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Profilo di letteratura italiana

EPOCA 6-7-8-9-10
Letteratura Italiana
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
43 pag.

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EPOCA 6

INTRODUZIONE

La stagione conclusiva del Rinascimento è un’epoca controversa che risente dei dettami della
Controriforma (maggiore controllo della Chiesa) e la fine del Cinquecento è caratterizzata da una varietà di
esperienze. Negli ultimi decenni è maturata una visione più equilibrata del secondo Cinquecento, entro cui
sono la figura di Tasso e il dossier ampio delle sue opere, tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta, a
poter svolgere una funzione esemplare e chiarificatrice. La Gerusalemme liberata è infatti un capolavoro
del Rinascimento per la straordinaria libertà con cui interpreta il rapporto con i modelli e con cui assume,
filtrandole e in parte attenuandole le leggi della Poetica di Aristotele. Con la produzione tassiana si
comprende il peso dei condizionamenti esteri, riflettendo a pieno la crisi delle corti italiane e il rilievo delle
preoccupazioni religiose. L’anno della sua morte 1595 può essere adottato, a livello simbolico, come
passaggio conclusivo del Rinascimento. Dopo Tasso, il poema simbolo del Barocco italiano è l’Adone di
Marino che finirà iscritto nell’Indice dei libri proibiti. L’infrazione che caratterizza Marino si riscontra anche
in altri intellettuali che entrano in contrasto con la cultura ufficiale, e ne misurano la rigidità pagando in
prima persona. Tratto ravvisabile nel percorso filosofico di Bruno, condotto tramite una dissacrante critica
che si dispiega nei suoi scritti, e che scandisce anche il percorso di Campanella, sospeso tra profetismo e
utopia. Più complesso il rapporto con la cultura ufficiale di Galilei, poiché si affronta l’apertura a un’inedita
visione del mondo e dell’uomo, alla base del pensiero moderno. La condanna del Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo del 1633 segna la conclusione di una prima stagione del Barocco italiana. Su un
piano letterario, accanto alla schiera di marinisti, si fanno strada proposte culturali più prudenti,
caratterizzate da un’attenta selezione dei contenuti e da uno stile meno sperimentale e mirato alla ripresa
dei classici. Queste esperienze vivono per alcuni anni in perfetta contemporaneità con poeti che invece
portano avanti una ricerca metaforica estrema → Convivenza di autori lontani fra loro aiuta a comprendere
come nel primo Seicento il panorama della letteratura sia più composito e ricco di quanto si ritenga. Non
tutto il Seicento è dunque Barocco e anche su un piano schiettamente letterario si può individuare una
cesura caduta nel corso del secondo quarto di secolo.

TORQUATO TASSO (Sorrento 1544 – Roma 1595)

Tutta la produzione letteraria tassiana è caratterizzata da una strenua difesa del valore della parola
letteraria nel più ampio sistema dei saperi. Necessario riconoscere la presenza di due fasi della sua carriera
letteraria tra loro significativamente diverse. Da una prima fase in cui Tasso pensa a una letteratura che
attraverso il velo seducente della finzione coinvolga e educhi i lettori, si passa a una seconda in cui
persegue l’obiettivo di una letteratura che ambisce a farsi espressione diretta della verità filosofica. Ne
consegue l’identificazione di un diverso tipo di lettore: nel primo periodo vi è un atteggiamento inclusivo in
cui Tasso si rivolge al più ampio pubblico, da educare tramite il diletto; nel secondo diventa esclusivo,
perché ritaglia in senso elitario il destinatario ideale, presupponendo una notevole cultura filosofica e
teologica.

Rinaldo 1562 → Poema cavalleresco incentrata sul racconto della gioventù dell’eroe Rinaldo. Una sorta di
prequel del Furioso, racconto della formazione dell’eroe sul fronte militare e sentimentale. Nella lettera che
introduce il poema Tasso dichiara la presa di distanza netta dalla narrativa di Ariosto e manifesta una
prudente adesione a un canone selezionato di modelli antichi sulla scorta di una lettura non passiva della
Poetica di Aristotele in nome della rivendicazione del diletto quale elemento essenziale del discorso
letterario → Mediazione tra Aristotele e moderni: predilige soluzioni improntate all’epica classica, come il
racconto di un’unica vicenda narrativa o la scelta di ridurre al minimo la presenza del narratore nel testo;
resta ancora alla tradizione cavalleresca il ritratto dell’eroe protagonista, le cui avventure si succedono nel
corso del poema in modo quasi meccanico. = Volontà di adeguarsi alle norme poetiche, ai tempi moderni e
alla necessità di garantire il diletto nel poema.

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Discorsi dell’arte poetica 1562-1564 → Trattato incentrato sulla definizione delle regole del nuovo poema
epico-cavalleresco, sul difficile tentativo di mediare le forme assunte dal poema moderno, in particolare dal
Furioso, e le regole della Poetica aristotelica che poneva i fondamenti del poema epico antico. Tasso invita
a trovare un compromesso che, tenendo ferme alcune istanze del poema antico così come normato da
Aristotele, potesse però garantire la presenza degli elementi più rappresentativi del moderno romanzo
cavalleresco, ritenuti indispensabili per garantire la presenza del diletto e non alienarsi i favori del pubblico.
In tre libri dedicati alle categorie dell’inventio, della dispositio e dell’elocutio:

1. Primo libro affronta la scelta del miglior soggetto per un poema eroico → il principio che deve
guidare la scelta della materia è il verosimile; il poeta deve trattare un argomento storico vero ma
lontano dalla memoria dei lettori, per poter innestare alcuni inserti di fantasia. Tasso però censura
il repertorio meraviglioso tipico dei poemi moderni, giudicandolo non degno di fede, specie se letto
alla luce del verosimile. La soluzione è agganciare il meraviglioso ai principi della religione cristiana,
ospitando miracoli e prodigi considerati credibili e reali nella storia del cristianesimo.
2. Secondo libro si sofferma sulle strategie narrative da adottare per orchestrare un racconto
sapientemente drammatico → Si propone di trovare una mediazione tra la moltiplicazione di storie
tipica dei poemi moderni e la necessità di selezionare un’unica vicenda narrativa. Adotta l’unità
mista, un racconto centrato su una sola storia, che nell’insieme accolga una serie più articolata di
altri episodi come parti necessarie di un sistema narrativo coerente. Ideale molteplicità dell’unità.
3. Terzo libro punta alla ricerca di uno stile magnifico, conveniente alla materia epica → Lo stile
magnifico serve a coinvolgere il lettore nello spettacolo emotivo e passionale narrato. Tasso
immagina che lo stile epico debba assorbire al suo interno latitudini retoriche e stilistiche lontane
tra loro, da quelle proprie del linguaggio lirico sino alle asperità del linguaggio grave e tragico.

Rime giovanili → Nel 1561 vengono stampati 13 sonetti, all’interno di un’antologia intitolata Rime di
diversi poeti toscani, seguita poi da una raccolta più ampia di 42 testi, inserita nelle Rime de gli Academici
Eterei. I testi editi nella raccolta dell’Accademia degli Eterei disegnano un racconto di una passione per una
donna, Lucrezia Bendidio, ma non trascurano il ricorso a temi e motivi più canonici.

Nel 1565 Tasso entra presso la famiglia di Luigi d’Este, nella corte di Ferrara. La corte diviene il luogo ideale
del suo mondo letterario. In questo momento distinguiamo due Tasso: il primo spensierato e privo di
inquietudini, e il secondo vittima delle sue ossessioni e di un ambiente percepito con ostilità; ma al tempo
stesso sono anni di una straordinaria felicità creativa, si dedica all’elaborazione della Gerusalemme
Liberata, compone anche Aminta e scrive l’abbozzo del Galealto.

Aminta 1573→ Favola pastorale composta per la corte ferrarese che riesce a dare vita a un rinnovamento
della recente tradizione, inquadrando il racconto all’interno di più ortodosse coordinate aristoteliche di
marca tragica, allargando e complicando il gioco di riferimenti intertestuali con il mondo letterario classico.
Così apre la strada al genere misto, la tragicommedia. La favola è ambientata nei boschi vicini a Ferrara,
articolata in cinque atti, tutti chiusi da un coro che riflette sulla liceità della passione amorosa: si narra la
storia della ninfa Silvia e il pastore Aminta innamorato e disperato per l’ostilità dell’amata. Personaggi
secondari sono Tirsi consigliere di Aminta e maschera di Tasso e Dafne tutrice di Silvia. Trama lineare,
riscrittura della storia d’amore di Piramo e Tisbe (Ovidio in Metamorfosi) che Tasso priva del finale luttuoso.
Si coglie nella mescolanza dei due generi, commedia e tragedia, il centro dell’opera. Il tema dell’amore
viene interpretato in forme contraddittorie. Nel coro alla fine del primo atto si nota una conflittuale
contrapposizione tra la natura edenica dei tempi remoti e la corruzione della condizione umana dovuta alla
cultura, alle regole, condensate nell’onor, che costituiscono una violenta censura alla libera espressione
della sensualità. Il finale lieto si carica di sottili tensioni e conflitti che disegnano questo percorso di
formazione sentimentale sì come un approdo al mondo adulto di due giovani protagonisti, al prezzo però di
un doloroso apprendistato che sembra lasciare delle zone d’ombra irrisolte in nome di una ambigua
armonia.

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Gerusalemme Liberata → la composizione più volte si sottopone alla cosiddetta “revisione romana” di un
gruppo di esperti di stanza a Roma e coordinati da Gonzaga, che più volte mossero obiezioni sul piano della
poetica e sulla commistione tra materia amorosa e argomenti bellici, commistione letta da alcuni revisori ì,
prossimi allo spirito rigoroso proprio di una cultura ormai inserita nella Controriforma cattolica, come
irricevibile perché potenzialmente immorale. Edito da amici in versioni integrali tra 1581 e 1584. La scelta
cade sulla prima crociata, un tema in sintonia con le inquietudini e le incertezze religiose che avevano
attraversato il mondo italiano ed europeo, in anni in cui il pericolo turco era pressante, ma che permette a
Tasso di interpretare un soggetto ‘illustre’ e di ancorare il tema delle armi, proprio della tradizione
cavalleresca, a quello dell’ideologia religiosa. Dopo essersi documentato sulle fonti storiche, Tasso decide di
porre al centro del poema solo le ultime fasi della crociata, da quando l’esercito cristiano arriva in
prossimità di Gerusalemme, sino al momento in cui la città viene conquistata dai crociati. Il soggetto del
poema è la guerra tra bene e male, che si combatte su tre livelli diversi: nell’animo dell’uomo, tra gli eserciti
cristiani e musulmani e tra Dio e le forze del male. Nell’ottava esordiale si ha una sintesi degli elementi
portanti: il narratore presenta i protagonisti della vicenda, un esercito mosso dalla fede e guidato dal
capitano Goffredo di Buglione e la loro missione, cioè la liberazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Si
tratta di un obiettivo raggiunto solo attraverso un doloroso percorso, che richiede di agire con intelligente
prudenza e risoluta forza militare. A creare gli impedimenti si ergono gli eserciti musulmani e le forze
demoniache, ma oltre quelli esterni anche i nemici interiori rallentano la missione: albergano nell’animo dei
cavalieri cristiani come tentazioni e cedimenti.

TRAMA: Nella prima sequenza del poema vengono introdotti i protagonisti dei due campi nemici e
prendono vita i primi schieramenti militari. Importante è la scelta del capitano dell’esercito cristiano,
Goffredo, scelto direttamente da Dio. Quando l’esercito cristiano si avvicina alla città di Gerusalemme, il re
Aladino si prepara per sostenere l’assedio e perseguita i cristiani che abitano nella città. Nel frattempo, una
giovane musulmana Erminia, si innamora del cavaliere cristiano Tancredi, si accendono i primi scontri. La
seconda sequenza è dedicata tutta alle forze del male: Plutone, nome con il quale si designa Lucifero, lancia
la sua vendetta e porterà l’esercito cristiano ad un passo dalla disfatta. Il primo effetto del suo piano è
l’apparizione sul campo cristiano della seducente Armida, una maga che inventa una storia per distrarre i
soldati e per allontanarli dalla missione. Secondo effetto è Gernando che sfida per un onore militare
Rinaldo, ma Rinaldo finisce per uccidere il rivale, macchiandosi così di una colpa tanto grave da obbligarlo a
lasciare il campo cristiano. Tancredi, segretamente innamorato di Clorinda, eroina musulmana, viene
coinvolto in un duello con Argante, cavaliere pagano, e durante la notte Tancredi decide di abbandonare il
campo per seguire quella che pensa essere Clorinda (in realtà si tratta di Erminia; In seguito, Clorinda
morirà e ad ucciderla sarà lo stesso Tancredi per sbaglio). Il cavaliere segue la donna, ma dopo essersi perso
viene catturato da Argante. Intanto in campo cristiano, a Goffredo arriva la notizia della morte di Sveno, un
cavaliere che era giunto lì per dare una mano ai cristiani. Arriva anche la notizia, falsa, della morte di
Rinaldo. Goffredo sferra un attacco alle mura di Gerusalemme, ma non ha fortuna e viene ferito. Proprio
quando per l’esercito cristiano tutto sembra volgere al peggio, i destini della guerra prendono una piega
diversa grazie all’intervento di Dio. Per riportare Rinaldo partono due cavalieri che compiono un viaggio ad
Ascalona, dove un mago cristiano racconta loro che Rinaldo è tenuto prigioniero da Armida. Grazie alle
istruzioni del mago, i due cavalieri si dirigono sul luogo e convincono Rinaldo a riprendere il suo ruolo,
tornando così nell’esercito cristiano. A Rinaldo viene illustrata la sua discendenza futura, che giunge fino
alla famiglia degli Este. Rinaldo termina il suo percorso di purificazione e inizia l’attacco a Gerusalemme.
Argante dopo un duello con Tancredi viene sconfitto. Lo scontro finale con l’esercito egiziano vede Rinaldo
primeggiare. Concluso l’epico scontro tocca a Goffredo sciogliere il voto che aveva spinto lui e i cristiani alla
crociata raccogliendosi in preghiera sul Santo Sepolcro.

All’unità del racconto di una sola impresa militare, guidata da un eroe principale, vengono contrapposti
elementi che rappresentano la varietà e la dimensione multiforme del reale. Saranno in particolare gli
errori dei cavalieri, la presenza del tema amoroso e meraviglioso a movimentare la narrazione. Si nota la

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necessità di ricorrere alla finzione capace di attirare il pubblico, la verità può essere interiorizzata solo
tramite finzioni. I tratti romanzeschi trovano spazio soprattutto come forze antagoniste al procedere della
missione crociata. Sono cioè presenti, ma funzionalizzati in un campo di forze che li richiede per garantire
spessore drammatico e seduttività del racconto. L’intento pedagogico dell’opera sottolinea e celebra il
potere cristiano e si adatta ai pensieri della controriforma. Tasso esalta i valori della controriforma, ma è
attratto dal pensiero rinascimentale, quindi non lo condanna totalmente. Il bifrontismo spirituale di Tasso
consiste nell’esistenza di ambivalenze su ciò che scrive, ad esempio lui sostiene il personaggio di Goffredo,
ma è attratto dai guerrieri erranti. La guerra tra cristiani e pagani non tratta di uno scontro tra due culture,
l’antagonista dell’opera è Satana. L’amore nel poema è forza negativa, è sofferenza e compromette il clima
epico. Armida dimostra di padroneggiare le armi della seduzione, per convincere i soldati cristiani a volerla
seguire; il personaggio però nel corso del poema subisce una metamorfosi imprevista: osservando la
bellezza del giovane Rinaldo, ne resta affascinata e ben presto è incapace di resistergli. La passione
amorosa nel poema è trattata come una forza così potente da non essere controllabile nemmeno dalla
figura che più ne fa un uso perverso. Ulteriore manifestazione del complesso mondo dell’eros è il gioco di
relazioni che si stabilisce tra il cavaliere cristiano Tancredi e le eroine Clorinda ed Erminia; gli scambi danno
vita a una triangolazione imperfetta da cui deriva una continua frustrazione del desiderio. Esce l’immagine
di un amore segnato dall’incertezza e dal dubbio. Il “meraviglioso” è poi uno degli elementi piacevoli
indispensabili a un moderno poema epico. Ricondotto all’interno della contrapposizione, il conflitto tra le
forze di Dio e dell’Inferno: i momenti di svolta sono segnati dall’intervento soprannaturale. Goffredo è
incarnazione del paradigma etico alla luce del quale si giudicano gli altri campioni cristiani, specie di
funzionario di Dio cui spetta il dovere di ricordare la valenza religiosa della guerra, disciplinando gli errori
morali dei soldati. Rinaldo è eroe necessario per la conquista di Gerusalemme, che nel corso del poema
attraversa le fasi di una sorta di romanzo di formazione per divenire un perfetto cavaliere. → Ideali
campioni di un mondo cavalleresco ripensato da Tasso.

Lo stile utilizzato da Tasso è sublime, “magnifico”, lontano da forme umili o mediocri. Soluzioni linguistiche
e sintattiche non consuete, la cui principale funzione è di spiazzare il lettore. La scelta delle parole privilegia
i termini rari, con arcaismi e latinismi che conferiscono al poema uno stile a tratti oscuro. Sul piano delle
tecniche narrative Tasso opera scelte mirate a generare un coinvolgimento immersivo del lettore nelle
vicende. Il narratore epico compare assai raramente, ma la sua presenza è pervasiva. Si tratta di un
narratore passionato di una voce che partecipa in prima persona alle emozioni di tutti i personaggi, senza in
realtà operare distinzioni di carattere morale, facendosi insieme spettatore e cassa di risonanza del mondo
interiore e delle passioni di ciascuno.

Orlando Furioso:

• Policentrismo
• Laico
• Termini aulici
• Romanzo cavalleresco e comuni
• Esalta il Rinascimento

Gerusalemme Liberata:

• Forza unificatrice
• Religioso con intento pedagogico
• Stile sublime
• Poema eroico
• Esalta la Controriforma, ma è attratto dal Rinascimento

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La reclusione a Sant’Anna. Nella seconda metà degli anni Settanta, i rapporti di Tasso con la corte estense si
fanno via via più difficili, a causa di gelosie e rivalità. Dopo una serie di tentativi per trovare ospitalità in
altre corti, Tasso viene trattenuto da Alfonso II e fatto rinchiudere nell’ospedale di Sant’Anna a Ferrara. Il
forzato soggiorno influì in modo decisivo sulla personalità del poeta, e contribuì a segnare un mutamento
profondo della concezione della poesia e della letteratura. Le opere composte in questo periodo sono
condizionate dalla necessità di trovare una via d’uscita.

I dialoghi → La prigionia spinge Tasso a moltiplicare le occasioni di scrittura, sia con le lettere, che
rappresentano una sorta di dialogo compensatorio con il mondo, sia con le rime di carattere encomiastico.
All’interno dei dialoghi compare lo stesso tasso, dietro la maschera del cosiddetto “Forastiero Napolitano”,
un’autorappresentazione che si può interpretare come una autodifesa che Tasso sente il bisogno di istituire
contro coloro che avevano messo in dubbio le sue qualità intellettuali, soprattutto durante la reclusione. In
questi anni vengono date alle stampe un numero ampio di rime, queste sono presentate con
fraintendimenti e sviste. Inoltre, vi è una produzione di lirica encomiastica. Insieme a questi testi Tasso
inizia un progetto di risistemazione delle sue rime, nella doppia direzione di una selezione di natura
antologica per temi e di una revisione della facies stilistica dei testi. Si sofferma di più sulle rime amorose,
come documenta il cosiddetto canzoniere “Chigiano”, Tasso cerca di predisporre un libro articolato in due
parti, attraverso una seriazione dei testi che definisce una sorta di racconto a tappe, si dipanano alcune
vicende sentimentali. Una volta uscito da Sant’Anna, Tasso abbandona il progetto. Nel luglio del 1586 Tasso
può abbandonare la reclusione di Sant’Anna grazie a Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova, per dirigersi
verso la corte gonzaghesca dove rimane un anno, per poi partire alla volta di Roma e dopo di Napoli, città in
cui trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore a Roma nel 1595. Ultima parte della vita è segnata da una
diversa idea di letteratura, una nuova idea in virtù della quale deve essere privilegiata la presentazione del
vero. Senza quindi ricercare il coinvolgimento emotivo del pubblico, il poeta deve farsi portavoce di verità
filosofiche e teologiche, deve saper includere nella sua stessa scrittura un ampio panorama di letture.

Re Torrismondo → Negli anni in cui compone l’Aminta, Tasso aveva iniziato a lavorare a una tragedia
(comprendente il primo atto e due sole scende del secondo) che viene pubblicata senza il consenso
dell’autore. Già a partire dagli ultimi anni del reclutamento, avvia il lavoro di completamento, dedicandola
al suo liberatore, il duca Vincenzo Gonzaga. Articolata in cinque atti scanditi dalla presenza di cori che
commentano i fatti rappresentati, la tragedia tassiana adotta un soggetto non usuale, dato che non attinge
né alla storia antica né al mito classico, ma riprende una storia del Nord Europa. La tragedia è in parte
ispirata a fonti storiche tradotte e diffuse in Italia, e pone al centro della vicenda il rapporto tra il re di
Svezia, Germondo, e il suo amico stretto Torrismondo, un rapporto che viene complicandosi in ragione
dell’amore che Germondo nutre nei confronti della principessa norvegese Alvida, la cui famiglia è da tempo
in lotta con quella di Germondo. T per aiutare l’amico si offre di prenderla in moglie e poi cederla all’amico,
ma i due finiscono per innamorarsi. Così T propone a sua sorella di sposare Germondo, da cui iniziano una
serie di scoperte che riveleranno la parentela diretta tra Alvidia e Torrismondo che fa precipitare la tragedia
verso la catastrofe finale: il suicidio. Decisiva è l’influenza dei modelli classici, attraverso l’introduzione del
tema dell’incesto, viene ripreso il modello sofocleo. Si tratta di un tema ulteriore che si innesta su quello
centrale del dissidio tra amicizia e libera affermazione di sé, tra le leggi dell’onore e quelle dell’amore, tra
liceità della passione e cupo presentimento di un destino negativo, cui unico rimedio sembra essere la
morte. Lo stesso Torrismondo rappresenta un eroe pensoso, capace più di incertezze e inquietudini che di
gesti risoluti.

Gerusalemme conquistata → La riscrittura avviene tra il 1588 e il 1593 quando viene pubblicato. La
rielaborazione avviene in parallelo ad un lavoro di ridefinizione dei principi teorici. Tasso non modifica il
soggetto, ma agisce sulla struttura narrativa, con la cassatura di alcune parti, specie quelle di carattere
amoroso, e l’ampliamento di alcune parti decisive per il significato complessivo del poema; a guidare
questo lavoro di eliminazione sono quelle critiche che erano state mosse da parte della revisione romana

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riguardo la Liberata. Significative sono le aggiunte, motivate dalla volontà di imitare l’Iliade omerica, al cui si
ispira anche il numero di canti, 24, e dal desiderio di riprendere le fonti storiche. Per parlare di Dio, Tasso
attinge dalla letteratura patristica e alla filosofia neoplatonica.

Il Giudicio → è un trattato rimasto inconcluso a causa della morte del poeta, qui si ritorna sui principi
essenziali del poema eroico, in particolare sul tema del rapporto tra poesia e verità, storica e allegorica, e
sul ruolo che deve giocare il punto di crisi dei vincitori nella trama del poema. La parte più interessante è
quella dell’autocommento del poema, in cui Tasso offre un accesso privilegiato al suo testo.

Negli ultimi anni della prigionia Tasso aveva ideato un piano editoriale per pubblicare le sue rime, l’idea di
fondo è quella di suddividere le rime in libri monograficamente dedicati a singoli temi: amoroso,
encomiastico e spirituale. Ciò rappresenta la rottura definitiva con il modello del canzoniere petrarchesco.
Per la diversa concezione della poesia, Tasso decide di accompagnare le rime con un autocommento. Il
progetto risulta essere solo in parte realizzato: escono le Rime amorose, quelle encomiastiche, ma quelle
sacre che il poeta voleva suddividere in due toni, rimane inconcluso, a causa della morte del poeta.

Mondo creato → è il racconto della creazione del mondo, basato in prima istanza sulla Genesi, il primo
libro dell’Antico Testamento, integrato con la traduzione dei cosiddetti “esameroni” (opere che utilizzavano
ai fini della predicazione della nascita del mondo per impartire ai fedeli i principi della religione). Il poema
ricorre all’endecasillabo sciolto, è articolato in sette giornate in cui si tratteggia la vicenda della nascita della
luce e delle tenebre, del cielo, dell’acqua, terra e pianeti, del sole e della luna, degli animali terrestri e
acquatici, e infine dell’uomo. Scopo della poesia è quello di farsi rivelazione e spiegazione della complessa
multiformità del mondo, illustrata attraverso la forza della parola. Si tratta di un’interpretazione della verità
rilevata dai testi sacri. Lo stile è fatto di ripetizioni, strutture polisindetiche e anafore.

