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Da qui non se ne va nessuno

di Alba Parietti

www.librimondadori.it
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
ISBN 9788852022630

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: MANUELE SCALIA |


ELABORAZIONE DA FOTO © HILARY WALKER/MILLENNIUM IMAGES/SIME «L’AUTORE» || FOTO ©
GIANMARCO CHIEREGATO/PHOTOMOVIE
Il libro

“Milano dista da Torino cinquant’anni.” Alba Parietti li ripercorre tutti con la mente e con il
cuore mentre vola in autostrada per andare a soccorrere sua madre, una donna meravigliosa
ma afflitta per molti anni da gravi sofferenze psicologiche. A ogni chilometro un ricordo,
poi un altro e un altro ancora.
Insieme s’impongono con prepotenza nei dettagli, nei colori, negli odori, fino a ricreare
volti, fatti, emozioni di una vita intera.
Con la morte della madre, il bisogno di ricostruire la storia della sua famiglia diventa
incontenibile per Alba, quasi terapeutico. Un desiderio reso possibile dal ritrovamento, del
tutto inaspettato, dei diari della mamma e di suo fratello Aldo, rinchiuso per tutta la vita al
manicomio di Collegno. Da quelle pagine spuntano epoche, luoghi e figure famigliari che
somigliano ai personaggi di un romanzo storico di fine Ottocento. Da una parte la famiglia
materna, colta e raffinata, in stretto rapporto con i Savoia, il cui aplomb è allegramente
minacciato dallo zio Angelo, chiamato da tutti, a causa della sua passione per il
travestitismo e la sua mitomania, il “Marchese Faraone”.
Dall’altra la famiglia paterna, contadina, comunista, antifascista. Il nonno Antonio che non si
toglie il cappello davanti a Mussolini e impedisce al futuro padre di Alba di indossare la
divisa da Balilla. Un imprinting profondo, che lo porterà diciassettenne a diventare il
partigiano Naviga e, in seguito, a sfuggire all’eccidio di Perletto.
Alba incrocia la sua storia personale, dalla carriera agli amori – fra cui quello con uno
degli imputati, poi assolto, della strage di Brescia –, con quella dei suoi avi e si sorprende a
scrivere questo libro di ricordi in compagnia degli amati fantasmi della madre, del padre e
dello zio.
Da qui non se ne va nessuno è l’affascinante autobiografia famigliare di una donna di grande
successo che sperimenta sulla propria pelle una consolante verità: gli affetti veri continuano
a essere presenti nella vita quotidiana di ognuno di noi.
L’autore

Alba Parietti (Torino, 2 luglio 1961) è conduttrice televisiva, opinionista e attrice italiana.
Ha pubblicato Uomini (Mondadori, 1996).
DA QUI
NON SE NE VA NESSUNO
A Grazia, Francesco e Aldo per avermi parlato da un mondo da cui solo in apparenza non
si può tornare
1

Verso l’Alba
La vita è e rimane un mistero e una sorpresa:
magari brutta, ma sempre una sorpresa.

ALDO

Milano dista da Torino cinquant’anni. Una mattina uguale a mille altre telefono a mia madre
per sapere come sta. «Malissimo» risponde «portami all’ospedale.» Non è tanto il
“malissimo” ad allarmarmi quanto la richiesta di essere portata in una struttura in cui non
c’è mai stato verso di farla entrare. In cinquant’anni mai una visita.
Chiamo il 118 e di nuovo lei, le chiedo di lasciare la porta aperta per favorire l’ingresso
del Pronto Intervento nel caso in cui non riuscisse più a muoversi. Mi dice di sì, e in un
attimo capisco che la situazione sta davvero precipitando. Mia madre non ha mai dato a
nessuno le chiavi di casa, nemmeno a me, nemmeno da adulta.
Più dà segnali di fidarsi di chiunque accorra in aiuto, più il suo stato mi sembra grave.
Prendo mio figlio Francesco, la macchina, il coraggio, e imbocchiamo l’autostrada per
Genova, poi verso Alessandria, Asti. Ogni chilometro un ricordo. Dai luoghi in cui si è
consolidata la mia carriera, a ritroso, verso quelli che mi hanno formata. Due ore lunghe una
vita.
È come se vedessi tutto chiaro per la prima volta, un mosaico disteso con tutti i tasselli che
mi appartengono, che si incastrano all’improvviso, formano volti, paesaggi, emozioni, e
tutto va al posto giusto, anche quello che un tempo mi era sembrato sbagliato. Ricordi che
pensavo di non avere riaffiorano con prepotenza nei dettagli, nei colori, negli odori. Un
paese ci vuole, scriveva Pavese, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol
dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che
anche quando non ci sei resta lì ad aspettarti. La sensazione è quella di essere attesa da
sempre per portare a termine qualcosa di importante. “Finalmente” paiono dirmi i dintorni.
“Finalmente sei tornata a riprendere le tue cose.” Eppure sono andata spesso a Torino. Ci
andavo come si va a fare la spesa o a comprare il giornale, pestando il tragitto a memoria,
puntando al portone di casa. Stavolta è tutto diverso. Tutto uguale e così diverso. Agli
incroci mi vengono incontro facce antiche e voci squillanti che avevo sepolto chissà in
quale angolo della memoria. D’improvviso sono una bambina, anzi non sono ancora nata.
2

Tonco e Moasca
La forza del pensiero,
se è pura, non è mai vana.

GRAZIA

Maria era bella, capelli neri ricci e occhi verdi. Una ragazzina di campagna, dai modi un
po’ selvaggi, che parlava in dialetto stretto. Antonio era il giovane più ambito del paese
accanto. Si incontrarono a una festa da ballo e fu colpo di fulmine. Maria vide Antonio e
subito disse a voce alta: “Mi lu vöj”. Lo voleva e lo ebbe. Rimase incinta a diciassette anni.
I figli all’epoca venivano al mondo come conigli, così mentre lei dava alla luce mio padre
Francesco, sua madre Pinota ancora si dava da fare e concepiva Virginia detta “Settima”: in
pratica, una zia più piccola di suo nipote.
I miei nonni vivevano a Tonco, nel Basso Monferrato. Un pugno di case in cima a un colle,
qualche centinaio di anime chine sui campi che si raccomandavano al cielo per il raccolto
attraverso la festa del “Pitu”, cioè del capro espiatorio. Si trattava di un tacchino a cui
veniva fatto un regolare processo in piazza, con tanto di giudici togati ad accusarlo, e che,
prima di essere appeso e sgozzato dai cavalieri, era fatto oggetto di satira da parte della
comunità. Nel Medioevo era un momento importante perché al popolo veniva concessa la
possibilità di identificare il “Pitu” con il padrone e di inveirgli contro, scaricando tutto
l’odio accumulato durante l’anno. Serviva a esorcizzare il male, poi si finiva con la giostra
equestre, frittelle e barbera. Erano rituali crudeli e significativi come quando, in segno di
benvenuto, gli zii di papà decapitavano una gallina davanti ai nostri occhi. Ero scioccata nel
vederla muoversi e correre per un po’ senza testa, ma dopo, siccome tutti facevano festa,
deducevo che non doveva essere una cosa così cattiva.
Non c’era molto da fare a Tonco; la domenica in piazza i giovani giocavano a palla e a
tamburello, i ragazzini come mio padre si spingevano al massimo sopra al cucuzzolo,
tormentavano il campanile pensando che gli spettasse di diritto perché era l’unica
distrazione in un paese, secondo le parole di mio padre, “privo di fontane dove schizzare
l’acqua al prossimo e persino di campanelli elettrici che tanto spasso danno ai monelli di
città non troppo provvisti di timor di Dio”.
Nonno Antonio faceva il bottaio, non aveva studiato molto eppure era un tipo arguto, con
idee chiarissime, di sinistra, quando essere di sinistra non era facile e dirlo era addirittura
pericoloso. Un antifascista per vocazione, non per istruzione. Mentre tutti si piegavano a
Mussolini lui rifiutava la tessera del PNF e andava apposta in piazza con il cappello per
non toglierselo davanti allo stendardo del fascio. Si esponeva senza paura perché sapeva di
essere nel giusto e rivendicava la libertà a ogni costo. Non l’ho mai conosciuto, eppure è
quello che ha più determinato il mio carattere. Ha forgiato mio padre e dunque me.
Mio padre lo aiutava a fare i mastelli in bottega, dove nelle serate d’inverno si radunavano
gli amici per giocare a carte, sorseggiare picheta e dissertare di tutto, anche di politica o,
come amava precisare lui, “dissertare non è il termine adatto, sarebbe più giusto dire che
ognuno sussurrava la sua opinione badando bene di non affermare nulla, parlando per
metafora e a denti stretti”. Non era un covo di cospiratori né una riunione di perseguitati
politici, solo un luogo in cui l’allegria regnava tra i presenti come il fango dei loro “ciabot”.
Nonno Antonio mandava papà a scuola senza la divisa da Balilla, infatti nelle foto di classe
lui è l’unico a indossare una camicia bianca slacciata. La scontò tutta, questa “originalità”.
Cominciò a subire le vessazioni degli altri già all’asilo, dove lo chiamavano “ël sìngher”,
lo zingaro. La sua, per il paese intero, era la famiglia degli zingari e come tali andavano
perseguitati. Era trattato male dagli insegnanti, che aderivano senza riserve alle idee del
Duce, emarginato dai compagni, preso a calci e pugni. Le direttive erano chiarissime: gli
alunni dovevano essere educati al fascismo sin dai quattro anni, nei giochi, sui libri, con le
marce e le esercitazioni paramilitari in cui imbracciavano il moschetto giocattolo, tutti a
seguire la disciplina dell’“italiano nuovo” voluto da Mussolini ma non da Antonio.
Francesco veniva allontanato come la peste, così una volta, cacciato dall’asilo perché senza
divisa, rimase nascosto tutto il giorno dietro una siepe perché si vergognava a tornare a
casa; un’altra volta aprì la porta dichiarando orgoglioso a mio nonno: “Io sono figlio della
Lupa”, e si beccò un ceffone. “Non lo dire mai più” gli intimò nonno Antonio. “Tu sei figlio
di tuo padre e tua madre.”
Francesco Parietti era un bimbo, voleva solo essere accettato, pur di essere uguale agli altri
era pronto a qualsiasi cosa. Forse se i fascisti lo avessero trattato meglio avrebbero anche
potuto circuirlo, invece, coi loro atteggiamenti ottusi, non facevano che confermare il
pensiero di suo padre. Lo punivano perché era diverso. Studiava tanto e lo bocciavano,
faceva i compiti migliori e lo ribocciavano, vinceva la borsa di studio e gliela toglievano
per darla ai compagni che dal Giornale di Classe risultavano “moralmente” più meritevoli.
Lui stesso raccontava: “Ero trattato come l’asino della classe e deriso, eppure quando i temi
furono esaminati ad Asti vinsi il diploma di benemerenza ma, all’atto della consegna, venni
vergognosamente mutilato della medaglia allegata. Seppi poi che era stata puntata
solennemente al petto della Piccola Italiana Maletto Paola, figlia dell’allora segretario
politico e veterinario e della direttrice della colonia. Colonia da cui, visto che non avevamo
pagato la quota entro il termine stabilito, venni anche espulso. Piansi e corsi a casa
doppiamente defraudato”.
Più si comportavano male, più lui capiva le ragioni di mio nonno, finché un giorno non
cercò più l’approvazione degli altri, quella che aveva sempre considerato una debolezza
divenne forza, un orgoglioso segno di distinzione.
Nonno Antonio morì quando mio padre aveva tredici anni, mia nonna Maria appena trenta.
Non sapeva se avesse diritto ad assegni familiari o all’assistenza sanitaria, sapeva solo che
il regime non avrebbe aiutato certo lei, vedova antifascista, quindi chiuse la bottega, diede
le vigne a mezzadria, vendette quel poco che possedeva per saldare i debiti contratti per le
cure mediche del marito e partì per Torino, dove lavorò come serva. Serva, sì, e non
domestica, perché sgobbava in cambio di vitto e alloggio, sbrigava servizi per sopravvivere
e mandare a scuola suo figlio. Prima che un mestiere umiliante era una condizione umiliante.
La fame era tanta, in quegli anni, e si ragionava con lo stomaco. Il lavoro minorile era parte
dell’economia familiare: così sua nipote Caterina, a soli undici anni, era stata presa dalla
maestra delle elementari e portata a lavorare come domestica a Torino; sua nipote Silvana,
che qualche volta l’aveva accompagnata a prestare servizio presso il convento del paese,
aveva visto la mensa e capito che lì il cibo non mancava; lei, che ancora oggi dimostra una
grande convinzione nella sua scelta, all’epoca si era fatta suora forse più per fame che per
vocazione.
Si spaccava la schiena, nonna Maria, senza sosta, per racimolare qualcosa da mandare a suo
figlio e permettergli di studiare. Accettò addirittura di fare la cameriera stagionale
nell’ultimo rifugio della Thuile, in Val d’Aosta al confine con la Francia, a duemila metri di
altezza, tra la neve e gente che parlava patois, sola, lontana da tutto pur di essere una brava
madre. Nel frattempo Francesco, ormai un ometto e ribattezzato Ceschino, era stato
trasferito a Moasca e affidato alle cure degli zii Giuseppe e Giovanni e della nonna Pinota,
dotata di una tempra forte come quella della figlia Maria: una volta tornò assetata dalla
vigna, si attaccò a una bottiglia che conteneva un liquido trasparente pensando fosse acqua,
invece era conegrina. Come antidoto buttò giù un litro di vino e una tazza di latte di vacca
rossa appena munta, e scampò all’avvelenamento. Erano così le donne di allora, abituate a
farcela con le proprie forze e a trovare mille rimedi per restare in vita.
L’esistenza di Maria fu interamente basata sul lavoro, non seppe farne a meno neppure
quando il figlio era grande e la famiglia ormai sistemata. Voleva mantenersi da sola, andò
operaia in una fabbrica di biscotti pur di non pesare su suo figlio, e la fame se la portò
dentro anche dopo il boom economico, quando il cibo abbondava. Negli anni Settanta,
quando nonna Maria faceva la baby-sitter ai due gemelli di una famiglia bene, mentre
eravamo nel parco rubava pezzi di prosciutto dal loro panino per infilarmeli in gola, non
importava che io non ne avessi voglia né bisogno. La fatica le aveva modellato il fisico, la
ricordo sempre con i gomiti larghi, le mani gonfie, i polpacci nervosi, vestita di grembiuli a
fiori abbottonati sul davanti; quando andava dal parrucchiere e si agghindava, si capiva che
era per un’occasione speciale perché i vestiti buoni odoravano di naftalina.
Mentre lei si ingegnava per sbarcare il lunario, mio padre entrò in collegio a Moasca e lì la
sua vita cambiò. Arrivò senza divisa, spettinato, quasi uno “sciuscià” nel rigore astigiano, e
il primo giorno di scuola, pur avendo la possibilità di scegliere fra tanti banchi, si sedette
all’ultimo, vi gettò sopra la cartella e affondò la testa fra le braccia incrociate. La suora gli
disse: “Francesco, che fai laggiù? Vieni avanti”.
Rimase di stucco. Era così abituato a essere sbattuto in fondo che piuttosto preferiva andarci
da solo.
Da allora in poi non temette più di mettersi in prima fila, in qualunque situazione. Le suore
lo accolsero bene, gli restituirono dignità e diritto allo studio e perciò, anche da vecchio,
nonostante il suo piglio anticlericale, dimostrò sempre un debole per loro. Furono le prime
a fargli scoprire la recitazione, consentendogli di allestire un piccolo teatro, nel quale fu
regista e interpretò la parte del “rivoluzionario”
Fornaretto di Venezia e lui, da allora, è come se non avesse avuto altro obiettivo che
vendicare quel personaggio vittima dell’ingiustizia.
Era bellissimo, Ceschino. Alto e magro, capelli castani e occhi azzurri come topazi, un
volto da divo del cinema. Era sempre lì che leggeva, anche dopo una dura giornata nei
campi. Aiutava gli zii a lavorare la terra, ma capiva che la cultura era un bene primario
quanto il grano. Poteva tollerare di essere ignorato, non di essere ignorante.
3

Le Langhe
Il mondo è come è, e come è resta,
è solo l’uomo che cambia.

ALDO

Le Langhe non si perdono. Puoi andare lontano, ma mai allontanarti da loro. Sono un
paesaggio interiore, i posti in cui ti ritrovi a girovagare con la mente quando il corpo sta
altrove. È una mappa della solitudine, pacifica e non inquieta. È il silenzio irreale rotto dai
campanacci delle mucche al pascolo o dai trattori, un misto di creste e valli, torrenti e
borghi medievali, cascine isolate e chiese di vedetta, noccioleti, filari geometrici e fitti
boschi.
Mentre corriamo da mia madre in ospedale, mio figlio Francesco schiaccia l’acceleratore,
il motore è al massimo, ma in realtà io vado lentissima. Il tempo interiore non coincide
affatto con quello che segna l’orologio del cruscotto. Anzi, procede al contrario: più
andiamo avanti, più io vado indietro.
Mi tornano addosso mille profumi: il rovere delle botti, la lavanda dei campi, il mosto, i
tartufi “calli della terra”, il ragù sulla stufa che pervade la cascina. Lo tenevano a cuocere
così tanto che l’odore si spargeva dappertutto, era come se la casa stessa fosse da mangiare.
Ricordo le lunghe passeggiate da piccola tra faggi e querce, munita di calzettoni di lana
grezza e pranzo al sacco che tanto odiavo per il suo odore stantio, le sorsate di acqua gelata
appena sostavamo presso una fonte.
È una terra così dura, questa, coi pendii a cui le mani dei langaroli hanno strappato ogni
metro quadro da coltivare, i terrazzamenti di pietra di Langa beige e grigia recuperata dai
torrenti nei mesi di siccità, coi paesi che sono minuscoli agglomerati e tante case sparse fin
sulle cime, dove di notte le nubi sono sotto i piedi.
Rivedo mio padre giovane com’è nelle numerose fotografie, col fucile in spalla e gli
scarponi aperti, in quello che Beppe Fenoglio chiamava “l’arcangelico regno dei
partigiani”.
Nonno Antonio era morto e stavano morendo gli uomini tutti sotto il nazifascismo, la loro
libertà, la loro dignità. Mio padre faceva il garzone dal salumiere di giorno e partecipava a
riunioni clandestine in una tipografia di notte. Mancavano la carta, l’inchiostro, i ciclostili,
si dovevano ingegnare sia per stampare i volantini sia per farli circolare. Se li beccavano
rischiavano il carcere e la fucilazione. Avevano coraggio, volontà, grande senso di
giustizia, quei ragazzi. E modelli a cui ispirarsi e di cui essere fieri.
Uno dei loro eroi era Giovanni Bassanesi che, venticinquenne, l’11 luglio 1930 era partito
dal Canton Ticino alla guida di un piccolo aereo Farman, aveva puntato dritto su Milano e,
una volta avvistato il Duomo, intorno a mezzogiorno, aveva sganciato centocinquantamila
manifestini tricolore antifascisti.
L’appello firmato “Giustizia e Libertà” era “Insorgere/Risorgere”, l’invito alla rivolta si
sparse ovunque, sui tetti, sui balconi, sui marciapiedi, una beffa inaudita alla vigilanza del
regime. “Le vie dell’aria sono le vie del pensiero” diceva Bassanesi. Il messaggio
rivoluzionario era che si poteva rompere il silenzio, nessuna impresa era più impossibile.
Erano state promulgate le leggi razziali, l’Italia era sfiancata dalla guerra, e con l’armistizio
dell’8 settembre 1943 l’occupazione nazifascista era diventata intollerabile. I tedeschi da
alleati si erano trasformati in invasori e operavano con ferocia, spuntavano da ogni parte,
scendevano coi cani dalle colline e prendevano gente a caso dalle cascine. Non era il tipo
da accettare soprusi, Ceschino. Avevano catturato suo zio Giovanni e l’amico Lidio senza
motivo. Gli avevano fatto un primo interrogatorio “manuale” e non verbale, poi li avevano
portati a Torino a sfilare con un cartello al collo che portava la scritta BANDITI
CATTURATI NELLE LANGHE. A casa nessuno sapeva che fine avessero fatto. Allora
Settima – la zia di mio padre più piccola di lui che nel frattempo era diventata una
splendida ragazza – e Cesira, sorella di Lidio, partirono da Moasca in bicicletta e
pedalarono, queste due ragazzine di diciassette anni, per oltre ottanta chilometri fino a
Torino. Giunte in città li cercarono dappertutto e, quando videro che li stavano caricando
sui camion, si fecero largo tra la folla per salutarli, sfregiarono con le unghie i tedeschi che
non le volevano far avvicinare, a rischio che deportassero anche loro in Germania. Al
ritorno in paese Settima divenne staffetta partigiana e una testa calda come mio padre non
poteva che fare la stessa scelta; quindi partì per la sua prima azione insieme a un amico e
rubarono un camion ai tedeschi vicino alla chiesa di San Rocco, il che dovette dargli gran
soddisfazione, visto che di lì a poco il sabotaggio diventò una delle sue principali attività.
4

Naviga
Io sono un pezzo di umanità
e quando essa soffre io non posso
sfuggire alla sua sofferenza, non posso
disinteressarmi alla sua sofferenza.

ALDO

Nel 1944 Francesco Parietti prese il nome di battaglia “Naviga” perché, potendo, avrebbe
fatto il marinaio. Sognava di imbarcarsi e non smise mai di simulare questa partenza,
foss’anche solo per pagaiare nel Po, in canoa dai Murazzi a Moncalieri. All’inizio si ritrovò
fra i badogliani, col fazzoletto azzurro, ma si sentiva più garibaldino, rispettava un capo
solo se lo stimava e non per imposizione gerarchica, così, quando durante una discussione il
suo comandante lo minacciò puntandogli la pistola alle gambe, mio padre rispose: “Se tiro
fuori il mitra io non ti sparo alle gambe, ti sparo in testa”. Ecco da chi ho preso io.
Non attacco mai per prima, ma nel difendermi divento spietata. Lasciò i badogliani e
raggiunse la formazione di Rocca, poi quella del Capitano Tino, al quale accordò tutta la
sua ammirazione. Patì la fame e il freddo nell’Alta Langa, ogni tanto riceveva pane e salame
dai contadini, si spingeva a pescare nella Bormida, si fermava con la sua divisione a
“grattare” la frutta sugli alberi o, come diceva, “a lanciare contro il nefando e vile invasore
l’ultime armi fornite dalla natura”, parlavano sottovoce, spostandosi di notte, nel buio
assoluto, perché anche la luna poteva essere una spia.
Lui e i compagni condividevano tutto eppure non potevano raccontare nulla di sé per evitare
che, qualora fossero stati catturati e torturati, i nemici risalissero alle loro identità e quindi
alle loro famiglie.
Furono grandi fratellanze senza nome.
Da solo, per trenta chilometri da Agliano a Cortemilia, attraversando campi e colline, gli
capitò di scortare due prigionieri di scambio. Mi raccontò che durante il cammino si
ripeteva: “Tutti dicevano che ne avrei fatta di strada, ma io non intendevo in questo senso”.
La buttava sul ridere, invece deve aver avuto paura. Non tanto di rimanerci secco, magari in
un momento di distrazione, ma di trovarsi costretto a sparare ai due prigionieri che, visti da
vicino, non erano poi così nemici. Credevano in idee diverse, tuttavia le cose in comune
saltavano all’occhio; erano giovani quanto lui, sposavano una causa come lui, mangiavano e
dormivano insieme, parlavano: nella quotidianità era difficile tenere conto della fazione più
che della persona.
Credo si fidasse molto della sua buona stella, la fortuna dava spesso prova di essere dalla
sua parte: proprio ad Agliano, mentre il suo reparto confezionava le armi, esplose una
bomba e lui rimase illeso. La scampò altre volte, come accadde poi a me, quasi avessimo
mille vite a disposizione. Sarà per questo che amiamo tanto i gatti.
Una notte, per esempio, rimase nascosto in una nicchia con la bomba a mano in pugno. I
tedeschi avevano istituito un posto di blocco proprio sopra la sua testa e lui non capiva
nulla di quello che dicevano: li maledisse perché non parlavano italiano. Non sapeva se si
sarebbero fermati o rimessi in marcia, quindi stette immobile per ore, occhi sbarrati e urina
nei pantaloni, pronto a farsi saltare in aria appena lo avessero scovato.
Di nuovo se la vide brutta quando i tedeschi perquisirono la cascina dei miei parenti a
Moasca. Appena capì che erano alla porta si buttò dentro una botte piena di vino, in apnea.
Se lo avessero scoperto non sarebbe stato risparmiato nessuno. Mentre quelli cercavano
nelle stanze e i parenti mantenevano il sangue freddo, la cuginetta più piccola, di nome
Giuseppina, gridava forte: “Mama, mama, Cichìn sta en la vasela”.
Mamma, mamma, Ceschino sta nella botte. Benedisse che i tedeschi non parlavano
piemontese.
Era uno scavezzacollo, giocava d’azzardo con la vita e vinceva ogni mano. In un’azione con
la moto, lui e un suo compagno rimasero senza benzina e rimediarono riempiendo il
serbatoio di grappa.
Attraversarono i paesi scoppiettando tanto che era impossibile ignorarli, eppure la
passarono liscia.
So che per un periodo fu accompagnato da un volpino. I compagni lo sgridavano perché
convinti che prima o poi il cane, abbaiando o ringhiando, li avrebbe fatti scoprire dai
tedeschi. Naviga invece si ostinava a portarlo con sé, macinava chilometri per le montagne
e quando si fermavano a dormire nelle stalle il volpino gli leccava i piedi per scongelarli. E
quando sentiva i nemici avvicinarsi non emetteva un fiato, si schiacciava contro il
pavimento e ammainava la coda per dare l’allarme. Ci doveva essere un angelo custode
accanto a Ceschino, un angelo antifascista, forse di nome Antonio.
5

Perletto
Ho riconosciuto nel volgo
quelle qualità morali e umane
più confacenti alla mia sensibilità.

