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Il Romanticismo

I prodromi della sensibilità romantica e i suoi riflessi in Italia. Il pre-


romanticismo.
Già intorno alla metà del Settecento, entro la compatta πυκνός lucidità del
razionalismo e della poesia classicamente atteggiata, e, più ancora, dentro la più duttile
ευέλικτος ed accessibile concezione del sensismo, appaiono indizi di una nuova
sensibilità, rivolta a contemplare le tristezze cupe della notte o della morte, a
vagheggiare paesaggi tenebrosi e a nutrirsi di stati d'animo travagliosi. Il movimento
rimane in superficie, non si approfondisce in una vera concezione dolorosa della realtà
e sovente appare come puro gusto di nuove esperienze psicologiche, ma di questo
fatto va tenuto conto come di un indizio remoto di quel nuovo sentire che si farà palese
negli ultimissimi anni del secolo e si dirà romantico.
Espressioni di questo particolare atteggiamento dello spirito sono, nel Settecento 1) la
poesìa notturna e 2) sepolcrale e 3) quella ossianica. Questa poesia, che fiorì
principalmente in Inghilterra, si diffuse rapidamente in Europa e trovò lettori ed
imitatori anche in Italia, così disposta, in questi anni, a subire l'influenza delle
letterature straniere. Celebri furono i Pensieri Notturni (1744) di EDOARDO YOUNG (1681-
1765) e l'Elegia sópra un cimitero campestre αγροτικός (1751) di TOMMASO GRAY (1716-
1771), mentre immensa diffusione ebbero i Poemi di Ossian. Codesti poemi furono
composti in prosa sopra alcune leggende di origine irlandese e vive ancora in Iscozia,
dallo scozzese GIACOMO MACPHERSON (1736-1796), che vi lavorò dintorno con la sua
esperienza letteraria e moderna, recandovi il suo particolare gusto del primitivo, del
tragico, dell'orrido. Infatti i poemi di Ossian — così chiamati perché il Macpherson li
fece passare per composti da Ossian, figlio di Fingal, bardo, cioè poeta, della Scozia
preromana, vissuto nel III secolo — narrano di vicende tragiche di amore e di eroismi,
descrivono orridi, spettacoli della natura, pervasi da cupa tristezza e dal senso della
morte.
In Italia si diffuse ben presto la poesia notturna e sepolcrale; ci fu accanto
all'Arcadia galante un'Arcadia lugubre e preromantica, e immensa fortuna ebbero i canti
di Ossian che il Cesarotti tradusse in endecasillabi sciolti e pubblicò parte il 1763 e
parte il 1772. Tra gli scrittori che nel Settecento risentirono più vivamente l'influenza di
questa letteratura straniera e rivelarono una maggiore disposizione a simili stati
d'animo vanno ricordati — oltre qualcuno che già conosciamo, come il Fantoni —
ALESSANDRO VERRI (1741-1816), fratello di Pietro, pel suo romanzo Le notti romane
(seconda edizione 1804), in cui riferisce i colloqui delle ombre dei grandi romani tenuti
intorno ai sepolcri degli Scipioni, allora scoperti sulla via Appia, e quelli che egli stesso
immagina di aver tenuto con quei grandi, ad esaltazione « della umanità e della
giustizia odierna contro la violenza romana »; e il veronese I PPOLITO PINDEMONTE (1753-
1828), che iniziò nel 1806 un poema su i Cimiteri, e nelle sue Poesie campestri (1788),
soffuse πλημμυρίζω di una vaga malinconia, appare sotto l'influenza nonché degli
inglesi, anche dello svizzero SALOMONE GESSNER (1730-1788), autore di idilli famosi, ricchi
di elementi patetici e descrittivi. Il Pindemonte fu pure studioso delle lingue classiche e
la sua opera maggiore fu la traduzione dell'Odissea, in endecasillabi sciolti, benché egli
atteggia il mondo omerico secondo il suo particolare sentire, settecentesco e
preromantico. Sarebbe erroneo avvertire tra Illuminismo e Romanticismo una op-
posizione violenta e totale, perché mai nella storia sorge una civiltà che non trovi i suoi
prodromi e almeno alcune delle sue ragioni nell'età che la precede.
E certamente, sia per mezzo del sensismo, che attraverso il suo amplissimo
senso dell'esperienza tendeva a tesoreggiare e spiegare ogni forma del vivere che non
fosse diretta dalla sola ragione, sia per la stanchezza stessa del puro empirismo e del
puro razionale, che faceva fermentare negli inquieti animi dei tardi illuministi, il gusto, la
ricerca, quasi la tentazione, dell'ignoto, del primitivo (il mito del selvaggio),
dell'intuitivo, del sentimentale, di quello, in una parola, che si sottraeva all'esperienza
ed alla comprensione razionale, sia per l'influenza determinante del Rousseau, che al
mito della ragione sovrapponeva quello dell'uomo primitivo, della natura buona, della
forza del sentimento, si veniva via via creando una tessitura psicologica diversa e
nuova: prenunzia per molti segni della nuova civiltà del Romanticismo. Tuttavia bisogna
badare νοιάζομαι a non esagerare in senso opposto: tra Illuminismo manticismo in
realtà non c'è il rapporto di svolgimento, evoluzione e rinnovamento che c'è di consueto
tra molti eventi della storia, ma un moto di trasformazione assai rapido e talora
violento, cioè quel modo del ritmo storico veloce, drammatico e ricco di fratture e di
eccessi polemici, che si suole dire rivoluzionario.Bisogna tuttavia dire che oggi si va
cautamente ed attentamente procurando di tessere le fila della continuità tra
Illuminismo e Romanticismo, Settecento ed Ottocento, mentre si pone in rilievo,
opportunamente, che il Romanticismo nell'opporsi al razionalismo settecentesco
conserva ed eredita la fede nella libertà ed il prestigio critico della ragione, e, in ambito
letterario, si parla sempre più di « Preromanticismo », come età intermedia tra le due
forme di civiltà. Il Preromanticismo — a parte gli indizi remoti nel Tasso e nel Seicento
— si apre sempre più evidente-mente verso la metà del Settecento, e caratterizza
approssimativamente gli anni tra il 1780 e il 1810, e segna, specie nel campo dell'arte,
un diverso orientamento del gusto che prelude al Romanticismo.

La crisi dell'Illuminismo e i nuovi orientamenti dello spirito.

La rivoluzione francese segna il trionfo e insieme la rovina degli ideali illuministici. Il


regno breve della libertà e dell'eguaglianza, in cui si era esaltato il culto della dea
Ragione, si era concluso prima nel dispotismo e nel cesarismo napoleonico e poi nella
restaurazione degli Stati assoluti, nei quali sembravano scomparse non solo le
conquiste della rivoluzione, ma pur quelle del riformismo illuminato. La crisi politica
accelerò una crisi ben più profonda e vasta, che già maturava nel seno dell'Illuminismo,
sin dagli ultimi decenni del secolo XVIII, e ciò che in quegli anni era appena una sottile
incrinatura — labile stato d'animo diffuso soprattutto in alcuni ceti intellettuali — appare
ben presto una vasta ed irreparabile ruina. Non era solo la crisi e il fallimento di un
regime, ma era il precipitare di una concezione della vita, che recava perciò con sé
perturbamenti non solo nell'ordine sociale, politico ed economico, ma sconvolgeva dalle
radici la coscienza e gettava le anime in una profonda inquietudine.
Il pensiero umano, dai secoli del Rinascimento all'Illuminismo, si era rivolto alla
conquista della sua autonomia e pareva aver celebrato il suo trionfo nel secolo dei lumi.
E invece il risultato di così orgogliosa aspettazione e di una fede così pro fonda era
un'immensa rovina, e quella che era sembrata la conquista dei secoli si svelava una
vana e tragica illusione: perciò già negli ultimissimi anni del Settecento e nei primi
dell'Ottocento il moto di reazione all'Illuminismo acquista sempre più chiara coscienza di
sé ed elabora i principi di quella nuova età che sarà detta l'età del Romanticismo.
1) Il primo effetto del decadere delle idealità illuministiche è il bisogno di inten-
nuovamente la storia degli uomini e i loro fini: la crisi dell'Illuminismo poneva eli
uomini, spogli ormai da ogni facile ottimismo, di fronte al problema stesso del loro
destino. Quello che nel periodo illuministico era stato un puro e semplice dato.
diventava ora un problema. Allora l'uomo aveva attribuito a sé ogni perfezione per
natura, il mondo esterno aveva considerato come strumento della sua potenza, e
quindi tutta la sua forza si sviluppava nell'abbattimento κούραση della superstizione
πρόληψη e nella realizzazione pratica del nuovo vero; ora invece, caduto il velo, era
il vivere stesso e il suo rapporto con le altre forme della realtà che diventava un
mistero, e il nucleo intorno a cui si volgevano gli sforzi meditativi degli spiriti più
pensosi. E' naturale, perciò che alle interpretazioni antistoriche della vita dello spirito
e degli uomini^si contrapponessero quelle a carattere storicistico, e che Vico
incominciasse ad apparire in tutta la sua grandezza.
Non è la storia il passaggio da una perfezione originaria, attraverso un
progressivo decadimento, all'ultima perfezione, ma in ogni sua ora palesa la fatica e il
travaglio degli uomini che si svolgono secondo i principi universali e necessari che sono
nel loro spirito: la realtà storica è la celebrazione della più profonda realtà dello spirito.
La storia è avvertita come svolgimento e perpetua innovazione, e le sue forze non sono
più a disposizione della ragione, ma varie e ricche di autonomia. E si avverte che ad
imprimere l'eterno movimento alla storia non è più solo la ragione, e neppure essa
prevalentemente, ma tutto quel che è altro, prima e dopo della ragione: istinto, bisogni
economici, sentimento, passione, rapimento mistico e religioso.
Derivava da questa esigenza di intendere diversamente la storia, prima un'in-
terpretazione, ben diversa da quella data dall'Illuminismo, delle epoche cosiddette
oscure, soprattutto del Medioevo, cui ora il nuovo spirito si rivolgeva ansioso e
commosso di nostalgia, e poi un bisogno profondo di interiorità e di religiosità. Nel
Settecento l'uomo era vissuto senza profonda religiosità ed aveva sostituito al senti-
mento del divino la fede nella sua opera medesima e quella che si disse, e fu, la reli -
gione della dea Ragione; ma ora non basta più una fede così generica ed esteriore, né
gli animi si soddisfano di una concezione di Dio come principio teorico che valga a
spiegare il moto dell'universo. Ora gli uomini si sentono sospesi ad una solitudine
smarrita, avvertono insieme il peso e la dignità dell'immensa fatica del vivere e ricer-
cano una divinità che valga a riempire la loro solitudine, a dare ragione e fine al loro
agire: onde da un lato si torna alla religione cattolica tradizionale, e dall'altro il pensiero
fonda la religione dello spirito. Esigenza di una nuova interpretazione della storia,
bisogno di interiorità e di religiosità sono gli aspetti fondamentali della reazione
all'Illuminismo.
La quale ben presto si sviluppa in una vera e propria rivoluzione spirituale, che
investe ed abbatte tutte le posizioni della passata età e della passata filosofia. Cosi,
primamente, l'uomo, la cui dignità l'Illuminismo aveva riconosciuto solo nell'uso e nella
forza della ragione, appare una creatura assai più complessa: la ragione può darci la
conoscenza del mondo esterno, delle leggi meccaniche ed esteriori della vita naturale,
ma la realtà è ben più viva, mobile, ricca, misteriosa. Contro le pretensioni della ragione
si leva la forza del sentimento, in cui l'uomo attinge un'unità più profonda col creato e
ne coglie il battito segreto e profondo. Così la natura, che l'Illuminismo aveva concepito
come mero organismo fisico, regolato da leggi meccaniche, il nuovo spirito intende
come qualcosa di più vivo, pervaso da forze sempre nuove, vivente, insomma, pur essa
nel divenire dell'universo.
In tal modo cadevano i cardini del sistema razionalistico, che aveva generato
l'età illuministica, ed erano ripudiati meccanicismo e razionalismo, antistoricismo e
deismo, empirismo ed ottimismo. Né basta: contro il cosmopolitismo e l' umanitarismo
insorge l'amore per la patria, per le sue tradizioni, le sue memorie, le sue leggende, e il
sentimento persino esasperato della individualità, quello che fu detto l'i n d i v i d u a l i
s m o e di cui in Italia una prima e potente affermazione si rinviene in Vittorio Alfieri. Di
conseguenza, contro l’ idea di una civiltà uniforme e universalistica, conforme ai
principi del razionalismo, che la Francia rivoluzionaria aveva banditi e traditi, insorge il
concetto della nazione come organismo storico ben distinto da ogni altro, e l'amore
ardente della patria, nell'ambito della quale l'individuo realizza pienamente la sua
personalità; contro l'idea dell'astratta libertà si fa valere il principio di autorità e il
legittimismo; e la poesia non attingerà la sua perfezione quando si conformerà alle
norme della ragione, esprimendo il vero razionale (« seulement le vrai c'est beau »
aveva detto il francese BOILEAU), o il piacevole del blando edonismo dell'estetica del
sensismo, ma quando, all'inverso, esprimerà l'individuale sentimento, il battito
inconfondibile dell'animo di fronte al mondo: individualità e passionalità saranno i
principi della nuova estetica.

Il Romanticismo e i suoi aspetti.

