(1766-1817), la quale, nel suo libro De l'Allemagne (1810), che ebbe larghissima
diffusione (come già la sua precedente opera, di carattere più generale, De la
litterature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales, pubblicata a
Parigi il 1800), si fece banditrice delle nuove dottrine, e già nel secondo decennio
dell'Ottocento in tutta Europa divampava la disputa tra il nuovo e il vecchio, tra i
romantici e i classici.
Anche, bisogna tener conto del significato sociale della rivoluzione romantica: essa in
realtà rappresenta il trapasso πέρασμα della letteratura dall'aristocrazia alla borghesia.
In questo senso il Romanticismo compie l'avviamento impresso alla letteratura
dall'Illuminismo: quest'ultimo infatti propugnava una letteratura fatta di « cose » e non
di « parole », rivolta ad operare sulla vita e ad illuminare le menti.L' Illuminismo si
volgeva alla nuova classe in ascesa, che veniva assumendo l'egemonia civile, perduta
oramai per sempre dall'aristocrazia, svuotata, sin dall'epoca dell'assolutismo illuminato,
di ogni funzione civile. Il Romanticismo ereditò il principio di nazionalità elaboratosi
consapevolmente nell'età napoleonica, i principi di libertà e di uguaglianza predicati
dalla Rivoluzione francese, l'idea della letteratura come educazione e colloquio aperto
col « popolo »: la letteratura del Romanticismo non è perciò la letteratura della reazione
o restaurazione, ma il fermento vivo dell'eredità rivolu-zionaria ed illuministica che si
misura col senso della storia e con più complesse aspirazioni umane. Che poi il
«popolo». di cui parlano i romantici (come appare dalla Lettera di Crisostomo del
Berchet) sia la borghesia e non il proletariato, corrisponde allo sviluppo della società
contemporanea; e pretendere di rinvenire in un momento della storia la consapevolezza
di problemi che sorgeranno solo assai più tardi, e proprio dal suo seno, è affatto
antistorico.
UGO FOSCOLO
II Romanticismo del Foscolo e la sua personalità. La poetica.
In Ugo Foscolo il motivo romantico, adombrato nel neoclassicismo, si sviluppa in
tutta la sua ricchezza ed assurge ad una religiosa concezione della vita. Pur non
essendo pervenuto al possesso della più nuova e profonda conquista del Romanticismo,
che è nel concetto della realtà e della storia come svolgimento, e pur essendosi
dichiarato avverso al Romanticismo, egli avvertì le contraddizioni in cui entrava la nuova
coscienza, in seguito alla crisi dell' Illuminismo, con una sofferenza così alta e
personale, con un sentimento così commosso della dignità e nobiltà dell'umano dolore,
con uno sforzo di liberazione così virilmente consapevole e tenace, che merita di essere
collocato al più alto livello della spiritualità europea del secolo XIX.
Se l'Alfieri è un precursore dello spirito romantico, di cui annunzia soltanto
qualche aspetto, il Foscolo vive nel pieno della coscienza romantica e in intima
rispondenza con i più alti spiriti del suo tempo, e mercé trionfàlmente nella letteratura
europea.
Il romantico travaglio foscoliano derivò dalla contraddizione in cui il poeta si
impigliò, senza riuscire a liberarsene mai, tra le premesse meccanicistiche e
naturalistiche, cui egli tenne fede per tutta la vita, e le nuove esigenze dello spirito
bisognóso di dar luce alla vita dell'uomo e significato al suo agire, dal dissidio che fu
sempre in lui tra meccanicismo e finalismo, materialismo e spiritualismo.Ma se il Foscolo
avvertì come pochissimi l'urto di quella contraddizione, non si lasciò travolgere dal tarlo
che gli rodeva l'animo, non rimase scettico o languido di fronte alla scena del mondo
che gli appariva vuota e non si incupì in una tristezza solitaria e immobile, ma tutta la
vita spese, con uno sforzo eroico, a rinvenire una giustificazione dell' esistenza, e dal
dolore trasse stimolo per riconsacrarne le nobili fatiche. Ne in questo sfòrzo egli riuscì
alfine vittorioso e pervenne ad una compiuta liberazione del suo travaglio,ma il dolore
serrò sempre nel petto, e la vita gli appàrve sempre più come una continua conquista,
nobile appunto in ciò che essa è l' attuale e faticosa vittoria dell'opera e della fede
contro il nulla e la rnorte che proiettano senza tregua la loro ombra fredda sopra la
nostra ansia di attività e di bellezza. Sopra la tristezza del mondo e dell'animo umano si
leva l'anelito alle cose grandi ed eterne, che però non annulla quella tristezza, sibbene
αν και se ne nutre, onde il vivere non si sviluppa come mera ed esteriore attività, ma
come dovere e conquista, accompagnati da un religioso sentimento della umana
missione che è insieme di dolore e di grandezza.
C'erano nel Foscolo una straordinaria energia spirituale e un vigoroso impeto
costruttivo, che si svilupparono non nell' affermazione di nuovi valori positivi ed
assoluti, il che importava una nuova concezione della realtà, ma nella creazione di quei
m i t i che egli chiamò i l l u s i o n i — l'Amore, la Bellezza, la Patria, la Poesia,
l'Eroismo, l'Immortalità — che sono gli ideali umani, non affermati come
incontrovertibili verità, ma sentiti appunto come proiezione dell'anima che pone a se
stessa dei fini, cui inerisce tanto più faticosamente, quanto più chiaramente ha la
coscienza della loro irrealtà.
La Foscoliana energia si sviluppa altresì nell'esaltazione dell'azione. in cui l'umano
travaglio non si oblitera, ma in cui l'anima si sottrae all' avvilimento di uno sterile
ripiegamento sopra se stessa, e si realizza in pienezza vitale: da ciò l'ardore di opere
che animò tutta la vita del Foscolo, la sua impetuosa partecipazione alle vicende
politiche d'Italia, il suo eccezionale coraggio di combattente, e da ciò pure quél suo
inesausto ανεξάντλητος bisogno di appassionamento — e infaticabile amatore fu il
Foscolo per tutta la vita — , giacché l'amore gli riempiva l' anima e soddisfaceva al suo
bisogno di realizzare comunque la sua personalità.
Si può intendere qual contributo il Foscolo abbia arrecato all'Italia del Risorgimento:
l'Alfieri insegnò agli italiani l'agire eroico, e la nuova patria prospettò ai suoi compatriotti
come proiezione della sua umanità ideale, il Foscolo invece pose la conquista della
patria come valore ideale, come l'attuazione di una sublime i l l u s i o n e, come
l'aspetto più nobile__dell' opera costruttiva dell'uomo, in cui si annega il suo dolore, e si
realizza la sua umana redenzione. Egli insegnò il culto religioso della patria agli italiani,
e perciò del suo pensiero si nutrì il Mazzini, suo vero figlio ideale, che immise il
foscoliano senso religioso della patria e del sacrifizio nel programma rivoluzionario
italiano.
Ma oltre questa sua funzione civile e nazionale, l' insegnamento più alto e attuale
che a noi deriva dal Foscolo è nel sentimento della vita come conquista e creazione di
valori ideali: da questo sentimento della vita derivano nel Foscolo, al disopra delle
umane debolezze della sua vita pratica — debolezze che rendono più completa e ricca
la figura del poeta e lo avvicinano alla nostra anima — il rispetto altissimo per l'ideale e
l'unità perfetta tra il pensiero e l'agire, il credere e l'operare. C'era in lui un mondo di
cose alte e grandi — la patria, la sua missione di poeta e di scrìttóré, l'amicizia, la
santità degli affetti domestici, il rispetto per l'umana personalità, specie quella dei
giovani — cui egli serbò per tutta la vita una fede immacolata, e che servì con uno
spregio di ogni pratica utilità, tanto più grande, quanto più imperiose furono le
necessità della sua vita di uomo, spesso disordinata e inquieta, e sempre priva di ogni
pratico accorgimento.
Se una tale concezione della realtà e dell'uomo (che s'andò sempre più
Incupendo di note pessimistìche, con lo svolgersi della vita del poeta) promuove nella
vita morale la religione dell'azione come dovere, redenzione e liberazione, genera — sul
piano ideale ed artistico — la poetica propria del Foscolo.