BATTISTA GUARINI (Ferrara 1538 – Venezia 1612)

Vive la conclusione del Rinascimento ferrarese con la fine della signoria degli Este 1597 e la completa
rottura della reciproca solidarietà nel rapporto fra principe e l’ormai subordinato cortigiano. L’intera
esperienza letteraria converge nel Pastor fido, tragicommedia pastorale destinata a una grande fortuna
europea, portatrice di un messaggio di rigenerazione morale tramite il rinnovo, nel singolo e nella società,
dello spezzato vincolo fra amore e onore, libertà e legge. Partecipazione alla antologia delle Rime de gli
academici Eterei.

Il pastor fido 1580-1589 → Tragicommedia pastorale in cinque atti, nasce in competizione con l’Aminta
come sua correzione ideologica: ne riprende personaggi e topoi narrativi e spettacolari, rendendo però ogni
dettaglio strettamente necessario all’intreccio, costruito con assoluto rigore geometrico, in cui i personaggi
valgono come funzioni ideologico-narrative. Il pastor fido è Mirtillo che nonostante le repulse resta fedele
all’amore per Amarilli, offrendo la propria vita in cambio di quella della ninfa, condannata a morte per
adulterio (promessa sposa di SIlvio). Mirtillo riconosciuto discendente di Ercole può sposare Amarilli
discendente di Pan: oracolo per cui il matrimonio tra i due di stirpe divina pone fine al sacrificio annuale di
una fanciulla a Diana, imposto dalla dea in riparazione della morte del pastore Aminta causata dall’infedeltà
della ninfa Lucrina. L’onore lodato da Guarini è il senso profondo della propria dignità, interiorizzazione
della virtù, legge della libertà valida per i singoli e per la società. Amarilli rappresenta onore e fedeltà,
mentre Corisca (provoca la scoperta dei due amanti) è il personaggio basso, ma motore dell’azione. Tutti i
personaggi sono sottoposti a un destino provvidenziale che ne indirizza le esistenze, rovesciandone
sistematicamente piani e azioni.

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GIORDANO BRUNO (Nola 1548 – Roma 1600)

Scoperta dell’infinità produttiva e creatrice che percorre la realtà, Bruno concepisce un nuovo cosmo privo
di gerarchie, infinito e infinitamente animato. E alla luce di questa rinnovata prospettiva possono essere
comprese le sfaccettature del suo pensiero e la costruzione delle sue opere filosofiche.

Candelaio → Commedia in cui viene alla luce la sua posizione: non un rifiuto della tradizione quanto una
sua rielaborazione creativa. Mettere sotto una luce ridicola le derive inconcludenti della cultura a lui
contemporanea. Lo svolgimento drammatico è preceduto da un paratesto in cui seguono quattro figure
deformate del prologo classico che negano il loro ruolo e il valore della commedia. Si tratta di un
dissacrante meccanismo meta teatrale di denuncia dell’impossibilità di operare in una realtà ormai
profondamente sconvolta. Il modello negativo è rappresentato da Manfurio, con le sue vane enumerazioni
di vocaboli che costituiscono una completa distorsione dell’ideale bruniano di una comunicazione
concettualmente feconda. Il paradigma positivo è il pittore Gioan Bernardo capace di ristabilire il nesso
biunivoco tra parola e cose, che è stato incrinato dalla vuota pedanteria. La lingua bruniana intende
rappresentare la realtà in tutta la sua concretezza, ricorrendo anche a vocaboli dialettali, maggiormente atti
a descrivere il flusso vicissitudinale che coinvolge tutti gli enti rispetto a un linguaggio elevato ma avulso
dalla materialità.

De la pausa, principio et uno → dialogo in volgare in cui scardina l’opposizione tradizionale di matrice sia
aristotelica che neoplatonica tra la materia passiva (femmina) e la forma attiva (maschio), che agisce sul
sostrato materiale inerte. Bruno sottolinea che il seno della materia è un principio vitale e attivo: la materia
genera dal suo interno le forme ed è animata da un inesauribile appetito che la induce a produrne sempre
di nuove, in un ciclo infinito in cui nessun ente si annulla e tutto viene continuamente trasformato. La
materia è la fonte generativa della vita. A doversi confrontare con l’universo infinito è il soggetto
conoscente, per cui Bruno cerca nuove vie attraverso le quali l’uomo, pur nella sua finitudine, possa
giungere a intravedere l’infinito. Una delle modalità è la mnemotecnica, l’arte della memoria: attraverso la
costruzione di immagini mentali Bruno può creare gallerie di immagini metaforiche e tentare di riprodurre
nello spazio mentale fantastico il divenire infinito, uno sforzo che non raggiunge mai pienamente il suo
obiettivo. La necessità di un lessico che si assimili quanto più possibile ai contenuti, che si faccia immagine,
autorizza il filosofo alla creazione di neologismi.

Gli Eroici furori → Bruno delinea un altro possibile cammino dell’uomo vero la verità, l’eroico furore
appunto: nell’universo infinito all’uomo non basta la capacità intellettiva, per accedere alla verità è
necessario ricorrere alla forza della volontà, che spinge il soggetto conoscente oltre i suoi limiti, mettendolo
nella condizione di raggiungere per un istante, in un lampo di illuminazione, l’assoluto. E l’azione della
volontà deve congiungersi alla potenza della fantasia, una facoltà di confine, che immette il materiale finito
proveniente dai sensi in uno spazio mentale in cui esso può riplasmarsi continuamente. → Atteggiamento
plastico e poietico nei confronti delle fonti, volto a far scaturire da esse un nuovo potenziale conoscitivo,
come emerge dal dialogo che Bruno instaura con Petrarca e il petrarchismo e l’antipetrarchismo. Bruno
rifiuta il primo, fatto di vani lamenti per una donna che non conducono a un innalzamento al di sopra del
livello degli istinti corporei, ma anche il secondo fine a sé stesso, che non coglie la grandezza del poetare
petrarchesco e la forza gnoseologica in esso latente, compito del filosofo portare alla luce.

TOMMASO CAMPANELLA (Stilo 1568 – Parigi 1639)

È nel ritorno alla comprensione della pienezza delle cose che Campanella individua il compito primario della
filosofia che possa dare adito a un rinnovato studio del mondo, libero dalle pedanterie dell’aristotelismo.
Egli avverte con drammatica urgenza la necessità di una renovatio mundi, di un rinnovamento al quale
giungere attraverso l’elaborazione di una riflessione in grado di mostrare la falsità dei pregiudizi radicati e
del senso comune, esposta in una particolare veste linguistica e stilistica, segno di precise posizioni
teoriche. L’adesione alla filosofia talesiana permette a Campanella di intendere la filosofia naturale non più

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come una ripetizione acritica delle auctoritates del passato, ma come una disamina attiva dei fenomenti e
degli enti. Questi per Campanella sono generati dall’azione combinata dei principi primi del caldo e del
freddo sulla materia, che non è privazione di essere o oggetto mentale, ma massa corporea inerte; mentre
il calore celeste, trasmettendosi all’anima mundi, garantisce la vivificazione di una realtà reticolare, le cui
parti sono tra loro connesse.

Del senso delle cose e della magia → Tutto nel mondo è dotato di vita, negli organismi animali la scintilla di
calore celeste vivificante è lo spiritus, un vapore caldo e sottile che ha sede nel cervello, alla base anche del
processo conoscitivo umano, dato che riceve le impressioni dai sensi esterni e poi le confronta tra loro,
rielaborandole. Il mago è quello che grazie a una comprensione articolata dei moti dello spiritus e delle
modalità con le quali sollecitarli e placarli, riesce ad avvicinare gli animi di coloro che lo circondano.
Particolare tipo di mago è allora il poeta, in grado di usare sapientemente le parole e di muovere
profondamente gli affetti umani.

La città del sole → Grande costruzione utopica in volgare in cui l’organizzazione sociale si regge
sull’adeguamento tra attitudine individuale e ruolo che si ricopre. Obiettivo di mostrare come in una città
organizzata razionalmente sia possibile ristabilire il corretto nesso tra società e natura che filosofi come
Aristotele, che non ha riconosciuto alcuna dignità alle mansioni artigianali, hanno rescisso. = Il vero
apprendimento avviene lontano dalle chiuse biblioteche.

Difesa della libertas philosophandi contro la dogmatizzazione della filosofia aristotelica.

Concezione della poesia come strumento conoscitivo e pratico, creazione letteraria che permetta all’uomo
di comprendere la realtà e di agire su di essa. Il poeta deve porsi dal punto di vista del tutto e non del
singolo ente finito. Amara constatazione che ogni persona indossa una maschera, che molto raramente ne
rispecchia l’interiorità, e tale discrasia tra essere e apparire sarà sanata solo al sopraggiungere del Giudizio
universale: fino a quel momento regnerà l’ingiustizia.

GIOVAN BATTISTA MARINO (Napoli 1569 – 1625)

Marino interpreta a pieno il nuovo scenario: l’intero suo percorso poetico è il più significativo del primo
Seicento, grazie alla straordinaria capacità del poeta di rispondere all’esigenza di una nuova letteratura,
proiettata oltre gli approdi rappresentati da Tasso, realizzandola nelle sue opere maestose e diventando un
modello non aggirabile per i contemporanei. A Napoli frequenta gli ambienti di Matteo di Capua, ed entra
in contatto con Giovan Battista Manso, due dei signori più impegnati nella promozione di una nuova cultura
a Napoli; gli esordi poetici del Marino avvengono in questo contesto. Il primo testo con cui Marino diventa
celebre, sia a Napoli che fuori Napoli, è una Canzone dei baci nella prima stanza, nell’intreccio di
endecasillabi e settenari, il poeta costruisce una catena di metafore per rendere la dinamica inesausta dei
baci degli amanti, fino alla conclusione di taglio apertamente sessuale. Si tratta della novità di concetti e
linguaggi che caratterizzala prima stagione della poesia mariniana. A Roma si guadagna la protezione di
alcune delle famiglie più importanti, come quella dei Crescenzi e quella del cardinale Pietro Aldobrandini.

Rime (Venezia,1602) → Dedicate al Crescenzi e ottengono uno straordinario successo. Sono una serie di
testi segnati da un equilibrio tra la tessitura fonica e la rete di metafore. Le Rime chiudono definitivamente
con il modello del canzoniere unitario, sul modello petrarchesco, e vanno verso una divisione per capi, di
ordine tematico: Amorose, Marittime, Boscherecce, eroiche, lugubri, morali, sacre e varie. Si tratta di una
struttura duttile che consente un allargamento delle singole sezioni e un loro accostamento all’insegna
della novità dei concetti poetici e della continua sperimentazione.

Gerusalemme Distrutta, al margine delle Rime, Marino annuncia questo poema. Per un confronto con
Tasso, riguardo il genere dell’epica. La Distrutta, che doveva raccontare della distruzione di Gerusalemme
da parte dell’imperatore Tito, non vede la luce, segnale chiaro di un disinteresse da parte dell’autore.

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Compone cinque poemetti, tra i libri spiccano la presenza dell’Adone, qui ancora nella misura di un breve
poemetto e quella della Strage de gl’ Innocenti, divisa in due libri. Marino lascia Roma e si trasferisce a
Ravenna, si tratta di un ambiente culturale meno vivace, che il poeta cerca di alternare con viaggi a Genova,
Venezia, Bologna, entrando in contatto con letterari e artisti. Dopo la morte di Clemente VIII, la protezione
dell’Aldobrandini comincia a stargli stretta e si mette alla ricerca di una nuova sistemazione cortigiana. Da
parte dell’Inquisizione viene accusato di aver composto “poesie oscene ed empie”; viene recluso e vi è il
sequestro dei manoscritti. Tornato in libertà e in possesso dei suoi manoscritti, si dedica alla pubblicazione
di alcune opere.

Lira (1614) → È la terza parte delle sue rime, nella quale raccoglie le liriche composte negli anni dopo il
1602 e vi racchiude la propria esistenza lirica. La Lira presenta una nuova maniera mariniana: conserva una
struttura per capi (Amori per le liriche amorose, Lodi per i componimenti encomiastici, Lagrime per i testi in
memoria, Divozioni per i testi sacri e Capricci di materia varia), ma offre dei testi in cui la ricerca di
metafore e la pratica dei concetti in clausola diventano più marcate.

Dicerie sacre → rappresentano un’innovazione con la quale Marino scende nel campo della prosa sacra,
confrontandosi con i maggiori esponenti dell’epoca. Le Dicerie sacre uniscono insieme la materia sacra e la
tecnica inedita, che fa leva sul suo virtuosismo. Fondate sulla tessitura prolungata di una sola immagine, le
Dicerie sacre rappresentano il capolavoro del primo Barocco in Italia. Marino ne pubblica tre:

1) La Pittura, dedicata alla Sacra Sindone e fondata sulla metafora del Cristo pittore.

2) La Musica, una rielaborazione a partire dalle parole pronunciate da Cristo sulla Croce.

3) Il cielo, dedicato alla celebrazione della materia celeste come prodotto della Creazione.

Nelle Dicerie sceglie una costruzione verbale intorno ad un asse metaforico, e il poeta è sommerso dalla
loro proliferazione armonica. Le Dicerie Sacre sono accompagnate da un dossier di citazioni di testi sacri e
di Padri della Chiesa, con l’effetto di voler dimostrare la cultura sacra del loro autore. Inoltre, Marino
aggiunge una dedica, indirizzata al papa Paolo V Borghese. Queste non sono ben accolte dal papa e
arrivano direttamente al Sant’Ufficio. Marino da qui decide di fuggire dall’Italia e va in Francia. Alla corte di
Francia viene ben accolto dagli italiani presenti e sono gli anni in cui manda alla stampa altri due capolavori:
la Galeria e la Sampogna.

Galeria → È una raccolta di 624 testi poetici (soprattutto sonetti e madrigali), ciascuno dedicato a un’opera
d’arte. Divisa in due sezioni, Pitture e Sculture, documenta la passione mariniana per le arti figurative, e la
sua intensione di gareggiare con loro attraverso la parola poetica. Ogni testo, attiva una sorta di contesa
sull’oggetto rappresentato, che con la parola poetica piega in chiave sorprendente.

Sampogna → È una raccolta di dodici idilli composti in diverse stagioni e raccolti in un’antologia che
Marino cura personalmente. La materia è mitologica, con alcuni testi conclusivi di marca personale;
vengono riscritti episodi celebri del patrimonio classico. La Sampogna è giocata su uno sfoggio di
straordinaria tecnica poetica: negli idilli si alternano sequenze di endecasillabi e settenari con zone di versi
sdruccioli o con l’inserto di canzonette e frottole. Qui Marino mette in mostra un’abilità nel gioco dei ritmi.

Adone → È un poema che si fonda sull’amore che lega Venere a Adone, un giovane di stirpe regale. Una
favola mitologica in opposizione alla materia storica che doveva caratterizzare un poema epico. L’elemento
decisivo è rappresentato dall’ampiezza. 20 canti, oltre cinquemila ottave, oltre quarantamila versi. I blocchi
narrativi sono:

-canti I-III: fase iniziale del poema, con l’arrivo di Adone a Cipro, l’incontro e l’innamoramento con Venere;

-canti IV-VIII: i due amanti attraversano il giardino dei sensi, e consumano la loro unione sessuale.

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-canti IX-XI: dopo l’unione sessuale e il matrimonio, Venere e Adone visitano i cieli della Luna, di Mercurio,
di Venere, osservando dall’alto le meraviglie del mondo.

-canti XII-XVI: i due amanti vengono separati dall’arrivo di Marte; inizia una serie di avventure e magie per
Adone, infine si ricongiunge con Venere e viene eletto re di Cipro.

-canti XVII-XX: Venere si allontana da Cipro, Adone viene ucciso da un cinghiale durante una battuta di
caccia. Il poema si chiude con una celebrazione in onore del giovane, trasformato in anemone. È definito il
“poema della pace”, poiché si distacca dai paradigmi dell’epica, della materia di guerra e di sangue.

Adone è un “antieroe” dai tratti femminei, per larghi tratti ricettore passivo di quanto accade intorno a lui;
questo personaggio incarna la scelta di Marino di una narrazione sensuale, mirata ai piaceri della passione
amorosa. Sulla storia principale si innestano una serie di episodi che Marino aggiunge negli anni successivi,
passando dalla struttura in tre tempi a una narrazione che accoglie disgressioni e racconti secondari.
L’Adone segna la perdita di una narrazione compatta e logicamente coerente. Nell’opera è presente
l’unione di sacro e profano. Dopo otto anni, trascorsi in Francia, Marino torna in Italia nel 1623, convinto di
aver superato le difficoltà con il Sant’Ufficio, ma così non è, e nel giro di poche settimane deve incassare
una proibizione della ristampa italiana dell’Adone e affrontare la condanna pubblica da parte del
Sant’Ufficio. Decide di allontanarsi da Roma, tornando a Napoli, qui tenta di riportare in luce il poema sacro
la Strage de gl’Inocenti, ma non viene terminato e rimane inedito. Successivamente il poeta si ammala e
muore nel 1625. Nel 1627 l’Adone viene inserito nell’Indice dei libri proibiti.

LA POESIA BAROCCA TRA CLASSICISMO E SPERIMENTAZIONE.

La stagione della poesia barocca è stata giudicata un’epoca di decadenza, segnata da un eccesso di
sperimentazione che sfociava nel” cattivo gusto”.

GABRIELLO CHIABRERA: Nato a Savona nel 1522 e morto nel 1638, in piena stagione barocca, dopo essere
diventato uno degli autori di riferimento del pontificato di Urbano VIII Barberini. Chiabrera attraversa la
transizione che porta al primo Barocco italiano e ne offre un’interpretazione del tutto personale, diversa da
quella di Marino. Con Guerre de’ Goti, il poeta fa il suo esordio a stampa nel genere epico. Sul campo
dell’epica Chiabrera celebra sia la casata dei Medici, sia la casata di Savoia. Tuttavia, la sezione più
importante della sua scrittura è rappresentata dalla lirica, dove riprende i modelli della tradizione classica,
dimostrandosi capace di una sperimentazione nell’ambito dei metri e dei ritmi. Realizza una serie di canzoni
pindariche con il titolo di Canzonette. Nelle raccolte Maniere di versi toscani (21 componimenti), Scherzi (in
tre sezioni, rispettivamente di 14,12 e 44 componimenti) e Canzonette morali (16 testi). Maniere è una
raccolta di madrigali e canzonette, Chiabrera fa riferimento all’aspetto tecnico della sua ricerca, mentre gli
Scherzi sono tessuti su una ripresa della poesia francese del Rinascimento. In questi testi si consuma una
rastremazione dell’esperienza poetica, che lascia da parte il grande modello di Petrarca, e che approda a
una ricerca ritmica e fonica. Nella raccolta delle Canzonette morali arriva a rappresentare una riflessione di
gusto oraziano. Chiabrera quando vide sorgere la parabola poetica del Marino, se ne discostò, conservando
una posizione autonoma. Gli ultimi anni trascorrono in una posizione di rilievo e qui va ricordata la stesura
di una breve e interessante autobiografia. Se Chiabrera rappresenta un modello di un’altra generazione,
intorno a Marino si muove una serie di nuovi poeti, protagonisti della prima poesia barocca. Nel 1602
vengono pubblicate le Rime di Marino ma già nel 1601 escono le raccolte liriche di Tommaso Stigliani. Uno
dei paradigmi della nuova generazione è la spinta a praticare nuovi moduli e nuovi contenuti, con un
ricorso marcato all’utilizzo della metafora, impiegata come chiave per prolungare il discorso poetico.
Durante il periodo che stiamo trattando, tra Roma e Bologna si profila una linea culturale alternativa che
trova il suo centro intorno al cardinale Maffeo Barberini (Urbano VIII). Da quest’ultimo deriva il circolo
barberiniano, Maffeo è autore di odi latine e stringe rapporti con alcuni letterati locali. Egli intende tornare
a una classicità composta e sorvegliata. Grazie alla sua elezione a pontefice, con il nome di Urbano VIII, nel
1623, il circolo barberiniano diventa realtà e l’opposizione mariniana evidente, così come la proposta di una

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poesia che congiunga il modello di Petrarca sul piano dello stile con quelli di Orazio e Pindaro. A metà
secolo, scomparsi ormai i principali protagonisti, questa proposta perde un po’ della sua forza; tuttavia,
rimane il rilievo di un’esperienza che segna una cesura deliberata rispetto alle poetiche pienamente
barocche di inizio secolo, tornerà utile alla fine del 1600, quando nuovamente si mirerà al recupero di una
misura, cancellando gli esiti del Barocco. La lirica barocca si allontana dai canoni classici, infatti la poesia
diventa un gioco, dominata dall’ingegno e non dallo scavo interiore. Segue il rifiuto del modello
petrarchesco e l’introduzione del brutto e dell’osceno. Inoltre, si rompono le regole per andare incontro ai
gusti del pubblico. Essendo l’ingegno una facoltà creativa, l’acutezza sarà la facoltà per coglierlo.

Quadro italiano: nei primi anni del secolo si fronteggiano lo Stato Pontificio sostenuto dalla Spagna e
Venezia sostenuta dalla Francia. In Italia, la presenza dominatrice spagnola spinge, oltre che a un dissenso,
a una riflessione storica e politica, che ha in Machiavelli un modello ineludibile. I nomi che spiccano
all’interno di questo dibattito particolarmente aperto e vivace sono quelli di Sarpi e Boccalini.

GALILEO GALILEI (Pisa 1564 - Arceti 1642)

Figura fondamentale nella storia del pensiero scientifico è Galileo Galilei, responsabile di una svolta
epistemologica che segna la nascita dell’età moderna, un autore che caratterizza anche la storia letteraria
del suo tempo. Il padre lo indirizza verso lo studio della medicina, che poi abbandona. Agli studi di questi
anni, si datano i primi contatti con la scienza di impostazione aristotelica. Ottiene la cattedra di matematica
a Pisa. Le ricerche di fisica e matematica assumono il centro del suo percorso, ma Galileo conserva anche
un interesse profondo per le questioni letterarie. A Padova inizia una stagione ricca di indagini ed
esperimenti. Galileo è l’inventore del cannocchiale, lui dà inizio ad una serie di osservazioni che segnano un
momento decisivo nella storia della scienza. Si accorge di essere il primo uomo a portare avanti lo sguardo
sui corpi celesti. Galileo raccoglie le “osservazioni” in un libretto di poche decine di pagine: è il Sidereus
nuncius (Venezia,1610) →Adotta un latino semplice nel linguaggio e nella sintassi, tutto mirato a offrire la
successione delle osservazioni e delle relative argomentazioni. Il Sidereus nuncius ha un impatto sul piano
della diffusione delle conoscenze, attraverso la centralità anche simbolica dello strumento. Galilei decide di
lasciare Padova e di tornare in Toscana. Il passaggio presso i Medici garantisce a Galileo una maggiore
libertà negli studi, ma gli sottrae la protezione procurata dalla Repubblica di Venezia rispetto alle pressioni
che arrivano da Roma. Il confronto diretto tra scienza e fede, procura delle reazioni inevitabili da parte delle
gerarchie ecclesiastiche, infatti nel febbraio del 1616 viene promulgato il “salutifero editto”, con il quale si
sancisce la condanna della teoria di Copernico che prevede il movimento della Terra intorno al Sole, perché
contrastante con la dottrina proposta dalle Scritture. Inizia quindi la terza fase della vita di Galileo,
incentrata sui contrasti con la Chiesa. Nasce così il Saggiatore, una sorta di risposta al libro Libra del gesuita
Grassi, il quale sostiene che i pianeti girano intorno al Sole, ma Terra e Luna no. Galileo boccia questa teoria
di compromesso tra scienza e chiesa e scrive che è vera solo alla visione copernicana. Inoltre, il saggiatore è
una bilancia di precisione, più precisa della libra. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
Galileo intende fare spazio a molti dei materiali e degli appunti accumulatisi negli anni. Il passaggio dal
Discorso al Dialogo è un’innovazione strutturale decisiva, la chiave di volta. Il dialogo tra diversi
interlocutori consente una mobilità di toni e di voci, un continuo trapasso di argomenti, con la possibilità di
disgressioni e allontanamenti dall’esposizione principale. L’opera è già pronta nel 1630, ma Galileo invia il
Dialogo a Niccolò Riccardi, lettore al servizio dell’Inquisizione; a seguito di queste letture, Galileo deve
accettare diverse modifiche al testo, a partire da quella riguardante il titolo (Dialogo del flusso e riflusso del
mare). L’opera viene ribattezzata Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e presenta un confronto
tra i due sistemi di Tolomeo e di Copernico. L’opera viene dedicata al granduca di Toscana e l’edizione è
aperta da un’immagine che rappresenta i tre protagonisti, le figure cui Galileo affida lo sviluppo del dialogo.
I tre protagonisti sono:

1. Giovan Francesco Sagredo, nobile veneziano, colto, amico e allievo di Galilei.


2. Filippo Salviati, fiorentino, anch’egli allievo di Galilei.

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3. Simplicio, nome che nasconde un “filosofo peripatetico” che Galileo non vuole nominare
esplicitamente.

Si intravede la figura di un “Accademico linceo”, che rimane senza nome, ma al quale il personaggio di
Salviati, fa spesso riferimento come supporto per i suoi discorsi. I dialoghi, articolati in quattro giornate, si
svolgono a Venezia, nel palazzo Sagredo, e le dinamiche vedono le argomentazioni di Salviati opposte a
quelle di Simplicio, le prime a sostegno del sistema copernicano, le seconde a sostegno del sistema
tolemaico. Il confronto dei due sistemi era sviluppato lungo la materia delle quattro giornate, che può
essere così schematizzata:

a. La prima giornata è dedicata a un’esposizione dei presupposti teorici di eliocentrismo e


geocentrismo;
b. La seconda giornata è dedicata alla discussione del possibile moto diurno di rotazione della Terra
intorno al suo asse;
c. La terza giornata è dedicata alla discussione del possibile moto annuo di rivoluzione della Terra
attorno al suo asse;
d. La quarta e ultima giornata è dedicata alla descrizione del fenomeno fisico delle maree, fenomeno
che dovrebbe offrire la conferma al moto terrestre.