GRAZIA

Ceschino ebbe la prova decisiva della sorte amica in provincia di Cuneo. Il suo gruppo,
diretto verso i boschi di Perletto, aveva requisito un carro in Val Bormida, con vettovaglie e
casse di munizioni su cui sedeva il Capitano Tino. La zona era ormai dominata da tedeschi e
repubblichini, troppo pericolosa, l’ordine era di riportare gli uomini a casa, salvo iniziative
individuali. Tino decise di tentare l’impresa e organizzare un quadrato di resistenza pur di
scortare fino a destinazione il prezioso carico. Ceschino era con lui. Portava un treppiede
quando un compagno gli chiese una sigaretta, lui gliela diede a patto che gli portasse il
treppiede per un tratto; dopo il baratto, libero da ogni peso, fu mandato in avanscoperta:
calma piatta all’ingresso del paese. Un secondo dopo le raffiche nemiche gli sfiorarono la
schiena, tredici del suo gruppo vennero trucidati, compreso il fiero Capitano. Naviga riuscì
a correre via leggero, salvato da una sigaretta di trinciato forte e da un soprannome che lo
aiutava a barcamenarsi tra le avversità.
Al parroco don Piccardi negarono di dare degna sepoltura a quei morti.
Da adolescente mi portò sulla lapide che commemora quella strage, ma allora capivo meno,
capivo solo che era avvenuto qualcosa di ingiusto. Ci sono tornata poi da adulta, con
tutt’altro spirito, tentando di ricostruire la figura di Ceschino da giovane, quello che era
stato prima che io nascessi, ciò che lo aveva fatto diventare quello che conobbi io. È strano
come vanno le cose. Mio padre ha raccontato per tutta la vita le sue vicende partigiane e io
non me ne sono mai davvero interessata, successivamente ho passato molto tempo a
rimettere insieme i pezzi e avrei dato qualsiasi cosa per recuperare i dettagli. Sono andata a
Perletto, a bussare alle case degli anziani sperando che avessero memoria di quei fatti. Sono
capitata, come guidata dal cielo, dalla famiglia Abbate, discendenti di Delmo detto “Binda”,
comandante di brigata che diede filo da torcere ai tedeschi e ai repubblichini e che quel 13
dicembre 1944 assistette all’eccidio, fece fuoco come un forsennato e si ritirò nei boschi
del rio Tatorba.
Ho visto le foto di quei ragazzi ribelli, che si impomatavano col grasso per la moto e
imbracciavano un fucile grande il doppio di loro, con il sorriso della giovinezza e gli occhi
della convinzione, pronti a finire male ma stando dalla parte che consideravano del bene.
Tutti bellissimi, quasi che l’ideale li rendesse luminosi. La famiglia del Binda ricordava di
avere ospitato molti partigiani nonostante la paura di essere scoperta e di vedersi incendiare
la casa. Una volta li nascosero nella stalla, fra le bestie, e i repubblichini li scovarono, ma
il caposquadra fascista riconobbe tra i ribelli suo cugino, si baciarono e ripresero ognuno la
propria strada. Un’altra volta gli Abbate misero un inglese e un torinese sulle travi del
solaio, i tedeschi batterono il calcio del fucile sul soffitto e, sentendo un rumore vuoto,
dedussero che lassù non ci fosse nessuno. L’inglese che si salvò tornò tanti anni dopo per
ringraziarli.
Anch’io ho cercato invano quelli che rischiosamente diedero rifugio a mio padre. In un
vecchio baule ho trovato la risposta a una lettera di ringraziamento che Ceschino inviò nel
’49 alla famiglia Montanaro di Cerretto Langhe:

Caro amico Franco,


tu ai fatto troppo dopo cinque anni che si abiamo visti farci una improvvisa lettera così
bella e così cara con una scrittura da Avvocato che faceva tremare le mani al portalettere di
Cerretto. In questi anni m è capitato fare la terza classe quindi domando scusa perché io
sono solo capace a zappare ma mi veniva sovente in mente, e ne parlavamo tanto fra noi in
familia, chissà quei partigiani che erano tanti in plotone che fine avranno fatto e quel bel
giovane che ci ha lasciato quei ritratti. Io non conoscevo il tuo nome e parlavo di rimandare
la lettera indietro, c’era un ginocchio di neve ma per prenderla non mi a fatto paura perché
mi è venuto in mente di te e dei partigiani che erano stati una notte a casa nostra. Devo dirti
che le fotografie non so più dove si trovano perché causa della Republica di Mussolini le ho
nascoste in qualche posto che non so più dove, come pure il fazzoletto. Siamo molto contenti
delle tue buone notizie che state bene te e la Mamma come pure ti possiamo dire di noi al
presente. Ti domando scusa a te e alla tua mamma del mio mal scritto e che tiò dato del Ti
per far più presto. Ora mi resta che contraccambiarti i saluti, ci troviamo qua su questi
monti carichi di neve e freddo e dobiamo starsene vicino alla stuffa e nella stalla come le
marmotte a fare penitenza.
Non c’è bisogno di essere colti, è il cuore a sapere cosa è giusto e cosa sbagliato.
Durante il mio pellegrinaggio in quei luoghi mi stupivo di come semplici contadini fossero
giunti alle stesse conclusioni di esimi intellettuali. Scriveva Gramsci: “Vivo, sono
partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Quei contadini senza libri in casa non erano indifferenti, ospitavano i ribelli a costo di farsi
uccidere o di vedersi sottrarre il poco che avevano. Gli indifferenti sono quelli di oggi, che
non si indignano e che dimenticano.
C’è un’altra lapide su a Perletto, me la sono trovata sul ciglio della strada principale, senza
un fiore di campo sopra. Il 12 febbraio 1945 gli Arditi della Divisione San Marco
esploravano la zona perché lì vicino, a Vesime, sulla sponda destra del fiume Bormida, i
partigiani avevano costruito un piccolo aeroporto per i voli segreti degli Alleati e per il
trasporto dei feriti, nome in codice “Excelsior”. Ci erano voluti cinquecento uomini e
cinquanta coppie di buoi per arare quel campo e renderlo agibile e operativo.
Lo stesso giorno, alla stessa ora degli Arditi, si muovevano la Brigata Savona e parte della
IX Brigata Garibaldi; avevano il sole contro quindi, quando videro avanzare degli uomini,
pensarono fossero compagni, agitarono in alto le armi in segno di saluto e furono trucidati in
diciotto.
A Moasca, i repubblichini si travestirono da partigiani e li annientarono dall’interno. Un
nostro parente riuscì a scappare, un contadino lo nascose, i tedeschi fucilarono il partigiano
e misero il contadino contro il muro, mitragliarono tutto intorno al corpo senza colpirlo,
come un lanciatore di coltelli con la sua assistente in un circo macabro. Rimase vivo, ma
perse completamente l’uso della parola.
Ero già grande quando qualcuno in mia presenza, ricordando il periodo della Resistenza,
chiese a mio padre: “Hai mai ucciso un uomo?”. Lui non tentennò e rispose “Sì”, senza
aggiungere altro. Che fosse stato costretto ad ammazzare lo davo per scontato, eppure la sua
confessione mi sconvolse. Mi impressiona tuttora pensarci.
Ho portato dentro di me le storie che mi raccontava, “quei giorni di sacrificio che
precedettero quelli di gloria”. Non mi intristisco più di tanto per la morte delle persone
anziane, per quanto dolorosa, mi devasta invece la morte violenta dei giovani, la vita
negata. Mi ossessiona il pensiero dell’eccidio di Pian del Lot quando il 2 aprile del ’44,
come rappresaglia per l’uccisione di un caporale sul ponte Umberto I a Torino, il comando
tedesco prese ventisette ragazzi, li fucilò e li gettò in una fossa: molti erano ancora vivi.
“Italia” e “mamma” furono il loro ultimo grido. Alcuni di loro furono prelevati alla rinfusa
dal carcere Le Nuove, dove si trovavano non solo gli oppositori al regime fascista, ma gli
operai che avevano scioperato, gli ebrei, chi era incappato in qualche retata, chi aveva
commesso reati comuni. Un buco nell’angolo come bagno, le cimici nel letto, le finestre a
“bocca di lupo” che permettevano di vedere un mattone di cielo, le torture nel braccio
gestito dalle SS. Papà mi disse che uno dei ragazzi a cui toccò l’esecuzione era in prigione
perché non aveva pagato la tassa di circolazione per la bicicletta.
E ancora l’anno dopo ci fu la strage di Grugliasco e Collegno, sessantotto morti tra la
popolazione innocente, giustiziarono un bambino di tredici anni. È il motivo per cui non
potrò mai essere fascista. È il motivo per cui, in fondo, ho perdonato a mio padre di aver
ucciso un altro uomo.
6

Aria fresca
Ci sono uomini che vogliono
migliorare se stessi,
ma voler solo migliorare se stessi
non basta, bisogna voler
migliorare gli altri come si vorrebbe
migliorare noi stessi.

ALDO

Deposte le armi, Ceschino imbracciò i libri. Dopo la Liberazione promosse il Convitto


della Rinascita a Villa Rey, ex sede di un comando tedesco. Come lui tanti ragazzi avevano
sospeso gli studi per combattere al fronte o in montagna, o erano finiti in carcere e al
confino. Da dietro le sbarre e da dentro le trincee sognavano di riportare le reni a casa e di
avviare una scuola che li istruisse, li aiutasse a reinserirsi nella normalità. Riuscirono a
organizzarsi, insegnanti e alunni, dando vita a una straordinaria esperienza didattica basata
sull’autogoverno, sulla solidarietà, sulla democrazia partecipata. Grazie alle borse di studio
molti impararono un mestiere e si ripresero il futuro. Il professor Savio, insegnante di
chimica, ai ragazzi del Convitto diceva sempre: “Qui c’era odore di muffa e voi avete
spalancato una finestra”.
Fu una grandissima emozione quando Elvira Pajetta li andò a premiare. “Mamma” Pajetta,
come la chiamavano nel dopoguerra, era la maestra elementare nota per il suo impegno
antifascista che, dopo la Liberazione, diventò assessore alla Pubblica istruzione. “Studiate,
studiate e ancora studiate, perché la cultura rende liberi” disse. Mio padre ne era così
convinto che si mostrava un vero razzista con gli ignoranti, disprezzava soprattutto chi
aveva potuto studiare e non lo aveva fatto come si deve. Amava studiare e non barava. Gli
altri alunni avevano inciso sulla cattedra le formule chimiche in modo da copiarle alla
lavagna durante le interrogazioni: quando il professore se ne accorse e le modificò, caddero
nella trappola tutti tranne Ceschino, che a settant’anni ancora le sapeva a memoria.
Ma le tribolazioni per lui non erano finite. Poco dopo essere tornato a scuola, la portinaia
gli consegnò la cartolina che lo invitava a presentarsi al Comando di Torino dove lo
avrebbero ufficialmente spedito nella Marina a Savona. In un altro tempo quel foglio
avrebbe riempito Naviga di gioia e di orgoglio, ma dopo sedici mesi da volontario in
montagna coi partigiani, senza mai vedere la madre, e finalmente lanciato a studiare e a
imparare un mestiere, era una vera e propria dannazione. Il desiderio di vestire la divisa da
marinaio lo aveva accompagnato per tutta l’adolescenza ma ora gli sembrava un’ingiustizia,
un’azione mostruosa, perché spostarsi per ventotto mesi da un porto all’altro voleva dire
essere privato di qualsiasi possibilità di riscatto: né diploma, né famiglia, né mestiere. I
militari non avevano una posizione, a loro “veniva insegnata solo l’arte di fare la guerra” ed
era giunto il tempo di stare in pace. Girando dappertutto, negli uffici e nelle capitanerie,
riuscì poi a scoprire che esisteva una circolare secondo cui chi era stato nelle file partigiane
per più di sei mesi poteva richiedere l’esonero dal servizio militare.
“Allievo Parietti, visto i buoni risultati da voi ottenuti durante l’anno scolastico e gli
scrutini, siamo a comunicarvi la vostra promozione e pertanto il passaggio ai corsi
superiori. Auguri.” Furono le parole solennemente pronunciate da uno di quei vecchi
professori con barba che al solo guardarti ti fanno tremare. Nel piccolo discorsetto però le
sue labbra si atteggiarono ad amichevole sorriso, indi ritornò severo quale era e mi
congedò. Non starò a descrivervi la mia gioia, correndo come un bimbo mi diressi a casa
per far partecipe mia madre, povera donna. Salii precipitosamente le scale e la vidi sulla
porta che stava aspettandomi, l’abbracciai, pianse di contentezza, chiusi gli occhi per
assaporare di più quell’abbraccio. Ma che succede ora? Chi tenta di strapparmi a lei? Apro
gli occhi e mi trovo nel mio letto, Zanni dopo avermi brutalmente scosso mi ripete che sono
le cinque e dobbiamo studiare, scendo in fretta e furia e lui mi tempesta di domande su
Lutero e via dicendo fino alle sette. Ci avviamo a scuola, sul tram, pieno zeppo, Zanni mi
rivolge la parola ma io non ascolto. Penso, mi chiedo se effettivamente sono in grado di
affrontare gli esami. Un signore mi spinge, un altro si scusa per avermi pestato un piede. Il
mio pensiero vaga nel passato, al primo giorno al Convitto, a come con buona volontà,
rinunciando a qualche ora di sonno e divertimento, sono riuscito a rimettermi in carreggiata
con gli altri. Non ho nulla da rimproverarmi, tutto ciò che era nelle mie possibilità l’ho
fatto. Forse in qualche materia difetto ancora, ma mi rimetterò a posto durante le vacanze
natalizie. Meglio non illudermi se non fossi giudicato idoneo dovrei abbandonare il
Convitto e non avrei il coraggio di vedere mia madre lavorare da mane a sera per me.
Riprenderò il lavoro ma, come è vero che la terra esiste, non smetterò di studiare: ormai la
lotta è cominciata e a costo di soffrire la fame la porterò a termine vittoriosamente.
Quando trovai queste parole annotate in un diario, provai un’infinita tenerezza per mio
padre e grande fierezza per i risultati che ottenne. Pensare che un ragazzino sogni così
spasmodicamente di poter studiare sembra incredibile: oggi è un obbligo, allora era un
desiderio, una rivincita. Gli comunicarono la promozione, divenne perito chimico, coi
risparmi riuscì a comprarsi una Lambretta e fuori dalla scuola vide e si innamorò
perdutamente di mia madre Graziella, per lui Cella.
7

Le due famiglie
Io vivo i romanzi dell’impossibile.

GRAZIA

La bellezza di Graziella era un misto di dolcezza e malizia, timidissima e pungente. Veniva


da una famiglia colta e raffinata, composta da tipi geniali e un po’ folli, con uno spiccato
gusto per l’arte e in stretto rapporto coi Savoia. Per capire lei bisogna rileggere le vicende
della famiglia a partire dalle mie due bisnonne, Giacinta e Giuseppina. Giacinta Malano –
detta Cita, cioè piccola –, nata a Pinerolo nel 1870, sposò Dipietromaria Edoardo nato a
Torino nel 1860, ebbero una femmina di nome Ave e sette maschi: Pietro, Carlo, Renato,
Fulvio, Leo e altri due che morirono piccolissimi. Si narra che Giacinta avesse un carattere
talmente d’acciaio che, quando perse Orazio per una meningite, disse a Leo che gliel’aveva
attaccata: “Non potevi morire tu che sei meno bello?”. L’altro figlio morto infante si
chiamava Vittorio Emanuele II, tanto per non lasciare dubbi di patriottismo.
Tutti e cinque i giovani partirono per la Prima guerra mondiale, furono chiamati alle armi e
spediti chi sul Monte Grappa, chi in Albania, chi a Caporetto. La casa era d’improvviso
vuota, così Giacinta e Edoardo ogni domenica passavano in caserma per invitare qualche
soldato a pranzo, sperando che altri facessero lo stesso con i loro figli lontani. Edoardo
portava avanti un negozio di calzature, non si sposta mai di lì, Giacinta era appesa alle
notizie, sperava di ricevere lettere e contemporaneamente temeva che le comunicassero il
peggio, quindi decise di andare a vedere coi propri occhi se i figli stavano bene. Prese da
sola il treno per raggiungerli al fronte, ma, in realtà, riuscì a raggiungere solo il figlio che si
trovava a Bologna e insieme andarono all’operetta. Il 4 novembre 1918, alla notizia della
vittoria sull’esercito austro-ungarico, telegrafò a tutti e cinque: “Folle, folle, folle e
fremente di gioia grido con voi Viva l’Italia”.
Tornarono sani e salvi. Ma talvolta la vita stessa è una guerra, e non si smette mai di
combattere.
Renato divenne architetto, osteggiato in amore dalla famiglia partì per la caccia alla tigre in
India, si fece raggiungere a Calcutta dalla fidanzata torinese Lucia, la cui bellezza valeva
qualsiasi follia, e la sposò all’ambasciata italiana. Si trasferirono in Sudafrica, dove
avviarono un’azienda, ma durante la Seconda guerra mondiale fu internato in un campo di
concentramento in quanto cittadino italiano e liberato alla fine del conflitto.
Fulvio si innamorò di una donna, ma il giorno del matrimonio lasciò lei sull’altare e tutti gli
invitati a bocca aperta. A stretto giro andò a convivere con un’altra donna che già aveva un
figlio, ma tempo dopo troncò burrascosamente il rapporto perché non aveva intenzione di
sposarla e quella lo trascinò in tribunale con accuse false e infamanti. Fu una vendetta a tutti
gli effetti. Fulvio subì un processo e trascorse diversi mesi in carcere. A suo favore
insperatamente testimoniò la mancata sposa, che nonostante tutto lo amava ancora e si prese
la sua rivincita, dando prova di grande magnanimità malgrado il torto subito. Una persona
comune, soprattutto a quei tempi, sarebbe stata schiacciata da una vicenda così ingiusta e
dolorosa, invece lui uscì di galera a testa alta, forte della sua innocenza, con un
atteggiamento quasi dandy, dicendo che comunque era stata un’esperienza interessante e
formativa. Alla fine non si è mai sposato.
Leo, che sarebbe diventato mio nonno, era un tipo altrettanto estroso, si vestiva
elegantissimo, aveva una classe alla Fred Astaire, suonava il pianoforte e il violino e
dipingeva senza sosta. La mia casa è piena di suoi quadri. Era soprannominato
l’“Archimede Enciclopedico” perché sapeva fare qualsiasi lavoro, nei rapporti umani però
si mostrava terribilmente timido e taciturno. Sposò Lorenza Giaj Merlera, figlia dell’altra
mia bisnonna, Giuseppina, che ricopriva il ruolo di governante a Palazzo Chiablese.
Nonna Giuseppina non aveva fatto una vita agiata; i suoi genitori avevano desiderato per lei
un’educazione religiosa e perciò era stata allevata in un convento, dove aveva imparato una
rigida disciplina. Il mio bisnonno l’aveva vista passare in fila con le altre convittrici
durante la passeggiata e, conquistato dalla sua bellezza, l’aveva chiesta in moglie alla
madre superiora. Aveva regole precise sulla morale, era intransigente su quello che era
bene e quello che era male, si vantava di non aver concesso all’amore nessuna debolezza,
infatti, se non strettamente necessario, non dormiva con il marito e metteva al suo posto un
tavolino, per farlo sentire meno solo. Nonostante ciò ebbe dieci figli, due dei quali
morirono giovani, e dovette lavorare duramente per allevarli poiché il marito rimase semi-
immobilizzato e per due anni visse tra il letto e la poltrona. Quei figli da grandi però
conquistarono una buona posizione:
Mario diventò commendatore del duca di Bergamo, amico intimo di Wallis Simpson e del
duca di Windsor, Gianni segretario del duca, e lei fu nominata donna dell’ordine di Malta.
Si sentiva dunque arrivata e trattava tutti con signorile autorità. Le piaceva fare la
benefattrice, tanto che un giorno indusse tutti i bambini del paese in cui andavano in vacanza
a fare un atto di pentimento e distribuì sacchetti di caramelle. La mamma disse che era
seduta su una poltrona in mezzo al cortile e i bambini, in fila, prendevano i sacchetti e
ringraziavano, Graziella si vergognava un po’ di lei e di quella sua espressione
compiaciuta.
Le piaceva chiacchierare, per rendere le notizie più appassionate le infarciva di sue
supposizioni, capacità che doveva aver sviluppato negli anni in cui aveva lavorato nella
tipografia di un giornale e poi passato in eredità ad almeno due membri della famiglia.
La sua unica figlia femmina sopravvissuta, mia nonna Lorenza – l’altra figlia Caterina era
morta in giovane età di tubercolosi –, era infantile e viziata, cresciuta tra marmi, arazzi,
legni intarsiati, specchiere, atmosfere cortigiane, eppure dotata di spirito. Era femminile e
vanitosa, di battuta velenosa, le piaceva sfoggiare abiti, era una figura onirica,
un’affabulatrice che amava raccontare storie, capace di drammatizzare anche le cose più
insignificanti. La ricordo che, con il pretesto di lucidare l’androne, incantava con racconti
fiabeschi i vicini di casa, e dove non arrivava inventava. Aveva un carattere da dominatrice
e si prodigava in bugie, romanzando tutto. Viveva lei stessa in una romanza da melodramma,
infatti, insieme a suo fratello Angelo, lavorava come generica al Teatro Regio di Torino,
aspirando a ruoli drammatici: la foto di lui vestito da Radamès e tutti gli scatti che conservo
di lei, anche da anziana, in pose da Eleonora Duse, rendono bene il carattere originale di
entrambi.
Dall’unione fra Lorenza e Leo nacque mia madre Graziella, leggera come una piuma, l’aria
di una cacciatrice di farfalle. Era la più assidua ascoltatrice delle storie materne; anche
quando dai pettegolezzi scaturivano beghe coi vicini che le toglievano il saluto, la famiglia
rimaneva, a torto o a ragione, solidale con lei, perché il divertimento di quelle ore
fantasiose non aveva prezzo.
8

La vita a Palazzo
La suggestione è un gioco
perverso dell’intelligenza.

GRAZIA

Adalberto di Savoia, duca di Bergamo, aveva un appartamento sontuoso che prendeva


un’intera ala di palazzo Chiablese, e a mia nonna Lorenza era assegnato l’incarico di tenerlo
ordinato per quando lui tornava a riunirsi con la famiglia. A mia madre piaceva gironzolarci
e aveva il compito di spolverare; le piaceva farlo perché poteva tenere nelle mani mille
cose deliziose, centinaia di preziosi soprammobili.
Alcuni oggetti la mettevano un po’ in soggezione, come per esempio due busti a grandezza
naturale tenuti sotto enormi campane di vetro che raffiguravano antenati, talmente ben
eseguiti che avevano un aspetto austero; così, quando ci si trovava davanti da sola, le saliva
una specie di panico e correva a cercare le braccia di nonna. Certe volte doveva correre
parecchio, perché l’appartamento era composto da una dozzina di enormi saloni
comunicanti. Andava anche a spolverare in biblioteca e spesso ficcava il naso in libri non
proprio adatti alla sua età, oppure strimpellava il pianoforte finché la cosa non venne
riferita da un’inquilina che abitava al piano di sotto.
Mia madre mi ha sempre descritto il duca di Bergamo come un tipo molto gentile. A Natale
consegnava i doni che andava a scegliere personalmente e lei era sempre piuttosto intimidita
dalla sua presenza, arrossiva fino alla cima dei capelli quando le baciava le guance perché
“aveva l’alone da personaggio esclusivo”, incuteva un senso di rispetto e deferenza. Prima
di incontrarlo veniva tirata a lustro, con un bel bagno, un’elaborata sosta dal parrucchiere
dove, con una specie di molla e della carta velina, le facevano una ventina di riccioli a
cavatappo. Faceva goffamente il suo inchino e parlava solo se le si domandava qualcosa.
Aveva un rapporto esclusivo con suo zio Gianni, segretario del duca, che è stato per lei
l’uomo più buono, comunicativo e generoso del mondo. Tutti lo adoravano perché preferiva
donare piuttosto che ricevere. La sua presenza riempiva la casa, era religiosissimo ma non
bigotto, gli piaceva scherzare e prendere in giro il prossimo, sempre con stile e garbo, in
modo da non farsene accorgere.
Siccome non correva affatto buon sangue fra i reali e il Duce, lo zio commendatore, Mario,
sapeva tante barzellette su Mussolini e, durante i pranzi di Natale, quando tornava a Torino,
le raccontava a valanga, ma prima si assicurava che le porte fossero ben chiuse.
9

Il Marchese Faraone
L’umorismo a volte non è altro
che fatalismo esasperato di allegria.

GRAZIA

Di tutti i personaggi che mia madre mi descriveva quando ero piccola, ce n’è uno che
proprio continua a farmi ridere. Angelo, anche lui figlio della mia bisnonna Giuseppina, non
era riuscito a ottenere una buona posizione sociale come i fratelli e quindi si spacciava per
il più noto zio Mario. Saltava da un letto all’altro senza distinzioni di sesso e amava
travestirsi. Mia madre lo ha descritto talmente bene nel suo diario, che riporto le sue stesse
parole.
Lo zio Angelo era un personaggio che avrebbe interessato moltissimo Dostoevskij, sempre
esaltato ed eccitato, benché con un minimo di razionalità che gli permetteva di svolgere
un’attività retribuita.
Dopo notevoli raccomandazioni ottenne un posto come usciere in ospedale, dava
informazioni sui reparti però era sempre a corto di denaro e quindi si era ingegnato a farsi
amici impresari di pompe funebri e non disdegnava di segnalare ai dottori e ad altri studenti
signorine disposte a incontri galanti. Era un attivissimo ruffiano, i soldi gli servivano per
vestirsi in maniera sempre elegante e profumarsi come una cocotte. Trafficò poi con oggetti
d’arte e imitava l’alta borghesia, quello però che lo penalizzava era l’eccessivo
pettegolezzo che gli procurava inimicizie profonde, troppo esaltato per essere un buon
istrione. Un giorno mi trovavo a un ricevimento da lui organizzato in stile dannunziano in
onore di nonna Giuseppina e sentii un dottore commentare la figura dello zio: “Un magnifico
esemplare di schizofrenia!”.
Lo guardava come un esemplare unico. Lo zio Angelo era geniale nell’addobbare, partecipò
a diversi concorsi, ma non c’erano altri che come lui potessero terrorizzarsi e preoccuparsi
per le fantasie da lui stesso elaborate. Era così, geniale e mascalzone.
Nato per fare il cortigiano, non aveva diplomazia sufficiente per sostenere a lungo la parte,
faceva e disfaceva con assoluta incoscienza, tanto che sovente diventava pericoloso e in
famiglia lo chiamavamo “il Marchese”. Mi divertii una volta infinitamente: lo avevo aiutato
ad acconciarsi perché un altro suo hobby era di travestirsi da faraone, da sacerdote o
qualsivoglia figura dell’antico Egitto. Ci abbiamo riflettuto spesso in famiglia, si diceva che
era dovuto al concepimento avvenuto durante il carnevale, o al fatto che nonno avesse
lavorato per diversi anni come capoelettricista ad Alessandria d’Egitto. Fatto sta che, come
sentiva aria di festa, zio Angelo si trasformava nel faraone e io sovraintendevo a questa
trasformazione.
Un giorno sentii suonare alla porta e andai ad aprire a un distinto signore il quale mi chiese
se il Marchese fosse in casa. Afferrai al volo la situazione, presi l’atteggiamento da
governante distinta, lo pregai di accomodarsi in salotto, andai ad avvertire il Marchese
Faraone che era atteso. Angelo giunse in salotto con l’autorità del suo rango, sul caminetto
troneggiava lo stemma araldico sottratto a chissà chi, e mi divertii a vedere come l’ospite
prendesse sul serio le cose. Era venuto a scattare delle foto al Faraone per non so quale
concorso, io seguii il gruppo in cortile dove, fra legni marmorei e colonne, zio Angelo
prendeva atteggiamenti imperiali, l’altro continuava con la macchina fotografica a
saltellargli intorno, a scattare foto chiamandolo continuamente marchese e io lo aiutavo a
drappeggiare il costume e a osservare le pose dando tacita approvazione. Si era formato un
gruppetto di curiosi che conoscendo mio zio non si stupivano.
Lo zio riusciva ad abbindolare abbastanza bene anziane signore decadute e non, a sentire lui
conosceva tutta la noblesse, in effetti nella sua agenda telefonica avevo curiosato e trovato i
numeri di madamigelle, contesse, faraonesse.
Aveva poi incontrato una donna e si erano sposati per il solito malinteso, e cioè avevano
deciso di sistemarsi. Siccome lui aveva anche l’hobby della regia, aveva fatto della sua
cerimonia nuziale una cosa assai soggettiva: aveva trasformato la sposa in una sorta di
Caterina de’ Medici, a lutto, vestita di nero, con strascico e altissimo colletto, anche per il
corteo aveva predisposto costumi neri, solo i bambini erano in bianco. A persone ignare
poté sembrare una rievocazione funebre; in effetti di gioia, in quel matrimonio, ce ne fu
poca. Vissero per una decina di anni separati, lei stava quasi tutto l’anno in campagna e
veniva a svernare in città, dove per quieto vivere doveva lasciarsi addobbare dal marito. La
crisi decisiva scoppiò quando un giorno, elegantissima, traversava le vie del centro con lui,
con ermellino e distintissimo cappello, e un gruppo di giovinastri sghignazzò saltellandole
intorno. Tornò a casa infuriata perché lui le aveva fatto credere che il suo gusto
sull’abbigliamento femminile fosse universalmente riconosciuto, invece la consideravano
ridicola, così lo lasciò per sempre dicendo che non avrebbe più partecipato alla
mascherata.
Mi rendo conto che può sembrare una storia romanzata, ma ne è testimonianza la foto del
matrimon con sposi e invitati in nero e i paggetti in bianco che ho appesa in camera da letto.
Ne ho incontrati tanti di aspiranti zio Angelo nel mio ambiente e devo ammettere che, in
occasione dei miei cinquant’anni, quando ho organizzato nei minimi dettagli una festa in
stile Eyes wide shut e mi sono ritrovata con maschera sfavillante e l’aspetto di Mata Hari,
ho capito che al DNA non c’è proprio modo di sfuggire.
10

Il cielo su Torino
L’indifferenza e l’odio
manifestati negli ultimi vent’anni
non sono altro che il riflusso
degli odi e della violenza
degli anni che li hanno preceduti.
Il mostro che aveva scatenato
la furia non era del tutto estinto.