In un mondo in cui non c'è verità e non c'è armonia, in un mondo che è
negazione delle nostre idealità e la cui storia sembra non aver senso e correre solo
verso un meccanico ed eterno dissolversi e morire, unica plaga di armonia liberatrice è
la poesia.
La poesia non è evasione od oblio, e se canta le illusioni non è essa stessa
illusione, ma realtà e creazione effettuale: è la sola plaga dove le nostre idealità si
realizzano _come canto, dove si supera la morte perpetua delle cose, dove i valori
diventano fermi ed eterni, dove l'anima si libera dalle sue contraddizioni; dove infine le
illusioni diventano realtà, l'unica realtà possibile all'uomo, e cioè la realtà poetica,nella
quale convergono canto e sapienza, filosofia scienza e bellezza.
La poesia, così intesa, è infatti il vertice della nostra vita spirituale, la quale
necessariamente — secondo il Foscolo — non si può ordinare e illuminare in un sistema
di pensiero e di filosofia, e perciò non ha altro linguaggio e altra costruzione che la
poesia. La quale assume una sua missione eroica, diventa liberazione e consolazione,
messaggio ed illumi-nazione, sapienza e virtù. Perciò ha in sé sempre qualcosa di
solenne e di religioso e quasi sovrumano, ed aspira ad un linguaggio alto, eloquente,
ricco di modulazioni sostenute ed originali. Di qui l'altezza del linguaggio poetico del
Foscolo, il suo gusto neoclassico, la sua ricca inventività stilistica, e anche la
conclusione del suo itinerario di poesia, che è il canto stesso della missione delle Grazie:
la poesia, giunta al termine della consapevolezza del suo ufficio, canta se stessa, e
celebra la Bellezza, come creazione ultima e totale umanità. E perciò infine nel Foscolo
la poesia è sempre fantasia (e cioè energia musicale e pittorica) e passione (e cioè
sentimento e dolore del mondo), e la sua poetica non ha in sè nulla di decadente o di
parnassiano o, anche di freddamente neoclassico: è totale visione del mondo, amore e
canto, moralità e bellezza.
Anche, il Foscolo avvertì, in un'epoca in cui, come abbiamo visto, i dibattiti erano
assai vivi, l'importanza del problema della lingua. E, coerentemente con la sua poetica,
avversò sia i conservatori e puristi (il Cesari, il Vannetti, ecc.), dei quali avvertiva
l'antiquata intransigenza, sia i novatori e rivoluzionari del gruppo del Caffè.
Il Foscolo aveva troppo vivo il senso storico per non avvertire la necessità del
rispetto della tradizione, ma quella tradizione avvertiva non come peso grammaticale,
lessicale, retorico, sibbene come genio, spirito e_gusto della lingua. Tale gènio doveva
infatti tralucere nella lingua che però doveva essere moderna, e cioè tradizionale e
sostenuta ma insieme viva: e cioè foscolianamente densa di idee accessorie, di
chiaroscuri, di innovazioni intonate alla tradizione, e ricca di colorito poetico e, come
egli diceva, « di oscurità misteriosa e di idee affollate e appena accennate, e
d'eloquenza compressa sdegnosamente ».
BURGER, il Cacciatore feroce e la Leonora; e gli articoli del Conciliatore, giornale bi-
settimanale, pubblicato dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819 (quando dovè
interrompere le sue pubblicazioni per la tormentosa opposizione della censura
austriaca), che, come dice il suo nome, voleva conciliare antico e moderno, e che
accolse intorno a sé il fior fiore dei sostenitori del Romanticismo: SILVIO PELLICO, PIETRO
LAMBERTENGHI, nella cui casa si riunivano i collaboratori, e che finanziò, come oggi si
direbbe, generosamente l'impresa, il conte FEDERICO CONFALONIERI, vittima illustre dei
processi del 1821, GIUSEPPE PECCHIO, GIUSEPPE NICCOLINI ed altri.
Delle idee dei romantici tedeschi, i romantici italiani accolsero prima d' ogni altra
il concetto della spontaneità della poesia e quella irigine dall'impeto del
sentimento; ribadirono il concetto che forma e contenuto non si possono che
astrattaménte distinguere, giacché I due elementi nascono insieme ed ogni contenuto
comporta le sue forme specifiche accentuarono il concetto della popolarità dell'opera
d'arte, ribadendo la necessità che essa fosse rivolta al popolo e non muovesse solo dal
chiuso degli ambienti accademici, e l'altro della n a z i o n a l ità e m.o d e r n i t à delle
opere d'arte, propugnando la necessità che esse derivassero la loro materia dagli
interessi e dalle passioni concretamente sentite dalla nazione moderna; infine
particolarmente insistettero sulla funzione pedagogica .dell'arte, che doveva, secondo
loro, essere rivolta a promuovere l'innalzamento degli spiriti e a chiarire, specie nel
popolo, i problemi e gli ideali contemporanei. Evitarono e rifiutarono del romanticismo
tedesco il fantastico, l' assurdo, il vago, l'orrido, lo smarrimento cosmico, il titanismo e
l'egocentrismo.
In conseguenza di questi principi, i romantici respingevano tutte le prescrizioni
συνταγή della poetica classica (i modelli, l'imitazione, i canoni fissi, i generi letterari
immutabili, le regole delle tre unità, ecc.); respingevano, in nome della modernità e
della missione pedagogica e nazionale dell'arte, l'uso degli argomenti tratti
dall'antichità e l'abuso della mitologia, e prescrivevano invece di assumere a contenuto
dell'opera d'arte avvenimenti e personaggi dell'Italia medievale, moderna e cristiana.
Anche, i romantici nostri infatti rinvenivano, ma per ragioni diverse da quelle dei
tedeschi, le origini della nazione nel Medioevo e più propriamente nel periodo
comunale. E allora si venne formando il mito che i Comuni segnassero, dopo le
invasioni dei barbari, il risorgere della nazione italica e latina, che il principio della
nostra indipendenza dovesse scorgersi nelle lotte contro Federico Barbarossa; allora
divennero personaggi di commovente grandezza Arduino d'Ivrea e Alberto di
Giussano, allora gli studi storici si volsero prevalentemente al Medioevo, e il
Rinascimento venne in disdegno come epoca di miseria politica.
È facile intendere quel che di sostanziale ci fosse in questa poetica e quel che in
essa fosse fallace, caduco, contingente. Affermazioni preziose dell'estetica romantica
erano quelle della spontaneità dell'opera d' arte e della sua derivazione dal sentimento,
affermazioni nelle quali è implicito il concetto dell'autonomia dell'attività estetica,
che sappiamo essere la conquista fondamentale dell'estetica moderna. Non solo, ma,
nell'affermazione del Romanticismo che l'arte è una forma di conoscenza, superiore
persino all'intelletto, è implicito il principio della teoreticità dell'opera d'arte, come
fondamentale è il principio dell'unità della fórma e del contenuto, che conduceva al
rifiuto del concetto di letteratura come ornamento, ricerca formale, perfezione
governata da regole immutabili. Senonché tutti questi elementi, erano ancora involuti
in molti errori, ed espressi piuttosto in forme embrionali che sviluppati in tutta la
pienezza delle loro conseguenze, ed avevano bisogno di un travaglio di pensiero quasi
secolare per svolgersi in tutta la loro ricchezza e, comunque, in Italia non ebbero
elaborazione originale se non con il De Sanctis. Tutto il primo Romanticismo infatti
piuttosto che approfondire i principi teorici onde muoveva, si rivolse a costituirsi una
nuova p o e t i c a, che divenne strumento di battaglia contro il classicismo, e che,
appunto per non aver chiarito in tutti i suoi sviluppi, i concetti da cui nasceva, ha in sé
molte inconseguenze ed ebbe piuttosto funzione polemica e negativa che positiva.
