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Elena Ferrante

L'amore molesto

© Copyright 1992 by Edizioni e/o


A mia madre
I
Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel
tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri
da Minturno.
Proprio in quella zona, alla fine degli anni Cinquanta, quando mio padre viveva
ancora con noi, d'estate affittavamo una stanza in una casa contadina e
trascorrevamo il mese di luglio dormendo in cinque dentro pochi roventi metri
quadri.
Ogni mattina noi bambine bevevamo l'uovo fresco, tagliavamo verso il mare tra
canne alte per sentieri di terra e di sabbia e andavamo a fare il bagno. La notte in
cui mia madre morì la proprietaria di quella casa, che si chiamava Rosa e aveva
ormai più di settant'anni, sentì bussare alla porta ma non aprì per paura dei ladri e
degli assassini.
Mia madre aveva preso il treno per Roma due giorni prima, il 21 maggio, ma
non era mai arrivata. Negli ultimi tempi veniva a stare da me almeno una volta al
mese per qualche giorno. Non ero contenta di sentirla per casa. Si svegliava
all'alba e, secondo le sue abitudini, lustrava da cima a fondo la cucina e il
soggiorno. Cercavo di riaddormentarmi ma non ci riuscivo: irrigidita tra le
lenzuola, avevo l'impressione che sfaccendando mi trasformasse il corpo in quello
di una bambina con le rughe. Quando arrivava con il caffè, mi rannicchiavo da un
canto per evitare che mi sfiorasse sedendosi sulla sponda del letto. La sua
socievolezza mi infastidiva: usciva a fare la spesa e familiarizzava con negozianti
con cui in dieci anni avevo scambiato non più di due parole; andava a passeggio
per la città con certe sue conoscenze occasionali; diventava amica dei miei amici,
ai quali raccontava le storie della sua vita, sempre le stesse. Con lei sapevo essere
solo contenuta e insincera.
Se ne tornava a Napoli alla mia prima sfumatura di insofferenza.
Raccoglieva le sue cose, dava un'ultima rassettata alla casa e prometteva che
sarebbe ritornata presto. Io mi aggiravo per le stanze risistemando secondo il mio
gusto tutto quello che lei aveva disposto secondo il suo. Tornavo a dare alla
saliera lo scomparto dove la tenevo da anni, restituivo al detersivo il posto che mi
era sempre apparso conveniente, scompaginavo il suo ordine dentro i miei
cassetti, restituivo al caos la stanza dove lavoravo. Anche l'odore della sua
presenza - un profumo che lasciava in casa un senso d'inquietudine - dopo un po'
passava come d'estate l'odore d'una pioggia di breve durata.
Accadeva spesso che perdesse il treno.
Di solito arrivava con quello successivo o addirittura il giorno dopo, ma non
riuscivo a farci l'abitudine e mi preoccupavo ugualmente. Le telefonavo in ansia.
Quando finalmente sentivo la sua voce, la rimproveravo con una certa durezza:
come mai non era partita, perché non mi aveva avvisata? Lei si giustificava senza
impegno, chiedendosi divertita cosa mi immaginavo che le potesse accadere, alla
sua età. «Di tutto» rispondevo. Mi ero sempre figurata una trama di agguati
tessuta apposta per farla sparire dal mondo. Quand'ero piccola trascorrevo il
tempo delle sue assenze ad aspettarla in cucina, dietro i vetri della finestra.
Smaniavo perché riapparisse in fondo alla via come una figura in una sfera di
cristallo. Respiravo sul vetro appannandolo, per non vedere la strada senza di lei.
Se tardava, l'ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo.
Allora scappavo in un ripostiglio senza finestre e senza luce elettrica, proprio
accanto alla camera sua e di mio padre. Chiudevo la porta e me ne stavo al buio, a
piangere in silenzio.
Lo stanzino era un antidoto efficace.
Mi ispirava un terrore che teneva a bada l'ansia per la sorte di mia madre. Nel
buio pesto, soffocante per il ddt, ero aggredita da forme colorate che mi
lambivano per pochi secondi le pupille lasciandomi senza fiato. «Quando torni, ti
ucciderò» pensavo, come se fosse stata lei a lasciarmi chiusa lì dentro. Ma poi,
appena sentivo la sua voce nel corridoio, sgattaiolavo fuori in fretta per andare a
girarle intorno con indifferenza. Mi ritornò in mente quel ripostiglio quando
scoprii che era regolarmente partita ma non era mai arrivata.
In serata ricevetti la prima telefonata. Mia madre mi disse con tono tranquillo
che non mi poteva raccontare niente: con lei c'era un uomo che glielo impediva.
Poi si mise a ridere e riattaccò. Lì per lì prevalse lo stupore. Pensai che volesse
scherzare e mi rassegnai ad aspettare una seconda telefonata. In effetti lasciai
passare le ore in congetture, inutilmente seduta accanto al telefono. Solo dopo
mezzanotte mi rivolsi a un amico poliziotto, che fu molto gentile: mi disse di non
agitarmi, ci avrebbe pensato lui. Ma la notte passò senza che di mia madre si
avesse notizia. Di certo c'era solo la sua partenza: la vedova De Riso, una donna
sola della sua stessa età, con cui da quindici anni alternava periodi di buon
vicinato a periodi di inimicizia, mi aveva detto al telefono che l'aveva
accompagnata alla stazione. Mentre era in fila per il biglietto, la vedova le aveva
comprato una bottiglia d'acqua minerale e una rivista. Il treno era affollato ma mia
madre aveva ugualmente trovato posto accanto al finestrino in uno
scompartimento zeppo di militari in licenza. Si erano salutate raccomandandosi
reciprocamente di stare attente. Com'era vestita? Al solito modo, con abiti che
aveva da anni: gonna e giacca blu, una borsetta in pelle nera, vecchie scarpe col
mezzo tacco, una valigetta logora.
Alle sette del mattino mia madre telefonò di nuovo. Per quanto io la
tempestassi di domande («Dove sei? Da dove telefoni? Con chi sei?»), si limitò a
snocciolarmi a voce molto alta, scandendole con gusto, una serie di espressioni
oscene in dialetto. Poi riattaccò. Quelle oscenità mi causarono una scomposta
regressione.
Ritelefonai al mio amico, stupendolo con una confusa mistura di italiano e di
espressioni dialettali.
Volle sapere se mia madre era particolarmente depressa negli ultimi tempi. Lo
ignoravo. Ammisi che non era più come una volta, tranquilla, pacatamente
divertita. Rideva senza motivo, parlava troppo; ma le persone anziane fanno
spesso così. Anche il mio amico ne convenne: succedeva continuamente che i
vecchi, col primo caldo, facessero stranezze; non c'era da preoccuparsi. Io invece
seguitai a preoccuparmi e battei la città in lungo e in largo cercando soprattutto
nei luoghi dove sapevo che le piaceva passeggiare.
La terza telefonata arrivò alle dieci di sera. Mia madre parlò confusamente di
un uomo che la inseguiva per portarla via avvolta in un tappeto. Mi chiese di
correre ad aiutarla. La supplicai di dirmi dove si trovava.
Cambiò tono, rispose che era meglio di no. «Chiuditi dentro, non aprire a
nessuno» si raccomandò. Quell'uomo voleva fare del male anche a me. Poi
aggiunse: «Va' a dormire. Ora faccio il bagno». Non si sentì più niente.
Il giorno dopo due ragazzi videro il suo corpo che galleggiava a pochi metri
dalla riva. Aveva addosso solo il reggiseno. Non fu trovata la valigia. Non si trovò
il tailleur blu.
Non trovarono nemmeno le mutandine, le calze, le scarpe, la borsetta con i
documenti. Ma aveva al dito l'anello di fidanzamento e la fede. Alle orecchie
portava gli orecchini che mio padre le aveva regalato mezzo secolo prima.
Vidi il corpo e di fronte a quell'oggetto livido sentii che forse dovevo
aggrapparmici per non finire chissà dove. Non era stato violato.
Presentava solo qualche ecchimosi, dovuta alle onde del resto lievi che
l'avevano spinta per tutta la notte contro certi scogli a fior d'acqua. Mi sembrò che
intorno agli occhi avesse le tracce di un trucco che doveva essere stato molto
pesante. Osservai a lungo, con disagio, le sue gambe olivastre, straordinariamente
giovani per una donna di sessantatré anni. Con lo stesso disagio mi accorsi che il
reggiseno era ben lontano da quelli consunti che era solita usare. Le coppe erano
fatte di pizzo finemente lavorato e mostravano i capezzoli.
Erano unite tra loro da tre V ricamate, marchio di un negozio napoletano di
costosa biancheria per signore, quello delle sorelle Vossi.
Quando me lo restituirono insieme ai suoi orecchini e agli anelli, lo annusai a
lungo. Aveva l'odore pungente della stoffa nuova.
II
Durante il funerale mi sorpresi a pensare che finalmente non avevo più
l'obbligo di preoccuparmi per lei.
Subito dopo avvertii un flusso tiepido e mi sentii bagnata tra le gambe.
Ero in testa a un lungo corteo di parenti, amici, conoscenti. Le mie due sorelle
mi si stringevano ai lati. Ne sorreggevo una per un braccio perché temevo che
svenisse. L'altra si afferrava a me come se gli occhi troppo gonfi le impedissero di
vedere.
Quel disciogliersi involontario del corpo mi spaventò come la minaccia di una
punizione. Non ero riuscita a versare una lacrima: non me ne erano venute o forse
non avevo voluto che me ne venissero. Inoltre ero stata l'unica a spendere qualche
parola per giustificare mio padre, che non aveva mandato fiori e non era venuto al
funerale. Le mie sorelle non mi avevano nascosto la loro disapprovazione e ora
sembravano impegnate a dimostrare pubblicamente che avevano lacrime a
sufficienza per piangere anche quelle che né io né mio padre stavamo versando.
Mi sentivo sotto accusa.
Quando il corteo fu fiancheggiato per un tratto da un uomo di colore che
portava in spalla certe tele dipinte montate su telaio, la prima delle quali (quella
visibile sulla sua schiena) raffigurava rozzamente una zingara discinta, sperai che
né loro né i parenti se ne accorgessero.
L'autore di quei quadri era mio padre.
Forse stava lavorando alle sue croste anche in quel momento. Di quella zingara
odiosa, venduta per le strade e nelle fiere di provincia da decenni, aveva fatto e
seguitava a fare copie su copie, obbedendo per poche lire come sempre alla
richiesta di brutti quadretti da soggiorno piccolo borghese. L'ironia delle linee che
congiungono ore a incontri, a separazioni, a vecchi rancori, aveva mandato al
funerale di mia madre non lui, ma quella sua pittura elementare, detestata da noi
figlie più di quanto detestassimo il suo autore.
Mi sentivo stanca di tutto. Da quando ero arrivata in città, non mi ero mai
fermata. Per giorni avevo accompagnato mio zio Filippo, il fratello di mia madre,
in giro nel caos degli uffici, tra piccoli mediatori capaci di affrettare l'iter
burocratico delle pratiche o provando noi stessi dopo lunghe code agli sportelli la
disponibilità degli impiegati a superare ostacoli invalicabili in cambio di cospicue
regalìe. A volte mio zio era riuscito a ottenere qualche effetto ostentando la
manica vuota della giacca. Aveva perso il braccio destro in età avanzata, a
cinquantasei anni, lavorando al tornio in un'officina di periferia, e da allora usava
quella sua invalidità ora per chiedere favori, ora per augurare a chi glieli negava la
sua stessa disgrazia. Ma i risultati migliori li avevamo ottenuti sborsando molto
danaro non dovuto. A quel modo c'eravamo velocemente procurati i documenti
necessari, i nulla osta di non so quante autorità competenti vere o inventate, un
funerale di prima classe e, la cosa più difficile, un posto al cimitero.
