, poi, si fa più concitato quando il padre corre a consultare
l'oracolo di Delfi; ma l'ansiosa attesa del responso notturno subito si
dissolve nella presentazione puntigliosa delle possibili attività di
Artemide e delle strane prerogative dei sacerdoti di Zeus Icmio.
Quando finalmente ai due innamorati sorride la felicità, il calore
dell'unione si raggela nel paragone metallico con l'elettro o nel
vagheggiamento di Ificle che vola leggero sulle spighe.
La poesia di Callimaco vuole essere insieme "vera" e "nuova": vera
perché rifugge dalle sbavature sentimentali e persegue un'impersonale
oggettività; nuova, perché, quasi in contrasto con questa
connotazione, fa largo spazio a una dottrina antiquaria - storica,
geografica, mitologica - che trasfigura e impreziosisce la verità

La Chioma di Berenice, a noi nota nella sua completezza dalla versione


di Catullo, chiudeva gli Aitia nell'edizione definitiva del corpus
callimacheo e costituiva uno splendido omaggio ai sovrani
alessandrini.
A suo modo è anch'esso un aitiov, in quanto spiega l'origine della
costellazione scoperta dall'astronomo Conone nella coda del Leone e
da lui chiamata appunto "ricciolo di Berenice".
La storia è raccontata in prima persona del ricciolo stesso reciso dal
crudele ferro e offerto dalla regina in dono ad Afrodite per propiziare il
felice ritorno del novello sposo partito per la guerra. Senonché il
ricciolo scompare dal tempio in cui era custodito e viene ritrovato in
cielo, "nuova costellazione fra le antiche". Ora, di lassù, continua a
struggersi, rammaricandosi di non essere sul capo della signora.
Di questa poesia quello che conta è la grazia del racconto, la riuscita
fusione fra il tono di favola e l'esibizione erudita, fra l'adulazione
cortigianesca e la sottile vena patetica, fra l'evidente esagerazione
della trovata e i tono candido e convinto dal poeta.
Ma tutto è raccontato con un certo distacco nel quale sembra di cogliere
un sorriso lieve: non ironico e nemmeno canzonatorio, che la
destinazione del carme non avrebbe ammesso del resto, ma appena,
qua e là, come un ammiccare intelligente e furbesco, ad avvisare il
lettore proprio nei momenti i maggiore impegno e serietà.
E la favola sembra resa più credibile anche dalla suprema eleganza, dalla
grazia varia e lieve di tutti i mezzi espressivi, dalla perfezione sapiente
e pur non ostentata di questo carme splendido e freddo come un
magnifico gioiello, che costituisce il paradigma esemplare della nuova
poesia e di tutto quello che essa voleva significare.

Gli Inni: pezzi di bravura desacralizzati

Se gli Aitia rappresentano l'opera maggiore di Callimaco, gli Inni costituiscono


la parte più cospicua di quanto è giunto a noi. Sono sei: il primo A Zeus, il
secondo Ad Apollo, il terzo Ad Artemide, il quarto A Delo, il quinto Per
il bagno di Pallade, il sesto A Demetra.
La loro datazione è imprecisa e incerta. Sono tutti in esametri tranne il
quinto che è in distici elegiaci; la lingua impiegata è il dialetto ionico
dell'epica per i primi quattro e il dorico per gli ultimi due.
Uno dei più interessanti è il sesto, A Demetra. La cornice è quella delle
feste della dea, forse a Cirene, dove era particolarmente onorata, forse in un
sobborgo di Alessandria dove si svolgevano queste cerimonie. La persona che
parla invita la folla ad accogliere devotamente il passaggio del kalathos, cioè la
processione con il "cesto" contenente gli oggetti sacri , e nell'attesa narra delle
terribili punizioni inflitte da Demetra a chi la trascura e la offende, come
Erisittone.
Questi un giorno, capitato in un magnifico bosco sacro alla dea, aveva
incominciato ad abbattere un pioppo. La dea apparsa nelle sembianze di una
sacerdotessa, si era lamentata e l'aveva invitato a desistere dall'empia
impresa: ma egli l'aveva minacciata con la scure, dicendo che con quei legni
avrebbe costruito una casa per banchettarvi ininterrottamente. La dea lo prese
in parola facendogli provare una fame prodigiosa: più Erisittone mangiava più
aveva fame.
La storia di questo personaggio si interrompe per l'arrivo della
processione del kalathos e anche perché la sua naturale conclusione,
la morte di Erisittone, avrebbe introdotto una nota di mestizia tale da
contraddire la prospettiva dell'inno. Questa vuol essere fiabesca e
brillante, ne sono prova il sorriso che subito aleggia intorno al bizzarro
castigo inflitto ad Erisittone.
Ironia, selezione di particolari inediti o rari, laicizzazione del mito
costituiscono le note salienti dell'inno, e non solo di questo. Se tutti si
ispirano al paradigma degli Inni omerici, di cui ripetono schemi e
formule, diverso è lo spirito che li anima.
In questa prospettiva la sacralità del mito cede il posto a una sognate
atmosfera fiabesca, dove le divinità con le loro mille avventure
rappresentano solo un elemento raro, folcloristico, decorativo; il
racconto omerico era ampio e lineare, ora invece si frange in quadri e
scene diverse, indugia in particolari sconosciuti, si arricchisce di
risonanze intime, di allusioni, di contrasti. ma in questo modo non
sono più canti destinati al culto o comunque all'intrattenimento del
popolo nelle grandi festività pubbliche; diventano pezzi di bravura,
letti e apprezzati nei circoli dei dotti.