Inconseguenza era prescrivere un ufficio educativo all'opera d'arte, quando si era
riconosciuto il suo carattere di spontaneità, ed inconseguenza imporle un particolare
contenuto (il Medioevo, i sentimenti cattolici, l'esaltazione patria, ecc.) e chiedere che
essa fosse popolare e nella forma e nei fini, quando si era affermato che l'arte è libertà
e che nasce solo dal sentimento.
Ma la verità è che quelle che a noi appaiono inconseguenze non tali apparvero ai
nostri romantici, i quali piegarono immediatamente la nuova poetica, senza troppa
severità teorica, ai fini politici e patriottici cui erano rivolti i loro spiriti. Il compito
urgente era svecchiare la nostra letteratura, liberarla dall'accademismo e immettere
spirito nuovo nella vita mentale d'Italia, e i nostri romantici s'impossessarono subito
della nuova arma, travolsero le regole e le prescrizioni classicistiche, e bandirono la
necessità di una cultura europea, negando, per eccesso polemico, ogni valore di
contenuto artistico all'antichità e alla mitologia. Particolarmente fervida e pugnace fu la
lotta contro la mitologia: e certo anche qui sarebbe facile, oggi, rilevare l'inconseguenza
di quella battaglia rispetto al concetto della libertà dell'arte.
Ma il fatto si spiega quando si consideri che per i romantici la mitologia voleva
dire un armamentario frusto di immagini e di elementi decorativi della poesia, voleva
dire — a più alto livello — accettazione della dottrina aristocratica, astratta e
esclusivistica del bello ideale, voleva dire l' esercizio della letteratura come patrimonio di
classi privilegiate e preminenza di un solo tipo di cultura, quella classica; voleva dire,
infine, rifiuto di una religione moderna ed umana, la cattolica, interpretata, sulla spinta
dell'Illuminismo, prevalentemente nella sua direzione egualitaria, per i relitti di
concezioni religiose tramontate per sempre, da servire solo come repertorio di metafore
cristallizzate.
Non solo, ma i romantici avvertirono quale nuova arma di battaglia fosse venuta
nelle loro mani, e subito piegarono i principi della nuova poetica ai loro fini patriottici:
partendo dal concetto della missione pedagogica dell'arte moderna, vollero che essa
insegnasse a venerare la patria ed a saper morire per lei; ribadendo l'altro della
popolarità della letteratura, la piegarono a strumento di educazione del popolo, e,
infine, accogliendo quelli della modernità e nazionalità, volsero la poesia a cantare,
l'Italia nuova ed il suo ardore di redenzióne. Che poi per «popolo» I romantici
intendessero, come appare dalla Lettera semiseria del Berchet, la borghesia in tutti i
suoi livelli, è cosa perfettamente coerente con l'indirizzo generale della civiltà romantica
che fu civiltà borghese e non popolare nel senso moderno, il corrispettivo del trionfo del
terzo stato.In questa guisa la polemica anticlassicistica di origine settecentesca ed I
bisogni del nascente Risorgimento conformavano originalmente la poetica del nostro
Romanticismo. La quale, a prescindere dalla sua maggiore o minore coerenza rispetto ai
principi da cui scaturiva, compì interamente il suo ufficio storico. Non solo infatti costituì
un mirabile strumento di battaglia per la liberazione d'Italia, ma fiaccò definitivamente
la vecchia letteratura; e nell'una e nell'altra forma giovò all'europeizzarsi della nostra
cultura, educando le nuove generazioni al risorto ideale di libertà, che era tanta parte
"della vita morale e spirituale d'Europa, frantumando le vecchie resistenze del
classicismo e aprendo le vie ad una nuova cultura, da cui sarebbe uscita trasformata
la vita intellettuale d' Italia. E se in taluni il precetto della popolarità produsse volgarità
di concepimento e sciatteria di forma, e se l'altro della spontaneità produsse l'eccesso
del sentimentale e del fantastico, e se l'idea della nazionalità trasformò troppe creazioni
artistiche in oratoria politica, questi sono gli eccessi in cui sempre incorre ogni
movimento che deriva da un forte impulso polemico.
Il Romanticismo svecchiò, oltre la cultura, la lingua letteraria d'Italia.
Quest'ultima, infatti, nonostante il moto di rinnovamento illuministico, era rimasta,
specie nella poesia, una lingua illustre, cioè una lingua derivata dalla tradizione e
dall'opera degli scrittori. I romantici, invece, muovendo dal concetto della popolarità e
modernità dell'opera d'arte, e approfondendo l'idea che fu già degli Illuministi, della
lingua che dica cose, e cioè si rivolga alla realtà nella sua concretezza ed in tutte le sue
forme, dalla più alta alla più bassa, propugnano più o meno consapevolmente, e di fatto
promuovono, una lingua che non derivi più solo dalla tradizione, ma si avvivi di
contributi dei dialetti, assimili le forme tecniche e quotidiane, si avvicini il più possibile
alla lingua parlata e risponda al bisogno di espressione di tutta la nazione e per tutti i
suoi strati.
Per intendere meglio tutto ciò si tenga conto dell' aspetto sociale del nostro
rinnovamento letterario: il Romanticismo estese immensamente I domini della
letteratura. Il popolo — cioè la borghesia e il proletariato — non fu soltanto l'oggetto, il
termine a cui doveva essere rivolta l'opera letteraria, ma entrava come soggetto ed
argomento di essa: sicché in quel mondo della letteratura, dove pareva potessero aver
vita solo i nobili e le classi alte e raffinate — entrano ora prevalentemente non solo il
mondo borghese, ma anche i popolani, i contadini, col loro ambiente, la loro spiritualità,
i loro bisogni. E al nuovo mondo risponde naturalmente una lingua nuova per qualità ed
estensione. Comincia così col Romanticismo quel profondo travaglio di rinnovamento
della nostra lingua che si svolge ancora, e assai vivacemente, nei nostri giorni.
Proprio negli anni tra il 1815 e il 1825 il Manzoni, aderendo alle dottrine romantiche
e svolgendole secondo le esigenze del suo ingegno, dava la sanzione e l'autorità del
genio alle nuove dottrine: la vecchia letteratura periva per sempre e l'Italia si riempiva
di novelle fantastiche e romanzi storici, di canti patriottici e religiosi, di poemi e drammi
dì nuova intonazione struttura e lingua, nei quali si rivelava, in tutta la sua efficacia
innovatrice, il moto polemico, letterario e spirituale, linguistico e civile, del
Romanticismo italiano.
Alessandro Manzoni
Il carattere romantico dello spirito manzoniano.
Lo spirito del Manzoni, anche più palesemente di quello del Foscolo e del Leopardi,
rivela la sua schietta tempra romantica. Il romanticismo manzoniano non deriva tanto
dal contributo che il grande lombardo abbia arrecato alle dispute classico-romantiche,
quanto dalla partecipazione viva e potente ai problemi speculativi e alle idealità morali e
religiose, su cui si fonda la nuova civiltà del Romanticismo.
Se infatti nel Manzoni, particolarmente in certe tendenze del suo ingegno, spesso
troppo analitico e talvolta persino astratto, è possibile riconoscere tracce della sua
primitiva educazione settecentesca e illuministica, nel rifiuto poi che egli oppone ad ogni
facile ottimismo ed al predominio dell'astratta ragione di fronte al sentimento ed al
buonsenso, nel senso che ebbe vivissimo della complessità e ricchezza della vita e delle
sue contraddizioni, in quello, altrettanto vivo, della natura autonoma e singolare di ogni
individuo, nel forte sentimento della tradizione, nell'amore e nella pietà per tutti gli
uomini e le loro sofferenze, egli si rivela a chiarissime note creatura della nuova
spiritualità ottocentesca e romantica. Soprattutto egli ebbe vivissima l'esigenza di acco-
gliere, patire ed intendere la vita con umiltà religiosa — e perciò, come l'ottimismo, così
rifiutò l'orgoglioso umanismo settecentesco —, e l'altra, cui fu rivolto tutto lo sforzo
della sua mente e tutta la sua opera, di intendere ed esplicare la storia degli uomini, di
rinvenirne le norme di svolgimento ed i fini, e perciò egli rifiutò ogni idea meccanicistica
della realtà, e dei residui del sensismo si andò ben presto affatto liberando.
