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Vita.

La nascita e gli studi. Persio nacque a Volterra nel 34 d.C. (attuale Toscana) da famiglia agiata e
appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura
dalla madre, Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13 anni, venne educato presso le migliori
scuole di grammatica e retorica: ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a segnarlo fu
l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto (liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di
Lucano), che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato. Ben presto
dimostrò la sua insofferenza nei confronti della retorica, orientandosi decisamente verso la filosofia; scelse
lo stoicismo, e a questa linea si dimostrò fedele per tutta la sua breve vita.
Egli è però fra coloro che dànno del pensiero stoico un’interpretazione opposta a quella abituale in Roma:
infatti l’impegno politico è da lui rigettato in favore di un impegno di tipo strettamente personale, morale,
non legato in alcun modo alla sfera pubblica (tale ambiguità di fondo, implicita nella concezione stoica del
libero arbitrio e del Fato, è evidente anche nell’evoluzione del pensiero di Seneca e nella sua scelta finale di
ritirarsi dalla scena politica).

La formazione interiore. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel
culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P. fu amorevolmente circondato dalle cure della
madre, ma anche di altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore, moglie di Tràsea Peto,
e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione
filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio
Statura, Lucano, Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio Noniano e i già citati Tràsea
Peto e Cornuto (per lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia.

L’isolamento. La naturale introversione e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale aveva
scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che
mostrò di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure (ma tardi)
conobbe: tuttavia, è difficile stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad una scelta per così
dire "estetica" ed etica, o se non vi sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento "politico" di rifiuto
della realtà che lo circondava.

La morte. P. morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia. Lasciò in
eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) –
nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé
i libri, mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta.

La conversione filosofica e alla satira


Alle radici della satira di Persio sta un evento che segna una svolta nella sua vita di uomo e di scrittore:
la giovanile conversione alla filosofia stoica.
Quando a 16 anni – assunta la toga virile – lascia gli insegnamenti di retorica e grammatica (discipline
nelle quali è stato istruito dai maestri più celebri del tempo) e passa allo studio della filosofia, è grazie alla
conoscenza del maestro dello stoicismo romano, Anneo Cornuto, che scopre il fascino della filosofia e ne è
conquistato per sempre. Il maestro diviene per lui la guida, l’amico inseparabile – sia nei momenti dello
studio sia in quelli dello svago – per il quale egli nutre un’autentica venerazione: la guida alla verità e alla
libertà per gli uomini che vivono nell’errore. E’ preso da entusiasmo, quasi da fanatismo giovanile, nella
decisione di rompere con la vita passata e non tardare a mettersi sulla via della salvezza.
Alla conversione alla filosofia si accompagna la scelta della satira. Aveva già scritto versi nella sua prima
età: una tragedia di argomento romano, la narrazione poetica di un viaggio, un carme breve su Arria (donna
eroica che precede il marito nel suicidio e gli porge il pugnale perché faccia altrettanto). Anche dopo la
conversione alla filosofia non abbandonò l’ispirazione poetica, ma la volse ad un genere più congeniale.
L’antico biografo sostiene che fu la lettura di Lucilio a suscitare in lui l’entusiasmo per la satira; ma la
ragione ultima di questa contemporanea conversione alla satira è più profonda:
 “era il genere poetico che, dopo il poema didascalico di tipo lucreziano, meglio permetteva di conciliare
l’originaria vocazione poetica col nuovo amore per la filosofia”;
 alcuni caratteri propri della satira latina - in particolare l’attenzione al tema morale (ovvero all’analisi
di comportamenti individuali e collettivi) e alla vita quotidiana – sono particolarmente congeniali ad
una riflessione filosofica come la dottrina stoica, che si preoccupa di guidare nell’esistenza verso la
conquista della sapienza, la meta cui il sapiens deve tendere. Si tratta infatti di una sapienza di vita,
una sapienza morale, che consiste nel fuggire il vizio e sposare la virtù e la satira analizza, critica e
orienta i comportamenti morali dell’individuo, per guidarlo alla felicità vera;
 nel clima di quell’entusiastica conversione giovanile alla filosofia, avvertita come la via della salvezza,
della liberazione dalla schiavitù delle passioni e dei vizi, Persio “sente la satira come una necessità”,
“un impulso irresistibile, a cui bisogna obbedire rompendo con le mode letterarie del tempo e
rischiando il discredito, l’isolamento, l’ostilità pericolosa dei potenti…”
per denunciare i vizi e le schiavitù morali in sé e negli altri;
per compiere quell’opera di “chirurgia morale” necessaria alla scoperta e all’accoglienza della
verità e della salvezza offerte dalla filosofia, al fine di portare gli uomini a prendere coscienza delle
proprie schiavitù e orientarli verso la vera libertà.