Il complesso appunto di questo moto di opposizione alla cultura e al pensiero


dell'età illuministica si suol chiamare Romanticismo. La parola romantic appare
primamente verso la fine del secolo XVII in Inghilterra ad indicare una « narrazione
fantastica ». e deriva dalla parola francese romans con cui si solevano designare i
contemporanei, fantasiosi componimenti narrativi in versi. Ebbe nella sua origine valore
negativo, ed indicò quel che è poco ordinato, disciplinato, chiaro, e non obbediente ai
dettami della ragione. Indi la parola passò ad indicare stati d'animo sentimentali e
fantastici, e in Germania dal Novalis fu primamente assunta ad indicare il nuovo
movimento: la parola indicava insie me la tendenza alla esaltazione della fantasia e del
sentimento, e, nella sua etimologia, l'altra a rinvenire le fonti d'ispirazione e le origini
della moderna civiltà, particolarménte germanica, nell' epoca romanza o medievale
contrapposta_a quella romana o classica.Il Romanticismo non è un fatto puramente
negativo e critico, ma designa la instaurazione di tutta una nuova se si leva dalla ruina
e dall'esperienza stessa dell'Illuminismo. Il Romanticismo è, dopo il Rinascimento, il
fatto più cospicuo nella storia dell'Europa moderna e si identifica — in quel che esso ha
di positivo — con la civiltà stessa europea dell' ùltimo secolo e dei nostri tempi. Come
tale, è impossibile, dare una definizione parti-colare del Romanticismo, ma la sua
definizione è in quella dei diversi aspetti in cui esso si moltiplica e si attua.. Noi, dopo le
generali indicazioni che abbiamo date più su, ci contenteremo qui di lumeggiare quegli
aspetti del Romanticismo che più da vicino riguardano le nostre discipline.
Accenneremo perciò solo fugacemente al primo e fondamentale aspetto del Ro-
manticismo, che è quello speculatìvo o teoretico: esso risolve il nuovo concetto della
storia e sviluppa, svolgendo il pensiero del Vico, la nuova estetica, fondata sulla fa n t
a s i a , come facoltà produttrice dell'arte, distinta dall'intelletto. Soprattutto la nuova
filosofia romantica riesce, con sforzo gigantesco, a istituire un nuovo rapporto tra i
termini che il razionalismo nel suo crudo dualismo aveva posto in un'antitesi insolubile.
Il pensiero romantico ha vivissimo il senso delle opposizioni, che esso accoglie nella loro
estrema esasperazione e supera definitivamente, ponendole tra loro in nuova relazione.
Il soggetto e l'oggetto, lo spirito e la natura, l'intendere e l'essere, l'essere e il divenire,
la libertà e la necessità, sono intrinsecamente unificati, mercé il concetto di svolgimento
e la dialettica, che mostrano come la vita del. mondo si realizzi proprio in grazia di
quelle opposizioni. La filosofia romantica muove da Emanuele Kant (1724-1804), si
svolge nei suoi continuatori, teorici dell'idealismo romantico, Fichte, Schelling, Hegel, e
determina gli avviamenti secondo i quali si è svolta e si svolge tutta la più alta filosofia
moderna.
Assai più importa ai nostri fini conoscere quell'aspetto del Romanticismo che
diremo m o r a l e. Esso designa un complesso di particolari condizioni degli spìriti, di
travagli e di inquietudini, palesi già dagli ultimi decenni del Settecento, che vanno da
forme di altissima pensosità e dignìtà morale, a forme di morbosità sentimentale, di
fiacchezza κόπωση e di perversione εξαχρείωση che ne costituiscono l'aspetto deteriore.
Gli spiriti, incerti tra un nuovo e un vècchio mondo,impossibilitati a posare ormai più
sulle vecchie premesse ideali e incapaci a fondarne delle nuove, sono sospesi in
un'inquietudine profonda. Si ricerca Dio e intanto né si è capaci di un ritorno, in cui si
ristori pienamente l'animo, alla religione tradizionale Te i ritorni hanno in genere
carattere mistico e sono profondamente pe-netrati del nuovo pensiero), né si riesce a
pervenire all'idea di una religiosità immanente nello spirito e nella vita dell'uomo; si
vuole intendere la natura altrimenti che con lo schematismo razionalistico o l'empirismo
settecentesco, ed essa appare o come nemica e ignota, o come un succe-dersi di labili,
anche se splendide e armoniose, apparenze, ma rimane pur sempre qualcosa di
opposto e di misterioso allo spirito; si vuole intendere la ragione della nostra vita e della
storia e intanto si muove da persistenti premesse ed abiti mentali meccanicistici e non si
perviene al concetto vichiano della storicità, razionalità e provvidenzialità del reale.
Gli animi soffrono, in diversa guisa, la crisi di trapasso dal vecchio al nuovo
mondo: si determina una condizione degli spiriti quanto mai complessa e varia, una
tristezza diffusa derivante non da questo o quel la realtà, ma operante alla radice
dell'anima, in noi quando non riusciamo a riunire in armonia i problemi della nostra vita
e non troviamo i sostègni lucidi e solidi per il nostro agire. Allora l'anima non riesce ad
aderire con pienezza a questo o quell'oggetto, è come spossata da un tarlo sottile, priva
di fede e di slancio creativo. Il mondo si avvolge nell'alone del mistero e l'uomo appare
creatura solitària e smarrita, il tempo e la storia fluiscono con un rnoto uniforme, cui
non si riesce a dar significato, e sono come staccati da noi che li contempliamo senza
avere l'energia di immetterci in essi. Da ciò deriva il senso dell'infinito, il sentimento
della sproporzione fra il reale e l' ideale, posti come due mondi incomunicabili: giacché
il reale sta lì immobile ed ìmmutabile e ci preme e ci soffoca, e l'ideale appare come un
mondo irrealizzabile, vagheggiamento ed illusione, proiezione dolorosa dell' anima fuori
dai suoi serrami. Di qui il diffondersi del pessimismo caratteristico dell'età romantica:
intuizione dolorosa e tragica della vita intesa come velleità ασθενής βούληση,
negazione, impotenza, angoscia.
La serietà di questo moto delle coscienze era in ciò che esso non era una moda, nè
qualcosa di superficiale o di fittizio, ma il mezzo con cui gli spiriti urgevano alla
instaurazione di una nuova religione della vita: e se esso appare una malattia, è di
quelle (tranne le sue degenerazioni pato-logiche) da cui escono le nuove ere e le nuove
civiltà. Entro questa cerchia di pensieri e di sentimenti si muoveranno i maggiori spiriti
del Romanticismo, e codesti travagli ed aspirazioni costituiranno la materia e il
contenuto dell'opera dei maggiori poeti italiani e stranieri del secolo XIX.
Ma è pur certo che accanto all' alta tristezza romantica di cui soffrirono gli spiriti più
seri, e dalla quale essi, in varia guisa, riuscirono quasi sempre a trovare forme di
liberazione, si deve annoverare una vera e propria malattia m o r a l e r o m a n t i c
a, che è fiacchezza e superficialità, e quanto più si rivela in forme agitate e
spasmodiche, tanto più è ridevole e vacua. Essa va dallo struggimento nel pianto, dal
gusto di disciogliersi nel singhiozzo o nel dolore, agli eccessi dell'immaginazione
oziosa: dal morboso terrore o amore della morte al bisogno di vaghezza e raffinatezza
sentimentale. Sono gli aspetti decadenti del moto positivo ed operoso del
Romanticismo: questo celebra la forza del sentimento ed i malati romantici si fanno
schiavi del sentimento, lo raffinano e lotano sino all' effeminatezza ed alla follia; il
Romanticismo esalta la personalìtà e costoro pervengono ad un superomismo sdegnoso
di ogni norma morale e al gusto malsano del pervertimento giustificato in nome dei
diritti dell' individuo; il Romanticismo cerca di fondare un nuovo sentimento religioso ed
essi si fingono forme strane ed empie di religiosità, e restaurano un misticismo non
privo di civetterìa e di mondanità; il Romanticismo infine esalta l'azione come
liberazione dal vano tarlo del pensiero ed essi si fingono un eroismo piuttosto
coreografico e teatrale, non sorretto da alcuna interiore serietà. Di questi aspetti dello
spirito romantico costituisce immensa documentazione una vastissima letteratura fiorita
in tutta Europa nel corso del secolo XIX.
C'è, poi, un altro aspetto, del Romanticismo, assai importante, ed è quello
politico-sociale. Sotto l'aspetto politico, il Romanticismo, sulla spinta del principiò di
libertà proclamato dall'Illuminismo, ma nutrendolo del senso vivo delle tradizioni e delle
conformazioni storiche di cia-scun popolo, approfondisce l'elaborazione del concetto di
nazione e formula sempre più chiaramente la dottrina del liberalismo. Sotto l' aspetto
sociale il Romanticismo rappresenta il trionfo della borghesia, e con essa l'avvento dì
nuove e pìù complesse attività economiche, rappresentate principalmente dall' impulso
dato ai traffici ed agli scambi ed all' avvento delle attività industriali: sicché dal seno
dell'operosità borghese sorge e si viene costituendo una nuova classe, o, stato, e cioè
proletariato o quarto stato, donde il sorgere di dottrine democratiche e socialistiche
(basti ricordare Mazzini e Marx) che ampliano e minacciano il dominio, per ora ben
consolidato, della borghesia. Sorge, verso la metà del secolo e si farà sempre più viva,
urgente, drammatica, la «questione sociale», cioè il problema della effettiva liberazione
delle classi lavoratrici.
La rivoluzione industriale pone in prima linea il problema dell'accumulo della
ricchezza, della sua disponibilità ai fini degli investimenti, e cioè il problema del capitale,
e quest'ultimo pone a sua volta il problema del suo rapporto col lavoro e della
distribuzione della ricchezza. Ma mentre sorgono dal suo seno problemi così
drammatici, per adesso il Romanticismo (e, cioè, in questo ambito, la borghesia)
compie il suo ufficio non solo instaurando una nuova economia, ma accelerando e
facendo trionfare il moto di nazionalità, instaurando le libertà proprie dei regimi
rappresen-tativi. Un sistèma organico che entrerà in crisi solo assai più tardi, ma che
ora alimenta gli ideali più vivi e vitali di numerose generazioni.
L'aspetto del Romanticismo che qui a noi importa più direttamente conoscere, è quello
l e t t e r a r i o: esso designa tutto il complesso delle ribellioni e delle polemiche contro
la letteratura e la poetica classicistiche — dominatrici in Europa da circa quattro secoli
— e insieme i principi da cui uscirono una nuova estetica e una nuova p o e t i c a.
Anche il Romanticismo, come il Rinascimento, si manifesta primamente come moto
di cultura, nell'ambito proprio dellearti letterarie, ma come c' è sostanziale unità tra
l'aspetto speculativo e quello letterario dell'Umanesimo, così si può agevolmente
scorgere il nesso tra la concezione ciglia vita e la nuova poetica romantica. Come infatti
alla filosofia illuministica, vivente "tutta nella luce chiara dell'intelletto e dell'esperienza,
corrisponde l'estetica e la poetica che nel loro insieme si possono definire classicistiche,
rivolte prevalentemente alla cura formale e alla lucidità del contenuto (e perciò esse
ricevettero rincalzo nella Francia cartesiana che se ne fece banditrice nei secoli del suo
predominio letterario), così ad una nuova concezione del mondo, che intendeva la
realtà come svolgimento, e nell'uomo celebrava il sentimento sopra l'intelletto, doveva
corrispondere un nuovo concetto dell'arte, intesa come espressione immediata, libera e
nativa del sentimento.
II movimento romantico, che è un fatto europeo, acquistò primamente coscienza
di sé e consapevolezza dei suoi fini in Germania, e di lì si diffuse in tutta l'Europa, dove,
dal più al meno, si erano determinate le condizioni opportune per il rinnovamento. Ma
esso non assume ovunque gli stessi caratteri e in ogni nazione si intreccia con le
particolari condizioni e tradizioni della cultura, sente l'influenza delle necessità e con-
tingenze politiche e si conforma, pur nell'ambito dei generali orientamenti che abbiamo
schematicamente indicati, in guise affatto particolari e specifiche. Perciò la storia del
Romanticismo è la storia del suo concreto atteggiarsi nella vita culturale e morale di
ogni nazione d’ Europa.
Noi indicheremo rapidamente il costituirsi del movimento romantico in Germania e
poi, a suo luogo, mostreremo com'esso si sia diffuso in Italia e quali aspetti vi abbia
assunti.

Il Romanticismo in Germania e i principi della nuova poetica.

La Germania fu per lungo tempo sotto il dominio intellettuale della Francia:


pervenuta ultima (solo ai primi del Cinquecento Luterò offriva alla Germania una sua
lingua nazionale ed unitaria) nell'agone letterario delle nazioni europee, era naturale
che essa rimanesse abbagliata dallo splendore della Francia del gran secolo XVII e ne
subisse a lungo l'influenza. Ma nel tempo stesso in cui si veniva costituendo
politicamente la nuova Germania, s'incominciano a scorgere i primi segni della ribel-
lione,. Bisogna però giungere a GOTTHOLD EPHRAIM LESSING (1729-1781), vero rin-
novatore della critica ed iniziatore della nuova letteratura in Germania, perché ap-
paiano evidenti gli indizi della nuova cultura, che la nazione tedesca va costituendo
secondo il suo genio e le sue esigenze spirituali. Il Lessing nelle sue due opere, il
Laocoonte o Sui limiti della poesia e della pittura (1766) e la Drammaturgia d'Am-
burgo (1767-1769), tratta, nella prima, dei modi particolari in cui la pittura e la poesia
esprimono la realtà, e, pur ponendo tra le due arti delle distinzioni che noi oggi non
accetteremmo più (la pittura si vale di forme e colori nello spazio, mentre la poesia si
sviluppa nel tempo, sicché mentre oggetto proprio della pittura sono i corpi, dell'arte
sono le azioni), mostra di intendere l'espressione artistica come qualcosa di più
interiore di quel che usasse la poetica classicistica, e nella seconda combatte
apertamente la tragedia di tipo francese, e, facendosi sostenitore di un'interpretazione
più veritiera, secondo lui, della poetica d'Aristotele, ritiene indubitabili le regole che
egli prescrive, distinguendole però da quelle adottate specialmente dai tragici francesi,
e quindi propone a modello i greci e Shakespeare, la cui opera gli pare poter
concordare coi principi aristotelici, specialmente per quanto attiene al « verosimile ».
Più palese sentore ίχνος preromantico è nel movimento dello Sturm und Drang
(=impeto ed assalto), di cui sentirono l'influenza nella loro giovinezza il Goethe e lo
Schil-ler, che si costituì intorno all'ultimo trentennio del secolo: esso sosteneva essere
l'arte espressione immediata del sentimento e della passione. Tale dottrina
corrispondeva al concetto che gli Sturmer und Drànger avevano dell'uomo, creatura
che realizza la sua umanità nell'impeto della passione e sin della violenza, tutto inteso
a costituirsi una personalità, anche al di fuori o contro le norme consuete del tempo e
della società in cui vive. Ma il Romanticismo, come movimento letterario, acquista
piena coscienza di sé per opera di un gruppo di scrittori che fondarono una rivista il
1799, l' Atheyum: principali tra essi i due fratelli AUGUSTO GUGLIELMO (1767-1845) e
FEDERIGO SCHLEGEL (1772-1829), famosi critici, e i poeti FEDERIGO VON ARDEMBERG, più
noto col pseudonimo di NOVALIS (1772-1801) e LUDOVICO TIECK (1773-1853). Infine il
movimento romantico ricevette vigore dall'insurrezione dello spirito nazionale tedesco
contro l'invasione napoleonica, quando essa divenne insieme segnacolo della lotta per
l'indipendenza letteraria e politica. Allora la nuova Germania acquistò coscienza della
sua missione e il filosofo GIOVANNI AMEDEO FICHTE compose i Discorsi alla nazione
tedesca (1808) che prepararono la Germania alla riscossa liberatrice.
È fondamentale negli Schlegel la distinzione tra poesia antica e poesia moder- na,
cioè — come essi dicevano, derivando la distinzione da Schiller e in parte da C
Herder — tra poesia ingenua e poesia sentimentale. La poesia degli antichi è
ingenua, cioè serena, lucida, equilibrata, la moderna nasce dal senso dell'infinito e del
mistero, ed è inquieta, drammatica, e ricca di elementi meditativi e sentimentali.
Quanto l'altra — l'antica — era semplice, aperta, umanamente realizzata ed armoniosa,
tanto la moderna è invece vaga e piena di chiaroscuri psicologici ed espressivi, mista di
sentimento e di riflessione.
L'opposizione non è più così solo di poetica, ma spirituale ed umana: gli antichi non
possono più servirci da modelli perché rispecchiano un mondo, cioè un modo di
avvertire il reale ed una struttura della personalità, assolutamente alieni dai moderni, e
attenersi τηρώ ad essi non è più solo questione di gusto o di libertà, ma un vero e
proprio assurdo e quasi perversione storica. Le opere degli Schlegel che ebbero im-
portanza europea sono il Corso sulla letteratura drammatica, di Augusto Guglielmo
(1810, tradotto in italiano da Giovanni Gherardini il 1818), e la Storia della letteratura
antica e moderna, di Federico (1815).
I romantici tedeschi — mentre i filosofi dell'idealismo elaboravano il concetto della
fantasia come facoltà produttrice dell'arte — affermarono che l'opera poetica è
espressione del sentimento, che suoi caratteri e pregi fondamenti sono la
immediatezza e la libertà della espressione, e che essa non può sorgere se non dal vivo
della nostra moderna sensibilità e dai problemi del nostro tempo. In conseguenza di
queste premesse, essi affermarono che il contenuto detta esso stesso le sue leggi allo
scrittore rifiutarono i principi dell'estetica classica che considerava l'arte espressione del
vero rigettarono le regole e i generi fissi come contrari alla libertà della fantasia
negarono l'uso della mitologia conside-rata come formulario opposto alla
rappresentazione immediata del reale, derivante da pura suggestione letteraria e
rispondente ad un mondo di sentimenti estranei allo spirito moderno, sostennero che la
poesia dovesse trarre ispirazione dal Medioevo, che aveva visto il sorgere della civiltà
contemporanea e di passioni ancor vive nella sensibilità moderna, e dal cristianesimo,
dei cui principi si nutriva l' anima europea.
È agevole intendere quali siano gli aspetti positivi e quali i negativi di simili
dottrine: i romantici venivano incontro ad un vero bisogno della nuova cultura europea
quando affermavano che l'arte si genera dal sentimento e nasce dalla vita e dalle
nostre passioni (concetto, tuttavia, che avrà bisogno di lunghi anni di elaborazione per
acquistare vero valore teorico), e quando rigettavano la tirannide della poetica
classicistica; ma poi contravvenivano al loro stesso principio della libertà dell'arte
quando assegnavano alla poesia un particolare contenuto, tratto da una determinata
epoca — il Medioevo — e da una particolare cerchia di sentimenti, quelli che essi
dicevano, genericamente, moderni e cristiani. Tuttavia, pur con le sue imprecisioni ed
incoerenze, il Romanticismo tedesco, poiché rispondeva ad un reale bisogno della
cultura, si diffuse ben presto in Europa: operò principalmente da tramite tra la
Germania e le altre nazioni occidentali la scrittrice francese GERMANA NECKER DE STAÈL

