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Prendersi gioco di Aristotele nel Medioevo

Alexandra Ilina
Università di Bucarest, Università della Sorbonne Nouvelle – Paris 3

I. Breve storia di un malinteso

A lungo attribuito a Henri d’Andeli, il Lai di Aristotele, testo la cui brevità nasconde
l’importanza, rimane un rompicapo per gli specialisti, che vi si sono approcciati con
curiosità stimolata dalle sue contraddizioni costitutive. È necessaria un’introduzione
per comprendere meglio le sfide di questo percorso e per precisare le circostanze
filologiche che hanno determinato i contorni della nostra ricerca. Queste circostanze
hanno determinato la scelta del nostro approccio, avendo esaminato i precedenti studi
su questo soggetto e considerandoli troppo focalizzati o, al contrario, troppo
generalisti, presentando così lo svantaggio di prendere il testo eccessivamente alla
lettera oppure di distanziarsene al punto da non distinguerne più le lettere. Ci
immergiamo nella costellazione dei campi semantici che costituiscono il significato
del Lai, per trovarvi quelle relazioni che legano il campo semantico della cortesia al
campo semantico di un aristotelismo, più o meno assimilato, che impregna il testo del
suo profumo discreto. Per fare ciò, studieremo il Lai nella sua testualità, non
limitandoci a leggerlo come frutto dell’influenza dell’aristotelismo, poiché questo tipo
di lettura ricadrebbe nel secondo tipo che abbiamo descritto, dove il ragionamento si
distanzia dal testo scritto e ne forza l’interpretazione verso la sottomissione a un
paradigma dominante. Citeremo le circostanze filologiche ma non ci dilungheremo su
di esse, perché gli studi interpretativi dati al testo, fino ad oggi, non hanno fatto altro
che guardare proprio alle questioni formali, nel caso dell’approccio di Bédier, oppure
alle questioni di competenza della sociologia letteraria. Noi proveremo a metterci alla
distanza giusta per osservare gli incroci semantici e quei punti dove l’ambivalenza del
discorso suggerisce una biforcazione semantica.

Preoccupato di smentire gli approcci orientalisti della letteratura medievale, che si


