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ETA’ DI CESARE

Si è soliti denominare ‘età di Cesare’ l’ultima fase della repubblica romana, dal momento che
Cesare fu la personalità centrale di tale periodo perché rappresentò l’eversore della repubblica. Il
carattere di fondo di quest’età furono i numerosi conflitti interni che portarono allo scoppio di 3
guerre civili (1° tra Mario legato ai populares e Silla agli optimates, vinse Silla che fu proclamato
dittatore; 2° tra Gneo Pompeo legato agli optimates e Cesare legato ai populares, Cesare si alleò
con Licinio Crasso e tutti e 3 firmarono il ‘primo triumvirato’, Crasso poco dopo morì e Cesare volle
ottenere il potere assoluto, varcò il fiume Rubicone attaccando i pompeiani, vinse e si fece
proclamare dittatore a vita; 3° scoppiò tra Ottaviano e il figlio adottivo di Cesare, Marco Antonio
che insieme ad Emilio Lepido formarono il ‘secondo triumvirato’, si divisero i territori dei domini
romani e scoppiò rivalità fra loro, vinse Ottaviano).
La res pubblica conobbe un lungo periodo di crisi politica. Le convulse vicende politiche sono il
riflesso delle trasformazioni della mentalità e della cultura romana. Il valore tradizionale di
riferimento, il mos maiorum, è sostituito da una pluralità di mores e si compie quel processo di
integrazione tra mos maiorum e humanitas filoellenica. Come conseguenza a ciò trovano sempre
più spazio le filosofie ellenistiche: lo stoicismo, l’epicureismo, neopitagorismo. La crisi dei modelli
tradizionali porta l’affermarsi di un nuovo concetto di libertà individuale. La dimensione
individuale diviene un valore da difendere: l’otium prende il sopravvento sul negotium, e va
percepito come una ricchezza e una risorsa.
Un po’ tutti i generi letterari si rinnovano. Per ciò che riguarda il poema epico esso non vive un
periodo florido a causa dei suoi interpreti troppo modesti sul piano creativo. Torna il genere della
satira con l’ampia raccolta di Saturae Menippeae di Varrone ispirate al poeta greco Menippo di
Gadara. Più vicino ai modelli greci fu il poema didascalico che offrì un capolavoro con il De rerum
natura di Lucrezio. La novità fu invece la fioritura della poesia lirica, espressione di un otium che
era disimpegno dagli affari pubblici e coltivazione del bello in tutte le sue forme, a partire dalla
perfezione stilistica, Catullo è il primo grande lirico di Roma. L’età cesariana vide anche una
significativa evoluzione dei generi letterari in prosa. Il primo fu la storiografia che portò la memoria
nazionale e l’esaltazione di quelle virtù civiche della cultura romana grazie a Cesare, Sallustio e
Cornelio Nepote. Un forte sviluppo conobbero poi i due generi gemelli della retorica e
dell’oratoria, in questo periodo infatti le contese politiche e il confronto con le teorie greche
favorirono il progresso dell’arte di dire in pubblico, un grande contributo fu dato da Cicerone.

LUCREZIO
Pochissimo sappiamo sulla vita di Lucrezio; le notizie inoltre sono dense di incertezze e problemi di
non facile soluzione. La fonte più autorevole è lo scrittore cristiano Gerolamo. Egli scrive che
Lucrezio nasce nel 96 a.C. o nel 94 a.C., diviene pazzo per effetto di un filtro d’amore e dopo aver
composto negli intervalli della pazzia si suicidò a 43 anni. Egli rappresenta una voce che riflette il
grave momento che la storia di Roma attraversa nell’ambito di una crisi istituzionale senza
precedenti, e che sceglie di esprimersi in forme letterarie distanti dagli standard tradizionali.
Lucrezio si propone di indicare al lettore il percorso esistenziale che lo guidi verso il
conseguimento della felicità, che però egli colloca al di fuori del contesto politico-sociale e al di
fuori degli schemi religiosi, puntando sulla saggezza interiore che può crescere solo grazie al
perseguimento della parola epicurea. La scelta di utilizzare la poesia per illustrare la dottrina
epicurea nel De rerum natura è risultata contraddittoria in quanto Epicuro aveva evidenziato i
rischi del linguaggio poetico, a suo parere troppo compromesso con le immagini e le emozioni. La
poesia di Lucrezio però non è il lusus, cioè poesia elegante ma disimpegnata. Il suo poema infatti
vuole recuperare passione comunicativa e tensione alla verità. Lucrezio chiarisce le proprie scelte
di poetica nel finale del libro I dove si presenta come un poeta chiamato a scrivere dalle Muse
stesse, cioè insignito di una missione divina; diventa poeta-apostolo di verità. Subito dopo apre un
celebre paragone tra la poesia e il miele con cui si cosparge la tazza prima di dar da bere al
fanciullo una medicina amara. La metafora è trasparente: la poesia può servire a propagare la
verità; come l’inganno del medico anche quello del poeta obbedisce a una finalità buona. Dunque
anche l’apostolo di Epicuro si servirà delle dolcezze della poesia per illuminare le menti degli
uomini, rendendo loro più comprensibile la dottrina che libera il cuore dalle false paure.