= Opera letteraria straordinaria sul piano scientifico e letterario.

La quarta fase della vita di Galileo inizia con il processo del 12 aprile 1633 e la conseguente sentenza del 22
giugno, che prevede l’abiura pubblica forzata di Galileo. Egli trascorre gli ultimi anni in una condizione di
emarginazione e solitudine, tenendo vivi i contatti con interlocutori italiani ed europei solo attraverso
lettere.

GIOVAN BATTISTA BASILE E LA NARRAZIONE DEL SEICENTO

Nel XVII secolo il romanzo è il nuovo genere narrativo in prosa che, in Italia e nel resto del panorama
europeo, offre la possibilità di esprimere la complessità del presente, andando incontro alle nuove esigenze
del pubblico. In Italia, la produzione del romanzo è nel periodo tra il 1625 e il 1675 e soprattutto in area
veneta e ligure. Molti aspetti contraddistinguono il genere romanzesco: l’ampia estensione narrativa, i temi
vari-filosofico, storico, politico, avventuroso, morale- che ereditano motivi caratteristici della letteratura
cavalleresca e pastorale, la contaminazione (tutta barocca) di generi, il destinatario, cioè un pubblico non
necessariamente costituito da letterati. La collocazione degli eventi narrati è variabile: si va dalla
dimensione esotica all’ambientazione contemporanea. Tra gli autori di romanzi, vanno ricordati Giovanni
Ambrosio Marini con il Calloandro fedele, coniuga in maniera equilibrata vicende cavalleresche e
sentimentali; l’opera rappresenta a pieno il romanzo secentesco, Girolamo Brusoni, con la trilogia di
romanzi La gondola a tre remi, Il carozzino alla moda e la Peota smarrita e Francesco Fulvio Frugoni a cui si
deve l’ideazione del romanzo che ha come oggetto la storia contemporanea; l’opera più celebre di
quest’autore è Il cane di Diogene in 7 volumi, si tratta di un romanzo che compendia in sé molteplici generi,
come uno specchio della società e della natura, il testo può essere considerato una lunga satira nei
confronti del mondo letterario e contro i costumi contemporanei. Lo sviluppo del romanzo è considerevole,
a discapito della novella che si presta a una notevole duttilità di forme. Lontano dal modello
decameroniano inteso come equilibrata dinamica tra singoli racconti e cornice, il genere novella soggetto a
continue metamorfosi, è in questa fase difficile da definire, è possibile individuare due aree principali
all’interno delle quali la novella fiorisce, ossia quella veneta e quella ligure; simile è anche il periodo entro il
quale i due generi narrativi si sviluppano. Esempio della novellistica prodotta in ambito veneziano sono le
Cento novelle amorose de i Signori Accademici Incogniti, queste costituiscono il frutto di un’attività
collettiva: si tratta di raccolte nate all’interno dell’accademia lagunare degli Incogniti. Della produzione
novellistica in area ligure degna di menzione è la raccolta Le instabilità dell’ingegno, di ispirazione
decameroniana. All’inizio del Seicento le espressioni letterarie in dialetto trovano forme più compiute in

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varie aree geografiche a opera di autori che provengono da differenti estrazioni sociali. Si rivendica il
primato dell’elemento dialettale contro il predominio della lingua toscana. Le produzioni secentesche in
dialetto conoscono esiti artistici elevati, incontrano una fortuna oltre i confini italiani, come nel caso di
Giovan Battista Basile. Giulio Cesare Croce si muove con agio tra scrittura in italiano e in dialetto. Croce può
essere considerato una figura di raccordo tra il cantastorie e il venditore di libri, compone centinaia di
operette, in versi e in prosa. Nei testi di carattere burlesco e all’insegna della dimensione carnevalesca,
l’autore parla delle classi più umili, della vita di città, dell’alimentazione. Vari sono i generi affrontati, come
il pronostico, il testamento. Le opere più celebri sono rappresentate dalle narrazioni in prosa, come Le
sottilissime astuzie di Bertoldo. Si possono anche ricordare scritti dialettali in versi. Già nel Cinquecento
nella cultura partenopea si possono registrare manifestazioni di letteratura dialettale, nate dall’incrocio con
la lingua e la letteratura spagnola, sviluppatesi soprattutto all’interno della dimensione teatrale e legate a
espressioni popolari di piazza (la canzone). Nel XVII secolo Napoli conosce una notevole fioritura → Giulio
Cesare Cortese è un autore che può essere considerato il primo esponente di una produzione poetica in
napoletano. Le principali opere in dialetto, in effetti Cortese lavora sul dialetto che considera una lingua
letteraria a tutti gli effetti. Tra le sue opere spicca la Vaiasseide, diviso in cinque canti, narra, in ottava rima,
della vita della plebe napoletana e in particolare di alcune serve che decidono di ribellarsi alla loro
condizione. Il poema Micco Passaro ‘innamorato in cui si narrano le vicende avventurose, con tratti
eroicomici, del protagonista; all’interno di questa produzione di spessore è il Viaggio di Parnaso, opera
costruita sulla scia di un modello puntuale, in cui Cortese, rivendica apertamente una poesia originale
basata sull’impiego del dialetto. Cortese è strettamente legato a Giovan Battista Basile.

GIOVAN BATTISTA BASILE (Napoli 1572 –

Dopo alcuni spostamenti all’interno della penisola e al di fuori di essa, giunge a Venezia, dove si arruola al
servizio della Serenissima. Dopo aver adempiuto i suoi doveri, ritorna in Campania e successivamente si
sposta a Napoli. Basile è scrittore che fa un uso disinvolto sia della lingua letteraria tradizionale sia del
dialetto. Soprattutto a Napoli, vengono alla luce opere in cui l’autore opta per la lingua toscana, secondo
esigenze accademiche e cortigiane: Il Pianto della Vergine, poemetto spirituale; Madrigali et Ode, versi di
natura encomiastica; Le avventurose disavventure, favola marittima; le Egloghe amorose e lugubri e la
Venere addolorata. A questa produzione si affianca l’attività di filologo e di linguista. A Basile si devono le
edizioni delle Rime di Pietro Bembo, di Giovanni Della Casa e di Galeazzo di Tarsia e le Osservazioni intorno
alle rime del Bembo e del Casa. La scelta del dialetto si manifesta nelle Muse napolitane, stampate con lo
pseudonimo Gian Alesio Abbattutis: l’opera composta di nove egloghe in forma dialogica, ciascuna delle
quali intitolata a una delle Muse, descrive la vita della città di Napoli. L’opera più celebre di Basile e tra le
più significative del Seicento, è Lo cunto de li cunti (“La fiaba delle fiabe”). Si tratta di una raccolta di 50
fiabe, divise in 5 giorni e raccontate da 10 vecchie. Sebbene il modello decameroniano appaia evidente, la
scelta narrativa intrapresa da Basile presenta differenze notevoli. Basile raccoglie il materiale fiabesco di
origine popolare in un corpus, strutturandolo in una elaborata forma letteraria e rendendolo fruibile grazie
alla libertà espressiva del dialetto. La lingua impiegata si presenta densa di richiami alla tradizione popolare,
con proverbi ed espressioni idiomatiche. Collocate tra la Campania e la Basilicata, le fiabe dello Cunto,
scritte a scopo d’intrattenimento, sono immerse in un’atmosfera meravigliosa e al di fuori del tempo. Una
delle fiabe più celebri è La Gatta Cennerentola, si racconta di Zezolla, figlia di un principe vedovo, dopo una
serie di vicende, questa riesce a convincere il padre a sposare Carmosina, la maestra di cucito. In occasione
dei festeggiamenti delle nozze, Zezolla vede una farfalla che la invita a chiedere alla farfalla delle fate della
Sardegna qualsiasi cosa ella desideri. Nel frattempo, la matrigna finisce per trascurare Zezolla a favore delle
sue sei figlie, al punto che la giovane viene relegata in cucina e chiamata Gatta Cennerentola. In occasione
di un viaggio in Sardegna che il principe avrebbe dovuto compiere, Zezolla chiede al padre di farsi inviare
qualcosa attraverso la farfalla delle fate. Da questa il principe riceve in dono un dattero, una zappa, un
secchiello d’oro e un asciugamano di seta: il primo avrebbe dovuto essere piantato, il resto dei doni
sarebbe stato necessario alla cura della pianta. Si tratta della prima redazione scritta della celebre fiaba di

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Cenerentola, in cui, una povera giovane, contrastata dagli eventi, riesce a guadagnarsi l’amore di un
principe, grazie all’intervento magico della fata.

++ EPOCA 7

L’ARCADIA, L’ILLUMINISMO E LA STAGIONE DELLE RIFORME

INTRODUZIONE

In Italia si creano le condizioni per la fondazione di un soggetto che, raccogliendo i frutti delle iniziative di
fine Seicento, tendesse a rimettere il buon gusto, e la maniera nel comporre, questa è l’accademia
dell’Arcadia, istituita a Roma nel 1690 → Reazione al modello di Marino insieme alla necessità di difendere
i classici dei secoli d’oro, il Trecento e il Cinquecento: la risposta al Barocco si aggancia a una rivendicazione
della Bellezza della volgar poesia. Il periodo di maggior successo e autorevolezza dell’Arcadia coincide con
la guida di Crescimbeni (fino al 1728), grazie alla cui opera organizzativa l’accademia diviene il centro di una
rete internazionale (confronti e collaborazioni) che mette a sistema varie iniziative riformatrici e promuove
la riflessione sulla specificità della tradizione letteraria italiana. Il ripristino del buon gusto infatti implica
una rilettura critica del passato. Linee della riforma non omogenee:

• Linea di Crescimbeni → Proposta di una raffinata pratica letteraria come codice condiviso, base per
un radicamento sociale di una classe di intellettuali in rapporto con le gerarchie politiche e religiose
• Linea di Gravina → Proposta di una poesia come veicolo di un messaggio sapienziale, reso
accessibile grazie alla veste universale del mito.

Le poesie dei primi Arcadi mostrano attenzione all’aspetto formale, tramite selezione di un linguaggio
misurato e la costruzione di immagini raffinate. Si verifica una significativa transizione: nei primi decenni del
Settecento si definisce una poesia guida da un ideale di misura con ritorno al modello di Petrarca. In questo
quadro matura l’esperienza del melodramma, che diviene la sede per un’analisi e uno studio degli affetti e
per la proposta di modelli etici positivi. Un altro aspetto caratterizzante della cultura settecentesca è
l’intreccio tra una ricerca accurata volta al passato e le istanze di riforma che animano il presente. Alla base
vi è la fiducia in una prospettiva razionale, nella possibilità di conoscere e intervenire sui processi storici,
attivando percorsi di riforma e di miglioramento della condizione degli uomini. Nell’ambito del teatro
l’esperienza di Goldoni ha valore decisivo per la serie di dibattiti e discussioni che le sue opere suscitano nei
contemporanei e che avviano una riflessione sullo statuto del teatro e sulla sua funzione. Il binomio di
mondo e teatro su cui Goldoni impernia la sua riforma dice dell’indissolubile legame che l’autore stringe
con le diverse fasce sociali che compongono il pubblico dei suoi spettacoli. Si avverte il limiti di una riforma
che deve venire a patti con le convenzioni del teatro del tempo, stando entro i vincoli rappresentati dalle
condizioni economiche delle compagnie e dai calendari dei teatri. Milano intanto diviene centro, aprendosi
al dibattito internazionale e vedendo nascere una serie di Accademia.

ARCADIA

Alla fine del Seicento si afferma l’idea di una generale diversità della modernità rispetto ai secoli
precedenti. Viene istituita a Roma nel 1690 l’Accademia dell’Arcadia. Nel 1711 vi è uno scisma
nell’accademia, dovuto alle idee filosofico-civili di Gravina, in contrasto con quelle retorico-sociali. Il nome
evoca insieme un luogo reale e mitico e un ideale estetico-morale, semplicità e naturalezza da contrapporre
alle esagerazioni e agli artifici barocchi. Crescimbeni apre l’ingresso non solo ai letterati ma anche a nobili,
donne e stranieri. E indirizza la produzione poetica verso forme poetiche semplici e contenuti facili,
allineando la produzione degli Arcadi agli interessi della società e dei salotti contemporanei. = Arcadia
diventa una fondamentale infrastruttura culturale. Gravina accusa la vacuità della produzione arcadica e
propone un classicismo più severo. Fra Crescimbeni e Gravina vi sono dissensi di fondo circa gli indirizzi
poetici e la gestione dell’Accademia, alimentati da diversi indirizzi religiosi e politici. Alla diffusione dei

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principi arcadici contribuisce anche la deduzione delle colonie in altre città, cioè la fondazione di succursali
nuove. L’Arcadia diviene una fondamentale infrastruttura culturale, mettendo in comunicazione i letterati
d’Italia e d’Europa, sollecitando la formazione di un gusto unitario e unificando gli sforzi di riforma
letteraria. Le caratteristiche principali sono: l’opposizione alla stravaganza barocca; la funzione
moralizzatrice, in quanto per loro i sentimenti devono essere controllati dalla ragione e utilizzano il tema
pastorale e bucolico, come evasione dalla realtà. Inoltre, condannano il teatro come subordinazione della
poesia alla musica e alla scenografia, per l’assurdità della convenzione scenica che impone ai personaggi di
cantare anche in circostanze del tutto inopportune. Zeno rimodula la struttura dei drammi per musica, sacri
e profani, secondo norme classiche e gusto arcadico: semplicità, organicità, funzione educatrice della
poesia.

CRESCIMBENI: Arcadia è per lui il punto di arrivo dal quale rileggere tutta la storia della poesia italiana:
ripercorrere il passato vale quindi a celebrare il presente e a dargli autorità. Ciò che per Crescimbeni il
secolo ricerca è lo stupore non dello strano ma della perfezione formale, dell’originalità nell’imitazione,
dell’esattezza del gusto. Di qui anche l’invito rivolto ai poeti alla regolarità e chiarezza comunicativa, al
decoro, necessari affinché la poesia diventi elemento di socialità.

GRAVINA: il buon gusto graviniano dipende da una concezione non retorico-sociale a filosofico-civile della
poesia. Essa è un medium per comunicare verità sapienziali e contribuisce ad attuare una riforma etico-
morale fondata sulla fiducia nella capacità della ragione umana di liberarsi da dogmi e pregiudizi per
giungere alla verità. La rappresentazione poetica ha una funzione educatrice.

PIETRO METASTASIO (1698 – 1782)

Si dedica al teatro per musica riformandolo: opta per un dramma che pone al centro l’uomo e la parola. È
tragediografo e i suoi drammi sono rappresentabili anche senza musica, centro del dramma è la vita
interiore dell’uomo. La tragedia punta così a una drammaturgia della felicità, sia per il diletto che procura
che per l’utile che propone mettendo in scena modelli positivi. Primazia della parola e necessità di coerenza
drammatica rispetto alla musica. La Didone abbandonata dramma costruito sulla impulsiva figura di
Didone. Si fa poeta delle emozioni e degli stati d’animo, autore di drammi in cui conta il percorso di
formazione morale che attraverso il variare costante d’opposti affetti porta al loro contemperamento e alla
ragionevole quiete interiore. Scrive per un pubblico colto e internazionale: si concentra su una
semplificazione dei drammi, poco concedendo alla spettacolarità scenica ma curando attentamente la
funzione drammatica della gestualità dei personaggi e l’approfondimento della loro psicologia, e d’altra
parte enfatizzando la riflessione sulla regalità in funzione educativa. Massima semplicità ed essenzialità. Per
Metastasio è quindi nella funzione pubblica e sociale dell’opera che risiedono anche la necessità della
conclusione felice dei melodrammi, che suggella il governo delle passioni e l’utilità loro e dell’opera del
poeta.

CRITICI E STORIOGRAFI DEL SETTECENTO

Muratori → Il buon gusto diventa anche capacità di indirizzare la cultura per promuovere e migliorare la
condizione degli uomini facendosi comprendere da essi con uno stile chiaro che riesca ad arrivare anche ai
lettori meno esperti. Conversione allo studio del medioevo, età in cui riconosce l’origine delle istituzioni, dei
costumi, delle case regnanti dell’Europa contemporanea. Gigantesca opera collettiva, scelta di fonti
storiche poi antologizzate sulla vita medievale dal punto di vista economico, civile, religioso e istituzionale.

Vico → è vero solo ciò di cui si è la causa, ciò che si è prodotto. Solo Dio creatore ha perciò piena
conoscenza della realtà naturale di cui l’uomo conosce invece solo la superficie, essendo le matematiche e
le altre scienze astratte un prodotto umano e convenzionale. La scienza nuova è la storia: scienza perché
conosce le leggi eterne del comune divenire storico di tutti i popoli ed è nuova appunto perché per la prima
volta è presentata come scienza. Risalire alle verità originarie dell’uomo implica indagare le antiche usanze

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e forme di espressione, linguistica, poetica in particolare. La scienza nuova è storia dell’umanità e insieme
teologia poiché è nei fatti umani che Dio opera, conducendo, indipendentemente dalle intenzioni umane, il
corso storico.

Conti → proposta di una poesia classicista e filosofica corrisponde all’apprezzamento per l’apertura
tematica della poesia dantesca da contemperare cono le forme purissime di quella petrarchesca. L’efficacia
della poesia passa per la forza della rappresentazione, l’evidenza o particolareggiamento, che colpiscono la
sensibilità e la fantasia del lettore.

Rispetto alla prima metà del secolo la critica letteraria del secondo Settecento tende a distinguersi per la
scelta di modalità espressive più brillanti e meno strutturate: al trattato succedono saggi, articoli e lettere.
L’estetica del secondo Settecento si apre sempre più all’individualità dell’autore e del lettore, alle loro
passioni: anche al critico è richiesta, per intendere e giudicare la letteratura, non più solo conoscenza della
tradizione e orecchio, erudizione e competenza tecnica, ma sensibilità.

LA STAGIONE DELL’ILLUMINISMO TRA IL VENETO E NAPOLI

Lo straordinario movimento dell’Illuminismo ha come epicentro Milano e viene applicato a vari ambiti: la
politica, la religione, la filosofia, l’economia, oltre che le lettere.

Napoli: l’illuminismo si distingue per la direzione riformistica, in particolare nell’economia, commercio e


diritto. Il manifesto è il trattato Della Moneta di Galiani, che difende l’invenzione della moneta,
soffermandosi sulla sua utilità e comodità. Giannone individua nel periodo medievale il momento in cui ha
avuto origine la disastrosa situazione giurisdizionale dei suoi tempi; l’obiettivo consiste nell’offrire una
indagine interpretativa delle vicende del Regno di Napoli, con un’attenzione dettagliata ai cambiamenti che
hanno investito le istituzioni civili. Mira a difendere l’indipendenza del governo civile del Regno, mettendo
in discussione il potere temporale della Chiesa e la sua origine divina e criticandone l’ingerenza e i soprusi e
attaccando i privilegi ecclesiastici con argomenti di natura giuridica e filosofica.

Veneto: Tendenza verso un atteggiamento conservatore contrario a idee illuministiche, posizione


dell’Accademia dei Granelleschi dei fratelli Gozzi. Polemiche contro le mode diffuse e la cultura polverosa
esemplificata dall’erudizione settecentesca e la letteratura priva di vivacità.

CARLO GOLDONI (Venezia 1707 – Parigi 1793)

Il percorso di Goldoni nella letteratura italiana del Settecento è segnato in primo luogo dalla proposta di
una riforma, da un’azione di rinnovamento all’interno del teatro comico maturata nel corso di una stagione
decisiva., tra mutamenti sociali e il progressivo diffondersi della riflessione illuministica. Di questa riforma
Goldoni è l’interprete più significativo ma anche il principale apologeta. È proprio Goldoni ad accreditarsi
come protagonista di un rinnovamento, di un passaggio di modernizzazione delle pratiche teatrali; si
fronteggiano, da un lato le convenzioni e gli stereotipi della commedia d’arte, dall’altro un nuovo teatro
fondato sulla cura dei personaggi e dei testi. Gli studi più recenti hanno sottolineato come in Goldoni la
ricerca di riforma conviva con una ripresa rispettosa delle convenzioni teatrali o con la pratica del teatro
musicale. Il passaggio tra vecchio e nuovo avviene con lentezza e gradualità, con un’area di convivenza tra
pratiche teatrali assai differenti. Venezia rappresenta lo scenario prevalente, il mondo da osservare e
proiettare sull’orizzonte ambiguo e spesso carnevalesco del teatro. Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707.
Il padre era medico e spesso si spostava, a Perugia studia dai gesuiti, poi si reca a Rimini per affrontare gli
studi superiori, ma fugge con una compagnia di comici. A Pavia riprende gli studi e si laurea in legge,
avviando la sua carriera da avvocato. Nel 1734, a Verona, conosce il capocomico Imer, che lo incarica di
scrivere testi per il teatro veneziano di San Samuele. Inizia così a sperimentare la sua riforma teatrale,
attraverso un rapporto serrato con il pubblico veneziano, da una parte, e insieme con le compagnie degli
attori dall’altra. L’alternanza nella produzione goldoniana tra testi più tradizionali e altri più innovativi si

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può spiegare con il rapporto quotidiano con le compagnie teatrali, con il gusto del pubblico, con le richieste
degli impresari e con la concorrenza agguerrita di altri scrittori attivi nella scena teatrale veneziana. Fugge
da Venezia a causa dei debiti e si reca a Pisa, dove continuò a lavorare come avvocato ed entra nell’Arcadia.
Medebach lo convinse ad accettare un contratto di cinque anni, redigere 8 commedie l’anno con un
ricompenso fisso, presso la sua compagnia dal 1748 al 1753. Diventa così scrittore di teatro di professione.

Teatro comico → riflessione e rappresentazione della sua riforma. La commedia di impostazione


metateatrale mette in scena una compagnia di attori che provano una commedia dello stesso Goldoni e che
in questo modo, discutendo del testo, mettono in luce le novità dell’esperienza goldoniana. Riforma si
fonda sullo studio delle tradizioni, del “Mondo” come palestra per l’analisi e la comprensione delle passioni
dell’uomo nella dinamica continua tra vizi e virtù e nell’inesauribile varietà delle esperienze umane e del
“Teatro” per acquisire i colori utili a destare meraviglia a conferma della curvatura morale che Goldoni
imprime alla sua istanza di riforma. → Mondo e Teatro diventano i due poli che orientano la scrittura, in
una combinazione di analisi di costumi e realtà e di abile resa scenica.

Nel 1753 passa al teatro di San Luca e sperimenta tematiche esotiche e avventurose. Nel 1762 si reca a
Parigi, ma la sua riforma non viene apprezzata dal pubblico.

La prima fase (1738-1753) coincide con il lavoro per la Commedia di Medebach, conserva aspetti della
commedia dell’arte (come le maschere). Le sue commedie appaiono policentriche, cioè tutti i personaggi
sono importanti. Le opere di questo periodo sono: Mammolo cortesan e La bancarotta, commedie che
criticano la nobiltà.

La bottega del caffè → una straordinaria commedia corale impostata su un luogo dove diverse persone
sono condotte da diversi interessi. Alla bottega del caffè si affiancano sulla strada e sulla scena una bisca,
luogo di passioni negative e la sala di un barbiere, luogo di commento e decantazione delle diverse vicende
dei personaggi. Gli amori e le infedeltà di Leandro, tra la moglie e l’amante, vengono proiettati in una scena
di chiacchiere e di commenti, nella quale si contrappongono lo sguardo bonario del barbiere Ridolfo, e la
prospettiva malevola di Don Marzio, caratterizzato da una miopia che ne condiziona le azioni e le battute.
Don Marzio è l’eroe di una maldicenza che viene alla fine confitta, ma nella quale Goldoni lascia intravedere
margini di ragione, come a lasciare nel pubblico il velo di un sospetto sull’esito positivo della commedia. È
in queste punte di ambiguità che il teatro goldoniano risulta di straordinaria efficacia.

La seconda fase (1753-1758) è il periodo al teatro di San Luca. Ha delle difficoltà, come la sala più vasta, un
impresario non facile da trattare e un pubblico volubile che preferisce passaggi di evasione. Risalgono a
questa fase le opere: Trilogia persiana, Commedie di esaltazione della figura del mercante, Commedie di
ambiente popolare. Un sottofondo sociale caratterizza anche la commedia più famosa di Goldoni, La
locandiera.