La rivolta contro la letteratura e la realtà contemporanee

Contenuto della satira di Persio sono frequentemente la condanna della poesia contemporanea – che
considera corrotta e corruttrice – e la denuncia delle abitudini di vita diffuse nella società
contemporanea: la fenomenologia dei vizi imperanti, nel clima di una generale e nauseante corruzione
dei costumi.
(A) Anzitutto, dunque, a caratterizzare la satira di Persio è la rivolta contro la poesia
contemporanea. L’avversione radicale dell’autore è dovuta a una triplice ragione:
1 ) anziché spingere al rifiuto della corruzione contemporanea dilagante, partecipa ai suoi vizi, ne è
intimamente corrotta e anzi diviene essa stessa causa di corruzione: il poeta e il suo pubblico si
corrompono a vicenda ( il poeta deve compiacere la corruzione del pubblico se vuole essere letto e
acquistare fama.
[ Cfr. due immagini della Satira I:
 Cavalieri romani imponenti nell’aspetto che durante le “recitationes” si sentono solleticati fin nelle viscere dai
versi che un poeta elegante e imbellettato recita;
 O dei discendenti di Romolo che a banchetto, con la pancia piena, stanno ad ascoltare ed elogiano un poetino
effeminato con una mantellina color giacinto che recita lamentosi, brevi componimenti erotici. ]
2 ) è appunto caratterizzata da una mollezza effeminata: l’allusione evidente è al nuovo gusto poetico
diffusosi in Roma, orientato al recupero della poesia di ispirazione neoterica (breve, raffinata, di
contenuto amoroso…) come reazione alla poesia augustea dalle alte ambizioni, all’epica solenne.
3 ) nell’ambito dell’epica e della tragedia è viziata dalla ricerca del grandioso: di “una sublimità fittizia e
vacua”, di una “falsa grandiosità” (=di grandi ambizioni che vuol contendere con Virgilio nella
grandiosità; si narra che Nerone ambisse a comporre un poema in 400 libri sulla storia di Roma…) e
dall’esasperazione dell’orrore e del macabro.
Il netto rifiuto della poesia contemporanea si accompagna all’irrisione e al disprezzo per i poeti
contemporanei, per i quali maestro dell’arte è il ventre (ossia la fame, il bisogno di campare…) e, spinti
in realtà solo dalla brama di guadagno, imitatori servili, privi di originalità, si fanno passare per ispirati
dalle Muse. Il giudizio è drastico: pappagalli che parlano in greco (= poetastri ellenizzati, imitatori privi di
originalità); gazze (…ladre, per il loro mirare solo al guadagno).

(B) Alla radice del rifiuto per la poesia contemporanea sta il rifiuto della realtà morale
contemporanea, che descrive con grande realismo nelle sue satire (un realismo giustificato proprio
dalla convinzione che il compito della letteratura sia un compito etico, di demistificazione, di chirurgia
morale…), rappresentando una fenomenologia del vizio molto cruda nei toni, che, soprattutto in alcune
scene più originali offre un quadro di vita imperiale romana (come altre pagine di Petronio o Marziale o
Giovenale).
Accanto ad alcuni quadretti di vizi rappresentati in modo abbastanza convenzionale (fonti: tradizione
satirica e diatribica), Persio crea personaggi e immagini originali nello stigmatizzare i due vizi principali:
l’accumulo di ricchezza grazie al risparmio e all’usura (l’avarizia) e lo sperpero di essa; la lussuria.
[ es. - l’avaro mercante (Satira IV) che cena sulla sua nave seduto su un mucchio di gomene;
- l’avaro padrone di un latifondo in Sabina, che nel giorno di festa solenne addenta una cipolla, beve aceto e
concede a i suoi servi una minestra di farro.
Fino alle scene più urtanti
- del gaudente che, tutto unto d’olio, prende i bagni di sole, interamente depilato, eccetto che nella barba,
che si pettina in continuazione (Sat. IV,33ss.);
- del crapulone che muore di ingordigia durante un banchetto, perché non si è curato degli ammonimenti del
medico: occasione per stigmatizzare lo sperpero di ricchezza e l’assoluta mancanza di ogni limite nei consumi
(Sat. III).

(C) Cosa caratterizza – in conclusione – la satira di Persio nei confronti del costume contemporaneo
se la confrontiamo con la precedente tradizione della satira in Roma?
Persio è più vicino alla aggressività, alla satira mordace di Lucilio che alla divertita indulgenza di
Orazio (bonaria ironia nell’osservare i difetti umani). La ripulsa per i costumi contemporanei lo spinge a
sfogare la sua nausea: la “pars destruens” domina sulla “pars costruens”. La fenomenologia del vizio si
impone come contenuto dominante, nettamente prevalente rispetto alle scarse indicazioni positive sul
“recte vivere”.
[NB: nella satira oraziana è più evidente una precettistica positiva; Orazio ribadisce frequentemente i principi
ispiratori della sua morale: metriòtes, autàrcheia, carpe diem…; nella satira di Giovenale “la patologia del vizio
prenderà uno spazio ancora più ampio”.]
Nella Sat. III condensa in pochi vv. il succo della saggezza (cfr. III,63-76).
Nella Sat. V dissemina nel testo i principi ispiratori di una esistenza retta: moderazione nei desideri e
nell’uso della ricchezza; buoni rapporti con gli amici; rifiuto della avarizia, lussuria, ambizione,
superstizione…

Persio e lo stoicismo

Non ritrovava Persio tutti questi motivi nella satira precedente, senza che ci sia bisogno di chiamare in

causa la dottrina stoica per spiegare l’insistenza su questi temi?