Dedicò la sua opera a Gaio Memmio con l’auspicio di convertirlo ad un epicureismo che nemmeno
lui stesso assorbì in modo totale: egli, a differenza del Maestro, non riuscirà mai a sostenere che,
eliminate le paure degli dei e della morte, il piacere sia attingibile e che il male sia sopportabile. Il
poeta intende indicare all’uomo del suo tempo questi strumenti che lo liberino dai male dai quali
si sente aggredito, per poter raggiungere la serenità (il piacere catastematico), che si distingue
dall’appagamento dei sensi (piacere dinamico). L’epicureismo quindi assume dei caratteri
personalizzati. Il poeta mira a liberare l’uomo dai mali della politica ma anche della religio; gli dei
infatti vivono negli intermundia disinteressandosi del tutto della sorte umana, e rimanendo
estranei al processo creativo che avviene per l’inclinazione (clinamen) degli atomi nel corso della
loro eterna e casuale caduta obliqua. La vera dipendenza di Lucrezio da Epicuro riguarda il campo
della fisica, che spiega scientificamente la natura secondo i principi atomistici del pensiero
democriteo.
Il poema lucreziano è rimasto incompiuto, può essere diviso per diadi (gruppi di due libri). I libri I e
II riguardano la fisica ed espongono la teoria epicurea degli atomi che danno origine ad ogni cosa
aggregandosi e disgregandosi in un continuo susseguirsi di vita e morte. I libri III e IV riguardano
l’antropologia, e Lucrezio afferma che anche l’anima è composta da atomi e quindi è mortale. I
libri V e VI trattano di cosmologia ripercorrendo la storia del mondo e dell’umanità primitiva. Assai
significativi sono l’inizio e la fine dell’opera. Si comincia con il grande inno a Venere la dea
dell’amore, per chiudere con il cupo finale del libro VI. In altre parole l’amore che è il principio
aggregatore di atomi si oppone al suo contrario, la morte, principio distruttivo, in un’eterna
contraddizione. I proemi che inaugurano i libri hanno un tono sublime, quasi religioso; sono
generalmente seguiti da brani di raccordo che annunciano il tema del libro. In particolare nei
proemi che inaugurano i libri I, III, V, VI Lucrezio intesse l’elogio di Epicuro.
Quello del De rerum natura è un stile robusto con movenze vive e colloquiali. Lucrezio aspira
infatti a un diretto contatto con il lettore; cerca di emozionarlo ma anche di aggredirlo,
mostrandogli l’errore. A questi 2 atteggiamenti si collegano 2 toni stilistici: da una parte
l’intonazione epica, dall’altra l’aggressione ironica, sarcastica. Nasce da qui il ‘sublime’ lucreziano
che punta a produrre nel lettore uno sconvolgimento emotivo. Egli fa un uso insistito della
ripetizione che agevola la memorizzazione e l’apprendimento. Un’altra caratteristica è
l’abbondante ricorso alle formule di raccordo di costruzione del discorso. Nella sua ricerca di
grandezza e solennità Lucrezio fa uso di parole di suono antico. In un passo inoltre egli lamenta ‘la
povertà della lingua patria’ rispetto al greco e quindi il bisogno di dover creare molte parole
nuove.

POETI PRENEOTERICI E NEOTERICI


La lirica rimase a lungo un genere ‘minore’ nell’ambito della cultura letteraria di Roma fino
all’esperienza rivoluzionaria dei poetae novi (NEOTEROI) come furono chiamati da Cicerone. I 3
principali precursori del neoterismo sono Marzio, Sueio, Levio. Essi appaiono sospesi tra una fase
arcaica ormai al tramonto e un periodo contrassegnato da una ventata di novità dovuta alla
presenza a Roma di grandi maestri greci che guardano ai modelli ellenistici. Questi modelli
alessandrini diventano oggetto di studio, ma anche di imitazione. Questo provoca la sprezzante
definizione da parte di Cicerone di alcuni di questi poeti come ‘scimmiottatori di Euforione’.