GRAZIA

Graziella crebbe sotto il fascismo. Era d’obbligo portare il distintivo del fascio, lei e le
altre ragazzine erano abbigliate da Piccola Italiana, i ragazzini da Balilla, facevano
interminabili sfilate alzando ritmicamente le gambe, il saluto romano, dovevano stare
sull’attenti e sul riposo senza mostrare la minima stanchezza. Il regime puntava alla razza
robusta e atletica, quindi si dava importanza alla ginnastica, tutti gli scolari dovevano
sentire il dovere di competere e distinguersi come il Duce, che non faceva mistero dei suoi
muscoli. Il suo volto maschio e volitivo era effigiato ovunque, li seguiva nelle palestre, sui
quaderni, sulle pagelle. Diceva: “Il Dio è creato, a noi ubbidirlo”.
Quando sentirono alla radio Mussolini che annunciava l’entrata in guerra, nonna Lorenza
scoppiò a piangere e disse a mia madre: “Vedrai, papà sarà richiamato al fronte, arriverà
già vestito da soldato, partirà e non lo rivedremo mai più”. Tutte le persone che
incontrarono sulla strada verso casa avevano lo stesso sguardo sgomento, un uomo
angosciato dalla notizia tentò di correre dalla famiglia e finì tagliato in due sotto un carro
merci: fu la prima vittima della guerra che mia madre vide dal balcone di casa sua.
La notte iniziarono le incursioni aeree su Torino. Verso mezzanotte suonarono le sirene, il
cielo fu illuminato da centinaia di riflettori della contraerea; nonno Leo volle che andassero
tutti nel suo letto, tentò di calmarli dicendo che era solo una prova; nonna Lorenza, come al
solito melodrammatica, disse che almeno sarebbero morti insieme e vicini.
Non ci furono grandi disastri, solo spavento e il terrificante preludio a quello che sarebbe
successo.
Nonno Leo non venne richiamato al fronte in quanto operaio in un’industria bellica, però fu
obbligato a prestare servizio notturno al fotoelettrico, cioè ai riflettori che individuavano i
bombardieri nemici. La zona in cui vivevano fu considerata pericolosa, poiché si trovava
nel cuore industriale della città; a causa degli spostamenti d’aria provocati dalle bombe
cominciarono ad aprirsi crepe nei muri, si organizzarono rifugi nelle cantine e in ogni
edificio si elesse il capofabbricato che, all’allarme, doveva occuparsi di portare al riparo
tutti gli inquilini.
Dopo il coprifuoco era proibito lasciare accesa qualsiasi luce domestica. Nonostante ciò, si
cercava di condurre una vita normale, si andava al cinema a tentoni, seguendo le strisce
bianche che erano state dipinte per le strade e sull’orlo dei marciapiedi, ma spesso, durante
il film, suonava la sirena e si scatenavano scene di panico, finché la gente non ci fece
l’abitudine e cominciò a reagire con molta più calma.
Al segnale inizialmente si buttavano giù dal letto in vestaglia e con le coperte in spalla si
precipitavano al buio in cantina; poi, col tempo, quasi dovevano essere trascinati tanto
erano diventati indifferenti al pericolo. Là sotto lo scenario era surreale: intere famiglie
ammassate, signore piene di creme e coi capelli avvolti nei bigodini o che avevano
dimenticato la dentiera, signori in calzini e sciarpe, tutta gente colta di sorpresa nell’intimità
della notte, sbattuta al freddo, l’odore di muffa e di fradicio che ti restava appiccicato
addosso per giorni. Mia madre, insieme ad altri bambini, aveva inventato una preghiera:
“Ave Maria piena di grazia, fa che non suoni la sirena, fa che non vengano gli aeroplani, fa
che io dorma fino a domani”.
Mancando il combustibile ci si arrangiava: al calar del sole cominciava lo scempio, si
strappavano paletti, si sradicavano alberi, sparivano gli attrezzi di legno e tutto ciò che si
poteva bruciare. Vennero istituite le tessere alimentari e si formarono interminabili file di
cittadini che, per garantirsi l’indispensabile, stavano giornate sul marciapiede o
compravano alla borsa nera qualche prezioso alimento, muovendosi come cospiratori nel
retro dei negozi, parlando a bassa voce come fossero criminali. Alla mia famiglia andava
abbastanza bene perché avevano dieci tessere annonarie in quattro, in quanto al seguito del
duca non servivano e gliele avevano gentilmente cedute.
11

Gli sfollamenti
L’esistenza è uno dei miracoli
più orribili che si possano mostrare
dinanzi ai nostri occhi,
ma ha l’impareggiabile proprietà
di non sembrarlo a prima vista.

ALDO

In viaggio verso l’ospedale dove è ricoverata Graziella, ripercorro anche i posti dove lei e
la sua famiglia furono sfollati. È buffo pensare che lei e mio padre ancora non si
conoscevano eppure vivevano le stesse paure, la stessa storia: uno dalla montagna guardava
il paese, l’altra dal paese guardava la montagna, ognuno sperando che l’altro gli potesse
restituire la libertà.
Graziella venne allontanata molte volte durante la guerra, nel tentativo di proteggerla. Prima
mandata a Edolo, presso un convento, dove le sante donne le ripulirono il corpo con brodini
e purghe e l’anima con la confessione. Nel ’42 l’assegnarono alla nonna paterna Giacinta e
a uno zio che abitava appena fuori città. Andava a scuola malvolentieri, dopo le lezioni
raccoglieva l’insalata e al rientro pesava la resa, prendeva l’acqua alla fonte col secchio,
veniva premiata dalla nonna con una tazza di cacao autentico, che era straordinario al tempo
perché esistevano solo i surrogati fatti, nella migliore delle ipotesi, con farina di castagna e
additivi vari, e lo setacciava perché conteneva inopportuni vermicelli. I parenti erano
affettuosi, ma lei pregava sua madre di farla rientrare a casa perché aveva una cocente
nostalgia della famiglia e la notte saliva in soffitta con lo zio a guardare Torino col
binocolo. Finalmente il suo desiderio venne esaudito e, una volta rientrata a casa, a scuola
andò volentieri e bene, grazie anche alla nonna Giacinta che era riuscita in breve tempo a
trasmetterle una grande passione per la lettura, dando un forte impulso alla sua formazione
culturale.
Visto che nonna Giuseppina e gli zii erano partiti per l’Italia meridionale, dove il duca era
comandante di armata, la famiglia di mia madre accettò l’offerta di trasferirsi nella loro
casa, anche perché i bombardamenti si erano intensificati, il loro vecchio caseggiato era
stato evacuato e chi era rimasto si rifugiava non più in cantina ma nelle fognature che
scendevano nel torrente di fronte.
Era in corso la campagna d’Africa, nella quale secondo Mussolini gli italiani vincevano
sempre però, per un pugno di ragioni strategiche che non si riuscivano a comprendere, i
nostri morti e i nostri dispersi aumentavano. La gente si ingegnava in ogni modo: con un
manico di scopa e un filo elettrico si otteneva un bel paralume, con dei mattoni e dei cuscini
si costruiva un bel sofà, tanto calce e mattoni erano le uniche cose che non mancavano. Tutti
i giorni sul giornale venivano denunciati panettieri che vendevano del pane fabbricato con
l’aggiunta di polvere di marmi o di mattoni macinati. Non era facile accorgersene, poiché il
pane era fatto in gran parte con polvere di riso e quindi era già molto colloso.
Le razioni diminuivano, gli orari di scuola dipendevano dagli orari dei bombardamenti: se
avvenivano prima di mezzanotte gli alunni entravano con un’ora di ritardo, se dopo
mezzanotte con due ore di ritardo, se dopo le due di notte non si andava proprio. In aula
insegnavano a mettere la maschera antigas, chiedevano di portare bastoni e stampelle per
quelli che tornavano dal fronte malmessi.
Dappertutto erano appesi i cartelli TACI! IL NEMICO TI ASCOLTA, mia madre faceva le
solite file e guardava le facce pallide di tutta quella gente stanca e trasandata e si chiedeva
chi di loro fosse il nemico, poi si rispondeva che il vero nemico era il megalomane che
aveva trascinato il popolo in quell’assurda avventura.
Le scorte diminuivano e la gente si arrangiava come poteva: molti balconi della città furono
adibiti a pollai e, ogni volta che la gallina novella faceva un uovo, si attaccava al pollaio
una coccarda rosa.
Nel cortile della nuova abitazione avevano scavato un rifugio sicuro e profondissimo,
l’incubo di tutti era di finire sepolti vivi e di andare incontro a un’agonia che poteva durare
per giorni. Si ritiravano là sotto con un acuto malessere, la palpitazione cardiaca da
claustrofobia, e stavolta tra i compagni di interrato c’erano persone che, dato il nome della
casata dalla quale discendevano e il rispetto che esso incuteva, lei aveva sempre
considerato semidivinità. A vederli lì sotto, nel comune pericolo, lo spavento dei ricchi e
dei poveri era proprio lo stesso.
Un giorno del ’43 nonno Leo tornò a casa con una “bellissima” notizia: la sua ditta aveva
deciso di sfollare, e proprio nel paese al confine con la Svizzera dove mia madre, sin da
piccola, era sempre andata a villeggiare e di cui conosceva ogni sasso. È grottesco parlare
di villeggiatura, perché l’abitazione era composta di due camere messe una sull’altra e unite
dalla scala esterna, per i servizi igienici si doveva ricorrere all’iniziativa privata.
C’erano tante coperte militari grigie attaccate alle finestre e ai muri per tappare i numerosi
buchi, ma bastava un temporale a strapparle. Si gelava, la stufa faceva fumo ed era
pericoloso lasciarla accesa di notte e così, per riscaldarsi, mettevano sul fuoco un sasso a
testa e lo avvolgevano negli stracci di lana. In una stanza dormivano cinque persone:
c’erano tre letti messi a U e due brande della precedente guerra, con traversine di ferro e
materassi fatti di sacchi di foglie di rovere dai quali però non erano stati tolti tutti i
bastoncini e i ricci di castagno. La notte Graziella si girava continuamente per trovare una
posizione accettabile, poi al mattino andava al torrente e si sceglieva il sasso più grande e
levigato per riposarsi: era duro sì, ma almeno uniforme.
Non mangiavano altro che patate e castagne, quando erano fortunati. Attendevano trepidanti
che giungesse la bella stagione perché spuntassero le ortiche novelle e altre erbe selvatiche,
il motto era:
“Tutto quello che alza la testa va bene da mettere nella minestra”. Per colazione, latte di
capra con saccarina in pastiglia (portata di contrabbando dalla Svizzera), a pranzo minestra
di ortiche o di barbabietola, la cui acqua residua era consigliata per i pediluvi e come
detersivo per i pavimenti. Il problema della linea non esisteva.
L’unico lavatoio si trovava presso il dormitorio degli operai: una stanza che era una specie
di bolgia infernale piena di fumo e vapore. Siccome non c’era possibilità di avere del
sapone si faceva il bucato con la cenere su un grande calderone.
Quando nell’estate del ’43 arrivarono in quel paesino della Val Sesia, credevano di essersi
liberati dall’ossessione dei bombardamenti, invece erano finiti dalla padella nella brace; il
25 luglio infatti il Duce venne destituito, nacque la Repubblica di Salò e i militari, che nel
frattempo erano tornati a casa, furono richiamati dall’esercito mussoliniano, mentre le
formazioni di gruppi dissidenti partigiani si insediarono nelle nostre vallate. C’era un viavai
caotico, insomma.
Nel giro di pochi anni, erano passati dalle grandi abbuffate ducali al nulla: la guerra era
reale, eppure Graziella mi ha sempre detto che nei nuclei familiari regnava la pace, nelle
baracche non mancava mai il sorriso, il conflitto era all’esterno.
12

La ciociara
Il bene e il male vanno a spasso
insieme e mai s’abbandonano.

ALDO

Mamma mi raccontò un episodio che ricorda il film La ciociara, che sconvolse sia lei da
piccola sia me da grande. L’azienda dove lavorava nonno Leo, benché in crisi, assumeva
tutti i giovani che poteva per sottrarli alla guerra. La fabbrica era stata riadattata alla meglio
da una vecchia manifattura e faceva di tutto tranne che la produzione, vigeva il tacito
consenso di non collaborazione coi tedeschi e coi repubblichini, lì passavano le armi ai
partigiani, si facevano atti di sabotaggio e si costruivano utensili di uso domestico, tipo un
enorme torchio per estrarre olio dalle noci poiché l’olio d’oliva non c’era neanche a
sognarselo.
Come facesse la ditta a non andare in fallimento non so, probabilmente era finanziata da
banche solidali.
A ogni modo Graziella portava il pranzo caldo a nonno Leo, percorrendo circa un
chilometro in bicicletta. Rientrando, un giorno notò che la strada era completamente chiusa
da una cinquantina di giovanotti che ridevano e sembravano alticci. Quando li raggiunse
pensò che si sarebbero scansati, lei non poteva scendere dalla bici perché era del nonno e
troppo alta. Due di loro afferrarono il manubrio e, ghignando, uno disse: “Facciamoci
questa”.
L’altro la fissò, poi forse quella ragazzina gli fece pena e rispose: “È troppo giovane,
lasciamola andare”.
Scoprì che erano giovani che andavano ad arruolarsi nell’esercito di Salò: da quel momento
ogni forma di convivenza umana veniva ammalata, si era sottoposti tutti all’arbitrio, alla
brutalità e all’arroganza.
L’unico armadio che possedevano in casa servì a nascondere una porticina dietro cui, al
fresco, stavano burro, formaggio e due imboscati, uno dei quali era un italiano che, ostinato
a non volersi far arrestare in casa di amici, a non mettere a repentaglio la vita di chi lo
aiutava, quando sentiva che c’erano i rastrellamenti, correva nel bosco. Un giorno fu
scovato e torturato. Tempo dopo, mia madre si trovava davanti a scuola e se lo vide
arrivare con un secchio di calce. A tutta prima non ci pensò e, sorridendogli, gli disse:
“Buongiorno”. Quello si fece scuro in volto e non le rispose, lei ci rimase male, ma poi vide
dietro di lui un tedesco che lo seguiva imbracciando il fucile e capì che lo aveva fatto per
proteggerla.
I fascisti avevano piazzato una mitragliatrice sulla torretta del paese e la puntavano sulle
case e sulle strade. Ci si abituò anche a questo, anzi nel pomeriggio mia madre si sedeva
fuori beata a sferruzzare al sole con la mitragliatrice puntata addosso. Rimase di sasso
quando una mattina del ’44 in piazza trovò un partigiano morto, lo conosceva: stava
allungato a terra con un cartello sul petto che diceva SONO UN BANDITO, mentre la
mamma era inginocchiata a terra disperata e attorno a lui stavano accovacciati i
repubblichini che bevevano e guardavano beffardi. Lo lasciarono lì esposto per diverso
tempo senza che la famiglia potesse riavere la salma. Quasi tutte le coetanee di Graziella
avevano fratelli e padri in montagna che ogni tanto scendevano a fare il cambio della
biancheria e a fare rifornimenti alimentari, ma, siccome per comodità e per ripararsi dal
freddo avevano barba e capelli lunghi, erano riconoscibili e bersagli facili.
La guerra divenne più aspra, bruciavano le case, uccidevano innocenti per rappresaglia e
obbligavano i civili ad assistere, scendevano squadre speciali e violentavano,
saccheggiavano, interdicevano il passaggio dei beni di consumo e, quando si ritiravano, i
ragazzini partivano con le biciclette e facevano anche trenta chilometri coi freni difettosi per
trovare qualcuno che vendesse loro un po’ di pane.
Il nazifascismo era cresciuto in questo clima, non rispettava nessuno e nessuna legge, si
esaltava solo nel terrore che sapeva suscitare. Scappando dalla città la mia famiglia
pensava di essere sfuggita alla guerra, invece si trovava in prima linea, senza sapere dove
trovare rifugio. Dovevano accettare il rischio quotidiano, che peraltro ai ragazzi non
costava troppo: era l’unico modo di sopravvivere. Mia madre mi spiegava: “Grazie
all’incoscienza giovanile eravamo abbastanza spensierati, d’altronde accettiamo tutti i
giorni la fiche che il tempo ci offre senza sapere se il fato la giocherà, e non per questo
siamo più tristi”.
Il poco che avevano lo nascondevano nel pollaio, che contava una ventina tra galline
bianche e rosse e il gallo, alto quasi un metro, con la coda iridata, la cresta superba e lo
sguardo aggressivo. I paesani ci portavano le mucche ogni tanto, per evitare che venissero
razziate in casa.
Un giorno caldo e afoso sentirono in fondo alla valle un gran frastuono, un rimbombare
sordo che non era prodotto dagli aeroplani ma dall’avanzare di una colonna di carri armati,
forse una mezza dozzina.
Nonno Leo prese in mano la situazione, disse a mia madre di spalancare le porte, si
raccomandò di stare tranquilli e si sedette sul muretto che separava la casa dal prato.
Il primo carro della colonna si fermò proprio davanti a casa, dalla torretta saltò fuori un
graduato, avrà avuto una trentina d’anni, era nervosissimo, si avvicinò a loro con aria
severa e li apostrofò: “Voi avete i polli!”. Era fremente e iroso, anche gli altri soldati erano
scesi dal carro, si erano affiancati a lui e guardavano minacciosi. In quel momento il nostro
bellissimo gallo, spaventato dal frastuono, dal pollaio cominciò a fare sonorissimi
chicchirichì a cui risposero tutti i galli delle vicinanze. Fu una scena bellissima e, per il
tenente, una figura grottesca, visto che per “polli” intendeva partigiani.
13

Piedi bruciati
La vita è movimento in ogni direzione immaginabile
di questa sporca crosta
su cui poggiamo i piedi.

ALDO

Nel frattempo i parenti materni erano piombati in una situazione critica. Con l’armistizio, il
duca di Bergamo e mio zio Mario erano scappati a Lugano, l’altro mio zio Gianni, il
segretario di Palazzo, era rimasto con la bisnonna Giuseppina in Italia, dove era stato
catturato, segregato in un edificio dell’hinterland milanese trasformato in carcere e torturato
a lungo. Presumevano che, dato il suo impiego di segretario del duca, fosse a conoscenza di
chissà quali segreti. Zio e nonna Lorenza si scambiarono molte lettere e appena poterono lei
e Graziella andarono a trovarlo. Il viaggio fu il più avventuroso che ricordasse.
Passarono per Torino per vedere come andavano le cose: i ponti erano stati fatti saltare, la
linea ferroviaria era interrotta. Andarono con il tram fino all’incrocio dell’autostrada
Torino-Milano, dove dicevano che alcuni ex verdurieri facevano un più redditizio servizio
di trasporto. Aspettarono un bel po’, poi arrivò un camioncino coperto da un telo scuro, il
conducente accettò di farle salire e le trasportò su una panca traballante fino a Milano, dove
arrivarono con le ossa rotte. Per poter incontrare lo zio dovettero consegnare i documenti e
redigere una domanda di permesso; attraversarono vari cortili, attesero nel padiglione dove
era rinchiuso con altri sfortunati finché non le raggiunse in parlatorio. Come le vide
cominciò a piangere a dirotto, e il suo pianto stritolò il cuore di mia madre, abituata come
era a vederlo allegro, sicuro di sé e pieno di tenerezza ed energia. Dopo averle abbracciate
si sedette perché i piedi non lo reggevano: glieli avevano completamente bruciati con dei
ferri roventi.
Tutti ascoltavano Radio Londra e, anche se non capivano niente, quelle parole davano loro
la speranza che presto sarebbe finita l’odiosa guerra e che qualcuno stava dandosi da fare
per liberarli. Quando arrivò la buona notizia, saltarono fuori anche le fisarmoniche, le
coppie ripresero ad amoreggiare, Lidio e Giovanni tornarono a piedi dalla Germania, tra i
pochi sopravvissuti ai campi di concentramento, lo zio Gianni uscì di prigione e riprese a
camminare, ma tutte le città europee erano un cumulo di rovine, l’economia era allo sbando,
la carta moneta non valeva più nulla, l’atmosfera era quella di un epilogo sospettoso: era
finita per davvero?
Graziella me lo descriveva come un tempo sospeso, perché era difficile credere che tutto
fosse finito, eppure era bello aprire le finestre sapendo che nessuno era lì a minacciarli.
Ogni giorno venivano a sapere di qualche vendetta sommaria compiuta da esaltati che
avevano parteggiato per i fascisti. Ma anche nel campo avverso non mancarono le
esagerazioni.
Mia madre andò per la prima volta in corteo con la famiglia il 25 aprile, poi il 1° maggio;
vide gli stendardi dei partigiani e vide anche che in piazza era allestito un rimorchio senza
sponde, su cui due povere sciagurate subivano la tosatura mentre un mucchio di gente
inveiva con insulti. Erano ragazze di compagnia che per sopravvivere avevano accettato
ogni compromesso e, benché mia madre fosse stata sempre dalla parte dei partigiani, quello
spettacolo le stringeva il cuore. Quando verniciarono il loro cranio sghignazzando provò
orrore e pensò che non ci fosse rimasto nulla di umano. Si prepararono per il rientro a
Torino, ma dovettero attendere il proprio turno perché i trasporti erano limitati e la benzina
scarseggiava. Sembrava fossero usciti tutti da una grave malattia, deboli e svuotati.
Gli anni della guerra lasciarono in Graziella un segno profondo. Ma le insegnarono anche a
adattarsi a ogni evenienza e a vivere le situazioni più paradossali con grande ironia
piuttosto che lasciarsi prendere dal panico. È il modo che ha trasmesso a me di affrontare la
vita.
14

Miseria e nobiltà
Se siamo differenti è solo
perché non si può essere
tutti uguali anche
quando si è tutti uguali.
È questa una delle più
strabilianti constatazioni.

ALDO

Quando mia madre, di famiglia borghese e filomonarchica, incontrò fuori da scuola


Ceschino, operaio antifascista, non poté che scoppiare un grande amore.
Ceschino aveva un bel portamento, ma le mani ruvide tradivano la sua estrazione sociale. La
prima volta a cena dai futuri suoceri, in un ambiente a dir poco snob, si presentò con una
bottiglia di vino e si guadagnò il soprannome di “ciucatùn”, ubriacone. Lo criticavano
qualsiasi cosa facesse, più si adoperava per essere apprezzato più loro avevano da ridire e
da ridere. Ogni pretesto era buono per affibbiargli nomignoli poco gentili tipo “el
mangialaserte”, il mangialucertole, perché era un fuscello, magro di costituzione sì, ma
soprattutto di portafogli. Viveva in uno scantinato umido, soffriva di reumatismi e spesso gli
capitava di svenire dalla fame.
La famiglia di Graziella non era propriamente ricca ma lo sembrava, frequentava la Torino
bene e si adeguava ai modelli della nobiltà, trattando gli altri con una naturale aria di
sufficienza. Durante il fidanzamento, nonna Lorenza censurava le lettere che Ceschino
spediva, lo chiamava “animale” e si mostrò sempre contraria al loro matrimonio, al punto
che fu l’unica assente il giorno delle loro nozze. Il duca di Bergamo fece loro da testimone.
Mio padre non era abituato a pavoneggiarsi nei palazzi, a parlare di quadri o di viaggi
esotici circondato da maggiordomi in livrea. Si sentiva uno che era andato a corte senza
l’invito e ha sempre provato un senso di inadeguatezza in quell’ambiente, si è sempre sentito
contadino, figlio di una serva. Ho ereditato da lui questo senso di disagio e ho dovuto
combattere con me stessa per essere disinvolta in certe situazioni “d’alto rango”. Non
provavo vergogna per le mie radici, anzi, l’esatto contrario, ero orgogliosa di aver
conosciuto la spontaneità e la convivialità della vita contadina, non mi appartenevano gli
atteggiamenti cerimoniosi, la compostezza, la divisione in classi. Sarà per questo che il mio
primo amore fu un cameriere.
Ancora qualche anno fa, Emmanuelle De Benedetti, mia cara amica, mi rimproverava di
avere la sindrome di Cenerentola perché ero convinta che il mio posto fosse nelle cucine o
nel solaio. Purtroppo spesso gli altri hanno capito questa debolezza e usato il mio passato
per sminuirmi. Alla fine degli anni Novanta, per esempio, avevo un fidanzato finanziere la
cui ex moglie, quando doveva ferirmi, puntava dritto lì. Nonostante io fossi al massimo del
mio splendore e lei non proprio al massimo del suo, mi denigrava chiamandomi “la
soubrette”, insinuava che venivo da un ceto basso e non potevo riscattarmi o mi dava
dell’arrampicatrice. Qualsiasi articolo uscisse venivo accusata di volermi fare pubblicità,
quindi cercai di rendermi meno vistosa, alleggerii il mio aspetto, mi tagliai addirittura i
capelli per essere meno appariscente. Alla fine decisi di non cambiare e nel tempo, per
fortuna, fu lui a trovarsi una nuova moglie, molto più simpatica, alla quale sono ora legata
da una grande amicizia.
La gente della Milano bene pensava che fossi una ragazza di umili origini perché parlavo
sempre molto della famiglia paterna e quasi mai di quella materna vissuta a Palazzo Reale.
E a me non andava di rivendicarlo. Le lezioni più grandi di umanità le ho avute dalla terra,
non dai palazzi. Poi ho preso coscienza di me e capito che valevo di più di quanto mi
volessero far credere. La vera miseria è la falsa nobiltà, per dirla alla Totò.
15

Le scarpe del re
La nostalgia è un ricordo
in cui la memoria ha costruito
un’evocazione piacevole.