In questa urgenza dei problemi religiosi e nel senso fortissimo che egli ebbe dei
problemi della storia è la più adulta appartenenza del Manzoni al Romanticismo. Il suo
problema non è più se esista una storia e un divenire o un significato della vita, sibbene
l'altro e successivo: quale sia la legge della storia e del divenire e quali siano i loro fini.
Sovra questa impostazione è da intendere la religiosità cattolica manzoniana, la quale
diventa ben presto il centro di irradiazione di tutta la sua opera di poeta e di pensatore
e del suo pratico agire di uomo e di patriotta; la qual religiosità non è un modo di
eludere i problemi vivi e travagliosi dello spirito nel rifugio placido della trascendenza,
ma un nuovo e particolarissimo modo di sentire la religione tradizionale, che accoglie in
sé tutta l'urgenza morale e storicistica dei problemi romantici e li placa e compone nei
modi che vedremo.
La vita.
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 da Pietro e da Giulia Beccaria,
figlia del celebre autore del libro Dei delitti e delle pene. Studiò prima nei collegi di
Merate e di Lugano dei padri, Somaschi, e poi nel Longone, in Milano, tenuto dai
Barnabiti. Uscito di collegio a quindici anni, si trovò quasi solo a Milano, affidato ad una
vecchia zia; la madre, separata legalmente da don Pietro Manzoni sin dal 1792, viveva a
Parigi insieme con Carlo Imbonati, mentre il padre, che non sembra si desse grande
cura del figlio, preferiva vivere in campagna.
Il Manzoni, che ebbe ingegno assai precoce, incominciò imitando il Monti nel suo
poemetto in quattro canti in terzine, II Trionfo della Libertà, composto dopo la pace di
Luneville (1801), in cui si esalta il trionfo della libertà sulla tirannide e sulla
superstizione religiosa.
A Milano e a Venezia, dove fu per qualche tempo, traversò un breve periodo di
traviamento, frequentò il ridotto della Scala e si dette al gioco, e a trarlo da quella china
non mancarono di efficacia gli affettuosi rimproveri del Monti che lo stimò ed amò assai
presto. Anche a Milano, in questo periodo, conobbe Vincenzo Cuoco, vero apostolo delle
dottrine vichiane, e con lui, l'altro vichiano Francesco Lomonaco, e certamente dovè
sentire l'influenza dei due esuli meridionali, influenza che non mancò di avere efficacia
sugli indirizzi più maturi del suo genio.
Agli anni tra il 1800 circa e il 1804 appartiene un gruppetto di composizioni
giovanili: alcuni sonetti, quattro sermoni di stampo oraziano e l'Adda (1803), epistola in
isciolti al Monti; pure esercitazioni di scuola i sonetti, di schietto sapore alfie-riano; idillio
ricco di grazia e di squisito senso musicale l'Adda; privi affatto di poesia i Sermoni, ma
importanti perché già rivelano la tendenza dell'ingegno manzoniano a rappresentare
non un mondo di giovanili incanti o illusioni, ma a guardare l'umanità intorno a sé e a
meditare sui problemi morali. Nel marzo del 1805 morì l' Imbonati, che il Manzoni aveva
appreso a stimare e ad amare attraverso la corrispondenza epistolare che ebbe con la
madre e con lui medesimo, e alla memoria di lui dedicò il carme In morte di Carlo
Imbonati, pubblicato nel 1806, a Parigi, dove egli aveva raggiunto la madre sin
dall'estate dell'anno precedente. Il carme segna una datafondamentale nella storia dello
svolgimento spirituale del Manzoni: non c'è ancora in esso vera poesia, ma il presagio
sicuro del futuro avviamento del poeta. L'Imbonati è rappresentato dal poeta come uno
spirito che compone in armonia umile insieme ed alta i suoi interiori motivi, e al
Manzoni, cui parla in sogno, consiglia quell'unità del sentire e del meditare, quel
possesso sereno ed intrepido della virtù, che il Manzoni adulto sentirà come il più alto
culmine dell'umana personalità e farà materia della sua poesia.
A Parigi il poeta rimase, tranne brevi interruzioni, dal 1805 al 1810: ivi conobbe e
frequentò quel gruppo di pensatori e di scienziati, che si dissero ideologi, eredi
dell'estremo razionalismo e sensismo francese, e rivolti, attraverso limpide ed amabili
esposizioni, piuttosto a problemi particolari di psicologia che ai grandi problemi dell'etica
e della gnoseologia, che essi rifiutavano come insolubili. Entrò in amicizia assai
affettuosa con lo storico e critico Claudio Fauriel , che conviveva con la vedova del
Condorcet, e frequentò il salotto della sorella di quest'ultima, moglie dell'ideologo
Giangiorgio Cabanis. È assai difficile determinare quale precisa influenza abbia avuto il
soggiorno parigino sul Manzoni: senza dubbio non segnò una rivoluzione nello spirito
del poeta, che si rivela dotato di una salda ακλόνητος autonomia già dalla prima
giovinezza, ma certo contribuì a sviluppare in lui alcune attitudini intellettuali ed alcuni
abiti mentali, che furono suoi propri per tutta la via, quali la chiarezza e la limpidità del
ragionamento e l'attitudine alla precisa analisi psicologica. Certo quel soggiorno
determinò in lui convinzioni in materia di critica e di letteratura, quali l'idea della
necessità di una lingua unitaria e viva, e l'altra di una letteratura spontanea,
antiaccademica e popolare, che egli derivò principalmente dalle feconde conversazioni
col Fauriel, e che saranno poi fondamento della sua salda adesione ai principi letterari
ed estetici del Romanticismo. In quanto alla religione, certo il deismo degli ideologi
dovè primamente acquetare le esigenze religiose non ancora ben mature nello spirito
del poeta, e dovè alimentare lo spregio per le superstizioni e il formalismo religioso che
egli aveva concepito negli anni di collegio e rinsaldato nel clima rivoluzionario milanese.
Ma se l'ideologia valse provvisoriamente a soddisfare le esigenze intellettuali del
Manzoni, non poteva certo placare il bisogno, in lui palese sin dalla giovinezza, di
indagare più profondamente il mistero e le ragioni della vita. Così potè avvenire che alla
fine di quel medesimo soggiorno parigino si realizzasse l'atto più importante della vita
del Manzoni: la sua così detta conversione religiosa. Il 1808 egli aveva sposato
Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, di religione calvinista; ma la moglie,
spirito delicato, profondo e ricco di fervore religioso, sotto l'influenza del prete genovese
Eustachio Degola, si convertì al cattolicesimo e ben presto, nel 1810, anche il Manzoni
fece pubblica adesione alla religione tradizionale, e in quell'anno il matrimonio, che era
stato celebrato con rito calvinista, fu ricelebrato con rito cattolico. Non fu la conversione
religiosa del Manzoni un atto improvviso, frutto di improvvisa illuminazione del suo
spirito, ma il risultato di una meditazione lenta, di studi, di letture e di conversazioni col
Degola: giacché la risoluzione del problema religioso, comportava in lui una intera
visione della realtà e della vita, e la risoluzione di tutti gli altri problemi di carattere
morale ed intellettuale in cui si imbatterà il suo complesso spirito. E come la
conversione non fu un fatto improvviso, così si andrà svolgendo e perfezionando per
lunghi anni dopo quel famoso 1810.
Dopo la conquista della luce religiosa si iniziò il grande periodo della poesia
manzoniana. Il 1809 egli mandava al Fauriel il poema in isciolti l’ Urania, ultimo suo
scritto anteriore alla conversione: il poemetto di schietta tempra neo-classica, ricco del
solito armamentario mitologico, ma anche del pregio di elegante fattura e di vivi accenti
di poesia, celebra, alla guisa della Musogonia del Monti e delle Grazie del Foscolo,
l'ufficio di incivilimento delle muse, e cioè delle arti e della Bellezza: ma il poeta già
dichiarava all'amico che non avrebbe scritto più versi di tal genere. E infatti da allora
abbandonò la maniera che possiamo dire neoclassica e montiana.
