L'alto livello di conflittualità interna che caratterizza i Comuni italiani già a partire dalla fine del Duecento
determina la comparsa e il consolidamento di forme di potere monarchico che si concentrano nelle mani di
alcune famiglie potenti. Presso le corti di queste Signorie o Principati si verifica una splendida fioritura
letteraria e artistica perché per i membri dell'aristocrazia diventa segno di distinzione e prestigio la
possibilità di offrire aiuto e protezione ai più grandi poeti e artisti (fenomeno del mecenatismo). Alcune
Signorie riescono a imporre il loro dominio sul territorio circostante e si vengono a creare dei veri e propri
Stati regionali. I più vasti e potenti sono i ducati di Milano, Ferrara e Urbino, la Repubblica di Venezia e
quella di Firenze. Le famiglie dell'alta borghesia mercantile convertono i loro interessi nell'acquisto di
proprietà terriere e danno luogo a un processo di rifeudalizzazione dei rapporti sociali.
La corte è il luogo privilegiato in cui si produce e si consuma la cultura. Se da un lato l'ambiente cortigiano
ha reso possibile una stagione artistica impareggiabile, dall'altro però ha determinato un cambiamento
notevole nell'atteggiamento degli intellettuali, che elaborano una concezione della cultura sempre più
aristocratica ed elitaria e si legano in modo ambiguo alla protezione dei signori. Altri ambienti che
favoriscono l'incontro e la discussione tra persone di cultura sono i cenacoli e le accademie, che si
riuniscono in modo informale presso i palazzi o le ville dei nobili mecenati; le università e le scuole
umanistiche, nelle quali si elaborano i nuovi sistemi filosofici e si applicano principi pedagogici diversi dal
passato; le botteghe degli artisti e degli stampatori. I centri culturali più importanti in cui si diffondono i
valori e i principi dell'Umanesimo sono Firenze, Padova, Venezia, Milano, Mantova, Ferrara, Roma e Napoli.
La mentalità del Quattrocento si basa essenzialmente sulla visione antropocentrica del mondo, che pone
l'uomo come centro dell'universo e protagonista assoluto della storia. La spiritualità cristiana non viene
rinnegata, ma si rivendica il valore autonomo della realtà mondana e si esaltano la libertà di scelta e la
dignità intellettuale dell'uomo. Sorge pertanto il mito della "rinascita", perché si afferma la convinzione che
le radici di questa nuova concezione dell'uomo e della realtà fossero già presenti in modo compiuto nella
civiltà classica greca e latina, deformata e trascurata durante quelli che gli umanisti considerano i secoli bui
del Medioevo. Gli intellettuali si rivolgono con entusiasmo ai testi antichi per riportarli alla loro integrità
originaria e per trovare nuovi modelli da imitare, consapevoli della distanza temporale che li divide dalla
cultura classica e delle numerose differenze che contraddistinguono la loro epoca (la cosiddetta prospettiva
storica). Il termine "Umanesimo" deriva proprio dagli studia humanitatis (ossia "studi di umanità"), con cui
si faceva riferimento all'interesse per le discipline letterarie e per gli autori classici.
La prima fase dell'Umanesimo si sviluppa nella Firenze repubblicana della prima metà del Quattrocento e si
definisce "civile" in quanto è caratterizzata soprattutto dalla profonda riflessione sulla politica, sulle
istituzioni pubbliche e sul ruolo dell'uomo all'interno della società. In seguito, l'affermarsi di nuove forme di
governo signorile e l'allontanamento degli intellettuali dalla gestione delle cariche pubbliche determinano
un cambiamento radicale negli interessi culturali, che saranno perlopiù rivolti alla speculazione filosofica e
al vagheggiamento del mito della bellezza, dell'armonia e della perfezione.
I primi umanisti compongono le loro opere esclusivamente in latino, promuovendo un ritorno alla lingua
codificata dagli autori della tarda età repubblicana e dell'età augustea (I secolo a.C.-I secolo d.C.). Il volgare
rimane relegato alla comunicazione quotidiana e a un uso non letterario almeno fino alla metà del
Quattrocento, quando alcuni importanti autori propongono un modello linguistico basato sul fiorentino
trecentesco (quello di Dante, Petrarca e Boccaccio) e sul latino classico. Alla fine del secolo il volgare si è
ormai affermato come la lingua letteraria per eccellenza. La quasi totalità delle opere scritte in prosa è
composta in latino e i generi che hanno maggior diffusione in epoca umanistica sono: le epistole, i dialoghi,
i trattati (che in rari casi possono essere scritti anche in volgare), le opere storiografiche e memorialistiche.
Al contrario, la maggior parte della produzione poetica è caratterizzata da opere scritte in volgare e le
forme letterarie più usate sono la lirica, la poesia parodica e burlesca, quella mitologica ed encomiastica, il
poema cavalleresco e la poesia bucolica. Anche il teatro sceglie come lingua d'adozione il volgare e i generi
di maggior successo sono la sacra rappresentazione (destinata al popolo riunito in piazza) e la favola
pastorale (composta per il pubblico raffinato della corte).