GRAZIA

Per i primi cinque anni della mia vita mi chiamai Antonella. Erano stati fatti molti pronostici
sulla pancia gravida di mia madre e tutti gli scommettitori si trovavano pressoché
d’accordo: maschio. Il mio nome doveva essere quindi Antonio, come nonno. Il patto era
che se fossi stata femmina il nome l’avrebbe deciso mia madre, ma nessuno considerava
l’evenienza, così papà e nonna Maria avevano preso a parlare con me attraverso il ventre
dando per scontato il mio sesso, lanciandosi nelle tipiche conversazioni prenatali da nastro
blu e provando tutta la rosa dei vezzeggiativi e dei diminutivi, Antonino, Antoniuccio,
Tonio. Quando nacqui mia madre mi battezzò Alba in onore di una pittrice che adorava e
papà, comunque felice, per riprendersi dallo choc pensò che Alba, tutto sommato, andasse
bene per commemorare la prima Repubblica Partigiana d’Italia. Nonna Maria fece di testa
sua e per anni mi chiamò Antonella, in memoria di suo marito. La cocciutaggine l’ho presa
da lei.
I piemontesi hanno la nomea di essere austeri e riservati, ma quelli di Moasca sono
considerati “i meridionali” della regione, accoglienti, estroversi e chiassosi. Mio padre era
così. Io sono così. I torinesi invece sono più discreti, misurati, hanno un grande senso della
dignità e della riservatezza. Mia madre era così. Non l’ho mai vista piangere. Tranne una
volta, da grande, che tornai a casa coi capelli frisé e una tuta leopardata.
La mia infanzia è stata quasi schizofrenica. Passavo un giorno a vendemmiare e un giorno ad
ascoltare musica per clavicembalo. Mamma mi ha fatto crescere a suon di opere liriche,
comprese quelle in tedesco, che al primo impatto sono noiosissime. Invece di leggermi le
fiabe dei fratelli Grimm, mi portava a vedere il Tannhäuser di Wagner, tre atti insostenibili
per chiunque. In realtà, se insegni il gusto per queste cose a un bambino, le apprezzerà per
sempre senza fatica.
Tutta la famiglia materna era amante della lirica, a quei tempi un genere piuttosto popolare.
Mi diverte molto il racconto che faceva Graziella del suo primo incontro con la musica.
Una delle affinità elettive che mi accomuna a mio marito è la passione per tutto ciò che è
gratuito.
Per lui questo fatto può spiegarsi osservando il suo albero genealogico, discende infatti da
un ceppo iberico, un portoghese venuto da lontane terre chissà perché a stabilirsi in un
paese piemontese. Io invece discendo da un ceppo di montanari piemontesi e da una razza
meno delimitata e più internazionale: quella degli scrocconi. Fatto sta che quando otteniamo
due biglietti gratis è una festa. Fu per noi una grande gioia quando ci regalarono due inviti
per un’importante prima all’opera, oltre al fatto che avrei potuto finalmente indossare un
vestito che da tempo tenevo in guardaroba e smaniavo di sfoggiare e che avrei potuto
ascoltare della buona musica. La musica è diventata per me una grande passione, le
vicissitudini della vita mi hanno portato a capirla e a trovare conforto ascoltandola. Prima
ero un’ignorante sull’argomento. Una volta andai a trovare una signora mia conoscente che
viveva in un’atmosfera crepuscolare, lirico-sognante, la quale a un certo punto della
conversazione si interruppe e mi disse:
“Graziella vuole un Corelli?”.
Io che da parecchio tempo avevo sete pensai: “Finalmente si decide a offrirmi da bere”.
Ascoltai a bocca asciutta ma in estatico silenzio quello Stradivari del compositore
Arcangelo Corelli. Ora è diverso, e per un’importante serata mi preparo adeguatamente.
Decido per un trucco da donna fatale alla Cleopatra e proprio sul mio settimanale femminile
preferito, questa settimana, con ampio servizio fotografico, sono descritte le fasi per
ottenere un viso affascinante. Allo specchio mi scruto il viso: ovale, lungo, rotondo?
Prima penso: “Ovale perfetto”, poi ripensandoci è meglio che sia onesta con me stessa:
“Rotondo, paffutello, accidenti”. Prendo tutti gli oggetti per l’operazione: crema detergente
Nefertiti, cipria Amneris, rimmel verde per palpebre, argento per le sfumature, cipria ocra
sulle gote, rossetto su labbro torbido e sensuale, matita per allungare gli occhi, ma per tanto
che allungo restano sempre rotondi, niente a che fare con quelli da gazzella che vorrei
ottenere.
Dopo un’ora mi alzo, mi osservo. Sono affascinante? Vado in salotto da mio marito: “Vado
bene?”.
“Cosa?”
“Le maquillage, no?”
Lui mi osserva serio e risponde: “Levati quella roba dalla faccia, sembri una donna di
malaffare”.
Torno in camera da letto, mi osservo attentamente allo specchio da vicino, poi a un metro di
distanza: effettivamente ho l’aspetto loschetto. Ha ragione mio marito, per passare la serata
tranquillamente vado a lavarmi la faccia tre volte, con speciale sapone detergente Fior di
Nilo.
Siamo pronti, partiamo, l’opera che ci accingiamo a vedere è esaltata come
rappresentazione eccezionale. Un lungo articolo dice: “Finalmente in Italia l’opera di tale
autore austriaco, una delle più formidabili dell’espressionismo tedesco, riportata alla luce
dopo cento anni”.
Giunti a teatro resto subito intimidita dall’ambiente elegante, poi ricordo a me stessa che
nessuno sa a quanto ammonta il mio conto in banca e divento disinvolta, faccio una
panoramica sulle stole di visone e sui brillanti che sfavillano: saranno il venti per cento, io
faccio parte della maggioranza.
Comincia l’opera: un tremendo frastuono, un suono sconnesso di piatti e timpani, eppure
sono preparata, forse è un preludio. Ma no la cosa va avanti, continuano a urlare e alla fine
del primo atto mi sento esausta. Una signora si leva in piedi indignata e dice ad alta voce:
“Che vergogna che l’ente abbia speso trentadue milioni per rappresentare una cosa simile!”.
Gli intellettuali la guardano con sufficienza, ritenendola ignorante: se non capisce di musica,
cosa viene a fare in teatro? Io però sono solidale con lei, le sussurro all’orecchio: “Ha
ragione, è proprio una porcheria”. Lo dico piano in modo che gli intellettuali non sentano.
Loro di solito portano occhiali tondi e hanno lo sguardo distaccato, sicuro di sé,
effettivamente quello che per me è un ignobile fracasso per loro è arte. Vorrei capire con
quale meccanismo si sono staccati da ogni primitivismo istintivo. Io amo solo quello che
sento, mentre loro riescono a sentire e apprezzare quello che non amano.
Sento i nervi tendersi, ho voglia di scappare e alla fine del secondo atto dico a mio marito:
“Ho lasciato i piatti da lavare a casa”. Frettolosamente sgusciamo fuori dalla sala, ripenso
all’articolo sul giornale: quell’opera potevano lasciarla inedita per altri cento anni.
Nel tempo Graziella divenne un’esperta di lirica e di classica, ma quell’opera continuò a
non andarle giù, così come tutte le forme di sofisticazione. Stava bene sia a teatro che in
campagna, dove mio padre trascinò a vendemmiare anche degli studenti indiani che doveva
istruire per la sede della sua fabbrica a Bombay. Tutti gli diventavamo amici, non c’era
scampo. Avevano lunghe tuniche bianche che miracolosamente non si sporcavano nemmeno
durante la pigiatura. Con loro mia madre per la prima volta si accostò alle discipline
orientali e alle tecniche dello yoga.
Certo l’ambiente paesano non era tutto rose e fiori, come a palazzo c’erano da fare i
convenevoli. Nel ’61 i miei avevano comprato la prima macchina, una Cinquecento che,
poverina, stava insieme per forza di volontà e li portava a fare le doverose visite fuori città,
quelle in cui escono le punte di malignità dei parenti che non vedi da una vita. Graziella li
raccontava così quegli incontri:
Tutti sanno che vuoi dimagrire eppure appena ti vedono arriva un’amica di famiglia che
sottolinea:
“Come stai bene, ti trovo ingrassata!”. In quei casi tiro fuori il sistema yoga per il controllo
del sistema nervoso. L’ultima volta ho risposto: “Sì, sono ingrassata, ho persino avuto una
proposta di contratto come donna cannone”. E lei mi ha risposto: “E tuo marito ti lascia
andare?”.
Certo l’umanità ha bisogno di migliorare. Finiti i convenevoli c’è l’invito a pranzo. Le vedo
le zie che si sfidano guardinghe, sento il loro muto palleggio: alla fine ore e ore a tavola
ogni domenica. Poi, prima di andar via, c’è il giro degli addii, intanto io penso a Carducci:
“Io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito”.
Insomma, io vivevo come avevano vissuto mamma e papà, imparando a stare in ogni
ambiente. Già da fidanzati funzionava così: una domenica a palazzo, l’altra in cascina. In
comune, nobili e contadini, avevano le scarpe. Bellissime, nuove, lucide. I Savoia le
indossavano una volta e via, le regalavano ai collaboratori, nonna Lorenza se le portava a
casa, papà le prendeva e le dava a nonna Maria in campagna. Era buffo, allegramente
sovversivo, vedere quelle calzature lucide, eleganti e costose muoversi fra le vigne. Spero
non ci richiedano indietro anche queste, i Savoia.
16

Lo zio Aldo
Io sono un miracolo ai miei
occhi e tutto ai miei occhi
è un miracolo, in tutti i sensi,
in tutti i tempi,
in tutte le sfumature
e gradazioni possibili.

ALDO

La mia famiglia eravamo noi tre. I parenti erano o anziani o molto lontani. Man mano che
crescevo diminuivano le sedie alla tavolata di Natale e, se mi svegliavo con l’Adagio di
Albinoni a tutto volume in casa, voleva dire che qualcuno di loro era venuto a mancare. Mia
madre li salutava così i suoi morti. Un giorno mi disse: “Andiamo a trovare mio fratello” e
io esplosi di gioia. Non sapevo di avere uno zio. Suo fratello non doveva essere troppo
vecchio, sicuramente più vicino a me d’età che il resto delle cariatidi.
Me lo immaginavo intrigante, chissà quali avventure aveva vissuto in quegli anni di assenza.
Doveva aver avuto affari importanti da sbrigare chissà dove e accumulato storie avvincenti
da raccontare. Volevo piacergli. Volevo avere accanto una persona che fosse più di un
amico e meno di un genitore. Un adulto più bambino. Arrivammo davanti a un palazzo
antico, dai soffitti alti, camminammo per un lungo corridoio. Una ragazza senza denti mi
sorrise, vidi un uomo in canottiera con la fronte appoggiata al muro, un’anziana signora che
mi veniva incontro urlando. In una stanza mi presentarono zio Aldo, mezza lingua di fuori e
la faccia intontita. Un adulto troppo bambino.
Era finito giovanissimo al Regio manicomio di Collegno. All’epoca ci si vergognava a dire
che un parente era rinchiuso lì, era un segreto, un’onta. Lo andavamo a trovare di rado, lo
temevo. L’ultima volta che lo vidi vivo rimase in silenzio per tutta la durata della mia visita,
sdraiato sul letto, roteando sugli addominali con un movimento ossessivo-compulsivo che
mi ricordava il girare in tondo senza senso di un animale chiuso in gabbia. Taceva e
ruotava. Senza fermarsi. Una persona “normale” non potrebbe riuscirci.
Faceva un certo effetto vedere il suo fisico muscoloso e tonico in un luogo così decadente e
malato.
Quando lo mandavano a casa per le feste puzzava di borotalco, ricordo bene i suoi
polpastrelli bruciati dalle sigarette. Veniva sedato e blaterava cose sconnesse, lo
consideravo un ritardato da cui tenersi alla larga, una scocciatura natalizia.
Quando morì, anni dopo, trovai una sua lettera con la grafia di uno scolaro delle elementari,
c’era scritto: “Cara Alba ti voglio tanto bene”. Un pugno dritto allo stomaco, mi sentii una
schifezza. Scoprii che non lo conoscevo affatto e mi pentii di averlo considerato una larva e
non una persona.
Durante il suo funerale, mentre la bara veniva trasportata da Torino alla tomba di famiglia a
Pinerolo, la ruota del carro funebre si bucò, la sfortuna non ebbe pietà nemmeno di
quell’ultimo viaggio. Ci sono destini segnati da piccoli dettagli.
17

Una meraviglia meravigliosa


Vivere è un’infinita meraviglia in tutti i sensi di essa.

ALDO

Molto tempo dopo, rovistando in un vecchio baule, mi sono capitati fra le mani i diari di
Aldo e ammetto che è stata un’emozione indescrivibile leggerli. Mi chiedevo che persona
fosse ed ecco che era direttamente lui a presentarsi, a darmi un’altra possibilità.
Dò è un torinese ma non troppo puro, nemmeno misto, comunque è un uomo del nord. Dò è
un bel ragazzo, ma anche se non è tutto biondo, un po’ biondo lo è. Realmente il colore dei
suoi capelli è castano, quello dei peli è biondo, forse perché discende da un ramo celtico,
un ramo che doveva essere sincero al massimo grado possibile tanto da giungere a
riconoscersi davvero molto matto da legare.
Riconosceva anche che la verità è un gran bene per chi la sa e anche se è grandissimo male
saperla meglio non mascherarsela.
Dò sapeva che sarebbe diventato matto un giorno, sapeva che non lo voleva e che
affannarsene non sarebbe servito a nulla. Fu messo di fronte a questo dilemma da un caso
letto su un libro medico che Dò si era messo a leggere per curiosità, aveva provato paura
perché si era accorto di avere i sintomi indicati dallo specialista di quella malattia, di cui
aveva cercato di imparare il nome come era solito fare con ogni parola nuova che
incontrava. Dopo questa informazione sulle condizioni stradali del suo destino capì che per
migliorarle non c’era modo, se si escludeva la morte, e Dò voglia di morire non ne aveva. E
così si mise a pensare a quanto erano fortunati gli altri e non lo sapevano. Anche gli altri
stavano male però, in uno stato di disperazione minore del suo, ma comunque di
disperazione, e l’invidia verso di loro non avrebbe evitato la sua sorte maligna contro cui
non c’era che l’aiuto di Dio, il quale non era molto efficiente. Dio è dittatoriale con tutti,
non gli scappa nessuno, foss’anche il papa, e fa andare piuttosto male le cose, tende a far
credere che non ci sia, anche (e forse di più) ai suoi servitori. Egli ci ha fatti con tendenza
verso il male tutti, nessuno escluso, perché vuole che siamo padroni di noi stessi, che ci
guadagniamo le cose con il sudore della fronte, col sacrificio della nostra gioia e della
nostra libertà.
Pareva che dall’altro mondo mi parlasse, mi raccontasse passo passo che cosa gli era
successo.
Io sono solo con me stesso anche in mezzo a una folla oceanica e rinchiuso in quella botte
oscura che è il mio cervello. Io cerco una compagnia che non so nemmeno io come la
voglio. Io sono nato filosofo e filosofo morirò. Essere filosofi è una cosa comune come
essere un buon incassatore nel pugilato e nient’altro. Non dico che sia poco ma è di troppo.
Dunque la sua malattia era la filosofia. Pensare e cercare spiegazioni a tutto devono averlo
alienato non poco.
Io avevo sempre voluto essere solo e riservato quindi non avevo potuto farmi una grande
cerchia di amici ai miei passaggi nei paraggi. Ne avevo, ma non sapevo se li trattavo come
si devono trattare gli amici “larghi”, dato che di amici stretti ne avevo solo uno.
Amava stare nella natura, preferiva riflettere in silenzio, se ne stava all’angolo della finestra
a fumare, seguendo il filo del fumo alzarsi “in un nastro grigio-sbiancato di una sofficità
extra-reale e carezzosa”.
Poi cominciarono le fissazioni e le manie di persecuzione.
Ero convinto di una cosa e non sapevo cosa mi avesse convinto, era davvero un bell’enigma
e non era il solo che dovessi risolvere. Ne avevo un altro, più complesso, che scattava fuori
ogni tanto a darmi fastidio: dove ballavo mi sembrava che gli altri mi guardassero in un
modo come se non potessero darmi fiducia.
Aldo era un bellissimo ragazzo, le donne non gli mancavano, ma poi non gli stavano dietro e
non gli restavano accanto. Sono uno scocciatore per quasi tutte le donne perché sono un
uomo che parla di filosofia, mentre per me è uno dei doni divini che serve per esaminare
cosa sia questa cosa che ci passa davanti e che non si svela. Quando nacqui avevo già in me
preparato un interesse alla filosofia, chi c’è stato a metterlo non lo so. Forse noioso e pazzo
ma io sono nato con questo corredo di pensieri e mi diverto, mi istruisco con questi cosi che
mi visitano il cervello e mi fanno vedere a mio modo. Mi capitava già da bambino di avere
queste visite nella scatola cranica e non credevo fosse nulla di speciale, così tiravo avanti
col mio bagaglio e lo usavo per le mie necessità, ne ebbi sempre un aiuto pronto e utile che,
se non mi rese sempre la vita facile e agile, mi aiutò a trascorrere meglio i tempi
inevitabilmente brutti.
Era stato un bambino sveglio, legatissimo a mia madre Graziella, innamorato dei libri.
Trascorreva intere giornate a leggere i volumi preziosi della Biblioteca Reale di Palazzo
Chiablese. Quando mamma e tutti i parenti paterni lasciarono Torino per trasferirsi in Val
Sesia, Aldo era con loro; malgrado lo sfollamento, i nipoti la ricordano come un’estate
bellissima, erano tutti bambini che giocavano sulla riva del Sesia, per i boschi, in assoluta
libertà. Nelle foto color seppia Aldo è felice.
Pare che i problemi siano iniziati quando tornò dal servizio militare con un esaurimento
nervoso, cui si aggiunse una delusione d’amore. Fu rinchiuso a Collegno, allontanato da
casa e dalle conversazioni, qualcuno mormorò che era diventato pazzo perché aveva
studiato troppo e ne sapeva più di un dottore.
In manicomio veniva legato ai letti di contenzione perché si graffiava, aveva sangue
dappertutto, come un macellaio, il che mi spaventa abbastanza perché anche io, in una
situazione d’amore disperato, ho reagito infilandomi le unghie nel collo. Quando gli
psicofarmaci non facevano effetto lo sottoponevano a sedute di elettroshock. I pazienti a
elevato rischio di suicidio venivano curati così, come gli alcolisti, gli omosessuali e i
bambini che si facevano la pipì addosso durante la notte: messi nelle mani degli elettricisti.
Se non sei pazzo, quello è il luogo in cui lo diventi.
Credeva di essere solo, non amato dalla famiglia, incompreso da tutti. Dopo anni di
manicomio deve aver fatto dei passi avanti, si notano delle frasi di autocritica.
Venivo trattato come un cane randagio e a pensarci sopra io sono stato un vero cane
randagio, non pensavo a nient’altro che alla mia ostinata pena e, se gli altri facevano
qualcosa per me, io non li vedevo.
Li facevo soffrire col mio non capire che ero io stesso a farmi male. Ora sono sano e salvo
e libero da ogni fisima molesta. Ora devo imparare a mettermi gli occhiali e a guardare
oltre il limite del mio naso.
Devo cercare una meta e avvicinarmi verso. Mi sento adattissimo alla vita. La natura è una
meraviglia meravigliosa, non c’è che dire. È bello dirlo e anche pensarlo.
Pensava di essere guarito e forse, a leggere bene, malato non lo era mai stato. Dopo la legge
Basaglia fu affidato ai servizi sociali, la sua mente stravolta continuò ad abitare un luogo
altro, irraggiungibile per noi.
Questo benedetto spazio in cui mi è capitato di venire a vivere è null’altro che il mio
involucro, il mio corpo. In questo posto non so se sto meglio o peggio di prima, ma nella
vita non si sta sempre bene o male: si sta tutti e due.
Fa quasi sorridere il fatto che le sue delusioni fossero esclusivamente filosofiche. Non ho
trovato poesie o lettere d’amore, solo dissertazioni sull’universo e sull’esistenza, sognava
un mondo in cui si parlasse una “lingua unica”, ci fosse una “famiglia internazionale” e un
“parlamento intercontinentale”, oppure diceva la sua su Dio con l’ironia che ho imparato a
riconoscergli.
L’uomo si trova vivo in mezzo a un infinito di infiniti e sospeso in mezzo a un’eternità di
eternità.
Questa è la sua vera posizione nello spazio-tempo scoperto da Einstein ma esistente ancor
prima di Adamo ed Eva e a cui Dio ha dovuto badare per costruire l’uomo. Quando ero
giovane e innocente venni portato per caso o destino non lo so – ma io sono sicuro che sia
stato per dispetto – a sentire, oltre la mia parte casalinga di prediche, quella parte che i
preti si sono presi per sé e che fanno egregiamente. L’uomo sbaglia sempre anche senza
l’aiuto di consigli, quindi l’uomo che ha sbagliato sa già da solo che è in errore e, se non è
un fesso, si corregge da solo senza qualcuno che lo scocci con il fuoco fatale della fine o il
freddo eterno in paradiso. Io personalmente ho sempre desiderato avere chiarimenti sullo
stato condizionale del Purgatorio, ma non ho mai avuto risposta e così mi accontento di
immaginarlo con gente che se ne sta lì e dice: “Ma perché noi altri ci mandano qui e non ci
dicono se dobbiamo patire il caldo o il freddo per scontare quei peccati che era inevitabile
commettere?”. Certo il Purgatorio non deve essere un luogo tiepido, sennò quelli del
Paradiso e dell’Inferno protesterebbero perché noi stiamo da Papi.
Ci sono interi racconti di lui che si veste per andare al parco la sera, a cercare qualche
compagno di panca con cui parlare di filosofia e quel progetto bastava a fargli considerare
la giornata “speciale”, “ma poi non c’era nessuno, nemmeno l’ombra di un fantasma
disoccupato avrebbe fatto con me la benché minima confutazione filosofica. Era un gran
colpo al mio sentimento di giorno speciale e mi sarei messo a piangere, ma pagliacciate
simili sono strettamente riservate agli sgorghi di esistenza che sono quelle pesti dei
bambini, tra cui fui anch’io e non me ne vanto perché non è un vanto essere una peste ma è
una buona esperienza esserlo stato”.
Ho trovato tutte le lettere di rigetto per la dimissione di Aldo che la direzione di Collegno
spediva a mia nonna, e le lettere che lui mandava a casa firmando: Sezione Tredici,
Collegio Psichiatria Collegno, Torino, Periferia Piemonte, Italia, Europa, Terra, Sistema
Galassia Solare.
Nonostante una vita nell’inferno del manicomio riusciva a scrivere: “Vivere è un’infinita
meraviglia in tutti i sensi di essa”.
Chi è un pazzo? Un pozzo, di profondità. Aldo lo voglio ricordare col sole che filtra dalle
tende, appollaiato sulle scale della Biblioteca Reale mentre sfoglia le sue pagine preferite,
o seduto nel tiepido parco del Purgatorio con Einstein come vicino di panca.
18

Director’s cut
Quello che guida il nostro destino
è un’incognita affascinante
e misteriosa.

GRAZIA

Il dottore al telefono dice di non preoccuparmi, che mia madre è trasportabile e potrebbe
trattarsi di un’influenza non curata. Niente di più plausibile, lei si è sempre rifiutata di
prendere farmaci e considera i medici degli assassini. Sono tranquilla, il pensiero della
morte mi sfiora appena, è solo una curiosità che mi porto dietro sin da bambina. A cinque
anni mia cugina Mirella, poco più grande di me, fu investita da una macchina che marciava
nascosta dietro un camion; mi portarono a vederla nella bara, vestita da comunione, con un
velo bianco sul viso che pareva addormentato. Da allora sviluppai una vera e propria
ossessione per i morti, andavo in tutte le camere ardenti, soprattutto quando si trattava di
giovani, anche se erano persone che conoscevo appena, osservavo quel pallore ceruleo e
parlavo con loro. Chissà, forse era un modo per apprezzare di più la mia vita.
A chiunque è capitato di immaginarsi il proprio funerale, ha un che di narcisistico voler
vedere chi e quanto si dispererà per te, così come ha un che di egocentrico il fatto che da
anni io mi prepari a dire addio a mia madre, serve a me per mostrare quanto sarei brava a
metter su una bella rappresentazione: so cosa scriverò nel necrologio e cosa leggerò in
chiesa, quali musicisti chiamerò per suonare Vivaldi, Albinoni e Schubert. Lei meriterebbe
un grande omaggio e i preparativi riservati a una nobile sposa, ma in fondo immaginare
questa evenienza è anche un rito scaramantico, vigliacchi tentativi che ogni figlio fa per non
mostrarsi impreparato davanti a una brutta notizia.
La verità è che Graziella sta bene, il dottore me lo ha assicurato, e con questo viaggio io sto
cogliendo l’occasione per rivedere il film della mia vita secondo la versione del regista,
riavvolgo la pellicola e faccio il mio personale montaggio con le scene finora censurate
dall’inconscio.
19

L’Associazione
Ho traversato i tempi dell’angoscia
cercando la valle dell’arcobaleno,
l’ho trovata e ora sono più sicura perché
so che esiste. La pazienza, la compassione
e il bene sono il nostro regalo
al mondo: un dono che ci fa ricchi.

GRAZIA

La prima volta che non riconobbi mia madre avevo all’incirca sette anni. Eravamo a casa,
nel pomeriggio, lei cambiò prima l’intonazione della voce, poi l’espressione del viso. Non
sapevo cosa stesse succedendo, qualcosa di strano e, per me, d’inspiegabile, così le chiesi
di smetterla perché quel gioco non mi piaceva. Lei rise, ma era una risata cattiva,
scomposta, beffarda e interminabile. Mi misi a piangere, la supplicai di farla finita. Non
riuscivo a capire. Era lei, mia madre, eppure in quel volto e in quei modi non c’era niente
della persona che conoscevo. Tornò normale dopo parecchio, e non perché glielo avessi
chiesto io. Quegli attacchi arrivavano senza motivo, e senza motivo sparivano. Divennero
sempre più frequenti, o forse era solo che, crescendo, io li notavo e li subivo di più.
Ci sono stati anni in cui, prima di rientrare a casa, pregavo di non trovare il mostro ma
Grazia. Se stava bene, era il massimo a cui si potesse aspirare: allegra, attiva, organizzava
giochi per i bambini che mi venivano a trovare, cucinava dolci, mi insegnava a fare sculture
con il Das, mi cuciva gli abiti da principessa che disegnavamo insieme, mi portava a danza,
pattinava con me sul ghiaccio mentre le altre mamme prendevano il tè. Poi in un lampo, che
so, l’occhio le cadeva su un oggetto, insinuava che era stato spostato, che avevo fatto entrare
qualcuno di nascosto, gridava, insultava, iniziava la sua trasformazione.
Non c’era modo di fermarla. Potevo disperarmi e buttarmi a terra ma non la impietosivo.
Spesso davanti alle sue metamorfosi stavo male fisicamente. Un giorno mi paralizzai dalla
testa ai piedi, la implorai di portarmi dal medico perché non riuscivo a muovermi né a
sentire niente, lei mi strattonò per un braccio e mi urlò di smetterla di fare del cinema.
M’innervosiva il suo minimizzare, mi spaventavo a morte, però quando tornava in sé non
ricordava nulla.
Una volta se ne andò via per giorni e io e mio padre andammo a recuperarla dai nonni.
Entrammo nella stanza piena di luce, lei era su una brandina nell’angolo, sembrava una
bambina smarrita, ebbi l’impressione che fosse più piccola di me, e si limitò a dire:
“Franco, portami a casa”.
Ero stanca e scossa, da quel momento in poi cominciai ad avere il terrore di tornare da
scuola e di trovare la casa vuota, e ancora di più di ritrovare in salone mamma a sorridermi
candida, come se non mi avesse mai abbandonata. Quando c’era riempiva l’aria di cose
belle e questo rendeva anche solo l’ipotesi di una sua assenza insopportabile. La paura
dell’abbandono mi ha perseguitata per tutta la vita.
Era bipolare, riusciva a essere la più serafica e la più mostruosa, senza passare per i gradi
intermedi.
Inoltre soffriva di manie persecutorie. Era convinta che esistesse “l’Associazione”, la
chiamava così, usando l’articolo determinativo, come se tutti noi ne fossimo al corrente. Si
trattava di una vera e propria organizzazione che congiurava contro di lei; quando scopriva
chi ne faceva parte, lo allontanava. Così anche le persone più care, senza ragione, pian
piano scomparivano dalla nostra casa. Ogni volta che ci legavamo a qualcuno sapevamo di
doverlo salutare presto. Di punto in bianco io e mio padre eravamo chiamati a inventare
scuse assurde per troncare i rapporti. Non c’era modo di farle cambiare idea. Lei non aveva
amici, non ne aveva bisogno. Il suo mondo eravamo noi tre.
Spesso accusava di complotti anche me e papà. Non tolleravo che mi incolpasse di cose
false, preferivo di gran lunga accollarmi le sue assurde verità. Ero disposta a diventare il
capo dell’Associazione, se non riconosceva la mia innocenza. E poi, ammettendo le mie
colpe, lei l’avrebbe fatta finita, almeno per un po’: capii allora cosa si prova a confessare
per disperazione. Questo atteggiamento è diventato parte del mio carattere, un pirandelliano
Così è se vi pare. Qualcuno voleva pensare male di me? Io lo incitavo a pensare peggio. In
oratorio trovavano un giornaletto porno e le suore insinuavano fosse mio? Glielo lasciavo
credere. Da ragazza il mio modo di vestire era criticato da tutti?
Per reazione io accorciavo le gonne e allungavo la scollatura. Era il mio modo di punire chi
non riusciva ad andare al di là delle apparenze, era una sfida aperta alle opinioni
superficiali.
Ho sempre voluto dare di me un’immagine di donna sicura e un po’ cinica, spregiudicata,
libertina, addirittura socialmente pericolosa quando andavo contro i poteri forti e, per
esempio, facevo la campagna dei profilattici in piena era DC. Ero considerata una cattiva
ragazza, sebbene fossi cento volte migliore di quelle cosiddette “brave”. Il perbenismo
suggerisce comportamenti fintamente corretti. Io credo nell’etica più che nella morale. Sono
una persona veramente perbene. E lo sono anche nei giorni feriali, non solo la domenica.
Non avere briglie, non seguire le regole non è sinonimo di inaffidabilità. Tutt’altro. I miei
uomini questo concetto non l’hanno mai compreso. Hanno sempre cercato di catturarmi e
domarmi invece di lasciarmi sciolta. Non si fidavano, non capivano che quando io amo,
amo totalmente. Non c’è nessun bisogno di tenermi stretta: io sto già lì. Ma niente. Tutti
hanno commesso, chi prima chi dopo, lo stesso errore. Il mio aspetto fisico diceva una cosa,
il mio cuore l’opposto, ma loro credevano alle suggestioni del primo, quasi che una donna
bella non potesse essere leale e fedele. Per molti anni ho temuto la vecchiaia. Adesso forse
non più. Sarà la volta buona che qualcuno mi sceglie per la sostanza e non per le forme.
20

Il volo
Le nuvole non hanno
patria, ci consentono la vita
e non costano nulla:
ce le regala il cielo.