Dei poetae novi ci sono giunti scarsi frammenti e poche notizie. Diversi tra loro per estrazione
sociale e collocazione politica ad accomunarli era un unico credo letterario e la reciproca stima
artistica. In questo senso possiamo parlare di ‘circolo poetico’. Un’altra caratteristica comune era
la provenienza: erano quasi tutti nativi della Gallia Cisalpina. L’elemento contenutistico essenziale
della poesia neoterica fu invece la serietà e drammaticità con cui viene trattata l’esperienza
amorosa. Alla donna viene affidata una dignità fino allora sconosciuta: è lei a condurre il gioco.
Il caposcuola dei neoteroi fu Valerio Catone, egli rinnova la figura ellenistica del poeta-erudito sul
modello di Callimaco e Apollonio Rodio. Importante fu la figura di Licinio Calvo che fu autore di
epigrammi d’invettiva politica ma anche di elegie amorose (tra cui quella per la moglie Quintilia).
Elvio Cinna condusse a Roma Paternio di Nicea che fu il più influente tra i maestri greci dei poeti
nuovi. Di Cinna ci restano pochi frammenti, abbastanza per rivelarci un poeta assai raffinato.
Scrisse l’epillio Zmyrna come una sorte di manifesto della poetica del gruppo. Tra gli altri poetae
novi si ricordano: Quinto Cornificio, Furio Bibaculo, Varrone Atacino.

CATULLO
Catullo proveniva dalla Gallia Cisalpina, precisamente da Verona dove nacque da una famiglia
aristocratica. Si recò presto a Roma dove si diede agli studi, alla poesia, ma anche agli svaghi, alle
amicizie e all’amore. Infatti nonostante l’amicizia del padre con Cesare e le influenti conoscenze
preferisce tenersi lontano dalla carriera politica per rifugiarsi nell’otium letterario, questo anche a
causa della grave di crisi della res pubblica e dei suoi valori etico-politici. Stabilì rapporti di amicizia
con personaggi di grande notorietà come Quinto Ortensio Ortalo, oratore di tendenze asiane a cui
invierà la propria traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco e con Cornelio Nepote a cui
dedicò una parte dei canti. I rapporti più stretti li strinse con i poetae novi, cisalpini come lui.
Catullo è l’unico poeta novus di cui ci sia giunta una raccolta di 116 carmi di vario contenuto
chiamata Liber. Il poeta si concentra sulle concrete esperienze della vita e inserisce temi
sull’amicizia, amore, passioni varie. Il primo dato caratteristico dei suoi carmi è la brevitas: egli fa
dell’occasione (in greco kairos), momenti di vita vissuta e argomento della propria ispirazione.
Catullo però a differenza di Plauto non utilizza il kairos come trattamento giocoso, come poesia
d’evasione o puro divertimento letterario. Egli utilizza una serietà che nasconde un fondo
drammatico.
L’amore costituisce il filo conduttore dell’intero Liber. A Roma Catullo conobbe Clodia, una donna
bella e colta che cantò con il nome di Lesbia. Il suo amore è una passione che lo travolge e gli
sconvolge la vita. Conobbe fasi di ardente entusiasmo e di struggente abbandono, ma anche
momenti di delusione, di rimpianto e di rassegnazione per l’infedeltà della donna. Alla fine ci sono
solo invettive e insulti contro colei che ha tradito il patto (foedus) d’amore. Il rapporto fra i due
nacque malato fin dall’inizio: era un amore illegittimo e quindi adulterio. Catullo trasforma
l’adulterio in un sentimento assoluto vincolato da un foedus. Quando l’amore si chiuse
definitivamente il poeta scrive un carme di addio alla donna.
I carmi dal 61 al 68 costituiscono una lunga pausa intonata alla doctrina, all’erudizione e all’ars:
emerge qui il Catullo poeta ‘dotto’, alla maniera ellenistica, più vicino ai neoteroi suoi amici. I primi
2 carmina docta sono epitalami, canti per nozze. Il carme 63 narra la triste storia di Attis, vittima
della passione d’amore che è probabilmente un’allegoria di Catullo stesso. Il carme 64 è un lungo
epillio che narra la vicenda elle nozze mitologiche di Peleo e Teti dentro la quale si incastona la
vicende dell’infelice Arianna abbandonata da Teseo. Il carme 65 è un breve carme in distici
elegiaci. Il carme 66 è un’epistola poetica indirizzata all’amico Ortensio Ortalo, con la traduzione
del famoso poemetto di Callimaco La chioma di Berenice di Callimaco. Il carme 67 inscena un
colloquio con la porta di una casa nella quale sono avvenuti adulteri. Il carme 68 va diviso in 2: una
parte di 40 versi è una lettera all’amico Manlio, l’altra è indirizzata ad Allio dove rievoca il suo
primo incontro con Lesbia paragonata all’amore tra l’eroe greco Protesilao e Laodamia. Esso
costituisce il più antico esempio di elegia latina.
