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La nascita e gli studi. Persio nacque a Volterra nel 34 d.C. (attuale Toscana) da famiglia agiata e
appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura
dalla madre, Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13 anni, venne educato presso le migliori
scuole di grammatica e retorica: ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a segnarlo fu
l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto (liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di
Lucano), che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato. Ben presto
dimostrò la sua insofferenza nei confronti della retorica, orientandosi decisamente verso la filosofia; scelse
lo stoicismo, e a questa linea si dimostrò fedele per tutta la sua breve vita.
Egli è però fra coloro che dànno del pensiero stoico un’interpretazione opposta a quella abituale in Roma:
infatti l’impegno politico è da lui rigettato in favore di un impegno di tipo strettamente personale, morale,
non legato in alcun modo alla sfera pubblica (tale ambiguità di fondo, implicita nella concezione stoica del
libero arbitrio e del Fato, è evidente anche nell’evoluzione del pensiero di Seneca e nella sua scelta finale di
ritirarsi dalla scena politica).
La formazione interiore. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel
culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P. fu amorevolmente circondato dalle cure della
madre, ma anche di altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore, moglie di Tràsea Peto,
e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione
filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio
Statura, Lucano, Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio Noniano e i già citati Tràsea
Peto e Cornuto (per lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia.
L’isolamento. La naturale introversione e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale aveva
scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che
mostrò di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure (ma tardi)
conobbe: tuttavia, è difficile stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad una scelta per così
dire "estetica" ed etica, o se non vi sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento "politico" di rifiuto
della realtà che lo circondava.
La morte. P. morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia. Lasciò in
eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) –
nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé
i libri, mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta.
Contenuto della satira di Persio sono frequentemente la condanna della poesia contemporanea – che
considera corrotta e corruttrice – e la denuncia delle abitudini di vita diffuse nella società
contemporanea: la fenomenologia dei vizi imperanti, nel clima di una generale e nauseante corruzione
dei costumi.
(A) Anzitutto, dunque, a caratterizzare la satira di Persio è la rivolta contro la poesia
contemporanea. L’avversione radicale dell’autore è dovuta a una triplice ragione:
1 ) anziché spingere al rifiuto della corruzione contemporanea dilagante, partecipa ai suoi vizi, ne è
intimamente corrotta e anzi diviene essa stessa causa di corruzione: il poeta e il suo pubblico si
corrompono a vicenda ( il poeta deve compiacere la corruzione del pubblico se vuole essere letto e
acquistare fama.
[ Cfr. due immagini della Satira I:
Cavalieri romani imponenti nell’aspetto che durante le “recitationes” si sentono solleticati fin nelle viscere dai
versi che un poeta elegante e imbellettato recita;
O dei discendenti di Romolo che a banchetto, con la pancia piena, stanno ad ascoltare ed elogiano un poetino
effeminato con una mantellina color giacinto che recita lamentosi, brevi componimenti erotici. ]
2 ) è appunto caratterizzata da una mollezza effeminata: l’allusione evidente è al nuovo gusto poetico
diffusosi in Roma, orientato al recupero della poesia di ispirazione neoterica (breve, raffinata, di
contenuto amoroso…) come reazione alla poesia augustea dalle alte ambizioni, all’epica solenne.
3 ) nell’ambito dell’epica e della tragedia è viziata dalla ricerca del grandioso: di “una sublimità fittizia e
vacua”, di una “falsa grandiosità” (=di grandi ambizioni che vuol contendere con Virgilio nella
grandiosità; si narra che Nerone ambisse a comporre un poema in 400 libri sulla storia di Roma…) e
dall’esasperazione dell’orrore e del macabro.
Il netto rifiuto della poesia contemporanea si accompagna all’irrisione e al disprezzo per i poeti
contemporanei, per i quali maestro dell’arte è il ventre (ossia la fame, il bisogno di campare…) e, spinti
in realtà solo dalla brama di guadagno, imitatori servili, privi di originalità, si fanno passare per ispirati
dalle Muse. Il giudizio è drastico: pappagalli che parlano in greco (= poetastri ellenizzati, imitatori privi di
originalità); gazze (…ladre, per il loro mirare solo al guadagno).
(B) Alla radice del rifiuto per la poesia contemporanea sta il rifiuto della realtà morale
contemporanea, che descrive con grande realismo nelle sue satire (un realismo giustificato proprio
dalla convinzione che il compito della letteratura sia un compito etico, di demistificazione, di chirurgia
morale…), rappresentando una fenomenologia del vizio molto cruda nei toni, che, soprattutto in alcune
scene più originali offre un quadro di vita imperiale romana (come altre pagine di Petronio o Marziale o
Giovenale).