GRAZIA

Questo cielo mi è familiare. Da qui alla Val D’Aosta l’ho percorso in lungo e in largo da
piccola.
Quando papà scoprì che negli aeroclub, al costo della benzina, si poteva salire a bordo dei
Piper e accompagnare chi doveva prendere il brevetto, non lo tenne più nessuno. E a turno
portò a volare nonne, zie, nipoti. Tutti si fidavano di Ceschino. Se ci penso oggi erano
viaggi atroci, per niente sicuri, ma io vedevo lui tranquillo e sorvolavo le Alpi con assoluta
serenità. L’idea della morte non lo sfiorava, era stato graziato in così tante occasioni che
credeva fermamente sarebbe morto solo quando fosse giunto il suo turno. Voleva
scientificamente togliermi tutte le paure.
Per esempio andavamo in vacanza a Champorcher e nella stalla accanto alla casa, al buio e
legato a una catena, c’era un cane lupo, denti in fuori e occhi gialli, che ringhiava a chiunque
si avvicinasse. Ceschino mi spiegava che gli animali non sono mai cattivi, mi teneva ore e
ore accanto alla belva per guadagnare la sua fiducia. Gli metteva la mano sotto il mento, lo
istigava a mordere, poco alla volta me lo faceva accarezzare, finché non diventò un cane
docilissimo. Noi due potevamo fargli qualsiasi cosa, io addirittura osavo cavalcarlo. Papà
convinse il padrone a slegarlo e da quel momento ogni notte venne a dormire davanti alla
nostra porta. Mi svegliavo e sulla soglia c’era lui, a darmi il buongiorno con la coda che
frullava come un mulinello. Finirono le vacanze e tornati a Torino venimmo a sapere che il
cane si era lasciato morire di dolore.
Mio padre aveva ottenuto quello che voleva: a dodici anni ero una ragazzina che non temeva
niente, anzi si buttava a capofitto nelle situazioni più pericolose. Poi da grande le paure me
le hanno fatte venire gli altri. Lui ha fatto di me un vero uomo. Preso atto che ero una
femmina, mi insegnò a fare il maschio.
Sapevo andare in moto, difendermi con le mosse ju jitsu di cui lui era cintura nera, mi
portava al bar a fare la schedina, a giocare a flipper, allo stadio a vedere il Toro. Sì, il
Toro e non la Juve, perché se non c’era del rosso dentro, le cose non gli piacevano. E poi
dividere una passione con Agnelli gli pareva una roba da ricchi. Mi ha educata alla
rettitudine e all’indipendenza, mi consigliava di pagarmi la cena da sola agli appuntamenti,
di guidare io la macchina senza farmi riaccompagnare a casa; mi ha resa autonoma al punto
che vivevo la galanteria maschile come una forma di sopraffazione. A quattordici anni già
non dipendevo da nessuno e da allora nessun uomo mi ha mai regalato, che so, una casa,
l’auto o altro. Ho sempre chiesto solo rispetto, per poi scoprire che agli uomini pesa molto
di meno pagare. Non sono mai stata un oggetto di proprietà, né fisico, né morale, né
ideologico, né intellettuale. Ho la fragilità di un’educanda e la spavalderia di un camionista,
un cervello da uomo in un corpo da donna. Forse sarebbe stato più conveniente avere un
cervello da donna in un corpo da uomo, ma è andata così. Ceschino mi faceva fare cose da
maschio, ma la mia femminilità la rispettava eccome. Immaginavo che gli uomini fossero
tutti così. Col cazzo. Da adulta avrei dovuto chiedergli un indennizzo per truffa.
21

Io fascista
La vita è solamente difficile.
Come essa possa essere considerata
facile è uno dei più facili
segreti: essa può essere considerata
facile dopo averne considerato
e imparato a puntino tutte le difficoltà.

ALDO

Ceschino, galante e educato in ogni situazione, adorava le donne perché era un uomo giusto.
Non era gentile con loro perché sperava di ricevere qualcosa in cambio, ma per intolleranza
verso le discriminazioni. Nella sua fabbrica, la CEAT, lavorava una ragazza non bella, non
particolarmente sexy, ma elegante, la signorina Vason, che aveva perso il marito ed era
rimasta incinta di un uomo sposato che non aveva voluto riconoscere la figlia. Per questo al
lavoro veniva disprezzata e trattata come uno straccio.
Papà la prese come sua segretaria, la difese da tutti e tutto, tanto che i maliziosi dedussero
ci fosse una relazione. Niente di più falso. Lei lo adorava per riconoscenza e lui era
semplicemente convinto che dovesse essere riconosciuto il valore delle persone, oltre ogni
pregiudizio. Non transigeva sul rispetto.
Con gli uomini risolveva la questione a mani nude ma, anche in quel caso, rispettava una
certa etica, non colpendo mai senza preavviso: era un galantuomo d’altri tempi, che ti
sfidava a duello guardandoti negli occhi. Ricordo che un giorno mi portò al cinema a vedere
un film storico dal titolo Sinuhe l’egiziano, nel quale si mostrava una donna avvolta solo da
un sottile velo. A quei tempi intravedere le intimità femminili era piuttosto raro, ma la
reazione bestiale degli uomini era più o meno uguale a oggi. Un troglodita della fila davanti
si lasciò andare a commenti spinti in un italiano stentato e mio padre gli tamburellò sulla
spalla chiedendo di smetterla perché erano presenti dei bambini. Quello continuò, anzi
calcò la mano, così mio padre attese la fine del primo tempo per non disturbare il resto
della platea, all’intervallo mi affidò alle amorevoli cure della vicina di posto, trascinò il
tizio fuori sala e gli diede una lezione. Mai usò violenza su una donna. Per le donne del
fascismo, però, non aveva pietà. Gli facevano orrore, sia perché si vendevano per denaro e
favori, sia perché facevano le spie. Quando Pier Francesco Pingitore mi chiamò a
interpretare nel film Tre stelle Paola Del Sol, attrice molto amata e amante dei gerarchi,
ebbi la netta sensazione di tradirlo.
Non fu l’unica volta. Da adolescente mi innamorai dell’uomo più bello che io abbia mai
visto al mondo, un fotomodello milanese di nome Alessandro Stepanoff, sosia di Mick
Jagger, uno il cui magnetismo bloccava il traffico, non gli si potevano staccare gli occhi di
dosso. Entravamo nei negozi e uomini e donne andavano in debito di ossigeno, era di una
perfezione sbalorditiva, a parte un piccolo neo: si collocava dall’altra parte della barricata,
nel movimento neofascista. Erano anni in cui non si poteva non essere schierati, io di qua
con la FGCI, lui di là con il Comitato Tricolore, entrambi con una storia familiare da
onorare. Alessandro era di origine russa, suo nonno, colonnello della Guardia imperiale
aveva organizzato la Resistenza contro i bolscevichi ed era stato ferito tre volte, suo padre
apparteneva all’Armata Bianca e ai Cavalieri dell’Ordine di Malta. Non era affatto un
fanatico di Mussolini, ma un anticomunista convinto e perciò più vicino agli ambienti
giovanili della destra.
Ammetto che, al cospetto di una simile bellezza, la connotazione politica per me contava
zero, almeno finché non finì alla sbarra nel processo per la strage di Piazza della Loggia. I
sospetti su chi avesse messo la bomba caddero sul neofascista milanese Cesare Ferri, che
però, per quel fatidico 28 maggio 1974, aveva un solido alibi fornitogli, tra gli altri, anche
da Alessandro. Era passato a prenderlo alle 8.30 e insieme erano andati all’Università
Cattolica, l’uno per sostenere un esame, l’altro per informarsi sulle sessioni future. Durante
la prima istruttoria tutti i testimoni deposero a favore di Ferri confermando i fatti e l’accusa
cadde. Tutto sembrava essere tornato a posto nella vita di Alessandro. Era bellissimo e per
niente vanitoso, non aveva grilli per la testa e lavorava duramente all’ortomercato, poi un
giorno fu fermato per strada da Oliviero Toscani e da una sua redattrice, che gli proposero
un servizio fotografico per “Vogue” e lui, che non sapeva nemmeno cosa fosse, accettò per
soldi, diventando di lì a poco il numero uno nella moda, la copertina fissa di “Vogue”,
protagonista delle campagne di Richard Avedon con Kelly Le Brock, Rene Russo, Jerry
Hall. Aveva ottenuto importanti ingaggi all’estero, il permesso di lavoro per gli Stati Uniti,
la Francia, la Svizzera, e per dieci anni il mondo intero fu ai suoi piedi, fino a che nel 1984
Angelo Izzo, pluriomicida e massacratore del Circeo, sostenendo di aver raccolto le
confidenze di altri carcerati, rilanciò il nome di Cesare Ferri e causò l’apertura
dell’inchiesta bis che seguiva la nuova pista nera milanese.
Alessandro fu richiamato da New York, nel 1985 venne ascoltato come teste e, nonostante
la sua linea difensiva fosse esattamente la stessa di dieci anni prima, fu arrestato per falsa
testimonianza. Gli altri testimoni, a distanza di tanto tempo, si mostravano vacillanti sui
dettagli, lasciavano un margine di dubbio sul fatto che Ferri fosse arrivato all’università
all’ora indicata, forse era giunto nella seconda parte della mattinata, quindi aveva potuto
mettere la bomba a Brescia e, per crearsi un alibi, era corso alla Cattolica di Milano. Il
problema restava Alessandro, il quale continuava a sostenere che alle 8.30 era andato a
prenderlo di persona e, visto che si ostinava pervicacemente a difendere questa posizione,
passò a essere ritenuto complice. Non potevo crederci, apprendevo le notizie dai giornali e
mi sembrava impossibile che avessero fondamento, assurdo che si costruisse un processo su
dichiarazioni poco precise e senza prove determinanti. Ma l’opinione pubblica voleva dei
colpevoli, i magistrati li volevano, i famigliari delle vittime li volevano, e anche io li
volevo, ma che fossero quelli giusti.
Alessandro fu imputato per concorso in strage, incarcerato, tenuto per quaranta giorni in
isolamento.
Chissà, forse pensavano che un fotomodello abituato alla vita facile non avrebbe resistito a
lungo lì dentro e avrebbe detto quello che volevano sentire. Ogni giorno lo interrogavano
per vedere se cambiava versione, sarebbe bastato uno spiraglio, poteva dire di non
ricordare bene come si erano svolti i fatti, far vacillare l’alibi di Ferri e uscire in fretta dal
processo e dai problemi. Ma lui non avrebbe mai barattato la propria dignità. Fu spostato
nel settore comune del carcere, ci restò quattro mesi, e lì scoprì che, durante il suo periodo
di isolamento, nei vari raggi, c’erano state scommesse su quanto ci avrebbe messo a
“cantare”, invece, con sorpresa di tutti, quel “fighetto” aveva tenuto il punto e si era
involontariamente guadagnato perfino la stima dei boss, che a mezzogiorno lo invitavano a
mangiare insieme a loro. Era incredibile quello che stava succedendo: era passato
dall’ortomercato, alla moda, alla galera, lui che io conoscevo essere così modesto e onesto.
A un certo punto gli diedero gli arresti domiciliari. Strano: era giovane, godeva di buona
salute, non aveva collaborato con le autorità, su di lui pendeva un’accusa gravissima,
c’erano tutti gli estremi per lasciarlo in carcere. Invece lo mandarono a casa, non era
sorvegliato e per di più non gli ritirarono i documenti. Avrebbe potuto raggiungere in poco
tempo la Svizzera, o meglio la Francia, che all’epoca non avrebbe mai dato l’estradizione
per motivi politici. Alessandro scelse di rimanere e, dopo una lunga trafila nelle aule
giudiziarie, fu prosciolto da ogni imputazione. Tutti si scagliarono contro la sentenza, i
giornali titolarono Un’altra strage senza colpevoli e per me era altrettanto scandaloso che si
fosse rovinata la vita di un innocente senza una riga di scuse, senza restituirgli con
altrettanto clamore un’immagine pulita. Lo Stato lo risarcì con sessanta milioni per ingiusta
detenzione quando lui ne aveva spesi ottanta solo per gli avvocati e, con tutto l’autentico
dolore che provo per le vittime della strage e l’indignazione per la mancata individuazione
dei colpevoli, per me quella di Alessandro è un’altra vita perduta.
Quanto è lontana dalla realtà l’idea che uno si può fare dai giornali. Ero certa della sua
buona fede, anche se non ho mai approvato il fatto che facesse parte di gruppi politici di
estrema destra; era un ragazzo giovane, sicuramente incosciente ma, per come lo conoscevo
io, non avrebbe mai e poi mai coperto un assassino, tanto più l’autore di una strage che
rimane tuttora una delle pagine più nere della nostra storia.
Già da tempo Alessandro non frequentava la politica preferendo le sfilate ai cortei e, se
insisteva nel contraddire la versione dell’accusa, non era certo per cameratismo; infatti
quando Cesare Ferri, del quale non era nemmeno particolarmente amico, andò a ringraziarlo
lui rispose: “Calma, non l’ho fatto per te, l’ho fatto per me stesso, se non avessi difeso la
verità non mi sarei più potuto guardare allo specchio”.
Per quanto politicamente schierato su posizioni opposte alle mie, ho stimato la sua scelta,
avvenuta non certo a cuor leggero. Mi raccontò delle notti insonni passate a riflettere in
isolamento, la tentazione di fare una mezza falsa ammissione per uscire dall’incubo,
rinunciare ai suoi principi per riprendersi la vita. Ma l’educazione che aveva ricevuto non
gli consentiva di comportarsi altrimenti. Da piccolo, quando chiese a suo padre perché
tenesse la croce dei Cavalieri di Malta nel cassetto e non la indossasse, lui gli rispose: “La
nobiltà non è nei simboli che esponi. Se vuoi essere nobile comportati nobilmente, senza
orpelli”. Gli costò il lavoro, la salute, la faccia.
Ero certa della sua innocenza ancor prima che lo stabilisse la sentenza, per la credibilità
che aveva saputo guadagnarsi ai miei occhi quotidianamente da quando ci eravamo
conosciuti. Mai avrei pensato di imparare così tanto da uno che aveva idee contrarie alle
mie, di rintracciare in lui la lealtà e il senso di responsabilità che mi aveva trasmesso
Naviga. Uno come Alessandro poteva avere tutte le donne che voleva, me compresa, invece
scelse di stare con Carine, la fidanzata di sempre, al suo fianco in tutte le fasi processuali.
Si è rivelato una persona perbene, una delle migliori che ho incontrato e fra noi tre è nata
una bellissima amicizia; hanno chiamato il figlio Misha, come il padre di Alessandro, e la
figlia Alba, come la prima Repubblica Partigiana. Mio padre non si sarebbe arrabbiato poi
troppo.
22

DisGrazia
Mi riconosco immagine passeggera
presa in un giro immortale.

GRAZIA

Mio figlio Francesco mi sta seduto accanto. Non diciamo una parola. Non ho voglia di
interagire, distrarmi, perdere questo filo che ricuce le trame della mia vita. È avvolgente e
sconvolgente. Credo che nella sua testa starà passando in rassegna i migliori momenti
passati insieme a sua nonna, tanti a contarli.
Ha conosciuto una persona completamente diversa da mia madre. In passato ho cercato di
spiegargli quanto fosse stato complicato il rapporto fra me e lei, ma non ho insistito più di
tanto perché è giusto che non cambi idea. Graziella è stata con lui la nonna delle fiabe ed è
bene che la ricordi così. D’altronde nessuno più di un pazzo sa darti tenerezza. La follia ti
rende nudo nel male quanto nel bene, Francesco ha goduto solo del secondo.
Da piccola stravedevo per mia madre e ne avevo timore: ogni tanto sono arrivata a
desiderare di vederla morta. Più le volevo bene, più mi faceva male. Più mi legavo a lei
quando era di luna buona, più la detestavo quando si alterava. La odiavo anche per come
stava trasformando mio padre. Era un guascone, esuberante, sorridente, pieno di amici ma,
di fronte alle sue crisi, perdeva il midollo, si annichiliva.
Mentre lei faceva il diavolo a quattro, lui abbassava la testa, stava zitto fino a farsi venire
tremendi crampi allo stomaco e non mangiava per giorni. In quei momenti non la
contraddiceva mai, neppure quando ci finivo di mezzo io. Spesso le loro discussioni
prendevano questo tono:
“Me ne vado via per sempre.”
“E cosa ne facciamo di Alba? Chi la tiene?”
“La mettiamo in collegio.”
Mentre papà usava il mio nome come mezzo per farla tornare in sé, puntando fiduciosamente
al cuore di mamma, lei rispondeva seria, senza guardarmi in faccia. La separazione era una
sciagura, avevo avuto modo di vedere i figli di genitori separati, malinconici senza rimedio,
quindi per me il collegio rappresentava la peggior destinazione possibile e a volermici
spedire era proprio lei, la stessa che un minuto prima mi portava la colazione a letto
cantando. A chi dovevo credere? A Grazia o a disGrazia? Ero furiosa con mio padre perché
non mi aiutava. Assecondando lei, non proteggeva me. Mi sentivo fragile ed esposta, così a
scuola, tra le varie bugie che inventavo per proteggermi, dicevo a tutti che avevo fatto una
puntura per non sentire più il dolore. Nessuno poteva ferirmi. E aggiungevo che avevo un
fratello maggiore pronto a difendermi in qualsiasi momento.
Soffrivo di scompensi alimentari, non ero interessata al cibo. Ero come un cerbiatto
denutrito, con lunghissime gambe scheletriche e lo sguardo disorientato, punivo mamma per
la sua malattia rifiutando la sua cucina, poi semmai mi strafogavo di pane e Nutella.
La follia era una tentazione a cui ho ceduto presto. L’ho sperimentata ampiamente nella mia
adolescenza e quando ho cominciato ad avere successo. Funzionava. Me lo permettevano.
Tutto viene concesso a una ragazzina squilibrata e a una persona famosa.
23

L’enfant terrible
Tutti vogliamo troppo dalla vita e
alla vita non vogliamo dare niente.

ALDO

Fino al liceo mi sono considerata brutta. I miei genitori mi sminuivano perché non volevano
che imparassi a fare troppo leva sulla mia bellezza, quindi mi guardavo coi loro occhi e non
mi sembravo un granché. I ragazzini mi corteggiavano continuamente e a me davano davvero
fastidio. Pensavo che mi stessero attorno per passatempo, non certo perché fossi bella. Ero
totalmente inconsapevole del mio aspetto, avevo una sensualità innocente che turbava tutti.
Incontrai Dino Risi, una quindicina di giorni prima che morisse, ero struccata, spettinata,
tornata, dopo tanti cambi di look, ai colori che avevo da piccola, e lui mi disse: “Da
bambina sarai stata la perversione di ogni pedofilo”. È vero. Scatenavo pulsioni
incontrollabili, morbose. Mi succede ancora oggi, inconsapevolmente. E la morbosità non è
una lusinga, ma la premessa dell’odio. Chi non mi possiede o non riesce a gestirmi, finisce
per detestarmi. Mi è capitato con uomini, donne, perfino col mio gatto Pepito. Ma lui non ci
penso proprio a lasciarlo.
Ero prorompente di indole. Non mi vergognavo a esibirmi, lo facevo a casa, alle recite,
ovunque si creasse l’occasione. Mio padre aveva comprato una delle prime cineprese in
commercio e dal mio quindicesimo giorno di vita aveva ripreso tutto quello che facevo.
Sono cresciuta con una telecamera in faccia e l’ho sempre vissuta come qualcosa di
familiare. Il problema è che tutti mi volevano ridimensionare, dalle suore, che all’oratorio
mi assegnavano sempre parti maschili o castissime, alle insegnanti di danza che ai saggi, per
la gavotta, mi attribuivano non il ruolo di dama ma quello di cavaliere.
Mai un tutù. La mia esplosione inevitabilmente avvenne al liceo, dove portai la bellezza
appena scoperta all’esasperazione, girando vestita come una battona. Mi piaceva essere
sopra le righe, d’altronde il mio idolo non era la Carrà ma Amanda Lear.
Se il mondo di mia madre poggiava su noi tre, il mio mondo ideale era fuori da lì. La
famiglia la vivevo come una gabbia. Lei leggeva i miei diari, controllava ogni mio passo,
non mi permetteva di andare alle gite scolastiche, mi seguiva alle manifestazioni per
sgridarmi davanti ai compagni, mi chiudeva in stanza per non mandarmi all’occupazione. Al
liceo artistico ero diventata una leader, promotrice assidua di assemblee e comizi, un po’
perché non avevo voglia di studiare, un po’ perché non si poteva rimanere indifferenti a ciò
che stava accadendo: gli anni Settanta erano una continua fioritura di idee, la
partecipazione, la voglia di stare insieme e di farsi sentire sembravano aver contagiato i
giovani, e allo stesso tempo le idee degeneravano nella lotta armata, ci spaventavano.
L’anno del rapimento Moro avevamo scioperato talmente tante volte che le classi
risultarono non classificate in quasi tutte le materie.
Eravamo scesi in piazza per l’emancipazione femminile e per i diritti degli studenti,
personalmente anche per evitare le ore di lezione più noiose e le materie in cui ero più
debole. Avessi messo nello studio un quarto dell’energia che sprecavo per il picchetto sarei
diventata un’astrofisica. Se non c’erano motivi per scioperare li inventavo di sana pianta,
come quando, per saltare l’interrogazione di matematica, denunciai le condizioni igienico-
sanitarie dell’istituto ottenendo un’evacuazione di massa. In fondo quell’anteporre fini
personali a fini sociali sarebbe stata la prassi di quasi tutti i politici a venire.
La tessera della FGCI me la fece Piero Fassino, fisicamente identico a oggi, come Marco
Travaglio, che già all’asilo, con il grembiulino azzurro, era dispettoso e in giardino mi
tirava il fango addosso.
Appena mio padre trovò la tessera la stracciò, perché era sì comunista ma un comunista dal
temperamento anarchico, contrario agli inquadramenti e alle costrizioni, mentre mia madre
giocava di sorpresa, spuntando da dietro un cespuglio durante un corteo per staccarmi un bel
ceffone davanti a un ragazzo dai lunghi capelli biondi di nome Marco Rizzo, decisamente
diverso da oggi. Non c’era verso di trattenermi, volevo apparire, stupire, ossessionare gli
altri, provocare, ferire e affermarmi. Ero scalmanata e senza difese.
Il lavoro fu la mia salvezza, una telecamera in una piccola stanza mi bastava per sognare in
grande. A quattordici anni andai a lavorare a Telestudio, a quindici a GRP, Giornale Radio
Piemonte, dove il sabato e la domenica facevo anche la segretaria, prendevo le dediche per
il DJ e cinquecento lire l’ora. Un giorno la direttrice convocò in ufficio me e Piero
Chiambretti, anche lui agli esordi e, per evitarci delusioni future, ci licenziò in tronco
perché riteneva che non avessimo la stoffa. Ci volle un vero talento per individuare, tra tutti,
gli unici due che poi avrebbero avuto successo. Tuttavia io, l’enfant terrible, non mi sarei
più fermata davanti a niente. Passeggiavo davanti alla sede RAI in minigonne e tute attillate
per farmi notare, lavoravo insieme a travestiti, bellissime trans e gay in spettacoli tipo
burlesque, mi ispiravo a Veruska, mi sentivo Grimilde e non Biancaneve, facevo le
imitazioni di Patty Pravo e Loredana Berté nei locali, poi all’uscita mio padre mi aspettava
a fari accesi nella FIAT 128. Mi vergognavo, ma lui non mi lasciava alcuna scelta.
Nel 1979 fui eletta candidata italiana a Miss Universo e lui mi fece rinunciare al titolo,
terrorizzato dall’idea che prendessi troppa consapevolezza della mia bellezza e la usassi
per farmi strada. Più mi soffocavano, più aumentava il mio bisogno di apparire peggio di
quella che ero. Giravo in autostop, sempre vestita da battona – ancora oggi mi domando
come abbia fatto a uscirne indenne –, rientravo allo scoccare della mezzanotte e mia madre
mi saltava addosso come una pantera, sragionava, minacciava di farmi internare, mi
picchiava. Allora esageravo, mi fidanzavo con soggetti pessimi, tipo Michele, un
tossicomane a cui regalai la catenina d’oro di mia nonna Maria. Ci tenevo molto e lui se la
vendette per una dose. Fu lui a infilarmi in gola il primo acido; stetti malissimo, tornai a
casa completamente fusa e, mentre promettevo a me stessa di non ripetere l’esperienza, mi
sconvolgeva che mia madre non si accorgesse dello stato in cui ero. In fondo tutto ruotava
intorno a lei. Facevo le cose per e contro di lei.
Mi attiravano persone che le somigliavano, che passavano senza vie di mezzo dal non
lasciarmi respirare allo sparire del tutto, perdevo la testa per i fuori di testa, gente che poi
ha fatto una fine tremenda, incontrando sul proprio cammino qualcuno che li ha ridotti
peggio di quanto loro avevano tentato di ridurre me. A un passo dal baratro mi salvavo
sempre. L’ultimo dispetto da minorenne fu che non mi diplomai. Frequentai regolarmente
l’anno scolastico e poi non mi presentai agli esami di maturità, commettendo un sacrilegio.
24

Francesco
Quando qualcuno nasce anche tu rinasci,
perché forse lui rivivrà i tuoi stessi sogni.