Per quanto riguarda lo stile vanno sottolineati alcuni elementi: indicatori diretti di 1 e 2 persona,
forme interrogative e imperative, apostrofi e autoallocuzioni. La parola vuole uscire da se stessa,
vuole farsi azione e da qui si nota il frequente ricorso a pronomi e avverbi dimostrativi e il tempo
presente delle forme verbali. Un’atmosfera diversa si respira nei carmina docta. Qui prevalgono gli
indicatori di 3 persona e i tempi del passato. Ciò che resta di inconfondibilmente catulliano anche
in questi carmi sono le situazioni e le allusioni alla sfera personale. Un secondo elemento tipico
riguarda il fatto che i carmi tendono a rifuggire dalle situazioni tipizzate della lirica greca. Infine,
tipica di Catullo, è la liricizzazione del quotidiano, un azzardo mai tentato da nessun poeta antico.

CORNELIO NEPOTE
Cornelio Nepote nasce intorno al 100 a.C. nella Gallia Cisalpina ed è il dedicatario del Liber di
Catullo. Si dedicò molto agli studi senza mai interessarsi della vita politica. Si era già segnalato
come autore di una Chronica in cui era esposta in modo sistematico la cronologia universale. A
Roma frequentò la Villa Tamphiliana dove gli fu possibile avvicinarsi agli intellettuali più in vista del
tempo, tra cui Cicerone che gli destinò un gran numero di epistole. Scrisse De viris illustribus che
rappresenta la più antica silloge latina di biografie in nostro possesso. Queste vite non hanno la
pretesa di essere scritte per essere lette da un pubblico di elevato livello culturale; l’autore intende
incuriosire il lettore con il racconto di diversi aneddoti anche maliziosi. Della biografia di Annibale
che si distingue per ampiezza da tutte le altre, emerge un ritratto positivo del condottiero
cartaginese, per la prima volta nella letteratura latina in cui c’era sempre la superiorità dei Romani
sugli stranieri. Questo perché Cornelio ha inteso ritrarre il suo personaggio relativamente alla sua
azione, isolandolo dal contesto culturale. In ogni caso le Vite sono anche attraversate da una
universalità di valori: i valori etici, che affondano le loro radici nella tradizione romana, sono
privilegiati e spiegano certe scelte.

CESARE
Cesare rappresenta una delle più grandi personalità di tutta la latinità, distinguendosi in campo
militare, politico e letterario. Nacque a Roma nel 100 a.C. e apparteneva alla gens Iulia, una delle
famiglia di più antica nobiltà. Fin da giovane si mostrò ambizioso e raffinato e per alcuni anni
risiedette in Asia Minore dove seguì le lezioni di retorica di Apollonio Molone. Al suo ritorno a
Roma iniziò una brillante carriera politica che lo vide diventare prima tribuno militare, poi
questore, edile, pontefice massimo e inoltre si affermò come leader del movimento dei populares,
difensore della plebe contro l’arroganza degli optimates. Cesare compì una mossa politica decisiva
per il destino della repubblica romana: stipulò un accordo privato con i suoi grandi rivali Gneo
Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso dando vita al primo ‘triumvirato’, e così divenne console.
Egli si recò nella provincia transalpina e dopo una lunga serie di vittorie riuscì a consolidare il
dominio romano su tutta la Gallia Transalpina.
Cesare raccolse ed elaborò gli appunti stesi durante la lunga battaglia nei suoi Commentarii de
bello Gallico. L’opera quindi narra le vicende della guerra condotta in Gallia dal 58 al 52 a.C. E’
suddivisa in 7 libri, uno per ciascun anno di guerra. (Dopo la sua morte, Aulo Irzio, un suo ufficiale
scrisse un ottavo libro con la definitiva pacificazione della Gallia.) Si tratta di un resoconto
dettagliato che assume i caratteri della monografia storica. Alla narrazione di spedizioni e battaglie
si accompagnano aspetti geografici, demografici ma anche politici ed economici. Già i suoi
contemporanei lo accusavano di inserirvi delle vere e proprie falsità, a sostegno della propria
immagine e quindi della propria carriera politica. Scrivendo il Bellum Gallicum Cesare intese
difendere il consenso popolare ottenuto con i successi bellici e smentire le voci che provenivano
dal ceto aristocratico che vedevano le sue azioni in Gallia dettate da ambizioni personali di potere.