Il 1810 il Manzoni tornò definitivamente a Milano, dove rimase tutto il resto della
sua lunghissima vita, tranne brevi e tutt'altro che frequenti interruzioni. Trascorse
sempre a Milano, il quindicennio 1810-1825 tranne una permanenza con la famiglia di
dieci mesi dal 1819 al 1820 a Parigi (dove il Manzoni si recò con la speranza di trovar
sollievo alle sue sofferenze nervose, che lo tormentarono assai in questi anni), vivendo,
più spesso che in città, in campagna, nella sua villa di Brusuglio. Segue il periodo della
grande produzione poetica: il 1815 il Manzoni pubblica i primi quattro Inni sacri, il 1820
la prima delle sue tragedie, II Conte di Carmagnola, il 1821 il Cinque Maggio, il 1822 la
seconda tragedia, Adelchi, e il più grande degli innni sacri, la Pentecoste; e il 1825 inizia
la stampa dei Promessi Sposi che si protrasse fino al 1827. Intanto, il 1819, il Manzoni
pubblicava le Osservazioni sulla morale cattolica, libro di garbatissima polemica contro
lo storico ginevrino Sismondo de' Sismondi, il quale nella sua Storia delle repubbliche
italiane (1818) aveva indicata come causa precipua della decadenza spirituale degli
italiani, dopo la caduta delle repubbliche (cioè dei comuni), l'influenza che sul loro
carattere aveva avuta la Chiesa con le sue imposizioni ed inibizioni. Il Manzoni, che a
comporre l'opera fu invitato e frequentemente stimolato da don Luigi Tosi, un pio sacer-
dote che presso di lui continuava le dotte conversazioni iniziate dal Degola, compose
solo la prima parte della sua opera; la seconda non compì mai, e quando nel 1855 si
indusse a ripubblicare l'opera della giovinezza, non aggiunse che una larga appendice al
cap. III, che costituisce quasi un trattato a sé, rivolto a confutare la dottrina dell'inglese
Geremia Bentham, che fondava la morale sulla utilità. Quando il Si-smondi lesse l'opera
del Manzoni, dichiarò che, a suo parere, il poeta e lui combattevano come due bravi
spadaccini nel buio e senza vedersi. E non aveva torto: egli infatti parlava dell'influenza
della Chiesa, come istituzione storica, sugli italiani, e invece il Manzoni difendeva la
morale cattolica, cioè i principi essenziali della dottrina morale del cristianesimo, che la
Chiesa, come istituzione divina, detiene ed interpreta. Le Osservazioni non hanno
grande importanza nella storia dell'apologetica cristiana, né sono un'opera religiosa
calda ed appassionata, ma rivelano un loro rigore logico fermo e composto ed una
fervida e profonda adesione alle verità ed ai principi evangelici: esse valsero
fondamentalmente a dare ulteriore chiarimenti allo spirito del poeta. Esse inoltre
configurano il carattere del cattolicesimo manzoniano, che rifiuta la casistica e ogni altra
autorità, che non sia quella del Vangelo, e si conforma secondo il nuovo cattolicesimo
liberale, che conciliava i principi religiosi con le dottrine della Rivoluzione e i diritti
dell'uomo.
Il 1826 il Manzoni strinse amicizia con il filosofo roveretano Antonio Rosmini, il
pensiero del quale già aveva dovuto attrarlo da qualche anno, e l'amicizia durò sempre
più intima ed affettuosa sino alla morte del filosofo. Sotto l'influenza del Rosmini il
Manzoni compi quella che fu chiamata la sua seconda conversione, quella cioè
filosofica, per cui molte idee derivanti dal sensismo, che erano sin allora convissute
tranquillamente con la sua nuova coscienza religiosa, furono definitivamente rifiutate,
ed il Manzoni venne soddisfacendo sempre più profondamente le sue esigenze
speculative, alla luce del pensiero rosminiano, che operava una sintesi delle nuove
posizioni idealistiche, derivanti dalla grande filosofia germanica del Romanticismo, con
lo spiritualismo cattolico.
Il 1827 il Manzoni si recò a Firenze per iniziare la revisione del suo romanzo, vi
conobbe molti scrittori e frequentò il gabinetto del Vieusseux. Pochi sono, poi, i
momenti della vita del Manzoni che interessino il biografo: soprattutto importa ricordare
quale sia stato il suo atteggiamento di fronte alla rivoluzione italiana. Pa-triotta grande
e fervido, il Manzoni non prese parte con attiva operosità ai gloriosi moti del
Risorgimento: consapevole della sua inettitudine all'azione, egli accolse nel suo petto
sin dalla caduta napoleonica l'ideale dell'unità d'Italia, e vi tenne fede nei modi
consentanei alla sua natura e con una coerenza meravigliosa. Cattolico, egli intese la
necessità della sede della capitale in Roma per la compiuta unificazione d'Italia, e non
fece mistero della sua convinzione che fosse necessario e giovevole al Pontefice la fine
del potere temporale; vivendo in territorio sottoposto all'Austria non un suo gesto potè
mai essere interpretato come riconoscimento di quel dominio. Sin dal 1814 fu tra quelli
che non vollero chiedere che il Beauharnais fosse assunto alla corona d'Italia; rifiutò
tutte le onorificenze che l'Austria gli offrì in varie occasioni, il 1848 mandò i suoi figli a
combattere sulle barricate durante le cinque giornate, e, nonostante che uno di essi
fosse in mano degli austriaci, firmò l'indirizzo con cui si chiedeva a Carlo Alberto
l'intervento in Lombardia contro l'Austria; il 1855, gravemente ammalato, si rifiutò di
ricevere l'arciduca Massimiliano che si era recato alla sua casa a chiedere notizie della
sua salute; il 1861, nominato senatore partecipò alla seduta del primo parlamento
italiano, a Torino, in cui si proclamò il regno d'Italia con Roma capitale, e il 1864,
benché quasi ottantenne, volle recarsi a Torino per votare il trasferimento della capitale
a Firenze, quale primo passo verso Roma. Infine, dopo il 1870, accettò la cittadinanza
onoraria di Roma. Così egli recò il suo contributo alla formazione della patria italiana;
così, e con le sue opere, specialmente con l'ode Marzo 1821, coi cori delle tragedie e
col romanzo.
Visse sino al 1873, in una modestia che potrebbe sembrare persino eccessiva e
speciosa, se ad impedire il sospetto non stessero la grandezza morale del poeta, la sua
umiltà profonda e quel distacco sublime che egli ebbe da ogni valore transeunte della
vita, contemplatore qual fu del suo ritmo eterno; mentre la fama gli cresceva dintorno e
la sua gloria saliva immensa essendo egli ancora in vita. La sua vita, priva di grandi
avvenimenti esteriori, si svolse tutta nell'intimità della famiglia, col conforto di pochi e
fidati amici — il Fauriel, il Grossi, il Visconti, il Tommaseo, il Bonghi, il Pagani,
soprattutto il Rosmini — e di una meditazione che fu sempre schiva di confidenze
σιγουριά e di effusioni διάχυση. La fede lo aiutò a sopportare i molti dolori che
travagliarono la sua lunga vita; perdette la prima moglie, che egli amò di amore
profondo, nel 1833 e poi anche la seconda, Teresa Borri Stampa, un figlio gli dette
grandi dispiaceri, e cinque degli otto figli che gli erano nati da Enrichetta gli
premorirono. Quand'egli si spense, il 1873, l'Italia, che gli tributò εγκωμιάζω
solennissime onoranze, avvertì che scompariva una delle sue più grandi creature, che
aveva sentito come nessun altro la umana miseria e l'aveva innalzata a segno del
nostro destino e perciò redenta con sublimi voci di amore e di poesia.
Fuori della poesia manzoniana restano gli scritti giovanili, di cui si è fatto cenno
narrando la vita del poeta, e che pur si devono ricordare per l'urgenza dei problemi
morali ed umani che essi annunziano, ma la vera storia della poesia manzoniana si
inizia con gli Inni sacri. Gli Inni dovevano essere dodici e dovevano celebrare le
principali festività della Chiesa, ma il Manzoni ne scrisse soltanto cinque, di cui i primi
quattro — la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale e la Passione — furono composti
tra il 1812 e il 1815, e l'ultimo, la Pentecoste, tra il 1817 e il 1822. Come sono distinti
per l'epoca della composizione, così la Pentecoste si distanzia di gran lunga dai primi
quattro per la profondità della ispirazione poetica.