La locandiera → scritta nel 1752 e messa in scena al teatro di Sant’Angelo. Ad animare e governare la scena
è la figura di Mirandolina che, nell’ambiente di una locanda, orchestra una schiera di corteggiatori: con la
sua vitalità e con un dosaggio di fascino e vezzi, Mirandolina non solo attrae il conte di Albafiorita e il
marchese di Forlipopoli, ma riesce nel fare innamorare un cavaliere misogino, da sempre ostinato nell’odio
contro le donne. Compiuto il suo proposito, e di fronte alla possibilità di nozze che sanciscano un’ascesa
sociale, la donna alla fine decide di sposare Fabrizio, il giovane cameriere della locanda. Le nozze
sanciscono un rientro del carattere di Mirandolina nell’alveo della convenienza e del decoro. Goldoni
intreccia uno dei suoi più straordinari ritratti femminili e uno sfaccettato quadro sociale, nella descrizione di
una borghesia operosa e di una nobiltà quiescente, ma anche nella proposta di una convivenza di
Mirandolina con Fabrizio nella locanda, un’infrazione che solo le nozze verranno a sanare. In questa
ambiguità d significati e in questa intersezione di piani la scrittura di Goldoni mostra di aver raggiunto una
piena maturità.

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Dal 1759 al 1762 Goldoni torna a considerare la borghesia veneziana, ma il mercante ha perso lo slancio
energetico; quindi, evita i rischi e si chiude nell’investimento terriero. Le virtù borghesi si trasformano in
vizi. Con questa fase si scontrano i giovani e le donne, che rivendicano una vita più libera. A questa fase,
risale la Trilogia della villeggiatura: Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno
dalla villeggiatura. Si tratta di tre commedie da intendere come tessere di un quadro complesso sulla
“mania” della villeggiatura, sintomo di un bisogno di sfoggio con cui la borghesia perde la sua natura tutta
concreta piuttosto che le vane abitudini della classe nobiliare. Tonalità amara, densa di malinconia, rifugge
dall’esito pienamente negativo della rottura dei legami matrimoniali o del fallimento.

Goldoni approda a Parigi nel 1762 e si ritrova calato in contesto diverso rispetto al mondo veneziano. Gli
Italiens della Comèdie propongono al pubblico parigino un programma articolato tra testi musicali e testi
ancora legati alla tradizione della commedia dell’arte. Gli studi di questi anni hanno sottolineato il
ridimensionarsi delle attese di Goldoni: da un lato la proposta di scenari per il pubblico francese, mirato al
divertimento, dall’altro l’invio di commedie a Venezia, per rispettare gli obblighi di contratto. Una partita
doppia, così per esempio dall’Èventail, canovaccio francese, prende vita la commedia Il ventaglio, pensata
per il pubblico veneziano. Della stagione francese è Le Bourru bienfaisant. Ha più di 75 anni quando avvia la
composizione dei Mèmoires, un’autobiografia scritta in francese, che articola la vita di Goldoni in tre fasi:

• Infanzia, formazione e giovinezza → romanzo di formazione


• Gli anni della scrittura teatrale a Venezia → manifesto di poetica a difesa della propria riforma
• Gli anni francesi → romanzo di viaggi e saggio sui costumi francesi

Le ultime due parti sono del resto soprattutto mirate alla costruzione di un mito e il romanzo di una vita
offre il supporto a un progetto culturale e ideologico che Goldoni vuole così suggellare, sia pure dalla
prospettiva di Parigi, ormai lontano dal mondo italiano. 0Goldoni morì nel 1793.

Differenza tra la Commedia dell’arte e la Riforma di Goldoni

Commedia dell’arte:

• Canovaccio, cioè presenza di una situazione tipo, ma assenza di copione.


• Si utilizzano le maschere, per evitare la rappresentazione del personaggio, che è stereotipo.
• Vi è l’ironia.
• La lingua è forzata, si utilizzano dialetti diversi per costruire il gioco dell’incomprensione.

Commedia di Goldoni:

• Viene eliminato il canovaccio. Commedia incentrata sul realismo, tratta di storie di vita quotidiana e
l’uomo è inserito nel contesto sociale, ovvero crisi della nobiltà.
• I personaggi sono unici, ognuno ha il suo carattere. Ad esempio, la gelosia nei nobili è nascosta, nel
popolo è mostrata.
• La comicità non viene usata solo per stupire, ma anche per istruire. -la lingua si basa su un unico
dialetto o sull’italiano.

MILANO-EUROPA. L’ILLUMINISMO LOMBARDO

Tra il 1761 e il 1762 a Milano un gruppo di sodali si raccoglie liberamente nell’Accademia dei Pugni: uno
spazio di sociabilità dove si traducono le idee di rinnovamento culturale, politico ed economico della
società civile elaborate dagli illuministi francesi Voltaire, Rousseau, Diderot. Di questa ne fanno parte Pietro
e Alessandro Verri, Cesare Beccaria. Il “Caffè”, periodico di lingua, letteratura, costume, economia e
politica, esce ogni dieci giorni tra il giugno del 1763 e il novembre del 1766 e nasce come costola di
quest’Accademia. La rivista si riallaccia alla tradizione giornalistica europea ironica e accattivante che ha
come capofila il britannico “The Spectator” di Addison, ponendosi allo stesso tempo in contrasto con la

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pubblicistica nostrana della “Frusta letteraria” di Giuseppe Baretti, con cui ingaggia una polemica a
distanza. La cornice di un caffè ideale in cui discutere i temi all’ordine del giorno costituisce un dispositivo
formale di collegamento tra i testi. Altro collante tra i vari contributi è il presupposto di fondo che lo
svecchiamento civile della società passi attraverso il superamento del sistema feudale di ancien règime. Il
maggior contributore della rivista è Alessandro Verri, il quale firma una serie di articoli che hanno come
bersaglio la pedanteria linguistica, frutto dell’esigenza di adottare una funzionalità comunicativa che
s’aprisse a tutta Italia.. Contrassegnato dal pluralismo su punti di vista diversi il “Caffè” rappresenta un
vasto progetto editoriale e civile di cose tutte dirette alla pubblica utilità.

Pietro e Alessandro sono tra le personalità più rappresentative della Milano dei Lumi. Pietro, dopo
l’esperienza dei Pugni e del “Caffè”, pubblica saggi di economia politica di taglio liberale, diviene
funzionario asburgico. Alessandro, dopo aver composto durante gli anni del “Caffè” un Saggio sulla storia
d’Italia intraprende un viaggio a Parigi, poi a Londra, per trasferirsi a Roma, dove abita fino alla morte,
dedicandosi a esperimenti letterari in varie direzioni: traduzioni, drammi e romanzi. Con il viaggio di
Alessandro ha inizio il carteggio con il fratello Pietro, più di 3800 lettere scritte tra il 1766 e il 1797: un
tavolo di condivisioni e di revisione dei propri progetti creativi, ma anche di contrapposizione dialettica su
temi politici. Sulla carta si fronteggiano due visioni politiche opposte, uno della Roma senza tempo delle
antichità e del Papato, l’altro della Milano del presente asburgico, tentando di riformare da dentro
l’organismo politico e amministrativo. Quest’ultima matrice illuministica e quasi filopopolare dà vita alle
Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri: nell’opera si dimostra ricorrendo anche all’auctoritas dei testi
giuridici, come il barbiere accusato come untore durante l’epidemia del 1630, fosse viziato dalle confessini
estorte tramite tortura.

CESARE BECCARIA

Dopo la formazione presso il collegio dei Gesuiti di Parma, vi è la “conversione filosofica” provocata
dall’incontro con Montesquieu delle Lettres persanes, libro in cui la società occidentale, in particolare
francese e il suo assetto politico-economico vengono descritti e criticati attraverso il punto di vista
dell’”altro”, cioè quello di due persiani in visita a Parigi.

Dei delitti e delle pene → 1764. L’opera più influente prodotta in seno al circolo dei Lumi milanesi, un
saggio di politica legislativa e penitenziaria che ha un impatto decisivo e immediato sul pensiero filosofico
europeo in generale, sul diritto penale moderno in particolare. A questo scritto Cesare Beccaria affida il
risultato delle proprie riflessioni in materia penale a partire dall’originale assimilazione dei testi capitali del
pensiero filosofico, politico e giuridico moderno. Il pamphlet viene avviato nel marzo del 1763, avvalendosi
della revisione di Pietro Verri e dello sguardo che all’interno del carcere può gettare Alessandro Verri. Sarà
concluso nel 1764 e pubblicato anonimo a Livorno presso l’editore Coltellini in modo da dare ai principi
esposti nel libello una valenza universale. Beccaria allestisce una prima redazione intitolata Delle pene e dei
delitti, Verri copierà una seconda stesura introducendo innovazioni sia formali sia contenutistiche,
accettate dall’autore in sede di pubblicazione; Morellet (il suo traduttore francese) sottopone il testo
francese a un’operazione di montaggio e rimontaggio, Beccaria loda queste modifiche. Il libro si presenta
diviso in 47 capitoli preceduti da un’allocuzione “A chi legge” e da un’Introduzione. Partendo dalla nozione
di contratto sociale di Rousseau (per cui gli individui abbandonanoo lo stato di natura er dar vita a uno
Stato), Beccaria sostiene che gli uomini sono giunti a sottoscrivere il patto volto all’interesse comune mossi
da passioni egoistiche: la volontà di evitare il dolore conseguente ai conflitti li ha condotti al consenso civile
di limitare l’illimitata libertà originaria. Le leggi sono tese a suscitare il timore di compiere azioni lesive nei
confronti del corpo sociale e secondo il criterio dell’utile comune. Dal principio dell’utile discende anche la
norma della proporzionalità delle pene che si fonda sul criterio del danno pubblico (ai delitti più gravi
corrispondono pene più gravi). Le leggi, inoltre, devono essere dichiarate pubblicamente e applicate senza
eccezioni. Da questa osservanza del principio di legalità discende quello del garantismo penale, di rispetto
dei diritti individuali, primo argomento evocato contro la pratica della tortura. Gli altri due argomenti a

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sostegno della tesi sono l’assurdità della tortura come “purgazione dell’infamia” (disonore) e
l’inconsistenza della condanna di un torturato sulla base delle contraddizioni verbali in cui può cadere. Uno
dei passaggi più significativi del saggio è la discussione sulla legittimità di comminare la pena capitale,
nessun uomo pur avendo acconsentito all’assorbimento della propria volontà particolare all’interno della
volontà generale, acconsentirebbe però a lasciare ad altri l’arbitrio di ucciderlo. La pena capitale non è un
diritto, è inutile e dannosa, e va sostituita con la privazione perpetua della libertà, benché possa essere
applicata quando gi istituti della convivenza civile versino in uno stato di degenerazione e quando ci sia il
pericolo concreto che il singolo possa sovvertirli. Come prevenire i delitti? Attraverso leggi chiare e semplici
che, uguali per tutti, favoriscano gli uomini e non classi sociali particolari, incutendo allo stesso tempo un
giusto timore. Il pamphlet si chiude con una riflessione sullo stadio di sviluppo di un corpo sociale nella sua
relazione con l’intensità della pena.

Nel 1768 Beccaria ottiene la cattedra di economia e commercio presso le Scuole Palatine di Milano, detta le
sue lezioni, edite postume con il titolo di Elementi di economia pubblica all’interno della collezione
“Scrittori classici italiani di economia politica”: si discute della ricchezza delle nazioni a partire da una
prospettiva fisiocratica, ossia assumendo che motore e base del sistema economico sia l’agricoltura e che
quindi il surplus generato dalla modificazione dei beni debba essere reinvestito nella produzione degli
stessi. Nelle Ricerche intorno alla natura dello stile Beccaria riflette sul conseguimento e aumento del
piacere connesso all’immaginazione, privato e gratuito. Sempre negli stessi anni si dedica a un progetto
(incompiuto) di storia filosofica dell’incivilimento, dal titolo provvisorio di Il ripulimento delle nazioni.

GIUSEPPE PARINI (Bosisio 1729 – Milano 1799)

Giuseppe Parini nasce a Bosisio nel 1729. Dalla provincia brianzola, giunge a Milano dove studia. L’anno in
cui si diploma, dà alle stampe un volumetto fitto di versi: Alcune poesie di Ripano Eupilino; l’occultamento
del luogo di stampa e l’uso dello pseudonimo (“Ripano” è anagramma di “Parino” e “Eupilino” indica la
provenienza dell’autore) rivelano la preoccupazione per l’eco di quei versi. L’auto antologia è divisa in due
parti: la prima di sonetti seri, cioè amorosi, magico-pastorali, di traduzione dai classici e sacri, la seconda di
Poesie piacevoli, cioè sonetti caudati burleschi o satirici, seguono tre capitoli, un’epistola e tre ecloghe
piscatorie. Parini ricorre spesso ad un linguaggio scurrile o basso e insieme alla polemica letteraria,
rappresenta ambienti di un’umanità degradata e critica gli usi sociali. È il primo esempio di un’aggressiva
satira di costume che coinvolge anche l’impiego della poesia e l’esser poeta. Nel 1754 diventa sacerdote e
precettore di Serbelloni. Entra a far parte dell’Accademia dei Trasformati, che ha idee di illuminismo
moderato. La prima ode, La vita rustica, il tema tipicamente arcadico, è usato per affermare la superiorità
morale del produttivo e pacifico ideale fisiocratico, contrapposto al mercantilismo e per presentare una
nuova figura di poeta libero dai ricatti del potere e del denaro e ad annunciare una nuova poesia. Parini
loda l’intelligenza del contadino capace di migliorare le tecniche agricole e di rendere più produttivi i campi:
l’innovativa scelta del tema si fonda sulla volontà di rifiutare l’adulazione dei potenti e di rendere perenni la
virtù e il merito di chi si è reso utile a tutti. Nel 1762 Parini abbandona il servizio dei Serbelloni e diviene il
precettore di Carlo Imbonati, evento che segna anche la chiusura dell’Accademia dei Trasformati. Egli si
dedica ai versi che con le odi, comporranno la sua opera maggiore.

Il Mattino ha per tema le (in)attività d’un giovane aristocratico ed offre un giudizio globale sulla nobiltà
lombarda. Parini introduce una nuova modalità di intervento e di critica sociale: copre i panni del poeta
satirico con quelli del maestro d’eleganza e di divertimento. Abbandona i toni dell’indignazione e della
rivendicazione e costruisce il proprio discorso sull’ironia, sull’uso costante dell’antifrasi e sulla continua
celebrazione ed elevazione stilistica di vite e oggetti preziosi ma fatui, che rimandano a una realtà sociale di
oppressione e ingiustizia. Il Mattino si apre con l’ironica dedica Alla Moda che governa, da essa dipendono
la scelta degli endecasillabi sciolti. Poesia da toilette, Il Mattino ha alle spalle, per il metro, poemi
cinquecenteschi e settecenteschi; lo stile elegantissimo fa riferimento ai classici (Orazio, Virgilio). L’attacco
del Mattino rivela il suo fascino letterario e la sua sostanza satirica. Molti dei materiali ideologici

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provengono dal Dialogo sopra la nobiltà. Al fondo della critica pariniana sta il tema del distacco della
società aristocratica della natura; per questo è emblematico l’inizio della mattinata del Giovin Signore che
reduce dalla nottata di festeggiamenti, si corica al canto del gallo che richiama invece all’opera contadini ed
artigiani, presentati come modelli di vita laboriosa e accordata a un ordine superiore ed elementare. La
mattinata del nobile sarà tutta occupata dalla preparazione di sé per l’uscita in carrozza. Scopo dei
preparativi è la comparsa nel mondo e l’accompagnamento della dama cui il Giovin Signore è cavalier
servente. La riflessione sull’amore è il punto fondamentale del poemetto. A fronte della vita familiare degli
umili, il cicisbeismo rappresenta il segno della corruttela nobiliare. Alla divisione tra amore e matrimonio
viene dedicata la favola di Amore e Imene. Conclusi i preparativi e gli indugi, il Giovin Signore si precipita
alla dimora della sua dama, con la quale trascorrerà le altre parti della giornata; il mattino si conclude su
una scena di sangue. La vista di sangue rimarca tutta la distanza che la società, e non la natura, ha posto fra
nobile e plebeo. Parini continua a vestire i panni del precettore d’un giovane nobile nell’ode L’educazione,
composta per la guarigione di Carlo Imbonati e dedicata ai principi di una formazione umana. La prima
parte dà conto dell’occasione, qualifica l’ode come particolarmente armoniosa e loda il destinatario cui il
poeta vorrebbe poter presentare un dono. Gli offre la seconda parte nell’ode, in cui il maestro-allievo è
trasposto nell’analogia mitica di Chirone-Achille. L’ode, celebre per la purezza e l’evidenza neoclassica delle
immagini, è una sorta del positivo del Mattino e l’Achille Imbonati rappresenta l’investimento di Parini nella
formazione di un’aristocrazia illuminista e riformatrice, che sappia elevare il privilegio della nobiltà di
sangue col merito della virtù. Nel 1765 è pubblicato il secondo poemetto sulla giornata del nobile: Il
Mezzogiorno. Non muta, rispetto al Mattino, l’impianto formale e ideologico, si arricchisce di nuovi temi,
personaggi e di un movimento articolato in quattro tempi: l’arrivo del Giovin Signore presso la Dama, il
desinare, il caffè ed il gioco, la passeggiata al Corso. Vengono alla ribalta la Dama, che si è preparata, i
corteggiatori che l’attorniano, il marito inebetito cui è vietata la gelosia. Il cicisbeismo, cioè il rituale
rapportarsi di Dama e Cavaliere di cui fanno parte infedeltà, litigi e gelosie, e la pittura dei tipi e delle mode
che caratterizzano la socialità nobiliare sono le due file da cui dipendono le scene e gli episodi del
Mezzogiorno, ovvero le due favole. La prima, inserita al momento in cui la Dama si siede a tavola col
Cavaliere, ha funzione sociale con il racconto dell’originaria uguaglianza degli uomini infranta dagli dèi, la
divisione fra i nobili e la plebe. La seconda, sull’origine del gioco del tric-trac sferza l’innaturale mancanza di
gelosia nei mariti nobili. La scena del pranzo propone vari tipi umani, ciascuno dei quali è latore di tesi o
mode presenti nel dibattito culturale. Significativo per comprendere l’Illuminismo non libertino di Parini è il
rapporto con i philosophes illuministi (Rousseau e Voltaire), delle cui idee il Giovin Signore si è infarinato
durante la toilette. Per farsi bello di fronte alla Dama, egli ne espone le idee più spregiudicate contro la
religione. Dopo l’intermezzo del gioco, al tramonto, la gita in carrozza; il Corso dopo aver visto tutto il
giorno il via vai dei lavoratori, prende forma una sfilata di nobili, di madri e figlie borghesi, nella quale
splenderà il Giovin Signore. Il Mezzogiorno si chiude su lunghe ombre e rintocchi funebri. La notte che
sopraggiunge annulla, come la morte nel Dialogo sopra la nobiltà, tutte le differenze apparenti; il nero
sipario cala sui viventi e ottunde le possibilità rappresentative del poeta e pittore, la cui parola è la sola
capace di sottrarre al buio.

Grazie al successo del Mattino e del Mezzogiorno e all’avvicinamento agli ambienti della corte, per Parini è
possibile iniziare una carriera come docente. L’ultima ode civile è Il bisogno, in cui sostiene l’inutilità di
pene aspre se non si pone rimedio alle cause socioeconomiche del crimine. Nel 1768 abbandona la carriera
di precettore, per ricoprire una cattedra nelle Scuole Palatine. La fine degli anni Settanta segna una ripresa
dell’attività poetica e letteraria di Parini, che torna a comporre odi d’occasione con La laurea e Le nozze; a
questa fa seguito Il brindisi. La ripresa della poesia dopo un lungo silenzio è tematizzata nelle prime strofe
della Laurea in cui Parini torna ad enfatizzare l’impegno etico insito nel comporre versi. Il valore assoluto
della poesia e la persona del poeta acquisiscono un’importanza crescente, accreditando l’ode sempre più
come spazio all’espressione e alla difesa dell’io poetico e dei suoi valori. A questo tema si affianca quello
della celebrazione della bellezza, rappresentata in versi di compostezza neoclassica. A questo filone fanno

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riferimento Le nozze e Il brindisi in cui il poeta celebra l’amicizia che dura fino alla morte. Le odi degli anni
Ottanta riprendono la tematica della Laurea precisando il nesso che lega la dignità della poesia e della
persona del poeta alla volontà di celebrare chi lo merita. La caduta è il testo capitale, che tematizza,
attraverso uno stile complesso e popolare, la diversità, la separatezza di Parini poeta e “buon cittadino”,
dalla società nobiliare e plebea in cui vive. Parini si rappresenta come uomo e poeta esemplare, non si è
mai umiliato per entrare nelle grazie dei potenti, ma ha serbato intatto il proprio patrimonio d’ideali.

La caduta è il tassello più significativo dell’automitografia pariniana. Preceduta da tre odi, quella funebre In
morte del maestro Sacchini, l’allegoria piscatoria della Tempesta e La magistratura, l’altra grande occasione
celebrativa è rappresentata dalla La gratitudine dove Parini prima vi ringrazia il cardinale Angelo Maria
Durini per l’onore che gli ha tributato visitandolo una volta a casa sua, poi ne loda la vita di protettore delle
arti e delle lettere. Questo sigilla il volume che raccoglie 22 odi mettendo in apertura L’innesto del vaiuolo.
A questa edizione fa seguito una nuova edizione che aggiunge le ultime tre odi del maestro: Per l’inclita
Nice per la contessa Maria Litta Castelbarco che aveva mandato a chiedere notizie del poeta infermo; A
Silvia contro la moda francese di cingere un nastro rosso al collo e Alla Musa per l’allievo Febo d’Adda. Per
l’inclita Nice è uno dei vertici della lirica pariniana, per l’equilibrio fra perfezione stilistica e formale, tra
modulazioni tematiche e trapassi temporali e sentimentali. La sensibilità di quest’ode si estende anche A
Silvia caratterizzata da un tono familiare in cui vibrano le corde del turbamento per le violenze
rivoluzionarie e la corruzione morale. La pace e la pudicizia, interiori e nella relazione con gli altri,
assurgono a qualità distintive a coloro che amano la poesia in Alla Musa, il testamento poetico e educativo
di Parini. Il ritratto è quello dello stesso Parini, ma anche quello dell’allievo Febo, ora sottratto alla poesia
dalle grazie della sua sposa. Il lavoro su Mattino, Mezzogiorno e Sera riprende negli anni Ottanta. In
processo di revisione porta a un mutamento strutturale dell’opera che diviene un poema, Il Giorno, in
quattro parti (Mattino, Meriggio, Vespro, Notte) del quale restano per le ultime due parti solo frammentari
manoscritti autografi ed appunti, che indicano alcuni dei temi che Parini intendeva sviluppare. I frammenti
del Vespro e della Notte indicano un indebolimento della funzione del precettore, così viene meno un
elemento di unità dell’opera che tende a disgregarsi in una serie di episodi staccanti. Il passaggio a una
struttura in quattro parti implica, nelle prime due, soppressioni, cadono la dedica alla Moda, compensate
nel Mattino da aggiunte. Il Meriggio si chiude sulla favola del tric-trac, mentre il Vespro si apre sul tramonto
e col Giovin Signore e la Dama che escono sul “vespro nascente” dal palazzo in carrozza. Qui la sfilata sul
Corso della nobiltà, sono inseriti i doveri della (falsa) amicizia. La Notte aperta da un’introduzione che
mette a contrasto le notti del remoto passato e quella odierna e tornando a ribadire la natura artificiale
della vita aristocratica. È fissata in questi versi l’azione dipinta nel quarto poemetto: una varietà di
occupazioni ludiche in cui ciascuno trova sé stesso. Segue la favola del Canapè che mostra in atto il
processo di corruzione: inizia la lunga “sfilata degli imbecilli” in cui smarrisce la figura del Giovin Signore.
Forse proprio nell’impossibilità di educare un ceto ormai destinato alla fine sta una delle chiavi per
comprendere l’incompiutezza a cui Parini abbandona la sua satira. Muore nel 1799.

EPOCA 8.

NEOCLASSICISMO E ROMANTICISMO.

INTRODUZIONE

L’assetto politico europeo di antico regime si sgretola nel corso del Settecento, a partire dalle guerre di
successione spagnola, polacca e austriaca fino alla Rivoluzione francese e dall’imperialismo napoleonico,
eventi che siglano l’ascesa dell’epoca borghese. All’interno di questa cornice storica, si sviluppano due
sensibilità: quella neoclassica e quella romantica. Il Neoclassicismo, con la sua ripresa della classicità
recupera la tradizione greco-latina nella prospettiva di una competizione imitativa con la classicità.
Viceversa, il Romanticismo guarda sì al passato, ma al passato inesplorato delle saghe medievali,
interpretato con originalità dall’artista. È un rovesciamento di paradigma sociale, culturale ed estetico che

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va di pari passo con l’estendersi della ferita della Rivoluzione francese sulla compagine strutturale europea:
la durata di questo fenomeno si riflette nella coesistenza spazio-temporale di questi due movimenti. L’onda
del Neoclassicismo europeo arriva a sfiorare anche la società letteraria italiana. In questo periodo, vi si
pone il problema della ricerca della lingua, per Alfieri l’italiano è una lingua-obiettivo da inseguire nel
lavorio sulla propria opera, negli stessi anni il codice linguistico nazionale è al centro di un dibattito. Vi è la
ristampa del Vocabolario della Crusca curata da Antonio Cesari, caposcuola del movimento purista; questo
movimento si propone di incrementare il patrimonio lessicale italiano non prendendo in prestito vocaboli
stranieri, ma attingendo dall’italiano del Trecento. Nella sua Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al
Vocabolario della Crusca, Cesari pone all’attenzione dei letterati la necessità di avvalersi in prosa e in poesia
di un italiano letterario cinquecentesco di stampo classicista, che guardi ai grandi modelli di Ariosto e Tasso,
ammettendo anche aperture a forestierismi e neologismi. A Milano si fronteggiano gli esponenti delle due
tendenze, quella classicista e quella romantica. La polemica è avviata dall’articolo di Madame De Stael Sulla
maniera e sull’utilità delle traduzioni, in cui sollecita i letterati a volgere in italiano le opere straniere in
modo da rivitalizzare contenuti e stile della letteratura nazionale. Alla de Stael ribatte Pietro Giordani,
fautore di un classicismo linguistico e letterario declinato in chiave progressista; secondo l’intellettuale solo
la padronanza di tutte le corde della tradizione linguistica italiana può servire alla liberazione socioculturale
delle masse.