 Per quali aspetti è evidente la dipendenza della satira di Persio nei confronti dello stoicismo?
Per la sua esigenza di “inquadrare l’etica in un ordine cosmico” che è quello – appunto – della
filosofia stoica: fine dell’uomo (di cui la filosofia deve renderlo consapevole), che gli consente di
tornare in armonia con l’ordine cosmico ed è stato assegnato all’uomo dalla divinità concepita come
ragione universale, è la libertà dalle passioni. Per conquistare la vera libertà, bisogna estirpare le
passioni.
 Rispetto alla libertà politica, come si pone Persio? Non dimentichiamo che lo stoicismo nella prima età
imperiale alimenta ideologicamente l’opposizione senatoria al Principato e Persio vive nell’Età di
Nerone!
La sua ispirazione stoica non lo porta a prendere posizione in politica: né lo induce alla condanna
intransigente del tiranno (come invece Lucano), né – sull’altro fronte (come Seneca) – a tentativi di
collaborazione per influenzarne positivamente le scelte di governo.
La tematica politica (interventi espliciti o allusioni a questi temi…) è assente dalla satira di Persio.
Perché? Per i pericoli che questo comportava? Più probabilmente perché lo stoicismo di Persio
propende per la scelta della vita interiore (laddove Seneca era invece diviso tra le due alternative..);
non ha vero interesse per la lotta politica, mentre avverte spiccatamente il gusto per il
raccoglimento interiore.
 La sua poesia è anche animata da un forte spirito di proselitismo (il desiderio di fare discepoli…). Si
rivolge a tutti gli uomini in errore, ma è consapevole che non tutti capiscono la filosofia. Il volgo non
la comprende e la disprezza; il filosofo è spesso un isolato.
[ Nella Satira III, il centurione rozzo mette in ridicolo i filosofi; la gente ride; e i giovani, tanto muscolosi quanto privi di cervello, approvano la
derisione del filosofo da parte del centurione.]

Assume un atteggiamento di distacco aristocratico nei confronti del volgo: un atteggiamento già
presente nella tradizione satirica e diatribica, che però si approfondisce. L’antinomia tra proselitismo
e distacco aristocratico si evidenzia nello stile, per la scelta di un linguaggio che attinge alla lingua
viva quotidiana –da una parte – e la complessa elaborazione formale – dall’altra.

Il “metodo” adottato da Persio nelle sue satire:


la dissimulazione della trama concettuale (dell’argomentazione filosofica)

Nella lettura, l’impressione immediata e irritante che suscitano le satire di Persio è quella di trovarsi di
fronte ad “una giustapposizione più o meno casuale di immagini o di quadri”. L’accostamento di scene,
immagini, situazioni tra loro apparentemente prive di nessi espliciti di collegamento induce a trarre la
conclusione che manchi una logica argomentativa e l’autore giochi ad offrire al lettore un flusso di immagini
sconnesse, da gustare come una serie di quadretti a sé stanti ( surrealismo? Poesia puramente visiva, priva
di spessore ragionativo?).
In realtà si tratta di comprendere la peculiarità del metodo compositivo di Persio: una trama
concettuale c’è, ma è volutamente nascosta, mascherata, lasciata implicita, chiedendo al lettore di
scoprirla.
Già Orazio aveva voluto differenziare la satira dall’argomentazione filosofica: come? La satira oraziana
ha inizio da un’esperienza quotidiana presentata come casuale; non si apre ponendo in anticipo il problema
né la sua risoluzione. C’è un filo logico ma viene dissimulato; non è in primo piano: lo sono la
rappresentazione e il dialogo; anzi è spesso dissimulato così bene che è difficile ritrovarlo.
Persio non ha fatto altro che portare all’estremo limite questo procedimento, moltiplicando le difficoltà
di interpretazione. In realtà ogni satira affronta un tema etico dominante e lo svolge seguendo una sua
logica interna, anche se non è esplicita ma da scoprire:
“La prima vuole definire la posizione e il compito del poeta satirico di fronte alla corruzione della letteratura e della
vita. La seconda svolge coerentemente l’irrisione delle preghiere stolte. La terza indica le ragioni per cui il giovane
non deve tardare a imboccare la via della filosofia come ricerca e pratica del ‘recte vivere’. La quarta, prendendo
l’avvio dall’ ‘Alcibiade I’ di Platone, discute sulla necessità di conoscere se stesso, di scavare nelle proprie malattie
per guarirsi, anziché guardare alle malattie degli altri. La quinta, dopo il lungo esordio, svolge con coerenza il
concetto della libertà vera come libertà dalle passioni. La sesta si propone come tema l’avarizia e la prodigalità; se
solo il tema dell’avarizia viene effettivamente svolto, non dobbiamo stupirci troppo: il caso è analogo a quello di
Orazio, Sat. I,2 …”
Il procedimento graziano è accentuato: nessuna satira comincia col porre chiaramente la questione (il
problema morale in discussione) ed anche quando pone il lettore davanti a un nuovo tema, non lo annuncia
esplicitamente, non guida il lettore a rendersene conto: “gli getta dinnanzi una nuova scena o un nuovo
quadro: il legame logico si chiarirà dopo o è lasciato al lettore il compito di ritrovarlo”.
E’ un modo di procedere che La Penna definisce “mimo diatribico”, perché è caratteristico della diatriba
(la predicazione filosofica popolare) il procedere del dialogo con un interlocutore inventato, alternato a
aneddoti, tavolette, scene di vita quotidiana, come in un mimo si assiste ad un susseguirsi di schetch
accostati uno all’altro.