Gli Inni sono la celebrazione della missione sublime e del sacrificio del Redentore.
Senonché nei primi quattro questa esaltazione rimane piuttosto all'esterno, piuttosto
raccontata che cantata: spesso il poeta si lascia trascinare dalla suggestione di
parafrasare o inserire, senza profondamente ricrearle, parole e immagini dei testi sacri
nel contesto poetico; il disegno dell'inno si sente piuttosto costruito che nato
spontaneamente dal fervore del sentimento; soprattutto il divino non è umanizzato,
perché il Manzoni non riesce ancora a cantare l'opera del Redentore connessa con la
pietà per gli uomini o vivente in essi. Perciò nei primi Inni abbondano le parti
meramente descrittive o narrative, e quel che in essi appare di poetico è appunto lì
dove risuona l'eco dell'umana miseria e della divina pietà che piove sopra di essa a
consolarla, la corale invocazione a Dio, l'anelito alla fraternità ed all'uguaglianza, o
anche lì dove sono rappresentate le vicende, umili o solenni, della vita del Redentore e
del suo rapido e tragico transito terreno.
Gli sparsi motivi dei primi quattro inni, si innalzano a canto unitario nella Pentecoste,
uno dei vertici della poesia manzoniana. La Pentecoste celebra il piovere della luce dello
Spirito Santo sulla terra, e cioè indica il momento della storia cristiana in cui lo spirito di
Dio scende a sorreggere la miseria degli uomini. È l'ora più solenne della intuizione
religiosa di Alessandro Manzoni: l'inno si innalza a preghiera sublime allo Spirito, perché
operi eterno in tutte le ore della nostra vita, dalla fanciullezza alla vecchiezza e nell'ora
stessa della morte, non per darci l'oblio delle nostre sofferenze, ma per santificare la
nostra vita con la rassegnazione e le gioie dolci e miti.
Nella Pentecoste si avverte per la prima volta l'accento della grande poesia
manzoniana, che è come una voce dolente e consolata, un pregare pieno di
trepidazione αγωνία e pieno di conforto, in cui si riflette il sentimento proprio del poeta,
che è dolore innalzato a speranza e senso drammatico della vita placato nella certezza
della Provvidenza.
Il De Sanctis disse che negli Inni gli ideali della Rivoluzione — uguaglianza,
fratellanza, libertà — sono trasposti dentro la religione cattolica: e disse cosa giusta, sia
in se stessa, sia perché in tal modo si caratterizza il cattolicesimo manzoniano, moderno
e democratico, ricondotto alle sue origini e alieno da ogni formalismo o peso teologale.
c) Le tragedie.
e) I Promessi Sposi.
Il culmine della poesia manzoniana è nei Promessi Sposi; qui non vi è più stacco tra
il reale e l'ideale, ma i due momenti sono unificati e intesi come termini di una
superiore visione del mondo in cui il male e il bene, il reale e l'ideale, l'essere e il voler
essere si compongono come gli elementi necessari del destino dell'uomo.
I Promessi Sposi sono un romanzo storico, che si riferisce agli anni 1628-30, du-
rante la dominazione spagnola nel milanese, ed esteriormente seguono l'indirizzo im-
presso a simile genere di composizione dall'inglese Walter Scott. «Ma nel Manzoni,
come sappiamo, la storia non è, come nei romanzi dello Scott e dei suoi imitatori, pura
curiosità o elemento fantastico, e mentre i Promessi Sposi sono una vera e grande
opera di poesia, i romanzi dello Scott non sono in generale più che piacevoli narrazioni.
Del grande romanzo esistono due stesure: la prima, che aveva il titolo di Fermo e Lucia,
composta tra il 1821 e il 1823, e pubblicata solo dopo la morte del poeta, era
profondamente diversa e di gran lunga inferiore alla stesura definitiva, la quale fu
pubblicata tra il 1825 e il 1827, in tre volumi, col titolo I Promessi Sposi. Senonché il
poeta, dopo questa prima edizione, sottopose il romanzo ad un lunghissimo lavoro di
revisione, che se fu prevalentemente linguistico, non fu esteriore, giacché valse a
perfezionare, attraverso delicati ritocchi psicologici e di lingua, l'intonazione artistica
della grande opera. La seconda e definitiva edizione dei Promessi Sposi, che è quella
che noi leggiamo, fu pubblicata tra il 1840 e il 1842: ad essa fu unita la Storia della
colonna infame, di cui parleremo più oltre.
I Promessi Sposi narrano le vicende di due umili giovani del contado di Lecco.
Promessi sposi, essi vedono, proprio quando sono prossimi alle nozze, il loro matri-
monio impedito dalla soperchieria di un signorotto, Don Rodrigo, e dalla pavidità di un
prete, don Abbondio. Le piccole vicende dei due giovani si intrecciano con quelle più
grandi della guerra dei Trent'anni e dei riflessi di essa in Italia, dall'assedio di Casale
alla discesa dei lanzichenecchi ed alla terribile peste del 1630, e si concludono infine col
matrimonio consacrato proprio da don Abbondio.
I Promessi Sposi sono, in situazioni storiche e psicologiche affatto concrete, una
rappresentazione della realtà umana contemplata col sentimento doloroso della
necessità provvidenziale delle sue contradizioni e dei suoi dolori, e perciò placata in
un'alta e fraterna commozione. Il dolore e il male non sono qualcosa di remoto o di
odioso, ma le vie per cui si realizza il nostro eroismo; Dio non è giustiziere ma
provvidenza pietosa, e la religione non è minacciosa promettitrice di castighi, ma soave
rivelatrice della verità: il Manzoni ha raggiunto quel vertice di placamento ειρηνεύσιμος
spirituale da cui solo può uscire la sua poesia, e si pone a guardare il mondo con
accoratezza dolente e fraterna. Quando egli compose il romanzo (e, anche, per effetto
stesso della sua composizione: di qui le molte e lente stesure) aveva già chiarito a se
stesso il mistero della vita e delle sue contraddizioni, era uscito dal pessimismo
disperato delle tragedie, ed era passato ad un pessimismo consolato dal senso della
provvidenza e dalla consapevolezza della necessità delle contraddizioni, perché solo
attraverso di esse si celebra la eternità della Redenzione.
La prima e incancellabile impressione che danno i Promessi Sposi è di una pacatezza
eguale, ma senza monotonia, di una commozione intensa e profonda, ma senza scoppi
e senza esteriore drammaticità. Il poeta partecipa della vita dei suoi personaggi, ma
insieme li distacca da sé, innalzandoli a segni del nostro destino; in questo distacco non
è l'oblio del mondo, ma la particolare armonia manzoniana, realizzata secondo le leggi
della sua fantasia.
Poiché il poeta tutto vede entro la luce di cotesta armonia, e cioè tutto vede in
funzione della sua intuizione religiosa della vita, egli può trapassare dalle più alte
vicende di popolo al più umile racconto familiare. Il romanzo manzoniano, infatti, si
allarga smisuratamente, e dai villici sale agli ambienti ecclesiastici, a quelli della nobiltà,
ai chiusi gabinetti dei diplomatici, alle narrazioni delle vicende politiche e storiche. In
questo senso, sia nel porre come protagonisti della vicenda due popolani, Renzo e
Lucia, sia nel ritrarre tutti i personaggi, riducendoli tutti alla uguale misura di uomini, i
Promessi Sposi attuano l'ideale democratico ed egualitario che dall'Illuminismo aveva
ereditato il Romanticismo. Le parti storiche, che occupano spesso interi capitoli del
romanzo, e che parvero un fuor d'opera persino al Goethe, grande ammiratore del Man-
zoni, sono invece anch'esse parti indispensabili come ogni altra del romanzo, non
perché giovino a chiarire i casi, ma perché sono pervase dallo stesso sentimento, dal
quale si genera la rappresentazione di tutte le altre vicende: sono il segno della
sventura e dell'aberrazione collettiva in cui respira la medesima tristezza e la medesima
pietà, che è nelle piccole vicende, ov'è la sventura del singolo o di un'ora.