Intanto il corpo morto di Amalia, mia madre, macellato dall'autopsia, era
diventato sempre più greve a forza di trascinarlo con nome e cognome, data di
nascita e data di morte, davanti a impiegati ora sgarbati, ora insinuanti. Sentivo
l'urgenza di sbarazzarmene e tuttavia, non ancora sufficientemente stremata,
avevo voluto portare a spalla la bara.
Me l'avevano concesso tra molte resistenze: le donne non portano bare in
spalla. Era stata una pessima idea.
Poiché quelli che trasportavano la cassa insieme con me (un cugino e i miei due
cognati) erano più alti, avevo temuto per tutto il percorso che il legno mi entrasse
tra clavicola e collo insieme al corpo che conteneva.
Quando la bara era stata deposta nel carro e questo si era avviato, erano bastati
pochi passi e un sollievo colpevole perché la tensione precipitasse in quel fiotto
segreto del ventre.
Il liquido caldo che usciva da me senza che lo volessi mi diede l'impressione di
un segnale convenuto tra estranei dentro il mio corpo. II corteo funebre avanzava
verso piazza Carlo III. La facciata giallastra del Reclusorio mi pareva contenere a
stento la pressione del Rione Incis che le gravava addosso. Le vie della memoria
topografica mi sembravano instabili come una bevanda effervescente che, se
agitata, straripa in schiuma. Sentivo la città disciolta nel calore, sotto una luce
grigia e polverosa, e ripassavo mentalmente il racconto dell'infanzia e
dell'adolescenza che mi spingeva a divagare per la Veterinaria fino all'Orto
Botanico, o per le pietre sempre umide, coperte di verdure marce, del mercato di
Sant'Antonio Abate. Avevo l'impressione che mia madre si stesse portando via
anche i luoghi, anche i nomi delle vie.
Fissavo l'immagine mia e delle mie sorelle sul vetro, tra le corone di fiori, come
una foto scattata con poca luce, inutile in futuro per la memoria. Mi ancoravo con
le suole delle scarpe al selciato della piazza, isolavo l'odore dei fiori sistemati sul
carro, che giungeva già marcio. A un certo punto temetti che il sangue
cominciasse a scorrermi lungo le caviglie e tentai di sottrarmi alle mie sorelle. Fu
impossibile. Dovetti attendere che il corteo curvasse per la piazza, si inerpicasse
per via Don Bosco e si sciogliesse infine in un ingorgo d'auto e di folla. Zii,
prozii, cognati, cugini cominciarono ad abbracciarci a turno: gente vagamente
nota, mutata dagli anni, frequentata solo durante l'infanzia, forse mai vista. Le
poche persone che ricordavo nitidamente non si erano fatte vive. O forse erano lì,
ma non le riconobbi perché di loro mi erano rimasti, dal tempo dell'infanzia, solo
dettagli: un occhio storto, una gamba zoppicante, il colore levantino della pelle. In
compenso persone di cui ignoravo persino il nome mi tirarono in disparte
citandomi vecchi torti che avevano ricevuto da mio padre.
Giovanotti sconosciuti ma molto affettuosi, abili nella conversazione di
circostanza, mi chiesero come stavo, come mi andava, che lavoro facevo. Risposi:
bene, mi andava bene, disegnavo fumetti, e a loro come andava? Molte donne
grinzose, completamente in nero tranne il pallore dei volti, lodarono la
straordinaria bellezza e bontà di Amalia. Alcuni mi strinsero con una tale forza e
versando lacrime così copiose, che oscillai tra un senso di soffocamento e
un'insopportabile sensazione d'umido che mi si allungava dai loro sudori e dalle
loro lacrime fino all'inguine, all'attaccatura delle cosce. Fui contenta per la prima
volta dell'abito scuro che avevo messo. Stavo per allontanarmi quando zio Filippo
ne fece una delle sue.
Nella sua testa di settantenne che spesso confondeva passato e presente, un
dettaglio doveva aver abbattuto barriere già poco solide. Cominciò a bestemmiare
in dialetto ad altissima voce, tra lo stupore di tutti, agitando freneticamente l'unico
braccio che aveva.
«L'avete visto Caserta?» chiese rivolto a me e alle mie sorelle, col fiato mozzo.
E ripetè più volte quel cognome noto, un suono minaccioso dell'infanzia che mi
diede un senso di malessere. Poi aggiunse paonazzo: «Senza ritegno. Al funerale
di Amalia.
Se c'era tuo padre, l'ammazzava».
Non volevo sentir parlare di Caserta, puro agglomerato di trepidazione
infantile. Feci finta di niente e cercai di rabbonirlo, ma lui nemmeno mi sentì.
Anzi mi strinse agitato col suo unico braccio, come se volesse consolarmi per
l'affronto di quel nome. Allora mi sottrassi sgarbatamente, promisi alle mie sorelle
che sarei arrivata al cimitero in tempo per la cerimonia della sepoltura e tornai
nella piazza.
Cercai a passo veloce un bar. Chiesi del bagno e mi infilai nel retrobottega, in
uno sgabuzzino puzzolente con la tazza lurida e un lavandino giallastro.
Il flusso di sangue era copioso. Ebbi un senso di nausea e un lieve capogiro.
Vidi nella penombra mia madre a gambe larghe che sganciava una spilla di
sicurezza, si staccava dal sesso, come se fossero incollati, dei panni di lino
insanguinati, si girava senza sorpresa e mi diceva con calma: «Esci, che fai qui?».
Scoppiai a piangere, per la prima volta dopo molti anni. Piansi battendo una mano
quasi a intervalli fissi sul lavandino, come per imporre un ritmo alle lacrime.
Quando me ne accorsi, smisi, mi ripulii alla meglio con i kleenex e uscii in cerca
di una farmacia.
Fu allora che lo vidi per la prima volta. «Posso esserle utile?» mi chiese quando
gli andai a sbattere contro: pochi secondi, il tempo di sentire contro il viso la
stoffa della sua camicia, notare il cappuccio blu della penna che gli usciva dal
taschino della giacca, e intanto registrare il tono incerto della voce, un odore
gradevole, la pelle vuota del collo, una massa fitta di capelli bianchi in perfetto
ordine.
«Sa dov'è una farmacia?» chiesi ma senza nemmeno guardarlo, impegnata
com'ero in un rapido scarto che voleva abolire il contatto.
«Su corso Garibaldi» mi rispose mentre ristabilivo un minimo di distanza tra la
macchia compatta del suo corpo ossuto e me. Adesso era come incollato, con la
sua camicia bianca e la giacca scura, alla facciata dell'Albergo dei Poveri. Lo vidi
pallido, ben rasato, senza meraviglia nello sguardo che non mi piacque.
Ringraziai quasi a fior di labbra e filai nella direzione che mi aveva indicato.
Lui mi inseguì con la voce, che modificò da cortese in un sibilo incalzante e
sempre più sguaiato. Fui raggiunta da un fiotto di oscenità in dialetto, un morbido
rivolo di suoni che coinvolse in un frullato di seme, saliva, feci, orina, dentro
orifizi d'ogni genere, me, le mie sorelle, mia madre.
Mi girai di scatto, tanto più stupefatta quanto più gli insulti erano immotivati.
Ma l'uomo non c'era più. Forse aveva attraversato la strada e si era perso tra le
auto, forse aveva girato l'angolo verso Sant'Antonio Abate. Lentamente lasciai che
i battiti del cuore si regolarizzassero e svaporasse una sgradevole pulsione
omicida. Entrai nella farmacia, acquistai un pacco di assorbenti e ritornai nel bar.
III
Arrivai al cimitero in taxi, appena in tempo per vedere la bara calare in una
vasca di pietra grigia, che fu poi colmata di terra. Le mie sorelle partirono subito
dopo la sepoltura, in automobile, coi loro mariti e i loro figli. Non vedevano l'ora
di tornare a casa e dimenticare.
Ci abbracciammo e promettemmo di rivederci presto, ma sapevamo che non
sarebbe successo. Avremmo scambiato al massimo qualche telefonata per
misurare di volta in volta il crescente tasso di reciproca estraneità. Da anni
vivevamo tutte e tre in città diverse, ciascuna con la sua vita e un passato in
comune che non ci piaceva. Le rare volte che ci vedevamo tutto quello che
avevamo da dirci preferivamo tacercelo.
Rimasta sola, pensai che lo zio Filippo mi avrebbe invitata a casa sua dove ero
stata ospite nei giorni precedenti. Ma non lo fece. Gli avevo annunciato in
mattinata che dovevo andare a casa di mia madre, portare via i pochi oggetti
d'affezione, disdire il contratto d'affitto, della luce, del gas, del telefono; e lui
probabilmente aveva pensato che era inutile invitarmi. Si allontanò senza
salutarmi, curvo, a passo strascicato, logorato dall'arteriosclerosi e da
quell'improvviso ingorgo di vecchi rancori che gli facevano vomitare insulti
fantasiosi.
Così fui dimenticata per strada. La folla dei parenti si era ritratta verso le
periferie da cui era venuta.
Mia madre era stata sotterrata da becchini maleducati in fondo a un interrato
maleodorante di ceri e di fiori marci. Io avevo mal di reni e crampi al ventre. Mi
decisi a malincuore: strisciai lungo la parete rovente dell'Orto Botanico fino a
piazza Cavour, in un'aria resa più pesante dai gas delle automobili e dal ronzio di
suoni dialettali che decifravo malvolentieri.
Era la lingua di mia madre, che avevo cercato inutilmente di dimenticare
insieme a tante altre cose sue. Quando ci vedevamo a casa mia, o venivo io a
Napoli per visite rapidissime di mezza giornata, lei si sforzava di usare uno
stentato italiano, io scivolavo con fastidio, solo per aiutarla, nel dialetto. Non un
dialetto gioioso o nostalgico: un dialetto senza naturalezza, usato con imperizia,
pronunciato stentatamente come una lingua straniera mal nota. Nei suoni che
articolavo a disagio, c'era l'eco delle liti violente tra Amalia e mio padre, tra mio
padre e i parenti di lei, tra lei e i parenti di mio padre.
Diventavo insofferente.
Presto ritornavo al mio italiano e lei si accomodava nel suo dialetto.
Adesso che era morta e che avrei potuto cancellarlo per sempre insieme alla
memoria che veicolava, sentirmelo nelle orecchie mi causava ansia. Me ne servii
per comprare una pizza fritta imbottita di ricotta.
Mangiai con gusto dopo giorni di quasi digiuno, in piedi, aggirandomi per
giardini disfatti con stentati oleandri e frugando con lo sguardo tra i molti anziani
in crocchio. Il viavai assillante di gente e auto a ridosso dei giardini mi decise a
salire da mia madre.
L'appartamento di Amalia era situato al terzo piano di un vecchio edificio
armato di tubi Innocenti. Il palazzo apparteneva a quelle costruzioni del centro
storico semideserte di notte e abitate di giorno da impiegati che rinnovano patenti,
procacciano certificati di nascita o di 16 residenza, interrogano computer per
prenotazioni o biglietti su aerei treni e navi, stipulano polizze di assicurazione per
furti incendi malattie morte, compilano macchinose denunce dei redditi. Gli
inquilini comuni erano pochi ma quando mio padre più di vent'anni prima - nel
momento in cui Amalia gli aveva detto che voleva separarsi da lui e noi figlie
l'avevamo fermamente sostenuta in quella scelta - ci aveva cacciate tutt'e quattro
di casa, era stato lì che fortunosamente avevamo trovato un appartamentino in
affitto. L'edificio non mi era mai piaciuto. Mi rendeva inquieta come un carcere,
un tribunale o un ospedale.