limitavano a ricondurre i modelli narrativi dei testi europei all’immaginario orientale,
Joseph Bédier, seguendo un suggerimento di Gaston Paris, denuncia i limiti di questo
metodo che, in un quadro metodologico impreciso, finisce in una sterilità
argomentativa che porta a una vana ricerca della fonte, che non si trova da nessuna
parte. Per sostenere la propria posizione, Bédier, nella sua opera sui Fabliaux, propone
un approccio strutturalista ai racconti, che ritiene composti da un elemento
fondamentale sul quale si innestano elementi accessori, un approccio che egli applica
anche a questo testo. La sua analisi del Lai di Aristotele segue questa visione e Bédier
trova, in tre raccolte di racconti orientali, narrazioni simili. Si tratta delle raccolte
indiana Pantchatantra e Mahakatjajana e di un racconto arabo, Le vizir sellé et bridé
(Il consigliere sellato e imbrigliato), che si trova nell’Adjaibel Measer ma, sostiene
Bédier, molto soddisfatto per il colpo di grazia inferto agli orientalisti, queste raccolte
erano sconosciute al pubblico occidentale fino al XIX sec. Egli si spinge a proporre
l’ipotesi inversa, di un’influenza dei racconti europei su quelli arabi e indiani, che
avrebbero sentito la storia, e cede quindi anche lui alla tentazione di una genealogia
fantastica; ma subito torna serio e propone l’ipotesi di una genesi ludico-vendicativa
del testo: «Nulla si oppone all’ipotesi che il Lai di Aristotele sia uscito, precisamente
organizzato, dalla testa di qualche chierico, un bel giorno in cui s’annoiava ascoltando
un maestro d’arte commentare l’Organon di Aristotele». Perché era necessario questo
excursus nella storia delle interpretazioni? Perché Bédier, colui che per primo lavora
sul fabliau, finge di ignorare il titolo del testo e lo inserisce ne genere dei fabliaux, che
sarebbero, secondo la sua definizione già divenuta classica «racconti in versi per
ridere». Egli segnala, per la prima volta, lo scarto tra il titolo e il testo, ma lascia
intendere al lettore che si tratti di un fatto attribuibile alla povertà e, parimenti,
all’imprecisione del vocabolario medievale, che non distingue bene tra i generi e non
opera con i medesimi criteri di esattezza della terminologia letteraria più recente.
Sorprende il tradimento del testo, ma lo attribuisce a un fatto letterario paradigmatico
e, leggendo il testo con l’occhio di un anatomista, non vede che lo scheletro e ignora,
preoccupato dalla sua ricerca delle strutture, la carne del testo, così ricca, nonostante
la sua brevità, di elementi connotativi. Al capo opposto dello spettro interpretativo,
Alain Corbellari, nella sua opera sullo statuto del chierico nel medioevo, si intrattiene
sul testo e vi legge un’esemplificazione delle contraddizioni dello stato del chierico in
quell’epoca. Vede il testo nella sua ricchezza e, soprattutto, mette in evidenza ciò che
Bédier aveva solamente segnalato: «versante umoristico del Roman d’Alexandre,
svago anti-aristotelico nel periodo in cui l’Università parigina adottava massivamente
le tesi dello Stagirita, rivendicazione paradossale dei diritti del clero, elogio
dell’onnipotenza dell’amore: il Lai di Aristotele è, effettivamente, tutto questo».
Corbellari cerca di scoprire, nel personaggio che Aristotele diviene nel testo, la
presenza della figura del chierico e legge il testo principalmente sotto questa luce.
Paragona Aristotele a Merlino, come figura di un saggio scomodo e difficilmente
accoglibile dalla società, della quale si situa ai margini. Il suo sforzo di tracciare i
contorni di un modello di saggio va, secondo la nostra opinione, troppo oltre, nel
momento in cui propone una comparazione, nel quadro di questa categoria che cerca
di delineare, tra Aristotele e Faust, in cui vede il primo come lontano precursore del
secondo, in cui l’appetito insaziabile di conoscenza non arriva mai a soddisfare l’uomo
che vive nel saggio. Aristotele, in quest’opera, è un personaggio la cui sofferenza è
provocata da un’incapacità di conciliare due codici di condotta e dal fatto che egli non
è in grado di sottomettersi ad una dottrina. L’infelicità del personaggio ha come punto
di origine la discrepanza tra l’azione e la parola, ed egli si fa punire per questa
incapacità di sottostare alle proprie norme. Questa insubordinazione del personaggio
assomiglia alle vicissitudini del clero, riecheggia nell’universo dei fabliaux che
denunciano l’ipocrisia di una categoria combattuta tra la norma e un’azione che,
spesso, la contraddice. Le circostanze in cui nasce il testo sono, come aveva segnalato
Bédier, certamente meno limpide e, nell’introduzione ai dits di Heri d’Andeli, a lungo
considerato l’autore del testo, si interroga sul carattere sintetico del testo e sulla sua
«originalità»:

«Henri d’Andeli testimonia, in questo piccolo testo che è un grande capolavoro, la


sintesi di due tradizioni: quella occidentale della figura letteraria di Aristotele,
popolarizzata dal Roman d’Alexandre, e quella orientale del tradizionale racconto del
“consigliere ridicolizzato”. Questa sintesi può essere attribuita all’autore? Negli altri
otto testi medievali che riportano l’aneddoto (cinque exempla composti tra il 1229 e
1440, un episodio dell’Alexandreis di Ulrich von Eschenbach, testo datato tra il 1283
e il 1287, il poema in medio-alto tedesco Aristoteles und Filis, della fine del XIII sec.,
e una versione fiamminga in prosa di data incerta), uno solo sembra essere anteriore al
1250, ovvero l’exemplum di Jacques de Vitry, scritto tra il 1229 e il 1240».