Il realismo, il gusto barocco, lo stile di Persio

Realismo
Nella satira dio Persio “c’è una forte tendenza alla rappresentazione concreta e visiva”. Si veda ad es. la
scena del risveglio del giovane poltrone nella Satira III. Una concretezza e una nitidezza visiva che penetra
nei dettagli, nelle metafore, nell’aggettivazione. Del mercante spilorcio che mangia per pranzo una cipolla,
si dice che addenta “tunicatum caepe” - una “cipolla in tunica” - perché non butta via nemmeno la buccia.
Il dettaglio realistico non tende a scopi esornativi, ma nasce da una istintiva cura di “tenere il concetto
sempre attaccato all’immagine, radicato nella sensazione”. Nella Satira I (v.24) ad es., per esprimere il
desiderio irresistibile di esibirsi del poeta alla moda, usa l’immagine del caprifico (fico selvatico) nato
dentro, che rompe il fegato e vien fuori, come il fico selvatico nasce tra i sassi delle muraglie screpolate e si
fa strada sgretolandole.
Gusto barocco
E’ un realismo, il suo, che vuole mettere in luce – sempre a fini di chirurgia morale - il marciume
nascosto sotto le apparenze di rispettabilità: la piaga purulenta che suscita disgusto e nausea. Nel compiere
questa operazione di svelamento della malattia, per suscitare la ripugnanza ricorre frequentemente, con
gusto barocco, al fetido, al macabro, all’orripilante, al disgustoso.
[Es. : il poetino con la mantellina color giacinto (comico) recita, “con inflessioni nasali e balbuzie da cinedo…versi
che puzzano di rancido”: un dato non più comico, ma disgustante.
Es. : il giovane che russa e non ha ancora smaltito la sbornia è descritto con “la… testa ciondoloni, come
disarticolata, sbadiglia la sbornia di ieri, con le mascelle che paiono scucite da ogni parte” (Sat. III,58 ss.): “più che la
testa di un ubriaco sembra il teschio macabro di un moribondo”- commenta La Penna.
Es. : il barocco in macabro del quadro del crapulone nella Sat. III (vv. 98-106) ]
Un gusto barocco deformante, che del resto colora buona parte della letteratura latina dell’età
imperiale: lo si ritrova nelle tragedie di Seneca, in Lucano, Tacito, Apuleio, Ammiano Marcellino,
Girolamo…
Persio è tuttavia più misurato, procede per pennellate essenziali, come nel definire l’atmosfera che si
respirava ai suoi tempi: “crassos…dies lucemque palustrem”, “aria crassa di corruzione, luce di palude”
(commenta La Penna : “un cielo non inadatto al nostro tempo…”).
Lo stile di Persio
E’ originalissimo lo stile di Persio, alambiccato e oscuro, frutto di un finissimo lavoro di cesello. Cosa lo
rende così “oscuro”, di difficile comprensione?
La poetica di Persio, la sua concezione dell’arte, il suo ideale di stile è condensato in un unico verso:
“Verba togae sequeris iunctura callidus acri” (Sat. V,14)
che potremmo tradurre “Tu cerchi parole comuni, fine e ingegnoso conoscitore dell’accostamento
tagliente”, ma “acri” significa anche penetrante, aspro, stridente, acuto, violento e sono tutti sensi
appropriati per descrivere il suo gusto degli accostamenti tra parole del tutto inusuali e sconcertanti.

Due aspetti contraddittori connotano tali scelte espressive:


 la lingua che sceglie di adottare è quella della conversazione comune (realismo), in polemica con la
ricerca falsa del grandioso e del sublime dell’epica e della tragedia contemporanee;
 ma lo stile è raffinato e ricercato, caratterizzato dal modo nuovo di unire, di accostare le parole, da
oscurità e finissimo lavoro di cesello, in evidente polemica con la faciloneria e l’improvvisazione dei
poeti coevi. Nessuno di loro, infatti, “si rode le unghie fino alla carne nel labor limae, nella ricerca
dell’espressione adeguata e rifinita”, come sostiene nella Sat.I.
Si tratta evidentemente dell’aspirazione a cercare una composizione, della ricerca di equilibrio, tra due
tendenze divergenti: la fedeltà alla lingua comune e la ricerca di sempre nuove iuncturae. Già Orazio
chiedeva al poeta la “callida iunctura”,ma Persio si spinge molto più in là, con un’audacia che scuote il
lettore, con un’arte “allusiva” che gli chiede una continua collaborazione interpretativa, per gli
accostamenti inusuali, sottili e difficili.
[Es. : “saliva Mercurialis” (Sat. V,113) : per dire – essendo Mercurio il dio dei commerci - “che viene in bocca
pregustando il guadagno”
Es. : “puteal flagellare”(Sat. IV,49) : per dire “esercitare l’usura flagellando i debitori”, in quanto il “puteal” di
Libone è il luogo dove si riuniscono gli usurai…]
Le metafore sono nuove e arditissime “nello spostare il termine reale di riferimento della metafora e
specialmente nell’accorciare la distanza tra termine reale e immagine analogica” attuando un processo di
“condensazione o salto dell’analogia”(tali da far pensare a poetiche novecentesche, da Rimbaud in poi..):
“pallentis mores” (Sat V,15), per significare “i costumi corrotti come malattia che fa impallidire”.
[Es. : Un’immagine usata da Varrone: “i peli si rizzano come le reste sulla spiga dell’orzo” ( “ut arista in spica
ordei”) diventa in Persio “excussit membris timor albus aristas” ovvero “la pallida paura ti ha drizzato tutti i
peli del corpo”. Il lettore deve ricavare dall’immagine (“aristas”) il termine reale (“peli”)
Es. : “Il filosofo strappa dal giovane i pregiudizi che gli hanno tramandati le vecchie nonne: ma nello stile di Persio
egli strappa dai polmoni del giovane le vecchie nonne (5,92 “veteres avias tibi de pulmone revello”): cioè
viene saltato il termine intermedio, le idee che le vecchie hanno insegnato.”
E’ innegabile la potenza espressiva dell’ultima immagine citata.
L’oscurità di Persio non appare – in conclusione – come il frutto di un puro gioco letterario fine a se
stesso, ma nemmeno come “la veste del rigore stoico”. Le due principali cause dell’oscurità consistono
nella dissimulazione del filo teorico e nel sottile lavoro di cesello (iunctura acri) con il quale “sposta i
rapporti comuni delle parole e i rapporti tra la metafora e la cosa”. Non si tratta di un gioco gratuito, bensì
funzionale sia “all’energia espressiva” sia alla “ricchezza e nitidezza della rappresentazione”. E’ infatti
“strettamente legato alla sua reazione di fronte alla realtà contemporanea e ai suoi ideali morali, che sono
alla base della sua poetica”.
Anziché condividere il drastico giudizio di Mommsen su Persio (“il perfetto ideale del giovane orgoglioso
e arido di cuore, diligente cultore della poesia”) ci appare, pertanto, più calzante quello di La Penna: “un
artista autentico, e nello stesso tempo tutt’altro che un artista puro.”
Opere.

Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti al testo delle "Satire", che probabilmente va fatta risalire
all’erudito Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite sulla sua vita, c’informa anche
della sua produzione.

Oltre che le "Satire" (che sono, ovviamente, il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una "pretexta" (dal
titolo "Vescio", che non comprendiamo); quindi, un libro contenente una narrazione di viaggi
("Hodoeporicon") e un componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di Tràsea Peto
(quella stessa Arria che volle morire suicida insieme al marito Cecina Peto).

Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette minori fossero distrutte, forse per constatate
imperfezioni di stile dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse rappresaglie per il
contenuto antimperialista di quella tragedia e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità di
Nerone.

Satire: Trama e considerazioni

Premessa. Le "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da un
proemio di 14 versi "coliambi" (= trimetri giambici scazonti, il metro di Ipponatte) contenenti la
dichiarazione di poetica di Persio, che si definisce poeta semipaganus (= "mezzo campagnolo"), a
sottolineare la propria assoluta estraneità al panorama dei letterati "alla moda". Molto probabilmente il
poeta aveva un ben più vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le "Satire" per
l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti, entrambi i
revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio
il periodo in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro erano ormai apertamente
ostili). Non solo: alcuni versi della fine del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché l'opera non
apparisse incompiuta.

Contenuto.

E’ da premettere che è molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera: il modo di
procedere di P. è quanto di più asistematico si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro
risultano, infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della logica. Si aggiungono, a questo, altri
problemi di interpretazione del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia, per
quanto ci è possibile, procediamo con ordine.

- I "coliambi" (14 vv) hanno un vero e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è
quello di educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo,
volte esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della
sua poesia e della sua ispirazione.

- La I satira (134 vv), strutturata in forma di dialogo tra l’autore e un immaginario interlocutore, è di
argomento letterario: ripudia la consuetudine delle declamationes (esecuzioni pubbliche in cui si faceva
sfoggio della propria conoscenza letteraria fine a sé stessa) illustrando i vizi deplorevoli della poesia
contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna. A questa il poeta – programmaticamente
sulla scia di Lucilio e, soprattutto, di Orazio - oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad
uomini liberi: Persio si augura di avere anche pochi lettori, ma che certo sapranno intendere i suoi versi.

- La II satira (75 vv), inviata all’amico Plozio Macrino in occasione del suo compleanno, attacca la religiosità
formale ed ipocrita, affermando di contro che agli dèi bisogna rivolgersi con fede onesta e sincera.

- La III satira (118 vv) biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi piuttosto alla morale stoica
proponendo la necessità di studi rigidi e severi perché possano essere formativi.