Accanto ad alcuni quadretti di vizi rappresentati in modo abbastanza convenzionale (fonti: tradizione
satirica e diatribica), Persio crea personaggi e immagini originali nello stigmatizzare i due vizi principali:
l’accumulo di ricchezza grazie al risparmio e all’usura (l’avarizia) e lo sperpero di essa; la lussuria.
[ es. - l’avaro mercante (Satira IV) che cena sulla sua nave seduto su un mucchio di gomene;
- l’avaro padrone di un latifondo in Sabina, che nel giorno di festa solenne addenta una cipolla, beve aceto e
concede a i suoi servi una minestra di farro.
Fino alle scene più urtanti
- del gaudente che, tutto unto d’olio, prende i bagni di sole, interamente depilato, eccetto che nella barba,
che si pettina in continuazione (Sat. IV,33ss.);
- del crapulone che muore di ingordigia durante un banchetto, perché non si è curato degli ammonimenti del
medico: occasione per stigmatizzare lo sperpero di ricchezza e l’assoluta mancanza di ogni limite nei consumi
(Sat. III).
(C) Cosa caratterizza – in conclusione – la satira di Persio nei confronti del costume contemporaneo
se la confrontiamo con la precedente tradizione della satira in Roma?
Persio è più vicino alla aggressività, alla satira mordace di Lucilio che alla divertita indulgenza di
Orazio (bonaria ironia nell’osservare i difetti umani). La ripulsa per i costumi contemporanei lo spinge a
sfogare la sua nausea: la “pars destruens” domina sulla “pars costruens”. La fenomenologia del vizio si
impone come contenuto dominante, nettamente prevalente rispetto alle scarse indicazioni positive sul
“recte vivere”.
[NB: nella satira oraziana è più evidente una precettistica positiva; Orazio ribadisce frequentemente i principi
ispiratori della sua morale: metriòtes, autàrcheia, carpe diem…; nella satira di Giovenale “la patologia del vizio
prenderà uno spazio ancora più ampio”.]
Nella Sat. III condensa in pochi vv. il succo della saggezza (cfr. III,63-76).
Nella Sat. V dissemina nel testo i principi ispiratori di una esistenza retta: moderazione nei desideri e
nell’uso della ricchezza; buoni rapporti con gli amici; rifiuto della avarizia, lussuria, ambizione,
superstizione…
Persio e lo stoicismo
Non ritrovava Persio tutti questi motivi nella satira precedente, senza che ci sia bisogno di chiamare in
Assume un atteggiamento di distacco aristocratico nei confronti del volgo: un atteggiamento già
presente nella tradizione satirica e diatribica, che però si approfondisce. L’antinomia tra proselitismo
e distacco aristocratico si evidenzia nello stile, per la scelta di un linguaggio che attinge alla lingua
viva quotidiana –da una parte – e la complessa elaborazione formale – dall’altra.
Nella lettura, l’impressione immediata e irritante che suscitano le satire di Persio è quella di trovarsi di
fronte ad “una giustapposizione più o meno casuale di immagini o di quadri”. L’accostamento di scene,
immagini, situazioni tra loro apparentemente prive di nessi espliciti di collegamento induce a trarre la
conclusione che manchi una logica argomentativa e l’autore giochi ad offrire al lettore un flusso di immagini
sconnesse, da gustare come una serie di quadretti a sé stanti ( surrealismo? Poesia puramente visiva, priva
di spessore ragionativo?).
In realtà si tratta di comprendere la peculiarità del metodo compositivo di Persio: una trama
concettuale c’è, ma è volutamente nascosta, mascherata, lasciata implicita, chiedendo al lettore di
scoprirla.
Già Orazio aveva voluto differenziare la satira dall’argomentazione filosofica: come? La satira oraziana
ha inizio da un’esperienza quotidiana presentata come casuale; non si apre ponendo in anticipo il problema
né la sua risoluzione. C’è un filo logico ma viene dissimulato; non è in primo piano: lo sono la
rappresentazione e il dialogo; anzi è spesso dissimulato così bene che è difficile ritrovarlo.