VITTORIO ALFIERI (Asti 1749 – Firenze 1803)

Drammaturgo, poeta e autobiografo d’eccezione. La curva descritta da Vittorio Alfieri riassume un secolo, il
Settecento, che vede compiersi l’ultimo atto delle società di antico regime e il prologo di un’era nuova, l’era
borghese. Nasce ad Asti nel 1749 da una famiglia nobile. Entra all’accademia reale, ma la carriera militare
non fa per lui, quindi inizia a viaggiare. La sua formazione culturale è tardiva, ne deriva una più grande
passione. Ha una personalità ribelle, ma la sua polemica rimane ideologica. Non riuscendo a sottostare alla
monarchia piemontese, scappa lasciando il suo patrimonio alla sorella, mantenendo per sé una reddita
vitalizia. Si avvicina alla letteratura grazie alle letture di Plutarco e agli illuministi francesi (Montesquieu e
Rousseau). Nei racconti di Plutarco legge di personaggi che combattono per i propri ideali, quindi lui si
sente soffocato e scappa. Alfieri ha quell’inquietudine tipica del romanticismo, in quanto non si sente a suo
agio nella realtà, ma non sa come migliorarla. I modelli da cui trae ispirazione per le sue opere sono:

• Orazio: del quale riprende le finalità etiche dell’arte, cura l’estetica e la morale.
• Sallustio: fu uno storico che condanna i vizi, la corruzione ed usa la monografia, cioè scrive di un
solo personaggio.
• Giovenale: scrisse una satira contro i vizi della società.
• Machiavelli: leggendo il Principe prende spunti per il trattato Della Tirannide.

Nella tragedia di Alfieri sono presenti 3 elementi classici, ovvero i 5 atti, la materia e le unità aristoteliche;
mentre applica delle innovazioni come la riduzione del numero dei personaggi e semplifica la scrittura.
L’autore distingue 3 fasi della scrittura teatrale:

1. Ideare
2. Stendere (cioè la scrittura del testo in prosa)
3. Verseggiare (ovvero scrivere in versi ciò che si è scritto in prosa)

I temi delle sue tragedie sono la libertà, la ribellione dell’individuo alle leggi del potere, e la tirannide, cioè il
primato dello Stato sull’individuo, che priva della libertà. Inizialmente Alfieri approva la rivoluzione contro il
potere, ma quando prendono pieghe sanguinose le giudica. Un’altra caratteristica è il titanismo, cioè la
percezione che gli autori hanno di sé stessi percependosi degli eroi. Caratteristica che riscontriamo negli
eroi delle sue tragedie, che non hanno soluzione pratica, pensano di essere eroi perché hanno i giusti ideali,

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ma alla fine si suicidano arrendendosi alla società. Il suicidio viene considerato un atto eroico, in quanto le
virtù che hanno non ci sono nel loro tempo.

TRATTATI: Della Tirannide e Del Principe e delle Lettere. Della Tirannide, è scritto sull’onda dell’entusiasmo
suscitato da Machiavelli, si apre con una dedica Alla libertà. Chi è il tiranno? Nel primo libro viene definito
come colui che in virtù di un potere assoluto non deve sottostare ad alcuna norma, si delinea quindi la
figura del tiranno; nel secondo libro si discute del rovesciamento della tirannide in favore di una repubblica
costituzionale. Del Principe e delle Lettere vi si affronta in tre libri il rapporto tra i letterati e il potere. Il
trattato di apre con il paradosso della dedica ai principi che non proteggono le lettere in quanto non
espongono il letterato al rischio di una dannosa corruzione morale.

TRAGEDIE: Saul e Mirra. Saul, narra della personalità frastagliata del tiranno biblico Saul. Un eroe
contradditorio, tormentato dalla perdita del potere e dall’avvento della vecchiaia, animato da sentimenti
contrastanti nei confronti di David e dei figli. Un eroe tirannico che attiva il meccanismo di identificazione
dello spettatore in forza della sua complessità emotiva. Mirra è la storia della fanciulla innamorata del
padre Ciniro ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio, qui al contrario si consumano una tragedia di reticenza,
tesa a tacitare la fiamma e una lotta tra questa e la volontà di fuga dalla reggia e dai propri stessi desideri.
La reticenza è figura retorica su cui si struttura l’intero dramma, in un climax che conduce al disvelamento
finale e al suicidio della protagonista.

Alfieri comincia a ideare una silloge delle liriche e delle prose antifrancesi già composte e di quelle che
andrà a comporre. Il prosimetro satirico ottenuto, dal titolo Misogallo non vedrà mai la luce per ragioni di
prudenza politica e sarà pubblicato solo dopo il 1814 quando le acque rivoluzionarie si sono da tempo
calmate e ha inizio la Restaurazione. In quest’operetta Alfieri manifesta la sua fede antirivoluzionaria,
abbassando i francesi al rango animale dei “Galli”. Nell’Epigramma I si allude a una promozione dei francesi
a uomini liberi all’interno di una monarchia costituzionale, in forza degli errori commessi dal regime
assoluto.

Rime → La prima parte comprende i testi dal 1776 al 1788; la seconda esce postuma nel 1804 e abbraccia
le litiche composte fino ai 50 anni, considerati dal poeta il termine del proprio percorso creativo. La
maggioranza dei componimenti affonda le sue radici in eventi contingenti e autobiografici, con uno sforzo
di trasfigurazione del particolare in universale mediante il ricorso all’astrattezza del lessico petrarchesco,
alla frequente omissione dei nomi dei referenti reali e alle apostrofi a personaggi storici o a concetti
astratti. La vena autoconoscitiva è presente sin dagli esordi nei Giornali e nell’Esquisse e in vari episodi lirici
delle Rime, tra cui il celebre sonetto di autopresentazione Sublime specchio di veraci detti dove il poeta
riconosceva in sé, tramite il richiamo all’eroe e all’antieroe per eccellenza, la dicotomia tra l’indole tragica e
quella comica. Queste due indoli si manifestano contenutisticamente e stilisticamente nell’autobiografia. La
scelta della scrittura autobiografica consente ad Alfieri di appoggiarsi a una tradizione. La Vita scritta da
esso è suddivisa in 4 epoche (Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità) che coprono un periodo che va
dalla nascita al 1803. Nel corso di questo processo di correzione e rielaborazione viene messo a punto quel
tono medio della Vita, caratterizzato da un’escursione continua tra elementi alti e iperletterari ed elementi
bassi e colloquiali all’interno di un andamento del periodo paratattico. Si interviene anche su alcuni
contenuti, mutando ad esempio la valutazione complessiva dei fatti rivoluzionari, visti in un primo tempo
con favore, ma poi avendo visto le conseguenze, la condanna della rivoluzione. Il racconto autobiografico
accompagna il lettore lungo le tappe che segnano la vita dell’autore; a fare da spartiacque tra gli intoppi
amorosi e le dissipazioni della giovinezza da una parte, e la carriera di uomo maturo dall’altra, è la scoperta
della vocazione teatrale. Unico argine al dilagare dell’io è la figura del servo Elia, che Alfieri costruisce come
un doppio di sé stesso, ma più saggio e concreto, in grado di accompagnarlo in questa traiettoria di
maturazione artistica e umana. Alfieri muore nel 1803.

VINCENZO MONTI (Alfonsine 1754 – Milano 1828)

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Nasce vicino Ravenna, nel territorio dello Stato della Chiesa. Durante il periodo all’università di Ferrara si
distingue per alcuni componimenti poetici e alla fine degli studi, nel 1778, il cardinale Scipione Borghese lo
invita a trasferirsi a Roma. In quel momento la città sta vivendo il momento più alto della sua stagione
neoclassica, spinta dal volere di Pio VI, che intende sfruttare il rinnovato interesse per l’antico per esaltare
l’Urbe contemporanea. Nel 1799 compone La prosopopea di Pericle, dedicata al Visconti, e la recita
in Arcadia. Nel 1781, in occasione del matrimonio del nipote del papa Luigi Braschi Onesti, scrive la
cantica La bellezza dell’universo, che colpisce lo sposo che lo prende come segretario. Inseritosi in breve
tempo negli ambienti dell’alta aristocrazia romana, diventa una delle sue voci più importanti componendo
diverse opere poetiche e due tragedie ispirate a Shakespeare: l’Aristodemo e il Galeotto Manfredi. Le
notizie che arrivano a Roma sulla Rivoluzione francese spingono in un primo momento il Monti su posizioni
conservatrici: da qui nasce l’idea del 1793 di comporre un poema, la Bassvilliana, in cui vengono
raccontati gli eccessi della Rivoluzione. In seguito, però, inizia ad avvicinarsi agli ideali repubblicani e
giacobini, al punto di decidere, nel 1797, di abbandonare una Roma ormai sempre più preda dei fermenti
anticlericali. Si trasferisce a Milano, dove inizia una nuova fase della sua vita. Divenuto sostenitore del
potere napoleonico, ottiene vari incarichi nella Repubblica cisalpina e la cattedra di eloquenza all’università
di Pavia, che mantiene fino al 1804: questo periodo è segnato da una fitta produzione letteraria che si
limita, però, ai toni puramente celebrativi come ad esempio la Musogonia (1797), che narra la nascita delle
muse, e che viene dedicata a Napoleone. Notevoli, invece, sono i risultati raggiunti nelle opere di
traduzione: nel 1800 traduce la Pucelle d’Orléans (La pulzella di Orléans) di Voltaire, e dieci anni
dopo pubblica una celebre traduzione dell’Iliade che lo rende famoso a livello europeo. → L’apice della
celebrazione napoleonica è rappresentato dal Bardo della Selva Nera e dall’Iliade: il Bardo è un
esperimento di commistione di diverse soluzioni formali: nell’incompiuto poema convivono endecasillabi
sciolti alternati a strofe chiuse e ottave; lo sperimentalismo metrico fa da pendant a quello delle immagini:
le imprese napoleoniche, narrate dal soldato Terigi al bardo Ullino, sono calate in un’atmosfera brumosa e
sublime, punteggiata di riferimenti alla mitologia germanica. Nella scelta del poema omerico si legge la
volontà di cantare epicamente l’imperialismo napoleonico secondo la grammatica del neoclassicismo, di cui
l’Iliade montiana è l’espressione compiuta. Nel 1815 Milano ritorna sotto il regno asburgico con
cui Monti accetta di collaborare: nel 1816 entra a far parte della rivista filoaustriaca “Biblioteca Italiana”
mentre continua la sua produzione letteraria. Tuttavia, il clima culturale è radicalmente cambiato ed è
ormai egemonizzato dalle istanze e dalle posizioni romantiche, cosa che, di fatto, lo emargina dal dibattito
intellettuale. Il percorso poetico di Monti si conclude con il Sermone sulla mitologia, poemetto in
endecasillabi sciolti. In questo componimento ribadisce la propria fedeltà al serbatoio di temi e immagini
offerto dalla mitologia lamentando lo strapotere dei romantici, colpevoli di aver sottratto alla poesia i suoi
tradizionali materiali costitutivi, a favore dell’austero genio inspiratore, nella consapevolezza della fine di
un intero sistema culturale. La Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di
Monti è il prodotto più visibile di una riflessione plurivoca sulla lingua italiana portata avanti dal poeta
cesareo e dal suo entourage in quegli anni, in una Milano capitale del Regno Lombardo Veneto. Il volume
ricostruisce, ricorrendo a documenti di prima mano, il milieu culturale e letterario da cui l’opera scaturisce
e restituisce il quadro della politica linguistica cui è improntata, tra antipurismo, classicismo di marca
cinquecentesca e apertura alla contemporaneità. Il racconto storico-letterario è affiancato dalla narrazione
del viaggio testuale della Proposta dai manoscritti di lavoro alla stampa, facendo emergere a tutto tondo la
figura di Vincenzo Monti lessicografo e teorico della lingua italiana.

CLASSICISMO E ROMANTICISMO

*Purismo: movimento che vuole ripristinare una supposta puritas linguistica, presente in uno spazio e in un
tempo della Toscana del Trecento. Va letto in risposta alla diffusione capillare di francesismi e forestierismi
che ha segnato l’italiano settecentesco.

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MELCHIORRE CESAROTTI (1730-1808): Posizione di prestigio culturale e sociale, esercita un’influenza
decisiva sui suoi allievi e non. Nel Ragionamento sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica, premessa a
due traduzioni di Voltaire, getta le basi della sua estetica letteraria: pur accogliendo il precetto imitativo
proprio dell’estetica neoclassica, basato sulla ripresa dei modelli greco-latini, pone l’accento sulla
molteplicità delle forme della natura e sulla conseguente possibilità di reinterpretazione creativa da parte
del poeta. Questo comporta una priorità dell’intuizione dell’autore rispetto agli strumenti e alle norme
dell’arte poetica e alla stessa imitazione, il che a sua volta autorizza la sperimentazione di nuove forme di
espressione, in risposta anche a una pressante esigenza di svecchiamento della cultura letteraria italiana. Il
suo atteggiamento nei confronti di una visione chiusa e monolitica della lingua è sintetizzato nel Saggio
sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana. Cesarotti sgombra il campo da qualsiasi obiezione in
direzione puristica o protezionistica nei confronti dell’italiano in quanto lingua storico-naturale, che si
evolve nel tempo, presentando otto punti cardine di ordine teorico-filosofico in merito al mutamento
linguistico: nessuna lingua è pura, nessuna lingua è perfetta e muta adeguandosi a nuove esigenze
espressive, autorizza così l’uso del neologismo e il prelievo da altre lingue.

Il ritorno degli austriaci a Milano chiude la parentesi giacobina e poi napoleonica. Questa pax mette i
leterati in condizione di ingaggiarsi in una polemica che vedrà impegnati nomi illustri su entrambi i fronti,
quello classicista, legato alla tradizione e all’imitazione e, di norma, connesso alla nuova compagine
governativa, e quello romantico, mirante all’originalità dell’individuo poetante e della creazione poetica e,
solitamente, di orientamento politico liberale. Lo spazio della polemica è quello messo a disposizione da
due riviste milanesi: La “Biblioteca Italiana” e poi “Il Conciliatore”. Il primo, organo di stampa filoaustriaco,
è diretto da Acerbi e si occupa prevalentemente di letteratura. Con il termine Romanticismo italiano si
indicano il pensiero e le opere di una serie di autori attivi in Italia nel periodo tra il Congresso di Vienna e
l’Unità d’Italia. Questo movimento nasce in piena continuità con il Romanticismo europeo, esaltandone in
particolare i caratteri patriottici e politici. La corrente romantica europea era una reazione all’arida poetica
illuminista per proporre un ritorno ai valori religiosi, sentimentali e patriottici. Il Romanticismo, infatti, si
diffonde in tutta Europa a partire dall’inizio dell’Ottocento e propone il recupero del passato medievale e
dell’identità linguistica e culturale dei popoli. Il termine Romanticismo deriva proprio
dall’aggettivo romance e roman che, nel francese antico e nello spagnolo, designavano le opere scritte
nelle lingue romanze. L’aggettivo romantico ha poi assunto il significato di “incline al sentimentalismo”
proprio collegandosi al movimento che nacque nella prima metà dell’Ottocento. Il Romanticismo italiano è
stato un momento letterario fondamentale per la storia culturale del paese. Ha dato spunti importanti a
due grandi autori della letteratura come Leopardi e Manzoni ed ha contribuito alla nascita di un’ideologia
politica improntata sulla coscienza di appartenere ad un unico popolo. Le caratteristiche principali del
Romanticismo europeo si diffondono anche in Italia ma in maniera più velata, come era accaduto per quasi
tutti i movimenti letterari. In Italia, infatti, lo slancio sentimentale dei grandi romanzieri tedeschi e inglesi
era decisamente attenuato. Ciò perché i letterati che si avvicinavano al Romanticismo sceglievano la sua
vena realistica e storica. Alcuni letterati italiani possono quindi definirsi preromantici. Una figura che
bisogna ricordare è quella di Ugo Foscolo, certamente affine a questo movimento. Tra i preromantici si
annovera inoltre Vittorio Alfieri. Le sue opere sono imperniate su alcuni elementi romantici come
l’individualismo e la concezione tragica dell’esistenza. La data convenzionale della nascita del Romanticismo
italiano è il 1816. Nel gennaio di quest’anno, infatti, venne fondata la rivista «Biblioteca italiana» dove
comparve l’articolo di Madame de Staël “Sulla maniera e la utilità delle traduzioni“. Lo scritto avviò la
discussione tra sostenitori del Romanticismo e sostenitori del Classicismo. La pubblicazione di questo
articolo diede il via alla polemica tra letterati italiani classicisti e romantici. Tale polemica si protrasse fino al
1825. Il primo a rispondere è Pietro Giordani, classicista atipico: pur propugnando ideali estetici classicisti,
non estende il suo conservatorismo sul piano politico, nel quale al contrario si distingue per lucidità di ideali
progressisti, di ispirazione liberal-borghese. In Italia il Classicismo (“definito è il progresso delle arti”) era
una realtà molto presente perché lo studio degli autori classici non era mai caduto in disuso. Esso era anzi

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una colonna portante da un punto di vista culturale. Quando la ventata del Romanticismo iniziò a
diffondersi nei circoli letterari, venne a crearsi molto scompiglio. Madame de Staël, nel suo articolo che
apriva la pista a tutte le altre polemiche, affermava che la letteratura italiana non doveva soltanto guardare
ai modelli del passato ma doveva svecchiarsi e orientarsi verso i nuovi modelli letterari contemporanei
europei. Nonostante le polemiche dei classicisti, molti letterati accettarono le critiche della Staël e
cercarono di comprendere il fenomeno romantico per interiorizzarlo. Tra essi si ricorda Giovanni Berchet,
autore del manifesto del Romanticismo milanese Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. La
polemica assunse quindi anche caratteri politici. I classicisti sostenevano la dominazione austriaca mentre i
romantici professavano gli ideali della libertà e dell’indipendenza della nazione.

Il Conciliatore: promotore di un programma nazional-liberale in funzione antiaustriaca. Il Programma della


rivista firmato da Borsieri enuncia le mire concrete di giovamento all’utile pubblico e di rottura del giogo
austriaco attraverso la creazione di una classe dirigente emancipata, avveduta e colta, spazzata via tutta
l’infeconda querelle classico-romantica. Un piano di educazione della borghesia milanese nei diversi ambiti
di sviluppo della società, nonché nel campo del teatro e del romanzo.

EPOCA 9

LE TRE CORONE E LA CULTURA DELL’OTTOCENTO

INTRODUZIONE

Il 18 novembre 1799 l’Italia passa sotto il dominio di Napoleone. In questo modo sono aboliti i privilegi e gli
istituti feudali, si vendono i beni ecclesiastici, si rafforza la borghesia terriera, si eliminano le barriere
doganali dando una spinta al commercio e si modernizzano scuola ed esercito. Ma Napoleone considerava
l’Italia come zona di sfruttamento, infatti subordinava la sua economia alle esigenze della Francia. Per
quanto riguarda le ideologie, in questo periodo si sviluppano le idee patriottiche o moderate, proprie dei
ceti colti, mentre le masse popolari rimasero estranee. In questo momento storico si sviluppa il
Neoclassicismo. Le scoperte archeologiche e gli studi dell’arte classica suscitarono un vagheggiamento della
civiltà e della bellezza antica. L’arte greca aveva le caratteristiche di nobile semplicità e calma grandezza,
che nascevano dal dominio delle passioni e dall’armonia interiore. Inoltre, si riscoprono i valori classici
perché i rivoluzionari francese vedevano in Atene, Roma un modello di vita repubblicana libera e forte, che
volevano far rivivere nel presente. Nell’età napoleonica non si celebravano più le virtù repubblicane, ma si
tende ad assimilare il regime napoleonico alle forme imperiali romane. Il neoclassicismo porta malinconia,
in quanto non ci sarà un ritorno al passato. I poeti esprimono un vagheggiamento, cioè il desiderio di
qualcosa che non si può raggiungere, dell’antico. I poeti neoclassici italiani sono Foscolo e Leopardi.
Romanticismo deriva da “romantic” un aggettivo usato in modo dispregiativo per indicare aspetti fiabeschi,
quando perde questo significato diventa sinonimo di sublime, malinconico, sentimentale. Il sublime è la
caratteristica dei moderni, alla quale si aggiungono la disarmonia. Quindi si nota la frattura tra antichi,
pervasi di armonia, serenità e bellezza, e romantici; anche perché la realtà moderna è caratterizzata dal
rifiuto della ragione. Infatti, gli autori si focalizzano sulle emozioni, sul sogno e sulla follia, che sono
alternative alla realtà. Si ritorna all’idealismo, sprofondando nell’interiorità, che è l’unica realtà. La natura
ha un ruolo importante, perché è la prima ispirazione, la gioia, il rifugio dalla realtà. Solo poeti e bambini
capiscono, perché hanno ancora in loro l’innocenza. Il poeta diventa il profeta, perciò utilizza un linguaggio
semplice per far capire tutti. Si diffonde il romanzo, che ha carattere sperimentale, attraversa vari generi, è
anticlassico ed è rivolto ad un pubblico medio o alto. Ad esempio, il romanzo realistico-sociale di Balzac e
Dickens, quello di formazione di Goethe e Stendhal, ma anche il romanzo storico, che punta sul verosimile,
di Scott. In Italia, Dopo il congresso di Vienna (1815) iniziano i primi moti rivoluzionari. Vittorio Emanuele II,
Cavour e Garibaldi conquistano l’Italia. Il 17 marzo 1861 nasce il Regno d’Italia. Ma in Italia l’industria non
esisteva, questa arretratezza era causata dalla divisione politica, dalle leggi doganali che bloccavano la

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circolazione di merci e dalla censura letteraria. La borghesia aveva le idee patriottiche, il popolo rimaneva
escluso, in quanto analfabeta. Nascono le prime riviste, che condizionano le idee:

• Biblioteca italiana: era austriaca e neutrale, ma gli intellettuali che ne facevano parte creano il
conciliatore.
• Conciliatore: unisce illuminismo e romanticismo, ma chiude per la censura.
• Antologia: è una rivista toscana, che traduce testi famosi e ne pubblica anche i testi originali.
• Politecnico: è milanese e scientifico.

Madame de Stael scrive un saggio nella Biblioteca italiana, nel quale spiega che gli autori italiani sono
troppo ancorati all’arte classica, la quale è stata superata da opere moderne. I classicisti, come Giordani,
rispondo che arrivati al bello ci si deve fermare. I moderni, come Berchet, spiegano che gli intellettuali
italiani sono diversi dagli europei, in quanto hanno un compito patriottico, che supera il rifiuto della
società. Il linguaggio è semplice e unitario. Dopo la nascita del Regno d’Italia, si diffonde la questione della
lingua da adottare in tutto il territorio, vengono fuori 3 soluzioni:

a. Utilizzare una lingua classica


b. Estendere il fiorentino in tutta Italia
c. Attendere che i dialetti si mescolino.