- La IV satira (52 vv) illustra la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum", soprattutto per chi
ambisca alla carriera politica (il poeta immagina che questa accusa, o rimprovero, venga rivolta ad Alcibiade
da Socrate), e bolla chi s’industria a scrutare i difetti altrui senza conoscere i propri.

- La V satira (191 vv), dedicata a Cornuto (profonda e commossa è la riconoscenza dell’allievo nei confronti
del maestro e dell’amico), la più lunga e la più bella, svolge il tema della libertà secondo il saggio stoico,
ch’è consapevolezza razionale e dominio delle passioni: di conseguenza, l’unico veramente libero è il
sapiente.

- La VI satira (80 vv, incompiuta), infine, rivolta sottoforma di lettera a C. Basso, che si trova in Sabina
(mentre l’autore è a godersi la meravigliosa scogliera ligure di Luni), muove da un elogio dell’amico come
poeta lirico, e progressivamente giunge a trasformarsi in un componimento soggettivo ed autobiografico:
P., mostrandosi grato per l’educazione ricevuta, afferma di avere raggiunto l’equilibrio spirituale e deplora
sia la prodigalità inconsulta sia l’avarizia, cui contrappone la "moderazione" ("metriotes") propria degli
stoici. Afferma dunque che la vera libertas non è un dato esteriore, proprio di un particolare ceto sociale o
politico, bensì essa dipende dall'anima. Affermazione che richiama la frase di Seneca:

« La libertà è affrancamento dalle passioni »

LA VITA OZIOSA E LA VERA EDUCAZIONE FILOSOFICA


( Persio, Satira III )

Sequenze
(“scene”)

“Anche l’inizio della terza satira ci getta subito nel mezzo di una scena.
Il “giovin signore”, dopo la crapula della sera precedente, dorme fino
1 vv. 1-9 a mattina inoltrata. Uno dei compagni, forse Persio stesso (anzi lo
Housman pensava che Persio si fosse sdoppiato nel giovane ignavo e
nel compagno, quindi supponeva una specie di monologo), lo rimbrotta
per la sua ignavia. Il giovane si alza gonfio di bile (1-9).
2 vv. 10-19 Messosi al lavoro, trova pretesti futili per non studiare (10-19);

Ma il compagno lo incalza perché non tardi a imboccare la via degli


3 vv. 19-30 studi filosofici e della liberazione morale: non si contenti dei beni
apparenti che possiede (ricchezze, nobiltà), prenda coscienza dei suoi
vizi, che lui, il compagno, conosce bene (19-30).
Il giovane ignavo vive come il dissoluto Natta; ma Natta è come un
4 vv. 31-43 bruto immerso nel fango, che non ha coscienza di nulla; il giovane, che
ha preso coscienza della virtù, sarà tormentato dal rimorso, come i
tiranni siciliani (31-43).
Il poeta ricorda come egli da fanciullo cercasse con piccoli imbrogli di
5 vv. 44-58 sottrarsi ai suoi doveri; nei fanciulli questi sono peccati scusabili; ma il
“giovin signore” è in un’età più matura e la filosofia gli ha indicato già
la via giusta (44-58).
Invece continua a vivere nell’ignavia; il poeta gli chiede se vive con uno
6 vv. 59-65 scopo o vive a caso. Eppure non c’è tempo da perdere: bisogna
combattere la malattia ai suoi inizi (59-65);
e qui il poeta gli dà una breve ‘summa’ della sapienza stoica da
7 vv. 66-76 seguire; la segua, e non stia a morire d’invidia per chi è più ricco di lui
(66-76).
8 vv. 77-87 Questa sapienza viene irrisa dal rozzo e fetido centurione e dal volgo
(77.87);
9 vv. 88-106 ma chi non prende in tempo coscienza della propria malattia e persiste
nel vizio, non evita una morte ripugnante (88-106):
Il pezzo comprende il magnifico e terribile quadro della morte del
crapulone nel bagno durante il banchetto. Né bisogna preoccuparsi
10 vv. solo delle malattie del corpo; si può essere sani nel corpo e malati
107-118 nell’anima; le malattie dell’anima sono più nascoste e, per questo, più
pericolose (107-118): la satira si chiude col quadro fiammeggiante
della malattia dell’ira.”
L’esortazione a lasciare una vita insulsa e corrotta per seguire la filosofia

Sequenze

(“scene”) Il filo rosso dell’argomentazione, sapientemente dissimulato

“Ogni giorno è la stessa storia!”


