Sei sulla pagina 1di 7

COLUMMELLA (NATURA) È nel I secolo d.C.

, con Columella, che la scienza agraria romana raggiunge il suo


apice. Nato a Cadice in Spagna, probabilmente da una famiglia dell'aristocrazia provinciale, dopo la carriera
nell'esercito - arrivò al grado di tribuno - divenne agricoltore appassionato e scrittore efficace. Con i dodici
libri De re rustica, Columella ci lascia una descrizione esauriente delle pratiche agricole in uso nelle aree
mediterranee dell’impero. Grazie alla formazione scientifica, l’istinto di naturalista, l’esperienza diretta di
agronomo e di imprenditore agricolo, compone il primo vero trattato di scienza della coltivazione. L'opera
rappresenta un sistema organico, che per quasi due millenni, è stato il punto di riferimento di chi voleva
applicarsi razionalmente alle attività agricole. Il pensiero di Columella propone un’ampia gamma di tecniche
“avanzate” per numerose colture specializzate. La sua è un’attività nella quale alle piccole fattorie coltivate
direttamente dai cittadini romani - costretti a vendere i propri appezzamenti a causa dei lunghi anni passati
nell'esercito - si sostituiscono le grandi imprese "capitalistiche". Queste aziende, di proprietà dei patrizi o
dei cavalieri, condotte con manodopera servile, sono fortemente specializzate in produzioni destinate al
mercato delle grandi città dell'Impero, come Roma, Atene, Alessandria. Il quinto libro dell'opera viene
dedicato anche alla coltivazione dell'olivo: il trattato di olivicoltura e di tecnica olearia dell'autore latino è
ampio e dettagliato, con un quadro di cognizioni botaniche e di precetti tecnologici destinati a restare fino al
XVIII sec. il parametro supremo di un’attività fondamentale nei paesi dell'Europa meridionale.

LUCANO (GUERRA)

Argomento. L'ambizioso progetto di L. consisteva nel tentativo di contrapporre all' "Eneide" un poema epico
con radici profonde nella storia di Roma, e tuttavia non legato a fatti remoti e leggendari: come detto,
l'opera tratta della guerra civile (come recita il primo titolo) tra Cesare e Pompeo, dal Rubicone fino ad
Alessandria, passando per la decisiva battaglia di Farsàlo (da cui la "variante" al titolo), dove a scontrarsi non
furono solo due eserciti, quanto piuttosto due opposte concezioni e schieramenti politici. L. "anti-Virgilio".
Tuttavia, la polemica "antivirgiliana" non è legata soltanto ad una mera questione di "poetica", bensì ha
profonde e vive motivazioni scopertamente ideologiche: infatti, se il poema epico, fin allora, era stato
celebrazione solenne delle glorie dello stato romano e dei suoi eserciti, nelle mani di L. esso diventa invece
denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento di un'era d'ingiustizia,
profilandosi come un vero e proprio "anti-mito" di Roma. Secondo L., insomma, Virgilio avrebbe coperto,
con un velo di mistificazioni, la trasformazione dell'antica repubblica in tirannide; e come visto, la via che il
nostro autore sceglie per sconfessare il mantovano consiste innanzitutto nel mutare l'oggetto: allora, non si
tratta, per lui, di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà (quando la stessa "verità"
non venga sacrificata per fini ideologici), una storia relativamente recente e dalle nefaste conseguenze, ben
documentata e soprattutto universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà al vero spiega anche la
rinuncia agli interventi divini nel poema, rinuncia che tanto scandalizzò la critica antica (di contro, sono
presenti in esso molte "profezie" - quasi un contraltare di quelle "positive" contenute nell' "Eneide" - che
rivelano la rovina che attende Roma: si veda, in particolare, quella costituita dalla negromanzia nel VI libro,
con un'evidente posizione-chiave nell'economia del poema).

L'anticesarismo. Come già accennato, nella sua prima "versione", l'opera fu tutta tesa a magnificare il
"cesarismo", ma - mutate le circostanze personali e politiche - anche il "piano" originario mutò, finendo col
risolversi, praticamente e progressivamente, in un'esaltazione dell'antica libertà repubblicana e in una
feroce condanna del regime imperiale (rimarrà l'elogio iniziale al principe, ma come nota stridente, rispetto
al resto, e quasi parodistica).