I Giambi

I Giambi sono tredici componenti che hanno per base metrica il giambo
e i contenuti più vari, dalla polemica letteraria all'aitiov, dalla critica
d'arte alla blanda satira di costume.
Il I giambo, scritto in coliambi, si apre con il ritorno su dall'Ade di
Ipponatte, non più per cantare, ma per tenere una lezione sulla modestia e
sulla concordia ai dotti alessandrini. A costoro, accorsi in massa, il giambografo
racconta l'aneddoto della coppa d'oro di Baticle, affidata in punto di morte a
uno dei figli perché le consegni al migliore dei "Sette Sapienti". Alla fine a
riceverla è Talete e Ipponatte torna nell'Ade.
Il giambo meglio conservato è il IV. Protagonisti sono l'alloro e l'ulivo
che vengono a contesa su un monte. Pieno di sé incomincia l'alloro,
vantando i suoi meriti: è sacro ad Apollo, viene dato in premio ai vincitori dei
giochi pirici, non conosce affanni e non ha nulla a che fare con i morti. Calmo e
sereno, l'ulivo risponde che non è un'umiliazione ma un onore accompagnare la
gente alla tomba; che anche le sue fronde incoronano gli atleti vincitori ad
Olimpia; che, in più i suoi frutti rappresentano un prezioso alimento per gli
uomini. La vittoria è assegnata all'ulivo; ma poiché l'alloro non si rassegna alla
sconfitta interviene dal muro vicino un vecchio rovo esortandoli a cessare una
contesa che li divide e li rende deboli di fronte ai comuni nemici. Il frammento
s'interrompe con la protesta dell'alloro che non accetta di essere assimilato
all'umile rovo.
Al di là del significato preciso del racconto allegorico, più forti
appaiono, ancora una volta, il desiderio di novità e l'insofferenza nei
confronti dei modelli costituiti. Di qui derivano le frequenti variazioni
di tono, l'alternanza di contenuti antichi e nuovi, la mistione dei metri
e dei generi.
Occorre aggiungere tuttavia che le novità strutturali del passato attraverso la
bonaria rappresentazione delle debolezze e dei vizi umani, i quali, portati
in primo piano nella forma dell'aneddoto o della favola, sono
contemplati con distacco e, insieme, con comprensione.
Così l'intento predicatorio si dissolve nell'ironia e nello scherzo, il serio
si mescola al comico, il popolare all'aristocratico.
Nasce una forma di poesia - la satira letteraria - destinata a dare frutti
copiosi e a imporsi nel tempo. Senza i Giambi di Callimaco sarebbero
inspiegabili tanto le Satire di Orazio quanto i Sermones oraziani.

