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Alexandra Ilina
Università di Bucarest, Università della Sorbonne Nouvelle – Paris 3
A lungo attribuito a Henri d’Andeli, il Lai di Aristotele, testo la cui brevità nasconde
l’importanza, rimane un rompicapo per gli specialisti, che vi si sono approcciati con
curiosità stimolata dalle sue contraddizioni costitutive. È necessaria un’introduzione
per comprendere meglio le sfide di questo percorso e per precisare le circostanze
filologiche che hanno determinato i contorni della nostra ricerca. Queste circostanze
hanno determinato la scelta del nostro approccio, avendo esaminato i precedenti studi
su questo soggetto e considerandoli troppo focalizzati o, al contrario, troppo
generalisti, presentando così lo svantaggio di prendere il testo eccessivamente alla
lettera oppure di distanziarsene al punto da non distinguerne più le lettere. Ci
immergiamo nella costellazione dei campi semantici che costituiscono il significato
del Lai, per trovarvi quelle relazioni che legano il campo semantico della cortesia al
campo semantico di un aristotelismo, più o meno assimilato, che impregna il testo del
suo profumo discreto. Per fare ciò, studieremo il Lai nella sua testualità, non
limitandoci a leggerlo come frutto dell’influenza dell’aristotelismo, poiché questo tipo
di lettura ricadrebbe nel secondo tipo che abbiamo descritto, dove il ragionamento si
distanzia dal testo scritto e ne forza l’interpretazione verso la sottomissione a un
paradigma dominante. Citeremo le circostanze filologiche ma non ci dilungheremo su
di esse, perché gli studi interpretativi dati al testo, fino ad oggi, non hanno fatto altro
che guardare proprio alle questioni formali, nel caso dell’approccio di Bédier, oppure
alle questioni di competenza della sociologia letteraria. Noi proveremo a metterci alla
distanza giusta per osservare gli incroci semantici e quei punti dove l’ambivalenza del
discorso suggerisce una biforcazione semantica.
Sappiamo bene che il diavolo giace nei dettagli e che bisogna diffidare delle evidenze,
perché possono nascondere delle ombre ingannevoli. Come abbiamo visto, questo
testo, soggetto a datazioni, attribuzioni e interpretazioni così eterogenee da giustificare
l’analisi della storia interpretativa dello stesso, rappresenta un enorme dettaglio
sovversivo nello spazio letterario della sua epoca. Di recente, grazie alle ricerche di
François Zufferey, la paternità del Lai di Aristotele non può più essere attribuita a Henri
d’Andeli. Per quanto riguarda la datazione, è stato datato da Alain Corbellari intorno
al 1235. Di questo chierico parigino, vissuto nella prima metà del XIII sec., ci sono
pervenuti il Dit du chancelier Philippe, elogio del suo protettore, e altri testi scritti in
un registro parodico, il cui tono somigliante a quello del Lai di Aristotele ha potuto
fornire un argomento ulteriore a favore dell’attribuzione del lai. Zufferey, la cui
scoperta è stata riconosciuta valida da Corbellari, dopo la pubblicazione dell’articolo
citato (La voix des clecrs, Corbellari), attribuisce il lai a Henri de Valenciennes,
cronista della prima metà del XIII sec. e continuatore (dell’opera di) Geoffroi de
Villehardouin, in particolare della sua Histoire de la conquête de Costantinople,
proveniente anche lui dall’ambiente clericale. Destinato a un notevole successo
letterario, come ha sottolineato Corbellari nella sua opera sopra menzionata, e a un
successo spettacolare nelle arti visuali, il racconto dell’umiliazione di Aristotele,
situato in una lunga scia di personaggi illustri e rispettabili che si fanno ingannare dalle
loro seduttrici, rompe con la misoginia disseminata nel filone di questa tradizione.