GRAZIA

La prima vacanza da sola fu a diciotto anni e un minuto. Il tempo di fare la valigia. Mamma
me lo aveva proibito, ma io partii ugualmente per la Puglia con tre amici e il mio
fidanzatino Gianni, un pellicciaio, aspirante stilista, dall’aspetto molto glamour che di solito
girava con un alano di nome Alan. Aveva la bellezza di un manichino e molta ambizione, ma
la sua famiglia era migliore della rappresentazione che lui ne dava, gente pragmatica che
aveva lasciato Fasano, nel brindisino, per Torino, emigranti che avevano fatto strada con
sacrificio. Suo padre mi raccontava di quanta fatica fosse costata metter su l’azienda di pelli
e che, appena arrivati nella grande città del Nord, i tre figli erano stati rasati e cosparsi di
catrame in testa a causa dei pidocchi: mi parlava di una Torino inizialmente ostile e
umiliante. In effetti anche il più aperto di mentalità, come mio padre, allora aveva coi
meridionali qualche problema di razzismo.
Io invece non avevo pregiudizi, anzi mi intrigava di più quello che veniva osteggiato. Tutto
era meraviglioso in quel viaggio a Sud, anche stare schiacciati in cinque per mille
chilometri dentro una Mini Minor. Respiravo l’aria a pieni polmoni, mi allontanavo da casa
e dall’idea di tornarci. Il legame con Gianni finì poco dopo il rientro a Torino, mi fece
rinunciare a tutto ciò che lo rendeva geloso – sfilate, serate, esibizioni – e quando ottenne
quel che voleva mi lasciò perché non mi riteneva più interessante.
Ma gli uomini, si sa, amano il rimpianto, così, quando seppe che avevo cominciato a
frequentare Franco Oppini, mi faceva la posta sotto il balcone per convincermi a ritornare
con lui. Conobbi Franco al teatro Alfieri, finito lo spettacolo dei Gatti di Vicolo Miracoli;
subito scoppiò una grande passione e una grande pancia visto che nel giro di due mesi
rimasi incinta. Volevo tutto e subito, compreso un figlio, se capitava.
Sapevo che sarebbe stato maschio, avevo deciso il suo nome ancor prima di chiedere a
Franco se avrebbe voluto tenerlo, perché un figlio è un dono e avrei portato avanti la
gravidanza a qualunque costo. Franco mi stette accanto, per il matrimonio mi lasciò
addirittura scegliere, per ripicca e orgoglio, la chiesa in cui ero considerata la pecora nera.
I miei tirarono un sospiro di sollievo pensando: “È incinta, si sposa, si darà una calmata”.
Di lì a poco diventai madre, senza essere pronta.
La nascita di Francesco coincise con un periodo in cui la mia carriera cominciava a
decollare, ero talmente viziata che non sapevo cuocere un uovo, lui piangeva in culla e io
fuori, disperata. Sentivo mia suocera bisbigliare a Franco: “Te lo dicevo io che era troppo
giovane”. Ero schiacciata dalle responsabilità, avevo vent’anni e, appena uscita da una
gabbia, me n’ero costruita un’altra con le mie stesse mani. Volevo evadere e cavalcare il
mio successo, così lasciavo il bambino alle tate, ai nonni e allo zio Ruggero, talmente bravi
che, invece di giudicarmi male, facevano l’impossibile per distrarlo dalle mie assenze. Non
sono stata presente, almeno finché non mi sono separata da mio marito, otto anni dopo, cioè
quando ho cominciato a considerare l’essere madre una scelta personale e non un obbligo.
I miei genitori furono spietati con me appena li informai del divorzio: se avessi ucciso
qualcuno, mi avrebbero trattato sicuramente meglio. Furono durissimi con me, quasi
bacchettoni. Mio padre mi tolse il saluto, nonostante avesse assistito a liti furibonde fra me
e Franco e fosse lampante che non c’era speranza di ricostituire la coppia; mia madre non
faceva che alimentare i miei sensi di colpa dicendo che il bimbo assorbiva i nostri
malumori e si metteva il naso da pagliaccio per farci ridere. Si prodigava per salvare mio
figlio e non ricordava che con me non era stata poi così tenera. Quando mi sono risvegliata
dal torpore, ho cercato di recuperare il rapporto con Francesco e sono diventata come tutte
le madri, ansiosa, preoccupata, insonne fino a che non sento la chiave girare nella toppa.
Farei qualunque cosa per lui, perché ai figli bisogna solo dare e non chiedere.
Ci discuto, lo rimprovero, ma ho cercato di stargli vicino nei momenti peggiori e in parte
siamo cresciuti insieme. A diventare madre si può imparare. Ho perso anni importanti della
sua vita per dedicarmi alla mia carriera e ai miei amori, è irrecuperabile il tempo che non
gli ho dedicato. Non sono stata un granché, eppure mio figlio è un ragazzo straordinario: non
somiglia né a Franco né a me ed è meglio di tutti e due.
25

Faccia da mascalzona
Penso che il rancore verso la gioia
altrui sia fortissimo, l’invidia
ha sempre bisogno di essere
vendicata per essere placata.

GRAZIA

Il teatro per me era un’ottima terapia, mi faceva sfogare e vivere le mille vite che avrei
voluto. In parrocchia, il mio primo ruolo fu la Cecily Cardew de L’importanza di chiamarsi
Ernesto, distante da me ma utile a farmi scoprire Oscar Wilde, i cui aforismi mi
accompagnano da allora come un’arma di difesa.
Portavo in scena Quarant’anni di scenette al Teatro Eliseo di Roma con Paolo Panelli
quando una sera, dopo lo spettacolo, venne a salutarci Federico Fellini accompagnato da
Giulietta Masina. Le gambe mi tremavano molto più che sul palco. Fellini mi guardò e
sentenziò: “Bella e brava”. La Masina gli fece eco a metà: “Bella, sì”. Ci rimasi malissimo.
Non aveva notato altro che il mio aspetto fisico e ci teneva a sottolinearlo. In fondo ero una
ragazzina che aveva tutto da imparare, è vero, ma un giudizio così lapidario da una signora
come lei proprio non me lo aspettavo. Tutto serve, chi si espone deve imparare presto a
incassare.
Dalle sfortune sono nate tutte le mie fortune. Non avevo corsie preferenziali, mi presentavo
a tutti i provini e quasi sempre li passavo, senza poi andare molto oltre. Feci la valletta a
“Ok il prezzo è giusto” con Gigi Sabani e a “Super Record” con Cesare Cadeo,
l’annunciatrice, l’attrice, la cantante di brani in inglese ad “Azzurro” e al “Festivalbar”,
l’inviata per Enzo Tortora, finché approdai a “Galassia 2” di Gianni Boncompagni, che si
rivelò un clamoroso flop: insomma partivo con grandi slanci e finivo in vicoli ciechi. La
Endemol mi scelse per condurre il quiz televisivo “La coppia del mondo”, che chiuse nel
giro di due puntate, e così considerai persa la mia grande occasione. Piangevo
ininterrottamente chiusa in stanza e mia madre mi rassicurava: “Non ti preoccupare, sei in
gamba, verrà una cosa bella”. Non so perché ma le credetti, anche se le sue parole non
avevano alcun fondamento. Dopo sei mesi la Endemol mi richiamò proponendomi due
possibilità: o liquidarmi i soldi previsti dal contratto della trasmissione interrotta o cedermi
a Telemontecarlo. Finii a “Galagoal”, un programma che, secondo i calcoli, non avrebbe
visto nessuno, perché andava in onda in tarda serata e aveva una controprogrammazione
RAI molto forte. Di calcio non capivo niente, fu Paola Ferrari che mi addestrò e mi aiutò a
diventare accettabile: in più avevo il dono, come a scuola, di leggere tre righe e costruirci
su un discorso di un’ora. Adoravo entrare in quel santuario maschile e dominare gli uomini
dallo sgabello, intervistavo Maradona, Pelé, Platini, era tutto più simile a un sogno che alla
realtà. “Galagoal” divenne un trasmissione cult e il successo mi travolse letteralmente. Da
riserva passai a preziosa merce di scambio, Telemontecarlo mi barattava con le altre TV a
peso d’oro, ottenendo in cambio film ed esclusive.
All’improvviso ogni rivista parlava di me, le mie conferenze stampa erano strapiene di
giornalisti, il “New Yorker” mi dedicò un’intera pagina definendomi la donna più bella
d’Italia, su “Madame Figaro” fui descritta come la più potente, uscii su “Who’s who”, la
mia faccia e le mie gambe campeggiavano ovunque. Creavo contrasti, se Aldo Grasso mi
odiava, Beniamino Placido mi adorava, mi definiva “l’Aube” della TV, d’altronde lui
sapeva rendere poetico tutto ciò che descriveva, era una sorta di Almodóvar della critica.
Con il successo conobbi personaggi di ogni genere, da Bloomberg ad Alain Delon – che
ancora mi indica come l’unica donna che lo fece svenire –, capi di Stato, imprenditori,
credo di aver stretto le mani di chiunque e di essere stata ininterrottamente ospite a cene.
Cominciarono ad arrivarmi telefonate improbabili, come quella dell’avvocato Agnelli, che
avevo sempre immaginato impegnato in chissà quali conversazioni al vertice e invece si
divertiva, dandomi rigorosamente del lei, a parlarmi di gossip e a chiedermi se avessi una
storia con qualcuno dei suoi calciatori, uno in particolare, Gianluca Vialli, durante i
Mondiali del ’90. Boniperti scrisse a mio figlio Francesco, inviandogli una maglia della
Juve: “Ti mando questa maglia della Juventus sperando che non diventerai come la mamma,
così da grande non dovrai soffrire”: sì perché, nonostante tutte queste attenzioni, io
continuavo a tifare per il grande Toro.
La fama arrivava sotto forma di valanga: copertine, inviti, ingaggi per la conduzione del
“Festival di Sanremo” o di “Domenica in”, insomma più di quanto la mia fantasia da
bambina fosse riuscita a elaborare. Mia madre aveva avuto ragione. Era bastato credere
fermamente che sarebbe arrivato qualcosa di bello per farlo capitare davvero. La tenacia
arriva dove la fortuna non può. Alla fine Fellini era stato lungimirante e, a una decina d’anni
da quell’incontro al Teatro Eliseo, mi ritrovai a instaurare con lui un bellissimo rapporto.
Appena lo menzionavo in TV, lui mi telefonava, aveva preso a scrivermi lettere, mi propose
di fare un film che poi non andò in porto, mi chiamava “faccia da mascalzona”. Aveva un
modo di parlare etereo, suadente, prestava attenzione a tutti senza distinzioni, era gentile e
poetico, direi soprannaturale. Non so come sia Dio, ma io me lo immagino con la sua faccia.
26

Il conto, grazie
Essere o non essere?
Essere perbacco!
Finché si può.

GRAZIA

Facendo la spola tra Milano e Roma lasciai completamente Torino e i miei genitori, che
erano felici per la mia carriera ma molto preoccupati, come è sano che sia. Il successo è un
vortice senza appigli, ti inghiotte e ti gonfia di egocentrismo e narcisismo, è difficilissimo
comprendere cosa ti sta succedendo mentre ti sta succedendo, ancor di più se vedi la realtà
attraverso un tale specchio deformante.
Il periodo d’oro era in realtà uno stordimento continuo dove quanto accadeva, sia di
positivo che di negativo, aveva dimensioni sproporzionate. Fino a un anno prima mi
barcamenavo tra vari lavori guadagnando appena per sopravvivere e ora fioccavano
proposte d’ogni sorta, mi si aprivano le porte della Sardegna e di Cortina, il jet set
internazionale era curioso di fare la mia conoscenza, i tipi più interessanti e i più patetici
erano ai miei piedi. L’ingresso a casa di Marta Marzotto coincise con quello nell’alta
società, grazie a lei conobbi gli imprenditori Pietro Barilla, un signore di rare doti
intellettuali e di grande generosità che nel giro di cinque minuti mi regalò un collier di
Bulgari, Paola Sturchio, bellezza intensa e musa di scrittori, il maestro Riccardo Muti,
direttore d’orchestra fenomenale e stroncatore di finali di barzellette, Beatrice Jannozzi, la
“régine” delle notti romane con cui ancora oggi condivido vacanze e confidenze, Jacques
Chirac, Kevin Costner, Bruce Willis, Jack Nicholson e altri miti che alla conoscenza si sono
infranti, tipo Mel Gibson e Mickey Rourke. Conobbi anche Diego Della Valle,
indaffaratissimo eppure capace di ritagliarsi il tempo da dedicare ai suoi amici, che divenne
il più grande fan di mio figlio quando una sera, all’età di dieci anni, nella sua villa di Capri,
lo intrattenne con imitazioni di Fantozzi e una gara di pernacchie; a fine serata Della Valle
gli disse: “Francesco, sei il mio mito, domani vai in negozio e prendi tutto quello che vuoi”.
Per carattere non sono mai stata quella che partecipa alla festa finale, semmai partecipo alla
disfatta finale, trovo più interessanti i vinti che i vincitori, perché non sono attratta dal
potere e infatti non era per il potere che cedevo a nuove frequentazioni. Mi affascinavano
queste persone e scoprivo che le fortune dei ricchi spesso non nascono per caso, dietro c’è
dedizione e talento. Non nego che in qualche caso i miei principi abbiano vacillato davanti
all’opulenza.
Ero stata ingaggiata per tre serate sulla riviera romagnola a Capodanno del ’91 e, per subire
coretti maschili, trombette nelle orecchie e gente ubriaca che tirava lattine, avrei guadagnato
sessanta milioni. Un imprenditore torinese quella stessa sera mi voleva a tutti i costi al suo
tavolo a Cortina, così staccò tre assegni da venti milioni l’uno mettendomi in crisi. Il mio
manager, Maurizio Totti, mi consigliò di rifiutare perché avevo preso impegni altrove e non
era serio dare forfait dopo che ero stata annunciata. Mi trovai d’accordo e, per onorare i
miei contratti, rimandai indietro i tre assegni con tante grazie e l’imprenditore rilanciò la
cifra a centoventi milioni. Mi venne un’ansia tremenda e tuttavia rinunciai di nuovo.
L’imprenditore la prese come una sfida, offrì duecentoquaranta milioni per avere me e il
mio fidanzato al suo tavolo il 31 dicembre, una somma da capogiro, talmente esagerata,
talmente indicativa del suo disprezzo per il denaro che quasi meritava di essere accettata.
Provvidenzialmente non dovetti scegliere perché, nel frattempo, la storia era diventata di
pubblico dominio ampezzano grazie alla riservatezza di un comune amico che lavorava per i
servizi segreti – talmente segreti che raccontò tutta la faccenda al Poste di Cortina –, quindi
il riccone, comprendendo il rischio di cadere nel ridicolo e nella rete del fisco, mollò la
presa.
Chiunque sa resistere alle tentazioni, se sono rivolte agli altri però. Non so in quanti, del
mio campo e non, avrebbero fatto sfumare l’affare: di sicuro, se avessi accettato di cenare
con un uomo a pagamento, mio padre e mia madre l’avrebbero considerata una forma di
prostituzione.
Per motivi ideologici rifiutai un contratto di nove miliardi di lire offertomi da Silvio
Berlusconi.
Invitò ad Arcore me e il mio compagno d’allora, Stefano Bonaga, per propormi tre
programmi sulle sue reti, proprio nel momento in cui stava fondando Forza Italia, e io, già
riluttante ad accettare, mi lasciai convincere da Stefano a non firmare per via della mia
posizione politica e per coerenza con la mia storia familiare. Così andai all’appuntamento
con l’atteggiamento di chi si appresta a incontrare il demonio, non rivolsi quasi la parola al
padrone di casa e mi comportai in maniera odiosa, mentre lui con me fu molto gentile, con
Bonaga si diedero grandi pacche sulle spalle al punto che il Cavaliere mi salutò dicendo:
“Impari da lui la simpatia”. Rimasi convintamente senza lavoro e convintamente di sinistra e
per questo finii nella barzelletta di Giobbe Covatta: “C’è Alba Parietti che continua a dire:
‘Sono comunista, seguite il mio esempio!’. Bertinotti l’ha presa in parola e si sta rifacendo
le zizze”.
Malgrado le rinunce mi capitavano grandi occasioni. A metà degli anni Novanta intervistai
il segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros-Ghali, e per farlo mi preparai a lungo,
cosa che non mi fu perdonata perché infrangevo l’immagine di oca giuliva. Non veniva
sopportato il mio doppio ruolo: una donna o era bella e automaticamente scema o
intelligente e racchia. Ogni volta che facevo una citazione colta mi accusavano di voler fare
l’intellettuale, come se citare Cristoforo Colombo equivalesse a voler fare il navigatore.
C’era corporativismo, l’intenzione di farmi rimanere al posto che mi veniva assegnato, e
non mi era concesso alcun contraddittorio, mai che uno di quelli che mi definiva idiota si
degnasse di confrontarsi con me pubblicamente: certo sarebbe stato imbarazzante scoprire
di essere più stupido di un’idiota. Quale sarebbe dovuto essere, poi, il mio posto? Se
andavo a Sanremo si arrabbiavano i cantanti, se osavo intervistare qualcuno si risentivano i
giornalisti, se mi occupavo di sport si infuriavano gli addetti ai lavori, se mostravo le cosce
si sollevavano le casalinghe. Profuga da ogni categoria, in quell’intervista fui tentata di
chiedere asilo all’ONU.
Ci vuole molta forza per sopportare i giudizi sommari, ma io avevo la coscienza a posto, mi
ero guadagnata tutto da sola e il pubblico mi voleva, comprava qualsiasi giornale parlasse
di me e per oltre sei anni fui in assoluto il personaggio più coperto dalla stampa.
Mi proposero di recitare in Agente 007 - GoldenEye con Pierce Brosnan e, giunta nella
terna finale delle candidate, non venni scelta perché non parlavo bene inglese; la famiglia
Gheddafi mi voleva come testimonial della Tamoil, il tennista Yannick Noah durante una
partita smise di giocare per guardare me seduta sugli spalti provocando l’ilarità generale,
Simon Le Bon al “Festival di Sanremo” fece i capricci e minacciò di non salire sul palco se
non gli avessero presentato me, quindi fui costretta ad andare nella hall del suo albergo,
dove centinaia di ragazzine battevano le mani sui vetri. Una sera mi chiamò a casa Vasco
Rossi, avevo gente a cena e volevo tagliare corto, ma lui era in cerca di ispirazione e mi
tenne tutto il tempo al telefono, lo sentivo strimpellare dall’altra parte della cornetta. Non
ho mai capito quale canzone ne fosse uscita, credo Quanti anni hai?, andando per esclusione,
ma è solo un’intuizione, Vasco non mi ha mai dato la soddisfazione di confermarlo.
Insomma, ero una calamita, prima o poi tutti venivano a me. La consacrazione avvenne
quando Gianni Versace scelse di vestirmi: fu un onore perché lo consideravo il più grande
stilista del pianeta, e fui ancora più lusingata di diventargli amica, di accompagnarlo in
barca con Naomi Campbell e alle feste con Elton John. Fu ucciso il giorno in cui io mi
operai di cancro, non mi reggevo in piedi altrimenti per nulla al mondo avrei rinunciato a
essere presente al suo funerale. Donatella Versace mi regalò poi gli abiti destinati a Lady
Diana e rimasti inutilizzati dopo la sua scomparsa, e mi ritrovai figlia di partigiano con
vestiti da principessa, un po’ come era accaduto con le “scarpe del re”.
Con tutto quel successo, come non montarsi la testa?
Ho commesso molti errori in quegli anni, per esempio con “Domenica In”: ero giovane,
vincente, supponente e credevo di poter improvvisare. Arrivavo alle prove all’ultimo
minuto, non mi concentravo abbastanza e quando me lo facevano notare non ci credevo,
pensavo si trattasse solo di invidie e infamità.
Lavoravo molto e non rinunciavo a nottate balorde, perdevo il controllo di me,
pentendomene la mattina seguente. Potevo avere tutto, in quel momento, e mi sono bruciata
molte possibilità, in seguito ho dovuto fare mille sforzi per ottenere molto meno. Ero capace
di sparire per un mese, indaffarata nelle pubbliche relazioni, in vacanza alle Baleari, una
mamma in fuga nelle discoteche di Ibiza, a sorseggiare drink con Julio Iglesias e Roman
Polanski. Mi accorsi di quanto mi fossi lasciata andare all’irresponsabilità una mattina,
semplicemente guardando il visetto di mio figlio, con un sorriso mezzo impaurito, quasi gli
mancasse la confidenza per corrermi incontro. Capii che avevo già tutto quello che volevo e
diventai l’opposto di quella che ero: la prima ad arrivare agli appuntamenti, disciplinata,
integralista, inattaccabile, la gendarme di me stessa.
Sono stati anni surreali, un caos, in fondo preferisco oggi, vivo meglio ora che ho saldato i
miei debiti. Ne ho saldato anche uno, piccolo, con mio padre. Con quindici milioni
guadagnati a “Domenica In” ho finanziato i giovani che lavoravano alla pubblicazione del
catalogo dei diecimila libri, in trentacinque lingue, che compongono la biblioteca di Tolstoj,
custodita nella casa museo a Jasnaja Poljana. Chi guadagna tanto deve essere generoso più
degli altri, e poi Ceschino adorava Tolstoj, era il minimo che potessi fare per dimostrare
che, sebbene non mi fossi diplomata, avevo tuttavia a cuore la cultura. Da piccola
fischiettavamo insieme Oci ciornie, lo vedevo spesso seduto in poltrona col naso infilato
nei tomi della letteratura russa, la sua lettura preferita insieme a quelle mattutine della
“Busiarda” e dell’“Unità”.
Se in quei giornali avessero scritto che i coccodrilli volano, il suo margine di critica
sarebbe stato: “Be’, i coccodrilli magari non volano... ma fanno salti molto alti!”. A parlare
di comunismo gli venivano gli occhi lucidi.
27

La razza inferiore
A ripercorrere le vicende dei miei antenati,
l’uomo più modesto di allora,
comparato a uno di oggi, mi sembra
un gigante di coraggio e valore.

