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Seneca

Letteratura latina
Appunti di Tambone Antonio

Prefazione Quello che colpisce di questo autore è lo spessore dell'elaborazione teorica


congiunta ad un contenitore espressivo rappresentato da un stile originale, che parve tale anche ai suoi
contemporanei, tanto da divenire un modello in una società dove la retorica è l'ambito principale di
formazione per chi gestirà il potere; fino ad allora, infatti, dominava lo stile ciceroniano, e il suo stile
era visto in antitesi a questo modello: Cicerone di fatto era l'artefice dello stile rodiano, una sintesi tra
atticismo e asianesimo, una prosa armoniosa, dove la padronanza del periodo dà la sensazione, nel
rispetto della teoria isocratea, che "chi sa ben parlare, sa ben pensare". Seneca costruisce, in questa
fase di crisi del ceto dirigente a cui Cicerone aveva offerto il suo modello, un modello stilistico
frantumato: Quintiliano lo definirà come costituito di "minutissimae sententiae", cioè talmente
infranto che il lettore ha bisogno di soffermarsi e ricostruire la linea di pensiero, persa durante la
lettura.
Ma ciò non è casuale: infatti, la frammentarietà dello stile suggerisce l'idea di una frantumazione della
realtà che viene raccontata, dove il ceto senatorio ha compreso la perdita della sua centralità; al tempo
stesso però, Seneca vuole che attraverso questo stile, la cui prima difficoltà è la soppressione degli
elementi di coesione (cataforici e anaforici), il lettore rifletta sulla pagina e compia lo stesso itinerario
di approfondimento critico mirato all'approfondimento di sé che lui stesso ha compiuto.
Quintiliano muove delle critiche al suo stile, costruito negli stessi anni dello sviluppo della scuola di
retorica, sostenendo che si tratta di uno stile mirato a corrompere, perché i giovani perdono di vista la
possibilità di costruire un periodo armonioso e finiscono col costruire pensieri che diventano corrotti
nella misura in cui è corrotto il testo.
In questa città quindi, la retorica è lo strumento fondamentale della gestione diretta o indiretta del
potere (collaborazione col princeps). (1. Idea della frantumazione del reale di cui parla. 2.
Approfondimento psicologico)

La diatriba cinico-stoica Frequente nella prosa di Seneca è il ricorso alla diatriba cinico-stoica: si
tratta di un modello di comunicazione filosofica (quindi di induzione alla riflessione in ambito etico)
promosso dalla corrente filosofica dell'ellenismo, che promuove delle correnti di rassicuramento al
momento di crisi della Grecia; abbiamo quindi stoicismo, epicureismo e cinismo¹. Intellettuali che si
rifanno alla tradizione cinica è Luciano, retore del II secolo, che scrive il Dialogo dei Morti.
La diatriba (discussione) consisteva nel mettere in scena concetti astratti facendo ricorso alla
rappresentazione scenica, un dibattito, dove un filosofo recitava le due parti, perché dalla scena
derivasse il messaggio educativo. Questo modello comunicativo viene adottato anche dallo stoicismo
e un esempio della diatriba nella letteratura alta (dedicata alle classi alte) è nelle satire oraziane;
Seneca infatti, inserisce delle obiezioni prevedibili e ne dà risposta.