L’Aristotele di questo lai si distingue dai suoi predecessori, incastrati dall’astuzia
femminile, per un certo atteggiamento discorsivo che non solo valorizza la giovane
fanciulla, ma da cui proviene un messaggio che trascende il semplice, e piuttosto
banale, avvertimento contro la malizia femminile, connesso alla riflessione sui limiti
intrinseci della scienza. L’immagine distorta del personaggio principale,
apparentemente contestata nella sua posizione di figura autoritaria che domina il
pensiero di quel secolo, ha dato filo da torcere agli studiosi, che hanno letto nella patina
parodica del testo una prova della sua appartenenza al genere del fabliau e gli hanno
attribuito una leggerezza che non gli è propria, perché dal testo emergono questioni
che pertengono tanto alla figura dell’intellettuale quanto alla commistione delle due
forme di pensiero. A buon diritto, Alain Corbellari sostiene che si debba leggere il testo
come la manifestazione di una singola voce, certamente segnata da alcune ambiguità,
ma abbastanza inquietante, poiché pone delle questioni riguardo la figura
dell’intellettuale. A seguito del lavoro di Jacques Le Goff (Jacques Le Goff, Les
intellectuels au Moyen Âge, 2000), è possibile usare il termine «intellettuale» nel
contesto del XIII sec., potendosi così interrogare sulle serie questioni proposte dal
racconto, la cui patina umoristica ne nasconde la sottigliezza. Corbellari vede
nell’immagine di Aristotele dell’epoca «l’esemplare tipico dell’intellettuale, al tempo
stesso onnipotente e miserabile, che incarna qualsiasi possibilità del creatore
medievale». A seguito della comparazione tra Aristotele e Merlino, che abbiamo già
citato, afferma anche che in essi «troviamo, effettivamente, tipi umani e ideologici la
cui irriducibilità allo statuto di creature obbedienti porrà problemi all’ortodossia
religiosa del Medioevo». Questa comparazione, che potrebbe sembrare squilibrata, è
piuttosto sfumata, e l’autore riconosce il carattere episodico di Aristotele, la cui
integrazione nello spazio letterario resta limitata. Pertanto, l’episodica apparizione del
personaggio nella letteratura è permeata dalla sua costante presenza nelle università
dell’epoca e le reazioni, talvolta violente, alla diffusione del pensiero aristotelico
testimoniano un sforzo di conciliazione tra il suo pensiero e una teologia che, non
riuscendo a ritoccarne le sfumature scomode, reagisce: Alain de Libera mette in risalto
il fatto che lo stesso secolo in cui in occidente si diffondono i testi di Aristotele e le sue
traduzioni integrali è anche il secolo della «più grande censura universitaria che
l’occidente medievale abbia mai conosciuto: le condanne del 1277». La condanna delle
219 tesi, da parte di Papa Giovanni XXI, prova di un’insicurezza crescente di fronte al
successo di un pensiero che rimane, in fin dei conti, inconciliabile con il pensiero
teologico, è anche la prova della «rinascita dell’etica aristotelica» e, paradossalmente,
«la migliore e perfetta propaganda» dell’aristotelismo che permea il pensiero di quel
secolo.
Ma Aristotele reagisce solamente nel momento in cui sente gli altri nobili parlare, ne
momento in cui i maldicenti si fanno sentire: essendo il prologo del testo un rimprovero
contro i maldicenti, l’accento sulla malvagità portata dalle parole prende forma nella
narrazione, e l’attenzione è concentrata sulla parola e sulla sua forza sovversiva. Con
la cortesia minacciata dalla fellonia dei mercanti, ci si ritrova nell’ambito di un
paradigma ben conosciuto, dove la figura dell’Amore onnipotente sottomette i cuori e
conduce la vicenda verso un esito tanto prevedibile quanto desiderato.
Ma prima della narrazione, che comincia al verso 64, c’è un lungo prologo,
apparentemente indipendente dal testo, che mette in guardia contro le parole villane e
promette al lettore onestà nel racconto. Questa lunga riflessione sull’importanza delle
«beax moz», che condanna la maldicenza e si erge così a chiave di lettura, è stata
accantonata dagli studiosi del lai che si sono concentrati solamente sulla vicenda. Ma
la lunghezza del prologo, l’insistenza sull’uso nefasto della parola che è la maldicenza,
dimostra che l’autore si preoccupa dell’interpretazione del racconto che sta per
cominciare. Si tratta, secondo noi, di un invito a comprendere la forza sovversiva della
parodia, che costituisce lo strato esterno del testo. E questa riflessione sulle parole
«villane», che pone dall’inizio il lai nell’universo cortese, trova eco nell’inizio della
narrazione, poiché Aristotele non interviene se non dopo aver sentito le lamentele, le
maldicenze dei nobili di Alessandro, che accusano quest’ultimo di aver dimenticato i
propri obblighi militari per dedicare tutto il proprio tempo alla sua amata. È dunque la
parola ad aprire gli occhi al maestro di Alessandro e a spingerlo a scendere dalla sua
torre per rimproverare il suo allievo. Alain Corbellari vede nella reazione dei nobili la
manifestazione di un conflitto tra amor e arma, tra due elementi apparentemente
inconciliabili della vita medievale, in cui il cavaliere è incastrato tra due scelte che non
può fare. Nella sua opera sul lessico pre-cortese, Glyn Sheridan Burgess fa qualche
osservazione interessante sul peso del termine «vilain» nell’universo cortese nel quale
si svolge il racconto, in mezzo al quale Aristotele si trova sconfitto per la sua difficoltà
a comprendere i valori di un paradigma codificato:
«Il termine villano è quindi parola-chiave per la società cortese; soddisfa, secondo la
definizione di G. Matoré, chi sostiene che “una parola chiave designa… non
un’astrazione, non un mezzo, non un oggetto ma un essere, un sentimento, un’idea,
viventi nella misura in cui la società riconosce in essi i propri ideali”. L’ideale della
società cortese è la cortesia. Ogni azione che attenta a questo ideale è rigidamente
condannata. Essa è villana».