Mia madre invece ne era contenta: lo trovava imponente. In effetti era brutto e
lercio fin dal grande portone che veniva regolarmente forzato tutte le volte che
l'amministratore faceva riparare la serratura. I battenti erano polverosi, anneriti
dai gas di scappamento, coi grandi pomi di ottone mai lucidati dagli inizi del
secolo.
Nel lungo cavernoso passaggio che sbucava in un cortile interno, durante il
giorno stazionava sempre qualcuno: studenti, passanti in attesa dell'autobus che
fermava tre metri più in là, venditori di accendini, di fazzoletti di carta, di
pannocchie abbrustolite o caldarroste, turisti accaldati o che si riparavano dalla
pioggia, maschi torvi di tutte le razze in perenne contemplazione delle vetrine che
correvano lungo le due pareti. Questi ultimi in genere ingannavano l'attesa non so
di che cosa fissando le foto d'arte di un attempato fotografo che aveva lo studio
nel palazzo: sposi in abito da cerimonia, ragazze sorridenti e luminose, giovanotti
in divisa dall'aria sfrontata. Anni prima era stata esposta per un paio di giorni
anche una foto-tessera di Amalia.
Avevo intimato io al fotografo di toglierla, prima che mio padre passando di lì
desse in escandescenze e sfasciasse la vetrina.
Attraversai il cortile interno a occhi bassi e salii la breve gradinata che dava
alla porta a vetri della scala B.
Il portiere era assente e ne fui contenta. Entrai nell'ascensore in fretta. Era
l'unico luogo di quel palazzone che mi piacesse. In genere non amavo quei
sarcofaghi di metallo che salivano veloci o piombavano giù appena toccavi il
pulsante, aprendo un buco nello stomaco. Ma quello aveva pareti di legno, porte a
vetri con arabeschi grigi ai bordi, maniglie d'ottone lavorate, due panche eleganti
che si fronteggiavano, uno specchio, l'illuminazione fioca; e arrancava con un
concerto di scricchiolii, regolato da una riposante lentezza. Una gettoniera degli
anni Cinquanta, di pancia ampia e col becco ad arco rivolto al soffitto, pronto a
ingoiare monetine, emetteva un singhiozzo metallico a ogni piano. Da tempo la
cabina si avviava soltanto premendo un pulsante, sicché era rimasta inutilmente
inchiodata sulla parete di destra. Ma, pur guastando la calma vecchiaia di quello
spazio, la gettoniera per la sua vuotezza astinente non mi dispiaceva.
Mi sedetti su una panca e feci quello che da ragazza facevo tutte le volte che
avevo bisogno di calmarmi: invece di premere il pulsante col numero tre, mi
lasciai sollevare fino al quinto piano. Quel luogo era stato vuoto e buio fin da
quando, molti anni prima, l'avvocato che aveva lì il suo studio se ne era andato
portandosi via anche la lampadina che illuminava il pianerottolo. Quando
l'ascensore si fermò, lasciai che il respiro mi scivolasse nel ventre e tornasse poi
lentamente fino alla gola. Come sempre, dopo qualche secondo, anche la luce
dell'ascensore si spense. Pensai di allungare la mano verso la maniglia di una
delle ante: bastava tirare e la luce sarebbe tornata. Ma non mi mossi e seguitai a
inviare il respiro nel fondo del corpo. Si udivano solo i tarli che divoravano il
legno dell'ascensore.
Solo pochi mesi prima (cinque, sei?), per un impulso improvviso avevo rivelato
a mia madre, nel corso di una delle mie visite veloci, che da adolescente mi
rifugiavo in quel luogo segreto e l'avevo trascinata lì in cima. Forse volevo
cercare di stabilire tra noi un'intimità che non c'era mai stata, forse volevo
confusamente farle sapere che ero stata sempre infelice. Ma lei mi era sembrata
solo molto divertita dal fatto che me ne fossi stata sospesa nel vuoto, in un
ascensore sgangherato.
«Hai mai avuto un uomo in tutti questi anni?» allora le avevo chiesto a
bruciapelo. Volevo dire: aveva mai avuto un amante, dopo aver lasciato mio
padre? Era una domanda molto anomala, all'interno delle domande possibili tra
noi fin da quando ero bambina. Ma il suo corpo, seduto a pochi centimetri dal mio
sulla panca di legno, non aveva manifestato alcun disagio. Nemmeno la sua voce,
che era stata sicura e netta: no. Non un solo segnale che potesse indurmi a pensare
che mentiva. Perciò non avevo avuto nessun dubbio. Mentiva.
«Hai un amante» le avevo detto gelidamente.
La reazione era stata esagerata al confronto coi suoi comportamenti sempre
molto contenuti. S'era tirata su il vestito fino alla vita, scoprendo mutande rosa
alte e slargate. Ridacchiando aveva detto qualcosa di confuso sulla carne molle, la
pancia cascante, ripetendo: «Tocca qui» e cercando di prendermi una mano per
portarla sul ventre bianco e gonfio.
Mi ero ritratta e la mano me l'ero poggiata sul cuore per calmarne i battiti molto
veloci. Lei aveva fatto cadere il lembo della veste che però le aveva lasciato le
gambe scoperte, gialle alla luce dell'ascensore. Mi ero pentita di averla portata in
cima al mio rifugio. Soprattutto avevo desiderato che si coprisse. «Esci» le avevo
detto. L'aveva fatto davvero: non mi diceva mai di no. Era bastato un solo passo
oltre le porte aperte ed era sparita nel buio. A sentirmi sola nella cabina, avevo
provato un certo pacato piacere. Con un gesto irriflesso avevo chiuso le porte.
Pochi secondi e la luce dell'ascensore si era spenta.
«Delia» aveva mormorato mia madre ma senza allarme. Non si allarmava mai
in mia presenza e anche in quell'occasione mi era sembrato che, per una vecchia
abitudine, invece di cercare rassicurazione, tendesse a rassicurarmi.
Ero rimasta per un po' ad assaporare il mio nome come un'eco della memoria,
un'astrazione che suona senza suono nella testa. Mi era sembrata la voce, da
tempo immateriale, di quando lei mi cercava per la casa e non mi trovava.
Ora ero lì e tentavo di cancellare in fretta la rievocazione di quell'eco.
Ma mi restò l'impressione di non essere sola. Ero spiata, non da quell'Amalia di
mesi prima che ormai era morta, ma da me stessa uscita sul pianerottolo a
vedermi lì seduta. Mi detestavo, quando accadeva.
Provai un po' di vergogna a scoprirmi muta nella cabina obsoleta, sospesa tra il
vuoto e il buio, nascosta come in un nido sul ramo di un albero, la lunga coda
delle corde d'acciaio che penzolava stancamente dal corpo dell'ascensore.
Allungai la mano verso la porta e annaspai un po' prima di trovare la maniglia. Il
buio si ritrasse oltre i vetri arabescati.
Lo sapevo da sempre. C'era una linea che non riuscivo a varcare, quando
pensavo ad Amalia. Forse ero lì per riuscire a varcarla. Me ne spaventai, premetti
il pulsante con il numero tre e l'ascensore ebbe uno scossone rumoroso. Cigolando
cominciò a scendere verso l'appartamento di mia madre.
IV
Chiesi le chiavi alla vicina di casa, la vedova De Riso. Me le diede ma rifiutò
con decisione di entrare con me. Era pingue e sospettosa, con un grosso neo sulla
guancia destra abitato da due lunghi peli grigi, e i capelli in due bande raccolti
sulla nuca con un ghirigoro di trecce.
Vestiva di nero, forse abitualmente, forse perché aveva ancora addosso l'abito
del funerale. Restò sulla soglia di casa sua a vedermi scegliere le chiavi giuste.
Ma la porta non era chiusa con cura. Contrariamente al solito, Amalia aveva usato
una sola delle due serrature, quella con due mandate. Dell'altra, che ne prevedeva
cinque, non si era servita.
«Come mai?» chiesi alla vicina spalancando la porta.
La De Riso esitò. «Aveva la testa un po' per aria» disse ma dovette ritenere
irriguardosa l'espressione, perché aggiunse: «Era contenta».
Quindi esitò ancora: si vedeva che avrebbe spettegolato volentieri ma temeva il
fantasma di mia madre che aleggiava per la tromba delle scale, nell'appartamento,
sicuramente anche in casa sua. La invitai di nuovo a entrare sperando che mi
tenesse compagnia con le sue chiacchiere. Lei rifiutò recisamente con un brivido e
fece gli occhi rossi.
«Perché era contenta?» domandai.
Tentennò ancora e poi si decise.
«Da qualche tempo veniva a trovarla un signore alto, molto perbene...».
La fissai con ostilità. Decisi che non mi andava che continuasse.
«Era suo fratello» dissi.
La De Riso strinse gli occhi, offesa: lei e mia madre erano amiche da molto
tempo e conosceva benissimo zio Filippo. Non era né alto, né troppo perbene.
«Suo fratello» scandì con falsa accondiscendenza.
«No?» chiesi indispettita da quel tono. Lei mi salutò freddamente e chiuse la
porta.
Quando si entra nella casa di una persona morta di recente, è difficile crederla
deserta. Le case non conservano fantasmi ma trattengono gli effetti degli ultimi
gesti di vita.
Per prima cosa sentii lo scroscio dell'acqua che veniva dalla cucina e per una
frazione di secondo, con una torsione brusca del vero e del falso, pensai che mia
madre non fosse morta, che la sua morte fosse stata solo l'oggetto di una lunga
angosciosa fantasia cominciata chissà quando. Fui certa che era in casa, viva, in
piedi davanti al lavandino, a lavare i piatti bisbigliando tra sé e sé. Ma le imposte
erano chiuse, l'appartamento era buio. Accesi la luce e vidi il vecchio rubinetto di
ottone che fiottava copiosamente acqua nel lavandino vuoto.
Lo chiusi. Mia madre apparteneva a una cultura tramontata che non concepiva
sprechi. Non buttava via il pane secco, del formaggio usava anche la crosta
cuocendola nella minestra per insaporirla, non comprava quasi mai carne ma al
macellaio chiedeva ossi di scarto per ricavarne brodo e li succhiava come se
contenessero sostanze miracolose.
Non avrebbe mai dimenticato il rubinetto aperto. Usava l'acqua con una
parsimonia che si era trasformata in riflesso del gesto, dell'orecchio, della voce.
Se da ragazza lasciavo anche solo un silenzioso filo d'acqua, teso verso il fondo
del lavandino come un ferro da calza, un attimo dopo mi gridava senza
rimprovero: «Delia, il rubinetto». Mi sentii inquieta: aveva sprecato più acqua con
quella distrazione delle ultime ore di vita, che in tutta la sua esistenza. La vidi
galleggiare a faccia in giù, sospesa al centro della cucina, sullo sfondo delle
maioliche azzurre.