UGO FOSCOLO (Zante 1778 – Londra 1827)

In Ugo Foscolo le due componenti di soldato e poeta non sono mai disgiunte. Gli impegni militari e gli
scontri politici lo spingono di frequente a cambiare città: un “viaggio sentimentale” che ha la sua origine
nell’isola di Zante, il polo positivo nella Firenze, patria della lingua italiana, il polo negativo nella Milano
napoleonica e il suo esilio prima in Svizzera e poi in Inghilterra. Ugo Foscolo nasce a Zante nel 1778. Riceve i
primi accenni di latino e greco al seminario di Spalato; la morte improvvisa del padre, determina il
ricongiungimento con la madre a Venezia. Foscolo di madrelingua greca, non padroneggia ancora l’italiano.
È a Venezia che ha modo di riprendere gli studi e di introdursi nei salotti. In questo ambiente matura il
primo progetto poetico, la Raccolta Naranzi, una silloge manoscritta di 41 liriche; la raccolta tripartita in Inni
ed elegie, Anacreontiche e canzonette, Odi è di argomento amoroso e attinge a un repertorio di immagini e
di lessico di pertinenza arcadica. Le turbolenze politiche di quegli anni si rispecchieranno nella prima prova
tragica, il Tieste: Atreo-Tieste qui è leggibile come contrapposizione tra l’assolutismo dell’ancien régime e
un atteggiamento riformista e di apertura democratica. Il confronto con Vittorio Alfieri è d’obbligo: se da
una parte Foscolo ne riprende i moduli strutturali e tematici, dall’altra questi stessi moduli sono piegati a
dialogare in maniera molto più stretta con le incalzanti contingenze politiche. Nell’aprile decide di arruolarsi
a Bologna come cacciatore a cavallo della Repubblica Cisalpina; Correlativo a questo entusiasmo politico
sono le odi: Il Parnasso democratico e Ai novelli repubblicani e Bonaparte liberatore, quest’ultima dedicata
a Reggio Emilia da poco liberata. Ma la firma del trattato di Campoformio, che sancisce lo smembramento
dei territori veneziani tra la Francia, l’Austria e la Repubblica Cisalpina, ridimensiona la figura di Napoleone
agli occhi di Foscolo. Le ultime lettere di Jacopo Ortis è l’opera più importante di Foscolo. Si tratta di un
accenno ad un progetto di romanzo, Laura. Una prima redazione fu stampata parzialmente da Foscolo a
Bologna, nel 1798, ma restò interrotta per le vicende belliche che spinsero lo scrittore a combattere contro
gli Austro-Russi. Il romanzo fu ripreso da Foscolo e pubblicato con profondi mutamenti nel 1802; e su di
esso lo scrittore ritornò ancora durante l’esilio, ristampandolo a Zurigo e a Londra con ritocchi ed aggiunte.
L’Ortis è un’opera giovanile ma anche un’opera che Foscolo sentì come centrale nella sua esperienza, vi
ritornò a distanza di parecchi anni. Si tratta di un romanzo epistolare di 45 lettere coprono un arco
temporale che va dal 3 settembre 1797 al 31 maggio 1798. Il modello su cui Foscolo guarda è I dolori del
giovane Werther di Goethe. Vicino a Goethe è il nucleo tematico: la figura di un giovane intellettuale in
conflitto con il contesto sociale in cui non può inserirsi. Foscolo riprende questo nucleo tematico
sviluppandolo in relazione alle caratteristiche del contesto italiano dei suoi tempi. Il risultato è il medesimo:

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Jacopo Ortis, intellettuale disilluso dagli esiti fallimentari del triennio rivoluzionario, scrive queste lettere
all’amico Lorenzo descrivendovi i propri strati d’animo in merito alla politica, alla patria e al suo amore per
Teresa, promessa sposa di un altro uomo. Analizzando le due opere, l’Ortis e il Werther, notiamo molte
differenze: infatti il conflitto sociale nel Werther si misura sul piano privato dei rapporti personali, nell’Ortis
si trasferisce anche sul piano politico. Il dramma di Jacopo è il senso angoscioso di una mancanza, il non
avere una patria, un tessuto sociale e politico entro cui inserirsi. Inoltre, Werther è scritto prima della
Rivoluzione, l’Ortis dopo; dietro il giovane Werther c’è la Germania dell’assolutismo principesco, dietro il
giovane Ortis c’è invece l’Italia dell’età napoleonica. È sul significato politico che bisogna insistere:
importante è l’incontro con Giuseppe Parini che lo mette in guardia dai pericoli dell’azione rivoluzionaria e
il disincanto ortisiano trova la propria mise en abime. La forma-canzoniere trova la sua realizzazione nelle
Poesie di Ugo Foscolo che sono prodotti editoriali tutti autorizzati dall’autore con l’intendo di tracciare una
precisa immagine di sé, affidandosi al metro tradizionale e petrarchesco per eccellenza, il sonetto,
rinnovato attraverso l’uso dell’enjambement. Le odi di apertura sono di ascendenza pariniana, in cui la
bellezza e le doti delle amiche sono cantate ricorrendo a una fitta rete di riferimenti mitologici. Il libro si
chiude con la constatazione della chiusura di un secolo, che porta via con sé le speranze in un avvenire
democratico e libertario. I Sepolcri è un carme di 295 endecasillabi sciolti, sotto forma di epistola indirizzata
all’amico Pindemonte. Il carme si va ad inserire tra il giugno del 1804 e il marzo del 1806. L’occasione fu una
discussione avvenuta con questi a Venezia nell’aprile del 1806, originata dall’editto napoleonico di Saint-
Cloud con cui si imponevano le sepolture fuori dai confini delle città. Pindemonte da un punto di vista
cristiano, sosteneva il valore della sepoltura, mentre Foscolo da un punto di vista materialistico aveva
negato l’importanza delle tombe, poiché la morte produce la totale dissoluzione dell’essere. Nei Sepolcri
Foscolo riprende quella discussione, dapprima ribadendo la sua tesi materialistica sulla morte, poi
superandola. Nei Sepolcri si può scorgere il superamento del nichilismo che aveva portato al crollo delle
speranze rivoluzionarie di fronte alla realtà dell’Italia napoleonica. Il carme ha al centro il motivo della
morte, ma è superata l’idea che essa sia “nulla eterno”. Foscolo contrappone l’illusione di una
sopravvivenza dopo la morte; questa sopravvivenza è garantita dalla tomba, che conserva il ricordo del
defunto ai vivi. La tomba per il poeta è il centro degli affetti familiari e la garanzia della loro durata dopo la
morte, è il centro dei valori civili, conservando le tradizioni di un popolo. S’inserisce nel discorso sulla morte
il motivo politico: attraverso l’illusione Foscolo arriva a riproporre quella possibilità dell’azione politica nella
storia ed introduce la prospettiva di un riscatto dell’Italia dalla miseria presente grazie alla memoria di un
passato tenute vive dal culto delle tombe. Il carme a differenza della poesia sepolcrale è poesia civile. I
concetti prendono forma in figurazioni. Il discorso ha una struttura rigorosa ed armonica. È costruito su
un’orchestrazione di toni diversi, che vanno dall’inizio problematico, alla polemica, all’argomentazione. La
prospettiva spazio-temporale contribuisce a dare una vastità: si passa dallo spazio ristretto della tomba, alla
prospettiva immensa della terra e del mare, si succedono spazi aperti e spazi chiusi, il cimitero comune di
Parini, le chiese infettate dal cattivo odore dei cadaveri. Il linguaggio è elevato e aulico; il lessico rimanda
alla tradizione della poesia sul modello di Parini e Alfieri; la sintassi può variare dalla sentenza concisa al
periodare ampio, ricco di subordinate. L’endecasillabo sciolto è trattato con duttilità, piegato ai toni,
attraverso il ritmo degli accenti, le pause interne, gli enjambement. Successivamente Foscolo matura la
decisione di spostarsi a Firenze. Pubblica la Notizia intorno a Didimo Chierico, (auto)biografia di una
controfigura ortisiana e foscoliana strutturata in 15 capitoli brevi. Chi è Didimo? È il rovesciamento scettico
e ironico di Ortis e di Foscolo stesso, riguarda le cose del momento ma con distaccata saggezza. Foscolo si
mette a lavoro dell’opera Le Grazie, pensando a un inno in tre parti, dedicate a Venere, Vesta e Minerva.
Esito finale della riflessione è la concezione foscoliana sul bello e sull’arte (incarnati dalle divinità del
mondo greco) e sulla loro funzione civilizzatrice e consolatoria. Se nelle opere precedenti il motivo
patriottico e politico era già vitale, qui lo è ancora di più, in ragione delle condizioni politiche di incertezza
successive alla campagna di Russia e alla caduta di Napoleone. Foscolo invece di prestare giuramento agli
austriaci, scappa a Lugano, senza fare più ritorno sul suolo italiano. A Zurigo il poeta ha modo di dare
nuovamente alle stampe Le ultime lettere di Jacopo Ortis: le innovazioni più rilevanti sono la rifusione dei

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temi antinapoleonici. Lascia la Svizzera per l’Inghilterra, alla volta di Londra. Dove pubblicherà di nuovo
l’Ortis e inizierà a collaborare con diversi giornali e periodici. L’incompiuta Lettera apologetica viene
pubblicata postuma; lo scritto è una rimeditazione in forma apologetica delle polemiche del 1810-11 e dei
tempi seguenti alla disfatta napoleonica: in questo documento prende forma l’immagine di un uomo
provato dagli eventi ma comunque deciso a difendersi da quelle accuse nelle quali non si riconosce. Foscolo
è letto come l’eroe perseguitato politicamente e costretto all’esilio. Muore nel 1827.

ALESSANDRO MANZONI (Milano 1785 – 1873)

Alessandro Manzoni è lo scrittore simbolo della letteratura dell’Italia unita, è il più rappresentativo
intellettuale del Romanticismo italiano, con lui si conosce un genere letterario nuovo, il romanzo, mettendo
la letteratura italiana al pari di quella europea. Le riflessioni della propria letteratura si articolano su tre
cardini: il vero, l’utile e il bello, la letteratura deve avere “il vero per l’oggetto, l’utile per iscopo,
l’interessante per mezzo”. Di qui una concezione coerente e mai abbandonata della funzione civile e
formativa della letteratura. Per capire il percorso culturale e letterario di Manzoni è necessario considerare
la sua esperienza spirituale, che orienta la sua attività intellettuale e la sua vita. La realtà è un dato
oggettivo e il suo cristianesimo è la via alla verità più in sintonia con essa. Manzoni è ritenuto il primo
intellettuale europeo perché esso si è confrontato con tale panorama; infatti, la sua attività non è
affrontata individualmente, ma coralmente, dentro la storia e non più fuori di essa. Alessandro Manzoni
nasce a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria (figlia di Cesare Beccaria), sposata con il conte Pietro Manzoni
che non era il padre naturale di Alessandro, poiché Giulia aveva frequentato Giovanni Verri, il più grande
dei fratelli Verri, che era il vero padre di Alessandro. Giulia lascia il marito e il bambino piccolo e se ne va a
Parigi dove vivrà con il suo amante Carlo Imbonati. Rincontrerà la madre in età adulta. Per Manzoni la
Rivoluzione è un mito positivo. Successivamente si sposterà a Venezia in cui verrà a contatto con il teatro di
Goldoni e si immergerà in una lingua viva e vera; sarà in questo periodo che risale l’opera dei Sermoni:
poemetti satirici in endecasillabi sciolti, che seguono nei temi le satire di Alfieri e nella forma la satira
neoclassica e antifrastica di Parini. Nel luglio del 1805, con la morte di Carlo Imbonati, Alessandro raggiunge
Giulia Beccaria a Parigi e le dedica il Carme in morte di Carlo Imbonati: carme scritto dopo la morte di
quest’ultimo, segna una nuova fase della produzione lirica, animata dall’affetto ritrovato della madre. La
poesia è una dichiarazione di sostegno alla madre e il riconoscimento pubblico di una relazione a lungo
chiacchierata e osteggiata; la risposta del poeta, in un immaginario dialogo con l’ombra dell’Imbonati, sul
perché avesse disdegnato la poesia, diventa un elogio su Alfieri, Parini e Omero. Dal 1805 al 1810 Manzoni
vive stabilmente a Parigi dove stringerà amicizia con Claude Fauriel, che diventerà il principale interlocutore
nell’avvicinamento al romanzo. Sempre a Parigi inizierà a frequentare il circolo degli Idèologues francesi,
celebri eredi della tradizione illuminista. La corrispondenza con Fauriel, in francese, registra le riflessioni, gli
entusiasmi, costruendo uno strumento di interpretazione dei testi; Manzoni presenta una riflessione sullo
stato delle lettere in Italia, dove la divisione politica, la pigrizia, l’ignoranza hanno generato un divario tra la
lingua parlata e la lingua scritta. I due eventi, la morte del padre e il matrimonio con Enrichetta Blondel,
segnano un percorso di riflessione spirituale che conduce alla conversione, che orienterà la vita e l’opera
manzoniana. Viene fatta risalire in un episodio successo il 2 aprile 1810 durante le celebrazioni per le nozze
di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, dove Manzoni aveva smarrito la moglie nella confusione
dell’evento. Gli anni 1812-1815 sono dedicati alla prima opera di argomento religioso, Inni Sacri, in cui la
poesia deve diventare forma espressiva di contenuti religiosi che possono essere compresi e condivisi da
tutti. Risponde alla volontà di dare espressione letteraria ai contenuti della fede; Manzoni mostra anche la
volontà di rinnovamento delle forme religiose, per una poesia che sia veicolo di contenuti teologici
ortodossi, ma che possa diffonderli attraverso forme metriche di facile assimilazione con una lingua poetica
nuova. Dei 12 titoli di un indice manoscritto del 1812, corrispondenti alle ricorrenze dell’anno liturgico, solo
4 sono gli Inni realizzati: Il Natale, La Risurrezione, Il Nome di Maria, La Passione. Per avvicinare i contenuti
religiosi a un pubblico non solo colto e non solo religioso Manzoni agisce sul metro, prima della lingua,
scegliendo strofe e versi brevi, derivati dalla poesia cantata settecentesca. il risultato è un linguaggio

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nuovo, libero e di forte impatto, ritto di ornati retorici (similitudini, iperbati, inarcature) che contribuiscono
a creare un impasto popolare, autorevole e arcaico. L’adesione di Manzoni alle nuove idee romantiche
comincia nel primo soggiorno a Parigi e non è disgiunta dall’influsso del progressismo illuminista, e trova
nella conversione religiosa un punto di partenza in sintonia col Romanticismo europeo. Un primo elemento
di rottura con l’Illuminismo è costituito dal prevalere delle istanze spirituali sull’analisi razionale e scientifica
e del recupero della dimensione sociale di tali istanze. La storia diviene così il campo d’azione di una divinità
non astratta, ma rivelata nelle Scritture e incarnata nell’uomo. Si intreccia in questo periodo la vicinanza
con il pensiero di Vico: Manzoni sostiene che se la storia è una “scienza nuova” e la Provvidenza si
manifesta nella storia, allora la verità rivelata è la legge trascendente che governa la storia stessa. Altri due
temi del pensiero romantico manzoniano sono la nazione e la lingua, dove quest’ultima permette la
civilizzazione di una società, intesa come l’espressone di una collettività (degli usi, costumi, abitudini). Dopo
la riforma della lingua, il successivo scoglio da affrontare è quello della riforma del teatro, da liberare dalla
tradizione classica e mitologica alfieriana e da avvicinare al modello shakespeariano, in cui vi è una
rappresentazione di vicende storiche e introspezione psicologica. La nuova drammaturgia si basa
sull’ipotesi che lo spettatore, mentre esterna al dramma, non può percepirne l’inverosimiglianza a causa
della differenza dei tempi e di luoghi della tragedia rispetto ai suoi propri e ne vede l’unità data dalla
coordinata unione delle parti. Solo un’analisi spassionata delle passioni permette all’opera di adempiere al
fine morale dell’arte e allo spettatore di formarsi un’opinione ponderata dell’azione rappresentata. Il luogo
in cui l’autore potrà riservarsi un “cantuccio” per esprimere il proprio punto di vista è il coro, che costituisce
il secondo elemento di novità di questa riforma. Il Conte di Carmagnola: l’opera si svolge tra la Serenissima
e il Ducato di Milano nel primo quarto del XV secolo. Francesco di Bussone, nominato da Filippo Maria
Visconti conte di Carmagnola, caduto in disgrazia presso i milanesi e passato al servizio della Repubblica di
Venezia. Gli viene affidata la guida dell’esercito contro gli antichi padroni, la sconfitta del Ducato di Milano
nella battaglia di Maclodio non basta a fugare i sospetti di tradimento verso il conte, che si rifiuta di liberare
i prigionieri e viene richiamato a Venezia per un processo che ne decreterà la condanna a morte. Le
intenzioni didascaliche della nuova tragedia piegano le vicende storiche all’ideologia dell’autore. Nella parte
finale del coro la condanna di ogni forma di violenza, indirizzata alle guerre tra milanesi e veneziani. Il
Carmagnola è una finzione letteraria costruita su una verità storica, per denunciare l’irrazionalità della
guerra fratricida e l’accettazione cristiana di un’ingiusta condanna. La seconda tragedia è l’Adelchi, nella
scelta del periodo storico Manzoni segue l’interesse romantico per il Medioevo, visto come momento
fondativo delle nazioni dei popoli e individua nello scontro tra longobardi e franchi per il dominio sulle
interne popolazioni italiche, lo sfondo storico di una vicenda più articolata della tragedia precedente, ricca
di personaggi e sfumature psicologiche. Viene affrontato il tema della relazione tra le due popolazioni,
lombarda e latina, mai veramente fuse e capaci di gettare le basi di una vera indipendenza; nessuna libertà
verrà dalla vittoria dei franchi. Adelchi è descritto in maniera molto riflessiva e astratta, simbolo
dell’impossibilità di piegare le ragioni della storia al proprio sentire morale. manIl 1821 è l’annus terribilis
(l’anno cruciale) per la convergenza della crisi politica con quella personale, da cui scaturiscono le due odi
civili e l’inizio del romanzo. La poesia di questo periodo non più essere disgiunta dalla situazione politica: il
6 marzo 1821 in Piemonte scoppia una rivolta, che nonostante gli accordi presi con Carlo Alberto, fallisce:
Manzoni scriverà Marzo 1821, in cui immagina che l’esercito sabaudo abbia già varcato il Ticino per unirsi
agli insorti lombardi contro gli austriaci. La notizia della morte di Napoleone, avvenuta il 5 maggio 1821
nell’esilio di Sant’Elena, porterà Manzoni a scrivere una nuova ode Il Cinque Maggio: il testo presenta
un’affinità con la Pentecoste, hanno fatto parlare di un vero “inno sacro” fuori dagli Inni Sacri e di un testo
in cui Manzoni si pone con rispetto e orgoglio nei confronti del protagonista rivendicando la propria
autonomia di giudizio, senza nascondere la propria ammirazione. Manzoni prende la parola quando
Napoleone è trapassato “Ei fu”, dichiara di non aver mai seguito le adulazioni che accompagnarono la sua
ascesa al potere e di aver osservato in silenzio. La novità del testo è costituita dalla rappresentazione di
Napoleone, in particolare in quella soggettiva della solitudine a Sant’Elena. Del tutto nuova è l’introduzione
della Provvidenza, celebrando nella persona del condottiero, il trionfo della Fede, che piega ai piedi della

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Croce colui che aveva dominato tutta l’Europa. I promessi sposi sono l’opera che possiede la carica
innovatrice nei confronti della tradizione letteraria italiana. Manzoni trova nel romanzo lo strumento ideale
per tradurre in atto i principi che ispiravano la battaglia romantica per un rinnovamento della cultura
italiana in senso moderno. In primo luogo, il romanzo risponde alla poetica del “vero”, dell’”interessante” e
dell’”utile”, consente di rappresentare la realtà senza astrazioni e gli artifici convenzionali propri della
letteratura classicistica; si rivolge a un più vasto pubblico, perché attraverso un linguaggio accessibile,
suscita l’interesse del lettore comune. In secondo luogo, il romanzo permette allo scrittore di esprimersi in
piena libertà, senza lottare con regole arbitrarie imposte dall’esterno. Nel romanzo sceglie di rappresentare
una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica: sceglie come protagonisti due semplici popolani della
campagna lombarda e rappresenta le loro vicende in tutta la loro profondità e tragicità. Il personaggio è
rappresentato in rapporto organico con un ambiente e momento, in modo che nessun suo pensiero, si
possa comprendere se non riferito a quel preciso terreno storico. Manzoni rappresenta individui dalla
personalità unica, inconfondibile. Il poeta sceglie il romanzo storico, una forma che in quel momento gode
di larga fortuna presso il pubblico europeo, a causa del successo dei romanzi storici di Walter Scott. Con I
promessi sposi si propone di offrire un quadro di un’epoca del passato, ricostruendo tutti gli aspetti della
società. I protagonisti sono personaggi inventati, quelli di cui la storiografia non si occupa. Manzoni adotta
un espediente della tradizione letteraria, che gli permette di garantire la veridicità della storia raccontata:
nell’Introduzione, il racconto è anticipato da una digressione teorica sugli effetti della Storia, che egli finge
ricopiata da un manoscritto secentesco, un “dilavato autografo” di cui non menziona l’autore, non dà
indicazioni possibili per il ritrovamento. La società di cui Manzoni vuole fornire un quadro nel suo romanzo
è quella lombarda del Seicento sotto la dominazione spagnola. Manzoni si colloca nei confronti del passato
con l’atteggiamento dell’illuminista, nel cogliere l’irrazionalità, ingiustizie. Manzoni risale al passato per
cercare le radici dell’arretratezza in cui si trova l’Italia presente e attraverso la critica della società del
Seicento, offre alle nascenti forze borghesi il modello di una società futura da costruire. La società che
Manzoni vagheggia dovrà ispirarsi sia al liberalismo borghese sia ai principi religiosi del cattolicesimo: solo
così potrà evitare le degenerazioni giacobine, violente, già sperimentate durante la Rivoluzione francese. La
vicenda prende avvio da una situazione iniziale di serenità: i due promessi sposi nel loro villaggio sulle rive
del lago, vivono una vita serena, segnata dalle gioie domestiche, le pratiche religiose e il lavoro. In realtà
questa situazione è solo apparente: la condizione dei due giovani è già insidiata, Renzo e Lucia sono
strappati dalla loro vita tranquilla e immersi nel flusso turbolento della storia. La loro vicenda si configura
come un’esplosione del negativo della realtà storica: Renzo sperimenta il male nel campo sociale e politico,
Lucia nel campo morale; ma attraverso questo si compie la loro mutazione. Le vicende dei due protagonisti
disegnano una sorta di “romanzo di formazione”. I due percorsi sono tuttavia diversi, infatti Renzo ha tutte
le virtù che per Manzoni sono proprie del popolo contadino; il suo percorso di formazione consiste nel
giungere ad abbandonare ogni velleità d’azione e a rassegnarsi alla volontà di Dio, e la formazione si attua
con le due esperienze della sommossa e della Milano sconvolta dalla peste. Al contrario, Lucia ha la
consapevolezza della vanità dell’azione per dono divino, in lei c’è un rifiuto alla violenza, un abbandono
fiducioso alla volontà di Dio. Sembra che non debba imparare nulla, ma in realtà Lucia appare prigioniera di
una visione ingenua della realtà, le manca quella consapevolezza del male. Attraverso le sue peripezie e
sofferenze, arriva alla comprensione che le sventure si abbattono anche su chi è “senza colpa”. La
“promessa” è un tema fondamentale, perché concentra l’attenzione sui due protagonisti cui affida la
morale, il “sugo” di tutta la storia, che viene suggellata dal personaggio di Lucia. Inoltre, possiamo definire il
romanzo, un romanzo “senza idillio”. Definisce I promessi sposi “romanzo della Provvidenza”: Renzo e Lucia
hanno una concezione della Provvidenza, per loro Dio interviene infallibilmente a difendere e a premiare i
buoni e a garantire il trionfo della giustizia. Manzoni al contrario, afferma che solo in un'altra vita vi è la
certezza che i buoni saranno premiati ed i malvagi puniti. Nella sfera terrena la volontà divina può infliggere
sventure e sofferenze ai giusti; per l’autore la provvidenzialità consiste nel fatto che la sventura fa maturare
in essi virtù e consapevolezza. Per quanto riguarda l’ironia, nel romanzo essa può investire i personaggi del
romanzo; si tratta di un’ironia che segna la distanza dal colto narratore dalla gente umile e si tratta sempre

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di un’ironia affettuosa; se nei confronti degli umili l’ironia è bonaria e paterna, nei confronti dei potenti
essa si trasforma in sarcasmo impietoso. Del romanzo Manzoni ci ha lasciato tre redazioni:

1. Gli sposi promessi


2. Fermo e Lucia (1827)
3. I promessi sposi (1840-42).

Tra le due edizioni (quella del 1827 e quella del 1840): vi sono differenze linguistiche; il Fermo e Lucia
presenta differenze profonde, tali che hanno fatto parlare di un “altro romanzo”; per quanto riguarda i
personaggi, nel Fermo e Lucia essi hanno una fisionomia diversa da quella della redazione definitiva, ad
esempio il Conte di Sagrato che corrisponde all’innominato; nel Fermo ricorre molto al documento storico,
nei Promessi sposi questo materiale è ridotto; nel Fermo vi sono posizioni critiche, mentre nei Promessi
sposi le posizioni dell’autore sono sfumate; nel Fermo vi è una contrapposizione tra bene e male, nei
Promessi sposi invece positivo e negativo sono più vicini. Per un tipo di opera come quella che Manzoni
concepiva, non poteva essere usata la lingua della tradizione letteraria, aulica e difficile. In un primo
momento, iniziando il Fermo, egli si orienta verso una lingua di compromesso, formata da un fondo di
toscano letterario; ma già dopo il 1824 nel rivedere il testo, rinuncia a questa lingua e si orienta verso il
toscano e scopre concordanze tra i modi toscani e quelli degli altri dialetti. Il suo viaggio a Firenze del 1827
(“risciacquatura in Arno”) è importantissimo poiché giunge alla soluzione definitiva del problema della
lingua: la lingua italiana unitaria, quella da usare nella letteratura deve essere il fiorentino delle persone
colte.

GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nato a Recanati nel 1798, primogenito di una famiglia di nobili condizioni. Al padre per
improvvidi investimenti era stata interdetta l’amministrazione della casa, trasformando la madre Adelaide
Antici, in un capofamiglia e la biblioteca di casa era una zona in cui esercitare la giurisdizione letteraria,
imposta a Giacomo e agli altri due figli. La biblioteca di Recanati sarà il luogo di studio intenso; infatti,
studia da autodidatta imparando sia le lingue moderne che quelle antiche. Comincia a comporre versi e a
tradurre, il primo poemetto che ha tradotto aveva 17 anni, la Batracomiomachia (lotta dei topi e delle
rane). Nel dibattito tra classicisti e romantici, Leopardi non avrebbe potuto prendere una posizione diversa
da quella in effetti presa, nell’opera Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica mette a fuoco
alcuni capisaldi del suo pensiero, a partire dalle ragioni e dalle possibilità di esistenza di una poesia in
un’età impoetica come quella settecentesca, dominata da un orientamento razionalistico che mina alla
base il sistema di poesia immaginativa. Per la sopravvivenza della poesia vi è la necessità di non poter più
comporre poesia sentimentale, condizione che Leopardi non pratica direttamente, ma che condanna come
uno dei frutti dello spirito romantico. In che modo l’uomo moderno può rimanere con la poesia vicino alla
natura, pur avendo perso le condizioni di purezza e meraviglia che garantivano tale rapporto? Una prima
strada sarà rappresentata dalla finzione dell’antichità; la seconda strada parte dalla constatazione che lo
stato che più si avvicina a quella stupefazione dell’antichità è il tempo dell’infanzia, per mezzo di una poesia
della memoria. Con questo programma è inevitabile che la prima produzione poetica sia un’effusione
sentimentale scaturita da un incontro sconvolgete incarnato dalla cugina di Monaldo, Geltrude Cassi, ospite
a Recanati, che provoca il primo sconvolgimento della passione amorosa di Giacomo, domata dall’analisi in
prosa di quegli stati d’animo riversati nel Diario del primo amore. Il primo amore viene pubblicata
parzialmente nel libro dei Versi del 1826 e poi nei Canti del 1831. In tale scritto emergono l’originalità e
l’innovazione del suo itinerario poetico, da una parte la poesia antica (“pellegrina”) e la poesia della
memoria (“vaga”). Condanna la riduzione della poesia al registro del sentimentale e del patetico, tipico dei
poeti moderni nell’impossibilità di fare poesia immaginativa, rivendicando istanze politiche e civili. Tali
istanze nascono dalla costante lettura dei classici e dall’incontro che segnerà la propria biografia con Pietro
Giordani, con il quale inizierà un lungo rapporto epistolare. Sull’Italia scaturisce dall’esortazione di Giordani
e dalla volontà di dare all’Italia una poesia di alta eloquenza e di impegno civile e politico che mancava nel

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quadro di una letteratura nazionale. Ancorata alla tradizione petrarchesca, la poesia sviluppa la tradizionale
lamentazione sul contrasto tra il destino passato di gloria e il desolato squallore del presente. Si ribadisce la
rottura con il passato; Leopardi ricorda i caduti delle Termopili e li mette a confronto con gli italiani morti
nella campagna neoplatonica di Russia, al servizio di una patria straniera. Sopra il monumento di Dante è
una meditazione sul sepolcro ancora foscoliana, ma con accenti polemici verso i “perversi tempi”, degli
italiani incapaci di alzare il viso e scuotersi di dosso la dominazione straniera; polemica che sfocia in
un’invocazione sul destino degli “italiani prodi” morti nelle desolate steppe della Russia. L’anno 1819 è un
anno cruciale, suggellato dalla conversione filosofica, cioè il passaggio dal “bello” al “vero”, dalla condizione
“antica” alla condizione “moderna” che rivive individualmente, ma anche da esperimenti poetici
sentimentali, come le due canzonette definite “funerarie”: Per una donna inferma e Nella morte di una
donna. Una canzone dedicata alla giovane Serafina Basvecchi, ammalatesi nel pieno della giovinezza e
l’altra a Virginia Del Mazzo, giovane morta per un aborto clandestino. Leopardi sfida le convenzioni sociali,
riprendendo le proprie riflessioni sul proprio destino di infelicità, condiviso con le giovani vite stroncate, ma
anche sulle forze delle illusioni che giustificano un atto condannato come l’adulterio. Leopardi
nell’immedesimazione critica l’amante, ma non condanna la sventurata. Quelli di Leopardi sono mesi di
sofferenza, a causa della malattia agli occhi, che impedisce la consolazione dello studio. Al compimento del
ventunesimo anno, i disaccordi familiari giungono a un punto di non ritorno e Giacomo architetta un piano
di fuga, chiedendo al marchese Saverio Broglio D’Ajano, amico di famiglia, di procurargli un passaporto per
il Lombardo-Veneto. Prima di abbandonare Recanati lascia una lettera di addio a Carlo e gli consegna una
lettera destinata al padre, ma il padre riesce a evitare la fuga. Il primo idillio scritto da Leopardi è La
ricordanza, è un testo di un anniversario ed è molto probabile che sia stato scritto nel suo ventunesimo
compleanno. In un quadernetto a righe Leopardi scrive i primi tre testi che cambieranno la storia della
poesia italiana: inaugura la poetica del “vago”, metto l’io lirico al centro di una nuova avventura letteraria
che difende la potenza dell’immaginazione e della facoltà poetica destinata a renderla eterna. La
contemplazione di una luna descritta e ricordata scorre per 15 versi: un sonetto privo di rime, ma ricco di
rimandi fonici e ritmici. Qualche mese dopo, da questa contemplazione “idillica”, scaturisce il testo della
poesia L’infinito emancipato dalla rappresentazione di una realtà flessibile e proiettato in una dimensione
metafisica. Questo testo costruito con 14 endecasillabi più un verso di chiusura. La veduta ristretta dal
monte Tabor, chiamato “colle dell’Infinito”, permette al pensiero di estendersi in profondità interiori,
toccando la vertigine di un abisso. Ma il vento che muove le foglie circostanti distoglie l’io lirico
dall’immersione e spalanca alla mente la potenza di una vittoria sul tempo, decreta la vittoria
dell’immaginazione. L’infinito per Leopardi non è solo “una delle illusioni piacevoli, ma il fondamento di
ogni illusione”. Odi Melisso, idillio più canonico e forse meno “leopardiano”. Tutta la serie viene pubblicata
nel volume del Versi del 1826, poi sotto il titolo Idilli. Zibaldone il termine significa mescolanza, mista, un
po' di tutto. Sono riflessioni depositate giorno dopo giorno, riguardanti temi eterogenei, di estetica,
linguistica, poetica, sviluppatesi secondo un percorso individuale e sollecitato dalle osservazioni della
realtà, dalle letture che giungevano a Recanati e dallo studio analitico dei libri della biblioteca. Tra i molti
temi che formano questa enciclopedia del sapere, Leopardi solo nel 1823 comincerà ad organizzarli in indici
tematici. Ciò che differenza Leopardi dagli altri scrittori moderni, è il ruolo assegnato alla poesia e quindi
alla capacità immaginativa, come portatrice di una forma di conoscenza non inferiore, anzi superiore alla
conoscenza scientifica. Sulle pagine dello Zibaldone prende corpo la teoria del piacere, secondo cui il
desiderio umano di un piacere illimitato provoca una condanna all’insoddisfazione. Molto importanti per
l’elaborazione della poetica del “pellegrino” sono le letture di estetica, che portano a sviluppare una
propria “teoria della grazia”. Una poetica non “neoclassica” che non consiste nell’equilibrio delle parti, ma
in una sorta di “disarmonia” tra i vari elementi. Ne deriva la superiorità di quei modi lontani della lingua
corrente che Leopardi chiama “pellegrini” e che si trovano nella sua poesia, fino a modificare la sua
considerazione dei barbarismi, prima ritenuti da rifiutare, ora invece termini da accogliere. Le pagine delle
Annotazioni costituiscono una dichiarazione di poetica: alla lingua “pellegrina” si affianca un’altra forma di
nobilitazione della lingua letteraria, che acquisisce tanta eleganza quanto più riesce a sfumare, evocare,

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alludere: una lingua “vaga”. Leopardi distingue le parole che costituiscono la lingua “vaga”: una lingua
capace non tanto di rappresentare la realtà, ma di esprimere la sua finzione, alternativa alla realtà e
indefinita, sia spaziale che temporale, perché destano un’idea senza limiti e saranno sempre poeticissime.
Sul quadernetto napoletano, Leopardi torna a scrivere La sera del dì di festa, idillio in cui il sentimento di
una passione non ricambiata si fonde con il dolore; poi nel 1821 con Il sogno la messa in scena di un sogno
vero e proprio, in cui la passione amorosa viene dissolta nella dolcezza del ricordo; e La vita solitaria,
un’ampia escursione in endecasillabi sciolti nelle varie parti della giornata, che ribadisce la
condanna/necessità per il poeta di isolarsi per potersi obliare nel mondo. Ultimo canto di Saffo Saffo è una
figura tragica da cui scaturisce una nuova poetica e che consegna al libro delle Canzoni il suo testo più
celebre. Da un lato canzone filosofica, dall’altro elegia, intreccia alla lingua pellegrina quella vaga. Il volume
del libro delle Canzoni, ha sette canzoni tradizionali sotto nella forma del metro classico, costruite con un
linguaggio “pellegrino”, animate da una oraziana poetica degli “ardiri”, eleganze del discorso provocate
dalle inversioni, dagli usi rari e ricercati, dalle metafore, che rinnova classici come Orazio e Virgilio, chiuse
da una liquidazione del classicismo montiano. Un libro quindi antimontiano in quanto anticlassicista, cioè
innovatore, anche nel disequilibrio tra poesie e prosa. Il 1822 è l’anno del primo viaggio di Leopardi fuori di
Recanati. Va a Roma dallo zio Carlo e rimane deluso dal primo confronto con la realtà, ha per la prima volta
la consapevolezza della vita vera. Tornato a Recanati, stende l’ultimo che testo che concluderà il libro delle
Canzoni: la canzone Alla sua Donna, un capolavoro di poesia in cui Leopardi riassume i temi fondativi del
suo “sistema” e attinge a Platone, Dante e Petrarca. Un inno d’amore per giustificare l’impossibilità di una
canzone amorosa. Un testo nuovo, che abbandonala poetica del “pellegrino” e con cui suggella il congedo
della poesia. Operette morali libro di 24 prose, per lo più dialoghi; vengono composte durante tutto il 1824,
dalla Storia del genere umano al Cantico del gallo silvestre, al ritmo di una/quattro al mese. Vengono
toccati tutti i punti chiave del suo “sistema”. Una collezione di testi che Leopardi ha voluto pubblicare nello
stesso ordine in cui erano stati composti, con due sole eccezioni: il Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare anticipato al Dialogo della Natura e di un islandese e il Dialogo di Timandro ed Eleandro,
spostato in posizione finale. Il Dialogo della Natura e di un islandese funge da spartiacque tra i testi; in un
dialogo serrato tra un islandese in fuga e la Natura, donna gigantesca “bella e terribile”, trovano spazio i
temi sviluppati nello Zibaldone: la rinuncia al conseguimento della felicità, l’impossibilità di sfuggire il
dolore, l’estraneità della Natura a questo destino di sofferenza. Il primo tema affrontato è quello della
constatazione della “vanità della vita” e dell’”infelicità degli uomini”. La tenacia dell’Islandese nel cercare di
procurarsi minore infelicità lo spinge a una misantropia, all’abbandono del gruppo umano per sfuggire ai
danni provocati dalla vita collettiva, ma senza risultato. La decisione di cambiare luoghi, non ha alcun
effetto, anzi rafforza nell’Islandese la convinzione dell’infelicità della propria sorte e della potenza della
Natura. Leopardi muove un atto di accusa e segna la differenza tra il suo “sistema” e la filosofia senechiana.
Le frustrazioni dell’Islandese nel fuggire i mali inflitti dalla Natura, sono una smentita dello stoicismo.
Attraverso la risposta della Natura alla “protesta” dell’Islandese, Leopardi espone il terzo elemento cardine
della sua riflessione: la necessità del male. Il mondo non è fatto per l’uomo, la sua felicità o infelicità non
sono provocate da azioni volontarie, ma da un principio continuo di produzione e distruzione, che è garante
della stessa esistenza del mondo; un principio presieduto dalla Natura, ma non costruito intorno all’uomo.
Successivamente va a Milano, a Bologna e poi a Firenze, qui si avvicina a un gruppo di letterati ma non ci si
trova; dopo Firenze va a Pisa e ricomincia a scrivere, animato dalla nostalgia della sua città, odio e amore
per Recanati. Nei canti pisano-recanatesi ne fanno parte: Risorgimento in cui Leopardi intona un Inno
profano per un’autobiografia in versi in cui celebrare il precipitare dell’animo nella disperazione all’interno
di un destino di infelicità. L’altro canto è A Silvia, dove quegli inganni del cuore prendono le forme di
un’illusione amorosa e dietro un personaggio forse reale, un archetipo di bellezza femminile e della poesia.
Questo canto scaturisce da una dimensione autobiografica, dalle rimembranze borghigiane sollecitate dal
paesaggio pisano e dalla potenza della poesia come ricordo e felicità del momento del “canto”. La nuova
disposizione al “canto” si esprime attraverso l’invenzione narrativa di un personaggio delicato che fornisce
al poeta un alter ego della disillusione e della morte delle speranze insieme con quella della giovane donna.

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Sono invece scaturite dal soggiorno a Recanati le altre poesie che costituiscono il secondo nucleo dei Canti
pisano-recanatesi e che vengono composte nel 1829 con il ritmo di una/due al mese: La quiete dopo la
tempesta, il Sabato del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto per ultimo.
Con il Canto notturno, il più sconsolato prodotto del “pensiero poetante” leopardiano, in cui la dimensione
metafisica dell’Islandese è riproposta in un deserto dell’Asia e nel dialogo (muto) tra un pastore e la luna. I
due testi, La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio fungono da risposta alle molte domande poste
dal Canto notturno. Nella Quiete Leopardi tenta di presentare l’esistenza del male come una condizione
necessaria per poter vincere la noia e sperimentare il sollievo. Il Sabato del villaggio, è il giorno in cui tutta
la comunità si agita nell’aspettazione della festa, adempie alla stessa funzione nello spazio collettivo e in
una dimensione temporale proiettata nel futuro. Sono gli anni della passione amorosa per Fanny Targioni
Tozzetti. Mal ricambiato da questa donna, disilluso per l’ennesimo inganno amoroso, Leopardi le dedica le
più aspre e sentimentali poesie, scritte dal marzo 1832 al settembre 1833: il ciclo di Aspasia, dove la poesia
riveste nuclei di puro raziocinio nichilista, in un alternarsi di illusione e disillusione: Consalvo, Il pensiero
dominante, Amore e Morte, A sé stesso, Aspasia. Ciascuno di questi testi sviluppa una diversa gradazione
dell’esperienza amorosa: con Consalvo Leopardi sperimenta ancora i toni più sentimentali dell’idillio Il
sogno, mettendo in scena un incontro impedito dalla condizione dell’amante, dichiarandosi all’amata sul
letto di morte. Con Il pensiero dominante cambia passo, offrendo ai lettori una discesa nelle profondità
dell’essere, riconosciuto capace di palpitare e a cui l’esperienza amorosa dona la capacità di vedersi, come
in uno specchio. Con Amore e Morte, sviluppa amore e morte in un'unica entità: la morte si offre al poeta
nelle vesti di una bellissima fanciulla e l’amore è visto come disciplina che mostra la morte come
liberazione; Leopardi con toni eroici si dichiara pronto ad accogliere, in un ultimo appuntamento amoroso,
la “Bella Morte”. A sé stesso rivolgendosi al cuore, condanna i suoi ultimi inutili palpiti, maledice la natura
che quell’amore continuava ad alimentare, solo per poter disprezzare chi se ne nutriva. Tornando con
Aspasia, dieci anni dopo, nel 1823 con Alla sua Donna animata ora da una disillusione e dalla volontà di
raziocinio sentimentale. Leopardi recupera la dimensione platonica che lo aveva portato a rivolgersi all’idea
della “sua Donna”, un inno tanto appassionato quanto ignoto: l’amore, estremo inganno, è rivolto solo
all’idea amorosa che si è incarnata in terra e che adesso l’amante può finalmente rinnegare affidando alla
poesia il compito di registrare la resistenza a questa sconfitta. In contemporaneo a questi anni stringe
amicizia con un napoletano Antonio Ranieri, si trasferisce così a Napoli e ci rimane fino alla morte, muore a
Napoli ed il suo corpo nemmeno da morto torna a Recanati. A Napoli compone gli ultimi canti, tra di essi
spicca La Ginestra, quando la scrive è un momento di accesa polemica contro il mondo del suo tempo, con
idee progressiste e ottimiste. Nella Ginestra, canzone di 7 strofe ribadisce la necessità della poesia di farsi
portatrice di una disincantata cognizione del vero. Sullo sfondo del vulcano minaccioso (il Vesuvio) e di un
paesaggio desolato, proietta l’umile fiore del deserto (la ginestra), sviluppa la metafora delle “magnifiche
sorti e progressive” dell’uomo, costantemente minacciato dalla natura ostile. (Vi afferma che gli uomini
sono legati da un medesimo destino che è l’infelicità quindi devono aiutarsi, devono unirsi per cercare di
resistere alla natura. Ad esempio, se uno decide di suicidarsi, spezza la catena e per sé stesso avrà risolto,
mentre gli altri ne risentono, perché spezzando la catena il suo anello se ne va ma gli altri anelli che
rimangono sono più deboli e in questo modo ha aumentato l’infelicità perché ci saranno persone che
soffriranno per la morte di quell’uomo. In questo modo viene spiegato il concetto della social catena.)
Leopardi muore nel 1837 dopo un’esistenza molto sofferta.

CARLO PORTA (1775-1821) E GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI (1791-1863)

Nella prospettiva di una mappatura della geografia letteraria italiana plurilinguistica e pluricentrica, spinte
centrifughe rispetto al filone letterario centrale in lingua italiana sono impresse da autori che
consapevolmente usano il dialetto come arma nei confronti della tradizione letteraria classicista.

L’anticlassicista Porta, insieme con Belii, rappresenta un momento essenziale e artisticamente dei più alti,
del primo Romanticismo italiano. Egli ha saputo descrivere alcuni aspetti della vita contemporanea in

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quadri ricchi di sfumature, animati da uno spirito che non si può chiamare satirico se non dimenticando
l’indefinibile umanità del grande poeta, per il quale il maggiore interesse fu quello di ritrarre la vita in tutta
la sua potenza e in tutta la sua varietà contraddittoria. La qualità fondamentale della sua poesia è la vitalità
gagliarda e comunicativa. Di spirito di romantico e di verista, Porta aveva una innata tendenza alla
concezione ben equilibrata dei classici, perciò fu insieme romantico e classico. L’uso in poesia del suo
dialetto, liberandolo dal peso della tradizione anti-realistica dell’alta letteratura italiana, gli fece imboccare
subito la via che il nostro Romanticismo doveva trovare solo più tardi: un realismo corposo e risentito.
Mentre Manzoni avvertiva l’imperativo romantico, di affrontare la vita attuale, ricorrendo comunque al
compromesso del romanzo storico, Porta assumeva a protagonisti della sua poesia preti, nobili e prostitute
del suo tempo, trovando i suoi don Rodrigo nella vita quotidiana, non nella storia dei due secoli prima.
Quadro dei costumi, ritratto. Ci lascia l’immagine della Milan della Rivoluzione francese e della reazione
austriaca, osservata nelle sue tre classi: clero, nobili e popoli. Il modello di Porta permette a Belli di
abbracciare la causa del dialetto come veicolo di una poesia comica ma allo stesso tempo alta, in funzione
anticlericale e antinobiliare. A un’inclinazione politica più filo-rivoluzionaria fa eco la voce dell’anonimo
popolano che assolve a una necessità di spersonalizzazione e di deresponsabilizzazione dell’autore.

IPPOLITO NIEVO (1831-1861)

Scrittore e patriota, visse intense esperienze intellettuali e militari con una forte volontà di presenza nella
vita pubblica. I suoi molteplici scritti mostrano la ricerca di un modello positivo di comportamento morale e
politico, e insieme un netto rifiuto del Romanticismo sentimentale, c’è in lui un’esigenza di maturità virile,
di vigore intellettuale, che realizzò partecipando come soldato al seguito di Garibaldi all’impresa dei Mille.
La sua opera più famosa, il romanzo Confessioni di un italiano, è un imponente affresco di un’epoca, una
grandiosa saga del Risorgimento italiano, che attesta una caratteristica inconfondibile della poetica di
Nievo: la varietà delle voci e degli spazi, degli elementi narrativi e linguistici, degli stili e delle intonazioni,
che Nievo vi assume nello sforzo di riprodurre in tutta la gamma delle sue sfumature possibili la
molteplicità inesauribile del reale. Esso rappresenta il ponte di passaggio tra il romanzo storico del primo
Romanticismo e il romanzo realistico-veristico del secondo Ottocento. Diviso in ventitré capitoli, ciascuno
preceduto da una sintetica rubrica. L’insieme costituisce l’autobiografia immaginaria di Carlino Altoviti, le
cui vicende personali si intrecciano con gli eventi politici, dalla caduta della Repubblica di Venezia alla
dominazione francese, alla Restaurazione, alle cospirazioni e alle battaglie del Risorgimento, fino al 1858.
L’importanza storica del romanzo, tra i Promessi Sposi e i Malavoglia, sta nel tentativo, anche se solo in
parte riuscito, di fondere l’interesse storiografico con lo psicologico. Al suo realismo sfumato nella fiaba
guardò con vivo interesse molta narrativa contemporanea.

I Versi → ideale di utilità che anima la scrittura poetica con l’obiettivo dichiarato di una restaurazione civile
e morale, perseguito attraverso una denuncia della realtà contemporanea.

Entro il costante programma di intervento di Nievo nella cultura contemporanea anche il teatro gioca un
ruolo importante. Consapevole della forza dello strumento per la trasmissione immediata di ideali e valori
su un pubblico allargato, Nievo si impegna subito nella scrittura teatrale esordendo con Gli ultimi giorni di
Galileo Galilei., incentrandosi sulla figura di Galilei come ere del pensiero, disposto anche al compromesso e
all’abiura.

EPOCA 10

LA LETTERATURA DELLA NUOVA ITALIA

INTRODUZIONE

Nel 1861 viene proclamato il Regno d’Italia. Il nuovo regno mette insieme aree assai diverse tra loro, a
partire dagli assetti politici ed economici distinti e dalle conseguenti divergenze dal punto di vista sociale. La

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classe dirigente ha promosso un progetto moderato, che ha impedito il coinvolgimento diretto dei ceti
subalterni nel processo unitario. Una questione difficile del Regno d’Italia era il Meridione, nel quale vi era
ancora un assetto economico di impronta feudale. La Destra storica si occupa di conquistare la penisola, dal
1879 il governo passa alla Sinistra storica, che ha il compito di risolvere le difficoltà socioeconomiche del
paese, come ad esempio il pareggio del bilancio. Nel frattempo, il quadro politico si radicalizza: si
diffondono teorie rivoluzionarie anarchiche e nel 1882 sorge a Milano il Partito operaio italiano, che
diventerà nel 1895 il Partito socialista italiano. Nasce così nel 1882, il trasformismo italiano, cioè la
tendenza dei parlamentari di destra e di sinistra ad accordarsi tra di loro per isolare le forze antisistema e
allontanarle alle ali estreme per evitare che arrivino al potere. Nel Meridione alcune riforme del governo
come la leva e due anni di scuola obbligatori, erano viste negativamente, in quanto privavano della forza
lavoro. Nasce il brigantaggio come opposizione al nuovo Stato. In Italia l’80% della popolazione era
analfabeta e l’introduzione dei 2 anni di scuola obbligatori fu inutile, in quanto la scuola ai suoi livelli
primari veniva lasciata alla responsabilità dei poteri locali, che spesso non avevano risorse necessarie per
garantire un’adeguata formazione di base. Grazie all’unificazione italiana nasce la questione della lingua, in
quanto l’italiano non era usato nel parlato; perciò, era necessario consolidare l’uso della lingua italiana non
solo in ambito letterario. Abbiamo 2 soluzioni: Manzoni pensava che i maestri fiorentini dovessero andare a
insegnare nelle varie regioni italiane; mentre Ascoli proponeva il modello della lingua dinamica, ovvero
utilizzare nell’italiano anche caratteristiche dei dialetti. Infatti, il processo di estensione dell’italiano è
avvenuto dal basso e in modo indiretto per l’impulso delle forme di autoorganizzazione operaia e
contadina. Appare evidente che emigrazione dal Sud verso il Nord e la leva obbligatoria su base nazionale
hanno potenziato l’adozione diffusa di una lingua unitaria. La diffusione del giornalismo è il segnale del
diretto coinvolgimento degli intellettuali nella vita culturale del paese. Tutti i letterati italiani del secondo
Ottocento partecipano infatti al mondo del giornalismo, in quanto è un modo che garantisce un provento
economico, con la progressiva professionalizzazione della scrittura, che rende economicamente autonomi
gli scrittori. Vi sono 3 correnti culturali in questo periodo: -L’esperienza poetica di Carducci, in cui il
classicismo si concilia con l’interesse verso i contenuti moderni e con la vocazione all’intervento politico
diretto. Si tratta dell’espressione di un progetto che tenta di affidare al poeta il ruolo di vate, ossia di
interprete dell’identità nazionale, capace di leggere i destini collettivi e di mostrarli alla coscienza di tutti. -Il
verismo è la forma italiana del naturalismo, ma con sfondo sociale differente. La scientificità si manifesta
solo nella forma artistica, nella maniera con cui l’artista crea le sue figure. Questa maniera si riassume nel
principio dell’impersonalità dell’opera d’arte, tramite l’eclissi dell’autore. L’esponente di questa corrente è
Verga.