L’umanesimo latino
Con lo sviluppo della civiltà comunale, tra Due e Trecento, si assiste a una rivalutazione dell'attività pratica
nei diversi campi, dalla politica al commercio. Nel Quattrocento, l'Umanesimo segna il definitivo
superamento, anche sul piano della riflessione teorica, della visione pessimistica della realtà terrena e
dell'uomo. L'umanista fiorentino Giannozzo Manetti (1396-1459) nella sua opera dal titolo emblematico De
dignitate et excellentia hominis riconosce "la dignità ed eccellenza dell'uomo", il cui operato terreno e la cui
fisicità (il corpo e il piacere sensibile) vengono esaltati in una prospettiva pur sempre religiosa, ma in
polemica con l'impostazione ascetica della spiritualità medievale. Considerata a lungo come il manifesto più
compiuto degli ideali dell'Umanesimo quattrocentesco, l'Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della
Mirandola (1463-94) affronta con originalità i grandi temi della speculazione filosofica umanistica. L'autore
vi proclama, in una concezione dinamica e spiritualistica, l'infinita libertà dell'uomo. Si veniva
approfondendo così una concezione dell'individuo strettamente legato alle condizioni della società e più
intimamente partecipe dei processi della storia.
Alla conoscenza del passato contribuiva anche la filologia, che poteva favorire una maggiore
consapevolezza storica, utile anche per una più attenta comprensione del presente. Clamoroso, in questo
senso, fu il contributo recato da un filologo come Lorenzo Valla, il quale dimostrò la falsità della presunta
donazione di Costantino, su cui la Chiesa aveva fondato la legittimità del suo potere politico.
L’umanesimo volgare
I CANTARI CAVALLERESCHI Nel passaggio dalla civiltà feudale a quella comunale, i valori etico-religiosi
dell'epica delle origini perdono la loro efficacia, mentre la narrazione delle avventure cavalleresche
continua a godere di grande fortuna presso il pubblico popolare e incolto. Per soddisfare le richieste di
svago e divertimento di tale pubblico nascono i cantari, componimenti narrativi in versi (per lo più in ottave
di endecasillabi) che fondono la materia avventurosa propria del ciclo carolingio con quella amorosa e
fiabesca del ciclo bretone e che ammettono l'intrusione dell'elemento comico attraverso la deformazione
buffonesca degli eroi della tradizione. Pur trattandosi di una produzione dalle forme rozze, destinata alla
recitazione nelle piazze cittadine a opera di giullari, essa sarà tenuta presente dai successivi poeti colti Luigi
Pulci, Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto che nel Quattrocento e nel Cinquecento daranno una veste
letteraria alle medesime vicende, indirizzandole però al pubblico delle corti signorili.
Amico di Lorenzo il Magnifico, il fiorentino Pulci (1432-84) fu legato per un lungo periodo alla corte
medicea, sulla quale esercitò una notevole influenza culturale; nel 1476 fu tuttavia costretto ad
allontanarsene per il prevalere dei più austeri orientamenti promossi dall'Accademia platonica. La sua
opera principale è il Morgante, un poema cavalleresco assai vicino ai modi dei cantari, di cui riprende la
forma metrica, la materia carolingia (tratta dal cantare Orlando) e soprattutto l'elemento comico,
amplificato dal contatto con la tradizione comico- parodica fiorentina. Da tale retroterra culturale scaturisce
un'opera irriverente, che svuota dall'interno contenuti dell'epica attraverso il rovesciamento parodico dei
suoi valori più autentici, la deformazione caricaturale degli eroi tradizionali e l'introduzione di nuovi
personaggi abnormi e grotteschi, come il gigante Morgante. Destinata alla recitazione nell'ambito della
corte medicea ancor prima che alla lettura, l'opera manca di un disegno organico e unitario e si caratterizza
per la grande varietà dei toni, ora seri ed eroici, ora buffoneschi, ora patetici, ora fiabeschi. Il gusto della
varietà e la ricerca dell'eccesso si riflettono anche sulla lingua, che ha come base il toscano parlato, ricco di
espressioni vivacissime e incisive, molte delle quali tratte dal lessico furfantesco, ma che include anche
latinismi, vocaboli squisitamente letterari, termini scientifico- filosofici.
L'attività letteraria di Boiardo (1441-94) gravitò intorno all'ambiente della corte estense. Dopo aver
composto opere encomiastiche in latino e in volgare, una commedia e un Canzoniere (o Amorum libri) alla
maniera petrarchesca, Boiardo si dedicò alla composizione di un poema cavalleresco in ottave rimasto
incompiuto, l'Orlando innamorato, per suggestione dell'ambiente ferrarese, dove era ancora vivo il culto
dell'epica e delle virtù in essa celebrate; la narrazione, che s'interrompe al III libro, sarà poi ripresa
dall'Orlando furioso di Ariosto. Sulla scia dei cantari, la materia carolingia è fusa con quella bretone, in
quanto l'eroe principale dell'epopea di Carlo Magno, Orlando, è rappresentato come vittima dell'amore,
uno degli ingredienti tipici dei romanzi arturiani insieme con l'elemento fiabesco, anch'esso ampiamente
sviluppato nel poema. La nostalgia per il mondo della cavalleria e della cortesia pervade l'opera, che mira a
recuperare i valori feudali adattandoli al nuovo contesto umanistico-rinascimentale: la virtù è ora intesa
come capacità di affermare se stessi dominando la Fortuna; l'etica cavalleresca si apre all'esaltazione della
cultura e al rispetto della personalità altrui e delle civiltà diverse dalla propria; l'amore s'intride di vitalismo
edonistico. Una vitalità esuberante pervade anche la struttura del poema, che presenta un proliferare di
avventure, incontri e situazioni narrative che si susseguono all'infinito. La lingua corrisponde grosso modo
al toscano letterario, mescolato tuttavia con elementi linguistici tipicamente "padani" e libero dalle
codificazioni classicistiche che prenderanno il sopravvento nei primi decenni del Cinquecento.