GRAZIA

Naviga e Cella mi seguivano da lontano, con due atteggiamenti opposti: papà si fermava
all’edicola a commentare insieme all’intero quartiere le notizie che mi riguardavano, ero la
sua rivalsa, l’uomo che avrebbe voluto come figlia, mentre mamma stava a casa e non ne
parlava mai. Anzi continuava a tenermi con i piedi ancorati a terra e, quando al telefono le
annunciai che avrei condotto “Serate mondiali”, rispose soavemente che anche la figlia
della parrucchiera aveva fatto qualcosa di simile. Mi prendeva in giro, se i vicini si
complimentavano per la copertina di una rivista, che il più delle volte mi ritraeva seminuda,
lei rispondeva: “Una gran bella espressione, vero?”. Se mi lodavano ironizzava, se mi
attaccavano però mi difendeva. È sempre stata una donna morigerata: la gonna sotto il
ginocchio, le scarpe comode, l’acconciatura composta. Non si è mai spinta a parlare di
sesso o di seduzione, eppure non mi impediva di spogliarmi, anzi, prima che avessi uno
stilista, mi cuciva lei anche i vestiti più sexy. Non partecipavano alla mia quotidianità, non
accettavano gli inviti alle cene o alle feste, erano fieri e mai invadenti.
Graziella non era orgogliosa dei miei fidanzati, li trovava brutti, non gli piaceva il profilo
maya di Bonaga del quale io invece ero innamoratissima. Nei sei anni di relazione Stefano,
un uomo di indiscusse qualità intellettuali e vastissima cultura, anche se usate a scopi
narcisistici più che pratici, manipolava la mia testa completamente, mi consigliava e io mi
affidavo a lui ciecamente, come un cliente al suo mago, senza la minima capacità di mettere
in discussione tutto ciò che mi diceva, come ipnotizzata. E lui non mi offriva vie di mezzo: o
mi lasciava sola o mi costringeva a una vita faticosissima, estremamente mondana.
Gli piaceva esibirmi come un trofeo, era il padrone di casa che sfoggiava agli ospiti il suo
gingillo, pretendeva che mi mettessi i tacchi alti anche a Cortina, sul ghiaccio, in cucina.
Non so se mi amasse veramente, credo di essere stata più il riflesso della sua vanità. Gli
chiedevo di darmi di più, di dimostrarmi maggiormente il suo amore, mi sentivo insicura
fino a rischiare di trasformarmi da pantera in burattino, incapace di comprare anche un paio
di scarpe senza il suo consiglio, quasi che un intellettuale dovesse avere un parere su
qualsiasi argomento. In ogni caso, stando con lui, il mio valore intellettuale cresceva a
dismisura agli occhi della gente. Stefano mi ha aiutata a entrare nel cuore delle persone non
solo come un’icona sexy, ma anche come una paladina dei diritti civili: mi sentivo una sorta
di Erin Brockovich. Grazie a lui ho avuto la possibilità di conoscere grandi intellettuali
come Umberto Eco che, insieme a Giorgio Cefis, intratteneva con me uno scambio di
barzellette davvero agghiaccianti, del quale una volta fu giudice addirittura Ferruccio De
Bortoli.
Quando lasciai Stefano per Christopher Lambert la sua divenne una persecuzione, mi
chiedeva di ripensarci, cercava di ingelosirmi, mi faceva sapere in ogni modo che stava
malissimo, ma era troppo tardi, non sopportavo quell’ostentazione del dolore, mi irritava la
sua pretesa di attenzione. Scrisse il libro Sulla disperazione d’amore, che non ho letto, visto
che quando ero pazza di lui non mi aveva dedicato niente di importante. Questo tipo di
rincorsa non porta in genere ad alcuna vittoria, l’unico motivo per cui chi è stato amato si
innamora di chi lo ha amato è ripristinare lo squilibrio iniziale e affermare il proprio
potere. Non è stato così naturale sottrarmi al gioco ma, quando ci sono riuscita, l’ho fatto in
maniera definitiva e senza appello, come spesso mi accade dopo periodi di lunga
sudditanza. A quel punto, se l’uomo che non ami più ti manda cento rose rosse, ha un unico
effetto su di te: costringerti a trovare abbastanza vasi dove metterle.
Tutte le attenzioni che non avevo ricevuto da Stefano me le diede Christopher Lambert, uno
dei miei modelli maschili sin da adolescente. Lo avevo intervistato a Sanremo quando però
avevo occhi solo per Bonaga quindi ci feci poco caso; poi, da single, me lo ritrovai davanti
in occasione del film Nirvana, prodotto dal mio grande amico ed ex manager Maurizio Totti,
che Salvatores stava girando nell’ex Alfa Romeo del Portello di Milano, e già sapevo che
mi sarei buttata dal quinto piano senza paracadute. La prima volta che ci parlammo mi sfotté
perché ero stata con un filosofo, poi si dimostrò un tipo spassosissimo, capace di stare in
compagnia e molto premuroso nel privato. Mi ricopriva di bigliettini e telefonate d’amore,
diceva che voleva una figlia femmina da me, che ero la donna più bella del mondo.
Forse ogni uomo lo dice alla sua donna, ma lui lo faceva davanti a Claudia Schiffer, e
ammetto che fa un certo effetto. Mi sentivo Cecilia de La rosa purpurea del Cairo: l’attore
era uscito dallo schermo e si era innamorato della sua spettatrice, roba da non crederci. È
stato il momento emotivamente più bello della mia vita, sei mesi di convivenza perfetta e la
realizzazione del sogno adolescenziale del rapporto.
Ridevamo come bimbi, ci baciavamo ovunque, in ogni istante, fregandocene del mondo che
ci guardava e forse invidiava. Volevo l’invidia degli altri, ma la pagai molto cara,
scoprendo che le delusioni sono sempre proporzionali alle illusioni. Quando tornò a Parigi
e mi portò con lui, vidi come si trasformava con i suoi amici, rimasi sconcertata nello
scoprire che si plasmava a seconda della situazione, la subiva, diventava l’uomo del capo.
Non ero dentro La rosa purpurea del Cairo ma dentro Zelig e lui era il camaleonte che
prendeva i colori dei dintorni, l’immagine proiettata degli altri. A sua discolpa devo dire
che mi aveva avvisata. Usava spesso l’espressione “io sono un cane” di cui in un primo
momento non ero riuscita a comprendere il significato: pensavo che si riferisse al fatto che
lo dominavo e che mi avrebbe seguito ovunque. Gli uomini ti danno sempre indicazioni
sulla verità, ma in genere o non sei pronta a riceverle o presumi che con te sarà tutta un’altra
storia.
Capii che la trama del film stava cambiando, che l’idillio stava finendo e, siccome non ho
mai scelto una strada di mortificazione, lo lasciai improvvisamente, stando malissimo. Una
donna può scegliere di amare chiunque, il peggiore, ma non uno che mente sulla propria
identità. È un reato. Me ne andai alla velocità della luce e fu difficile tenere il punto perché
Christopher è uno che ti confonde, anche dopo anni, se lo rincontri, sembra che non abbia
vissuto bene senza di te.
Non tollero che mi pugnalino alle spalle, accetto solo il duello faccia a faccia, dove c’è
rispetto dell’avversario, e nei rapporti d’amore l’altro è un avversario a tutti gli effetti,
perché ti può ferire a morte. Nemico sì, Giuda no. Christopher voleva essere come io gli
avevo descritto la figura di mio padre, lo aveva recitato egregiamente, un’interpretazione da
Oscar per il miglior film della stagione. Ci misi tre anni per dimenticarlo e ora è tornato a
essere un buon amico, uno che insieme alla sua compagna, Sophie Marceau, mi fa piacere
invitare alla festa per i miei cinquant’anni.
Vero, tutte le attenzioni che non avevo ricevuto dall’uno me le aveva date l’altro, ma ora mi
è chiaro che compensare non equivale a completare.
Un altro “Highlander” capitò sul mio percorso, è tipico imparare dagli errori per poi fare
con consapevolezza esattamente gli stessi. Era un uomo prestante, risoluto, affascinante,
molto serio e capace nel suo lavoro, che già negli anni Ottanta mi aveva corteggiato e al
quale avevo volentieri sbattuto la porta in faccia, finché vent’anni dopo non persi la testa
per lui, seduttore che aveva affinato tecniche infallibili, quasi un professionista dell’amore,
personalità dal sangue freddo che mi rincorreva da anni perché ero una delle poche ad
avergli resistito, gran collezionista che mi desiderava non perché fossi io, bensì perché ero
un animale da esposizione più interessante di altri. Quando lessi Il narcisismo di Alexander
Lowen, mi venne il dubbio che l’autore del libro lo conoscesse personalmente. Mi resi
conto che non amava me, ma se stesso attraverso me, lo spogliai dell’idea che mi ero fatta
di lui e vidi come realmente era: un manipolatore, spietato, molto a disagio con le persone
più forti o più potenti di lui, uno che si sapeva accattivare la gente e ostentava signorilità
vestendo gessati che sembravano disegnati per Al Capone, abbinandoli a cappotti sciancrati
di pelle e a cravatte e scarpe improbabili. Nonostante ciò, io provavo per lui un’attrazione
fisica sconvolgente e irresistibile. Sul piano adrenalinico e passionale è stato il rapporto
più coinvolgente della mia vita. Era come se fossi drogata. Uscivo da casa sua, salivo in
macchina, mi guardavo nello specchietto e cominciavo a tirarmi dei terribili schiaffi da
sola: come mi era potuto succedere?
Alla notizia che aveva posseduto una pelliccia di lupo con colbacco abbinato e avuto il
fegato di indossarla, mi liberai di ogni sentimento, come smagnetizzata. È strano come un
invasamento tale possa dissolversi per una sciocchezza e quanto dalle sciocchezze si
possano evincere grandi verità.
La bellezza che gli riconosco è quella di suo figlio, con il quale ho avuto da subito un
grande feeling e per cui nutro un grande affetto. Come sempre accade quando mi sveglio dal
torpore amoroso, mi diverto a segare i nervi scoperti dell’altro, so di preciso dove colpire,
come renderlo vulnerabile. Da allora noi due comunichiamo solo per massacrarci, è la mia
preda preferita, il serpente a sonagli a cui schiacciare la coda e far salire il veleno. Io Beep
Beep, lui Willie Coyote. Non gli presterei soccorso nemmeno se lo vedessi sotto le ruote di
una macchina, perché penserei che sta tramando qualcosa, con quelle ruote. A volte tento
subdoli riavvicinamenti non per sommersa passione, piuttosto perché la gara deve avere un
vincitore, ma nelle trappole non ci casca, visto che è abituato a farle. Ne rimarrà soltanto
uno.
L’eredità migliore che mi ha lasciato Christopher è Emanuelle De Villepin, sua fidanzata
quando frequentavano il collegio in Svizzera. Avremmo dovuto essere rivali invece ci
scoprimmo sorelle. È una di quelle persone che sono certa di aver incontrato in una vita
precedente, e in fondo è vero che le nostre sorti sono legate, visto che io e suo marito
Rodolfo siamo gemelli di culla, nati lo stesso giorno nella stessa clinica.
L’altro mio gemello è Cristiano De André, il fratello che non ho mai avuto e che conobbi
quando avevo diciannove anni. Ci somigliavamo anche fisicamente – stessi capelli, stesso
colore degli occhi –, soprattutto nelle foto da piccoli, tanto che una volta mi chiamò Dori
Ghezzi e disse: “Vuoi convincere tu Fabrizio che non siete in alcun modo parenti?”.
Cristiano aveva l’aspetto di un angelo e, se avessi dovuto scegliere in base alla bellezza, la
mia storia con lui sarebbe cominciata all’epoca. La verità è che scappai dalla sua fragilità,
provavo una passione viscerale e una gran paura. Ci siamo rincontrati due anni fa, in un
momento in cui avrei avuto bisogno di occuparmi di lui per distrarmi dal mio squilibrio, ma
lui viaggiava in direzione contraria, vivendo la sua sensibilità appieno, senza freni.
Risolveva esprimendosi, come un artista vero, andando anche verso il suo peggio, al
contrario di me che forse non sono un’artista, piuttosto un’abile professionista dello
spettacolo e ho imparato a vivere bene solo con la mia parte migliore. Gli ho voluto sempre
bene, nel profondo, sebbene i nostri incontri siano stati discontinui. Cristiano ha sempre
avuto per me una fortissima attrazione, dice di avermi idealizzato; ma quando per entrambi
la figura ideale si è materializzata in un rapporto, tutto è stato reso impossibile dalla realtà
delle nostre vite. Me ne innamorai la prima volta che lo vidi in concerto, con trent’anni di
ritardo. Rimasi sbalordita dal suo talento, rapita dalla sua bravura.
Mentre altri su quel palco vedevano il fantasma di Fabrizio De André, io vedevo Cristiano,
non un replicante, non una proiezione, ma un artista dalle doti eccezionali, completo quanto
Faber e che mi colpiva molto più di Faber.
Cristiano non crede abbastanza nelle sue qualità, sulla sua identità pesa quell’ingombrante
figura paterna che lo condanna a ripercorrere un cammino già battuto, gli impedisce di
prendere una forma autonoma. Lui non sa che riesce a brillare di luce propria. Avrei voluto
prestargli i miei occhi e mostrargli cosa si arriva a vedere da lì.
Cristiano è uno che indaga i sotterranei dell’animo, cerca la verità fino in fondo al male,
sciupa tutto pur di entrare nelle zone torbide, si infila nelle situazioni peggiori per
comprenderle, segue direzioni melmose e io sono stata tentata di accompagnarlo. Abbiamo
la stessa tendenza all’abisso, io però preferisco rimanere sul ciglio e non trovare il coraggio
di scendere. È capace di enormi slanci, ti stordisce di affetto, sa tesserti poesie addosso ma,
al culmine della positività e dell’amore, ha bisogno di punirsi, distruggere tutto e tornare
indietro. È speciale; ci sono cose che accadono solo in sua compagnia, la sua curiosità,
l’estremismo che lo porta a essere tutto e il contrario di tutto, la sua pericolosa ricerca
esistenziale mi affascinano. Lui è tutto ciò che non sono riuscita a essere fino in fondo
perché ho bisogno di solidità. Resta il mio amico fragile, splendido, egoista e inaffidabile.
Viaggiamo paralleli, ci controlliamo dal finestrino, e ogni tanto ci ritroviamo nelle tante
stazioni della nostra vita. In fondo ci siamo amati sempre, ma non ci siamo amati mai.
Questa è la visione poetica.
Cristiano in realtà è Dottor Jekyll e Mr Hyde.
Una volta eravamo in macchina insieme e telefonammo ad Antonio Ricci che mi disse: “Ma
ti metti con i ragazzini?”. E io gli risposi: “Ma quali ragazzini, abbiamo la stessa età!”. E
lui: “No cara, tu credi che abbiate la stessa età, Cristiano avrà sempre tredici anni”.
In effetti Cristiano è un uomo che ha fatto della sua debolezza un’arma di attacco per poter
continuare a essere una persona irrisolta e non prendersi nessuna responsabilità nei
confronti degli altri. Ogni tanto, guardandolo, con quei suoi modi così bisognosi di tutto, mi
appare come un vampiro pronto a succhiarti il sangue con la sua dolcezza o le sue ripetitive
lagne, che assomigliano, per dirla in termini discografici, a un disco rotto e, come nei suoi
concerti, non sono mai degli inediti. Come aveva ragione Nietzsche quando diceva “difendi
il forte dal debole”!
È difficile che io riesca a lasciarmi andare sul serio in una relazione, eppure sono una donna
alla quale se chiedi di andare oltre ci va; il problema è che a quel punto gli uomini si
spaventano e fanno un passo indietro, prima ti implorano di sganciare i tiranti e, quando lo
fai, ti guardano come se fossi tu a portarli in quella direzione e in questo li trovo
estremamente vigliacchi. Esigono una grande passione, ma poi non sanno reggere il
confronto. Alcuni hanno saputo creare in me illusioni, che non avevo e non desideravo, tali
da provocare cadute inevitabilmente devastanti. In questo senso i politici sono come i
fidanzati: più è grande la promessa, più c’è da ben guardarsene.
Le mie storie di eterno amore hanno i giorni contati, è lo scotto che pago per essere femmina
con molte componenti maschili: o vogliono farmi da padre – e sono in esubero perché uno
ce l’ho e non teme paragoni – o entrano in competizione: quindi la relazione si fa o
incestuosa o omosessuale.
Molti pensano che sia una divoratrice di uomini, in realtà ho sempre sognato di essere
l’orgoglio delle donne, un’eroina di Quentin Tarantino, regista che adoro e che ho incontrato
ma, come puntualmente capita davanti ai miei idoli, non ho avuto il coraggio di avvicinare:
tanto, quando hai l’ansia da presentazione non esce mai nulla di intelligente dalla bocca. Mi
piacerebbe essere una delle DVAS di Kill Bill, non vuote bellocce da calendario o esili e
sprovvedute signorine da trarre in salvo, ma creature autosufficienti in grado di fare tutto e
bene. Se esiste una indubbia superiorità al mondo è quella delle donne sugli uomini. Il
problema è che davanti alle donne che ne sono al corrente gli uomini si sentono
depotenziati, devirilizzati, quindi per risollevarsi trasformano l’amore in sopruso. In questi
casi, se mi sento messa all’angolo, combino il danno e mi trasformo da creatura dolce e
tenera in una donna sadica e vendicativa, salto alla giugulare e infierisco, istigo fino
all’esasperazione. I miei uomini hanno desiderato tutti, almeno una volta, di ammazzarmi,
anche il più calmo, con una predilezione per lo strangolamento.
28

Creature speciali
In fondo siamo tutti un momento,
una piccola frase nel libro
del tempo e dell’universo.

GRAZIA

Le mie scelte sentimentali sono cadute spesso su persone disturbate, chi più chi meno, per le
quali volevo trovare delle quadrature. Statisticamente ho fallito. Resto però attratta da chi
stravolge la logica e offre punti di vista non comuni.
Ho imparato nel tempo ad apprezzare le diversità, anche prendendo esempio da persone
care. La mia amica Papù Sanguineti ha una sorella di nome Angie che soffre di un ritardo
mentale per un problema alla nascita, e da sempre la porta con sé, dal parrucchiere, alle
feste, in situazioni mondane, sul lavoro, dove è riuscita a fare una carriera eccellente, segno
che il disagio altrui dipende dal proprio. Con disarmante semplicità e leggerezza l’ha fatta
entrare nella vita di tutti noi, fino a farla diventare una presenza piacevole, desiderata,
insostituibile e a volte molto divertente. Angie è una bambina di dieci anni chiusa in un
corpo di sessanta, ha guizzi geniali e per me non è più “diversa”, ma speciale. Quando la
vedo mi chiedo che persona avrebbe potuto essere lo zio Aldo se lo avessimo voluto
scoprire.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, la mente è un luogo che ci appartiene e che dobbiamo
imparare a conoscere. Se viene trattata come un tabù si rischia di farla degenerare. Mi torna
sempre in mente la storia di Frances Farmer, stella anni Trenta del cinema e del teatro,
anticonformista e dal carattere turbolento, che fu rinchiusa in un ospedale psichiatrico,
stordita dai farmaci, torturata, immersa per ore in vasche di acqua ghiacciata, lobotomizzata.
Si confonde la profondità e l’irrequietezza con la malattia, arrivando a curare corporalmente
ciò che ha origine dallo spirito.
La pazzia la conosco, ci ho sguazzato e ci ho sofferto, è una tirannia che ho esercitato sugli
altri, un’arma che non voglio concedere agli altri per colpirmi, infatti sono una persona
estremamente controllata. Sono passata da quella di mia madre a quella di mio zio alla mia,
è diventata la mia amica-nemica, la mia seconda pelle, al punto che la prima volta dalla
psicanalista mi sono seduta e ho pensato: “Adesso se questa qui mi cura sono finita”.
Temevo di perdere quell’aria inquieta che rende affascinanti, quell’ombra che in realtà dà
una certa lucentezza, invece la psicanalista mi fornì gli strumenti per prenderne coscienza,
gestirla e convivere coi miei fantasmi.
La follia è un eccesso di sensibilità. Chi vede la verità nuda e cruda, la natura reale delle
cose, non può che impazzire.
29

Stato di Grazia
Ho sempre cercato e amato solo il vero,
questo forse è tutto il mio peccato.

GRAZIA

Il turno di Ceschino arrivò l’8 agosto 1997, non in volo né in battaglia, per una comune
ischemia.
Presi un aereo privato dalla Sardegna, partecipai al funerale e me ne tornai di corsa in
vacanza. Ero convinta che il rapporto con mia madre sarebbe cessato nel momento stesso in
cui lui se ne fosse andato.
Finito lui finite noi, non c’era altro a unirci, da parte mia esisteva un normale affetto filiale e
molto rancore. Quello che è successo poi ha dell’incredibile: l’ho capita. Un genitore così
non lo perdoni al momento, ma provare a capirlo è l’unica via d’uscita. Ho temuto tutta la
vita di diventare come lei finché non l’ho assolta da ogni imputazione. E perdonando lei ho
perdonato me stessa. Ho fatto questo scatto mentale, un clic che riaggiusta una vita, e con
un’immediatezza disarmante Graziella mi è apparsa in modo diverso, addirittura opposto,
con le sue ragioni, più che comprensibili. Era stata vittima prima di sua madre Lorenza che,
in buona fede, aveva riempito i figli di sogni fino a distruggerli, poi era stata vittima di mio
padre. Ecco il ribaltamento delle mie certezze. Per quarant’anni l’avevo considerata
colpevole di averlo cambiato, indebolito, allontanato da tutto e tutti, in realtà a rimetterci
era stata lei che avrebbe potuto fare la pittrice, la scultrice, la scrittrice, e invece era
rimasta una casalinga. Lei che era sempre un po’ nascosta, perché in primo piano c’era quel
vulcano di Ceschino, e quando arrivava lui, non c’era verso, le attenzioni erano tutte sue;
anche se stava zitto, fendeva l’aria con quel modo di camminare da poeta mentre mamma si
riduceva a un’ombra laterale. L’eterna seconda e, quando nacqui io, terza. La sua follia era
un modo per riprendersi i suoi spazi. Si sentiva esclusa da noi, si faceva vendicativa,
sottile, dispettosa.
La colpa era mia che per anni avevo parlato solo e soltanto di lui, avevo visto lui accudire
lei e non mi ero accorta che lei lo aveva ampiamente ripagato. Si amavano intensamente,
eternamente, e io, da figlia estranea alla loro intimità e da donna incapace di instaurare con
un uomo un rapporto così duraturo, non avevo capito nulla.
Quando Ceschino se n’è andato, lei ha recuperato personalità, si è rivelata una persona più
forte e risoluta di quanto sembrasse, e da tredici anni a questa parte si è instaurato tra noi un
rapporto bellissimo, dove io ho sostituito mio padre, io l’ho preservata, e oggi sono felice
che mio padre da piccola non mi abbia tutelata. Se l’avesse fatta rinchiudere, la mia vita
sarebbe stata distrutta, non avrei mai scoperto mia madre e lui, tutelando lei, in realtà ha
aiutato me.
Graziella è una donna speciale, lunare. Vive in piena leggiadria, in una dimensione fatata:
ha la sua pittura, la musica, suona l’organo, cura i tulipani, si commuove ad ascoltare il
violino di Uto Ughi. È capace di grandi tenerezze e si interessa a tutto quello che il mondo
ignora. I piccioni, per esempio. Lei li chiama passerotti, li nutre, non le importa che
tappezzino di guano il balcone.
Quando ero bambina, vivevamo a Torino in una bella zona al primo piano di un palazzo
senza giardino e con i servizi all’esterno. I condomini non volevano far entrare i gatti,
quindi lei fingeva di andare in bagno, calava il paniere sul muretto e li tirava su. Se i gatti
catturavano un topo e glielo portavano in premio, lei metteva il topo in una scatola, lo
curava e lo rimetteva in libertà.
Passeggiando per strada registra con gli occhi solo ciò che è invisibile agli altri. Un giorno
mi fece notare una madre anziana che carezzava suo figlio down. Erano lì davanti a me e io
non li avevo visti, nessuno li aveva visti, erano come trasparenti tra la folla, birilli da
dribblare in corsa. Per mia madre, invece, esistevano soltanto loro. Durante il telegiornale,
mentre tutta l’Italia ficcava il naso nella casa di Avetrana, lei spegneva il televisore
dicendo: “La curiosità ammazza la compassione”. Si commuove in modo antico, quasi
tremando di poetica energia.
30

Tra il Monferrato e la Romagna


Voglio andare al mare, sentire
le onde infrangersi sulla riva,
risentire l’odore salmastro,
il fruscio sulle pietre: tutto somiglia
al grande respiro del mondo.

GRAZIA

Questo saliscendi di colline fa venire il mal di mare. Quel mare di cui, da quassù, si poteva
solo fantasticare. Ci si andava a bagnare nei torrenti, nel Belbo si pescava a mani nude, si
giocava tra i canneti.
Dev’essere stato un trauma per nonna Maria passare da questi quattro tetti a Torino, dal
ritmo delle stagioni a quello degli orologi. Completamente sola. Quel salto dev’essere stato
un trauma anche per mio padre. O forse fu una gioia, perché la città più grande che avesse
mai visto era Canelli, la cerniera fra due mondi a sei chilometri da Moasca, dove c’erano
migliaia di abitanti, l’ufficio postale, le botteghe, la locomotiva che sbuffando portava oltre
l’orizzonte. Orfano di padre e con la madre lontana, aveva fatto il garzone, il cameriere, il
poliziotto stradale, il generico al cinema vestito da ussaro, aveva conquistato la donna che
amava, aveva imparato ad apprezzare l’arte con lei, a nuotare, a volare, si era diplomato ed
era diventato direttore di reparto di un’azienda importante, la CEAT, gli operai lo
adoravano e guadagnava la bellezza di centomila lire al mese. Riusciva a fare una specie di
moltiplicazione dei pani e dei pesci, non privandosi di nulla pur non guadagnando molto.
Lui e mamma andavano a sciare al Sestrière, salvo poi aprire un tavolino da campeggio e
mangiare nel bel mezzo del parcheggio, e avevano fatto il tour della Toscana, ma in
Lambretta.
Quanta strada ho fatto io? Qualche metro se la paragono alla sua. Il successo non si misura
in base a dove sei arrivato, ma in base a dove sei partito.
Passarono anni prima che si potesse permettere l’Adriatico. Scoprì la Romagna, non poteva
andare altrimenti, visto che era considerata la via italiana al socialismo. Capitammo a
Riccione, presso la pensione Estoril e, una volta convinta mia madre che il gestore non
faceva parte dell’Associazione, lì tornammo ogni luglio. Nella piccola sala da pranzo
festeggiai i miei compleanni, mangiai con ritrovato appetito, godetti di una sintonia totale
con la mia famiglia. Tutto era perfetto in vacanza: l’odore dei bomboloni appena fritti, le
gite a Gradara, Pazza idea alla radio, la sabbia fine, le cuffie con i fiori di plastica, le onde
alte dentro cui mi tuffavo con mia madre e che tornano a travolgermi ogni volta che ascolto
Io ci sarò di Gino Paoli.
Singolare il fatto che molti anni dopo, proprio su quella strada che portava alla felicità,
avrei quasi perso la vita. Nel 2004, verso le nove di sera, ero con il mio compagno
Giuseppe sulla A1 in direzione Bologna, quando improvvisamente il camion che viaggiava
alla nostra destra urtò un altro mezzo pesante in uscita dalla corsia d’emergenza e si mise di
traverso davanti a noi occupando tutte le corsie. La nostra auto finì sotto al TIR e non ebbi
nemmeno il tempo di capire che stavamo per morire, non sentii niente, è come se avessi
staccato la spina un attimo prima dell’impatto. Rinvenni non so dopo quanto tempo, ero
intrappolata, inalavo l’odore di acciaio e sangue, sentivo Giuseppe delirare, convinto che ci
fosse la figlia di dodici anni in macchina. Provavo a essere viva ricordando. Non mettevo a
fuoco le cose, i suoni, le voci, ma c’era l’odore dei bomboloni appena fritti, c’erano le gite
a Gradara, Pazza idea alla radio, la sabbia fine, le cuffie con i fiori di plastica, le onde alte
e c’erano quei versi di Gino Paoli...
Mi tirarono fuori dalle lamiere i vigili del fuoco, con una mano estrassi il telefono dalla
borsa e pregai uno dei soccorritori di chiamare mio figlio e Graziella per rassicurarli,
perché un operatore capitato per caso sul posto stava riprendendo le immagini
dell’incidente senza specificare in che stato fossimo ridotti: un’ora dopo, infatti, quelle
immagini andarono in onda al telegiornale senza che nessuno avesse avvisato i nostri
parenti. Arrivarono all’ospedale di Modena, durante la notte, spaventatissimi, Roberto
Alessi e Betta Guerreri per capire ciò che era successo e darci conforto: avevano impedito
a mio figlio di partire, perché, dopo aver visto le immagini in televisione, era in stato choc.
Giuseppe riportò gravi danni al braccio destro, io me la cavai con un politrauma cranico,
una frattura al piede e qualche taglio, un autentico miracolo considerando come era ridotta
l’auto. Il mio sedile era praticamente inesistente, il tetto della macchina era schiacciato fino
a sotto il cruscotto, impossibile che una qualsiasi persona, soprattutto della mia altezza,
potesse salvarsi. L’unica spiegazione plausibile era che fossi stata risucchiata in un buco
spazio-temporale, sparita fisicamente da questo mondo in via del tutto soprannaturale.
Vent’anni dopo la Liberazione mio padre era in bicicletta con suo nipote Piero sulla discesa
di Santo Stefano Belbo, d’improvviso frenò davanti a un comune sasso, lo spostò e tirò fuori
due pallottole che aveva riposto con cura nel periodo partigiano pensando che gli potessero
tornare utili per salvarsi la vita.
Ecco, credo abbia fatto la stessa cosa con me. Durante l’impatto con il TIR Naviga mi ha
nascosta per un po’ in uno dei suoi posti segreti.
31

Noblesse oblige
Quanto lavoro infinito
occorre per fare un uomo finito!

ALDO

Le persone si scoprono dopo averle lasciate. È difficile dare un giudizio reale mentre si ha
una relazione, il mentre sembra sempre insufficiente. Nei sei anni di fidanzamento con
Giuseppe Lanza di Scalea lo rimproveravo di essere assente e non mi accorgevo che era
invece delicatamente presente. È un uomo di altri tempi, galante, dolce, un signore che non
deve né convincere, né piacere. Non impone la sua figura, c’è ma non invade, e questo suo
volare alto può essere scambiato per distacco. Dopo l’incidente la sua persona mi si è
mostrata in tutta la sua grandezza. Per un anno e mezzo non ha mosso il braccio destro e mi
straziava il cuore vedere lui, così sportivo e prestante, stare ore e ore a far esercizi contro il
muro, a curarsi da solo come un felino, senza mai un lamento. Allora ho rimesso a fuoco le
inquadrature della nostra vita insieme e scoperto che lui non mancava affatto, era giusto un
passo dietro di me. Non so perché non l’ho visto prima, forse sono stata vittima di quella
miopia che ammala chi vive la paura costante dell’abbandono, che ti fa distinguere
nitidamente solo chi ti sta attaccato e sfoca tutto il resto.
Chi si trova accanto non è necessariamente la persona più vicina a te, è un’illusione ottica.
Quando morì Luana, la fidanzata di mio figlio Francesco, una ragazza bella, allegra,
spensierata, vivemmo in un inferno a occhi aperti, nella totale incapacità di capire e
prendere atto delle cose. La sera prima era a casa nostra, la mattina dopo non c’era più.
Morì il giorno del suo venticinquesimo compleanno in un incidente stradale. A Francesco lo
comunicarono al telefono, salii in camera e lo vidi con gli occhi sbarrati, cominciò a urlare,
sbatteva tra le pareti come una falena impazzita dietro a un vetro. Luana divenne la mia
ossessione. Piangevo sempre e ovunque mi trovassi, per motivi diversi: per lei, per sua
madre, per mio figlio che non sapevo come aiutare, per me stessa. Tornava su la sindrome
del sopravvissuto che avevo accusato dopo il mio incidente, un senso di colpa paradossale
che ti fa domandare per quale motivo tu ti sei salvato mentre tanti ragazzi più giovani di te
hanno perso la vita in incidenti meno gravi; mi autopunivo sabotando qualsiasi cosa mi
potesse far sentire bene. Per la prima volta nella mia vita mi imbottii di psicofarmaci,
mentre Francesco si disperava e, dietro noi due, in silenzio, stava Giuseppe, come un
soldato, a proteggerci. Rimane la persona per me più importante, colui che mi dà in assoluto
più sicurezza, del quale non riuscirei a fare a meno, un intoccabile, l’amore che resta oltre
la vita.
32

Madama Farfalla
Osservavo le idee che fluttuavano
come farfalle, ho tentato di fermarle
a volte, ma non ci sono riuscita,
sono volate via, evaporate fra le nuvole
della memoria, forse dettate da qualche spirito vagante, da qualche entità misteriosa.

GRAZIA

Siamo arrivati in ospedale. Di nuovo questo posto, di nuovo questo tunnel.