I personaggi. Questo motivo "anticesariano" si riscontra soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi:
in effetti, la "Pharsalia" non ha un vero e proprio protagonista, ma ruota sostanzialmente attorno alle
personalità di Cesare, Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena, con la sua malefica grandezza e la
sua forsennata brama di potere, incarnazione del "furor" che un'entità ostile, la Fortuna, scatena contro
l'antica potenza di Roma. In alcuni punti, il poeta sembra quasi soccombere al fascino sinistro del suo
personaggio, il quale in fondo rappresenta il trionfo proprio di quelle forze irrazionali che nell' "Eneide"
venivano dominate e sconfitte: il "furor" appunto, l'ira e l'impazienza (altro spunto antivirgiliano, quindi); il
dittatore è anche spogliato del suo attributo principale, la "clementia" verso i vinti, esempio palese - questo
- della suddetta deformazione ideologica operata da L. ai danni della verità storica. Alla frenetica energia di
Cesare si contrappone, invece, una relativa passività da parte di Pompeo (ma questo espediente di
caratterizzazione serve forse a limitare, ideologicamente, le responsabilità di questi nella rovina di Roma
verso la tirannide): Pompeo diviene, nella concezione del poeta, una sorte di Enea dal destino
ineluttabilmente avverso; in questo senso, la sua figura è l'unica che nello svolgimento del poema subisce
una vera trasformazione psicologica: egli andrà incontro a una sorta di purificazione, divenendo
consapevole della malvagità dei fati e comprendendo finalmente che la morte, in nome di una giusta causa,
costituisce l'unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce, invece, per Catone un solido
possesso fin dalla sua prima apparizione sulla scena. Lo sfondo filosofico dell'opera è senza dubbio di natura
stoica, ma proprio in questo personaggio si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale, o - meglio - della
sua concezione provvidenzialistica, mortificata in nome dei terribili principi della "virtù" e della "fortuna"
(tra l'altro, stoici anch'essi). Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la distruzione di Roma,
dunque, diviene impossibile per Catone l'adesione partecipe alla volontà del destino; egli matura, piuttosto,
la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: ovvero,
esso, d'ora in poi, risiederà unicamente nella coscienza del saggio, che si fa, così, davvero pari agli dei
("titanismo"). una serie di critiche, in parte tuttora valide: l'uso e l'abuso delle "sententiae" concettistiche
(che ne avvicinerebbero troppo lo stile a quello oratorio); la rinuncia agli interventi divini; un ordine della
narrazione quasi annalistico (tipico più delle opere storiche - vedi Nevio ed Ennio - che di quelle poetiche):
numerosi critici moderni hanno poi rilevato, a tal proposito, che molti passi del poema sono quasi una
versificazione letterale di quelle opere storiche (soprattutto di Livio, una delle sue fonti preferite), tal che
sono giunti a dire - ma evidentemente è un paradosso - che L. si mostra davvero poeta soltanto in occasione
delle orazioni ch'egli mette in bocca ai suoi personaggi, orazioni disseminate qua e là nel magmatico
contenuto dell'opera. Famosa, poi, la notazione di Quintiliano, che definì quello stile "ardente e concitato",
riferendosi probabilmente all'incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e
lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell'esametro (enjambement). La presenza di un'ideologia
marcatamente politica e "moralista", dunque, si fa in L. man mano ossessiva, invade il suo linguaggio e si
riduce infine a retorica: una retorica, però, a ben vedere, che (il più delle volte) non è vana artificiosità
ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità e di una tormentata fedeltà al genuino messaggio del
disperato credo politico ed esistenziale dell'autore stesso.