1. deriva da ‘kýōn, kyvòs’, ‘cane’, che sta per ‘filosofi che mordono’: sono intellettuali che scelgono la
strada, medio-alti borghesi che abbandonano casa e rinnegano le loro origini per predicare idee che
consistono nello smembramento dei falsi valori cui la civiltà del tempo si costruiva, come la ricchezza,
il potere, l'autorità e via discorrendo. Erano guardati con sospetto perché educavano le masse ad un
disprezzo dei valori consolidati, soprattutto al potere monarchico costituito, che proponeva di tutelare i
diritti di tutti, ma di fatto tutelava gli interessi delle classi abbienti. Rappresentante ne è Diogene di
Sinope.
La vita Nasce a Cordova, discende da una famiglia agiata, probabilmente discendente di coloni
romani, studia a Roma e manifesta interessi di ordine filosofico entrando in delle sette che praticavano
dei digiuni per curare la spiritualità (modificazione della materia per esaltare lo spirito), che minano la
salute di Seneca. Nel 65 muore suicida perché coinvolto nella congiura dei Pisoni: gli arrivò infatti
l'ordine di suicidio da parte di Nerone.
La sua intelligenza lo rese subito noto negli ambienti di corte sin dai tempi dell’imperatore Caligola,
con cui venne a contrasto probabilmente per invidia: addirittura si pensa sia stato coinvolto nella
congiura contro il princeps, che lo avrebbe condannato a morte; l’intercessione di una donna di corte,
probabilmente legata a Caligola, avrebbe salvato Seneca dall’esecuzione materiale.
Una sorte non migliore la ebbe sotto Claudio, che lo fece esiliare in Corsica, senza però la relegatio
(confisca dei beni). In esilio Seneca rimane per anni, tentando di rientrare in Roma supplicando il
servus alibellis (il servo che si occupava di gestire le suppliche che arrivavano all’imperatore).
Riuscì a rientrare dopo il 54, quando Agrippina, seconda moglie di Claudio e sorella di Caligola, lo
chiama dall’esilio e lo incarica dell’educazione di Nerone.
Insieme al prefetto del pretorio Burro, nel quinquennio 54-59 diventa la guida spirituale e politica del
giovane e mite Nerone, che prometteva un ritorno al modello augusteo di collaborazione tra
aristocrazia senatoria e princeps.
Dopo il quinquennio, il giovane Nerone esercita un potere autocratico di tipo orientale e uccide la
madre, ambiziosa di rivestire il ruolo di ‘imperatrice’ condizionando il figlio imperatore (non ci era
riuscita con Claudio), poi si libera dei suoi precettori; Seneca nel 62 sceglie di ritirarsi a vita privata,
adducendo motivazioni di stanchezza e ritorno alla riflessione filosofica: in realtà il filosofo, che si è
mosso con equilibrio, vuole evitare di incorrere nello scontro diretto con il principe, sul modello di
Agricola.

La morte di Seneca Se è vero questo, quando Tacito parla delle ambitiosae mortes, alludendo
al suicidio di Seneca, lo fa tanto per esaltare la personalita di suo suocero (e quindi anche la sua),
quanto per ricondurre la morte del filosofo ad una morte socratica, dove non può lasciare nulla di
concreto agli amici perché lascia tutto all’imperatore²: Seneca infatti lascia un’ imago vitae - un
immagine della sua vita - cui guardare ad esso come uno specchio di costume. Tacito per ovvie
ragioni non ha assistito a questa morte, ma è chiaro che nella ricostruzione tramite le testimonianze
abbia volutamente enfatizzato l’aspetto ‘tragico e patetico’ dell’episodio, per far passare la morte di
Seneca come una morte socratica. Tacito intende dire che Seneca non si è opposto in modo
inconcludente al principato, ma si suicida perché è probabilmente coinvolto nella congiura di Pisone,
che avrebbe deciso le sorti del filosofo: se infatti questa avesse avuto successo, probabilmente Seneca
sarebbe stato pronto a tornare in campo -come Cicerone dopo la morte di Cesare-, a sporcarsi le mani
in politica dopo esser stato nominato verosimilmente princeps. La morte di Seneca, per quanto
additata come ambitiosa mors, non si è quindi manifestata con l’opposizione tramite un progetto del
tutto surreale, cioè tramite l’unica strada possibile: l'eliminazione fisica del princeps.