Poiché il motivo di ispirazione del romanzo è nell'accettazione della vita dolorosa, ai
Promessi Sposi sono estranei tutti quegli atteggiamenti che derivano da una
contrapposizione violenta dell'ideale e del reale, e perciò né v'è in essi il sarcasmo o la
satira, né la celebrazione, a guisa di liberazione, della pura idealità, il che è quel che il
De Sanctis, con felice definizione, disse « la misura dell'ideale ». E invece, nel suo
concreto realizzarsi, l'ispirazione manzoniana si sviluppa dall'ironia al compianto
commosso e solenne.
Il personaggio immortale uscito dall'atteggiamento ironico dell'ispirazione
manzoniana è don Abbondio, accanto a cui però, per diverse e sottili — ma sempre
artisticamente fermissime — gradazioni διαβάθμιση, si allineano innumerevoli
personaggi minori e minimi, da Fra Fazio a Menico, da Perpetua a Fra Galdino. Cotesta
ironia si trasforma in schietta comicità quando il poeta ha da rappresentare non le
transazioni con noi medesimi, ma le nostre piccole debolezze e la nostra piccola vanità,
gli imbrogli e i bisticci delle conversazioni quotidiane: gli eroi di tale comicità manzo-
niana sono Don Ferrante e il sarto che riceve il Cardinale.
Invece l'ironia si fa più alta e pungente, e giunge sino al sarcasmo sia quando il
Manzoni tratta della stolta albagia dei personaggi di autorità, che non vedono nulla al di
là della loro breve e mutevole potenza terrena, sia quando rappresenta,
smascherandola o rappresentandola con pietosa o severa irrisione, la sofistica delle
passioni, e cioè la tendenza che è negli uomini a piegare, mediante falsi e spesso
incosapevoli ragionamenti, il bene e il vero ai loro piccoli e privati interessi o capricci.
Pure, spesso le nostre deficienze morali non sono così ingenue e sofistiche come
quelle ad esempio, di don Abbondio: più spesso c'è in noi il vanto dell'arbitrio e della
soperchieria, l'oblio di ogni freno morale, determinato o da influenza di casta, o da
svisamenti inveterati delle nostre idee, o dalla forza delle cose, o dalle vicende immense
della nostra comune storia: allora il sorriso si spegne sulle labbra del poeta, e la
tristezza, che si era liberata nell'ironia o nel comico, gli contrista il cuore, senza però
che esso si abbatta o reagisca nell'invettiva. Il cuore vasto del poeta accoglie nella sua
esperienza tutta la gamma delle perversità e delle sventure umane, e disegna con
sublime tristezza: è il pervertimento lento di un'anima femminile (Gertrude); è la cecità
nobilesca e crudele dei piccoli signorotti (don Rodrigo, Attilio, ecc.); è la burbanza dei
diplomatici e dei personaggi di autorità, che sono i dilettanti del destino dei popoli,
personaggi ironici e tragici insieme (il padre provinciale, il conte Zio ecc.); sono folle
sanguinarie di soldati (la discesa dei lanzichenecchi); sono cinici avvinazzati di strage e
di morte (i monatti); è tutto un popolo, è tutta una regione percorsa dalla guerra e dalla
rovina; sono — conseguenza della cecità e della sventura umana — le campagne de-
vastate; è la moria, la peste spaventosa di orrore e di morte.
E come la sventura è essa il termine o il risultato della perversità degli uomini, ma
insieme la via per cui si realizza il loro eroismo e la loro grandezza, come accade nella
peste, così in mezzo a questo mondo di sventure si levano i buoni, e la bontà è tanto
più grande e commovente quanto più è consapevole o ha il senso del suo limite.
Cotesta bontà ascende dalla bonarietà imprudente e dalla logica un po' grossa di Renzo,
a quella fraterna della vedova e della moglie del sarto, a quella pugnace e fervidissima
di fra Cristoforo, a quella di Lucia, sublime nella sua inconsapevolezza, a quella,
altissima di commozione, di Federico Borromeo, creatura grandissima proprio per il
senso della miseria terrena di cui si sente partecipe, e la cui virtù è in ciò appunto che
essa vince e soverchia sempre la forza della umana piccolezza e si risolve in una pietà
indulgente e ferma, che rifulge nel colloquio con don Abbondio, uno dei vertici più alti
del romanzo.
Noi siamo costretti qui a schematizzare e a classificare i personaggi, ma la loro vita è
nell'intreccio in cui vivono, nel loro incontrarsi e comporsi: non ci sono nei Promessi
Sposi solitàrie creature di bene o di male, ma creature che si rivelano e si realizzano, e
vivono e lottano e si redimono nel fervore della loro vita molteplice. E perciò altissima
rifulge l'arte del poeta nella rappresentazione dell'urto dei contrastanti motivi, com'è nel
colloquio di fra Cristoforo e don Rodrigo, nel colloquio del cardinale Borromeo e di don
Abbondio, o nelle tempeste che si scatenano nel cuore dell'Innominato. Tuttavia,
errerebbe chi da queste indicazioni deducesse che i Promessi Sposi sono un libro
tragico. Tragica e drammatica è la vita, secondo il Manzoni, ma, in realtà, quando egli si
pone a scrivere il suo romanzo quel senso tragico è già sorpassato, accettato, esplicato
e redento da quella concezione religiosa che sappiamo: l'assurdo del mondo è la legge
e la ragione stessa del suo essere, e perciò il tono generale del libro è un'adesione
commossa e pietosa alle vicende ed ai personaggi.
E la serenità con cui il poeta guarda alla realtà gli consente di rappresentarla con
perfetta aderenza e con disegno fermo e lucidissimo. È questo quel che si dice il
realismo manzoniano, che sta ad indicare l'attitudine del poeta ad aderire con posatezza
alle cose e a renderle nell'espressione in ogni loro parte. La straordinaria lucidità del
Manzoni — da paragonare solo a quella di Dante — si risolve stilisticamente
nell'andamento uguale e nella rappresentazione analitica, ma non mai prolissa o
monotona. La fantasia manzoniana non si muove per grandi quadri staccati o per
accenni intensi e rapidi, ma accarezza il quadro in ogni sua parte, riempie ogni vuoto e
stabilisce ogni nesso: Manzoni è veramente il poeta delle gradazioni più delicate, sicché
non c'è angolo o piega d'animo che egli non sappia illuminare. Né questo è indizio di
povertà o di dispersione o di un descrivere dall'esterno e dalla periferia, che quasi
tradisca l'impossibilità del poeta di cogliere subito il nucleo e il foco della
rappresentazione, perché il risultato è di una sobrietà εγκράτεια e di una intensità
incomparabili, e per tutto circola la musica uguale, piena e potente dell'ispirazione
manzoniana.
La storiografia manzoniana.
Al gran fervore di studi storici che pervase tutto il sec. XIX operosamente
partecipò il Manzoni. Ma se tutto lo spirito del gran lombardo — principalmente nella
sua poesia — è rivolto a ricercare il significato della storia degli uomini, cotesta esigenza
si placa veramente in lui soltanto in un motivo contemplativo e poetico, ove la storia
attinge pienezza ed è illuminata dalla visione religiosa della vita, sicché può dirsi che la
sua maggiore storiografia sia nella sua poesia. Il Manzoni non concepì la storia
vichianamente come svolgimento, e cioè come una serie organica di eventi che trovano
in se stessi le loro ragioni. In coerenza con la sua concezione cristiana nella vita (ed
anche con la sua poetica) il Manzoni intese la storia come indagine sull'origine e sul
costituirsi delle ingiustizie e delle violenze e come ricerca di responsabilità: il fine della
storia non è di assodare la verità dei fatti (che è una necessità ed un dovere preliminare
dello storico, non la ragione vera della storia), e neppure di spiegare quali siano stati gli
intrinseci motivi degli eventi, ma di studiare le passioni e il comportamento degli
uomini. Essa deve giudicare se, in questo necessario mondo di ingiustizie, gli uomini,
soprattutto i protagonisti della storia, abbiano fatto tutto il loro dovere, procurando di
mettere la maggior quantità possibile di ordine e di giustizia in un mondo di disordine e
di ingiustizia, e di fare tutto il bene possibile lì dove è sempre l'assalto del male.