PLINIO IL VECCHIO

La Storia naturale di Plinio è pubblicata nel 77 d.C. e dedicata al futuro imperatore Tito, a cui è indirizzata
l’epistola dedicatoria, posta a presentazione dell’opera. Nella Storia naturale Plinio tratta di cosmografia,
geografia, antropologia, zoologia, botanica, agricoltura, piante medicinali, mineralogia, con ampie
divulgazioni sulla storia dell’arte. Sono poi inserite nella trattazione i mirabilia, ovvero informazioni curiose
su popoli lontani o su animali. L’idea della Natura che emerge dalla Storia naturale di Plinio risulta spesso
ambivalente: ora forza benefica e provvidenziale ora matrigna crudele. Secondo Plinio infatti la Natura
sembra aver generato ogni cosa in funzione dell’essere umano. In cambio di un così grande privilegio, però,
essa ha imposto all’essere umano patimenti e difficoltà: unico essere a nascere nudo e indifeso, in completa
balìa delle intemperie; esposto al pianto fin dalla nascita; il solo a provare paure e angosce. L’essere umano
però è anche il solo a sentire piacere, il solo capace di nuocere ai danni dei propri simili e dell’ambiente.
Impossibile dunque – fa notare Plinio – dire se la natura sia per l’uomo una madre benevola o una crudele
matrigna. È soprattutto la filosofia stoica che sorregge la concezione di Plinio dell’uomo sulla Natura.
L’atteggiamento di Plinio il Vecchio all’interno dell’opera è talvolta pessimistico rispetto alla natura umana,
condannata con piglio moralistico: l’essere umano abusa dei doni della natura che egli manipola in modo da
arrecare, in definitiva, un pregiudizio morale a sé stesso, forgiando, per esempio, il ferro per costruire le
armi e l’oro per fabbricare oggetti di lusso che lo porta a condannare l’avidità dell’uomo e il suo amore
eccessivo per il lusso non necessari, invece di accontentarsi di vivere, come consiglia la massima stoica,
“secondo natura”. Plinio il Vecchio può quindi essere considerato un “ecologista ante litteram“, perché egli
osservò i cambiamenti introdotti dall’uomo nell’ambiente italico dall’età repubblicana all’età giulio-
claudia (drenaggi delle acque, vasti disboscamenti ecc.) richiamando l’attenzione sugli effetti di
deformazione ambientale causati dal lavoro umano e dunque sui vincoli che sarebbe stato auspicabile porre
su tale attività. Il messaggio dell’autore è quindi evidente: rispettare la natura e non stravolgerla. La finalità
pratica e la velocià di stesura hanno contribuito a conferire all’opera una scarsa cura formale. L’opera
presenta anche scarsa disomogeneità, a causa della diversità delle fonti, e un fitto uso di termini tecnici,
spesso costituiti da neologismi e grecismi. Fino a tutto il Medioevo, la Naturalis historia di Plinio è la “fonte”
del sapere, dove trovare sicuramente la nozione che si cerca. Solo con le nuove acquisizioni scientifiche il
sapere tramandato da Plinio verrà superato e sconfessato, ma le sue pagine rimangono un’importante
documento di valore inestimabile per la storia dell’arte antica, per la storia della scienza, del folklore, della
religione.0