2. Lasciare l’eredità all’imperatore era una tecnica consueta, che di solito permetteva l’incolumità dei
propri cari. Scrive Tacito: ‘Tam caeca et corrupta mens adsiduis adulationibus erat, ut nesciret a bono
patre non scribi heredem nisi malum principem.’ (Agr., 43)
La considerazione dei contemporanei Quello che è paradossale è che Seneca, nella tradizione
successiva, nel giudizio dell'intelligenza romana di stampo aristocratico, viene censurato e guardato
con sospetto e critica nella fase in cui ha collaborato con il princeps, ed esaltato nell’ultima fase della
sua vita, dove sembra assumere tutte le sembianze del sapiens stoico, tutto proteso a cercare in se
stesso, dopo aver preso atto dell’impossibilità di convertire il principato: non c’è intellettuale che si
sia speso meglio e che sia arrivato ad un passo dal ruolo di predominio dell’aristocrazia educando il
principe come un filosofo, riuscendoci quasi nel quinquennio felice; eppure la cultura aristocratica lo
critica nonostante questo. Il suo progetto è simile a quello di Platone e verrà articolato nel De
Clementia: si tratta dell’idea di un principato illuminato e con il princeps che ha assunto i valori della
filosofia stoica.

La chiamata di Seneca dall’esilio Agrippina richiama Seneca dall’esilio per mandare un segnale
all’aristocrazia senatoria di riconciliazione dopo che ha subito l’oltraggio da Claudio, che aveva
preferito come suoi collaboratori i liberti. Richiamare Seneca dall’esilio, quindi, era rendere meno
problematica l’usurpazione del trono: richiamare un perseguitato intellettuale di spicco della filosofia
stoica, identitaria dell'aristocrazia senatoria, che rimarca il dovere di esercitare il negotium politico da
coloro che secundum propriam naturam fossero soggetti ad assumere questo onus, significava
richiamarsi, da parte di Agrippina, al modello augusteo. Nerone poi elimina la madre, su consiglio
dello stesso Seneca e Burro, che vedevano nella madre una competitrice nell'influenza a Nerone.
Dopo l’assassinio di Agrippina nel 59, Nerone disvela la sua natura di politico che intende dare una
svolta autocratica allo stato (passaggio principatus-dominatus), gettando la maschera dell’impero
augusteo.

Il ruolo di Seneca nell’ambito della filosofia stoica Parlare di come Seneca adatta la filosofia
stoica, che imponeva e riservava al sapiens il negotium politico in forma direttiva (era la teoria che
legittimava nella res publica la predominanza dell’aristocrazia senatoria) significa trattare di come la
adatti al principato. A questa idea non dedica un’opera organica, ma è una visione che si recupera da
diverse opere, specie dal de Clementia, un trattato di pedagogia imperiale dedicato al giovanissimo
Nerone.
La filosofia stoica trova spazio a partire dal II secolo nell’ambito del circolo degli Scipioni, dove
vengono reclutati intellettuali greci per il generale orientamento filellenico di questo circolo, per
rispondere ad un bisogno di giustificazione teorica dell’interesse nel sostenere un processo di
ampliamento verso le terre orientali (per converso vi è la solenne e rigida esaltazione catoniana dei
prisci mores e la condanna della cultura ellenico-ellenistica vista come fonte di corruzione, in realtà
copriva ragioni di interesse economico dei ceti a cui ciascun gruppo di potere faceva capo).
È Panezio che in questa fase applica una piccola modifica per legittimare il ruolo di vertice
dell’aristocrazia senatoria: è compito del saggio vivere non più secundum naturam, ma secundum
propriam naturam; è quindi compito del saggio mettere la propria superiore natura al servizio della
comunità, in ragione della natura, che coincide con il κόσμος, che ha previsto per questo ceto un ruolo
dirigente, in modo tale che la giustificazione della superiorità del ceto aristocratico sia duplicata
dell’ordine gerarchico del kòsmos. Si tratta di una sorta di una sorta di 'incarnazione' del logos,
divinità centrale del kosmos, che pervade della sua saggezza superiore anche gli elementi inferiori che
sono tassonomicamente disposti in una gerarchia di decrescente superiorità: ciò legittimava il fatto
che il negotium politico fosse attività superiore all’otium intellettuale, attività a cui ci si può dedicare
al più durante i momenti di pausa.
Una volta che è stata messa in piedi la res publica e si è fatta sempre più esplicita e radicale con
imperatori come Tiberio e Caligola, il principatus diventa dominatus: in una fase come quella del
principato neroniano, è chiaro che il ceto aristocratico avverte una sorta di stridente distacco tra la
filosofia stoica paneziana e l’effettiva realtà politica che vede l’aristocrazia in una posizione di
marginalità: Seneca adatta il pensiero della filosofia stoica paneziana in modo tale che lo stoicismo
rimanga la filosofia identitaria di questo ceto , facendo in modo che l’aristocrazia senta il proprio
modo di fare come compatibile con un potere sostanzialmente assoluto.
Seneca è quindi l’esponente della III fase della filosofia stoica nell’ambito del mondo latino:
esponente della prima fase è il fondatore, Zenone di Cizio, la seconda è quella di Panezio, mentre la
terza è quella senecana (in Grecia sono Epitteto e Marco Aurelio).
Seneca non dedica un'opera ad hoc per spiegare questa modificazione: dedicare un’opera ad hoc per
spiegare che la filosofia degli ultimi due secoli non può essere più adottata per un cambiamento dei
rapporti di forza significava esplicitare il carattere menzognero del principato augusteo. Per questo
motivo, dissemina nelle sue opere degli spunti che, visti nell’insieme, suggeriscono la modifica
senecana degli assiomi stoici.
Si tratta quindi di una sistematizzazione teoretica di quanto si è concretizzato nel corso della sua
vita: sancisce da una parte il rispetto della dignitas e libertas aristocratica da parte del princeps,
dall’altra l’accettazione del ruolo del princeps da parte dell’aristocrazia.