Sicché nel Manzoni la considerazione degli eventi umani o si risolve in un vasto
afflato poetico e dà luogo all'epopea (o a quella forma di moderna epopea che è il
romanzo), al dramma e alla poesia, o si sviluppa in un esame, condotto con rigoroso
criterio morale, delle azioni degli uomini. Le opere storiche propriamente dette del
Manzoni si svolgono appunto sulla via di tale alto moralismo per pervenire addirittura al
legalismo: e legalismo vuol dire giudizio sugli uomini e sugli eventi non fondato soltanto
sopra un generale criterio di moralità e di giustizia, ma, più particolarmente, in
relazione ad un sistema giuridico più o meno liberamente costituito ed accettato.
Complesso fu perciò il cammino del Manzoni storico. La sua prima opera, che resta
anche la migliore, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822)
è generalmente immune αδέσμευτος da moralismo ed è piuttosto ricca di quell'alto
pathos morale, donde nasce la grande poesia manzoniana. Esso dà inizio, come
vedremo in seguito (v. pagg. 495-96), alla storiografia di tendenza neoguelfa, ed è il
risultato delle ricerche che il poeta condusse, preparandosi a scrivere l' Adel-chi,
insieme col quale fu pubblicato. Il Manzoni dimostra falsa l'opinione, prevalente al
tempo suo, la quale sosteneva che i Longobardi avevano procurato di fondersi con gli
italiani, fusione che il papato avrebbe impedita; e mostra come invece gli italiani fossero
tenuti nella condizione di sudditi, e che a difendere gli oppressi si levasse appunto il pa-
pato, vero erede del principio e della forza della romanità e custode della nazione
italiana. Importante è anche nel Discorso l'influenza degli storici francesi della
Restaurazione (e specialmente di Agostino Thierry) che facevano storia non solo dei
vincitori e degli oppressori, ma dei vinti e degli oppressi: era un altro modo di
democratizzare la storia ed introdurvi il senso della giustizia, in luogo dell'ammirazione
per la potenza coronata della vittoria.
Più rigidamente moralistici e giuridici sono invece i criteri posti a fondamento della
Storia della colonna infame e del Saggio comparativo su La rivoluzione francese del
1789 e la rivoluzione italiana del 1859. La prima, pubblicata insieme con la seconda
edizione del romanzo (1842), è una disamina del processo degli untori, rivolta ad
assodare la responsabilità dei giudici: il Manzoni li giudica severamente, perché,
tradendo per viltà o per dappocaggine la loro libera coscienza, condannarono alcuni
presunti untori, e fecero innalzare a perpetua infamia una colonna sul luogo dov'erano
le loro case che furono abbattute (onde il titolo del libro), mentre avrebbero dovuto
assolverli, pur rimanendo nell'ambito della legislazione contemporanea; nel secondo,
rimasto frammentario e pubblicato il 1889, il Manzoni si propone di dimostrare che,
mentre la rivoluzione francese fu priva di giustificazione giuridica, quella italiana fu
legittimamente fondata sulla giustizia. È appunto in quest'opera che il moralismo
manzoniano si svolge più evidentemente nel legalismo, giacché tutta la parte di essa
che ci rimane è una disamina minutissima dell'assenza di ogni fondamento e coerenza
giuridica da parte dei responsabili, nei primi anni della rivoluzione francese.
Le opere storiche del Manzoni, a parte il Discorso sui Longobardi, se importano alla
storia della storiografia moderna — nella quale tuttavia non hanno grande importanza
—, servono prevalentemente a costituire ed a compiere il disegno della sua personalità,
e specialmente a farci cogliere il passaggio dalla contemplazione poetica della realtà al
suo successivo esame più rigido e severo. E in realtà il Manzoni, dopo il discorso Del
romanzo storico non poteva che necessariamente passare alla storia e a quello specifico
tipo di storiografia.
Il problema della lingua italiana, cui dedicò lunghe riflessioni dagli anni maturi sino
alla vecchiezza, indusse il Manzoni a meditare intorno al problema più generale della
natura del linguaggio, e favorì il suo distacco dal sensismo, segnando l'inizio della
conversione filosofica orientata verso le idee del Rosmini.
Gli sparsi scritti linguistici del Manzoni dovevano far parte di un divisato libro Della
lingua italiana, che il poeta non compì mai, e che avrebbe dovuto constare di tre parti:
la prima doveva affrontare il problema della natura del linguaggio, la seconda doveva
definire qual fosse la vera lingua italiana, e la terza infine chiarire quali effetti e quali
fini letterari e civili si dovesse proporre la lingua unitaria. Gli scritti pubblicati sono: 1°)
la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana (1846); 2°) la relazione al ministro
Broglio, che di ciò aveva incaricato una commissione presieduta dal Manzoni, Dell'unità
della lingua italiana e dei mezzi di diffonderla (1868); 3°) l' Appendice (1869) alla
relazione suddetta; 4°) la lettera a Ruggero Bonghi Intorno al libro « De vulgari eloquio
» di Dante (1868); 5°) la lettera Intorno al vocabolàrio al medesimo (1868); 6°) la
Lettera al Casanova (1871), e infine 7°) un vasto compendio di idee e dottrine che
dovevano far parte del divisato libro intorno alla lingua, pubblicato postumo il 1923 col
titolo, datogli dall'editore, di Sentir Messa, e composto probabilmente il 1835-36.
Il problema che il Manzoni si propone è il seguente: quale debba essere la lingua
unitaria di cui gli italiani debbano valersi nelle loro scritture. In Italia, infatti, nonostante
tutto il fervore settecentesco, o vigeva ancora la decrepita dottrina bembesca,
rinverdita dal purismo, o, sebbene in minor misura, il liberismo settecentesco:
occorreva dunque avvisare ai mezzi per cui la lingua proposta agli italiani né sapesse di
un vecchiume insopportabile, né fosse sospesa al puro arbitrio. A coteste necessità
intese provvedere il Manzoni, indicando come lingua unitaria d'Italia la lingua dell'uso
vivo dei ben parlanti fiorentini. La dottrina manzoniana della lingua, poco salda
teoricamente (perché pretendeva di proporre un modello unico di linguaggio), ha però
grande importanza per molti rispetti. Per prima cosa, essa, accogliendo l'esigenza più
viva del moto romantico, spazzava via, con il principio dell' uso, la vecchia e troppo
tenace tendenza accademica e rigidamente letteraria della nostra prosa; e, in secondo
luogo, soddisfaceva al bisogno altrettanto urgente, fattosi improrogabile dopo la nostra
unità politica, di indicare, per i bisogni della comune espressione e dei quotidiani scambi
culturali, il modello cui generalmente dovessero attenersi tutti gli italiani.
Si tenga presente poi che quando il Manzoni parla della lingua dei « ben parlanti »
(diremmo noi oggi, della borghesia colta) non dà solo un'indicazione sociale, ma vuole
designare una particolare lingua viva e di uso, di un uso cioè, quale quello fiorentino,
già consacrato dalla tradizione e da quella tradizione potentemente influenzato e
diretto. Così il Manzoni procurava di conciliare le ragioni della tradizione con le esigenze
della modernità, liberava definitivamente l'Italia dell'accademismo linguistico e
contribuiva potentemente a determinare l'unità della cultura e la democratizzazione
della lingua, dopo il compimento dell'unità politica: dalla lingua aulica e aristocratica si
passava a quella, in largo senso, borghese e fino ad un certo segno popolare.
La teoria manzoniana ebbe straordinaria fortuna, e, a parte le esagerazioni e le
affettazioni dei manzoniani e dei toscaneggianti (contro i quali si scaglierà Giosuè
Carducci), determinò il vero avviamento della prosa italiana moderna ancora oggi
manzoniana, benché liberata affatto da ogni rigido toscanesimo, ed illuminata da
dottrine linguistiche più approfondite e libere di quanto non fossero quelle del grande
lombardo.