(1766-1817), la quale, nel suo libro De l'Allemagne (1810), che ebbe larghissima
diffusione (come già la sua precedente opera, di carattere più generale, De la
litterature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales, pubblicata a
Parigi il 1800), si fece banditrice delle nuove dottrine, e già nel secondo decennio
dell'Ottocento in tutta Europa divampava la disputa tra il nuovo e il vecchio, tra i
romantici e i classici.
Anche, bisogna tener conto del significato sociale della rivoluzione romantica: essa in
realtà rappresenta il trapasso πέρασμα della letteratura dall'aristocrazia alla borghesia.
In questo senso il Romanticismo compie l'avviamento impresso alla letteratura
dall'Illuminismo: quest'ultimo infatti propugnava una letteratura fatta di « cose » e non
di « parole », rivolta ad operare sulla vita e ad illuminare le menti.L' Illuminismo si
volgeva alla nuova classe in ascesa, che veniva assumendo l'egemonia civile, perduta
oramai per sempre dall'aristocrazia, svuotata, sin dall'epoca dell'assolutismo illuminato,
di ogni funzione civile. Il Romanticismo ereditò il principio di nazionalità elaboratosi
consapevolmente nell'età napoleonica, i principi di libertà e di uguaglianza predicati
dalla Rivoluzione francese, l'idea della letteratura come educazione e colloquio aperto
col « popolo »: la letteratura del Romanticismo non è perciò la letteratura della reazione
o restaurazione, ma il fermento vivo dell'eredità rivolu-zionaria ed illuministica che si
misura col senso della storia e con più complesse aspirazioni umane. Che poi il
«popolo». di cui parlano i romantici (come appare dalla Lettera di Crisostomo del
Berchet) sia la borghesia e non il proletariato, corrisponde allo sviluppo della società
contemporanea; e pretendere di rinvenire in un momento della storia la consapevolezza
di problemi che sorgeranno solo assai più tardi, e proprio dal suo seno, è affatto
antistorico.
UGO FOSCOLO
II Romanticismo del Foscolo e la sua personalità. La poetica.
In Ugo Foscolo il motivo romantico, adombrato nel neoclassicismo, si sviluppa in
tutta la sua ricchezza ed assurge ad una religiosa concezione della vita. Pur non
essendo pervenuto al possesso della più nuova e profonda conquista del Romanticismo,
che è nel concetto della realtà e della storia come svolgimento, e pur essendosi
dichiarato avverso al Romanticismo, egli avvertì le contraddizioni in cui entrava la nuova
coscienza, in seguito alla crisi dell' Illuminismo, con una sofferenza così alta e
personale, con un sentimento così commosso della dignità e nobiltà dell'umano dolore,
con uno sforzo di liberazione così virilmente consapevole e tenace, che merita di essere
collocato al più alto livello della spiritualità europea del secolo XIX.
Se l'Alfieri è un precursore dello spirito romantico, di cui annunzia soltanto
qualche aspetto, il Foscolo vive nel pieno della coscienza romantica e in intima
rispondenza con i più alti spiriti del suo tempo, e mercé trionfàlmente nella letteratura
europea.
Il romantico travaglio foscoliano derivò dalla contraddizione in cui il poeta si
impigliò, senza riuscire a liberarsene mai, tra le premesse meccanicistiche e
naturalistiche, cui egli tenne fede per tutta la vita, e le nuove esigenze dello spirito
bisognóso di dar luce alla vita dell'uomo e significato al suo agire, dal dissidio che fu
sempre in lui tra meccanicismo e finalismo, materialismo e spiritualismo.Ma se il Foscolo
avvertì come pochissimi l'urto di quella contraddizione, non si lasciò travolgere dal tarlo
che gli rodeva l'animo, non rimase scettico o languido di fronte alla scena del mondo
che gli appariva vuota e non si incupì in una tristezza solitaria e immobile, ma tutta la
vita spese, con uno sforzo eroico, a rinvenire una giustificazione dell' esistenza, e dal
dolore trasse stimolo per riconsacrarne le nobili fatiche. Ne in questo sfòrzo egli riuscì
alfine vittorioso e pervenne ad una compiuta liberazione del suo travaglio,ma il dolore
serrò sempre nel petto, e la vita gli appàrve sempre più come una continua conquista,
nobile appunto in ciò che essa è l' attuale e faticosa vittoria dell'opera e della fede
contro il nulla e la rnorte che proiettano senza tregua la loro ombra fredda sopra la
nostra ansia di attività e di bellezza. Sopra la tristezza del mondo e dell'animo umano si
leva l'anelito alle cose grandi ed eterne, che però non annulla quella tristezza, sibbene
αν και se ne nutre, onde il vivere non si sviluppa come mera ed esteriore attività, ma
come dovere e conquista, accompagnati da un religioso sentimento della umana
missione che è insieme di dolore e di grandezza.
C'erano nel Foscolo una straordinaria energia spirituale e un vigoroso impeto
costruttivo, che si svilupparono non nell' affermazione di nuovi valori positivi ed
assoluti, il che importava una nuova concezione della realtà, ma nella creazione di quei
m i t i che egli chiamò i l l u s i o n i — l'Amore, la Bellezza, la Patria, la Poesia,
l'Eroismo, l'Immortalità — che sono gli ideali umani, non affermati come
incontrovertibili verità, ma sentiti appunto come proiezione dell'anima che pone a se
stessa dei fini, cui inerisce tanto più faticosamente, quanto più chiaramente ha la
coscienza della loro irrealtà.
La Foscoliana energia si sviluppa altresì nell'esaltazione dell'azione. in cui l'umano
travaglio non si oblitera, ma in cui l'anima si sottrae all' avvilimento di uno sterile
ripiegamento sopra se stessa, e si realizza in pienezza vitale: da ciò l'ardore di opere
che animò tutta la vita del Foscolo, la sua impetuosa partecipazione alle vicende
politiche d'Italia, il suo eccezionale coraggio di combattente, e da ciò pure quél suo
inesausto ανεξάντλητος bisogno di appassionamento — e infaticabile amatore fu il
Foscolo per tutta la vita — , giacché l'amore gli riempiva l' anima e soddisfaceva al suo
bisogno di realizzare comunque la sua personalità.
Si può intendere qual contributo il Foscolo abbia arrecato all'Italia del Risorgimento:
l'Alfieri insegnò agli italiani l'agire eroico, e la nuova patria prospettò ai suoi compatriotti
come proiezione della sua umanità ideale, il Foscolo invece pose la conquista della
patria come valore ideale, come l'attuazione di una sublime i l l u s i o n e, come
l'aspetto più nobile__dell' opera costruttiva dell'uomo, in cui si annega il suo dolore, e si
realizza la sua umana redenzione. Egli insegnò il culto religioso della patria agli italiani,
e perciò del suo pensiero si nutrì il Mazzini, suo vero figlio ideale, che immise il
foscoliano senso religioso della patria e del sacrifizio nel programma rivoluzionario
italiano.
Ma oltre questa sua funzione civile e nazionale, l' insegnamento più alto e attuale
che a noi deriva dal Foscolo è nel sentimento della vita come conquista e creazione di
valori ideali: da questo sentimento della vita derivano nel Foscolo, al disopra delle
umane debolezze della sua vita pratica — debolezze che rendono più completa e ricca
la figura del poeta e lo avvicinano alla nostra anima — il rispetto altissimo per l'ideale e
l'unità perfetta tra il pensiero e l'agire, il credere e l'operare. C'era in lui un mondo di
cose alte e grandi — la patria, la sua missione di poeta e di scrìttóré, l'amicizia, la
santità degli affetti domestici, il rispetto per l'umana personalità, specie quella dei
giovani — cui egli serbò per tutta la vita una fede immacolata, e che servì con uno
spregio di ogni pratica utilità, tanto più grande, quanto più imperiose furono le
necessità della sua vita di uomo, spesso disordinata e inquieta, e sempre priva di ogni
pratico accorgimento.
Se una tale concezione della realtà e dell'uomo (che s'andò sempre più
Incupendo di note pessimistìche, con lo svolgersi della vita del poeta) promuove nella
vita morale la religione dell'azione come dovere, redenzione e liberazione, genera — sul
piano ideale ed artistico — la poetica propria del Foscolo.
In un mondo in cui non c'è verità e non c'è armonia, in un mondo che è
negazione delle nostre idealità e la cui storia sembra non aver senso e correre solo
verso un meccanico ed eterno dissolversi e morire, unica plaga di armonia liberatrice è
la poesia.
La poesia non è evasione od oblio, e se canta le illusioni non è essa stessa
illusione, ma realtà e creazione effettuale: è la sola plaga dove le nostre idealità si
realizzano _come canto, dove si supera la morte perpetua delle cose, dove i valori
diventano fermi ed eterni, dove l'anima si libera dalle sue contraddizioni; dove infine le
illusioni diventano realtà, l'unica realtà possibile all'uomo, e cioè la realtà poetica,nella
quale convergono canto e sapienza, filosofia scienza e bellezza.
La poesia, così intesa, è infatti il vertice della nostra vita spirituale, la quale
necessariamente — secondo il Foscolo — non si può ordinare e illuminare in un sistema
di pensiero e di filosofia, e perciò non ha altro linguaggio e altra costruzione che la
poesia. La quale assume una sua missione eroica, diventa liberazione e consolazione,
messaggio ed illumi-nazione, sapienza e virtù. Perciò ha in sé sempre qualcosa di
solenne e di religioso e quasi sovrumano, ed aspira ad un linguaggio alto, eloquente,
ricco di modulazioni sostenute ed originali. Di qui l'altezza del linguaggio poetico del
Foscolo, il suo gusto neoclassico, la sua ricca inventività stilistica, e anche la
conclusione del suo itinerario di poesia, che è il canto stesso della missione delle Grazie:
la poesia, giunta al termine della consapevolezza del suo ufficio, canta se stessa, e
celebra la Bellezza, come creazione ultima e totale umanità. E perciò infine nel Foscolo
la poesia è sempre fantasia (e cioè energia musicale e pittorica) e passione (e cioè
sentimento e dolore del mondo), e la sua poetica non ha in sè nulla di decadente o di
parnassiano o, anche di freddamente neoclassico: è totale visione del mondo, amore e
canto, moralità e bellezza.
Anche, il Foscolo avvertì, in un'epoca in cui, come abbiamo visto, i dibattiti erano
assai vivi, l'importanza del problema della lingua. E, coerentemente con la sua poetica,
avversò sia i conservatori e puristi (il Cesari, il Vannetti, ecc.), dei quali avvertiva
l'antiquata intransigenza, sia i novatori e rivoluzionari del gruppo del Caffè.
Il Foscolo aveva troppo vivo il senso storico per non avvertire la necessità del
rispetto della tradizione, ma quella tradizione avvertiva non come peso grammaticale,
lessicale, retorico, sibbene come genio, spirito e_gusto della lingua. Tale gènio doveva
infatti tralucere nella lingua che però doveva essere moderna, e cioè tradizionale e
sostenuta ma insieme viva: e cioè foscolianamente densa di idee accessorie, di
chiaroscuri, di innovazioni intonate alla tradizione, e ricca di colorito poetico e, come
egli diceva, « di oscurità misteriosa e di idee affollate e appena accennate, e
d'eloquenza compressa sdegnosamente ».

La poetica romantica in Italia


Efficacia delle idee romantiche in Italia. –
La diffusione delle idee romantiche e la poetica del
Romanticismo italiano. Efficacia delle idee romantiche in
Italia.
Il moto letterario del Romanticismo non determina in Italia una vera rivoluzione della
cultura, ma, sostanzialmente, accelera, rendendolo più consapevole e deciso, quel moto
di svecchiamento che già abbiamo visto efficacemente iniziato nel secolo XVIII. Il
romanticismo deve considerarsi come un fatto letterario di più vasta efficacia sulla linea
di svolgi-mento già segnata, e poiché il moto di liberazione della nostra cultura era
rivolto contro il peso del classicismo formale, il Romanticismo segna il momento
risolutivo di un travaglio oramai secolare, per cui l'Italia moderna rigetta il peso delle
"decrepite soprastrutture della sua cultura ed imprènde decisamente il suo nuovo
cammino.
Come nel Settecento ogni elemento straniero è prontamente assimilato ed
assoggettato alle necessità proprie della nostra cultura, così il vasto ed impetuoso moto
letterario del Romanticismo, sarà anch' esso piegato alla nostra tradizione e
originalmente conformato e contenuto entro i limiti dalle condizioni preesistenti della
cultura e da quelle pravvenienti delle nuove aspirazioni civili e politiche. Il moto
romantico non snaturò l'indirizzo, essenzialmente classico, nei nostri studi, accanto ai
quali, e non contro i quali, si aggiunse lo studio delle letterature straniere, e mentre in
Germania la polemica anticlassicistica sovente trapassò in polemica anticlassica,
antiromana ed antilatina, in Italia la polemica si contenne sempre entro i suoi termini
originari, ed i nostri romantici, protestarono sempre di volere attuare un vero e risorto
e integrale classicismo, e di essere essi gli effettivi imitatori dei classici, essi che
volevano trarre ispirazione dai loro temi e dai loro ideali, così come avevano fatto i
grandi antichi.

La diffusione delle idee romantiche e la poetica del Romanticismo italiano.