SATIRA PERSEO E GIOVENALE

Satura tota nostra est, afferma Quintiliano (Institutio Oratoria, X, I-93) e rivendica così che il genere satirico
sia una creazione esclusivamente romana. Tuttavia il genere dell’invettiva – il genere giambico – era già in
Grecia con Archiloco e Ipponatte in primis, ama anche con le commedie attiche e le satire menippee (cioè di
Menippo di Gadara), che mischiava prosa e versi sul piano stilistico e, sul piano contenutistico, serio e faceto
(σπουδογέλοιον). La stessa origine della parola è misteriosa: satura lanx era un piatto composito, fatto di
molti ingredienti, così come una lex satura prevedeva diversi provvedimenti; satyri erano invece esseri mitici
con sembianze di capra, ebbri di vino, raffigurati spesso con erezioni vistose, sempre pronti a scherzare, a
fare burle e scurrilità di ogni genere. Entrambe le etimologie sono utili perché delineano i due caratteri
principali della satira: la varietà degli argomenti e la mordacità dei toni. Durante la fase imperiale,
diminuisce l’importanza della retorica, che anzi tramonta, ma paradossalmente, o meglio ‘contro-
intuitivamente’, fiorisce la satira: basti pensare a Seneca autore dell’Apokolokyntosis, a Petronio autore del
Satyricon, e poi a Persio e Giovenale che proseguono la satira in esametri inventata da Lucilio e perfezionata
da Orazio. Perché ‘contro-intuitivamente’? Per dire che la satira è la sferza del potere – pensa ai programmi
satirici tutt’ora in voga come quello di Crozza – e quindi durante l’impero non dovrebbe esserci quella
libertà di potersi scagliare contro il potente di turno e restare impuniti: ma infatti (e questo è il punto) la
satira imperiale raramente si scaglia contro il potere. Persio e Giovenale si indignano contro il malcostume, i
corrotti, la depravazione dei padri e delle madri di famiglia, la crisi culturale di Roma. Il potere resta
nell’ombra, come un concausa (la brama di carriera, le raccomandazioni, etc.) ma non viene mai
direttamente attaccato. I due poeti cercano con le loro satire di smuovere l’opinione pubblica e di obbligare i
lettori/ascoltatori ad una riflessione morale sui comportamenti corretti da adottare: sono giudici
intransigenti della propria epoca e la loro voce si alza severa sopra la folla. In questo frangente storico,
infatti, il poeta avverte un senso di separazione dalla società e decide di isolarsi in un aristocratico disdegno.
Non a caso lo spreco, la ricchezza, l’amoralità sono temi onnipresenti nella satira e il poeta satirico spesso
esalta ed esagera la sua povertà, segno di purezza e di incorruttibilità: se il poeta fosse ricco, vorrebbe dire
che ha accettato compromessi di ogni tipo per diventarlo.

NON c’è più la sorniona benevolenza per i vizi degli uomini al contrario il poeta espone un moralismo
intransigente dove il comico diventa grottesco e la visione della realtà si fa tragica. Manca anche una
dimensione autobiografica in questi poeti satirici: essi, come abbiamo detto, si riducono allo stato di voce
che ammonisce in continuazione, come se fosse il proverbiale Catone il censorDa un punto di vista
strutturale le satire di Persio e Giovenale si rifanno largamente alla tradizione satirica romana, di cui
riprendono diversi temi e figure: anche l’impostazione è tradizionale, a volte attraverso il dialogo, a volte
attraverso la lettera che fanno da innesco all’argomento di cui si vuole trattare. In entrambi domina un
disgusto verso la realtà che forse vuole farsi interprete di un disgusto generale, chissà, anche perché i testi