Persio non ha fatto altro che portare all’estremo limite questo procedimento, moltiplicando le difficoltà
di interpretazione. In realtà ogni satira affronta un tema etico dominante e lo svolge seguendo una sua
logica interna, anche se non è esplicita ma da scoprire:
“La prima vuole definire la posizione e il compito del poeta satirico di fronte alla corruzione della letteratura e della
vita. La seconda svolge coerentemente l’irrisione delle preghiere stolte. La terza indica le ragioni per cui il giovane
non deve tardare a imboccare la via della filosofia come ricerca e pratica del ‘recte vivere’. La quarta, prendendo
l’avvio dall’ ‘Alcibiade I’ di Platone, discute sulla necessità di conoscere se stesso, di scavare nelle proprie malattie
per guarirsi, anziché guardare alle malattie degli altri. La quinta, dopo il lungo esordio, svolge con coerenza il
concetto della libertà vera come libertà dalle passioni. La sesta si propone come tema l’avarizia e la prodigalità; se
solo il tema dell’avarizia viene effettivamente svolto, non dobbiamo stupirci troppo: il caso è analogo a quello di
Orazio, Sat. I,2 …”
Il procedimento graziano è accentuato: nessuna satira comincia col porre chiaramente la questione (il
problema morale in discussione) ed anche quando pone il lettore davanti a un nuovo tema, non lo annuncia
esplicitamente, non guida il lettore a rendersene conto: “gli getta dinnanzi una nuova scena o un nuovo
quadro: il legame logico si chiarirà dopo o è lasciato al lettore il compito di ritrovarlo”.
E’ un modo di procedere che La Penna definisce “mimo diatribico”, perché è caratteristico della diatriba
(la predicazione filosofica popolare) il procedere del dialogo con un interlocutore inventato, alternato a
aneddoti, tavolette, scene di vita quotidiana, come in un mimo si assiste ad un susseguirsi di schetch
accostati uno all’altro.
Realismo
Nella satira dio Persio “c’è una forte tendenza alla rappresentazione concreta e visiva”. Si veda ad es. la
scena del risveglio del giovane poltrone nella Satira III. Una concretezza e una nitidezza visiva che penetra
nei dettagli, nelle metafore, nell’aggettivazione. Del mercante spilorcio che mangia per pranzo una cipolla,
si dice che addenta “tunicatum caepe” - una “cipolla in tunica” - perché non butta via nemmeno la buccia.
Il dettaglio realistico non tende a scopi esornativi, ma nasce da una istintiva cura di “tenere il concetto
sempre attaccato all’immagine, radicato nella sensazione”. Nella Satira I (v.24) ad es., per esprimere il
desiderio irresistibile di esibirsi del poeta alla moda, usa l’immagine del caprifico (fico selvatico) nato
dentro, che rompe il fegato e vien fuori, come il fico selvatico nasce tra i sassi delle muraglie screpolate e si
fa strada sgretolandole.
Gusto barocco
E’ un realismo, il suo, che vuole mettere in luce – sempre a fini di chirurgia morale - il marciume
nascosto sotto le apparenze di rispettabilità: la piaga purulenta che suscita disgusto e nausea. Nel compiere
questa operazione di svelamento della malattia, per suscitare la ripugnanza ricorre frequentemente, con
gusto barocco, al fetido, al macabro, all’orripilante, al disgustoso.
[Es. : il poetino con la mantellina color giacinto (comico) recita, “con inflessioni nasali e balbuzie da cinedo…versi
che puzzano di rancido”: un dato non più comico, ma disgustante.
Es. : il giovane che russa e non ha ancora smaltito la sbornia è descritto con “la… testa ciondoloni, come
disarticolata, sbadiglia la sbornia di ieri, con le mascelle che paiono scucite da ogni parte” (Sat. III,58 ss.): “più che la
testa di un ubriaco sembra il teschio macabro di un moribondo”- commenta La Penna.
Es. : il barocco in macabro del quadro del crapulone nella Sat. III (vv. 98-106) ]
Un gusto barocco deformante, che del resto colora buona parte della letteratura latina dell’età
imperiale: lo si ritrova nelle tragedie di Seneca, in Lucano, Tacito, Apuleio, Ammiano Marcellino,
Girolamo…
Persio è tuttavia più misurato, procede per pennellate essenziali, come nel definire l’atmosfera che si
respirava ai suoi tempi: “crassos…dies lucemque palustrem”, “aria crassa di corruzione, luce di palude”
(commenta La Penna : “un cielo non inadatto al nostro tempo…”).
Lo stile di Persio
E’ originalissimo lo stile di Persio, alambiccato e oscuro, frutto di un finissimo lavoro di cesello. Cosa lo
rende così “oscuro”, di difficile comprensione?
La poetica di Persio, la sua concezione dell’arte, il suo ideale di stile è condensato in un unico verso:
“Verba togae sequeris iunctura callidus acri” (Sat. V,14)
che potremmo tradurre “Tu cerchi parole comuni, fine e ingegnoso conoscitore dell’accostamento
tagliente”, ma “acri” significa anche penetrante, aspro, stridente, acuto, violento e sono tutti sensi
appropriati per descrivere il suo gusto degli accostamenti tra parole del tutto inusuali e sconcertanti.
Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti al testo delle "Satire", che probabilmente va fatta risalire
all’erudito Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite sulla sua vita, c’informa anche
della sua produzione.
Oltre che le "Satire" (che sono, ovviamente, il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una "pretexta" (dal
titolo "Vescio", che non comprendiamo); quindi, un libro contenente una narrazione di viaggi
("Hodoeporicon") e un componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di Tràsea Peto
(quella stessa Arria che volle morire suicida insieme al marito Cecina Peto).
Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette minori fossero distrutte, forse per constatate
imperfezioni di stile dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse rappresaglie per il
contenuto antimperialista di quella tragedia e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità di
Nerone.
Premessa. Le "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da un
proemio di 14 versi "coliambi" (= trimetri giambici scazonti, il metro di Ipponatte) contenenti la
dichiarazione di poetica di Persio, che si definisce poeta semipaganus (= "mezzo campagnolo"), a
sottolineare la propria assoluta estraneità al panorama dei letterati "alla moda". Molto probabilmente il
poeta aveva un ben più vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le "Satire" per
l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti, entrambi i
revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio
il periodo in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro erano ormai apertamente
ostili). Non solo: alcuni versi della fine del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché l'opera non
apparisse incompiuta.
Contenuto.
E’ da premettere che è molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera: il modo di
procedere di P. è quanto di più asistematico si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro
risultano, infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della logica. Si aggiungono, a questo, altri
problemi di interpretazione del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia, per
quanto ci è possibile, procediamo con ordine.
- I "coliambi" (14 vv) hanno un vero e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è
quello di educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo,
volte esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della
sua poesia e della sua ispirazione.
- La I satira (134 vv), strutturata in forma di dialogo tra l’autore e un immaginario interlocutore, è di
argomento letterario: ripudia la consuetudine delle declamationes (esecuzioni pubbliche in cui si faceva
sfoggio della propria conoscenza letteraria fine a sé stessa) illustrando i vizi deplorevoli della poesia
contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna. A questa il poeta – programmaticamente
sulla scia di Lucilio e, soprattutto, di Orazio - oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad
uomini liberi: Persio si augura di avere anche pochi lettori, ma che certo sapranno intendere i suoi versi.
- La II satira (75 vv), inviata all’amico Plozio Macrino in occasione del suo compleanno, attacca la religiosità
formale ed ipocrita, affermando di contro che agli dèi bisogna rivolgersi con fede onesta e sincera.
- La III satira (118 vv) biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi piuttosto alla morale stoica
proponendo la necessità di studi rigidi e severi perché possano essere formativi.
- La IV satira (52 vv) illustra la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum", soprattutto per chi
ambisca alla carriera politica (il poeta immagina che questa accusa, o rimprovero, venga rivolta ad Alcibiade
da Socrate), e bolla chi s’industria a scrutare i difetti altrui senza conoscere i propri.
- La V satira (191 vv), dedicata a Cornuto (profonda e commossa è la riconoscenza dell’allievo nei confronti
del maestro e dell’amico), la più lunga e la più bella, svolge il tema della libertà secondo il saggio stoico,
ch’è consapevolezza razionale e dominio delle passioni: di conseguenza, l’unico veramente libero è il
sapiente.
- La VI satira (80 vv, incompiuta), infine, rivolta sottoforma di lettera a C. Basso, che si trova in Sabina
(mentre l’autore è a godersi la meravigliosa scogliera ligure di Luni), muove da un elogio dell’amico come
poeta lirico, e progressivamente giunge a trasformarsi in un componimento soggettivo ed autobiografico:
P., mostrandosi grato per l’educazione ricevuta, afferma di avere raggiunto l’equilibrio spirituale e deplora
sia la prodigalità inconsulta sia l’avarizia, cui contrappone la "moderazione" ("metriotes") propria degli
stoici. Afferma dunque che la vera libertas non è un dato esteriore, proprio di un particolare ceto sociale o
politico, bensì essa dipende dall'anima. Affermazione che richiama la frase di Seneca:
Sequenze
(“scene”)
“Anche l’inizio della terza satira ci getta subito nel mezzo di una scena.
Il “giovin signore”, dopo la crapula della sera precedente, dorme fino
1 vv. 1-9 a mattina inoltrata. Uno dei compagni, forse Persio stesso (anzi lo
Housman pensava che Persio si fosse sdoppiato nel giovane ignavo e
nel compagno, quindi supponeva una specie di monologo), lo rimbrotta
per la sua ignavia. Il giovane si alza gonfio di bile (1-9).
2 vv. 10-19 Messosi al lavoro, trova pretesti futili per non studiare (10-19);
Sequenze