E furono i romantici a porre per primi la distinzione tra classicisti,


La diffusione delle idee romantiche in Italia si iniziò subito dopo la Restaurazione,
e iniziatrice ne fu Madame de Staèl. Il 1816 fu pubblicato nel periodico milanese,La
Biblioteca Italiana, un suo articolo — Sull'utilità delle traduzioni —, in cui si invitavano
gli italiani a liberarsi dai legami della loro cultura troppo classicamente angusta, e ad
aprire le loro menti, mercé le traduzioni dall'inglese e dal tedesco, ai contatti con le
nuove idee europee. L' articolo com'era da prevedere, scatenò una furiosa battaglia,
che durò alcuni anni, accendendo appassionate polemiche. Contro la Stael si levarono in
generale i vecchi letterati, che vedevano nella cultura di indirìzzo strettamente
classicistico la tradizione e l'or-goglio medesimo d'Italia, e tra costoro più eminente fu il
Monti che compose il sermone Su la mitologia, altri per la sola e consueta opposizione
ad ogni novità, ed altri ancora per l'errata idea che si aveva del Ròman-ticismo come di
una dottrina propugnatrice di una letteratura popolata di spettri e di maghi e che si
compiaceva dell'orrido e del macabro. Per contro, abbracciarono le idee romantiche i
giovani e coloro che, in Milano, ereditavano la tradizione rivoluzionaria del Caffè e
dell'accademia dei Pugni, temperata però attraverso una nostra elaborazione della poe-
tica del sensismo, e coloro che ben presto intesero quanto il nuovo in-dirizzo,
sciogliendo la letteratura da ogni sostenutezza επιφυλακτικότητα accademica, po-
tesse giovare alla preparazione del nostro Risorgimento civile e politico. Degli scrìtti
romantici i più importanti sono, oltre quelli del Manzoni, la Lettera semiseria di
Grisostomo, che, a Milano, con quel pseudonimo, pubblicò GIOVANNI BERCHET, nel
1816, accompagnando la traduzione di due ballate del poeta tedesco GOFFREDO AUGUSTO

BURGER, il Cacciatore feroce e la Leonora; e gli articoli del Conciliatore, giornale bi-
settimanale, pubblicato dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819 (quando dovè
interrompere le sue pubblicazioni per la tormentosa opposizione della censura
austriaca), che, come dice il suo nome, voleva conciliare antico e moderno, e che
accolse intorno a sé il fior fiore dei sostenitori del Romanticismo: SILVIO PELLICO, PIETRO

BORSIERI(1796-1852), LUDOVICO DI BREME (1780-1820), il BERCHET, ERMES VISCONTI (1784-


1841), il filosofo, già nominato, GIAN DOMENICO ROMAGNOSI, il conte LUIGI PORRO

LAMBERTENGHI, nella cui casa si riunivano i collaboratori, e che finanziò, come oggi si
direbbe, generosamente l'impresa, il conte FEDERICO CONFALONIERI, vittima illustre dei
processi del 1821, GIUSEPPE PECCHIO, GIUSEPPE NICCOLINI ed altri.
Delle idee dei romantici tedeschi, i romantici italiani accolsero prima d' ogni altra
il concetto della spontaneità della poesia e quella irigine dall'impeto del
sentimento; ribadirono il concetto che forma e contenuto non si possono che
astrattaménte distinguere, giacché I due elementi nascono insieme ed ogni contenuto
comporta le sue forme specifiche accentuarono il concetto della popolarità dell'opera
d'arte, ribadendo la necessità che essa fosse rivolta al popolo e non muovesse solo dal
chiuso degli ambienti accademici, e l'altro della n a z i o n a l ità e m.o d e r n i t à delle
opere d'arte, propugnando la necessità che esse derivassero la loro materia dagli
interessi e dalle passioni concretamente sentite dalla nazione moderna; infine
particolarmente insistettero sulla funzione pedagogica .dell'arte, che doveva, secondo
loro, essere rivolta a promuovere l'innalzamento degli spiriti e a chiarire, specie nel
popolo, i problemi e gli ideali contemporanei. Evitarono e rifiutarono del romanticismo
tedesco il fantastico, l' assurdo, il vago, l'orrido, lo smarrimento cosmico, il titanismo e
l'egocentrismo.
In conseguenza di questi principi, i romantici respingevano tutte le prescrizioni
συνταγή della poetica classica (i modelli, l'imitazione, i canoni fissi, i generi letterari
immutabili, le regole delle tre unità, ecc.); respingevano, in nome della modernità e
della missione pedagogica e nazionale dell'arte, l'uso degli argomenti tratti
dall'antichità e l'abuso della mitologia, e prescrivevano invece di assumere a contenuto
dell'opera d'arte avvenimenti e personaggi dell'Italia medievale, moderna e cristiana.
Anche, i romantici nostri infatti rinvenivano, ma per ragioni diverse da quelle dei
tedeschi, le origini della nazione nel Medioevo e più propriamente nel periodo
comunale. E allora si venne formando il mito che i Comuni segnassero, dopo le
invasioni dei barbari, il risorgere della nazione italica e latina, che il principio della
nostra indipendenza dovesse scorgersi nelle lotte contro Federico Barbarossa; allora
divennero personaggi di commovente grandezza Arduino d'Ivrea e Alberto di
Giussano, allora gli studi storici si volsero prevalentemente al Medioevo, e il
Rinascimento venne in disdegno come epoca di miseria politica.
È facile intendere quel che di sostanziale ci fosse in questa poetica e quel che in
essa fosse fallace, caduco, contingente. Affermazioni preziose dell'estetica romantica
erano quelle della spontaneità dell'opera d' arte e della sua derivazione dal sentimento,
affermazioni nelle quali è implicito il concetto dell'autonomia dell'attività estetica,
che sappiamo essere la conquista fondamentale dell'estetica moderna. Non solo, ma,
nell'affermazione del Romanticismo che l'arte è una forma di conoscenza, superiore
persino all'intelletto, è implicito il principio della teoreticità dell'opera d'arte, come
fondamentale è il principio dell'unità della fórma e del contenuto, che conduceva al
rifiuto del concetto di letteratura come ornamento, ricerca formale, perfezione
governata da regole immutabili. Senonché tutti questi elementi, erano ancora involuti
in molti errori, ed espressi piuttosto in forme embrionali che sviluppati in tutta la
pienezza delle loro conseguenze, ed avevano bisogno di un travaglio di pensiero quasi
secolare per svolgersi in tutta la loro ricchezza e, comunque, in Italia non ebbero
elaborazione originale se non con il De Sanctis. Tutto il primo Romanticismo infatti
piuttosto che approfondire i principi teorici onde muoveva, si rivolse a costituirsi una
nuova p o e t i c a, che divenne strumento di battaglia contro il classicismo, e che,
appunto per non aver chiarito in tutti i suoi sviluppi, i concetti da cui nasceva, ha in sé
molte inconseguenze ed ebbe piuttosto funzione polemica e negativa che positiva.
Inconseguenza era prescrivere un ufficio educativo all'opera d'arte, quando si era
riconosciuto il suo carattere di spontaneità, ed inconseguenza imporle un particolare
contenuto (il Medioevo, i sentimenti cattolici, l'esaltazione patria, ecc.) e chiedere che
essa fosse popolare e nella forma e nei fini, quando si era affermato che l'arte è libertà
e che nasce solo dal sentimento.
Ma la verità è che quelle che a noi appaiono inconseguenze non tali apparvero ai
nostri romantici, i quali piegarono immediatamente la nuova poetica, senza troppa
severità teorica, ai fini politici e patriottici cui erano rivolti i loro spiriti. Il compito
urgente era svecchiare la nostra letteratura, liberarla dall'accademismo e immettere
spirito nuovo nella vita mentale d'Italia, e i nostri romantici s'impossessarono subito
della nuova arma, travolsero le regole e le prescrizioni classicistiche, e bandirono la
necessità di una cultura europea, negando, per eccesso polemico, ogni valore di
contenuto artistico all'antichità e alla mitologia. Particolarmente fervida e pugnace fu la
lotta contro la mitologia: e certo anche qui sarebbe facile, oggi, rilevare l'inconseguenza
di quella battaglia rispetto al concetto della libertà dell'arte.
Ma il fatto si spiega quando si consideri che per i romantici la mitologia voleva
dire un armamentario frusto di immagini e di elementi decorativi della poesia, voleva
dire — a più alto livello — accettazione della dottrina aristocratica, astratta e
esclusivistica del bello ideale, voleva dire l' esercizio della letteratura come patrimonio di
classi privilegiate e preminenza di un solo tipo di cultura, quella classica; voleva dire,
infine, rifiuto di una religione moderna ed umana, la cattolica, interpretata, sulla spinta
dell'Illuminismo, prevalentemente nella sua direzione egualitaria, per i relitti di
concezioni religiose tramontate per sempre, da servire solo come repertorio di metafore
cristallizzate.
Non solo, ma i romantici avvertirono quale nuova arma di battaglia fosse venuta
nelle loro mani, e subito piegarono i principi della nuova poetica ai loro fini patriottici:
partendo dal concetto della missione pedagogica dell'arte moderna, vollero che essa
insegnasse a venerare la patria ed a saper morire per lei; ribadendo l'altro della
popolarità della letteratura, la piegarono a strumento di educazione del popolo, e,
infine, accogliendo quelli della modernità e nazionalità, volsero la poesia a cantare,
l'Italia nuova ed il suo ardore di redenzióne. Che poi per «popolo» I romantici
intendessero, come appare dalla Lettera semiseria del Berchet, la borghesia in tutti i
suoi livelli, è cosa perfettamente coerente con l'indirizzo generale della civiltà romantica
che fu civiltà borghese e non popolare nel senso moderno, il corrispettivo del trionfo del
terzo stato.In questa guisa la polemica anticlassicistica di origine settecentesca ed I
bisogni del nascente Risorgimento conformavano originalmente la poetica del nostro
Romanticismo. La quale, a prescindere dalla sua maggiore o minore coerenza rispetto ai
principi da cui scaturiva, compì interamente il suo ufficio storico. Non solo infatti costituì
un mirabile strumento di battaglia per la liberazione d'Italia, ma fiaccò definitivamente
la vecchia letteratura; e nell'una e nell'altra forma giovò all'europeizzarsi della nostra
cultura, educando le nuove generazioni al risorto ideale di libertà, che era tanta parte
"della vita morale e spirituale d'Europa, frantumando le vecchie resistenze del
classicismo e aprendo le vie ad una nuova cultura, da cui sarebbe uscita trasformata
la vita intellettuale d' Italia. E se in taluni il precetto della popolarità produsse volgarità
di concepimento e sciatteria di forma, e se l'altro della spontaneità produsse l'eccesso
del sentimentale e del fantastico, e se l'idea della nazionalità trasformò troppe creazioni
artistiche in oratoria politica, questi sono gli eccessi in cui sempre incorre ogni
movimento che deriva da un forte impulso polemico.
Il Romanticismo svecchiò, oltre la cultura, la lingua letteraria d'Italia.
Quest'ultima, infatti, nonostante il moto di rinnovamento illuministico, era rimasta,
specie nella poesia, una lingua illustre, cioè una lingua derivata dalla tradizione e
dall'opera degli scrittori. I romantici, invece, muovendo dal concetto della popolarità e
modernità dell'opera d'arte, e approfondendo l'idea che fu già degli Illuministi, della
lingua che dica cose, e cioè si rivolga alla realtà nella sua concretezza ed in tutte le sue
forme, dalla più alta alla più bassa, propugnano più o meno consapevolmente, e di fatto
promuovono, una lingua che non derivi più solo dalla tradizione, ma si avvivi di
contributi dei dialetti, assimili le forme tecniche e quotidiane, si avvicini il più possibile
alla lingua parlata e risponda al bisogno di espressione di tutta la nazione e per tutti i
suoi strati.
Per intendere meglio tutto ciò si tenga conto dell' aspetto sociale del nostro
rinnovamento letterario: il Romanticismo estese immensamente I domini della
letteratura. Il popolo — cioè la borghesia e il proletariato — non fu soltanto l'oggetto, il
termine a cui doveva essere rivolta l'opera letteraria, ma entrava come soggetto ed
argomento di essa: sicché in quel mondo della letteratura, dove pareva potessero aver
vita solo i nobili e le classi alte e raffinate — entrano ora prevalentemente non solo il
mondo borghese, ma anche i popolani, i contadini, col loro ambiente, la loro spiritualità,
i loro bisogni. E al nuovo mondo risponde naturalmente una lingua nuova per qualità ed
estensione. Comincia così col Romanticismo quel profondo travaglio di rinnovamento
della nostra lingua che si svolge ancora, e assai vivacemente, nei nostri giorni.
Proprio negli anni tra il 1815 e il 1825 il Manzoni, aderendo alle dottrine romantiche
e svolgendole secondo le esigenze del suo ingegno, dava la sanzione e l'autorità del
genio alle nuove dottrine: la vecchia letteratura periva per sempre e l'Italia si riempiva
di novelle fantastiche e romanzi storici, di canti patriottici e religiosi, di poemi e drammi
dì nuova intonazione struttura e lingua, nei quali si rivelava, in tutta la sua efficacia
innovatrice, il moto polemico, letterario e spirituale, linguistico e civile, del
Romanticismo italiano.

Alessandro Manzoni
Il carattere romantico dello spirito manzoniano.
Lo spirito del Manzoni, anche più palesemente di quello del Foscolo e del Leopardi,
rivela la sua schietta tempra romantica. Il romanticismo manzoniano non deriva tanto
dal contributo che il grande lombardo abbia arrecato alle dispute classico-romantiche,
quanto dalla partecipazione viva e potente ai problemi speculativi e alle idealità morali e
religiose, su cui si fonda la nuova civiltà del Romanticismo.
Se infatti nel Manzoni, particolarmente in certe tendenze del suo ingegno, spesso
troppo analitico e talvolta persino astratto, è possibile riconoscere tracce della sua
primitiva educazione settecentesca e illuministica, nel rifiuto poi che egli oppone ad ogni
facile ottimismo ed al predominio dell'astratta ragione di fronte al sentimento ed al
buonsenso, nel senso che ebbe vivissimo della complessità e ricchezza della vita e delle
sue contraddizioni, in quello, altrettanto vivo, della natura autonoma e singolare di ogni
individuo, nel forte sentimento della tradizione, nell'amore e nella pietà per tutti gli
uomini e le loro sofferenze, egli si rivela a chiarissime note creatura della nuova
spiritualità ottocentesca e romantica. Soprattutto egli ebbe vivissima l'esigenza di acco-
gliere, patire ed intendere la vita con umiltà religiosa — e perciò, come l'ottimismo, così
rifiutò l'orgoglioso umanismo settecentesco —, e l'altra, cui fu rivolto tutto lo sforzo
della sua mente e tutta la sua opera, di intendere ed esplicare la storia degli uomini, di
rinvenirne le norme di svolgimento ed i fini, e perciò egli rifiutò ogni idea meccanicistica
della realtà, e dei residui del sensismo si andò ben presto affatto liberando.
In questa urgenza dei problemi religiosi e nel senso fortissimo che egli ebbe dei
problemi della storia è la più adulta appartenenza del Manzoni al Romanticismo. Il suo
problema non è più se esista una storia e un divenire o un significato della vita, sibbene
l'altro e successivo: quale sia la legge della storia e del divenire e quali siano i loro fini.
Sovra questa impostazione è da intendere la religiosità cattolica manzoniana, la quale
diventa ben presto il centro di irradiazione di tutta la sua opera di poeta e di pensatore
e del suo pratico agire di uomo e di patriotta; la qual religiosità non è un modo di
eludere i problemi vivi e travagliosi dello spirito nel rifugio placido della trascendenza,
ma un nuovo e particolarissimo modo di sentire la religione tradizionale, che accoglie in
sé tutta l'urgenza morale e storicistica dei problemi romantici e li placa e compone nei
modi che vedremo.