LA SCAPIGLIATURA

La Scapigliatura è la reazione italiana al naturalismo e al verismo. È composta da un gruppo di scrittori che


opera tra il 1860 e il 1870 a Milano. Sono accomunati da un’insofferenza per i principi e i costumi della
società borghese e da un impulso di rivolta. Sono i bohémien italiani. Il dualismo che caratterizza gli
Scapigliati è costituito da: la repulsione verso la modernità; infatti, si aggrappano ai valori del passato
(bellezza e arte), ma allo stesso tempo si rasserenano perché sono ideali passati. Inoltre, recuperano i temi
del romanticismo nero. La Scapigliatura non si afferma come innovazione perché la metrica utilizzata è
ancora come quella manzoniana. La Scapigliatura è un movimento letterario della seconda metà dell’800,
che ebbe i suoi centri a Milano e Torino. Il termine prende il nome dal titolo del romanzo pubblicato da
Carlo Righetti, con lo pseudonimo di Cletto Arrighi, "La scapigliatura e il 6 Febbraio" (1862). I suoi
rappresentanti, oltre Arrighi, furono Praga, Tarchetti, Pisani, Dossi, Camillo e Arrigo Boito, Camerana e il
pittore Cremona. L’ambiente sociale in cui si colloca è quello della nascente società industriale, della
frenetica vita cittadina, in cui è presente la contrapposizione tra una borghesia avida di denaro e potere e la
nascente classe operaia. In tale contesto l’intellettuale avverte la necessità di allargare il raggio delle sue
esperienze ed è altrettanto consapevole d'avere perso il suo tipico ruolo di guida o d'interprete del
movimento sociale, che gli appare sempre meno razionale e omogeneo e sempre più complicato e caotico.

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I suoi temi e gli atteggiamenti di contestazione tradiscono il disagio di un ceto intellettuale che non si
riconosce più nei valori della cultura positivista, fiduciosa nelle conquiste della scienza e del progresso. La
società moderna e di massa che nasce dalla rivoluzione industriale appare in tutto il suo carattere
alienante, vincolate alla legge del successo e del profitto, ridotta ad una vita d’abitudine conformistica e di
ottusità. Per questo il movimento polemizza contro la classe politica, ritenuta indegna moralmente per la
corruzione ed infedele ai grandi valori di libertà e giustizia del Risorgimento, ma anche contro la letteratura
e l’arte, considerate lontane dalla realtà della vita e bisognose di una totale rifondazione nei principi e nei
metodi. Si preferirono le tematiche: della vita bruciata dal vizio; del rifiuto della normalità borghese;
drammi quotidiani dell’esistenza emarginata dei barboni e degli artistoidi delle periferie delle nuove
metropoli industriali. Non a caso gli atteggiamenti tipici furono l’antiaccademismo, la ribellione alle
convenzioni borghesi, l’ostentato anticonformismo, il gusto della trasgressione e della provocazione. Questi
atteggiamenti ribelli comunque influivano più sui comportamenti esistenziali e sociali degli artisti che sulla
portata innovativa delle loro opere, che finirono solo col tradurre in termini sentimentalistici e leziosi i temi
del romanticismo francese, del quale vengono assorbiti gli aspetti più
superficiali. Gli scapigliati sono giovani ribelli e anticonformisti, che hanno come modello l’artista
"bohèmien", povero e ignoto, che vive alla giornata. La volontà di scandalizzare è all'origine dei loro
atteggiamenti sregolati (spesso sono drogati o alcoolizzati) condivisi con i
francesi Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. Quindi il gusto per la polemica non rimane confinato nella teoria
dei libri, ma diventa vera e propria esperienza esistenziale, che ostenta atteggiamenti di provocazione e
sregolatezza. Tra i bersagli della polemica degli scapigliati c’è il Romanticismo e soprattutto quella
produzione modesta che il De Sanctis definisce "Arcadia romantica" e che è l'ultimo tentativo di riproporre
i valori romantici declassandoli, stemperandoli; il sentimento dà luogo al sentimentalismo e a una
letteratura patetica (Prati e Aleardi). La Scapigliatura è proprio la reazione all'Arcadia romantica e al
romanticismo, e testimonia il disagio degli intellettuali di fronte alla delusione storica e di fronte al processo
di industrializzazione portatore solo di valori economici. Un altro degli obiettivi polemici è Manzoni che si
trasforma in una sorta di simbolo di tutto ciò che gli scapigliati rifiutano. Manzoni rappresenta anche il
modello di "intellettuale organico", che diede omogeneità e consapevolezza della propria funzione
elaborando un proprio progetto culturale, aderendo alla realtà politica e sociale, con l’intento di
trasformarla secondo gli ideali, liberali, di dignità e indipendenza nazionale, attraverso una militanza morale
insieme meditativa e operativa. Tutto questo viene rifiutato dagli scapigliati che si sentono inadeguati ad un
ruolo di guida in un mondo che rifiutano e contestano. Da questo rifiuto generale per il loro contesto
storico-sociale, deriva la necessità e il bisogno di apertura a nuovi temi fino ad allora inesistenti nella
letteratura italiana, e da qui l’apertura alla produzione francese. Gli scapigliati intuiscono il valore
del naturalismo francese e della sua descrizione oggettiva ed impersonale dei fenomeni individuali e
collettivi; per lo stesso motivo riprendono quegli aspetti irrazionali, fantastici, macabri del Romanticismo
europeo rimasti esclusi dalla tradizione italiana. Hanno allargato il canone romantico del vero,
rappresentando vicende comuni, non mediate dall’interpretazione dello scrittore (come accade in
Manzoni), spesso passionali e torbide (cfr. Tarchetti, Fosca, la storia di una donna brutta e malata che
attrae irresistibilmente un giovane ufficiale), descritte con spietato realismo, anche nello stile. In poesia
riprendono i temi del francese Baudelaire, da cui derivano il modello esistenziale del poeta "maledetto" e il
linguaggio simbolico e provocatorio; riprendono una concezione della poesia fondata non sulla ragione, ma
sull’intuizione dei misteriosi legami della realtà. Poesia, quindi, come attività creatrice che detesta le
regole. Il linguaggio poetico perde la sua oggettività e razionalità, per diventare allusivo, evocativo di
quel mondo enigmatico che suscita in ogni uomo un insieme indistinto di pensieri ed emozioni. Così
collegandosi alla più avanzata cultura europea, gli intellettuali scapigliati introducono in Italia:

• una letteratura non aulica, apertamente antiborghese, di un linguaggio vicinissimo al parlato


popolare;

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• forme poetiche vicine a quelle del Simbolismo aprendo così la via sia al romanzo verista sia alla
cultura decadente. Verga, ad esempio, rimase per anni a Milano e scrisse romanzi di gusto
scapigliato).

GIOSUE CARDUCCI (Pietrasanta 1835 – Bologna 1907)

Nasce il 27 luglio del 1835 e trascorre i primi anni della sua giovinezza nella zona della Maremma, sino ad
approdare a Firenze, dove compie gli studi liceali. Questa prima stagione è condizionata dalla figura del
padre, con il quale Carducci condivide passioni e ideali. Nel 1853 fonda a Firenze il gruppo degli Amici
Pedanti, che testimoniava uno spirito aggressivo e polemico nei confronti della società letteraria del tempo,
in particolare contro il manzonismo, in nome di una difesa della cultural classicista. Terminati gli studi
universitari Carducci ottiene incarichi di insegnamento, fino alla cattedra di Eloquenza Italiana presso
l’ateneo di Bologna. Juvenilia: raccolta di poesie del periodo toscano. Bisogna ricordare che Carducci spesso
allestisce le sue raccolte in base a criteri di affinità tematica e stilistica, per offrire un profilo coerente della
sua poesia. In Juvenilia si avverte un peso decisivo dei modelli della tradizione classica e italiana, sono
presenti temi patriottici, polemici e liriche sentimentali per Elvira Menicucci, che sarebbe diventata sua
moglie. Levia gravia: raccolta di 3 libri, dove si avverte l’influenza del clima bolognese, con una presenza di
temi civili e politici. Si può registrare il peso dell’eco dei modelli classici e della tradizione letteraria italiana.
Giambi ed epodi: nel titolo Carducci esplicita i modelli di riferimento principali, il poeta greco Archiloco per i
giambi e il poeta latino Orazio per gli epòdi, ma allude anche ad alcune raccolte di impronta neoclassica dei
poeti francesi Chénier e Barbier. I temi sono ripresi da questi modelli, ma Carducci cerca anche di imitare il
modulo dei metri classici. I 30 testi che compongono il libro sono caratterizzati da un’intenzione militante,
orientata a commentare le principali occasioni della realtà sociale e politica italiana. Carducci assume la
postura di vero e proprio censore dei costumi e delle decisioni politiche, scagliandosi contro il potere del
papa, ma anche contro le decisioni del governo, su cui grava la responsabilità di aver fatto naufragare gli
ideali risorgimentali. Lo spirito della Rivoluzione francese, un giacobinismo acceso che dovrebbe essere per
il poeto lo stimolo e modello per la società italiana, viene a più riprese esaltato. Intermezzo: raccoglie i testi
scritti tra 1874 e 1886, poi confluiti all’interno di Rime Nuove. È un piccolo poema con dieci capitoli di
quartine di endecasillabi alternati a settenari, nei quali Carducci ironizza su alcune forme letterarie
tardoromantiche, lette come espressioni di una moda ormai del tutto priva di significato. Vi è il
vagheggiamento della natura, riletta attraverso il filtro del mondo classico. Rime nuove: Carducci enfatizza
il rinnovamento, quasi a voler suggerire al lettore un cammino evolutivo del suo fare poesia. Nell’assetto
finale raggiunto dal volume, scandito al suo interno in 9 libri per un numero complessivo di 105 liriche, si
scorge una struttura programmaticamente acentrica e asimmetrica, nella quale il poeta antologizza il suo
mondo poetico, articolato e composito tanto per la straordinaria varietà delle soluzioni formali, quanto per
la ricchezza esibita dal repertorio tematico, che spazia dalla dimensione lirico-sentimentale, alle intense
reminiscenze paesaggistiche, sino alle rievocazioni storiche e a lunghi momenti di riflessione sulla lingua
poetica. Odi barbare: i modelli cui guarda Carducci sono i classici, soprattutto Orazio, contrapposto con
intenzioni polemiche ai poeti greci. Le intitola “barbare” perché così suonerebbero alle orecchie e al
giudizio dei greci e dei romani. La novità carducciana sta nella volontà di riprodurre gli effetti della metrica
classica, basata sulla quantità di sillabe, con un ritmo che ne emula le differenze attraverso il succedersi
degli accenti tonici. Si avvia in questi testi, un recupero del modello oraziano, del quale intende riprendere
il valore etico e conoscitivo della poesia. Rime e ritmi: 29 testi che appartengono all’ultima stagione
carducciana, composti tra il 1887 e il 1899. Sul fronte tematico si osserva la compresenza dei temi privati,
meditati e di impronta lirica, per i quali adotta i metri rimati, e un’istanza politica e celebrativa, a cui viene
riservata la metrica ritmica. Sul finire degli anni Ottanta, Carducci fa scelte politiche che inclinano verso un
conservatorismo filomonarchico, in contraddizione con le scelte giovanili. Nel 1906 vince il premio Nobel
per la letteratura e nel 1907 muore.

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PEDAGOGIA E BORGHESIA

1861, in occasione del primo censimento nazionale emerge il dato di alfabetismo diffuso nel 75% della
popolazione, con divergenza interna al territorio nazionale tra Nord e Sud, di cui è responsabile la politica
della Destra storica. La Sinistra pare affrontare subito 1876 il problema, tramite legge Coppino. Ma il nodo
problematico del sistema scolastico italiano è il carattere profondamente classista. Il mondo dell’istruzione
conosce forte disparità dal punto di vista tanto geografico quanto sociale. → Progetto pedagogico
strettamente legato al progetto di costituire una classe borghese nazionale, in modo da rafforzare il
consenso nei confronti del nuovo Stato. Ruolo significativo degli intellettuali: solo l’istruzione rende liberi.
La scuola rappresenta un campo di confronti tra Stato e Chiesa e il luogo in cui ci si è sforzati maggiormente
di produrre dei discorsi unitari sul senso di appartenenza nazionale degli italiani.

Collodi: Si interessa alla letteratura per ragazzi, ispirato da un progetto didattico. La sua fama è legata alle
Avventure di Pinocchio, a puntate sul Giornale per bambini tra 1881 e 1883, nonché la storia di una
formazione prodigiosa e misteriosa, che trasforma un pezzo di legno animato in un bambino, dapprima
colpevole e successivamente redento. La redenzione passa attraverso un percorso formativo che mette in
scena anche il mondo scolastico. Collodi si muove dentro le coordinate culturali e psicologiche dell’Italia da
poco unita: un mondo a metà tra campagna e città, dove si mescola un orizzonte laico e una attrazione per
il magico e demoniaco; un mondo di cambiamenti improvvisi, tenuto insieme da poche istituzioni essenziali,
tra le quali spicca senza dubbio la scuola, realtà nuova che le giovani generazioni italiane stavano in quegli
anni imparando a conoscere per la prima volta.

De Amicis: Costantemente interessato al mondo scolastico, che è al centro del capolavoro Cuore, del 1886.
Il libro è concepito come il diario scolastico di Enrico, allievo in una scuola elementare di Torino. La cronaca
degli avvenimenti scolastici e domestici, redatta dal bambino, è alternata con commenti inseriti dai genitori
e dalla sorella maggiore, nonché dai racconti mensili che gli vengono dettati direttamente dal maestro.

GIOVANNI VERGA (Catania 1840 – 1922)

Nasce a Catania nel 1840. Si iscrive alla facoltà di legge, ma non la termina e si dedica al giornalismo
politico. I testi su cui si forma sono di scrittori francesi moderni. Nel 1878 con la pubblicazione di Rosso
Malpelo avviene il suo passaggio al verismo. Assume posizioni politiche dure e conservatrici. Allo scoppio
della Prima guerra mondiale era un interventista, nel dopoguerra abbraccia il nazionalismo. Muore nel
gennaio del 1922. Alla base della visione di Verga ci sono posizioni pessimiste. La società è dominata dal
meccanismo della lotta per la vita, per cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. Altruismo e
pietà sono valori ideali, in quanto gli uomini sono mossi dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile e
dall’egoismo. Per Verga la realtà è data senza possibilità di modificarla; perciò, non ritiene legittimo dare
giudizi nelle opere, in quanto inutile e il lettore deve vedere la realtà senza veli. Per questo nei suoi testi è
presente la tecnica dell’eclissi, ovvero il punto di vista di chi racconta è uguale a quello dei personaggi. Il
pessimismo permette a Verga di rappresentare con oggettività le cose. La negatività del moderno è
contrapposta al mito della campagna, della civiltà patriarcale, ma il pessimismo induce a pensare che anche
questo mondo sia retto dalle stesse leggi del mondo moderno. Nedda: composta nel gennaio 1874, si
allontana dalla materia mondana di tutti gli altri romanzi e torna all’ambiente siciliano. L’esito è molto
positivo, l’ambientazione siciliana, la storia d’amore di Nedda per Janu e la sua parabola dolorosa colpisce il
pubblico milanese. A mediare è un breve cappello introduttivo in cui la figura di un narratore introduce la
storia della contadina di Agrigento. Lo sguardo del narratore conserva un tono paternalistico. Ciclo dei vinti.
Verga si sofferma sui vinti della società. Composto da due libri: I Malavoglia un romanzo verista,
contraddistinto dall’espressione del vero con una rappresentazione obiettiva della realtà. Pubblicato a
Milano nel 1881. Trama articolata su 15 capitoli: narra le vicende della famiglia Toscano, detti appunto
Malavoglia, è ambientato ad Acitrezza che rappresenta il paese chiuso e rassicurante. Inizia con la partenza
di ‘Ntoni e si conclude allo stesso modo, ma non è perfettamente ciclico perché non si ricostituisce il nucleo

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familiare. Per Verga il tema principale del romanzo è l’affetto familiare. Un altro tema trattato da Verga è il
mito dell’ostrica: l’ostrica attaccata allo scoglio e nel momento in cui si vuole staccare viene travolta dalle
onde, allo stesso modo i personaggi che tentano di migliorare le proprie condizioni economiche
combattendo una lotta continua per la sopravvivenza, si allontanano dal modello di vita consueto e
finiscono male. Infatti, vediamo che solo quelli che si adattano alla loro condizione possono salvarsi.
Mastro-Don Gesualdo: Gesualdo un muratore che sposa una nobile, ma viene rinnegato dalla famiglia,
perché lo invidia, dalla moglie perché non lo ama e dalla figlia perché si vergogna del suo passato e non è la
sua vera figlia. Con tutto ciò Verga vuol far capire che la scalata sociale non porta alla felicità.

FEDERICO DE ROBERTO (Napoli 1861 – Catania 1927)

La vita coincide con la prima fase dell’esperienza nazionale italiana, con l’opera I Viceré realizza una delle
più severe rappresentazioni delle storture della nuova Italia. Passando per diverse pratiche di scrittura, lo
scrittore siciliano affina la tecnica narrativa dell’impersonalità rafforzando la dimensione interiore dei
personaggi. Il risultato è una narrazione polifonica e poli prospettica, segnata dal conflitto di punti di vista
ed esaltata dal carattere esorbitante e aggressivo dei protagonisti. L’opera di De Roberto finisce così col
proporre una versione lucidamente pessimistica e beffardamente grottesca di quel processo risorgimentale
che intanto si fissava nella retorica nazionalista, destinata a precipitare l’Italia prima nella guerra e poi nella
dittatura. Incentrato sull’aristocratica Teresa, la cui storia d’amore è analizzata attraverso il punto di vista
ristretto del personaggio. La nuova fatica narrativa era invece un romanzo di costume, inteso alla francese
come descrizione dei comportamenti umani riferiti a un ambiente preciso, in questo caso la Sicilia del
periodo dalla conclusione del Risorgimento al 1882. De Roberto interpreta rigorosamente il principio
dell’impersonalità, impedendo ogni identificazione del narratore coi protagonisti. Ne scaturisce un’opera
multi-prospettica, in cui le vicende sono viste e rappresentate attraverso i temperamenti e le ossessioni dei
diversi personaggi- la scomparsa del narratore è solo apparente: sfruttando la “funzione di regia”, ossia la
possibilità di orientare il racconto attraverso il montaggio narrativo, l’autore giustappone i diversi punti di
vista e le diverse ambizioni dei personaggi, facendone emergere l’aggressività e la grettezza. Contro la
retorica nazionale e nazionalista, che riduceva in termini eroici e agiografici la complessa vicenda che aveva
condotto all’Unità d’Italia 1861 e alla conquista di Roma 1870. De Roberto propone la storia di un ambiente
circoscritto e delle sue determinanti ambientali, mostrando sia l’inerzia delle popolazioni locali sia le
responsabilità dei ceti dirigenti.

VERSO LA LETTERATURA DEL NOVECENTO

Gli ultimi anni dell’Ottocento conoscono in Italia una politica di stampo fortemente conservatore. Le
contraddizioni del partito moderato vengono ereditate da Crispi e Giolitti, la cui azione è ispirata al
contenimento dell’avanzata operaia e contadina e mira a un ingresso della nuova nazione tra le potenze
coloniali.

L’Esperienza di D’Annunzio

Gabriele D’Annunzio nasce nel 1863 a Pescara. Fase di formazione. Abbandona l’università per vivere tra i
salotti mondani. Scrive Terra Vergine (1882), un’opera in prosa che si ispira a Verga, ma presenta paesaggi
abruzzesi ed è un mondo idillico, con una natura sensuale, nella quale esplodono passioni primordiali.
Estetismo. Acquista notorietà in campo letterario sia attraverso una produzione di opere che suscitano
scandalo, sia per la sua vita scandalosa. In questa fase rifiuta la mediocrità borghese. Il Piacere è un
romanzo scritto nel 1889, nel quale l’artista Andrea Sperelli con il suo estetismo non riesce ad opporsi alla
borghesia, ciò causa una crisi accentuata dalle donne: Elena Muti, la femme fatale, e Maria Ferres, la donna
pura che funge da sostituto di Elena. A D’Annunzio interessano i processi interiori del personaggio e crea un
romanzo psicologico. Mentre nella poesia di questo periodo, la vita si sottrae alle leggi del bene e del male,
sottoponendosi alla legge del bello. Fase della bontà. La bontà è una soluzione provvisoria alla crisi estetica
ed è influenzato dal romanzo russo di Dostoievtskij. Superuomo. La crisi dell’esteta viene risolta grazie alle

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teorie di Nietzsche del superuomo. Rifiuta il conformismo borghese, in quanto solo in pochi possono
accedere al potere ed esalta lo spirito dionisiaco, che ha lo scopo di affermare sé stessi in ogni modo. In
questo periodo conduce una vita da principe rinascimentale, circondato da opere d’arte e i suoi amori
contribuivano alla sua fama. Il culto della bellezza e il vivere da superuomo erano finalizzati a ciò che egli
ostentava di rifiutare: il denaro e le esigenze di mercato. Nel 1897 tenta l’avventura parlamentare. Nel 1910
fugge in Francia a causa dei debiti e si adatta a scrivere opere teatrali, ma rifiuta il realismo, proponendo un
teatro di poesia che trasfigura la realtà moderna. Allo scoppio del conflitto mondiale tornò in Italia
assumendo posizioni interventiste. Il superuomo reagisce alle tendenze assumendo il ruolo di poeta vate e
una missione politica. Scrive nel 1895 Le vergini delle rocce, nel quale non propone un personaggio debole
e tormentato; infatti, questo è il manifesto politico del superuomo. In poesia nella fase del superuomo
escono: Maia: D’Annunzio inizia a utilizzare il verso libero con rime ricorrenti senza schema fisso. Tratta
della trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia, che rappresenta l’immersione nel passato alla ricerca del
sublime e della bellezza. Il protagonista riemerge nella modernità orrenda, ma piena di potenzialità vitali.
Elettra: parla delle città italiane cadute nell’oblio su cui si deve costruire un futuro. Alcyone: tema lirico
della fusione panica e un atteggiamento di evasione e contemplazione, comprende 88 componimenti. Le
liriche seguono l’ordine della stagione dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre.
La stagione estiva è la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, l’io si fonde con il tutto. Solo la parola
del poeta superuomo può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura e rivelare l’essenza
misteriosa delle cose. Notturna. Il poeta si arruola a 52 anni e attira l’attenzione con imprese clamorose,
combatte la guerra aerea. Nel dopoguerra si fa interprete della vittoria mutilata, si propone come duce ma
viene schiacciato da Mussolini. Aderisce al fascismo e muore nel 1938. Nel 1916 viene composto Notturno,
un’opera autobiografica.

L’Esperienza di Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli nasce nel 1855. Poeta diviso tra ideali risorgimentali e convinzioni religiose popolari, a cui
egli aggiunge una formazione letteraria. Nel 1891 Pascoli pubblica il primo libro di versi, Myricae,
comprende 156 componimenti, preceduti da una dedica al padre Ruggiero e da una Prefazione. La prosa
iniziale chiarisce alcuni aspetti centrali dell’opera, a partire dal motivo luttuoso. Il sentimento della morte è
presente nel libro, come mostrato dai componimenti X Agosto e Il giorno dei morti: per il poeta la morte è il
prodotto degli uomini e della loro violenza, ciò che insidia gli affetti famigliari che si configurano
nell’immagine del “nido”. Di contro c’è la positività della natura, entro la quale il poeta sogna di poter
rifluire. Fanciullino: questa insiste sull’equiparazione tra il poeta e il bambino, che sopravvive al fondo di
ogni uomo e rappresenta la parte umana che vede le cose come per la prima volta con ingenuo stupore e
meraviglia. Il poeta fanciullino: -Deve usare una novella parola, che si sottragga ai meccanicismi della
comunicazione abituale. -Vede le cose in modo alogico, perciò fa sprofondare il lettore nell’abisso della
verità, cogliendo l’essenza segreta delle cose. Il poeta appare come un veggente. -Il poeta non propone
obiettivi morali e civili, quella del fanciullino è una poesia pura, ma pervasa di un’utopia umanitaria. -Gli
argomenti più umili sono ricchi di poesia. -Nei testi di Pascoli prevale la coordinazione, in modo che non ci
sia gerarchia tra le frasi, che sono legate per asindeto. -Mescola codici linguistici diversi. -L’onomatopea ha
valore fonosimbolico, non rimanda all’effettivo significato della parola. Grazie alla sinestesia si fondono
diversi ordini di sensazioni. La metafora è utilizzata per accostamenti di realtà tra loro remote, privandoli di
logica. Altri componimenti sono: i Canti di Castelvecchio, in cui il tema principale è quello delle stagioni
viste come ciclo vitale. Poemi conviviali, poesie dove la citazione di Virgilio viene ripresa alla lettera, infatti
cambia il pubblico, scrivendo un’opera raffinata e vicina all’alessandrinismo. Sono dedicate ai personaggi
mitologici dalla Grecia fino alla prima diffusione del cristianesimo. Hanno un clima estetizzante. Il mondo
antico rappresentato non è immobile e perfetto, ma si carica di inquietudini della sensibilità moderna.
Poemetti, hanno un taglio narrativo divenendo spesso racconti in versi. Ha un rilievo dominante la
campagna. La monotonia della vita contadina è un rifugio rassicurante, al contrario di quello verghiano, è
idillico. Pascoli muore nel 1912.

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