L'ordine del κόσμος… Seneca parte da una considerazione di ordine ‘fisico’, per arrivare ad approdi
di ordine etico, che siano connessi alla struttura descritta in ambito fisico: non si mette in discussione
l'esistenza di un dio unico, che coincide con la natura, perché il logos domina il creato. Quello che
cambia è la capacità del logos di invadere tutte le realtà del cosmo: non tutte le creazioni sono
qualitativamente e quantitativamente pervasi dal logos, perché gli elementi più vicini sono
maggiormente influenzate, mentre quelle via via più distanti sono sempre meno influenzate; si ratifica
sul piano fisico la necessità e anancasticità della divisione in classi sociali, perché le classi sociali
più alte sono maggiormente ‘toccate’ dal logos.
Ma chi garantisce che questo universo armonioso si mantenga così ordinato nella sua complessità di
gerarchia?
Esistono intelligenze ‘angeliche’, promanazione del logos, dotate di una quantità di logos altissima,
che si occupano di mantenere in armonioso collegamento tutte le realtà del cosmo.

…è l'ordine dello Stato Lo stato deve quindi essere il più possibile simile al modello del
cosmo.
Con questa lieve precisazione, attribuisce il ruolo di logos centrale al princeps, mentre
all’aristocrazia il ruolo di intelligenze angeliche, il che significa che vanno affidati ruoli di comando,
purché il princeps si identifichi con il logos, per cui al princeps viene richiesta una sorta di
allenamento pedagogico: il principe deve costringere se stesso a comportarsi come ci si aspetta che
ci si comporti, cioè porre a fondamento del proprio comportamento la ratio ed allontanare passioni
come l’ira, la violenza e l’impulsività. Il principe deve essere legge a se stesso e nessuna legge deve
dominarlo, perché il principe deve autolimitarsi, deve saper dimostrare la propria superiorità agendo
in modo inatteso, con superiore saggezza, dimostrando la superiorità nell’esercitare il perdono nei
confronti di errori che possono essere compiuti da soggetti culturalmente inferiori al principe. Al di
fuori di questa logica razionale e moderata, vi è il potere assoluto: un rex iustus promanazione del
logos stoico, che deve essere modello per i suoi sudditi, un principe illuminato che crea sudditi
illuminati; per questa ragione a Seneca si deve il contributo nell’epoca degli assolutismi.
Ovviamente l’aristocrazia dirigente è tenuta a rispettare il princeps e a continuare a portare il peso del
potere disciplinato dal potere del princeps, perché questo è il ruolo affidato dalla propria natura,
quindi il negotium politico è un obbligo, a condizione che il principe identifichi se stesso con il rex
iustus.
Dove il principe deraglia da questo suo ruolo e si da a comportamenti irrazionali come l’ira, dandosi a
processi di lesa maestà, il sapiens non è tenuto a rispettare il ruolo che la natura gli ha dato, ma si
ritirerà nel privato, per evitare di essere contaminato dalla corruzione e per tutelare la propria
interiorità. Non si tratta di mettersi al sicuro o per praticare un otium autoreferenziale, ma perché
nell’otium la sua elaborazione teorica filosofica, che verte sui temi della filosofia stoica, andrà messa
a disposizione di una collettività ancora più grande, di quella presentata dai cittadini dello stato di
quale si serve, ma sostanzialmente dell’umanità.
L’otium non è una rinuncia al proprio ruolo imposto dalla natura, ma è l'unico modo per esercitare il
proprio ruolo di servitium alla comunità ma in una dimensione ancora più ampia: le opere che scrive
sui contenuti della sua azione pedagogica, non sono limitati ai cittadini di quello strato, ma
dell'umanità tutta. Crea una condizione di riscatto consolatoria per l’intellettuale, alla maniera di
Cicerone che dopo il ritiro per la dittatura cesariana sostiene la superiorità del βίος θεωρητικός sul
βίος πρακτικός, oppure di Sallustio che si ritira quando si accorge che la politica si è sporcata.
In extremis, dove non è possibile praticare l’otium, al sapiens resta il suicidio.