La vita.
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 da Pietro e da Giulia Beccaria,
figlia del celebre autore del libro Dei delitti e delle pene. Studiò prima nei collegi di
Merate e di Lugano dei padri, Somaschi, e poi nel Longone, in Milano, tenuto dai
Barnabiti. Uscito di collegio a quindici anni, si trovò quasi solo a Milano, affidato ad una
vecchia zia; la madre, separata legalmente da don Pietro Manzoni sin dal 1792, viveva a
Parigi insieme con Carlo Imbonati, mentre il padre, che non sembra si desse grande
cura del figlio, preferiva vivere in campagna.
Il Manzoni, che ebbe ingegno assai precoce, incominciò imitando il Monti nel suo
poemetto in quattro canti in terzine, II Trionfo della Libertà, composto dopo la pace di
Luneville (1801), in cui si esalta il trionfo della libertà sulla tirannide e sulla
superstizione religiosa.
A Milano e a Venezia, dove fu per qualche tempo, traversò un breve periodo di
traviamento, frequentò il ridotto della Scala e si dette al gioco, e a trarlo da quella china
non mancarono di efficacia gli affettuosi rimproveri del Monti che lo stimò ed amò assai
presto. Anche a Milano, in questo periodo, conobbe Vincenzo Cuoco, vero apostolo delle
dottrine vichiane, e con lui, l'altro vichiano Francesco Lomonaco, e certamente dovè
sentire l'influenza dei due esuli meridionali, influenza che non mancò di avere efficacia
sugli indirizzi più maturi del suo genio.
Agli anni tra il 1800 circa e il 1804 appartiene un gruppetto di composizioni
giovanili: alcuni sonetti, quattro sermoni di stampo oraziano e l'Adda (1803), epistola in
isciolti al Monti; pure esercitazioni di scuola i sonetti, di schietto sapore alfie-riano; idillio
ricco di grazia e di squisito senso musicale l'Adda; privi affatto di poesia i Sermoni, ma
importanti perché già rivelano la tendenza dell'ingegno manzoniano a rappresentare
non un mondo di giovanili incanti o illusioni, ma a guardare l'umanità intorno a sé e a
meditare sui problemi morali. Nel marzo del 1805 morì l' Imbonati, che il Manzoni aveva
appreso a stimare e ad amare attraverso la corrispondenza epistolare che ebbe con la
madre e con lui medesimo, e alla memoria di lui dedicò il carme In morte di Carlo
Imbonati, pubblicato nel 1806, a Parigi, dove egli aveva raggiunto la madre sin
dall'estate dell'anno precedente. Il carme segna una datafondamentale nella storia dello
svolgimento spirituale del Manzoni: non c'è ancora in esso vera poesia, ma il presagio
sicuro del futuro avviamento del poeta. L'Imbonati è rappresentato dal poeta come uno
spirito che compone in armonia umile insieme ed alta i suoi interiori motivi, e al
Manzoni, cui parla in sogno, consiglia quell'unità del sentire e del meditare, quel
possesso sereno ed intrepido della virtù, che il Manzoni adulto sentirà come il più alto
culmine dell'umana personalità e farà materia della sua poesia.
A Parigi il poeta rimase, tranne brevi interruzioni, dal 1805 al 1810: ivi conobbe e
frequentò quel gruppo di pensatori e di scienziati, che si dissero ideologi, eredi
dell'estremo razionalismo e sensismo francese, e rivolti, attraverso limpide ed amabili
esposizioni, piuttosto a problemi particolari di psicologia che ai grandi problemi dell'etica
e della gnoseologia, che essi rifiutavano come insolubili. Entrò in amicizia assai
affettuosa con lo storico e critico Claudio Fauriel , che conviveva con la vedova del
Condorcet, e frequentò il salotto della sorella di quest'ultima, moglie dell'ideologo
Giangiorgio Cabanis. È assai difficile determinare quale precisa influenza abbia avuto il
soggiorno parigino sul Manzoni: senza dubbio non segnò una rivoluzione nello spirito
del poeta, che si rivela dotato di una salda ακλόνητος autonomia già dalla prima
giovinezza, ma certo contribuì a sviluppare in lui alcune attitudini intellettuali ed alcuni
abiti mentali, che furono suoi propri per tutta la via, quali la chiarezza e la limpidità del
ragionamento e l'attitudine alla precisa analisi psicologica. Certo quel soggiorno
determinò in lui convinzioni in materia di critica e di letteratura, quali l'idea della
necessità di una lingua unitaria e viva, e l'altra di una letteratura spontanea,
antiaccademica e popolare, che egli derivò principalmente dalle feconde conversazioni
col Fauriel, e che saranno poi fondamento della sua salda adesione ai principi letterari
ed estetici del Romanticismo. In quanto alla religione, certo il deismo degli ideologi
dovè primamente acquetare le esigenze religiose non ancora ben mature nello spirito
del poeta, e dovè alimentare lo spregio per le superstizioni e il formalismo religioso che
egli aveva concepito negli anni di collegio e rinsaldato nel clima rivoluzionario milanese.
Ma se l'ideologia valse provvisoriamente a soddisfare le esigenze intellettuali del
Manzoni, non poteva certo placare il bisogno, in lui palese sin dalla giovinezza, di
indagare più profondamente il mistero e le ragioni della vita. Così potè avvenire che alla
fine di quel medesimo soggiorno parigino si realizzasse l'atto più importante della vita
del Manzoni: la sua così detta conversione religiosa. Il 1808 egli aveva sposato
Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, di religione calvinista; ma la moglie,
spirito delicato, profondo e ricco di fervore religioso, sotto l'influenza del prete genovese
Eustachio Degola, si convertì al cattolicesimo e ben presto, nel 1810, anche il Manzoni
fece pubblica adesione alla religione tradizionale, e in quell'anno il matrimonio, che era
stato celebrato con rito calvinista, fu ricelebrato con rito cattolico. Non fu la conversione
religiosa del Manzoni un atto improvviso, frutto di improvvisa illuminazione del suo
spirito, ma il risultato di una meditazione lenta, di studi, di letture e di conversazioni col
Degola: giacché la risoluzione del problema religioso, comportava in lui una intera
visione della realtà e della vita, e la risoluzione di tutti gli altri problemi di carattere
morale ed intellettuale in cui si imbatterà il suo complesso spirito. E come la
conversione non fu un fatto improvviso, così si andrà svolgendo e perfezionando per
lunghi anni dopo quel famoso 1810.
Dopo la conquista della luce religiosa si iniziò il grande periodo della poesia
manzoniana. Il 1809 egli mandava al Fauriel il poema in isciolti l’ Urania, ultimo suo
scritto anteriore alla conversione: il poemetto di schietta tempra neo-classica, ricco del
solito armamentario mitologico, ma anche del pregio di elegante fattura e di vivi accenti
di poesia, celebra, alla guisa della Musogonia del Monti e delle Grazie del Foscolo,
l'ufficio di incivilimento delle muse, e cioè delle arti e della Bellezza: ma il poeta già
dichiarava all'amico che non avrebbe scritto più versi di tal genere. E infatti da allora
abbandonò la maniera che possiamo dire neoclassica e montiana.
Il 1810 il Manzoni tornò definitivamente a Milano, dove rimase tutto il resto della
sua lunghissima vita, tranne brevi e tutt'altro che frequenti interruzioni. Trascorse
sempre a Milano, il quindicennio 1810-1825 tranne una permanenza con la famiglia di
dieci mesi dal 1819 al 1820 a Parigi (dove il Manzoni si recò con la speranza di trovar
sollievo alle sue sofferenze nervose, che lo tormentarono assai in questi anni), vivendo,
più spesso che in città, in campagna, nella sua villa di Brusuglio. Segue il periodo della
grande produzione poetica: il 1815 il Manzoni pubblica i primi quattro Inni sacri, il 1820
la prima delle sue tragedie, II Conte di Carmagnola, il 1821 il Cinque Maggio, il 1822 la
seconda tragedia, Adelchi, e il più grande degli innni sacri, la Pentecoste; e il 1825 inizia
la stampa dei Promessi Sposi che si protrasse fino al 1827. Intanto, il 1819, il Manzoni
pubblicava le Osservazioni sulla morale cattolica, libro di garbatissima polemica contro
lo storico ginevrino Sismondo de' Sismondi, il quale nella sua Storia delle repubbliche
italiane (1818) aveva indicata come causa precipua della decadenza spirituale degli
italiani, dopo la caduta delle repubbliche (cioè dei comuni), l'influenza che sul loro
carattere aveva avuta la Chiesa con le sue imposizioni ed inibizioni. Il Manzoni, che a
comporre l'opera fu invitato e frequentemente stimolato da don Luigi Tosi, un pio sacer-
dote che presso di lui continuava le dotte conversazioni iniziate dal Degola, compose
solo la prima parte della sua opera; la seconda non compì mai, e quando nel 1855 si
indusse a ripubblicare l'opera della giovinezza, non aggiunse che una larga appendice al
cap. III, che costituisce quasi un trattato a sé, rivolto a confutare la dottrina dell'inglese
Geremia Bentham, che fondava la morale sulla utilità. Quando il Si-smondi lesse l'opera
del Manzoni, dichiarò che, a suo parere, il poeta e lui combattevano come due bravi
spadaccini nel buio e senza vedersi. E non aveva torto: egli infatti parlava dell'influenza
della Chiesa, come istituzione storica, sugli italiani, e invece il Manzoni difendeva la
morale cattolica, cioè i principi essenziali della dottrina morale del cristianesimo, che la
Chiesa, come istituzione divina, detiene ed interpreta. Le Osservazioni non hanno
grande importanza nella storia dell'apologetica cristiana, né sono un'opera religiosa
calda ed appassionata, ma rivelano un loro rigore logico fermo e composto ed una
fervida e profonda adesione alle verità ed ai principi evangelici: esse valsero
fondamentalmente a dare ulteriore chiarimenti allo spirito del poeta. Esse inoltre
configurano il carattere del cattolicesimo manzoniano, che rifiuta la casistica e ogni altra
autorità, che non sia quella del Vangelo, e si conforma secondo il nuovo cattolicesimo
liberale, che conciliava i principi religiosi con le dottrine della Rivoluzione e i diritti
dell'uomo.
Il 1826 il Manzoni strinse amicizia con il filosofo roveretano Antonio Rosmini, il
pensiero del quale già aveva dovuto attrarlo da qualche anno, e l'amicizia durò sempre
più intima ed affettuosa sino alla morte del filosofo. Sotto l'influenza del Rosmini il
Manzoni compi quella che fu chiamata la sua seconda conversione, quella cioè
filosofica, per cui molte idee derivanti dal sensismo, che erano sin allora convissute
tranquillamente con la sua nuova coscienza religiosa, furono definitivamente rifiutate,
ed il Manzoni venne soddisfacendo sempre più profondamente le sue esigenze
speculative, alla luce del pensiero rosminiano, che operava una sintesi delle nuove
posizioni idealistiche, derivanti dalla grande filosofia germanica del Romanticismo, con
lo spiritualismo cattolico.
Il 1827 il Manzoni si recò a Firenze per iniziare la revisione del suo romanzo, vi
conobbe molti scrittori e frequentò il gabinetto del Vieusseux. Pochi sono, poi, i
momenti della vita del Manzoni che interessino il biografo: soprattutto importa ricordare
quale sia stato il suo atteggiamento di fronte alla rivoluzione italiana. Pa-triotta grande
e fervido, il Manzoni non prese parte con attiva operosità ai gloriosi moti del
Risorgimento: consapevole della sua inettitudine all'azione, egli accolse nel suo petto
sin dalla caduta napoleonica l'ideale dell'unità d'Italia, e vi tenne fede nei modi
consentanei alla sua natura e con una coerenza meravigliosa. Cattolico, egli intese la
necessità della sede della capitale in Roma per la compiuta unificazione d'Italia, e non
fece mistero della sua convinzione che fosse necessario e giovevole al Pontefice la fine
del potere temporale; vivendo in territorio sottoposto all'Austria non un suo gesto potè
mai essere interpretato come riconoscimento di quel dominio. Sin dal 1814 fu tra quelli
che non vollero chiedere che il Beauharnais fosse assunto alla corona d'Italia; rifiutò
tutte le onorificenze che l'Austria gli offrì in varie occasioni, il 1848 mandò i suoi figli a
combattere sulle barricate durante le cinque giornate, e, nonostante che uno di essi
fosse in mano degli austriaci, firmò l'indirizzo con cui si chiedeva a Carlo Alberto
l'intervento in Lombardia contro l'Austria; il 1855, gravemente ammalato, si rifiutò di
ricevere l'arciduca Massimiliano che si era recato alla sua casa a chiedere notizie della
sua salute; il 1861, nominato senatore partecipò alla seduta del primo parlamento
italiano, a Torino, in cui si proclamò il regno d'Italia con Roma capitale, e il 1864,
benché quasi ottantenne, volle recarsi a Torino per votare il trasferimento della capitale
a Firenze, quale primo passo verso Roma. Infine, dopo il 1870, accettò la cittadinanza
onoraria di Roma. Così egli recò il suo contributo alla formazione della patria italiana;
così, e con le sue opere, specialmente con l'ode Marzo 1821, coi cori delle tragedie e
col romanzo.
Visse sino al 1873, in una modestia che potrebbe sembrare persino eccessiva e
speciosa, se ad impedire il sospetto non stessero la grandezza morale del poeta, la sua
umiltà profonda e quel distacco sublime che egli ebbe da ogni valore transeunte della
vita, contemplatore qual fu del suo ritmo eterno; mentre la fama gli cresceva dintorno e
la sua gloria saliva immensa essendo egli ancora in vita. La sua vita, priva di grandi
avvenimenti esteriori, si svolse tutta nell'intimità della famiglia, col conforto di pochi e
fidati amici — il Fauriel, il Grossi, il Visconti, il Tommaseo, il Bonghi, il Pagani,
soprattutto il Rosmini — e di una meditazione che fu sempre schiva di confidenze
σιγουριά e di effusioni διάχυση. La fede lo aiutò a sopportare i molti dolori che
travagliarono la sua lunga vita; perdette la prima moglie, che egli amò di amore
profondo, nel 1833 e poi anche la seconda, Teresa Borri Stampa, un figlio gli dette
grandi dispiaceri, e cinque degli otto figli che gli erano nati da Enrichetta gli
premorirono. Quand'egli si spense, il 1873, l'Italia, che gli tributò εγκωμιάζω
solennissime onoranze, avvertì che scompariva una delle sue più grandi creature, che
aveva sentito come nessun altro la umana miseria e l'aveva innalzata a segno del
nostro destino e perciò redenta con sublimi voci di amore e di poesia.

Il Manzoni e le dottrine letterarie dei romantici. La poetica manzoniana.