satirici erano sovente affidati alle recitazioni in pubblico. Il liber di Persio contiene sei satire in esametri dalla
lunghezza non uniforme e un testo programmatico in coliambi (trimetri giambici ipponattei), metro tipico
dell’invettiva nel mondo greco. Infatti le sue satire sono spesso strutturate come epistole in versi così da
poter sviluppare un ragionamento a un tu ideale; si occupano di tematiche morali tipiche del pensiero
stoico come essere distaccati dai beni terreni, consapevoli della fragilità dell’uomo, con la necessità di avere
una fede sincera nel Divino. Narrazione rapida e colorita. Il procedimento narrativo di Persio si basa su
improvvise spezzature e cambi capaci di offrirci un andamento rapido e colorito da cui emerge un ritratto
realistico e vivace della società romana. Certamente anche la scelta dell’epistola in versi aiuta a cogliere
questa rapidità. Si tratta quindi di una poetica del verum – cioè del vero – che rifiuta ogni ampollosità e
ogni inutile abbellimento: Persio vuole ritrarre i vizi e i vizi non vanno abbelliti ma rappresentati
impietosamente. Si capisce bene che Persio non approvi minimante i poeti suoi contemporanei che
ripetevano formule vuote e inutili, inseguendo solo lo stile, senza contenuto alcuno. Lucilio e Orazio sono gli
unici modelli di poeta che lui approva completamente. Il primo per l’aggressività dei toni, il secondo per la
sua capacità espressiva. tuttavia la sensibilità di Persio è nuova: egli mira infatti a potenziare
l'espressionismo delle immagini, spesso facendo leva sulla corporeità, in modo da creare disgusto nel
lettore e spingerlo a un ravvedimento morale. Vediamone alcuni esempi. Giovenale ha scritto sedici Saturae
in esametri. Giovenale nutre un profondo disgusto verso la società, irrimediabilmente corrotta. Il compito
del poeta satirico non è più aiutare i suoi prossimi a migliorare i propri difetti, ma denunciare i fatti davanti a
uno stato di cose irrimediabile. Giovenale ha una visione peraltro nuova nella tradizione del genere satirico
così come verso la morale stoico-cinico che propugnava il disprezzo dei beni terreni: Giovenale denuncia
senza mezzi termini le brutture della povertà e smaschera l’ipocrisia di chi elogia la povertà dal punto di
vista di un’agiata ricchezza: probitas laudatur et alget, «L’onestà è lodata, ma muore di freddo», dice il poeta
(I, 1, 74). vede ovunque trionfare il vizio, in particolare nell’aristocrazia, ormai pallida ombra della guida
eroica e integerrima che guidava la Roma repubblicana, secoli prima. Essa è caduta nell’inerzia e nella
lussuria, senza uno scopo preciso. A questa aristocrazia in crisi e ai liberti spaventosamente ricchi si
oppongono i miseri clientes, i clienti, che devono elemosinare di che vivere dal patronus. Questa sorta tocca
spesso agli artisti e agli intellettuali che devono sottostare all’ignoranza dei loro potenti protettori, spesso
prestandosi a scrivere anche opere rozze come pantomime pur di avere in cambio qualcosa. Le satire
pongono al primo posto l’utilità, rispetto all’estetica. Cercano di smuovere una risata piena di risentimento,
amara, quasi negativa: deridono con violenza. Persio e Giovenale sono due grandi voci che nei tempi
inquieti e decadenti della Roma imperiale cercando di mettere un freno allo sfacelo generale. La satira è una
necessità dell’uomo libero, e sembrerebbe esistere da sempre – satura tota nostra est, appunto – ed esiste
proprio per richiamare le persone al loro dover essere e spingerle a migliorarsi. E magari anche un po’
sorridere delle nostre miserie.