Cambiai ambiente in fretta. Mi aggirai per la camera da letto raccogliendo in
una busta di plastica le poche cose a cui aveva tenuto: l'album delle fotografie di
famiglia, un braccialetto, un suo vecchio vestito invernale che risaliva agli anni
Cinquanta e che piaceva anche a me. Il resto era roba che non avrebbero voluto
nemmeno i rigattieri. I pochi mobili erano vecchi e brutti, il suo letto era
composto dalla sola rete e dal materasso, le lenzuola e le coperte erano rattoppate
con una cura che, data la loro età, non meritavano.
Mi colpì invece che il cassetto dove di solito teneva la biancheria intima fosse
vuoto. Cercai il sacco dei panni sporchi e vi guardai dentro. Non c'era nient'altro
che una camicia maschile di buona qualità.
L'esaminai. Era una camicia azzurra, di taglia media, acquistata di recente e
scelta da un uomo giovane o con gusti giovanili. Il collo era sporco ma l'odore del
tessuto non era sgradevole: il sudore si era fuso a una buona marca di deodorante.
La ripiegai con cura e la misi nella busta di plastica insieme alle altre cose. Non
era un indumento in linea con ciò che indossava zio Filippo.
Passai nel bagno. Non c'era spazzolino né dentifricio. Dalla porta pendeva il
suo vecchio accappatoio azzurro. La carta igienica era agli sgoccioli. Di lato alla
tazza c'era una busta della spazzatura semicolma.
Dentro non c'erano rifiuti; c'era invece quel lezzo di corpo affaticato che
conservano i panni sporchi o fatti di tessuto invecchiato, intrisi in ogni fibra degli
umori di decenni.
Cominciai a estrarre, indumento dietro indumento, con un lieve ribrezzo, tutta
la biancheria intima di mia madre: vecchie mutande bianche e rosa, con molti
rattoppi ed elastici antiquati che apparivano qua e là dalla stoffa scucita, come
binari negli intervalli tra un tunnel e l'altro; reggiseni sformati e usurati; canottiere
bucate; elastici per tener su le calze, di quelli che si usavano fino a quarant'anni fa
e che lei conservava inutilmente; collant in uno stato penoso; sottovesti fuori
moda e fuori commercio da tempo, stinte, coi merletti ingialliti.
Amalia, che si era sempre vestita di stracci per povertà ma anche per l'abitudine
a non rendersi piacente, acquisita molti decenni prima per placare la gelosia di
mio padre, sembrava che avesse deciso all'improvviso di sbarazzarsi di tutto il suo
guardaroba. Mi tornò in mente l'unico indumento che aveva addosso quando
l'avevano ripescata: il raffinato reggipetto nuovo di zecca, con le tre V che
annodavano le coppe.
L'immagine dei suoi seni chiusi in quel pizzo accrebbe l'inquietudine che
provavo. Lasciai gli indumenti sparsi per il pavimento, senza la forza di tornare a
toccarli, chiusi la porta e mi ci appoggiai contro.
Ma inutilmente: l'intera stanza da bagno mi scavalcò e si ricompose davanti a
me, nel corridoio: Amalia ora sedeva sulla tazza e mi guardava con attenzione
mentre mi depilavo. Mi stavo coprendo le caviglie con una corteccia di cera
rovente per poi passare, gemendo, a scollarmela decisamente dalla pelle. Lei
intanto mi raccontava che da ragazza si era tagliata la peluria nera dalle caviglie
con le forbici. Ma i peli delle caviglie le erano subito ricresciuti duri come i
riccioli di un filo spinato. Anche al mare, prima di mettersi in costume, si
accorciava con le forbici i peli del pube.
Le imposi la mia ceretta sebbene si schermisse. Le spalmai con cura la cera
sulle caviglie, sulla parte interna delle cosce magre e sode, nell'inguine,
rimproverandola intanto con durezza immotivata per la sottana rattoppata. Poi la
scortecciai mentre lei mi osservava senza battere ciglio.
Lo feci senza cautela, come se volessi sottoporla a una prova del dolore, e lei
mi lasciò fare senza fiatare come se avesse accettato la prova. Ma la pelle non
resistette. Diventò prima rosso fuoco e poi subito violacea svelando un reticolo di
capillari rotti. «Fa niente» disse, «poi passa», mentre io mi rammaricavo
fiaccamente per come l'avevo ridotta.
Me ne rammaricavo più intensamente adesso, mentre con uno sforzo di volontà
cercavo di rinviare la stanza da bagno oltre l'uscio a cui appoggiavo le spalle. Per
farlo mi staccai dalla porta, lasciai sbiadire per il corridoio l'immagine delle sue
gambe livide e andai a prendere la mia borsa in cucina. Quando ritornai nel
bagno, scelsi con cura tra le 23 mutande che giacevano sul pavimento quella che
mi sembrò meno mal ridotta.
Mi lavai e cambiai l'assorbente interno. Lasciai i miei slip a terra, tra quelli di
Amalia. Nel passare davanti allo specchio, senza volerlo mi sorrisi per
tranquillizzarmi.
Trascorsi non so quanto tempo accanto alla finestra della cucina, ad ascoltare il
vocìo del vicolo, il trafficare delle motorette, lo scalpiccio sul selciato. La strada
esalava un odore di acqua stagnante che si arrampicava su per i tubi Innocenti.
Ero stanchissima ma non volevo sdraiarmi sul letto di Amalia né chiedere aiuto
allo zio Filippo o telefonare a mio padre o cercare ancora la De Riso. Provavo
pena per quel mondo di vecchi smarriti, confusi tra immagini di sé che risalivano
a epoche andate, ora affiatati ora in rissa con ombre di cose e persone del tempo
passato. Tuttavia faticavo a tenermi in margine. Ero tentata di agganciare voce a
voce, cosa a cosa, fatto a fatto. Già adesso sentivo tornare Amalia che voleva
osservare come mi spalmavo di creme, come mi truccavo e mi struccavo. Già
cominciavo a immaginarmi con astio una sua vecchiaia segreta in cui giocava col
suo corpo tutto il giorno, come forse avrebbe fatto da giovane, se mio padre non
avesse letto in quei giochi un desiderio di piacere ad altri, una preparazione
all'infedeltà.
V
Dormii non più di un paio d'ore, senza sogni. Quando aprii gli occhi, la camera
era buia e dalla finestra aperta veniva solo il chiarore nebuloso dei lampioni che si
diffondeva su uno spicchio di soffitto. Amalia era lassù come una farfalla
notturna, giovane, forse sui vent'anni, chiusa in una vestaglia verde, con un ventre
gonfio da gravidanza avanzata. Sebbene serena nel viso, strisciava sulla schiena
torcendo il corpo convulsamente per uno spasimo doloroso. Chiusi gli occhi per
darle il tempo di staccarsi dal soffitto e tornare nella morte; poi li riaprii e guardai
l'orologio. Erano le due e dieci. Mi addormentai di nuovo ma per pochi minuti.
Quindi passai a un torpore denso di immagini, con le quali cominciai senza
volerlo a raccontarmi di mia madre.
Amalia, nel mio dormiveglia, era una donna bruna e pelosa. I capelli, anche
quando ormai era vecchia, anche quando erano appassiti per la salsedine, le
luccicavano come la pelle di una pantera ed erano fitti, crescevano l'uno accanto
all'altro senza aprirsi al vento. Odoravano del sapone da bucato, non quello secco,
che aveva una scala stampata sulla superficie.
Odoravano di sapone liquido, quello di colore marrone che si acquistava in un
interrato di cui ricordavo il prurito di polvere nelle narici e nella gola.
Quel sapone lo vendeva un uomo grasso e glabro. Ne prendeva con una paletta
e lo incollava su una carta gialla e spessa deponendovi insieme un fiato di sudore
e di ddt. Io correvo da Amalia trafelata, reggendo il cartoccio e soffiandoci sopra a
guance gonfie per cacciarne via gli odori dello scantinato e di quell'uomo; corro
allo stesso modo ora, con la guancia sul cuscino su cui ha dormito mia madre,
anche se è passato tanto tempo. E lei, a vedermi arrivare, già si scioglie i capelli
che si disfano come se ce li avesse scolpiti in volute sulla fronte e l'ebano della
pettinatura mutasse struttura molecolare sotto le sue mani.
I capelli erano lunghi. Amalia non finiva mai di scioglierli e per lavarli non
bastava sapone, occorreva tutto il contenitore dell'uomo che lo vendeva
nell'interrato, in fondo ai gradini bianchi di cenere o di lisciva. Sospettavo che a
volte mia madre, sfuggendo alla mia sorveglianza, li andasse a immergere
direttamente nel bidone, col consenso dell'uomo della bottega. Poi si girava
allegramente verso di me con la faccia bagnata, l'acqua che le scrosciava sulla
nuca dal rubinetto di casa, le ciglia e le pupille nere, le sopracciglia tracciate a
carbonella, appena ingrigite dalla schiuma che, ad arco sulla fronte, si rompeva in
gocce d'acqua e sapone. Le gocce le scivolavano giù per il naso, verso la bocca,
finché lei le catturava con la lingua rossa e mi pareva che dicesse: «Buone».
Non sapevo come facesse a essere contemporaneamente in due spazi diversi, a
entrare tutta nel bidone del sapone, lì nello scantinato, in sottoveste azzurra, i fili
delle spalline che le precipitavano dalle spalle giù per le braccia; e intanto
abbandonarsi all'acqua della nostra cucina, che seguitava a rivestirle di una patina
liquida la banda dei capelli.
Certamente me l'ero sognata così a occhi aperti, come facevo adesso per
l'ennesima volta, e per l'ennesima volta ne provavo un doloroso imbarazzo.
L'uomo grasso infatti non si accontentava di stare a guardare.
Trascinava il bidone all'aperto, d'estate. Era a torso nudo, cotto dal sole, e aveva
un fazzoletto bianco stretto intorno alla fronte. Rovistava nel recipiente con un
lungo bastone e arroncigliava sudando la massa lucida dei capelli di Amalia.
Intanto il compressore stradale scoppiettava più in là e avanzava lentamente con il
suo grande cilindro di pietra grigia.
Lo guidava un altro uomo, tarchiato e muscoloso, anche lui a torso nudo, le
ascelle pelose in riccioli per il sudore. Portava certe braghe coloniali sbottonate in
modo da mostrare da seduto, all'altezza del ventre, una paurosa cavità e, ben
sistemato sul sedile della macchina, controllava come dal bidone inclinato
scivolava il catrame denso e lucido dei capelli di Amalia che, nelTallargarsi sul
pietrisco, sollevava vapori e ondulava l'aria. I capelli di mia madre erano pece e
diradavano in peli e pelurie rigogliose che si intensificavano nei luoghi proibiti
del corpo.
Proibiti a me: non mi permetteva di toccarla. Nascondeva la faccia
rovesciandovi sopra la cortina della chioma e offriva la nuca al sole per
asciugarla.
Quando il telefono squillò, lei tirò su la testa di scatto, tanto che i capelli
bagnati dal pavimento volarono per l'aria, lambirono il soffitto e le ricaddero sulla
schiena con uno schiocco che mi svegliò del tutto.
Accesi la luce. Non mi ricordavo dov'era l'apparecchio, che intanto seguitava a
squillare. Lo trovai nel corridoio, un vecchio telefono degli anni Sessanta che mi
era ben noto, fissato alla parete. Al mio «pronto» una voce maschile mi chiamò
Amalia.
«Non sono Amalia» dissi, «chi parla?».
Ebbi l'impressione che l'uomo al telefono reprimesse a stento una risata. Ripetè:
«Non sono Amalia», in falsetto, e poi riprese in un dialetto strettissimo:
«Lasciami all'ultimo piano la busta coi panni sporchi. Me l'avevi promessa. E
guarda bene: troverai la valigia con le tue cose. Te l'ho messa lì».