Egli presenta la guerra come un bellum iustum, necessaria per impedire che nemici pericolosi
possano essere una minaccia per l’impero romano.
I successi d’oltralpe vennero accolti a Roma con grande entusiasmo da parte della plebe, ma anche
con molto timore da parte del senato che vedeva aumentare il prestigio di Cesare. La crisi finale
giunse nel 50 a.C.: avvicinandosi la scadenza del secondo mandato proconsolare, Cesare pose la
propria candidatura, ma si rifiutò di tornare alla condizione di privato cittadino se anche Pompeo
non avesse accettato a sua volta di smobilitare le sue legioni. Dopo lunghe trattative senza
risultato, Cesare varcò il fiume Rubicone con l’esercito, dando inizio di fatto alla guerra civile.
Sconfisse le legioni pompeiane a Farsàlo, a Tapso, a Munda e intorno al 47 a.C. iniziò la stesura dei
Commentarii de bello civili. Rientrato a Roma si apprestò a riformare le strutture dello stato,
concentrando su di sé tutti i poteri e diventando dittatore a vita. Questo rafforzò l’ostilità da parte
della nobilitas e per questo un gruppo di giovani repubblicani tra cui il figlio adottivo Marco Giunio
Bruto portò a termine una congiura contro di lui, che morì pugnalato. L’opera quindi narra le
vicende del conflitto civile tra Cesare e Pompeo iniziando con la seduta del senato del 49 a.C.
durante la quale vengono respinte le richieste di Cesare per raggiungere un accordo e si
concludono con la morte di Potino, il reggente del regno d’Egitto in nome del giovane re Tolomeo
nel 48 a.C. Vi sono delle differenze rispetto alla prima opera cesariana: ciò è dovuto
essenzialmente al fatto che si narra una tragica guerra civile ed egli si trova a giustificare gli scontri
che ha combattuto con avversari che tutti avevano ben presenti e che molti avevano appoggiato in
precedenza. Di qui nasce la necessità di mettere in luce nuovi principi ideologici e lati nuovi del suo
carattere, come la clementia nei confronti degli avversari sconfitti. Questa volta il nemico è uno
solo, i pompeiani, ed è disparso su tutto l’impero; i 3 libri in cui è divisa l’opera abbracciano un
arco cronologico di quasi 2 anni, perciò egli abbandona la struttura annalistica. La finalità
dell’opera è chiaramente politica: Cesare vuole dare la propria versione dei fatti e allontanare da
sé le accuse di essere la causa scatenante del grave conflitto civile. Si pone come difensore delle
istituzioni e spiega la propria azione come necessaria per la libertas del popolo romano. L’opera
venne diffusa solo dopo la morte di Cesare per volontà dei cesariani di ricordare ai cittadini il vero
volto del dittatore. I responsabili del conflitto sono dunque gli aristocratici, una classe dirigente
incapace di governare e intenta al mantenimento dei propri privilegi, e nei loro confronti Cesare
esprime disprezzo. Più ambiguo è invece il suo giudizio su Pompeo: non utilizza ironia ed evita
qualsiasi commento personale; intende riconoscere la dignità dell’avversario che paga per le
proprie debolezze ed errori.
Oltre ai due Commentarii sappiamo che la produzione di Cesare comprendeva anche altre opere
tra cui un poemetto di contenuto mitico, una tragedia su Edipo, una raccolta di detti memorabili e
sentenze. La sua fama era anche legata alle orazioni, tra le più famose ricordiamo quella della
congiura di Catilina e contro Marco Antonio. Il fondamento dello stile di Cesare sono le teorie
atticiste che lo spingono al verbum proprium cioè alla parola giusta. Egli esclude pertanto il criterio
della varietas rimanendo fedele a pochi vocaboli. Predomina la paratassi e il verbo è posto in
fondo al periodo, predilige l’ablativo assoluto. Cesare racconta con intensità e vigore le scene di
battaglia. Mancano figure retoriche che riguardano idee astratte, si affida pragmaticamente ai
fatti. La critica ha individuato un’evoluzione di stile tra le due opere cesariane. Il linguaggio del
Bellum Gallicum è limpido e diretto, quello del Bellum civile è più animato e drammatico, più
intenso emotivamente, con l’inserimento di sententiae e riflessioni del narratore.