Sono nata al padiglione Sant’Anna il 2 luglio 1961 e, siccome era notte, fuori orario di
visita, Ceschino passò dalle Molinette, attraversò di nascosto il lungo sotterraneo di
collegamento per vedermi la prima volta. Lo stesso accadde quattordici anni dopo, quando
ricoverarono nonna Maria e non mi permisero di entrare in reparto perché ero troppo
piccola, così papà mi insegnò a sgattaiolare lungo il tunnel per poterla vedere un’ultima
volta. Era divorata dai dolori, poverina, sfatta dalla sofferenza e, per uno scherzo del
destino, in vecchiaia il suo volto contadino era diventato identico a quello della regina
Elisabetta. Una donna così pudica, che da quando aveva il sacchetto attaccato all’intestino
si teneva distante dagli altri per timore che emanasse un cattivo odore, la trovai a gambe
aperte, incurante ormai di tutto. Con un filo di voce disse all’orecchio di mio padre:
“Ceschino, ti prego, non posso firmare per una puntura che mi fa morire?”.
Lo chiedeva proprio lei, fervente cattolica, lei che, quando da piccola buttai a terra il
crocifisso per dispetto, mi fece inginocchiare e chiedere perdono, lei che era attaccatissima
alla vita. Per difendere la propria dignità i sani possono decidere di morire, i malati
terminali dovrebbero godere dello stesso diritto. In quella situazione Graziella ebbe una
delle sue strane reazioni. Dopo aver visto nonna Maria dimagrita in maniera spaventosa,
con gli occhi spenti, tornò a casa e disse: “Non era lei, l’hanno sostituita.
L’ho visto benissimo che non era lei, figurati”. Era così, quando una cosa la faceva stare
male, la negava.
Fece lo stesso con suo fratello Aldo quando lo vide spegnersi e disse che era un sosia,
quando a me diagnosticarono il cancro all’utero prese alcune vecchie lastre del mio
ginocchio, le mise in controluce e mi rimproverò: “Vedi che non è vero niente?”.
Il giorno in cui nonna Maria morì mi si spaccò di netto un dente, esattamente come era
successo sei mesi prima, quando nonna Lorenza era deceduta all’improvviso. Una di quelle
coincidenze strane e inspiegabili. Non avrei sorriso comunque al funerale, ma la vergogna
di farmi vedere sdentata fece durare il mio lutto più a lungo del previsto.
Alle Molinette morì mio nonno Leo, con me uomo affettuoso, con gli altri piuttosto algido.
Se mio padre da piccola mi rimproverava perché ero troppo egocentrica e troppo smaniosa
di lanciarmi in esibizioni, lui rimproverava mio padre di tarparmi le ali e mi incoraggiava a
proseguire. Era interessato all’arte e basta, al mondo esterno non prestava attenzione. O era
lui a interessarsi di te oppure non c’era modo di guadagnarsi la sua benevolenza. Se lo
andavi a trovare in ospedale non richiesto era capace di non staccare mai gli occhi dal
giornale e, quando lo faceva, era per dire: “Sei ancora qui?”. Una macchina lo aveva
investito, si era allettato e aveva perso tutta la sua autonomia, niente più viaggi né gare di
ballo.
Voleva andarsene, siccome non poteva farlo con le sue gambe aspettava che la Vecchia
Signora gli desse un passaggio al capolinea, e ogni giorno che si risvegliava sbuffava:
“Sono ancora qui”.
In quell’ospedale avevano dato per spacciato mio padre diagnosticandogli un tumore ai
polmoni. Il medico, mentre lo rincorrevo nel corridoio, sentenziò: “Parietti, si tolga dalla
testa che si possa salvare”, invece aveva sbagliato diagnosi, saltò fuori che soffriva del
morbo di Buerger, tipica patologia dei fumatori: una sigaretta lo aveva salvato a Perletto e
le altre mille lo avevano fatto ammalare. Naviga l’aveva sfangata per l’ennesima volta;
dunque quest’ospedale è anche simbolo di vita, qui nacqui io e qui partorii mio figlio
Francesco.
Sono condannata a fare lo stesso percorso, passare abusivamente fra la vita e la morte
tramite questa strettoia semibuia, far rimbalzare le urla di gioia e di dolore su queste mura.
Ed eccola qui, mia madre.
Diceva sempre di sentirsi Madame Butterfly, e ora, con questo ovale così bianco e il nasino
minuto, le assomiglia per davvero. C’è un’aria particolare attorno al letto, un silenzio che
mi infastidisce. Io pronuncio mille parole al secondo, rimbocco le lenzuola, chiedo, le
infermiere mi rispondono con lo sguardo basso. C’è nessuno che riesca a guardarmi dritto
negli occhi?
In realtà non voglio sentir dire niente. Mi sento Rodolfo della Bohème davanti a Mimì:
“Vedi?... È tranquilla. Che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così...”. Non
voglio che mi si guardi come se fossi l’unica che non ha capito cosa sta succedendo. Che ne
sanno questi medici saccenti? Che ne sanno di lei e di quanto sia spiritosa? Me lo tirava
sempre questo scherzo. Da piccola ero alta quanto lei in piedi sul tavolo, da lassù si
lasciava cadere e fingeva di morire, per vedere se piangevo e misurare quanto le volessi
bene.
Le dico: «Mamma, dài che ce la fai. Siamo tutti con te, l’intero ospedale è in subbuglio, ha
telefonato per te pure il medico di Berlusconi».
«Eh, la peppa!» sospira. Poi niente. Il rumore piatto del cuore. Se ne va con una battuta. Non
so se avrebbe voluto donare gli organi, immagino di sì, in un ultimo gesto di generosità,
almeno potranno salvarsi altre quattro persone. Mi consulto coi miei cari e siamo
d’accordo, rendere felice qualcuno mentre noi ci disperiamo è come rimandare in circolo la
vita. Quando la portano via per l’espianto ho paura di aver sbagliato, di averla condannata a
morte. Al momento mi è sembrata una scelta facile, poi la notte l’ho sognata che riapriva gli
occhi sotto i ferri. Mamma, dimmelo ti prego, ho fatto bene? Quante cose che non so di te.
Faccio tutto quello che avevo previsto: scrivo il necrologio, scelgo i musicisti migliori, una
soprano, dei violinisti, suonano l’Inverno di Vivaldi, l’Adagio di Albinoni, l’Ave Maria di
Schubert, mi tocca pure litigare col prete perché è una cerimonia fuori liturgia.
Mi manca l’aria. Riesco a respirare solo quando metto a fuoco i volti degli amici, sono una
compensazione di ossigeno e di affetto. Quando mi operai di cancro fu lo stesso, mi stettero
talmente vicini che non mi resi conto di ciò che stava accadendo. Da tempo avevo perdite di
sangue e una nota e costosa ginecologa mi liquidò diagnosticando un problema ormonale, si
trattava invece di Papilloma, un virus diffuso e di cui si parla troppo poco, che si contrae
per via sessuale o in luoghi di scarsa igiene e che mi provocò una neoplasia all’utero. Lo
scoprii di venerdì, mi operai il lunedì seguente, prima dell’anestesia il mio letto era
contornato da amici veri che sdrammatizzavano, mi facevano ridere, e quasi mi dispiacque
lasciare quella compagnia barbarica per entrare in sala operatoria.
Mi aggrappo a loro, anche se le lacrime offuscano la vista e intuisco solo chi siano. L’atto
della tumulazione ha un che di disumano e disumana è la voce che mi esce fuori, più simile
a un ululato. Riesco solo a lanciare uno sguardo lontano, in fondo a tutti, e lì sta Giuseppe,
che mi sorregge con gli occhi.
Ci si sente orfani anche a cinquant’anni. Mi manca tutto di lei, dalla telefonata in cui le
dicevo di comprare i giornali con le mie interviste alla pazienza con cui ascoltava le mie
rabbie. Adesso queste cose non interessano più a nessuno. Mi manca lei che mi smontava
platealmente, mi prendeva in giro davanti a tutti per portarmi giù dal piedistallo e poi, se mi
vedeva davvero a terra, faceva esattamente il contrario.
Penso a come l’avrei resa felice se avessi trovato il tempo di portarla a Parigi, e mi manca
la telepatia scioccante, quel legame extrasensoriale che può esistere solo fra una madre e
una figlia.
Per tutta la vita ho pensato di essere uguale a mio padre, in realtà da Cella ho preso molto:
la fantasia, l’ironia, l’acume, l’ipersensibilità. Credevo di essere diversa da lei invece ne
ero la copia, e ciò che in lei disprezzavo era ciò in cui mi rispecchiavo. Non posso che
essere questa qui, non posso che essere quella che i miei genitori sono stati; in poche
parole, man mano che passano gli anni io sono sempre di più come loro. Nella vita privata,
diversamente che in quella pubblica, io sono il personaggio secondario e loro i due
protagonisti. Loro sono la mia rivincita e il mio orgoglio, non il contrario.
33

I diari di Cella
Tutto finisce, tutto ricomincia,
è come l’onda che lambisce la riva
per poi tornare a essere mare.

GRAZIA

Nella sua casa di Torino trovo mille cose: i piatti del campeggio, telegrammi e foto
d’epoca, dischi, libri, poesie originali e inedite di Gabriele d’Annunzio, amico per tramite
del duca di Bergamo, una serie di coltelli e coltellini: che diavolo ci faceva? Era talmente
misteriosa che poteva tranquillamente essere un’assassina seriale. E poi interi plichi di suoi
scritti. Mi fa paura leggerli, paura di trovare qualcosa di sgradevole su di me o di troppo
intimo per essere sopportato da una figlia. Leggo centinaia di pagine e mi si apre un mondo
completamente nuovo. Non c’è nemmeno una riga che mi riguardi, nemmeno un appunto. La
scrittura era il suo spazio, solo per lei. Mi sono domandata per anni perché non si fermava a
casa mia un po’ di più, a dormire, a passare qualche giorno insieme. Secondo me a Torino
non aveva nulla da fare, eppure si comportava come se avesse impegni urgentissimi. Ecco
cosa faceva: scriveva. Scrive e mi lasciava in eredità questa meraviglia, tutte le risposte
che mi servivano. Ha un che di paranormale sentire ora le spiegazioni dalla sua stessa voce,
una per una. Tremo come una foglia.
Innanzitutto trovo conferma del suo amore infinito verso mio padre, le poesie che gli
scriveva sin da adolescente. Ed è una fortuna sapere che due genitori si sono amati, non solo
sopportati. Inoltre scopro che mio padre sapeva perfettamente quali fossero i problemi di
mia madre sin dall’inizio, da fidanzatini.
Lei gli scriveva: “Ti ho detto sovente cose cattive, sono un po’ troppo fantasiosa, spesso mi
dimentico di essere io, mi lascio trasportare da un soggetto e cerco di interpretarlo. Ho fatto
un bel miscuglio di caratteri e ora non so più trovare il mio vero”.
Se la malattia di mio zio nasceva dalla filosofia, quella di mia madre nasceva dalla
letteratura: “Non è che non m’interessi dell’umanità e delle sue vicende, anzi, ma ho letto
con attenzione la realtà romanzesca e preferisco levarmi dalla mischia per andare con la
testa nelle nuvole”. E ancora: “Ho sempre osservato dall’esterno la mia esistenza, forse
perché sento che quello che sono e quello che siamo si perde molto lontano nella civiltà del
mondo. Forse altri sono più presenti alle loro passioni, ai loro amori, e ne partecipano
quasi visceralmente. Il mio stato d’essere è molto leggero: vivere la propria esistenza senza
voler fare pressione sugli altri”.
Lei era così, molto distante dagli uomini, si mostrava a suo agio più fra cani e gatti, in
natura, o con i fuori di testa. Mi sono spesso chiesta perché fosse così poco fisica e non mi
abbracciasse mai, al contrario di me che sono espansiva e alla continua ricerca di contatto,
ed ecco la risposta: “In quanto a non essere espansiva devi perdonarmi, ma è diventata per
me ormai un’abitudine frenarmi, perché sento che se dessi sfogo all’impetuosità di cui credo
di essere capace ne resterei certamente travolta. Ora lo sai, non è freddezza”.
E di Aldo cosa pensava? Che rapporto avevano? “Sono tanto triste, mio fratello continua
con le sue stranezze e mi fa tanto male vederlo così. Giuro che preferirei avere io il più
doloroso male di questo mondo, ha più diritto lui alla vita, un po’ di felicità io l’ho già
avuta, lui mai. Il dottore ha detto che bisognerebbe metterlo nella casa di cura, dice che è
pericoloso ma noi non ci crediamo e rinchiuderlo ci sembrerebbe un atto poco umano. I
dottori dicono che è inguaribile, io invece direi che è inguaribilmente buono.”
E in una lettera datata 19 agosto 1950: “Mio fratello è diventato addirittura divertente: tutti i
giorni a mezzogiorno, quando ci mettiamo a tavola, parte per andare a suicidarsi salvo
tornare un’ora dopo. I primi giorni mi impressionavo, ma ieri, quando se ne è andato e mia
nonna, appena arrivata, mi ha chiesto dove andava, le ho risposto tra una cucchiaiata e
l’altra: ‘Va ad ammazzarsi’. La scoperta interessante è stata che mio fratello andava a
suicidarsi ogni giorno puntuale a mezzogiorno con una bella brunetta”.
Spuntano i nomi dei suoi autori preferiti, Knut Hamsun, Ibsen, Camus, Dante, Carducci,
Borges, dei pittori da Michelangelo a Rodin a Munch, dei compositori, in particolare
Chopin, “le grandi anime da cui sgorga il canto d’incanto della vita”, l’interesse per lo yoga
e i suoi sistemi per armonizzare corpo e anima. Insomma mi mangio le mani a pensare che in
tutti questi anni ho cercato persone colte da cui imparare quando ne avevo una accanto.
E poi mi capita fra le mani la parte dura da mandare giù: Graziella che parla della sua
malattia in maniera esplicita. Una marea di fogli in cui racconta di quando è cominciata “la
storia”, “situazioni strane, coincidenze troppo ovvie per non essere intenzionali”, “un gioco
subdolo” contro di lei e a cui partecipavano tutti. In pratica l’Associazione: “Era un gran
spettacolo di illusionismo e Loro qui e lì tutto il giorno a darmi noia, finché non trovai un
amico che non era né un uomo né una donna, ma la mia idea di come dovrebbero essere,
cominciai a studiare le mie abitudini e a modificarle, cercai di capire. Questa è la storia di
una povera schizofrenica, di come ho fatto amicizia con lei e di come senza aiuti sia riuscita
a volerle bene. Questa è la storia di una povera schizofrenica per la quale peraltro nutro
molta stima, è quasi inverosimile credere che da sola sia riuscita a uscire da un simile
incubo basandosi unicamente sulle sue forze psichiche. Ora è completamente guarita da
questa forma morbosa di autosuggestione e dalle manie di persecuzione e ne sono felice
perché le voglio bene anche se, così dicendo, dimostro di essere egocentrica”.
Tiro un sospiro di sollievo perché nessuno, tranne me e mio padre, sapeva della sua
schizofrenia e se lo avessero saputo non ci avrebbero creduto. Da quando Ceschino è morto
ho anche pensato che fosse frutto della mia fantasia, che da piccola avessi esagerato. Quasi
approfitto di questa assurda situazione in cui io domando e lei risponde, sembra una seduta
spiritica. Mamma, ho fatto bene a donare gli organi o avresti voluto tenere intatto il tuo
corpo? È una questione che mi tormenta. Risposta: “Il pensiero è immortale perché se è
valido può passare senza perire, il corpo non è altro che il mezzo per trasportare il pensiero
attraverso il tempo. Siamo fatti di una manciata di polvere e un po’ di pioggia: tutto quel che
siamo lo dobbiamo al passato, tutto quel che lasceremo lo regaliamo al futuro”.
Sarà un caso, una coincidenza, eppure mi sento sollevata, pacificata, anche perché scopro
che i coltelli da serial killer altro non erano che un regalo di nonno Leo, quando da piccola
andava all’arrembaggio di piante di mele e pere e faceva finta di vivere i tempi dei pirati.
In fondo trovo la lettera che Graziella scrisse alla morte della madre Lorenza e ci sono
dentro le parole che io avrei voluto trovare per lei:
Quante volte ti ricordo cara mamma, l’ultimo tuo sguardo sovente mi torna in mente, lo
sguardo sofferente e disperato che conteneva l’addio. Pure in ogni momento sei con me, in
me, poiché non ti ho lasciato fuggire ed è bellissimo. Mi piaceva sentirti parlare perché
avevi quel modo buffo e spiritoso di intendere la vita quando il destino era sfavorevole. Nei
lunghi anni in cui hai sofferto senza mai dirmi perché, quando ti vedevo tremendamente
esaurita e tacevi, cercavo di capire i tuoi misteri in silenzio. Ti ho voluto bene anche
quando eri ingiusta con me, diffidente e ingrata con il povero papà che delle volte mi
sembrava una vittima, perché i tuoi sfoghi contenevano sofferenza vera anche se frutto della
tua fantasia. Il tuo mondo era il mio rifugio sicuro e io a volte ero il tuo conforto. Quando ti
ho visto inerte sono rimasta impietrita e senza lacrime, mi pareva impossibile che la vita ti
avesse abbandonato e tu avessi abbandonato me, mi pareva impossibile che il destino fosse
ineluttabile. Ti volevo eterna e finché avrò respiro, sarà anche il tuo respiro.
34

Je ne regrette rien
Non si può fermare il tempo perché
nessun attimo è felice senza il successivo.

GRAZIA

Torino dista da Milano il mio futuro. Io e Francesco ripercorriamo la strada tornando


indietro e tutto scorre liscio, come se avessi masticato e digerito questi luoghi, le persone
che li abitavano nella mia memoria, mi sento messa in ordine, come dopo le grandi pulizie
di stagione. Rientro nella mia casa, la prima che ho comprato non appena ho cominciato a
guadagnare, mi sono sudata ogni chiodo e non ho mai pensato di abbandonarla. Semmai l’ho
allargata, di tanto in tanto e, senza prevederlo, nel bel mezzo dei lavori è sempre successo
qualcosa di importante, come stavolta. Forse da me ci si aspettava grande sfarzo, una villa
mozzafiato e di rappresentanza, invece è una bella casa senza eccessi. Finora ho vissuto al
di sotto delle mie possibilità, un po’ perché temevo di non farcela, mi mancava il coraggio,
un po’ perché così Naviga e Cella mi hanno insegnato. Anche quando si erano fatti una
buona posizione non avevano cambiato di una virgola il loro stile di vita, e quando io ho
avuto successo non hanno mai accettato niente da me, salvo essere miei ospiti in vacanza. A
mia madre facevo regali costosi che lei puntualmente mi restituiva, non li gradiva, e i vestiti
se li cuciva da sé. Al termine di questo viaggio apro la porta e gli operai stanno mettendo a
punto le ultime cose, la casa è più ampia e luminosa, come me.
A guardare Alba, quella ragazzina lì, mi si apre un sorriso di tenerezza. Ero bella,
inconsapevole, violenta, ingenua, capace eppure disponibilissima a farmi ferire, in amore e
sul lavoro. Per anni si è parlato del “tramonto dell’Alba” e molti di quei detrattori ora sono
in pensione o scomparsi, mi hanno portato una longeva fortuna. Se fossi appoggiata
politicamente, anche a sinistra, certe cose non mi accadrebbero, ma chi è legato ai poteri
forti prima o poi passa mentre io resto, la vita mi dà ragione e per chi mi boicotta nutro un
distaccato disprezzo. Mauro Mazza, il direttore di Rai Uno che si ostina a non darmi lavoro,
una volta polemizzò: “Ma lei come fa ad avere così tante opinioni su tutto?”. Come se
essere curiosa e informarmi fosse un peccato. Compro giornali d’ogni tipo perché voglio
poter ascoltare pareri diversi dal mio, poi, se le mie opinioni restano di sinistra, non può
essere una colpa. Io sono libera, non ho nessuna divisa, rispondo solo a me stessa. Nel
Medioevo mi avrebbero riservato il trattamento di una strega, oggi hanno altri metodi, tipo
cercare di toglierti l’identità sottraendoti il lavoro, che equivale a bruciarti. Le idee però
non le puoi bruciare. Molti ambiscono a essere considerati miei rivali per avere un
momento di notorietà e purtroppo non hanno il curriculum adatto. Una signora si riconosce
anche dai nemici che ha.
La gente è solita attaccarmi su stupidaggini, tipo i ritocchi alla bocca e al seno, ma nessuno
è mai stato in grado di accusarmi di qualcosa di veramente grave. Quando si trovano a corto
di argomenti, ripiegano sulla chirurgia plastica. Il novanta per cento delle donne che fanno il
mio mestiere si sono rifatte tette o labbra. Le mie evidentemente sono più rifatte delle altre.
Mio padre non apprezzava la mia scelta, mia madre era assolutamente contraria a qualsiasi
contraffazione estetica, figurarsi, non si tingeva nemmeno i capelli. Ma quando mi decisi per
gli interventi, nella sostanza, non cambiò nulla. A differenza degli altri, a loro interessavo
Io.
Oggi paradossalmente le cose mi scivolano addosso. Sono forte con i forti e debole con i
deboli, signora coi signori e carogna con le carogne e, quando ci riesco, a chi mi fa uno
sgarbo regalo un vasetto di marmellata perché nulla è più provocante della cortesia. Magari
poi la notte, invece di contare le pecore, penso a come ammazzare chi odio, decido dove
occultare il cadavere e come procurarmi un alibi.
È rilassante e depurativo.
Sono cresciuta, sono più cauta e metodica, ma tuttora sono incapace di passioni medie, mi
devo sentire coinvolta e travolta; vado a caccia del cuore in maniera spesso violenta ma ho
una visione più ampia dell’amore. Non ci si può struggere in un unico rapporto, farsi
divorare da sentimenti forti per chi non lo merita. Prevalgono l’amore per la vita e
l’autostima, divido il mio entusiasmo fra mille cose, mi riempio di interessi e per necessità
non amo nessuno più di quanto non ami me stessa, o meglio, ho capito che se non amo me
stessa non sono in grado di amare nessuno. La stupidità e la noia continuano a essere due
peccati a cui non mi sottometto, per il resto accetto tutto. Resto affascinata da chi è diverso
da me, opposto a me, non guardo in quanti applaudono ma chi applaude, mi avvicino alle
persone senza troppe aspettative, giudico poco perché sono pochi gli errori che io stessa
non ho commesso e tollero che si possa cambiare idea sempre e su tutto, tranne che sulla
squadra del cuore e sull’orientamento politico.
Sono cambiata più in questo viaggio che nel corso di molti anni, mi ha dato la sensazione
che non devo temere la morte. Chi non vediamo più c’è e resta, se siamo pronti a ricevere i
segnali che dà.
35

L’ultima beffa
L’uomo è solo parzialmente mortale.
È infinito in quanto parte integrante
dell’universo e porta con sé
le caratteristiche della sua matrice.

ALDO

Oggi, 28 febbraio 2011, giorno del compleanno di mia madre, ho fatto il funerale di mio
padre, morto quattordici anni fa. Quell’agosto stavo in Sardegna, ricevetti la notizia della
sua morte, presi un aereo privato, sbrigai la faccenda come una parente qualsiasi e me ne
tornai in vacanza.
Mentre mia madre si sobbarcava l’organizzazione intera del funerale e lo ritardava per
tenersi mio padre accanto il più possibile, io ero preoccupata che mi si accorciasse la
vacanza. Quando ripartii per la Sardegna e cercai di convincerla a venire con me, mi
rispose: “Io resto qui, perché la casa è piena di meravigliosi fantasmi”.
Ero imbambolata, asciugata, rimossi completamente l’accaduto, tenendo un comportamento
infantile e assolutamente inadeguato. Nell’ultimo periodo si era ammalato, il mio eroe, bello
e forte, era vecchio e traballante, mi dava fastidio vederlo così, non lo sopportavo, era
qualcosa che non sapevo fronteggiare. Mi faceva stare male e lo negavo, come di norma
faceva Graziella in questi casi.
Non era successo niente, quindi non cambiai i miei programmi per l’estate e, invece di
essere a lutto, la sera mi misi a cantare in un locale per il compleanno di un amico. Non si
può giudicare il dolore degli altri, chi mi vide avrà dedotto che fossi una figlia snaturata, in
realtà è questo che si può provare quando ti tolgono tutto: niente.
Ora mi comporto come avrei dovuto fare al tempo, convoco le persone a lui più care, lo
prendo dal cimitero di Torino, lo faccio cremare, nell’urna infilo una poesia di mia madre:
Mi indugio lentamente nel pomeriggio senza fretta tanto ormai più nessuno m’aspetta.
La mia casa era dove c’era il tuo respiro, la tua casa dov’era il mio silenzio.
Cento volte te ne sei andato, cento volte hai dovuto ritornare.
L’ultima hai preferito di restare per sempre ed io ho raccolto l’ultimo respiro con amore.
Ceschino lo metto accanto a lei, nella tomba di famiglia a Pinerolo. Ci starà comodo lì, a
turbare in eterno il sonno dei miei avi monarchici.
Si avvicina il Natale. Francesco era abituato, fin da bambino, a un piccolo rituale: la busta
con i soldi della nonna. Ora ha quasi trent’anni e pensare alla busta con il regalino fa
tenerezza, ma lei questo rituale lo ha sempre rispettato. Che peccato! Un’altra dolce
abitudine che se ne va come è successo con Morsicanaso e Scaldapiedini, due personaggi
che mio padre si era inventato per farmi addormentare.
Adesso Francesco va in solaio, prende una valigia a caso come fa di solito distrattamente,
un vecchio borsone di pelle appartenuto a mia madre, mette dentro i suoi vestiti e, quando
cerca di infilare qualcosa nella tasca interna, trova una busta: la solita busta con dentro
quattrocento euro, che arrivava ogni Natale.
Certo, forse mia madre aveva semplicemente scelto quella valigia per nascondere i suoi
contanti, non avendo in casa una cassaforte. O forse semplicemente perché... da qui non se
ne va nessuno.
Ringraziamenti

A Simona Orlando, senza la quale questo libro non sarebbe stato possibile, per la
sensibilità, l’attenzione e il sostegno umano, morale e la comprensione rara con cui mi è
stata accanto con grandissima delicatezza e passione: è parte per sempre della mia famiglia.
A Enzo Delia per aver creduto ciecamente in questo progetto così ambizioso e per aver
individuato l’unica persona che poteva aiutarmi in un’impresa così delicata e sconvolgente
che, comunque vada, ha stravolto il mio modo di vedere la vita e la morte.
Alle famiglie Dipietromaria, Parietti, Giaj Merlera e Pagliarino che, per originalità e
profondità fuori dal comune, mi hanno permesso di scrivere un libro non lasciando nulla
all’invenzione. Ai miei cugini Milo, Carla, Piero e Caterina Pagliarino, Dino e Carla
Dipietromaria, che hanno ricostruito e condiviso con me quest’avventura, a Roberto Gabey,
a Ruggero, Neva, Franco e Ada Oppini, per essere stati tutti con me nei momenti più
dolorosi e nei sorrisi più felici. A nonna Renata.
Alla famiglia Abbate, a Mario Vola, all’ANPI, al Circolo Alpini di Perletto, a Riccardo
Marchis dell’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza di Torino, all’Istituto per la
Resistenza di Cuneo e Asti, al Comune di Cerretto Langhe, per avermi aiutato a recuperare
la memoria di alcuni dei migliori esempi di questo secolo.
A don Andrea Gallo e ai ragazzi della sua comunità, la prova che anche Cristo non se n’è
mai andato.
A Francesco, il mio sole.
Ai fratelli che ho riconosciuto sulla mia strada: Patrizia Perrone, Riccardo Avino, Roberto
Alessi, Betta Guerreri, Beatrice Jannozzi, Papù Sanguineti, Fabrizio Politi, Ivan Nicosia,
Loredana Tosi, Daniele Soragni, Emanuelle De Villepin De Benedetti, Manuela Moreno,
Rossana Capone, Silvia Annichiarico, Paola Sturchio Micara, Evelina Christillin, Silvia
Sant’Agostino, Riccardo Zamproni, Jody e Stefania Vender, Alessandro Stepanoff,
Francesco Duranti, Sandra Carraro, Corinne Bouygues e Sergio Gobbi, Salvatore e Isabella
Gorgone, Antonio Gallo, Daniela Facchinato, Marco Baraldi, Piero e Chiara Miciano,
Rajka, Lorenza, Guido, Francesca, Alessandra, Stefania, Dada, Susanna, Silvia, Cristina,
Gerardo e Paolo; a Jessica che mi ha portato dal professor Daniele Di Piazza e a lui che mi
ha salvato la vita senza farmi sentire ciò che stavo rischiando. Al professor Pietro
Panettiere per la costante disponibilità, ad Alberto Zangrillo e Giampaolo Perna, Alberto
Testori e Massimo Torre, al professor Massimo Colombo: l’umanità dietro la medicina.
Agli avvocati Giovanni Giorgio, Granzotto, Missaglia, Zanasi per aver messo la loro
professionalità al servizio della mia amicizia. A Massimo Osti e Toti Palma per avermi
insegnato come si vive e si muore con un sorriso. A Franca per aver regalato al mondo la
“meraviglia meravigliosa” di Luana.
A Luana.
A Sandro Berti Ceroni.
Alla mia piccola Greta Tommassoni che rende felice mio figlio.
A Fabio “Ciro”, Giangio, Marco, Luca e Giovanni per essere i fratelli che non ho dato a
mio figlio. A Giuseppe perché è la persona che mi vuole in assoluto più bene e di cui mi
fido di più. A Dominique Warluzel, duro con gli altri e soprattutto con se stesso, ma con me
sempre tenero e protettivo. A Gianni, Franco, Stefano, Cristoph, Maurizio, Cristiano per
avermi reso felice e infelice. A me stessa e a tutti gli amici che ora dimentico ma sono stati
la mia forza, la mia energia. A chi mi ha sostenuto all’inizio della mia carriera: Angelo
Guglielmi, Arnaldo Bagnasco, Riccardo Pereira, Cesare Patriarca, Maurizio Totti, Michele
Santoro, Marco e Paolo Bassetti, Alfonso Signorini, Vittorio Sgarbi, Paola Ferrari, Antonio
Stella, Giorgio Restelli, Massimo Giletti e Beppe Caschetto.
A tutti gli editor e i grafici della Mondadori, per il sostegno morale e l’infinita pazienza.
A Romano Montroni e Carlo Feltrinelli.
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