«Allo stesso modo, colui che gode di ogni genere di piacere, senza rifiutarne alcuno,
mostra intemperanza così come colui che li rifugge tutti, come fanno i rustici, e diviene
completamente ebete. Pertanto, la temperanza e il coraggio vengono rovinati
dall’eccesso o da un esercizio insufficiente, mentre la moderazione li preserva».
La temperanza di cui parla Aristotele nel Lai non è semplicemente una formula
discorsiva gratuita, ma sembra essere il risultato di una lettura del testo appena citato
e, soprattutto, una messa alla prova di questa idea. Il testo descrive un personaggio le
cui parole contraddicono l’azione: troppo preso dai suoi libri, sedotto dal proprio
pensiero e rinchiuso in una torre tanto ridicola quanto topica per il saggio caricaturato,
il filosofo si trova in una situazione paradossale, che lo accosta, in un certo modo, ai
clerici che il Medioevo cominciava a ridicolizzare, perché elabora delle norme che non
rispetta, sul piano dell’azione, e contraddice con la propria vita «destempré», perché
ne sceglie una esclusivamente claustrale. La sua «ragione» e il suo «chiericato» lo
conducono sua una via pericolosa, che lo rende fragile, perché le sue parole non stanno
in piedi, ma restano sospese in una discorsività non autentica. Nel momento in cui la
follia amorosa lo rende impotente, constata la sconfitta della sua ragione e diviene
lucido spettatore di un rovesciamento. La temporanea decadenza del filosofo, la
«sconfitta della ragione» di fronte all’Amore, non sono un semplice modo di contestare
la saggezza facendone la caricatura, ma piuttosto il contrario: il saggio non è un folle
perché si attacca troppo alle proprie idee, la saggezza non è l’elemento contestato nel
racconto; si tratta di una contestazione contro una certa immagine della saggezza,
contro l’immagine di un saggio che non è completamente fedele alle proprie idee,
perché le sue parole rimangono semplici parole e non vengono messe in pratica come
dovrebbero. Questo Aristotele, veicolo delle contraddizioni dell’epoca, collocato
all’incrocio di due campi semantici e combattuto tra due codici culturali è, egli stesso,
raffigurazione della contraddizione, perché è scosso da un conflitto interiore, per il
fatto di non mettere in pratica le proprie parole. Appianati su questa contraddizione
costitutiva del personaggio, i contrasti che lo circondano riflettono un dato che si trova
nel personaggio stesso e che le circostanze non fanno che amplificare.
In conclusione, vogliamo sottolineare che questo testo, a lungo considerato come una
semplice contestazione della figura di Aristotele e come una risposta alle dispute degli
universitari, rappresenta più che una semplice reazione all’aristotelismo e più che uno
sguardo sulla situazione del chierico. Il Lai di Aristotele è l’eco di uno sforzo di
conciliazione tra due modelli di pensiero, tra le forme gentili della letteratura cortese e
l’assimilazione di nozioni che si irradiano dal pensiero aristotelico. La parodia, la
situazione che sfiora il ridicolo, crea una dimensione permissiva che, sotto una patina
ironica, facilita la coesistenza dei due atteggiamenti e, contrariamente a ciò che la
maggior parte degli studiosi ha visto nel testo, la parodia non ha come bersaglio la
figura dell’intellettuale, ma quella di un intellettuale narcisista, infedele alle proprie
parole.