«Amalia è morta» dissi con tono tranquillo. «Chi sei?».
«Caserta» disse l'uomo.
Il cognome suonò come suona il nome dell'Orco nelle fiabe.
«Io mi chiamo Delia» risposi. «Che c'è all'ultimo piano? Cos'hai di suo?» «Io
niente. Sei tu che hai qualcosa di mio» disse l'uomo di nuovo in falsetto,
storpiando leziosamente il mio italiano.
«Vieni qui» gli dissi in modo persuasivo, «ne parliamo e ti prendi quello che ti
serve».
Ci fu un lungo silenzio. Aspettai la risposta ma non ci fu. L'uomo non aveva
riattaccato: aveva semplicemente abbandonato il ricevitore e se ne era andato.
Andai in cucina e bevvi un bicchiere d'acqua, un'acqua spessa, di pessimo
sapore. Quindi tornai al telefono e composi il numero di zio Filippo.
Rispose dopo cinque squilli e, senza che riuscissi a dire pronto, mi urlò nel
telefono insulti d'ogni tipo.
«Sono Delia» dissi con durezza. Sentii che faceva fatica a identificarmi.
Quando si ricordò di me, cominciò a farfugliare scuse chiamandomi «figlia
mia» e chiedendomi a ripetizione se stavo bene, dove mi trovavo, che era
successo.
«Mi ha telefonato Caserta» dissi. Poi, prima che riavviasse il rosario delle
bestemmie, gli imposi: «Calma».
VI
Dopo tornai nel bagno. Cacciai col piede dietro il bidet il mio slip sporco,
raccolsi la biancheria di Amalia che avevo sparso per il pavimento e la rimisi
nella busta della spazzatura. Poi uscii sul pianerottolo. Non ero più né depressa né
inquieta. Chiusi accuratamente la porta di casa usando entrambe le serrature e
chiamai l'ascensore.
Una volta dentro, premetti il pulsante numero cinque. All'ultimo piano, lasciai
aperte le porte dell'ascensore in modo che lo spazio buio risultasse almeno
parzialmente illuminato.
Scoprii che l'uomo aveva mentito: la valigetta di mia madre non c'era.
Pensai di ritornare giù ma cambiai idea. Disposi il sacco della spazzatura nel
rettangolo di luce lasciato dall'ascensore e poi chiusi le porte. Al buio, mi sistemai
nell'angolo del pianerottolo da dove avrei potuto vedere bene chiunque uscisse
dall'ascensore o arrivasse dalle scale. Sedetti sul pavimento.
Da decenni per me Caserta era una città della fretta, un luogo dell'inquietudine
dove tutto va più veloce che in altri luoghi. Non la città reale nel cui parco
settecentesco ricco di acque a cascata ero andata da piccola, il lunedì dopo
Pasqua, tra folle di gitanti, confusa nel clan sterminato dei parenti, a mangiare
salame di Secondigliano e uova cotte col guscio dentro una pasta grassa e pepata.
Di quella città e di quel parco l'insieme di lettere conservava solo l'acqua che cade
veloce e il piacere terrorizzato di perdermi tra grida di richiamo sempre più
lontane. Invece ciò che le mie emozioni meno verbalizzabili registravano sotto la
voce Caserta, custodiva soprattutto una nausea da girotondo, il capogiro e la
mancanza d'aria. A volte quel luogo, che apparteneva alla memoria meno
affidabile, era fatto di una gradinata fiocamente illuminata e di una ringhiera in
ferro battuto. Altre volte era una chiazza di luce tagliata da sbarre e coperta da un
fitto reticolo, che osservavo acquattata sottoterra, in compagnia di un bambino di
nome Antonio che mi teneva forte per mano. I suoni che l'accompagnavano, come
in un film la colonna sonora, erano puro tramestìo, improvviso clangore, come di
cose prima in ordine che all'improvviso rovinano.
L'odore era quello dell'ora di pranzo o di cena, quando da ogni porta, per la
tromba delle scale, si mescolano i profumi delle cucine più varie, guastati però da
un tanfo di muffe e di ragnatele. Caserta era un posto dove non dovevo andare, un
bar con un'insegna, una donna bruna, delle palme, leoni, cammelli. Aveva il
sapore dei confetti nelle bomboniere ma era vietato entrarci. Se le bambine lo
facevano, non ne uscivano più.
Nemmeno mia madre doveva entrarci, altrimenti mio padre la uccideva.
Caserta era un uomo, una sagoma di stoffa scura. La sagoma ruotava appesa a
un filo, prima un giro di qua, poi uno di là. Non era lecito parlare di lui. Amalia
veniva spesso inseguita per casa, raggiunta, colpita al viso prima col dorso della
mano, poi col palmo, solo perché aveva detto: «Caserta».
Questo nei miei ricordi meno databili.
In quelli più nitidi c'era Amalia stessa che parlava in segreto di lui, di
quell'uomo-città fatto a cascate e a fratte e a statue di pietra e a pitture di palmizi
con cammelli. Non ne parlava a me, che forse giocavo sotto il tavolo con le mie
sorelle. Ne parlava ad altri, alle donne che insieme a lei lavoravano guanti a
domicilio. Avevo da qualche parte del cervello echi di frasi. Me ne era rimasta una
in mente, molto nitida.
Non erano nemmeno parole, non lo erano più; erano suoni compatti
materializzati in immagine.
Quel Caserta, diceva mia madre in un sussurro, l'aveva spinta in un angolo e
aveva cercato di baciarla. Io, a sentirla, vedevo la bocca aperta di quell'uomo, con
denti bianchissimi e una lingua lunga e rossa. La lingua saettava oltre le labbra e
poi vi rientrava a una velocità che mi ipnotizzava. Negli anni dell'adolescenza
chiudevo gli occhi apposta per riprodurre a piacimento quella scena dentro di me,
e contemplarla mescolando attrazione e repulsione. Ma lo facevo sentendomi
colpevole, come se facessi una cosa proibita. Sapevo già allora che in
quell'immagine della fantasia c'era un segreto che non poteva essere svelato, non
perché una parte di me non sapesse come accedervi, ma perché se l'avessi fatto
l'altra parte avrebbe rifiutato di nominarlo e mi avrebbe cacciata via da sé.
Al telefono, poco prima, zio Filippo mi aveva detto alcune cose che già
conoscevo confusamente: lui ne parlava e io sapevo. Erano riassumibili così:
Caserta era un uomo indegno. Da ragazzo era stato amico suo e di mio padre. Con
mio padre, nel dopoguerra, erano riusciti a fare buoni affari: sembrava un giovane
limpido, sincero.
Ma aveva messo gli occhi addosso a mia madre. E non solo a lei: era già
sposato, aveva un figlio, ma molestava tutte le donne del quartiere. Quando era
successo che aveva colmato la misura, mio zio e mio padre gli avevano dato una
lezione. E Caserta con la moglie e il figlio se n'erano andati a vivere da un'altra
parte.
Aveva concluso in un minaccioso dialetto: «Non se la voleva togliere dalla
testa. Allora gli abbiamo fatto passare per sempre la voglia».
Silenzio. Avevo visto sangue tra urla e insulti. Fantasmi su fantasmi.
Antonio, il bambino che mi teneva la mano, era precipitato giù, nel fondo più
buio dell'interrato. Avevo sentito per un attimo la violenza domestica della mia
infanzia e della mia adolescenza tornarmi negli occhi e nelle orecchie come se
colasse lungo un filo che ci collegava. Ma mi ero accorta per la prima volta che
ora, dopo tanti anni, era quello che volevo.
«Vengo lì» aveva proposto zio Filippo.
«Cosa vuoi che mi faccia un vecchio di settantanni?».
Si era confuso. Prima di riattaccare avevo giurato che gli avrei ritelefonato se
Caserta si fosse fatto di nuovo vivo.
Ora me ne stavo sul pianerottolo in attesa. Trascorse almeno un'ora.
Dalla tromba delle scale veniva il chiarore delle luci degli altri piani che mi
permetteva di controllare, una volta fatta l'abitudine al buio, tutto lo spazio. Non
accadde nulla. Solo verso le quattro del mattino l'ascensore ebbe un brusco
sussulto e il quadrante passò dal verde al rosso.
La cabina piombò giù.
D'un balzo fui alla ringhiera: la vidi scivolare oltre il quarto piano e fermarsi al
terzo. Le porte si aprirono e si chiusero. Poi di nuovo silenzio. Cessò anche l'eco
delle vibrazioni emesse dalle corde d'acciaio.
Aspettai un po', forse cinque minuti; poi scesi cautamente al piano di sotto. Lì
c'era una luce giallastra: le tre porte che affacciavano sul pianerottolo
introducevano agli uffici di una compagnia assicuratrice.
Feci un'altra rampa scivolando intorno alla cabina ferma e buia. Volevo
guardarci dentro ma non lo feci per la sorpresa. La porta della casa di mia madre
era spalancata, le luci erano accese. Proprio sulla soglia c'era la valigetta di
Amalia e accanto la sua borsetta in pelle nera. Istintivamente feci per precipitarmi
verso quegli oggetti, ma alle mie spalle sentii lo scatto della porta a vetri
dell'ascensore. La luce illuminò la cabina rivelandomi un uomo anziano, curato, a
suo modo bello nel viso scuro e scarno sotto la massa dei capelli bianchi. Era
seduto su una delle panche di legno e se ne stava così immobile che sembrava
l'ingrandimento di una vecchia foto.
Mi fissò per un secondo con uno sguardo amichevole, lievemente malinconico.
Poi la cabina si impennò verso l'alto con fracasso.
Non ebbi dubbi. L'uomo era lo stesso che mi aveva sgranato il suo rosario di
oscenità durante il funerale di Amalia. Ma esitai a seguirlo su per le scale: pensai
di doverlo fare ma mi sentii inchiodata al pavimento come una statua. Fissai le
corde dell'ascensore fino a quando quello non si arrestò nel fracasso delle porte
che si aprivano e si chiudevano in fretta. Pochi secondi dopo la cabina mi scivolò
davanti di nuovo.
Prima di sparire verso il pianoterra l'uomo mi mostrò sorridendo il sacco della
spazzatura dentro cui c'era la biancheria di mia madre.
VII
Ero forte, asciutta, veloce e decisa; non solo: mi piaceva essere certa di esserlo.
Ma in quella circostanza non so che cosa accadde.
Forse fu la stanchezza, forse fu l'emozione di trovare spalancata quella porta
che avevo diligentemente chiuso. Forse restai abbacinata dalla casa con le luci
accese, dalla valigetta e dalla borsa di mia madre in bella mostra sulla soglia. O
forse fu altro. Fu la repulsione che provai percependo che l'immagine di
quell'uomo anziano oltre i vetri arabescati dell'ascensore mi era sembrata per un
attimo di torbida bellezza. Così, invece di inseguirlo, restai immobile a sforzarmi
di fissarne i dettagli, anche dopo che l'ascensore era sparito nella tromba delle
scale.
Quando me ne accorsi, mi sentii senza energie, depressa dalla sensazione di
essermi umiliata di fronte alla parte di me che vigilava su ogni possibile
cedimento dell'altra. Andai alla finestra in tempo per vedere l'uomo che si
allontanava per il vicolo alla luce dei lampioni, eretto nella persona, a passo
meditato ma non stentato, il sacco tenuto con la destra a braccio ben teso e
scostato dal fianco, col fondo di plastica nera che sfiorava il selciato. Tornai alla
porta e feci per slanciarmi per le scale. Ma mi accorsi che la vicina, la signora De
Riso, era comparsa nella striscia verticale di luce cautamente aperta tra l'uscio e la
cornice.