E’ lo sguardo di un “amico” che vorrebbe tirarti fuori dal fango delle
1 vv. 1-9 abitudini contratte (ignavia) in cui sguazzi tanto comodo…
La reazione: …non me n’ero accorto!!! Ma vi sbrigate a servirmi o no?
Non l’autorità di un re, ma …il raglio di un asino (anzi una mandria..)
Comincia lo studio. Ha tutto: non gli manca nulla, ma non gli va bene
niente e si lamenta in continuazione…(accusando il mondo intero…)
Perché? Perché l’inchiostro è un po’ seccato o troppo liquido? No.
Perché non ha voglia di far fatica, lo strappano a forza al suo sport
2 vv. 10-19 preferito (..non fare un tubo..) e lo condannano a studiare…
E’ un “autentico” infelice! La vita è veramente un dramma! [ironia]
Cosa ha tutto ciò di diverso dai capricci infantili? …del bambino
viziato che sbraita perché vuole la pappina già tritata o del figlio di re
che pretende tutti siano ai suoi servizi?
Ma chi crede di ingannare prendendosela con la penna che non
scrive, quando sa benissimo che è in se stesso la causa vera della sua
insoddisfazione e della sua rabbia verso tutti? Se va avanti così lo
prenderanno in giro tutti e lo disprezzeranno…
“E invece è proprio questo il tempo in cui curare la tua ‘formazione’!
3 vv. 19-29 Già, ma chi te lo fa fare, dato che tanto i soldi te li passa papà, anche
se non combini niente nella vita?”
“Ho tutto! Sto bene così!” (“sufficiente”!)
Anzi te ne fai bello e vai in giro vantandoti ai quattro venti che la tua
famiglia è “nobile” e avrai vita facile senza bisogno di fare alcuna
fatica…
4 vv. 30-43 “Lascia questi discorsi a chi ti sta ad ascoltare, magari anche
ammirato..
Io ti conosco bene: dentro e fuori! (« intus et in cute ») Non ti
vergogni di vivere così ? “affogato” in una vita insulsa? ...perché
dovresti vergognarti? Perché nonostante la tua età sei totalmente
privo di coscienza della realtà, della vita e della condizione umana!
Tre storie, tre situazioni radicalmente diverse, ma tutte e tre
emblematiche dei dolori e delle sofferenze comuni a chi condivide la
condizione umana:
 l’angoscia di chi è torturato e schiacciato da un potere ingiusto e
crudele (le vittime del tiranno Falaride e delle sue terribili torture);
 il tormento di chi esercita quel potere tirannico, che solo
apparentemente lo rende un uomo al di sopra degli altri, invidiabile
nella sua apparente onnipotenza (i rimorsi della coscienza per il
male commesso; l’incubo costante del tradimento, della congiura
da parte dei numerosi nemici nell’ombra…);
 la condizione disperata dell’uomo comune che (con la
responsabilità di una famiglia..) si rende conto che precipita in
rovina (per sue colpe o per le avversità della sorte?) e non osa dire
nulla alla moglie…
[ E’ questo il dramma (percepire la vita come infelicità e tormento)
da cui la via proposta dalla filosofia ti può liberare!
E il nostro giovane…? Ne è totalmente ignaro. E anzi crede di sapere
tutto della vita, di averla in pugno…
Si ritorna a lui nella scena successiva: … ]
5 vv. 44-58 … continua a vivere come un bambino, con gli stessi obiettivi a breve
termine: mezzucci e piccoli inganni per riuscire a marinare una
scuola noiosa che insegna cose insulse; la ricerca dei piccoli piaceri e
successi nel vincere gli amici al gioco. Un vivere alla giornata senza
guardare più in là, senza progetti…
Nonostante l’età e gli insegnamenti ricevuti, ignaro del bene e del
male (della vita, nelle sue complessità e durezze..)…
[ del tutto privo di consapevolezza, di umanità seria: un fantoccio…
Un bambino egocentrico e “stupido” (=incapace di capire cosa è la
vita per l’uomo), un irresponsabile in un corpo di uomo di
vent’anni…
Più che pena, suscita disprezzo: come fa a non rendersene conto?
(questo è il punto: non se ne accorge; non capisce la sua situazione!)
…come fa a non vergognarsene ? ]
All’opposto della gioventù che cresce riflessiva alla scuola stoica di
Atene: una scarsa cura dell’esteriorità, sobri i cibi e le abitudini di
vita.
“Tu che dovresti aver ormai capito che la via della virtù è stretta e
ripida e invece voli giù a capofitto per la via larga e comoda del non
fare un… e lasciarsi vivere alla giornata: a letto il mattino fino a tardi
a smaltire la sbornia sistematica delle feste notturne.
Come un alienato, una marionetta disarticolata, grottesca, non un
uomo…”
[ chi comanda dentro di te? Si preoccupa di costruire? Pensa il tuo
futuro? Medita e compie le scelte? Altri: le situazioni, le circostanze,
le voglie, l’istinto…]
C’è qualcosa a cui ti riesce di appassionarti? Per cui sei disposto a
spenderti? O vivi galleggiando alla superficie della vita, lasciando
che siano le onde a portarti dove vogliono loro? E vivi alla giornata?
[ Questa è la tua grave malattia e la cosa più grave è che nemmeno
6 vv. 59-65 ti rendi conto, nemmeno sospetti che lo sia. La credi e la chiami la
tua LIBERTA’! Vivere facendo quel che ti pare… Proprio ciò
che in realtà è la tua rovina ]
Il guaio è che se certe malattie non le prendi in tempo, quando ti
decidi a curarla – perché stai male – poi è troppo tardi e nessun