Azione e predicazione Il suo ruolo di guida spirituale e la sua riflessione costituiscono un momento
di riflessione per la sua idea di umanità, quindi di ceti abbienti che sanno leggere e scrivere. Di qui si
spiega l'esistenza della necessità di autoperfezionamento mediante la meditazione filosofica
cercando di reprimere le passioni negativi: il sapiens deve compiere un lavoro di ascesi e
perfezionamento quotidiano e lui si pone come exemplum, fa delle valutazioni di autodisciplina. È
un'operazione che funziona nel soggetto come ascesi e si offre a modello della collettivita: un' ascesi
verticale (perfezionamento dell'io) che è chiamata a incrociarsi con un'azione orizzontale (doveri
dell'uomo verso la collettività).

Le Epistulae morales ad Lucilium Questo è un concetto che ritorna sempre in tutta la produzione
delle opere senecane, in particolare nelle Epistulae morales ad Lucilium; Lucilio è un suo amico, a
cui dedica 124 lettere, di cui non si conosce la natura: veramente epistolare o atte alla pubblicazione?
Possiamo definirle una sorta di corso di filosofia morale per corrispondenza: partono da un evento
o una riflessione o una lettura in cui Seneca è coinvolto, per sottolineare la necessità di compiere un
processo di perfezionamento del sé, quindi parla sempre di come ha reagito lui e poi tratta del
comportamento da additare per gli uomini nel quadro della filosofia stoica. Non mancano elementi
etici riconducibili alla filosofia epicurea (è marginalizzato il ruolo della politica): spesso è il contatto
con gli altri che è elemento di corruzione, con la folla che è rozza (disprezzo aristocratico verso la
massa, dove il logos è presente in minore misura). Caratteristico di queste 124 lettere è che esse
procedono secondo un programma progressivamente più complesso di perfezione etica e questa si
registra non solo nello spessore linguistico e nel registro, ma anche nell'ampiezza, prova che questa
raccolta era un manuale di filosofia etica: è come se ciascuno delle lettere rappresentasse un'unità
didattica. Affida anche degli esercizi, quello che Lucilio deve compiere, attività o letture, per non
incorrere nella reiterazione del vizio.
I Dialoghi o Dialogorum libri