Era in una lunga camicia da notte di cotone rosa e mi guardava con ostilità, il
viso tagliato dalla catena che doveva impedire ai malintenzionati di entrare.
Certamente era lì da tempo a guardare dallo spioncino e a origliare.
«Che sta succedendo?» chiese con tono litigioso. «È tutta la notte che ti agiti».
Stavo per risponderle altrettanto litigiosamente ma mi ricordai che aveva
accennato a un uomo con cui mia madre si incontrava e feci in tempo a pensare
che dovevo contenermi, se volevo saperne di più.
Quell'accenno pettegolo del pomeriggio, che mi aveva infastidito, ora ero
costretta a desiderare che diventasse chiacchiera dettagliata, discorso,
risarcimento per quella vecchia sola che non sapeva come far passare le notti.
«Niente» dissi cercando di normalizzare il respiro, «non riesco a dormire».
Lei borbottò qualcosa sui morti che faticano ad andarsene.
«La prima notte non fanno mai dormire» disse.
«Ha sentito dei rumori? L'ho disturbata?» chiesi con cortesia artefatta.
«Dormo poco e male, dopo una certa ora. In più ci si è messa la serratura: non
hai fatto che aprire e chiudere la porta».
«È vero» le risposi, «sono un po' nervosa. Mi sono sognata che quell'uomo di
cui mi ha parlato era qui sul pianerottolo».
La vecchia capì che avevo cambiato registro ed ero disposta ad ascoltare i suoi
pettegolezzi, ma volle essere sicura che non l'avrei di nuovo respinta.
«Che uomo?» domandò.
«Quello che m'ha detto lei... quello che veniva qui, a far visita a mia madre. Mi
sono addormentata che pensavo a lui...».
«Era un uomo perbene, che metteva Amalia di buonumore. Le portava le
sfogliatelle, i fiori. Quando veniva, li sentivo parlare e ridere continuamente.
Rideva soprattutto lei, con una risata così forte che si sentiva dal pianterreno».
«Che si dicevano?».
«Non lo so, non stavo a sentire. Mi faccio i fatti miei».
Ebbi un moto di impazienza.
«Ma Amalia non ne parlava mai?».
«Sì» ammise la De Riso, «una volta che li avevo visti uscire di casa insieme.
Mi disse che era uno che conosceva da cinquantanni, uno che era quasi come
un parente. E se è così, lo conosci anche tu. Era alto, magro, coi capelli bianchi.
Tua madre lo trattava quasi come se fosse il fratello. A tu per tu».
«Come si chiamava?».
«Non lo so. Non me l'ha mai detto.
Amalia faceva come le pareva.
Un giorno mi raccontava i fatti suoi, anche se non li volevo sentire, e il giorno
dopo non mi salutava nemmeno.
Delle sfogliatelle lo so perché non le mangiavano tutte e lei le dava a me.
Mi dava anche i fiori, perché le veniva mal di testa per il profumo: aveva
sempre mal di testa, negli ultimi mesi. Ma invitarmi e presentarmelo, mai».
«Forse temeva di metterla in imbarazzo».
«Ma no, voleva starsene per i fatti suoi. Io l'ho capito e mi sono fatta da parte.
Però ti voglio dire che su tua madre non si poteva fare affidamento».
«In che senso?».
«Non si comportava come si deve. Io questo signore l'ho intravisto quella volta
sola. Era un bel vecchio, vestito bene e quando li ho incrociati, m'ha fatto un
mezzo inchino. Lei invece .s'è girata dall'altra parte e m'ha detto una brutta
parola».
«Forse ha capito male».
«Ho capito benissimo. Le era presa la mania di dire bruttissime parole, ad alta
voce, anche quand'era sola. E poi si metteva a ridere. La sentivo da qui, dalla mia
cucina».
«Mia madre non ha detto mai parolacce».
«Le diceva, le diceva... A una certa età, ci vorrebbe un po' di ritegno».
«È vero» dissi. E mi ritornarono in mente la valigetta e la borsa sulla soglia di
casa. Li sentii come oggetti che, per il percorso che dovevano aver fatto, avevano
perso la dignità di cose di Amalia. Volevo cercare di restituirgliela. Ma la vecchia,
incoraggiata dai miei toni remissivi, tolse la catena dalla porta e venne sulla
soglia.
«Tanto» disse, «a quest'ora non dormo più».
Temetti che volesse entrare in casa e mi affrettai a ritirarmi verso
l'appartamento di mia madre.
«Io invece provo a dormire un po'» dissi.
La De Riso si oscurò e rinunciò subito a seguirmi. Rimise la catena alla porta
con dispetto.
«Anche Amalia voleva sempre entrare in casa mia e nella sua non mi faceva
entrare mai» borbottò. Poi mi chiuse la porta in faccia.
VIII
Mi sedetti sul pavimento e cominciai dalla valigia. L'aprii ma non trovai niente
che potessi riconoscere come appartenente a mia madre.
Ogni cosa era nuova di zecca: un paio di pantofole rosa, una vestaglia di raso
color cipria, due vestiti mai usati, uno d'un rosso ruggine troppo stretto per lei e
troppo giovanile, uno più pacato, blu, ma sicuramente corto, cinque slip di buona
qualità, un beauty di pelle marrone pieno di profumi, deodoranti, creme, trucchi,
detergenti: lei che non s'era mai truccata in vita sua.
Passai alla borsetta. Per prima cosa estrassi delle mutandine bianche di pizzo.
Mi convinsi subito dalle tre V ben visibili sul lato destro e dal disegno fine che
erano le compagne del reggiseno che Amalia indossava quando era annegata. Le
esaminai con cura: avevano un piccolo strappo sul fianco sinistro, come se fossero
state indossate pur essendo visibilmente di una misura più piccola di quella
necessaria.
Sentii che lo stomaco mi si contraeva e trattenni il respiro. Poi tornai a frugare
nella borsetta, per prima cosa alla ricerca delle chiavi di casa.
Naturalmente non le trovai. Trovai invece i suoi occhiali da presbite, nove
gettoni del telefono e il portafoglio. Nel portafoglio c'erano duecentoventimila lire
(una cifra cospicua per lei, che viveva col poco danaro che noi tre sorelle le
passavamo mensilmente), la ricevuta di una bolletta della luce, la sua carta
d'identità chiusa in una custodia di plastica, una vecchia foto mia e delle mie
sorelle in compagnia di nostro padre. La foto era rovinata. Quelle immagini nostre
di tanto tempo fa erano ingiallite, attraversate da crepe come in certe pale d'altare
le figure dei demoni alati che i fedeli hanno graffiato con oggetti appuntiti.
Lasciai la foto sul pavimento e mi sollevai combattendo con una nausea
crescente. Cercai per la casa un elenco del telefono e, quando lo trovai, corsi a
Caserta. Non volevo telefonargli: volevo l'indirizzo.
Quando scoprii che di Caserta ce n'erano tre fogli fitti, mi accorsi anche che
non sapevo che nome avesse: nessuno, nel corso della mia infanzia, l'aveva mai
chiamato in altro modo che Caserta. Allora gettai in un angolo l'elenco del
telefono e andai in bagno. Lì non riuscii più a trattenere i conati di vomito e per
qualche secondo ebbi paura che tutto il corpo si scatenasse contro di me, con una
furia autodistruttiva che da bambina avevo sempre temuto e che avevo cercato di
governare crescendo. Poi mi calmai. Mi sciacquai la bocca e mi lavai con cura il
viso. A vederlo pallido e disfatto nello specchio inclinato sul lavandino, decisi
all'improvviso di truccarmi.
Era una reazione inconsueta. Non mi truccavo né spesso né volentieri.
L'avevo fatto da ragazza ma da qualche tempo non lo facevo più: non mi
pareva che il trucco mi migliorasse. Ma in quell'occasione mi sembrò di averne
bisogno. Presi il beauty dalla valigia di mia madre, tornai nel bagno, lo aprii, ne
estrassi un vasetto ricolmo di crema idratante sulla cui superficie era rimasta
l'impronta timida del dito di Amalia. Cancellai quella sua traccia con la mia e ne
usai con abbondanza.
Mi passai la crema sulla faccia con foga, stirandomi le guance. Poi ricorsi alla
cipria e mi velai puntigliosamente il viso.
«Sei un fantasma» dissi alla donna nello specchio. Aveva la faccia di una
persona intorno ai quaranta, chiudeva prima un occhio, poi l'altro, e su ciascuno
passava una matita nera. Era scarna, aguzza, con zigomi marcati,
miracolosamente senza rughe. Portava capelli tagliati cortissimi per ostentarne il
meno possibile il colore corvino, che del resto con sollievo andava finalmente
sbiadendo nel grigio e si preparava a sparire per sempre.
Passai il mascara.
«Non ti assomiglio» le sussurrai mentre mi davo un po' di fard. E per non
essere smentita, cercai di non guardarla. Così, nello specchio, notai il bidet. Mi
girai per capire cosa mancava a quell'oggetto vecchio modello, con monumentali
rubinetti incrostati, e quando me ne accorsi sentii che mi veniva da ridere: Caserta
si era portato via anche gli slip insanguinati che avevo lasciato sul pavimento.
IX
Il caffè era quasi pronto quando arrivai a casa di zio Filippo. Con un braccio
solo riusciva misteriosamente a fare tutto. Possedeva una macchinetta antiquata di
quelle in uso prima che la moka si affermasse in tutte le case. Era un cilindro di
metallo col becco che smontato si divideva in quattro pezzi: un recipiente per
bollire l'acqua, un caricatore, il relativo coperchio awitabile fittamente forato, una
caffettiera. Quando mi fece entrare in cucina, l'acqua calda già filtrava nella
caffettiera e per l'appartamento si spandeva un odore intenso di caffè.
«Come stai bene» mi disse ma non credo che alludesse al trucco.
Non mi era mai sembrato in grado di distinguere tra una donna truccata e una
non truccata. Voleva dire solo che avevo una cera particolarmente buona, quella
mattina. Infatti, mentre sorseggiava il caffè bollente, aggiunse: «Di voi tre, sei
quella che assomiglia di più ad Amalia».
Accennai un sorriso. Non volevo allarmarlo raccontandogli quello che mi era
successo nel corso della notte.
E non volevo nemmeno mettermi a discutere la mia somiglianza con Amalia.
Erano le sette del mattino ed ero stanca. Mezz'ora prima avevo tagliato una via
Forìa semideserta, fatta di suoni ancora così lievi che era possibile sentir cantare
gli uccelli. C'era un'aria fresca, all'apparenza pulita, e una luce caliginosa indecisa
tra il bello e il cattivo tempo. Ma già per via Duomo i suoni della città s'erano
intensificati, anche le voci di donne nelle case; e l'aria s'era fatta più grigia e più
pesante. Con una grande busta di plastica dentro cui avevo ficcato i contenuti
della valigetta e della borsetta di mia madre, gli ero piombata in casa
sorprendendolo in pantaloni cascanti e sbracati, la canottiera sul torso ossuto, il
moncherino nudo. Aveva spalancato le finestre e s'era subito messo in ordine.
Quindi aveva cominciato a incalzarmi con offerte di nutrimento. Volevo il pane
fresco, volevo il latte per farci la zuppa, volevo dei biscotti?