MARZIALE EPIGRAMMIL'opera completa di Marziale comprende il Liber spectaculorum (Gli spettacoli), 33


epigrammi composti nell'80 per l'inaugurazione dell'anfiteatro Flavio (il Colosseo) sotto l'imperatore Tito,
che per questo concesse al poeta lo ius trium liberorum, cioè gli stessi diritti riservati ai padri di tre figli, e il
titolo di tribuno militare con la dignità di cavaliere; gli Xenia (Doni agli ospiti), 124 epigrammi di un solo
distico, destinati ad accompagnare doni alimentari che era uso inviare a parenti e amici durante le festività
dei Saturnali; gli Apophoreta, 223 epigrammi allegati agli omaggi da portar via, che, estratti a sorte,
venivano offerti ai partecipanti ai ricevimenti. Gli epigrammi sono il frutto dell'osservazione della vita di tutti
i giorni: "Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: le mie pagine sanno di uomo". In alcuni
Marziale parla di sé, delle sue vicende personali, dei suoi ideali di vita tranquilla e della patria lontana; in
altri espone la ragione delle sue scelte letterarie o deplora la decadenza del mecenatismo e delle lettere.
Sono per lo più satirici e colpiscono i cacciatori di eredità, i parassiti e i corrotti, i medici ignoranti, i liberti
arricchiti, le ricche e appassite zitelle, e così via. Vi sono anche epigrammi malinconici e delicati, come quelli
funerari dedicati a personaggi virtuosi; se ne trovano altri descrittivi di luoghi, di paesaggi, di animali e di
oggetti, rievocati con intenso calore e con immagini smaglianti: ora è la villa di Apollinare sulla spiaggia di
Formia e della "quiete viva del mare", ora un monte candido per la neve, ora l'acqua gelida e limpida di un
ruscello, ora la caccia al capriolo e i cavalli scalpitanti. L'epigramma era un componimento che aveva una
lunga tradizione, ma è merito di Marziale avergli dato la struttura che è ancora quella di oggi: una sintetica
poesia che, a una breve presentazione di vicende o di persone, fa seguire una battuta conclusiva ironica,
irridente o satirica. Lo scrittore, con la scelta esclusiva del genere epigrammatico, si contrappone
volutamente alla poesia dotta dell'epos e della tragedia, assumendo a tema la vita quotidiana, nella sua
varietà sfaccettata e nella colorita e sovente grottesca caratterizzazione dei personaggi di ogni giorno. Il
realismo di Marziale non esclude epigrammi scandalosi o termini osceni: "la mia vita è onesta, lascivi sono
solo i versi" e, ancora, nel proemio del I libro: "Catone non entri nel mio teatro, o, se vi entra, assista allo
spettacolo". Il suo realismo si risolve talvolta in un bozzettismo di maniera, con il ricorso a forme stereotipe
di comicità caricaturale, come difetti fisici o manie varie. Marziale è anche prudente: mette in caricatura
solo la folla anonima, mai un personaggio della Roma importante, mai vicende della vita politica; usa nomi
propri perché sa che attraggono l'interesse dei lettori, ma sono fittizi. Il suo epigramma non è una satira
perché è assente il giudizio morale: lo scopo di Marziale è divertire. Non vi è penetrazione psicologica e
tutto si ferma alla superficie: fatti e personaggi non sono aspetti propri del mondo romano a lui
contemporaneo, ma si adattano a tutti i tempi e a tutti i luoghi. In alcuni momenti Marziale si rivela poeta
lirico, capace di ritrarre con un linguaggio proprio un'umanità osservata con incisiva partecipazione e
finezza. Il linguaggio, semplice e colloquiale, cede spesso al gusto per il termine osceno e alla ricerca del
particolare sorprendente, per lo più alla fine dell'epigramma, come è nella tradizione del genere. Nei metri
prevalgono i distici elegiaci, alternati ai faleci e ai trimetri scazonti. L'amico Plinio il Giovane, dopo la sua
morte, lo giudica in una lettera "ingegnoso, acuto e pungente, che scriveva per lo più con arguzia e
acrimonia, ma anche con candida schiettezza.

SANT’AGOSTINO

Il diffondersi e il radicarsi del cristianesimo apre una nuova stagione di riflessione filosofica, che sarebbe poi
divenuta dominante nell’Europa occidentale dei secoli successi: la filosofia cristiana. Tale filosofia, al
contrario di quella antica che ricercava la verità, prende le mosse da una verità già rivelata (la parola di Dio),
e ha il compito di interpretarla e renderla comprensibile. Coloro che si adoperarono nell’elaborazione di una
dottrina filosofica del cristianesimo vennero chiamati “padri della Chiesa” e tale dottrina patristica. Il
principale esponente della patristica. Prendendo spunto dalla scuola neoplatonica, Sant'Agostino ritiene che
la filosofia sia un percorso interiore che ogni uomo deve compiere. Nella sua riflessione, infatti, l’uomo deve
chiarire sé a sé stesso, cercando di conoscere la propria anima e conseguentemente Dio, in una prospettiva
in cui la dimensione soggettiva è il cardine della speculazione filosofica. Nella filosofia agostiniana fede e
ragione non sono in contrapposizione, bensì legate da un’influenza reciproca espressa dal motto: crede ut
intelligas (credi per comprendere) e intellige ut credas (comprendi per credere). Per Agostino la verità
risiede in Dio, che è perfetto, e immutabile. Anche nell’uomo esistono delle verità (parziali), che però non
possono provenire dall’esperienza e dalle sensazioni, per loro natura mutevoli e fallaci, ma devono
provenire direttamente da Dio che illumina l’intelletto umano con dei criteri immutabili di giudizio: le idee
attraverso le quali l’uomo conosce il mondo. Dio è essere al sommo grado (Padre), Dio è verità o Logos che
si rivela (Figlio), Dio è amore che si offre a chi ama (Spirito Santo). Per avere una fede salda, secondo
Agostino, è importantissimo comprendere, ovvero filosofare. La ragione è ciò che completa la fede: la
alimenta e la rafforza, non la elimina. La ragione opera come chiarificatrice della fede.
La fede, dal canto suo, non va ad ostacolare lo sviluppo della ragione perché non impone all’uomo di
credere a cose totalmente assurde ma, al contrario, stabilizza il sottile equilibrio che col tempo è andato
formandosi. Per sant’Agostino la sua impronta mistica e religiosa non intralcia in alcun modo la ricerca e,
anzi, le dà valore.
SENECA