Il testo è sintetico, certamente, perché presenta un personaggio portatore di una dottrina


che aveva invaso il secolo e sedotto il pensiero occidentale. Ma, più di quanto non sia
sintetico, questo testo è attraversato da una tensione costitutiva che lascia le sue tracce
un po’ dappertutto, e che necessita della patina della parodia per inserire nella
medesima pagina un codice letterario, quello della cortesia, e una norma che prende le
sue forme nella filosofia aristotelica stessa, leggibile certamente in forma filtrata ma
ben radicata nel racconto. I significati del testo fanno emergere nodi semantici a doppio
rifermento: il codice cortese e la dottrina filosofica. La tensione è parimenti generata
da questa sovrapposizione, che produce il turbamento del personaggio che vi si trova
in mezzo: tra i due codici, tra la norma e l’azione. È l’ambivalenza insita in qualsiasi
sforzo di conciliazione che fa sì che il testo trascenda le categorie, poiché non è lai né
fabliau, e che abbia interessato, per non dire innervosito, i medievalisti che l’hanno
studiato. È per questa dinamica ambigua che il Lai di Aristotele ha fatto emergere
approcci critici che hanno cercato di sottomettere il testo al rigore di una regola e che
non hanno compreso le questioni sollevate dal racconto. Più di recente, Marie-Paule
Loicq Berger ha proposto due articoli sull’immagine di Aristotele nel Medioevo, in cui
si occupa dell’ambivalenza della figura del filosofo nelle raffigurazioni medievali,
soprattutto nell’iconografia, che dimostra la popolarità del racconto, che continua a
sedurre gli artisti sino all’alba della modernità. Questi due articoli, che descrivono le
formule visuali e testuali utilizzate nel Medioevo raffigurare Aristotele, mirano a
esplorare la maniera in cui la figura del filosofo è evoluta e si è modificata una volta
introdotta nell’immaginario dell’epoca. L’autrice vede nel Lai di Aristotele un «fabliau
satirico di un chierico, che impronta in modo raffinato il tono del lai, ma il cui sapore
beffardo sottende una morale dettata dal buon senso» e, proprio come Alain Corbellari,
prova a dare un’interpretazione appoggiandosi al genere testuale. Sempre oscillante tra
la struttura e il genere testuale, l’interpretazione lascia il testo largamente inesplorato.