medico, anche se bravissimo, ti può più salvare…
Solo a questo punto si può aprire la parentesi: l’invito alla
conversione filosofica. “Ma ti rendi conto di come stai vivendo la
tua vita?” [v.66 “rendetevi conto!”…]
Solo a partire dalla presa di coscienza [consapevolezza] della propria
condizione è possibile che cominci un cammino verso l’essere
umano…
[ E’ l’appello all’interiorità: “scendi in te stesso e guardati
dentro! Smetti di vivere da imbecille alla superficie delle cose;
7 vv. 66-76 come un turacciolo di sughero in balia della corrente…]
[v. 66 “o infelici”!…] Questa è la vera infelicità [ spesso mascherata
da un’allegria sguaiata: il più chiaro sintomo della confusione, della
sofferenza o della disperazione interiore ]: quella di chi non si è reso
conto, non ha ancora capito niente della vita. Di qui l’invito a
prendere coscienza, a cercare risposte alle domande di senso… e
tante lamentazioni inutili per ritenerti l’essere più sfortunato al
mondo [perché non ti hanno scelto tra le cinque pop star …o perché
non hai i soldi dell’avvocato, che in realtà si è arricchito con le
mazzette dei suoi potenti clienti… ] svaniranno da sole.
8 vv. 77-87 […da questo punto in poi – raggiunta la vetta dell’esortazione a
seguire gli insegnamenti della filosofia(parenèsi)– come può
continuare la satira?
Con le argomentazioni in difesa del proprio modo di vivere da parte
del giovane imbecille e di tutti i seguaci della stessa “filosofia” di
vita…]
“Ma che … me ne frega di quello che mi dici? So io cosa conta nella
vita... Io sì che so cosa vuol dire godersi la vita!” [ ..ritorna la
filosofia del “sufficiente”: “quel che io so mi è più che sufficiente;
non m’interessa affatto diventare sapiente…”]
A difesa delle posizioni del giovane (che non si difende da sé; non
interviene; non ha niente da dire… e non sorprende: è una nullità!)
Persio non sceglie proprio il meglio della società del tempo:
centurioni che deridono l’atteggiamento meditativo e le parole dei
filosofi; ragazzotti “nerboruti” (fisici scultorei e teste di capre: i
“Tariconi” della situazione…) e la gente: sghignazzano, ti ridono in
faccia a sentire questo tipo di discorsi…
9 vv. 88-106 [ Non risponde, Persio. Non replica agli insulti e alle risate dei più.
Non argomenta in modo esplicito, confutando le tesi dei suoi
denigratori. Ma l’argomentazione – dissimulata – è schiacciante. E’
come se dicesse:
“Sai chi sei tu che rispondi come mi hai risposto? Guardati bene allo
specchio che adesso ti descrivo!” Ecco il senso della scena che si
apre:
“sei la fotocopia esatta di questo tizio, se sei attestato sulla tua
posizione; se non c’è in te nessuna disponibilità a riflettere su te
stesso e a metterti in discussione. Sei ormai a questo punto: senza
speranza…”
Il fatto che si parli di uno che mangia troppo è marginale; che conta è
il suo atteggiamento a) di fronte ai consigli del medico, per la sua
“salute”;
b) di fronte alla vita.
E’ uno che si lascia vivere, abbandonato agli istinti (con l’idea che
libertà sia: “faccio quello che mi pare e tu non mi seccare coi tuoi
noiosi consigli. Fatti gli affaracci tuoi!”)
E’ la grande scena del crapulone, che muore durante il banchetto.
Qualche sintomo della malattia lo avverte [ che la vita che sta
vivendo non sia il massimo, ogni tanto lo percepisce..], ma ascolta il
medico – che lo mette in guardia – giusto il tempo (effimero) in cui
durano i suoi buoni propositi. E riprende subito le sue abitudini di
sempre.
Altri gli fanno notare che è a rischio, se va avanti così. Ma manda al
diavolo tutti quelli che vogliono dargli consigli e continua a modo
suo [ anzi raddoppia il fumo, lo sballo…], finché schiatta, nel vomito.
E’ la degna morte – solenne! - di un simile “eroe” (ironia: “beato” =
la felicità che una vita così vissuta promette): una morte simbolica
dell’annullamento dell’essere umano, dell’uomo.
E’ questo il senso della conclusione,in cui il poeta torna al “tu”, a
rivolgersi al giovane destinatario: “vuoi finire così? Senza accorgerti
di come ci sei arrivato?”.
“Già, tu – al momento – stai benone: non hai né febbre da cavallo, né
il gelo della morte negli arti. Non vedi sintomi preoccupanti: non c’è
nulla che ti costringa a renderti conto della malattia che ti sta
portando alla rovina. Ma guarda un po’ come reagisci alle situazioni
della vita! Le passioni ti travolgono (il danaro, le fanciulle…): non
10 vv.
107-118
sei padrone delle tue reazioni; sei in balìa degli istinti, delle
sensazioni, delle emozioni, dei desideri…. Altri ti trascinano dove
non sei tu che hai deciso di andare: sei alienato da te stesso.
Dove sei? Chi c’è dentro di te che ti manovra, se non è la tua
coscienza?
Sei “folle” a vivere così e non te ne accorgi.
Non te ne rendi minimamente conto! Questo è l’aspetto più grave
della tua malattia. Ma è proprio la “condizione” senza la quale non si
dà la follia: l’assenza della consapevolezza di essere folli!

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