SALLUSTIO
Sallustio nacque ad Amiterno da una famiglia plebea ma benestante. Si trasferì a Roma per
intraprendere la carica politica infatti ricoprì la carica di questore, di tribuno delle plebe, e
appoggiò i populares schierandosi con i cesariani. Questo generò una vendetta da parte
dell’oligarchia che lo espulse dal senato. Durante la guerra civile appoggiò Cesare che lo scelse
come governatore della neonata Africa nova. Tornato a Roma con la morte di Cesare decise di
ritirarsi a vita privata e si dedicò all’otium e alla composizione delle sue opere.
L’argomento della prima monografia sallustiana con il titolo De Catilinae coniuratione è uno dei più
conosciuti della storia: Lucio Sergio Catilina ordisce un colpo di stato raccogliendo intorno a sé un
gruppo di congiurati provenienti dai ceti più disparati, accomunati dal disprezzo per la legalità e
dall’uso della violenza. Erano nobili, cavalieri, proprietari terrieri, ma anche plebei, donne e
schiavi: li riunisce tutti in un programma ‘democratico’ che prevedeva il condono dei debiti, il
riscatto delle cittadini più miseri, la distribuzione delle terre. Lo sviluppo del racconto non è
lineare: i 61 capitoli che costituiscono l’opera sono scanditi secondo una perfetta e accurata regìa
che alterna i fatti con le pause che la storiografia classica rende obbligatorie (proemio, ritratto del
protagonista, excursus, documenti). Un ruolo particolare è riservato a Cesare che Sallustio appare
deciso a sollevare da ogni sospetto di coinvolgimento nel progetto di Catilina. Inoltre sottolinea la
preoccupazione di Cesare per la legalità quando gli fa prendere parola per schierarsi contro la
condanna a morte dei congiurati, contraria ai costumi dei patres. Il Cesare di Sallustio è tutt’altro
che un rivoluzionario: è un fedele del mos maiorum e in ciò viene messo sullo stesso piano di
Catone il Giovane, che pur partendo da premesse analoghe, arriva a conclusioni opposte,
chiedendo la morte dei congiurati. Uno dei capitoli più celebri infatti è il 54 dedicato al confronto
tra Cesare e Catone, fra la generosa clemenza del primo e la severa fermezza dell’altro.
L’argomento della seconda monografia sallustiana, composta intorno al 40 a.C. è la logorante
guerra che Roma combatté in Africa contro il re di Numidia, Giugurta. I ceti più interessati alla
campagna africana erano i cavalieri, sostenitori di una politica di sfruttamento delle risorse
disponibili nel bacino del Mediterraneo. Dopo anni di guerriglia, la guerra finì grazie all’homo
novus Gaio Mario. Rispetto alla prima monografia il Bellum Iugurthinum appare più vario: il motivo
principale è il cambiamento delle coordinate di tempo e spazio. Nella prima monografia infatti
l’arco di tempo raccontato è di circa un anno e mezzo ed è ambientata esclusivamente a Roma e in
Etruria; ora il teatro delle vicende cambia spesso, con passaggi da Roma all’Africa, in un arco di 7
anni e quindi anche il sistema dei personaggi è più complesso. Nonostante sia diluita in un testo
più lungo di 114 capitoli la tecnica narrativa è la stessa della prima monografia: dopo il proemio, il
ritratto del protagonista e gli antefatti che lo collegano con la storia di Roma, lo storico narra gli
eventi intervallandoli con digressioni e discorsi che segnano pause di riflessione. Nell’opera
mancano elementi di descrizione etnografica, e anche la digressione geografica è assai deludente
per uno storico che, pur essendo stato governatore della provincia d’Africa, sembra attingere a
fonti scritte. Anche il ritratto di Giugurta sembra un prestito dalla tradizione. Questo perché manca
nell’opera qualsiasi interesse altro rispetto all’ossessiva ricerca delle cause morali del declino dello
stato romano cioè i problemi della politica interna, l’avaritia e la lubido imperitandi.