II. Sguardi incrociati su un personaggio

Sappiamo bene che il diavolo giace nei dettagli e che bisogna diffidare delle evidenze,
perché possono nascondere delle ombre ingannevoli. Come abbiamo visto, questo
testo, soggetto a datazioni, attribuzioni e interpretazioni così eterogenee da giustificare
l’analisi della storia interpretativa dello stesso, rappresenta un enorme dettaglio
sovversivo nello spazio letterario della sua epoca. Di recente, grazie alle ricerche di
François Zufferey, la paternità del Lai di Aristotele non può più essere attribuita a Henri
d’Andeli. Per quanto riguarda la datazione, è stato datato da Alain Corbellari intorno
al 1235. Di questo chierico parigino, vissuto nella prima metà del XIII sec., ci sono
pervenuti il Dit du chancelier Philippe, elogio del suo protettore, e altri testi scritti in
un registro parodico, il cui tono somigliante a quello del Lai di Aristotele ha potuto
fornire un argomento ulteriore a favore dell’attribuzione del lai. Zufferey, la cui
scoperta è stata riconosciuta valida da Corbellari, dopo la pubblicazione dell’articolo
citato (La voix des clecrs, Corbellari), attribuisce il lai a Henri de Valenciennes,
cronista della prima metà del XIII sec. e continuatore (dell’opera di) Geoffroi de
Villehardouin, in particolare della sua Histoire de la conquête de Costantinople,
proveniente anche lui dall’ambiente clericale. Destinato a un notevole successo
letterario, come ha sottolineato Corbellari nella sua opera sopra menzionata, e a un
successo spettacolare nelle arti visuali, il racconto dell’umiliazione di Aristotele,
situato in una lunga scia di personaggi illustri e rispettabili che si fanno ingannare dalle
loro seduttrici, rompe con la misoginia disseminata nel filone di questa tradizione.
L’Aristotele di questo lai si distingue dai suoi predecessori, incastrati dall’astuzia
femminile, per un certo atteggiamento discorsivo che non solo valorizza la giovane
fanciulla, ma da cui proviene un messaggio che trascende il semplice, e piuttosto
banale, avvertimento contro la malizia femminile, connesso alla riflessione sui limiti
intrinseci della scienza. L’immagine distorta del personaggio principale,
apparentemente contestata nella sua posizione di figura autoritaria che domina il
pensiero di quel secolo, ha dato filo da torcere agli studiosi, che hanno letto nella patina
parodica del testo una prova della sua appartenenza al genere del fabliau e gli hanno
attribuito una leggerezza che non gli è propria, perché dal testo emergono questioni
che pertengono tanto alla figura dell’intellettuale quanto alla commistione delle due
forme di pensiero. A buon diritto, Alain Corbellari sostiene che si debba leggere il testo
come la manifestazione di una singola voce, certamente segnata da alcune ambiguità,
ma abbastanza inquietante, poiché pone delle questioni riguardo la figura
dell’intellettuale. A seguito del lavoro di Jacques Le Goff (Jacques Le Goff, Les
intellectuels au Moyen Âge, 2000), è possibile usare il termine «intellettuale» nel
contesto del XIII sec., potendosi così interrogare sulle serie questioni proposte dal
racconto, la cui patina umoristica ne nasconde la sottigliezza. Corbellari vede
nell’immagine di Aristotele dell’epoca «l’esemplare tipico dell’intellettuale, al tempo
stesso onnipotente e miserabile, che incarna qualsiasi possibilità del creatore
medievale». A seguito della comparazione tra Aristotele e Merlino, che abbiamo già
citato, afferma anche che in essi «troviamo, effettivamente, tipi umani e ideologici la
cui irriducibilità allo statuto di creature obbedienti porrà problemi all’ortodossia
religiosa del Medioevo». Questa comparazione, che potrebbe sembrare squilibrata, è
piuttosto sfumata, e l’autore riconosce il carattere episodico di Aristotele, la cui
integrazione nello spazio letterario resta limitata. Pertanto, l’episodica apparizione del
personaggio nella letteratura è permeata dalla sua costante presenza nelle università
dell’epoca e le reazioni, talvolta violente, alla diffusione del pensiero aristotelico
testimoniano un sforzo di conciliazione tra il suo pensiero e una teologia che, non
riuscendo a ritoccarne le sfumature scomode, reagisce: Alain de Libera mette in risalto
il fatto che lo stesso secolo in cui in occidente si diffondono i testi di Aristotele e le sue
traduzioni integrali è anche il secolo della «più grande censura universitaria che
l’occidente medievale abbia mai conosciuto: le condanne del 1277». La condanna delle
219 tesi, da parte di Papa Giovanni XXI, prova di un’insicurezza crescente di fronte al
successo di un pensiero che rimane, in fin dei conti, inconciliabile con il pensiero
teologico, è anche la prova della «rinascita dell’etica aristotelica» e, paradossalmente,
«la migliore e perfetta propaganda» dell’aristotelismo che permea il pensiero di quel
secolo.