Le consolationes La filosofia stoica è persuasiva anche verso le periferie dell'impero, cosicché


anche in questi territori si registri un interesse per lo stesso obiettivo del cittadino romano di Roma: il
negotium politico.
Durante l'esilio scrive 3 consolationes, un genere letterario di conforto da un lutto, inviato a persone
con cui si hanno rapporti di affetto: ad Helviam matrem, ad Marciam, ad Polybium.
Tema che è spalmato nelle tre consolationes è quello della morte che non costituisce un male, in
quanto costituisce un passaggio ad una vita più felice.
La consolatio ad Helviam matrem è un unicum perché non vi è un lutto, ma la sua relegatio ad
perpetuum è una sorta di morte: Seneca cerca di persuaderla che l'esilio non è un allontanamento,
secondo i topoi di questo genere letterario; l'autore della consolatio è lui stesso causa di sofferenza per
il destinatario.
Nella consolatio ad Marciam, Seneca conforta Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, ministro
di Tiberio perseguitato da Seiano.
È rilevante la consolatio ad Polybium, un potentissimo segretario ab epistulis, uno dei tanti liberti di
cui Claudio si è circondato esautorando l'aristocrazia senatoria, ed è colui a cui vanno indirizzate le
suppliche al princeps; Polibio viene colpito dal lutto del fratello e Seneca scrive una consolatio con la
speranza di un'intercessione di Polibio presso Claudio perché questi lo richiami dall'esilio: questa
consolatio è costata l'accusa di ipocrisia, giudizio tranciato facendo cenno all'etica dell'aristocratico
romano, per cui la partecipazione alla vita politica è il massimo adeguamento al disegno del logos, e
bisogna fare tutti i tentativi per poterne fare parte; Seneca non ha fatto altro se non quello che avrebbe
fatto un cittadino romano.
Nel tentare di ottenere da Polibio una revocatio, Seneca si abbandona a sperticati elogi delle virtù di
Polibio, che è operoso, silenzioso, sacrifica se stesso per il benessere della collettività: queste virtù di
sommo burocrate le ha apprese attraverso una rigorosa emulazione del sommo burocrate, il princeps.
Antonio La Penna ha definito questa parte un'attestazione dell'ideologia dei burocrati, cioè del
perfetto uomo di stato come colui che sacrifica se stesso magari anche dietro le quinte, senza aspirare
necessariamente a cariche; il critico ritrova un refrain anche in una lettera di Plinio il Giovane a
Tacito, parlando dello zio Plinio il Vecchio morto per l'eruzione del Vesuvio, perché lo definisce come
uno che non dorme mai, come un pastore che veglia il sonno delle sue pecore. L'archetipo, individuato
da La Penna, è nella figura di Mecenate, che pure discende da una delle più nobili famiglie etrusche,
ma non ha un ruolo istituzionale a Roma.

De brevitate vitae Affronta il tema del tempo, che non deve essere sprecato in occupazioni inutili,
ma utilizzato nell'esercizio della filosofia, dello studio, della meditazione per il raggiungimento della
virtù e della saggezza.

De vita beata Tratta della felicità e in particolare della via per raggiungerla, che consiste per Seneca
nel vivere secondo natura, ovvero secondo ragione. Il sommo bene non è qualcosa di materiale, ma
un fine spirituale: la felicità non consiste nel possesso delle ricchezze, che sono beni effimeri, ma nel
raggiungimento della virtù, capace di donare la pace dello spirito.
Elementi di contatto anche con la filosofia cinica, oltre quella epicurea, si manifestano quando a
Seneca viene rinfacciato inoltre l'ammontare di un enorme capitale, accusa a cui si difende sostenendo
che il problema non sono le ricchezze, ma farsi possedere dalle ricchezze perché il saggio non può
rifiutare in quanto volute dal logos, e il logos deve essere assecondato. Il saggio è indifferente
(αδιάφορος) rispetto alla ricchezza, perché trova tutto in sé stesso (αυτάρκεια), e anzi, con il
possesso del denaro è messo alla prova: naturalmente si tratta di una speculazione, quella senecana, di
natura autoapologetica, data la natura aristocratica del pensatore.

De constantia sapientis In quest'opera Seneca cerca di convertire l'amico Sereno allo stoicismo,
sostenendo che il sapiente grazie alla virtù è superiore a ogni evento che lo colpisca.