L'Ecale

Nel vasto campo delle sperimentazione callimachee occupa un posto di rilievo


anche la metrica dell'epos, rivisitata per creare qualcosa di nuovo, di più agile,
di più vero.
L'Ecale, un epillio a base eziologica, è un po' tutto questo. Vi si narra di
Teso, che, avendo udito, ancora giovanetto, parlare delle devastazioni compiute
da un toro nella piana di Maratona, una notte, elusa la sorveglianza paterna, si
pone sulle sue tracce. Scoppia improvvisamente un temporale, costretto a
rifugiarsi in una capanna, viene accolto con mille attenzioni da una vecchietta
di nome Ecale che all'alba lo saluta, non senza trepidazione, mentre parte per
la sua avventura. Teseo cattura il toro e torna da Ecale. Trovatala morta, la
piange commosso; poi in suo onore consacra un tempio a Zeus Ecaleio e dà
alla regione il nome della vecchia.
La vicenda epica, pur presente, è trattata di scorcio, mentre
l'attenzione è focalizzata su Ecale e sulla sua cordiale ospitalità. La
descrizione perciò fa spazio ai sentimenti semplici ma sinceri di lei,
indugia sull'ambiente modesto e povero della capanna, si perde nel
cicaleccio delle comari.
Si può dire che il mondo della realtà quotidiana penetri nell'opera non
soltanto marginalmente ma ne diventi protagonista e che l'Ecale segni
la nascita dell'epillio realistico.

Gli Epigrammi

Callimaco, teorico della leptòtes (semplicità), non poteva certo


mancare all'appuntamento don l'epigramma, genere letterario
antichissimo, ma adatto più che mai a interpretare con la sua brevità
ed eleganza i canoni dell'arte ellenistica.
Della sua produzione in questo campo restando circa settanta
componimenti, non tutti sicuramente autentici. Molti sono gli
epigrammi sepolcrali, uno dei quali, raffinato e nel contempo
profondamente sentito, è dedicato all'amico Eraclito e alle loro
indimenticabili conversazioni.
Altri toccano la tematica dell'amore.
Vivacissimo è il paraclausìthuron (lamento presso la porta chiusa
dell'amata) di Conopio, la "Zanzaretta". Alla crudeltà di Conopio
risponde il poeta non solo con un augurio altrettanto crudele, ma
prospettando all'ingrata ragazza il tempo in cui, con i "primi fili
bianchi", sarà lei a patire la mancanza dell'amore. La durezza della
ritorsione è più apparente che reale, segnata da un ammiccare arguto
che trasforma la passione in divertimento letterario.
Una conferma di questo modo "leggerò" di intendere la vita e la poesia
viene dall'epigramma dedicata a Epicide: significativo è lo
spostamento del centro del componimento dal poeta al cacciatore. La
passione appare oggettiva, analizzata con distacco; essa anzi diventa
piuttosto un "gioco" che si accende quando l'amante insegue la preda
e cessa non appena l'amato si offre spontaneamente, perché ciò che
interessa non è il possesso, ma la conquista.
Per Callimaco, infatti, gioco è la vita e gioco è la poesia. Quando perciò
egli chiama i suoi epigrammi pàigia o "scherzi", "giochi", pone
l'accento su una connotazione fondamentale della sua arte, oltre alla
"verità" e alla "novità". In Callimaco il proposito di percorrere "vie non
battute" non tende ad alcuna meta. I poeti precedenti avevano tutti, in
qualche modo, trasceso la poesia per portare un messaggio politico ed
etico o semplicemente per esplorare le profondità dell'io e il destino
dell'uomo; ora la poesia nasce, si sviluppa e si conclude in se stessa.
Essa non ha più problemi da dibattere o soluzione da proporre;
coerentemente con un'età di ripiegamento e di sfiducia nella capacità
della ragione di dominare il mondo, preferisce non scendere in campo
e non prendere posizione. Lo scetticismo che è nella vita trapassa
nell'arte e insieme vengono lo scherzo, l'ironia e l'autoironia. Allora
l'attenzione, che prima era posta sui contenuti, si concentra tutta
sull'elaborazione della forma, che diventa l'unico valore riconosciuto.
Di qui la cura esasperata del lessico, l'importanza data alla sonorità
della parola e all'andamento del verso, la fitta trama di allusioni alla
poesia del passato, rivisitata e fatta rivivere come fosse nuova1 .

1 Nel mondo romano l'ideale artistico callimacheo viene recepito dai poetae novi. Anche presso
di loro l'ostentato disimpegno politico traduce in termini di poetica l'impatto con una realtà esterna
non condivisa e sfuggente. In ogni caso l'otium e il lusus, che i poetae novi esaltano, segnano la
più clamorosa rottura con la tradizione letteraria romana e la sua funzione pubblica. Con i grandi
poeti dell'età classica questo polemico distacco dalla stato viene in gran parte superato, ma i
canoni poetici di Callimaco non sono mai rinnegati: la poesia di Virgilio e di Orazio è pur sempre
una poesia dotta e raffinata.

Potrebbero piacerti anche