Dopo le 2 monografie Sallustio si impegnò in un’opera annalistica di più ampia portata, le
Historiae che dovevano narrare la storia dal 78 a.C. anno della morte di Silla, fino al 67 a.C. anno
cruciale nel processo di corruzione dello stato repubblicano. Dell’opera che rimase incompiuta ci
restano solo alcuni frammenti ma significativi. Sappiamo che dopo il prologo iniziale seguiva un
ampio sguardo retrospettivo sul mezzo secolo precedente di storia, al centro del libro I era la
personalità di Silla, nel II dominavano le guerre di Pompeo in Spagna e in Macedonia, nel III la
guerra mitridatica, nel IV la conclusione della guerra servile, nel V l’esito della guerra di Lucullo e la
guerra di Pompeo contro i pirati. I frammenti rimasti costituiscono 4 discorsi e 2 lettere,
tramandati dall’uso scolastico delle scuole di retorica. In generale si può affermare che la finalità
politica della riflessione sallustiana emerge nei proemi nei quali si sforza di spiegare al pubblico
romano che la storiografia è un modo utile di lavorare per il bene della civitas. L’indagine storica
acquisisce funzione educativa e illustra la crisi della res publica oligarchica.
Sallustio ha 2 grandi modelli di pensiero e di stile, Tucidide e Catone il Censore. Dal primo deriva
la capacità di ampliare la portata di un fatto per inserirlo in un più vasto contesto di cause. È ciò
che fa nella prima monografia in cui imita la prima parte della Guerra del Peloponneso, oppure nei
discorsi che utilizza come vere e proprie pause. A Catone lo accomuna la concezione moralistica
della storia, come celebrazione nostalgica e severa di un passato glorioso da opporre ai momenti
negativi della società contemporanea. Da Tucidide prende anche l’essenzialità dell’espressione, la
spietatezza, le sentenze brusche. Da Catone invece l’eloquio solenne, una lingua a volte severa
altre popolare. Ne consegue uno stile fondato sull’inconcinnitas, sul rifiuto della rotondità della
frase ciceroniana. La solennità è data anche dal frequente uso di arcaismi grafici, morfologici e
lessicali.

CICERONE
Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino da una famiglia equestre. Nessun componente di essa
aveva tentato la carriera politica per cui fu un homo novus. Per questo si trasferì a Roma dove
seguì le lezioni di retorica con Antonio Gnifone e con Ortensio Ortàlo, illustre esponente
dell’asianesimo. E proprio sui vent’anni scrisse il suo primo trattato retorico De inventione. Dopo il
matrimonio con Terenzia iniziò la sua carriera politica diventando questore a Marsala in Sicilia.
Successivamente divenne edile, pretore urbano, e poi console. Mentre era console fronteggiò con
successo il colpo di stato di Catilina, venendo proclamato ‘padre della patria’. Tuttavia l’aver fatto
condannare a morte i congiurati senza processo gli costò l’esilio. Tornò a Roma ma in una
posizione più defilata in quanto il primo triumvirato escludeva chi, come lui, difendeva l’antico
assetto repubblicano. Assunse la difesa di Tito Annio Milone, accusato dell’omicidio di Clodio. Allo
scoppio della guerra civile, in un primo momento si mostrò neutrale, poi si schierò con Pompeo.
Dopo la vittoria di Cesare dovette aspettare un anno prima del suo perdono. Morto Cesare, i
cesariani guardarono a lui come maestro delle libertà repubblicane. Tornò a difendere la res
publica attaccando l’erede di Cesare, Marco Antonio. Ma quando Antonio si accordò con Ottaviano
e Lepido stilò le sue liste di proscrizione, Cicerone fu il primo dell’elenco e venne ucciso nella sua
villa a Formia.
Cicerone fu un protagonista del suo tempo sul piano politico, tuttavia è ricordato principalmente
come scrittore. Questo binomio otium-negotium apparteneva alla tradizione della res publica
aristocratica, a un‘epoca in cui i grandi intellettuali erano anche i leader politici della città.
L’humanitas di Cicerone è un concetto vario e complesso. In certe pagine si traduce nella
valorizzazione della cultura, in quanto carattere distintivo e formativo dell’uomo; altre volte è
pensata in termini estetici divenendo senso del decoro, oppure gentilezza di modi.