Si può intendere se il Manzoni, col suo temperamento, potesse partecipare


attivamente alla disputa tra i classicisti e i romantici, che si accese presso di noi dopo il
1816. Quando si dice che il Manzoni fu il capo riconosciuto dei romantici italiani, non
bisogna pensare che ciò sia detto nel senso che egli, da buon stratega, li ordinasse tutti
e li conducesse alla battaglia e alla vittoria, sibbene nell'altro che egli con le sue opere,
con l'autorità del suo nome e con la sua schietta e professata adesione ai principi
letterari dei romantici, ne favorì enormemente il trionfo. Infatti tutti gli scritti
manzoniani che si riferiscono alla grande disputa furono occasionali e quasi tutti furono
pubblicati molti anni dopo della loro composizione, quando oramai della battaglia non vi
era che il ricordo.
I principali scritti teorici del Manzoni su questa materia sono in ordine di tempo: la
Prefazione al Carmagnola; la Lettre a Monsieur Chauvet sur l'unite de temps, de lieu et
d'action dans la tragèdie, che, scritta il 1820, fu pubblicata il 1823 dal Fauriel insieme
con la traduzione francese delle tragedie manzoniane, nella quale il Manzoni rifiuta e
confuta la validità delle tre famose unità, che lo Chauvet, un critico classicista francese,
gli rimproverava di non aver rispettate; la lettera Sul Romanticismo al marchese Cesare
d'Azeglio, scritta nel 1823, ma pubblicata dall'autore solo nel 1871 con notevoli
mutamenti; il discorso Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia
e d'invenzione, pubblicato il 1845, ma composto parecchi anni prima, e il dialogo
Dell'invenzione, che è del 1850.
II meglio della poetica manzoniana si trova negli ultimi tre scritti, e particolarmente
nella Lettre, che, scritta, anch'essa, come abbiam visto, occasionalmente, rispecchia il
pensiero del Manzoni nel periodo più fervido della sua attività creativa. Per intendere il
quale però, è bene, per maggior chiarezza, partire dalla lettera Sul Romanticismo.
Benché infatti il Manzoni, pubblicando nel 1871 la lettera, togliesse proprio la formula in
cui aveva condensati i principi positivi della nuova poetica, essa rimane sempre assai
utile a designare le sue idee. Afferma dunque il Manzoni che « la poesia e la letteratura
in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, l'interessante per
mezzo ».
La formula va intesa con molta cautela: quando il poeta dice interessante per mezzo
vuole implicitamente combattere il freddo accademismo e sostenere che la poesia deve
muovere da idealità e sentimenti vivi, partecipi della comune coscienza storica; quando
afferma la necessità che l'arte si proponga l' u t i l e per iscopo non vuoi già sostenere
un ritorno alla vecchia estetica pedagogica che perseguiva il fine dell'insegnare
dilettando, ma, secondo il più profondo ideale romantico, propugna un'arte che
schiarisca ed allarghi il nostro orizzonte spirituale, consentendoci una più larga
partecipazione alla vita del tutto; e quando, infine, propugna υπερασπίζω la necessità
del vero come soggetto dell'arte egli parte da esigenze più propriamente sue e
connesse intimamente con la sua visione religiosa della vita. Poiché la realtà non è che
lo svolgersi del dramma eterno di peccato e di redenzione in cui consiste la vita tutta,
l'arte, che deve proporsi la liberazione e l'innalzamento delle passioni, non può essere
che la rappresentazione della realtà, di cui disvela il significato profondo ed eterno. È
questo il punto più delicato della poetica manzoniana, che può sinteticamente definirsi
come la poetica del vero. E difatti nell'ultima redazione della lettera Sul Romanticismo il
poeta ridusse i tre principi a questo solo del vero, giacché, secondo lui, il vero poetico
non poteva non essere nel medesimo tempo e interessante ed utile.
Secondo il Manzoni la poesia non può che rappresentare il vero, cioè eventi
realmente accaduti e secondo le verità generali dell'anima umana. La poesia viene così
ad integrare la storia: la storia infatti narra ed assoda i fatti nel loro crudo accadimento,
la poesia la completa indagando i sentimenti e le passioni che si sono mosse nel cuore
degli uomini, e che hanno prodotto quegli eventi. E non solo essa completa la storia dal
punto di vista psicologico, ma anche dal punto di vista sociale: la storia si occupa infatti
solo dei grandi eventi e dei protagonisti di quegli eventi, la poesia invece ricrea la vita
degli umili ed i loro affetti semplici e quotidiani, e restituisce alla memoria ed all'eterno i
moti delle folle anonime, e i palpiti delle creature innumerevoli che sembrano passare
nella storia del mondo senza lasciare traccia di sé. Così la poesia diventa opera di
bellezza e di pietà, di alta evocazione e — soprattutto — di verità. E consiste appunto in
questo l'invenzione, che non è l'immaginazione capricciosa (la quale, dice il Manzoni, è
la cosa più facile del mondo), ma una sorta di divinazione di quella parte, grandissima,
di umana verità che la storia non registra.
La storia ha dunque bisogno della poesia, come la poesia della storia: e tutte e
due costituiscono la registrazione e la verifica e la evocazione del vero, cioè di quel che
gli uomini hanno fatto e patito, del loro eterno dramma di grandezza e di miseria.
Queste idee si trovano esposte splendidamente nella Lettre, e sono a fondamento
della composizione delle tragedie e del romanzo. Si può ora intendere perché il Manzoni
nella sua maturità abbia scritto solo opere di indole storica, tragedie storiche ed un
romanzo storico, e perché egli ritenesse che la verità storica contenesse la maggior
quantità di poesia possibile, e perché infine deplorasse di avere immaginata la fine di
Adelchi, in maniera diversa da quel che la storia ci tramanda.
Successivamente il Manzoni, nel discorso Del romanzo storico si allontanò dalla
poetica della Lettre ed affermò che storia e poesia non possono convivere in uno stesso
componimento, perché mirano a due scopi diversi: la storia al vero di fatto e la poesia
al verosimile. La storia deve e può conseguire i suoi fini senza l'integrazione della
invenzione poetica, come quest'ultima può a sua volta attuarsi senza mescolare al
verosimile il vero della storia: sicché condannò come ibridi tutti i componimenti misti di
storia e di invenzione a cominciare dalle sue tragedie e dal suo romanzo. Era certo un
progresso da un punto di vista teorico (perché di fatto la storia e la poesia perseguono
due verità diverse: la prima la verità del fatto, la seconda la verità e realtà della
creazione fantastica), ma rappresentava la fine della grande poetica del vero che aveva
sorretto e diretto le maggiori creazioni del Manzoni.
Importante è che la poetica del vero, così come è esposta nella Lettre pone ne-
cessariamente l'esigenza di una lingua antiaccademica, viva e popolare. Se la poesia è
narrazione ed evocazione storica, di tutta la storia, specialmente degli umili, e se serve
ad illuminare il cuore degli uomini e ad aiutarli a scoprire il loro destino, essa neces-
sariamente si rivolge a tutti, e nel presente, e non soltanto agli iniziati ed ai letterati, e
perciò deve valersi di forme vive e comunicanti.
Infine sul concetto di invenzione il Manzoni ritornò in uno scritto tardivo, composto
sotto l'influenza del Rosmini, il dialogo Dell'invenzione (1850) in esso egli non considera
l'invenzione come la facoltà della nostra fantasia che foggia con perfetta autonomia la
realtà che essa stessa crea, ma invece come facoltà che rinviene e realizza le idee
eterne che sono riflesse in noi per illuminazione di Dio, nel quale solo esse esistono ab
aeterno. Ancora una volta l'inventare è un « ritrovare », non un fingere
immaginosamente: ma un ritrovare in Dio, non nel potere evocatore dell'anima. Dal
gusto storico di tipo romantico il Manzoni passava a ricondurre l'invenzione poetica al
legame che è tra l'uomo e Dio. Era salva la sua coerenza religiosa ed era data una
definizione meno tradizionale del concetto di invenzione poetica o verosimile, ma quella
coerenza nasceva da pura luce di pensiero, e non dal vivo dell'esperienza di poesia, da
cui era derivata la grande poetica della Lettre.

La poesia di Alessandro Manzoni:


a) Poesia e religiosità.
La poesia manzoniana è, in armonia col principio del vero enunciato nella Lettre a M.
Chauvet, la rappresentazione della realtà, intesa alla luce di una intuizione, che il
Manzoni riteneva essere l'essenza ultima della verità, e da cui bisogna appunto
muovere se si vuole intendere l'arte del grande lombardo. Quel che prima colpisce lo
spirito manzoniano è il dolore e il male in cui sono involti gli uomini. Dovunque è
l'affaticarsi per scansare il male degli altri e per farne agli altri, dovunque è una
contraddizione assurda per cui noi tutti avvertiamo insieme l'orrore del male e la sua
suggestione incoercibile; tutti sentiamo come sarebbe semplice e sublime amarsi e
sorreggersi nel transito faticoso del vivere e tutti ci implichiamo mutuamente in
difficoltà e dolori: il male ed il dolore si propongono subito nel Manzoni oltre che come
una deformità αλλοίωση morale come un assurdo logico: procurare di intendere e
rappresentare tutto questo, ecco la ragione e la verità della poesia.
La coscienza del poeta rimane primamente risentita di fronte alla pervicace
επίμονος malvagità κακία e stoltezza degli uomini, poi si arresta come smarrita
σαστισμένος e percossa di fronte a questo assurdo che è il mondo e a questo
guazzabuglio che è il cuore umano, e sente il peso del male che è per tutto e trionfa
dovunque e si rivolge con dolente orrore a contemplare il mondo. Ma il momento del
pieno pessimismo non può stare e non riesce a predominare nell'animo del poeta,
giacché egli ha bisogno di uscire dal peso della contraddizione e di illuminare di una
qualche ragione o razionalità l'assurdo. La concezione cattolica illumina allora il cuore
del poeta e diventa la sua stessa intuizione αντίληψη della vita: quel male e quel bene
che fluttuano eterni nel cuore degli uomini sono la legge propria della loro vita. L'uomo,
creatura pura e perfetta, caduta nel peccato, vi è rimasto impigliato per sempre:
senonché αλλά la Redenzione gli offre la possibilità di salvarsi. Ma essa non è un punto
o un momento solo della storia, sibbene opera come lievito eterno nella coscienza dei
viventi, e la razionalità e la santità della vita sono proprio in questo confliggere eterno
del bene e del male, in questa fatica senza tregua. In termini lirici e secondo la sua alta
persuasione cattolica, il poeta accoglieva in sé il senso delle opposizioni e il bisogno
della loro composizione che fu del Romanticismo, e sentiva la santità della storia e
l'opera della Provvidenza proprio nel corso di questo travaglio eternamente vario nelle
sue manifestazioni, ma sempre uguale a se medesimo nel suo ritmo ideale. Il poeta
allora si leva dall'alto della sua contemplazione a cogliere, con commossa partecipazione
del comune destino, il battito segreto di questa eterna storia di dolore che è la vita degli
uomini. La poesia diventa rappresentazione ideale della storia dell'umanità, ed è perciò
che il poeta non sa coglierla, trovarla, intenderla fuori della realtà.

b) Gli « Inni sacri ».

Fuori della poesia manzoniana restano gli scritti giovanili, di cui si è fatto cenno
narrando la vita del poeta, e che pur si devono ricordare per l'urgenza dei problemi
morali ed umani che essi annunziano, ma la vera storia della poesia manzoniana si
inizia con gli Inni sacri. Gli Inni dovevano essere dodici e dovevano celebrare le
principali festività della Chiesa, ma il Manzoni ne scrisse soltanto cinque, di cui i primi
quattro — la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale e la Passione — furono composti
tra il 1812 e il 1815, e l'ultimo, la Pentecoste, tra il 1817 e il 1822. Come sono distinti
per l'epoca della composizione, così la Pentecoste si distanzia di gran lunga dai primi
quattro per la profondità della ispirazione poetica.
Gli Inni sono la celebrazione della missione sublime e del sacrificio del Redentore.
Senonché nei primi quattro questa esaltazione rimane piuttosto all'esterno, piuttosto
raccontata che cantata: spesso il poeta si lascia trascinare dalla suggestione di
parafrasare o inserire, senza profondamente ricrearle, parole e immagini dei testi sacri
nel contesto poetico; il disegno dell'inno si sente piuttosto costruito che nato
spontaneamente dal fervore del sentimento; soprattutto il divino non è umanizzato,
perché il Manzoni non riesce ancora a cantare l'opera del Redentore connessa con la
pietà per gli uomini o vivente in essi. Perciò nei primi Inni abbondano le parti
meramente descrittive o narrative, e quel che in essi appare di poetico è appunto lì
dove risuona l'eco dell'umana miseria e della divina pietà che piove sopra di essa a
consolarla, la corale invocazione a Dio, l'anelito alla fraternità ed all'uguaglianza, o
anche lì dove sono rappresentate le vicende, umili o solenni, della vita del Redentore e
del suo rapido e tragico transito terreno.
Gli sparsi motivi dei primi quattro inni, si innalzano a canto unitario nella Pentecoste,
uno dei vertici della poesia manzoniana. La Pentecoste celebra il piovere della luce dello
Spirito Santo sulla terra, e cioè indica il momento della storia cristiana in cui lo spirito di
Dio scende a sorreggere la miseria degli uomini. È l'ora più solenne della intuizione
religiosa di Alessandro Manzoni: l'inno si innalza a preghiera sublime allo Spirito, perché
operi eterno in tutte le ore della nostra vita, dalla fanciullezza alla vecchiezza e nell'ora
stessa della morte, non per darci l'oblio delle nostre sofferenze, ma per santificare la
nostra vita con la rassegnazione e le gioie dolci e miti.
Nella Pentecoste si avverte per la prima volta l'accento della grande poesia
manzoniana, che è come una voce dolente e consolata, un pregare pieno di
trepidazione αγωνία e pieno di conforto, in cui si riflette il sentimento proprio del poeta,
che è dolore innalzato a speranza e senso drammatico della vita placato nella certezza
della Provvidenza.
Il De Sanctis disse che negli Inni gli ideali della Rivoluzione — uguaglianza,
fratellanza, libertà — sono trasposti dentro la religione cattolica: e disse cosa giusta, sia
in se stessa, sia perché in tal modo si caratterizza il cattolicesimo manzoniano, moderno
e democratico, ricondotto alle sue origini e alieno da ogni formalismo o peso teologale.

c) Le tragedie.