Le Epistulae morales ad Lucilium, sono state scritte dal 62 al 65, l'anno della morte. Si tratta di 124 lettere il
cui destinatario è Lucilio, procuratore in Sicilia amico di Seneca che condivideva i suoi interessi filosofici e
letterari. Nonostante la forma epistolare, si tratta di veri e propri trattati di filosofia morale e sono
considerati il capolavoro dell'autore. In esse Seneca affronta moltissimi temi come il tempo, la morte, la
paura, il dolore e la libertà individuale traendo spunto da fatti quotidiani e occasionali. Il suo scopo è
descrivere integralmente la vita del saggio e i precetti etici che gli occorrono per raggiungere la perfezione
morale. Il percorso ideale deve partire dalla conoscenza di sé come premessa necessaria alla conoscenza
della natura, il suo fine ultimo. La predilizione per la vita contemplativa e scevra dalle passioniIl vecchio
autore, che parla a un suo giovane discepolo, ha compiuto troppo tardi la scelta della vita contemplativa:
nella sapientia risiedono la vera gioia e i veri valori che si possono realizzare. La vita deve essere una
continua lotta contro le passioni, cioè gli impulsi e i desideri irrazionali che aggrediscono e minacciano
l'uomo, privandolo della pace dell'anima. Seneca raccomanda a Lucilio di astenersi da occupazioni frivole e
moralmente inutili come i viaggi (indizio di inquietudine e distrazione), limitare il contatto con la folla,
riservandosi per pochi amici e ricercare esclusivamente la virtù. Il rapporto con lo stoicismoLa dottrina a
cui Seneca aderisce in tutte le sue opere fino a quest'ultima è quella stoica. Non esita tuttavia a criticare
aspetti dello stoicismo rivendicando più volte l'autonomia del suo pensiero. Avvicinandosi alla fine della
vita, Seneca si prepara a morire convinto che liberarsi della paura sia il compito ultimo del filosofo: chi ha
realizzato la perfetta libertà da ogni condizionamento esteriore ha conquistato l'autárkeia (autosufficienza),
propria del saggio. Seneca fa uso di tutte le strategie linguistiche tipiche dell'arte retorica. Frequentissimo è
infatti l'utilizzo di esempi, domande retoriche e una preferenza per i periodi semplici, più immediati.
Caratteristico di tutte le opere di Seneca è il gusto per la sentenza e la frase ammonitrice al lettore affinché
non sprechi i giorni della sua vita.

Gli imperatori romanI GIULIO CLAUDII Augusto (27 a.C.-14 d.C.)


Tiberio (14-34) Caligola (37-41) Claudio (41-54) Nerone (54-68) Galba Otone Vitellio (68-69)

FLAVII Vespasiano (68-79) Tito (79-81) Domiziano (81-96) Nerva ( 96-98) Traiano (98-117)

ANTONINI Adriano (117-138) Antonino Pio (138-161) Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169) Marco Aurelio
(169-180) Commodo (180-193) Elvio Pertinace (193) Didio Giuliano (193

SEVERI Settimio Severo (193-211) Caracalla (211-217) Aureliano (270-275) Diocleziano (284-305)
Massimiano (286-310) Costanzo Cloro (292-306) Costantino (306-337)
Costantino II, Costante e Costanzo (337-340)
Costante e Costanzo (335-350)
Costanzo (350-361)
Giuliano (361-363)
Gioviano (363-364)
Valentiniano, Valente e Graziano (364-375)
Valente e Graziano (375-378)
Graziano e Teodosio (379-383)
Teodosio e Valentiniano II (383-392)
Teodosio (392-395)
Onorio (395-423)
Romolo Augustolo (475-476*)
(deposto da Odoacre, re degli Eruli: *caduta e fine dell’Impero Romano d’Occidente)

Potrebbero piacerti anche