Cicerone fu il maggiore oratore della sua epoca e di tutta la latinità. Compose in tutto 106 orazioni:
di esse ci sono giunte 58 integre, 20 frammentarie, e alcuni titoli. Dopo un breve tirocinio, la sua
arte oratoria seppe porsi al di fuori delle forme codificate e degli stili di scuola. Egli rifiutò sia la
magniloquenza dell’asianesimo, sia l’asciuttezza dell’atticismo ed elaborò uno stile oratorio del
tutto personale. Il suo stile era caratterizzato da elementi precisi: l’ampio e simmetrico giro della
frase (concinnitas), periodi organizzati secondo norme prosodiche e ritmiche, lessico elegante e
preciso, vario ma ‘medio’ pensato anche per il pubblico. Cicerone non si è limitato ad applicare
nelle sue orazioni le tecniche migliori, ma ha svolto un’opera preziosa di riflessione teorica. Tale
riflessione approdò a una serie di trattati retorici: il De inventione in 2 libri in cui l’argomento è
l’inventio cioè i modi per trovare gli argomenti utili all’orazione; il De oratore in 3 libri in forma di
dialogo in cui viene presentata la figura dell’oratore ideale; l’Orator che riprende i temi del
precedente ma aggiungendo regole per un discorso efficace sul piano artistico; il Brutus in forma di
dialogo dedicato a Marco Giunio Bruto che è una rassegna storica dei maggiori oratori del passato
sia greci che latini.
Il capolavoro è sicuramente il De oratore: un dialogo ambientato circa 35 anni prima tra i più
celebri oratori di quell’epoca ovvero Marco Antonio e Licinio Crasso, portavoce dell’autore. Il
perfetto oratore è colui che deve pensare e agire bene non per un fine personale ma come servizio
dello stato; egli non è solo un abile parlatore ma un uomo di governo o meglio uno statista che è
in grado di guidare la città e prendere decisioni sagge, tenendo a freno le passioni della folla e
piegandole al volere dei boni cives, ovvero gli oligarchici al potere.
In alcuni trattati politici, il De re publica e il De legibus l’autore esplicita la propria filosofia politica,
la propria idea di stato e società. Il De legibus è dedicato alle leggi di Roma ed esalta lo ius
naturale, cioè quel senso naturale di giustizia che è connaturato in ogni uomo. Il De re publica è
forse l’opera più ambiziosa di Cicerone: nei 6 libri prende vita un discorso sulla costituzione
romana. Egli ragionando sullo stato perfetto si proietta nel passato e sceglie la costituzione
romana del tempo degli Scipioni. Gli interlocutori sono Scipione Emiliano e Lelio e discutono delle
forme classiche di governo: monarchia, aristocrazia, democrazia e si conclude sulle loro
degenerazioni la tirannide, l’oligarchia, l’oclocrazia. Lo stato migliore è il regime misto che sa
essere un po’ monarchia con i 2 consoli, un po’ aristocrazia con il senato e un po’ democrazia con i
comizi.
Alla fine di una lunga carriera pubblica Cicerone concepì e attuò nel giro di 3 anni un programma di
scritti filosofici, quasi tutti in forma di dialogo. Tra questi ricordiamo: De finibus bonorum et
malorum, in 5 libri sui fini dell’agire umano (per Cicerone l’obiettivo da raggiungere è un equilibrio
tra benessere del corpo e felicità dell’anima); Cato Maior seu de senectute, sull’arte di trascorrere
una vecchiaia serena e proficua; De natura deorum dialogo in 3 libri, in cui si esaminano le
principali teorie greche sulla natura degli dèi, contro gli epicurei, si conclude che la divinità esiste e
si occupa di ciò che accade nel mondo. Il suo approdo alla filosofia, dopo la lunga carriera di
oratore e maestro di retorica, fu inteso come un servizio reso ai cittadini romani, come il
compimento di un vasto progetto culturale ed educativo. Non si trattava di scegliere l’una o l’altra
scuola, ma di prendere il meglio da tutte, secondo l’impostazione voluta dall’eclettismo. Esso lo
conduce ad essere platonico riguardo alla concezione dell’immortalità dell’anima; prende sia da
Platone che da Aristotele la delineazione di uno stato ideale; probabilista in campo gnoseologico;
rinuncia al dubbio ma anche al dogmatismo che impedisce la discussione; infine segue Posidonio,
seguace dello stoico Panezio per il problemi di etica.
Chiave d’accesso a tutto il mondo di Cicerone è il suo epistolario di cui possediamo 774 lettere
divise in più raccolte. Esse ci danno un’immagine completa di Cicerone con le sue virtù e i suoi
difetti con grande sincerità, a tal punto che se avesse provveduto lui stesso alla pubblicazione
avrebbe escluso quelle più intime.
L’unità di misura dello stile ciceroniano non è la frase ma il periodo. Esso è costituito dalla
prevalenza dell’ipotassi. Il tratto più significativo è la concinnitas cioè la simmetria tra le parti.
Cicerone usa anche le risorse del numerus cioè del ritmo. È considerato il perfetto stile latino. Il
proposito a cui si ispira è la mescolanza degli stili, infatti egli adotta stili diversi a seconda delle
diverse circostanze e finalità.

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