III. Una figura contraddittoria

Il Lai di Aristotele appare dunque in un contesto dove l’influenza del Magister


philosophiae genera reazioni e dibattiti universitari, senza che il testo sia
semplicemente un’eco parodica delle diatribe che vedono opporsi gli intellettuali
parigini, come suggerisce Maurice Delbouille, che si concentra solamente sulla
dimensione parodica e si lascia così ingannare dalla semplicità di questo pseudo-lai,
che non è realmente un lai, quanto piuttosto un fabliau nascosto, come aveva
sottolineato Joseph Bédier. Più di recente, Martina di Febo si è interessata alla
formulazione del Lai… per collocarlo in un ibrido testuale che riflette la sua ambiguità
costitutiva: «lo stile farebbe collocare il racconto tra i lais, la sua vicenda comica nei
fabliaux». La vicenda comica di cui parlano gli studiosi di questo testo rappresenta
un’abile forma di dissimulazione, sotto l’apparenza di una parodia, sotto la semplicità
dovuta alla sua brevità, di una soggiacente problematica e di una duplice griglia
referenziale. La materia cortese e la lettura dei testi aristotelici si incrociano e sono
interconnessi nel tessuto testuale di questo lai atipico, e il lessico ne rivela
l’ambivalenza. Si presenta come un lai ma non lo è, e propone una morale della vicenda
che non è così innocente come sembrerebbe. Noi proponiamo l’ipotesi che si tratti di
un’instabilità costitutiva del testo e vediamo, esaminandolo, che l’apparente
indeterminatezza formale di questo racconto è l’irraggiamento di uno squilibrio
provocato dalla situazione nella quale si trova Aristotele. Aristotele appare nel testo
con i tratti di un vecchio cupo, scontroso, che si schiera contro la storia d’amore che
sta nascendo tra il suo allievo, Alessandro, e una fanciulla indiana che l’ha sedotto e
sottomesso al punto che il re dimentica i propri doveri per dedicare tutto il suo tempo
all’amata. Corbellari vede in questa reazione il segno della contrapposizione cavalleria-
chiericato:

«Ci sembra giusto, riguardo la contrapposizione cavalleria-chiericato, e dunque oltre


ogni riferimento prettamente religioso, ricercare l’origine della contrapposizione che
attraversa il Lai di Aristotele, anche se si può ritenere che questa chiave di lettura è
stata troppo spesso applicata unilateralmente e che essa non saprebbe spiegare senza
reticenza le analogie che, sulla base di questa prima dicotomia, sottenderebbero quelle
di corpo e anima, cultura e natura, istinto e ragione».

Ma Aristotele reagisce solamente nel momento in cui sente gli altri nobili parlare, ne
momento in cui i maldicenti si fanno sentire: essendo il prologo del testo un rimprovero
contro i maldicenti, l’accento sulla malvagità portata dalle parole prende forma nella
narrazione, e l’attenzione è concentrata sulla parola e sulla sua forza sovversiva. Con
la cortesia minacciata dalla fellonia dei mercanti, ci si ritrova nell’ambito di un
paradigma ben conosciuto, dove la figura dell’Amore onnipotente sottomette i cuori e
conduce la vicenda verso un esito tanto prevedibile quanto desiderato.
Ma prima della narrazione, che comincia al verso 64, c’è un lungo prologo,
apparentemente indipendente dal testo, che mette in guardia contro le parole villane e
promette al lettore onestà nel racconto. Questa lunga riflessione sull’importanza delle
«beax moz», che condanna la maldicenza e si erge così a chiave di lettura, è stata
accantonata dagli studiosi del lai che si sono concentrati solamente sulla vicenda. Ma
la lunghezza del prologo, l’insistenza sull’uso nefasto della parola che è la maldicenza,
dimostra che l’autore si preoccupa dell’interpretazione del racconto che sta per
cominciare. Si tratta, secondo noi, di un invito a comprendere la forza sovversiva della
parodia, che costituisce lo strato esterno del testo. E questa riflessione sulle parole
«villane», che pone dall’inizio il lai nell’universo cortese, trova eco nell’inizio della
narrazione, poiché Aristotele non interviene se non dopo aver sentito le lamentele, le
maldicenze dei nobili di Alessandro, che accusano quest’ultimo di aver dimenticato i
propri obblighi militari per dedicare tutto il proprio tempo alla sua amata. È dunque la
parola ad aprire gli occhi al maestro di Alessandro e a spingerlo a scendere dalla sua
torre per rimproverare il suo allievo. Alain Corbellari vede nella reazione dei nobili la
manifestazione di un conflitto tra amor e arma, tra due elementi apparentemente
inconciliabili della vita medievale, in cui il cavaliere è incastrato tra due scelte che non
può fare. Nella sua opera sul lessico pre-cortese, Glyn Sheridan Burgess fa qualche
osservazione interessante sul peso del termine «vilain» nell’universo cortese nel quale
si svolge il racconto, in mezzo al quale Aristotele si trova sconfitto per la sua difficoltà
a comprendere i valori di un paradigma codificato:

«Il termine villano è quindi parola-chiave per la società cortese; soddisfa, secondo la
definizione di G. Matoré, chi sostiene che “una parola chiave designa… non
un’astrazione, non un mezzo, non un oggetto ma un essere, un sentimento, un’idea,
viventi nella misura in cui la società riconosce in essi i propri ideali”. L’ideale della
società cortese è la cortesia. Ogni azione che attenta a questo ideale è rigidamente
condannata. Essa è villana».

Il villano è un elemento che si colloca nell’ambito di una dicotomia necessaria alla


valorizzazione delle virtù cortesi, e i villani creano un effetto di contrasto necessario e,
in quel racconto, concordano nella maldicenza per alimentare la narrazione e
soprattutto contribuire alla tensione che attraversa il testo, una tensione che gioca sulle
contraddizioni per creare il quadro di un’instabilità che pervade il personaggio e
l’intero racconto. Rimane aperta una questione: perché collocare a inizio racconto un
discorso che mette in guardia contro la maldicenza? Contro cosa mette in guardia
questa introduzione? Contro la maldicenza dei nobili? Contro la maldicenza di
Aristotele che, accusando Alessandro di aver perduto il senno, lo accusa di comportarsi
come «une beste en pré» (un animale nel prato) e gli consiglia di ritrovare la «mesure»
(misura, equilibrio)? O, al contrario, si tratta di un modo più sottile di mettere in guardia
contro ogni possibile interpretazione che intenda il testo come una parodia che non ha
altro scopo che non compromettere la figura dello Stagirita? Come connettere il
discorso proemiale alla narrazione che segue, se non vedendolo come un avvertimento
per il lettore e come una conferma delle ambiguità della brevità del testo?
Figura dissonante per l’intero corso della storia, permeata (la storia) dal lessico, dalle
gesta e dall’atmosfera cortese, Aristotele finisce per dichiararsi sconfitto dalla follia
amorosa e, in seguito a questa esperienza umiliante e edificante, sembra ammettere
l’inutilità della propria conoscenza, ridicolizzata di fronte alle forze temibili di Natura
e Amore, che hanno la meglio sulle forze di una ragione che diventa follia e mostra
così la propria impotenza. Questo schema riassume la storia che sembra offrirsi,
esplicitarsi al lettore, fornendogli la chiave di lettura e interpretazione. Vi si ritrovano
i topoï della letteratura cortese, l’astuzia femminile vivacizza la situazione e la erotizza
in modo implicito. Ma l’universo cortese, con il suo lessico elegante, le sue situazioni
prevedibili e la sua retorica che celebra Amore, coesiste, secondo noi, con un altro
modello di pensiero, il pensiero aristotelico, in particolare rispetto ai temi delle virtù e
della «anestesia»: il testo colloca Aristotele in una sorta di sterilità affettiva, che lo
rende insensibile alla sofferenza del suo allievo di fronte alla possibile separazione
dalla sua amata, e questa insensibilità iniziale provoca le sfortune che seguiranno.
Esaminiamo un po’ il lessico e troveremo termini che confermano la coesistenza dei
due campi semantici. Il filosofo accusa Alessandro di avere il cuore «destempré» (privo
di temperanza) e gli consiglia di ritrovare la «mesure» (misura, equilibrio).
Compariamo le parole del personaggio con uno stralcio dell’Etica Nicomachea, che
tratta di virtù e piaceri:

«Allo stesso modo, colui che gode di ogni genere di piacere, senza rifiutarne alcuno,
mostra intemperanza così come colui che li rifugge tutti, come fanno i rustici, e diviene
completamente ebete. Pertanto, la temperanza e il coraggio vengono rovinati
dall’eccesso o da un esercizio insufficiente, mentre la moderazione li preserva».

La temperanza di cui parla Aristotele nel Lai non è semplicemente una formula
discorsiva gratuita, ma sembra essere il risultato di una lettura del testo appena citato
e, soprattutto, una messa alla prova di questa idea. Il testo descrive un personaggio le
cui parole contraddicono l’azione: troppo preso dai suoi libri, sedotto dal proprio
pensiero e rinchiuso in una torre tanto ridicola quanto topica per il saggio caricaturato,
il filosofo si trova in una situazione paradossale, che lo accosta, in un certo modo, ai
clerici che il Medioevo cominciava a ridicolizzare, perché elabora delle norme che non
rispetta, sul piano dell’azione, e contraddice con la propria vita «destempré», perché
ne sceglie una esclusivamente claustrale. La sua «ragione» e il suo «chiericato» lo
conducono sua una via pericolosa, che lo rende fragile, perché le sue parole non stanno
in piedi, ma restano sospese in una discorsività non autentica. Nel momento in cui la
follia amorosa lo rende impotente, constata la sconfitta della sua ragione e diviene
lucido spettatore di un rovesciamento. La temporanea decadenza del filosofo, la
«sconfitta della ragione» di fronte all’Amore, non sono un semplice modo di contestare
la saggezza facendone la caricatura, ma piuttosto il contrario: il saggio non è un folle
perché si attacca troppo alle proprie idee, la saggezza non è l’elemento contestato nel
racconto; si tratta di una contestazione contro una certa immagine della saggezza,
contro l’immagine di un saggio che non è completamente fedele alle proprie idee,
perché le sue parole rimangono semplici parole e non vengono messe in pratica come
dovrebbero. Questo Aristotele, veicolo delle contraddizioni dell’epoca, collocato
all’incrocio di due campi semantici e combattuto tra due codici culturali è, egli stesso,
raffigurazione della contraddizione, perché è scosso da un conflitto interiore, per il
fatto di non mettere in pratica le proprie parole. Appianati su questa contraddizione
costitutiva del personaggio, i contrasti che lo circondano riflettono un dato che si trova
nel personaggio stesso e che le circostanze non fanno che amplificare.
In conclusione, vogliamo sottolineare che questo testo, a lungo considerato come una
semplice contestazione della figura di Aristotele e come una risposta alle dispute degli
universitari, rappresenta più che una semplice reazione all’aristotelismo e più che uno
sguardo sulla situazione del chierico. Il Lai di Aristotele è l’eco di uno sforzo di
conciliazione tra due modelli di pensiero, tra le forme gentili della letteratura cortese e
l’assimilazione di nozioni che si irradiano dal pensiero aristotelico. La parodia, la
situazione che sfiora il ridicolo, crea una dimensione permissiva che, sotto una patina
ironica, facilita la coesistenza dei due atteggiamenti e, contrariamente a ciò che la
maggior parte degli studiosi ha visto nel testo, la parodia non ha come bersaglio la
figura dell’intellettuale, ma quella di un intellettuale narcisista, infedele alle proprie
parole.

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