Non mi feci pregare e cominciai a mangiucchiare questo e quello.
Era vedovo da sei anni, viveva solo come tutti i vecchi senza figli, dormiva
poco. Era contento di avermi lì, malgrado l'ora mattutina, ed ero contenta anch'io
di esserci.
Desideravo pochi minuti di tregua, il bagaglio che avevo lasciato da lui nei
giorni scorsi, cambiarmi d'abito.
Progettavo di andare subito al negozio delle sorelle Vossi. Ma zio Filippo era
avido di compagnia e di chiacchiere. Minacciò di morti orribili Caserta. Gli
augurò di essere già deceduto malamente nel corso della notte. Si rammaricò di
non averlo ucciso in passato. E poi, attraverso nessi difficilmente individuabili,
cominciò a saltare da una storia di famiglia all'altra in un dialetto fitto fitto. Non si
fermò nemmeno per tirare il fiato.
Dopo qualche tentativo rinunciai a interromperlo. Borbottava, si arrabbiava,
faceva gli occhi lucidi, tirava su col naso. Quando il discorso investì Amalia, in
pochi minuti passò da una sospirosa apologia della sorella a critiche impietose per
il fatto che aveva abbandonato mio padre.
Per di più si dimenticò di parlare di lei al passato e cominciò a rimproverarla
come se fosse ancora viva e presente o comunque in procinto di sbucare dall'altra
stanza. Amalia si mise a gridare - non ci pensa mai in anticipo alle conseguenze: è
stata sempre così, avrebbe dovuto sedersi e riflettere e aspettare; invece s'è
svegliata una mattina e se n'è andata di casa insieme a voi tre figlie. Non lo
doveva fare, secondo zio Filippo.
Mi accorsi presto che voleva far discendere da quella separazione di ventitré
anni prima la decisione della sorella di annegarsi.
Una cosa insensata. Mi infastidii ma lo lasciai dire, tanto più che ogni tanto si
interrompeva e, mutando il tono ostile in affettuoso, correva a prendere dalla
dispensa altri barattoli: caramelle alla menta, biscotti di vecchia data, una
marmellata di more bianca di muffa ma secondo lui ancora buona.
Mentre io prima respingevo le sue offerte e poi rassegnata mangiucchiavo,
riattaccava confondendo date e fatti. Era il '46 o il '47 - si sforzava di ricordare.
Poi cambiava idea e concludeva: dopo la guerra.
Dopo la guerra era stato Caserta a capire che si poteva usare il talento di mio
padre per vivere un po' meglio.
Senza Caserta, bisognava ammettere per onestà che mio padre avrebbe
seguitato a dipingere quasi gratis montagne, lune, palme e cammelli nei negozi
del rione. Invece Caserta, che era furbo, nero nero come un saraceno ma con gli
occhi di diavolo assatanato, aveva cominciato a sfacchinare avanti e indietro coi
marinai americani. Non per vendere donne o altra merce.
Caserta si lavorava soprattutto i marinai che smaniavano di nostalgia. E invece
di mostrare lui foto di signorine in vendita, se li girava e se li rigirava spingendo
loro a tirare fuori dal portafoglio le foto delle donne che avevano lasciato in
patria. Una volta che li aveva trasformati in bambini abbandonati e ansiosi,
contrattava il prezzo e portava le foto a mio padre perché ne ricavasse ritratti a
olio.
Me le ricordavo anch'io quelle immagini. Mio padre aveva seguitato a lavorarci
per anni, anche senza Caserta. Pareva che i marinai, a forza di sospiri, avessero
lasciato sulla carta ancor meno che l'apparenza delle loro donne. Erano foto di
mamme, di sorelle e di fidanzate, tutte bionde, tutte sorridenti, tutte fotografate
con la permanente, non un capello fuori posto, le gioie al collo e alle orecchie.
Sembravano impagliate. E per di più, come nella nostra foto custodita da Amalia,
come in ogni foto corrosa dall'assenza, la patina della stampa s'era consumata e
l'immagine era spesso piegata agli angoli o attraversata da feritoie bianche che
tagliavano facce, abiti, monili, pettinature. Erano volti morenti anche nella
fantasia di chi le custodiva con desiderio e senso di colpa. Mio padre le prendeva
dalle mani di Caserta e le attaccava al cavalletto con una puntina da disegno. Poi
in quattro e quattr'otto faceva apparire sulla tela una donna che sembrava vera,
una mamma-sorella-moglie che sospirava lei invece di far sospirare. Le crepe
sparivano, il bianco e nero diventava colore, incarnato. E il maquillage di quel
supporto della memoria era portato a termine con una perizia sufficiente a far
contenti uomini smarriti e desolati. Caserta passava a ritirare la merce, lasciava un
po' di soldi e se ne andava.
Così - raccontava mio zio - in poco tempo la vita era cambiata. Con le donne
dei marinai americani mangiavamo tutti i giorni. Anche lui, perché allora era
senza lavoro. Mia madre gli passava un po' di danaro, ma col consenso di mio
padre. O forse di nascosto. Insomma, dopo anni di privazioni, tutto andava per il
meglio. Se Amalia fosse stata più attenta alle conseguenze, se non si fosse messa
in mezzo, chissà dove si sarebbe finiti. Molto lontano, secondo mio zio.
Io pensai a quel danaro e a mia madre come appariva anche lei nelle foto
dell'album di famiglia: diciotto anni, il ventre già arcuato dalla mia presenza
dentro di lei, in piedi, all'aperto, su un balcone; sullo sfondo si vedeva sempre una
parte della sua Singer. Doveva aver smesso di pedalare sulla macchina da cucire
soltanto per farsi fotografare; poi, dopo quell'istante, ero sicura che aveva ripreso
a lavorare curva, senza nessuna foto che la fissasse mai in quella miseria della
fatica comune, priva di sorriso, senza occhi luccicanti, senza capelli disposti per
apparire più bella. Credo che zio Filippo non avesse mai pensato al contributo del
lavoro di Amalia. Non ci avevo mai pensato nemmeno io.
Scossi la testa, scontenta di me: odiavo parlare del passato. Perciò, finché ero
vissuta con Amalia, avevo visto mio padre non più di dieci volte in tutto, costretta
da lei. E da quando vivevo a Roma due volte soltanto, o tre. Abitava ancora nella
casa in cui ero nata, due stanze e una cucina. Passava tutta la giornata seduto, a
dipingere brutte vedute del golfo o,mareggiate goffe per fiere di paese. Si era
sempre guadagnato la vita così, prendendo quattro soldi da mediatori come quel
Caserta, e non mi era mai piaciuto vederlo incatenato alla ripetizione degli stessi
gesti, degli stessi colori, delle stesse forme, degli stessi odori che conoscevo fin
dall'infanzia.
Soprattutto non sopportavo che mi esponesse le sue confuse ragioni ricoprendo
intanto Amalia di insulti, senza concederle meriti.
No, non mi piaceva più niente del passato. Avevo tagliato di netto con tutti i
parenti per evitare che, a ogni incontro, lamentassero nel loro dialetto la sfortuna
nera di mia madre e dicessero minacciose volgarità sul conto di mio padre. Era
rimasto solo lui, zio Filippo. L'avevo incontrato negli anni, non per mia scelta ma
solo perché piombava all'improvviso a casa e litigava con la sorella. Lo faceva
con veemenza, a voce altissima, e poi si riappacificavano. Amalia era molto
affezionata a quel suo unico fratello arruffone, succube fin da giovane del marito
e di Caserta. E in qualche modo era contenta che lui continuasse a frequentare
mio padre e venisse a dirle come stava, che faceva, a che cosa lavorava. Io invece,
che pure provavo una vecchissima simpatia per quel suo corpo logoro e per quella
sua aggressività da camorrista sbruffone che volendo potevo atterrare con un
pugno, avrei preferito che anche lui sbiadisse come era accaduto a tanti zii e
prozie. Facevo fatica ad accettare che desse ragione a mio padre e torto a lei. Era
suo fratello, l'aveva vista cento volte gonfia di schiaffi, di pugni, di calci; eppure
non aveva mai mosso un dito per aiutarla. Da cinquantanni seguitava a ribadire la
sua solidarietà con il cognato, senza cedimenti. Solo da pochi anni riuscivo ad
ascoltarlo senza entrare in allarme. Ma quand'ero ragazza non potevo sopportare
che si schierasse a quel modo. Dopo un po' mi mettevo due dita nelle orecchie per
non sentire.
Forse non tolleravo che la parte più segreta di me si servisse della sua
solidarietà per avvalorare un'ipotesi coltivata altrettanto segretamente: che mia
madre portasse inscritta nel corpo una colpevolezza naturale, indipendente dalla
sua volontà e da ciò che realmente faceva, pronta ad apparire all'occorrenza in
ogni gesto, in ogni sospiro. «È tua questa camicia?» gli chiesi per cambiare
discorso, estraendo da una delle buste di plastica la camicia azzurra che avevo
trovato in casa di Amalia.
Così gli troncai la parola in bocca e lui restò per un attimo disorientato, a occhi
spalancati e labbra socchiuse.
Poi, imbronciato, esaminò a lungo l'indumento. Ma vedeva poco o niente senza
occhiali: lo fece tanto per calmarsi dopo la sfuriata e darsi un tono.
«No» disse, «mai avuta una camicia così».
Gli raccontai che l'avevo trovata in casa di Amalia tra i panni sporchi e fu un
errore.
«Di chi è?» mi chiese ricominciando ad agitarsi, come se non stessi cercando di
saperlo proprio da lui. Provai a spiegargli che lo ignoravo ma fu inutile. Mi
restituì la camicia come se la ritenesse infetta e riattaccò implacabilmente a
criticare la sorella.
«Ha fatto sempre così» tornò a infuriarsi in dialetto. «Te la ricordi la storia
della frutta che le arrivava a casa ogni giorno gratis? Lei cadeva dalle nuvole: non
sapeva né come né quando. E il libro di poesie con la dedica? E i fiori? E le
sfogliatelle tutti i giorni alle otto in punto? E il vestito te lo ricordi? Possibile che
non ti ricordi niente? Chi le comprò quel vestito, proprio la sua misura? Lei
diceva di non saperne niente. Però se lo mise per uscire, di nascosto, senza dirlo a
tuo padre.
Spiegami tu perché lo fece».
Mi accorsi che seguitava a pensarla morbidamente ambigua come sapeva
essere Amalia persino quando mio padre l'aveva afferrata per il collo e le erano
rimasti i segni lividi delle dita sulla pelle. Ci diceva, a noi figlie: «È fatto così. Lui
non sa che fa e io non so che dirgli».
Ma noi pensavamo, invece, che nostro padre, per tutto quello che le faceva,
dovesse uscire di casa un mattino e morire bruciato o schiacciato o affogato. Lo
pensavamo e la odiavamo, perché era la molla di quei pensieri.
Su questo non avevamo dubbi e non me l'ero dimenticato.
Non avevo dimenticato niente ma non volevo ricordare. AlToccorrenza, avrei
potuto raccontarmi tutto, per filo e per segno; ma perché farlo? Mi raccontavo
solo quello che serviva, a seconda dei casi, decidendo di volta in volta sull'onda
della necessità.
Ora, per esempio, vedevo le pesche schiacciate sul pavimento, le rose sbattute
dieci venti volte sul tavolo di cucina coi petali rossi per aria poi sparsi tutti intorno
e i gambi spinosi ancora fermati dalla carta argentata, i dolci scaraventati dalla
finestra, il vestito bruciato sul fuoco della cucina. Sentivo l'odore nauseante che
emana la stoffa quando ci si lascia sopra per distrazione il ferro da stiro rovente, e
avevo paura.