De ira In tre libri, sviluppa il problema dell'ira, una delle passioni più deleterie, che come tale deve
essere estirpata in quanto impedisce all'uomo di vivere secondo la ratio e quindi di raggiungere la
virtù. Tutta la trattazione ruota intorno all'idea stoica dell'apátheia, ovvero della necessità di liberarsi
completamente delle passioni per raggiungere la felicità.

De tranquillitate animi All'amico Sereno, che soffre di un senso di insoddisfazione e di angoscia,


Seneca propone la via per vivere sereno: un equilibrato rapporto tra vita contemplativa, tesa al
raggiungimento della saggezza, e vita attiva, ossia impegno a favore della comunità. Anche quando
non gli sia possibile un'azione politica concreta, il vero saggio stoico continuerà comunque a juvare
alios.

De otio Scritto dopo il De tranquillitate animi e dopo il ritiro di Seneca dalla vita pubblica avvenuta
nel 62, risente della delusione dell'autore, che ha mutato posizione in merito al rapporto tra vita di
meditazione e impegno politico. Seneca aostiene che quando il saggio si trova in una situazione in cui
operare attivamente comporta o il rischio di contaminazione interiore o gli sia oggettivamente
impedito di esercitare il proprio servizio ha due strade: il suicidio o il ritiro a vita privata, servendo
la collettività in altro modo. La cura di sé resta comunque prioritaria, nonostante l'attività politica
praticata attivamente.

De providentia In questo dialogo di datazione incerta, Seneca cerca di spiegare all'amico Lucilio
come possano coesistere la provvidenza e il male: le sventure in realtà non sono veri mali - spiega
Seneca - ma consentono al sapiente di mettersi alla prova e di consolidare le proprie virtù. In altre
parole, fa coincidere la πρόνοια con il λόγος, per far emergere l'ideale del vir fortis cum mala fortuna
compositus.

I due trattati politici

De clementia In questo trattato, scritto per Nerone durante gli anni del quinquennio aureo (54-59
d.C.) in cui l'imperatore regna con saggezza ed equilibrio, Seneca, ancora convinto di poter incidere
positivamente sulla vita pubblica con il suo insegnamento, esorta Nerone alla clemenza, la virtù che
deve contraddistinguere il principe giusto e onesto.

De beneficiis Scandito in sette libri, tratta del tema del beneficio e delle sue implicazioni politiche,
etiche e sociali.
Le naturales quaestiones Si tratta di un'opera pensata per rimediare osservabili fenomeni naturali
nell'ottica stoica: sostiene che sia la prova della profonda intimità tra il creato e il logos, che si
manifesta nella physis.

L' apokolokyntosis È una satira menippea: il suo modello è quello della satira di Menippo di
Gadara, filosofo di ispirazione cinica, che scrisse delle opere caratterizzate secondo l'alternanza di
prosa e versi: l'opera satirica è quindi legata da questo aspetto formale di passaggio improvviso da
prosa a versi, non dal taglio ironico-sarcastico della stessa. Si può chiamare anche prosimetro oppure
σπουδαιογέλοιον (serio-comico: affrontare argomenti seri con registro serio), oppure anche registro
serio-comico.
Quest'opera, secondo una tradizione manoscritta, è tramandata anche come 'Ludus de morte Claudii'.
Il titolo originale, αποκολοκύνθωσις, è costruita per contaminazione tra αποθείωσις e κολοκύνθη;
dopo la morte di Claudio, Nerone pronunciò il discorso funebre, tutto scritto da Seneca, ma al tempo
stesso il filosofo scrisse quest'opera: immagina che Claudio sia stato assunto in cielo come Augusto e,
ancora prima, il divus Iulius; immagina che uno 'zuccone', Claudio, sia mandato negli inferi a servire
un liberto (un 'contrappasso dantesco').
Perché Seneca fa girare quest'opera, per lo più nell'anonimato?
Evidentemente la scrisse su committenza di Agrippina, condannando la memoria di Claudio e
mettendo in luce il fatto che finalmente Nerone ha ridato all'aristocrazia il ruolo da cui Claudio li
aveva esautorati.

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