Se i primi quattro Inni sacri rappresentano il momento in cui il poeta celebra


l'avvento del Redentore, le tragedie segnano l'altro, e pur esso ancora isolato ed
urgente verso l'unitaria risoluzione della grande poesia, in cui il poeta avverte — con
l'animo pervaso da smarrimento — l'orrore del mondo e la sua ineluttabile miseria. È il
momento in cui il pessimismo doloroso del poeta pare non avere scampo, sicché i suoi
eroi non sembrano avere altro rifugio o speranza che nella morte. Il Manzoni sente ora
che nel mondo non c'è che una sola vicenda: far male o riceverlo, stare tra gli
oppressori o gli oppressi, sicché tutto il ritmo della vita non è che un alternarsi di
sopraffazioni e di soggezioni, di astuzie, πονηριά di violenze, di tradimenti. Unica
consolazione, la fede, ed unica speranza, la morte: sicché si potrebbe veramente dire
che l'ispirazione profonda della tragedia manzoniana è l'anelito al morire.
Delle tragedie manzoniane, la prima, Il Conte di Carmagnola, iniziata il 1816, fu
pubblicata il 1820, e dedicata al Fauriel; la seconda, composta tra il 1820 e il 1822 e
pubblicata in quest'ultimo anno, fu dedicata dal poeta alla moglie. Entrambe sono
scritte in endecasillabi sciolti (tranne i cori), divise in cinque atti, e, secondo la nuova
poetica romantica, libere affatto dall'ossequio alle famose unità; le vicende rappresen-
tate nel Carmagnola si svolgono nel periodo di sette anni (1425-1432), e quelle del-
l'Adelchi in tre anni (772-774); la scena, pur nel corso di uno stesso atto, rappresenta
luoghi lontanissimi. Sia l'una che l'altra tragedia sono precedute da notizie storiche, in
cui il Manzoni richiama gli avvenimenti e i personaggi cui si riferisce l'azione, e ciò
sempre in ossequio al principio del vero. Nel Carmagnola è rappresentato un episodio
della guerra tra Milano e Venezia, nella metà del secolo XV. Il conte di Car magnola,
prima generale di Filippo Maria Visconti, passa poi al servizio dei Veneziani, vince,
contro il suo antico signore, la battaglia di Maclodio (1427), ma, per essersi mostrato
troppo benigno coi prigionieri, e perché pare che non abbia voluto trarre dalla vittoria
tutti i frutti che si potevano, cade (secondo il Manzoni, ingiustamente) in sospetto della
repubblica, è richiamato in Venezia, e, benché innocente, è condannato a morte.
Vi è nel Carmagnola, l'urto tra la politica occhiuta e sospettosa della Serenissima e
la generosità del condottiero, e cioè tra la politica crudele ed implacabile e la prode
lealtà di un nobile animo. Ma non per questo il Carmagnola è una tragedia politica,
giacché in essa la vicenda storica non è che un'occasione per la rappresentazione
dell'eterno ed ineluttabile urto tra bene e male. Ma tale urto rimane nella tragedia
troppo all'esterno, appunto come urto politico, come triste episodio della spietatezza
della ragione di stato contro la lealtà e l'innocenza, e non si innalza, come doveva, a
rappresentazione della contraddizione tra la nostra individuale brama di bontà e la forza
della storia che ci travolge e ci percuote tanto più furiosamente, quanto maggiore è la
purezza del nostro spirito. Poeticamente, il Carmagnola, è opera quasi affatto sbagliata:
quel che in esso vi ha di bello è la scena ultima, ricca di pietosa commozione, in cui il
Carmagnola si accomiata dalla moglie e dalla figlia, e il famoso soliloquio di Marco — il
vero protagonista della sola situazione tragica dell'opera — che, amico del Carmagnola
e certo della sua innocenza, è costretto dalla repubblica ad abbandonarlo.
L'Adelchi è opera incomparabilmente più grande del Carmagnola: la tragedia fu
scritta in quegli anni meravigliosi (dal 1820 in poi) in cui rifulge in tutto il suo splendore
il genio manzoniano.
Nell'Adelchi è rappresentata la fine della dominazione longobardica in Italia: Carlo
Magno intima καλώ a Desiderio di restituire le terre al Papa Adriano, e al rifiuto sde-
gnoso del re longobardo, muove in armi contro di lui. Quando il re franco dispera ormai
di vincere, il diacono Martino gli indica una via segreta per la quale egli potrà cogliere
alle spalle i longobardi. Carlo, in grazia di tale aiuto della Provvidenza, e dell'altro delle
numerose defezioni dei duchi e guerrieri longobardi, può sconfiggere i suoi nemici,
impadronirsi del loro regno, prender prigione Desiderio, e veder morire innanzi a sé il
suo più pericoloso nemico, Adelchi.
L'Adelchi non è una tragedia in cui sia epicamente rappresentata la rovina di un
popolo e non ha vera forza drammatica. L'Adelchi è maggiore opera di poesia rispetto
al Carmagnola, perché in essa l'urto tra la realtà con le sue ferree leggi, le sue
malvagità e la sua forza feroce, e l'anima di alcuni personaggi si realizza nell'elegia
dolente del nostro misero ed oscuro destino. Le due creature poetiche sono Adelchi ed
Ermengarda: il primo, prode, generoso, leale, tratto dalla necessità stessa della sua
condizione a combattere una guerra che egli sente ingiusta — perché ingiustamente si
è recata violenza al Pontefice — è travolto dalle vicende storiche di cui è gran parte,
mentre serra nel petto la sua smarrita brama di bontà e di giustizia; Ermengarda,
sorella di Adelchi, ripudiata da Carlo Magno, pur essa creatura di dolcezza, di bontà, di
amore tenacissimo e pudico κόσμιος, tratta a soffrire in mezzo alla feroce storia degli
uomini, reclina il capo sotto il peso delle sventure e muore in una rassegnazione
dolorosa, in cui si placa, ma non si spegne, lentissimamente, il suo dolore nel
sentimento del comune destino degli uomini. Entrambi non trovano conforto e scampo
che nella speranza dell'ai di là, nella morte; entrambi sono redenti dalla feroce
condizione umana per mezzo della sventura: è questa la vera tragicità (quasi una lirica
tragicità) e la poesia dell'Adelchi. A rendere più alta e solitària la tragedia dei due
fratelli sta nell'Adelchi la presenza di quelli che, come Desiderio, i duchi, Carlomagno,
vivono, immemori del loro destino, dentro la vita, e ne perseguono gli odi, i rancori, la
gloria, l'attualità cieca delle passioni.
Per intendere la particolare natura poetica delle tragedie manzoniane giovano i cori.
Sia nel Carmagnola, alla fine dell'atto II, che nell'Adelchi, alla fine del III atto, e nel IV
atto, il poeta introduce dei componimenti lirici, che chiama cori, i quali però non hanno
l'ufficio dei cori greci, quasi personaggi più o meno vicini all'azione, ma sono un
cantuccio in cui egli medesimo liricamente patisce e commenta l'azione che viene rap-
presentando. Il coro manzoniano non risponde ad una esigenza tecnica dello spettacolo
ma ad una necessità estetica: è il bisogno del poeta di svolgere e risolvere liricamente
la vicenda, e insieme di sottrarsi alla tentazione di introdurre se stesso, coi propri
sentimenti e le proprie reazioni, nella vicenda rappresentata. Così il Manzoni pensava di
realizzare sempre meglio la sua poesia come obiettiva rappresentazione ed evocazione
del vero, piuttosto che come canto lirico, puramente subiettivo ed individuale: siamo al
polo opposto della poesia e della poetica leopardiana.
Dei tre cori, il primo trae occasione dalla battaglia di Maclodio e lamenta le lotte
fratricide degli Italiani; il secondo dalle lotte tra Longobardi e Franchi, e commisera la
sorte degli Italiani, illusi che un nuovo signore possa recare la salvezza e la felicità,
mentre il vero è che col nuovo signore si unisce l'antico a soggiogare i dominati; il terzo
compiange il destino doloroso di Ermengarda. I primi due sono tra le liriche patriottiche
più grandi d'Italia, avvivate da una commossa eloquenza; l'ultimo, incomparabilmente
più alto, è il vero compimento lirico della tragedia di Ermengarda, e innalza lo strazio
dell'eroina a segno della Provvidenza, che, per mezzo della sventura, redime
απολυτρώνω e santifica la vita.

d) Le poesie ispirate agli avvenimenti contemporanei ed il « Cinque


Maggio».

Dei componimenti poetici ispirati al Manzoni dagli avvenimenti contemporanei, non


più che documenti del suo amor patrio sono una canzone composta nel 1814, in cui il
poeta auspica l'avvento di un miglior regime per l'Italia, e l'altra, di cui resta solo un
frammento, intitolata il Proclama di Rimini (1815), in cui il Manzoni esalta l'ardito
tentativo di Gioacchino Murat di dare unità alla patria. Notevoli pregi di arte ha invece
l'ode Marzo 1821, composta quando si sperava che la rivoluzione piemontese del 1821
mirasse alla liberazione della Lombardia, e pubblicata dal Manzoni solo nel 1848. Il
sentimento patrio è nell'ode innalzato nella coscienza del diritto e nella certezza della
provvidenza, e perciò il poeta può parlare senza odio agli oppressori e dedicare l'ode a
Teodoro Koerner « poeta e soldato della indipendenza germanica, morto sul campo di
Lipsia ».
Uno dei momenti più alti della poesia manzoniana è nell'ode II Cinque Maggio,
scritta nel luglio del 1821, per la morte di Napoleone Bonaparte. Il Cinque Maggio non è
un'ode celebrativa del genio napoleonico o il compianto ελεγεία per la sua morte nella
dolorosa prigionia, ma Napoleone è assunto a segno immensamente grande e perciò
estremamente significativo delle vicende umane che sarebbero assurde, ove non inter-
venisse una più alta forza ad illuminarle. La fine sconsolata, nell'isola solitària, dell'eroe
che aveva riempito delle sue gesta l'Europa, mette in moto la forza più profonda della
fantasia manzoniana. Egli, l'eroe che ha percorso come folgore il mondo dei suoi
contemporanei, è lì nel freddo della morte, creatura di tanta miseria dopo essere stato
despota di tanta grandezza: dal cuore del poeta sale l'interrogativo cui è legata la più
intima forza del suo sentimento: che cosa è mai questa storia degli uomini? è dunque
un vano alternarsi di grandezze e di miserie? Napoleone, ricreato come un eroe
manzoniano, nella solitudine deserta di San-t'Elena ripercorre la sua vita, ma l'anima si
abbatte come di schianto έκρηξη sui grandi ricordi che egli non può e non sa ordinare:
in cospetto del corso della sua vita, Napoleone avverte il mistero della vita degli uomini.
Pure, egli riesce a placare — non ad annullare — il suo strazio e ad accettarlo, quando
colloca la sua vita sul piano dell'eternità e quando avverte in sé il destino degli altri
tutti: allora egli addolcisce il suo tormento, perché non sente più se stesso solo come
creatura terrena, percossa dalla sventura, ma come creatura di Dio che, compiuta la
sua giornata, ritorna obbediente a Lui. Così egli ascende rassegnato dal buio delle
vicende umane alla luce della provvidenza, e l'ascesa dell'anima di Napoleone è l'ascesa
medesima della poesia manzoniana.

e) I Promessi Sposi.

Il culmine della poesia manzoniana è nei Promessi Sposi; qui non vi è più stacco tra
il reale e l'ideale, ma i due momenti sono unificati e intesi come termini di una
superiore visione del mondo in cui il male e il bene, il reale e l'ideale, l'essere e il voler
essere si compongono come gli elementi necessari del destino dell'uomo.
I Promessi Sposi sono un romanzo storico, che si riferisce agli anni 1628-30, du-
rante la dominazione spagnola nel milanese, ed esteriormente seguono l'indirizzo im-
presso a simile genere di composizione dall'inglese Walter Scott. «Ma nel Manzoni,
come sappiamo, la storia non è, come nei romanzi dello Scott e dei suoi imitatori, pura
curiosità o elemento fantastico, e mentre i Promessi Sposi sono una vera e grande
opera di poesia, i romanzi dello Scott non sono in generale più che piacevoli narrazioni.
Del grande romanzo esistono due stesure: la prima, che aveva il titolo di Fermo e Lucia,
composta tra il 1821 e il 1823, e pubblicata solo dopo la morte del poeta, era
profondamente diversa e di gran lunga inferiore alla stesura definitiva, la quale fu
pubblicata tra il 1825 e il 1827, in tre volumi, col titolo I Promessi Sposi. Senonché il
poeta, dopo questa prima edizione, sottopose il romanzo ad un lunghissimo lavoro di
revisione, che se fu prevalentemente linguistico, non fu esteriore, giacché valse a
perfezionare, attraverso delicati ritocchi psicologici e di lingua, l'intonazione artistica
della grande opera. La seconda e definitiva edizione dei Promessi Sposi, che è quella
che noi leggiamo, fu pubblicata tra il 1840 e il 1842: ad essa fu unita la Storia della
colonna infame, di cui parleremo più oltre.

I Promessi Sposi narrano le vicende di due umili giovani del contado di Lecco.
Promessi sposi, essi vedono, proprio quando sono prossimi alle nozze, il loro matri-
monio impedito dalla soperchieria di un signorotto, Don Rodrigo, e dalla pavidità di un
prete, don Abbondio. Le piccole vicende dei due giovani si intrecciano con quelle più
grandi della guerra dei Trent'anni e dei riflessi di essa in Italia, dall'assedio di Casale
alla discesa dei lanzichenecchi ed alla terribile peste del 1630, e si concludono infine col
matrimonio consacrato proprio da don Abbondio.
I Promessi Sposi sono, in situazioni storiche e psicologiche affatto concrete, una
rappresentazione della realtà umana contemplata col sentimento doloroso della
necessità provvidenziale delle sue contradizioni e dei suoi dolori, e perciò placata in
un'alta e fraterna commozione. Il dolore e il male non sono qualcosa di remoto o di
odioso, ma le vie per cui si realizza il nostro eroismo; Dio non è giustiziere ma
provvidenza pietosa, e la religione non è minacciosa promettitrice di castighi, ma soave
rivelatrice della verità: il Manzoni ha raggiunto quel vertice di placamento ειρηνεύσιμος
spirituale da cui solo può uscire la sua poesia, e si pone a guardare il mondo con
accoratezza dolente e fraterna. Quando egli compose il romanzo (e, anche, per effetto
stesso della sua composizione: di qui le molte e lente stesure) aveva già chiarito a se
stesso il mistero della vita e delle sue contraddizioni, era uscito dal pessimismo
disperato delle tragedie, ed era passato ad un pessimismo consolato dal senso della
provvidenza e dalla consapevolezza della necessità delle contraddizioni, perché solo
attraverso di esse si celebra la eternità della Redenzione.
La prima e incancellabile impressione che danno i Promessi Sposi è di una pacatezza
eguale, ma senza monotonia, di una commozione intensa e profonda, ma senza scoppi
e senza esteriore drammaticità. Il poeta partecipa della vita dei suoi personaggi, ma
insieme li distacca da sé, innalzandoli a segni del nostro destino; in questo distacco non
è l'oblio del mondo, ma la particolare armonia manzoniana, realizzata secondo le leggi
della sua fantasia.
Poiché il poeta tutto vede entro la luce di cotesta armonia, e cioè tutto vede in
funzione della sua intuizione religiosa della vita, egli può trapassare dalle più alte
vicende di popolo al più umile racconto familiare. Il romanzo manzoniano, infatti, si
allarga smisuratamente, e dai villici sale agli ambienti ecclesiastici, a quelli della nobiltà,
ai chiusi gabinetti dei diplomatici, alle narrazioni delle vicende politiche e storiche. In
questo senso, sia nel porre come protagonisti della vicenda due popolani, Renzo e
Lucia, sia nel ritrarre tutti i personaggi, riducendoli tutti alla uguale misura di uomini, i
Promessi Sposi attuano l'ideale democratico ed egualitario che dall'Illuminismo aveva
ereditato il Romanticismo. Le parti storiche, che occupano spesso interi capitoli del
romanzo, e che parvero un fuor d'opera persino al Goethe, grande ammiratore del Man-
zoni, sono invece anch'esse parti indispensabili come ogni altra del romanzo, non
perché giovino a chiarire i casi, ma perché sono pervase dallo stesso sentimento, dal
quale si genera la rappresentazione di tutte le altre vicende: sono il segno della
sventura e dell'aberrazione collettiva in cui respira la medesima tristezza e la medesima
pietà, che è nelle piccole vicende, ov'è la sventura del singolo o di un'ora.
Poiché il motivo di ispirazione del romanzo è nell'accettazione della vita dolorosa, ai
Promessi Sposi sono estranei tutti quegli atteggiamenti che derivano da una
contrapposizione violenta dell'ideale e del reale, e perciò né v'è in essi il sarcasmo o la
satira, né la celebrazione, a guisa di liberazione, della pura idealità, il che è quel che il
De Sanctis, con felice definizione, disse « la misura dell'ideale ». E invece, nel suo
concreto realizzarsi, l'ispirazione manzoniana si sviluppa dall'ironia al compianto
commosso e solenne.
Il personaggio immortale uscito dall'atteggiamento ironico dell'ispirazione
manzoniana è don Abbondio, accanto a cui però, per diverse e sottili — ma sempre
artisticamente fermissime — gradazioni διαβάθμιση, si allineano innumerevoli
personaggi minori e minimi, da Fra Fazio a Menico, da Perpetua a Fra Galdino. Cotesta
ironia si trasforma in schietta comicità quando il poeta ha da rappresentare non le
transazioni con noi medesimi, ma le nostre piccole debolezze e la nostra piccola vanità,
gli imbrogli e i bisticci delle conversazioni quotidiane: gli eroi di tale comicità manzo-
niana sono Don Ferrante e il sarto che riceve il Cardinale.
Invece l'ironia si fa più alta e pungente, e giunge sino al sarcasmo sia quando il
Manzoni tratta della stolta albagia dei personaggi di autorità, che non vedono nulla al di
là della loro breve e mutevole potenza terrena, sia quando rappresenta,
smascherandola o rappresentandola con pietosa o severa irrisione, la sofistica delle
passioni, e cioè la tendenza che è negli uomini a piegare, mediante falsi e spesso
incosapevoli ragionamenti, il bene e il vero ai loro piccoli e privati interessi o capricci.
Pure, spesso le nostre deficienze morali non sono così ingenue e sofistiche come
quelle ad esempio, di don Abbondio: più spesso c'è in noi il vanto dell'arbitrio e della
soperchieria, l'oblio di ogni freno morale, determinato o da influenza di casta, o da
svisamenti inveterati delle nostre idee, o dalla forza delle cose, o dalle vicende immense
della nostra comune storia: allora il sorriso si spegne sulle labbra del poeta, e la
tristezza, che si era liberata nell'ironia o nel comico, gli contrista il cuore, senza però
che esso si abbatta o reagisca nell'invettiva. Il cuore vasto del poeta accoglie nella sua
esperienza tutta la gamma delle perversità e delle sventure umane, e disegna con
sublime tristezza: è il pervertimento lento di un'anima femminile (Gertrude); è la cecità
nobilesca e crudele dei piccoli signorotti (don Rodrigo, Attilio, ecc.); è la burbanza dei
diplomatici e dei personaggi di autorità, che sono i dilettanti del destino dei popoli,
personaggi ironici e tragici insieme (il padre provinciale, il conte Zio ecc.); sono folle
sanguinarie di soldati (la discesa dei lanzichenecchi); sono cinici avvinazzati di strage e
di morte (i monatti); è tutto un popolo, è tutta una regione percorsa dalla guerra e dalla
rovina; sono — conseguenza della cecità e della sventura umana — le campagne de-
vastate; è la moria, la peste spaventosa di orrore e di morte.
E come la sventura è essa il termine o il risultato della perversità degli uomini, ma
insieme la via per cui si realizza il loro eroismo e la loro grandezza, come accade nella
peste, così in mezzo a questo mondo di sventure si levano i buoni, e la bontà è tanto
più grande e commovente quanto più è consapevole o ha il senso del suo limite.
Cotesta bontà ascende dalla bonarietà imprudente e dalla logica un po' grossa di Renzo,
a quella fraterna della vedova e della moglie del sarto, a quella pugnace e fervidissima
di fra Cristoforo, a quella di Lucia, sublime nella sua inconsapevolezza, a quella,
altissima di commozione, di Federico Borromeo, creatura grandissima proprio per il
senso della miseria terrena di cui si sente partecipe, e la cui virtù è in ciò appunto che
essa vince e soverchia sempre la forza della umana piccolezza e si risolve in una pietà
indulgente e ferma, che rifulge nel colloquio con don Abbondio, uno dei vertici più alti
del romanzo.
Noi siamo costretti qui a schematizzare e a classificare i personaggi, ma la loro vita è
nell'intreccio in cui vivono, nel loro incontrarsi e comporsi: non ci sono nei Promessi
Sposi solitàrie creature di bene o di male, ma creature che si rivelano e si realizzano, e
vivono e lottano e si redimono nel fervore della loro vita molteplice. E perciò altissima
rifulge l'arte del poeta nella rappresentazione dell'urto dei contrastanti motivi, com'è nel
colloquio di fra Cristoforo e don Rodrigo, nel colloquio del cardinale Borromeo e di don
Abbondio, o nelle tempeste che si scatenano nel cuore dell'Innominato. Tuttavia,
errerebbe chi da queste indicazioni deducesse che i Promessi Sposi sono un libro
tragico. Tragica e drammatica è la vita, secondo il Manzoni, ma, in realtà, quando egli si
pone a scrivere il suo romanzo quel senso tragico è già sorpassato, accettato, esplicato
e redento da quella concezione religiosa che sappiamo: l'assurdo del mondo è la legge
e la ragione stessa del suo essere, e perciò il tono generale del libro è un'adesione
commossa e pietosa alle vicende ed ai personaggi.
E la serenità con cui il poeta guarda alla realtà gli consente di rappresentarla con
perfetta aderenza e con disegno fermo e lucidissimo. È questo quel che si dice il
realismo manzoniano, che sta ad indicare l'attitudine del poeta ad aderire con posatezza
alle cose e a renderle nell'espressione in ogni loro parte. La straordinaria lucidità del
Manzoni — da paragonare solo a quella di Dante — si risolve stilisticamente
nell'andamento uguale e nella rappresentazione analitica, ma non mai prolissa o
monotona. La fantasia manzoniana non si muove per grandi quadri staccati o per
accenni intensi e rapidi, ma accarezza il quadro in ogni sua parte, riempie ogni vuoto e
stabilisce ogni nesso: Manzoni è veramente il poeta delle gradazioni più delicate, sicché
non c'è angolo o piega d'animo che egli non sappia illuminare. Né questo è indizio di
povertà o di dispersione o di un descrivere dall'esterno e dalla periferia, che quasi
tradisca l'impossibilità del poeta di cogliere subito il nucleo e il foco della
rappresentazione, perché il risultato è di una sobrietà εγκράτεια e di una intensità
incomparabili, e per tutto circola la musica uguale, piena e potente dell'ispirazione
manzoniana.

La storiografia manzoniana.

Al gran fervore di studi storici che pervase tutto il sec. XIX operosamente
partecipò il Manzoni. Ma se tutto lo spirito del gran lombardo — principalmente nella
sua poesia — è rivolto a ricercare il significato della storia degli uomini, cotesta esigenza
si placa veramente in lui soltanto in un motivo contemplativo e poetico, ove la storia
attinge pienezza ed è illuminata dalla visione religiosa della vita, sicché può dirsi che la
sua maggiore storiografia sia nella sua poesia. Il Manzoni non concepì la storia
vichianamente come svolgimento, e cioè come una serie organica di eventi che trovano
in se stessi le loro ragioni. In coerenza con la sua concezione cristiana nella vita (ed
anche con la sua poetica) il Manzoni intese la storia come indagine sull'origine e sul
costituirsi delle ingiustizie e delle violenze e come ricerca di responsabilità: il fine della
storia non è di assodare la verità dei fatti (che è una necessità ed un dovere preliminare
dello storico, non la ragione vera della storia), e neppure di spiegare quali siano stati gli
intrinseci motivi degli eventi, ma di studiare le passioni e il comportamento degli
uomini. Essa deve giudicare se, in questo necessario mondo di ingiustizie, gli uomini,
soprattutto i protagonisti della storia, abbiano fatto tutto il loro dovere, procurando di
mettere la maggior quantità possibile di ordine e di giustizia in un mondo di disordine e
di ingiustizia, e di fare tutto il bene possibile lì dove è sempre l'assalto del male.
Sicché nel Manzoni la considerazione degli eventi umani o si risolve in un vasto
afflato poetico e dà luogo all'epopea (o a quella forma di moderna epopea che è il
romanzo), al dramma e alla poesia, o si sviluppa in un esame, condotto con rigoroso
criterio morale, delle azioni degli uomini. Le opere storiche propriamente dette del
Manzoni si svolgono appunto sulla via di tale alto moralismo per pervenire addirittura al
legalismo: e legalismo vuol dire giudizio sugli uomini e sugli eventi non fondato soltanto
sopra un generale criterio di moralità e di giustizia, ma, più particolarmente, in
relazione ad un sistema giuridico più o meno liberamente costituito ed accettato.
Complesso fu perciò il cammino del Manzoni storico. La sua prima opera, che resta
anche la migliore, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822)
è generalmente immune αδέσμευτος da moralismo ed è piuttosto ricca di quell'alto
pathos morale, donde nasce la grande poesia manzoniana. Esso dà inizio, come
vedremo in seguito (v. pagg. 495-96), alla storiografia di tendenza neoguelfa, ed è il
risultato delle ricerche che il poeta condusse, preparandosi a scrivere l' Adel-chi,
insieme col quale fu pubblicato. Il Manzoni dimostra falsa l'opinione, prevalente al
tempo suo, la quale sosteneva che i Longobardi avevano procurato di fondersi con gli
italiani, fusione che il papato avrebbe impedita; e mostra come invece gli italiani fossero
tenuti nella condizione di sudditi, e che a difendere gli oppressi si levasse appunto il pa-
pato, vero erede del principio e della forza della romanità e custode della nazione
italiana. Importante è anche nel Discorso l'influenza degli storici francesi della
Restaurazione (e specialmente di Agostino Thierry) che facevano storia non solo dei
vincitori e degli oppressori, ma dei vinti e degli oppressi: era un altro modo di
democratizzare la storia ed introdurvi il senso della giustizia, in luogo dell'ammirazione
per la potenza coronata della vittoria.
Più rigidamente moralistici e giuridici sono invece i criteri posti a fondamento della
Storia della colonna infame e del Saggio comparativo su La rivoluzione francese del
1789 e la rivoluzione italiana del 1859. La prima, pubblicata insieme con la seconda
edizione del romanzo (1842), è una disamina del processo degli untori, rivolta ad
assodare la responsabilità dei giudici: il Manzoni li giudica severamente, perché,
tradendo per viltà o per dappocaggine la loro libera coscienza, condannarono alcuni
presunti untori, e fecero innalzare a perpetua infamia una colonna sul luogo dov'erano
le loro case che furono abbattute (onde il titolo del libro), mentre avrebbero dovuto
assolverli, pur rimanendo nell'ambito della legislazione contemporanea; nel secondo,
rimasto frammentario e pubblicato il 1889, il Manzoni si propone di dimostrare che,
mentre la rivoluzione francese fu priva di giustificazione giuridica, quella italiana fu
legittimamente fondata sulla giustizia. È appunto in quest'opera che il moralismo
manzoniano si svolge più evidentemente nel legalismo, giacché tutta la parte di essa
che ci rimane è una disamina minutissima dell'assenza di ogni fondamento e coerenza
giuridica da parte dei responsabili, nei primi anni della rivoluzione francese.
Le opere storiche del Manzoni, a parte il Discorso sui Longobardi, se importano alla
storia della storiografia moderna — nella quale tuttavia non hanno grande importanza
—, servono prevalentemente a costituire ed a compiere il disegno della sua personalità,
e specialmente a farci cogliere il passaggio dalla contemplazione poetica della realtà al
suo successivo esame più rigido e severo. E in realtà il Manzoni, dopo il discorso Del
romanzo storico non poteva che necessariamente passare alla storia e a quello specifico
tipo di storiografia.

Il Manzoni e la questione della lingua.

Il problema della lingua italiana, cui dedicò lunghe riflessioni dagli anni maturi sino
alla vecchiezza, indusse il Manzoni a meditare intorno al problema più generale della
natura del linguaggio, e favorì il suo distacco dal sensismo, segnando l'inizio della
conversione filosofica orientata verso le idee del Rosmini.
Gli sparsi scritti linguistici del Manzoni dovevano far parte di un divisato libro Della
lingua italiana, che il poeta non compì mai, e che avrebbe dovuto constare di tre parti:
la prima doveva affrontare il problema della natura del linguaggio, la seconda doveva
definire qual fosse la vera lingua italiana, e la terza infine chiarire quali effetti e quali
fini letterari e civili si dovesse proporre la lingua unitaria. Gli scritti pubblicati sono: 1°)
la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana (1846); 2°) la relazione al ministro
Broglio, che di ciò aveva incaricato una commissione presieduta dal Manzoni, Dell'unità
della lingua italiana e dei mezzi di diffonderla (1868); 3°) l' Appendice (1869) alla
relazione suddetta; 4°) la lettera a Ruggero Bonghi Intorno al libro « De vulgari eloquio
» di Dante (1868); 5°) la lettera Intorno al vocabolàrio al medesimo (1868); 6°) la
Lettera al Casanova (1871), e infine 7°) un vasto compendio di idee e dottrine che
dovevano far parte del divisato libro intorno alla lingua, pubblicato postumo il 1923 col
titolo, datogli dall'editore, di Sentir Messa, e composto probabilmente il 1835-36.
Il problema che il Manzoni si propone è il seguente: quale debba essere la lingua
unitaria di cui gli italiani debbano valersi nelle loro scritture. In Italia, infatti, nonostante
tutto il fervore settecentesco, o vigeva ancora la decrepita dottrina bembesca,
rinverdita dal purismo, o, sebbene in minor misura, il liberismo settecentesco:
occorreva dunque avvisare ai mezzi per cui la lingua proposta agli italiani né sapesse di
un vecchiume insopportabile, né fosse sospesa al puro arbitrio. A coteste necessità
intese provvedere il Manzoni, indicando come lingua unitaria d'Italia la lingua dell'uso
vivo dei ben parlanti fiorentini. La dottrina manzoniana della lingua, poco salda
teoricamente (perché pretendeva di proporre un modello unico di linguaggio), ha però
grande importanza per molti rispetti. Per prima cosa, essa, accogliendo l'esigenza più
viva del moto romantico, spazzava via, con il principio dell' uso, la vecchia e troppo
tenace tendenza accademica e rigidamente letteraria della nostra prosa; e, in secondo
luogo, soddisfaceva al bisogno altrettanto urgente, fattosi improrogabile dopo la nostra
unità politica, di indicare, per i bisogni della comune espressione e dei quotidiani scambi
culturali, il modello cui generalmente dovessero attenersi tutti gli italiani.
Si tenga presente poi che quando il Manzoni parla della lingua dei « ben parlanti »
(diremmo noi oggi, della borghesia colta) non dà solo un'indicazione sociale, ma vuole
designare una particolare lingua viva e di uso, di un uso cioè, quale quello fiorentino,
già consacrato dalla tradizione e da quella tradizione potentemente influenzato e
diretto. Così il Manzoni procurava di conciliare le ragioni della tradizione con le esigenze
della modernità, liberava definitivamente l'Italia dell'accademismo linguistico e
contribuiva potentemente a determinare l'unità della cultura e la democratizzazione
della lingua, dopo il compimento dell'unità politica: dalla lingua aulica e aristocratica si
passava a quella, in largo senso, borghese e fino ad un certo segno popolare.
La teoria manzoniana ebbe straordinaria fortuna, e, a parte le esagerazioni e le
affettazioni dei manzoniani e dei toscaneggianti (contro i quali si scaglierà Giosuè
Carducci), determinò il vero avviamento della prosa italiana moderna ancora oggi
manzoniana, benché liberata affatto da ogni rigido toscanesimo, ed illuminata da
dottrine linguistiche più approfondite e libere di quanto non fossero quelle del grande
lombardo.

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