«No, non ricordate e non sapete niente» disse mio zio come se rappresentassi lì,
in quel momento, anche le mie due sorelle. E volle costringermi lui a ricordare: lo
sapevamo che mio padre cominciò a batterla solo quando successe che voleva
lasciar perdere Caserta e i ritratti per gli americani, e lei si oppose? Non era cosa
in cui Amalia dovesse mettere bocca. Ma lei aveva il vizio di mettere bocca su
tutto, a vanvera. Mio padre si era inventato una zingara che ballava nuda. L'aveva
fatta vedere a un tale a capo di una rete di venditori ambulanti che battevano le
strade della città e della provincia vendendo scene campestri e mareggiate. Il tale,
che si faceva chiamare Migliaro e si trascinava sempre dietro un figlio con tutti i
denti storti, l'aveva giudicata adatta per sfondare negli studi dei medici e dei
dentisti. Gli aveva detto che per quelle zingare era disposto a dare una percentuale
molto più alta di quella che passava Caserta. Ma-Amalia si disse contrària, non
voleva che lasciasse Caserta, non voleva che facesse le zingare, non voleva
nemmeno che le mostrasse a Migliaro. «Non ricordate e non sapete» ripetè zio
Filippo con rancore per come erano passati quei tempi che gli erano sembrati belli
e che erano sfumati senza dare i frutti che promettevano.
Allora gli chiesi cos'era successo a Caserta dopo la rottura con mio padre.
Gli passarono negli occhi molte possibili risposte furibonde.
Poi decise di rinunciare a quelle più violente, e ribadì con orgoglio che a
Caserta avevano dato quello che si meritava.
«Tu dicesti tutto a tuo padre. Tuo padre mi chiamò e andammo per
ammazzarlo. Se avesse provato a reagire, l'avremmo veramente ucciso».
Tutto. Io. Non mi piacque quell'accenno e non volli sapere di quale «tu»
parlasse. Cancellai ogni suono che facesse le veci del mio nome come se non
fosse possibile in nessun modo alludere a me. Lui mi guardò interrogativamente
e, nel vedermi impassibile, scosse di nuovo la testa con disapprovazione.
«Non ricordi niente» tornò a ripetere sconfortato. E passò a raccontarmi di
Caserta. Dopo, si era spaventato e aveva capito. Aveva venduto un bar-pasticceria
mezzo fallito che era del padre e se ne era andato via dal rione con la moglie e il
figlio. Dopo un po' era arrivata la voce che faceva il ricettatore di medicinali
rubati.
Poi si era detto che aveva investito i soldi ricavati da quel traffico in una
tipografia. Cosa strana perché non era tipografo. L'ipotesi di zio Filippo era che
stampasse copertine per dischi contraffatti. Comunque a un certo punto un
incendio aveva distrutto la tipografia e Caserta era stato un po' di tempo in
ospedale a causa delle ustioni alle gambe che s'era procurato. Da allora lui non ne
aveva saputo più niente. Qualcuno pensava che era diventato benestante coi soldi
dell'assicurazione, sicché se ne era andato a vivere in un'altra città.
Altri dicevano che dopo quelle ustioni era passato di medico in medico, e non
l'avevano mai più dimesso: non per il danno alle gambe ma per le rotelle fuori
posto che aveva. Era stato sempre un uomo strano: si diceva che invecchiando
fosse diventato sempre più strano. Tutto qui. Zio Filippo non sapeva più niente di
Caserta.
Gli chiesi che nome avesse: avevo cercato sull'elenco ma di Caserta ce n'erano
troppi.
«Non t'azzardare a cercarlo» mi disse, di nuovo ringhioso.
«Non cerco Caserta» mentii. «Voglio vedere Antonio, suo figlio.
Giocavamo insieme da bambini».
«Non è vero. Tu vuoi vedere Caserta».
«Chiederò a mio padre» allora mi venne in mente di rispondergli.
Mi guardò stupefatto, come se fossi Amalia.
«Lo fai apposta» borbottò. E disse a bassa voce: «Nicola. Si chiamava Nicola.
Ma è inutile che cerchi sull'elenco: Caserta è un soprannome.
Il cognome vero ce l'ho qui in testa ma non me lo ricordo».
Sembrò concentrarsi davvero, per accontentarmi, ma poi cedette depresso:
«Basta, tornatene a Roma. Se veramente hai intenzione di vedere tuo padre,
almeno non gli dire di questa camicia. Ancora oggi per una cosa così
ammazzerebbe tua madre».
«Non può farle più niente» gli ricordai. Ma lui mi chiese come se non avesse
sentito: «Vuoi ancora un po' di caffè?».
X
Rinunciai a cambiarmi. Restai col mio abito scuro impolverato e spiegazzato. A
stento riuscii a trovare il tempo di sostituire l'assorbente. Zio Filippo non mi
lasciò un minuto senza le sue cortesie e i suoi sfoghi rabbiosi. Quando dissi che
dovevo andare dalle sorelle Vossi per comprarmi della biancheria, si confuse,
tacque per pochi secondi.
Poi si offrì di accompagnarmi fino all'autobus.
La giornata era sempre più cupa, senza aria, e l'autobus risultò affollato.
Zio Filippo valutò la ressa e decise di salire anche lui per proteggermi - disse -
dai borseggiatori e dalla canaglia. Per una fortunata circostanza si liberò un posto
in piattaforma: gli dissi di sedersi ma lui rifiutò energicamente. Mi sedetti io e
cominciò un viaggio estenuante, attraverso una città senza colori, strozzata dagli
ingorghi. Nell'autobus c'era un forte odore di ammoniaca e svolazzava una
lanuggine che era entrata dai finestrini aperti chissà quando. Pizzicava il naso.
Mio zio riuscì ad attaccar briga prima con un tale che non si era fatto abbastanza
prontamente da parte quando, per raggiungere il posto che si stava liberando,
avevo chiesto di passare, e poi con un giovanotto che fumava malgrado il divieto.
Entrambi lo trattarono con un minaccioso disprezzo che non teneva in nessun
conto i suoi settant'anni e il braccio monco. Lo sentii imprecare e minacciare,
mentre era sospinto dalla ressa lontano da me, verso il centro della vettura.
Cominciai a sudare. Sedevo stretta tra due vecchie signore che fissavano
davanti a loro con una rigidità innaturale. Una aveva la borsetta ben stretta sotto
l'ascella; l'altra se la premeva sopra lo stomaco, la mano sull'apertura, il pollice in
un anello agganciato al tirante della lampo. I passeggéri in piedi si curvavano su
di noi respirandoci addosso.
Le donne soffocavano tra i corpi maschili, sbuffando per quella vicinanza
occasionale, fastidiosa anche se all'apparenza incolpevole. I maschi, nella ressa, si
servivano delle femmine per giocare in silenzio tra sé e sé. Uno fissava una
ragazza bruna con occhi ironici per vedere se abbassava lo sguardo. Uno pescava
un po' di pizzo tra un bottone e l'altro di una camicetta o arpionava con lo sguardo
una bretella. Altri ingannavano il tempo a spiare dal finestrino nelle auto per
cogliere porzioni di gambe scoperte, il gioco dei muscoli mentre i piedi
premevano freno o frizione, un gesto distratto per grattarsi l'interno di una coscia.
Un uomo piccolo e magro, pressato da quelli che aveva alle spalle, cercava
contatti brevi con le mie ginocchia e a tratti mi respirava tra i capelli.
Mi voltai verso il finestrino più vicino, in cerca d'aria. Quando da bambina
facevo quello stesso percorso in tram, con mia madre, la vettura arrancava su per
la collina con una sorta di penoso raglio d'asino, tra vecchi edifici grigi, fino a che
appariva un brano di mare su cui mi immaginavo che il tram veleggiasse. I vetri
dei finestrini vibravano nelle cornici di legno. Vibrava anche il pavimento e
comunicava al corpo un gradevole tremore che io lasciavo espandere ai denti,
allentando appena appena le mascelle per sentire come tremolava una chiostra
contro l'altra.
Era un viaggio che mi piaceva, all'andata in tram, al ritorno in funicolare: stesse
macchine lente, senza frenesìa, io e lei soltanto. In alto oscillavano, tenute al
corrimano da lacci di cuoio, certe maniglie massicce. Ad afferrarcisi, succedeva
che il peso del corpo faceva scattare nel blocco metallico sopra l'impugnatura
scritte e disegni colorati, lettere e immagini diverse a ogni strattone. Le maniglie
pubblicizzavano cromatine, scarpe, merci varie di botteghe cittadine. Se la vettura
non era affollata, Amalia lasciava sul sedile certi suoi fagotti in carta da
imballaggio e mi prendeva in braccio per farmi giocare con le maniglie.
Ma se la vettura era affollata, ogni godimento era precluso. Allora mi prendeva
la smania di proteggere mia madre dal contatto con gli uomini, come avevo visto
che faceva sempre mio padre in quella circostanza. Mi disponevo come uno scudo
alle sue spalle e me ne stavo crocefissa alle gambe di lei, la fronte contro le sue
natiche, le braccia protese, una mano stretta all'appoggio di ghisa del sedile di
destra, l'altra a quello di sinistra.
Era uno sforzo inutile, il corpo di Amalia non si lasciava contenere.
I fianchi le si dilatavano per il corridoio verso i fianchi degli uomini che aveva
a lato; le sue gambe, il ventre si gonfiavano verso il ginocchio o la spalla di chi le
sedeva davanti. O forse avveniva il contrario. Erano gli uomini che si incollavano
a lei come mosche alle carte appiccicose e giallastre che pendevano nelle
macellerie o a perpendicolo sui banchi dei salumieri, zeppe di insetti morti.
Risultava difficile tenerli lontani coi calci o coi gomiti. Mi carezzavano la nuca
allegramente e dicevano a mia madre: «La schiacciano questa bella bambina».
Qualcuno voleva anche prendermi in braccio, ma io rifiutavo. Mia madre
rideva e diceva: «Fatti in qua, vieni». Resistevo, in ansia. Sentivo che se avessi
ceduto, se la sarebbero portata via e io sarei rimasta sola con mio padre furibondo.
Lui la proteggeva dagli altri maschi con una violenza che non sapevo mai se
avrebbe schiacciato soltanto i rivàli o gli si sarebbe anche rivolta contro
uccidendolo. Era un uomo insoddisfatto. Forse non era sempre stato così ma lo
era diventato da quando aveva smesso di girovagare per il rione arrangiandosi a
decorare banchi di negozi o carretti in cambio di cibo, ed era finito a dipingere, su
tele non ancora fissate ai telai, pastorelle, marine, nature morte, paesaggi esotici
ed eserciti di zingare. Si immaginava chissà quale destino e si infuriava perché la
vita non mutava, perché Amalia non credeva che sarebbe mutata, perché la gente
non lo stimava come doveva. Ripeteva continuamente, per convincersene e
convincerla, che mia madre aveva avuto una bella fortuna a sposarlo. Lei, così
nera, non si sapeva da quale sangue venisse. Lui invece, che era bianco e biondo,
si sentiva nel sangue chi sa che. Sebbene inchiodato fino alla nausea agli stessi
colori, agli stessi soggetti, alle stesse campagne e agli stessi mari, fantasticava
sulle sue capacità senza ritegno. Noi figlie ci vergognavamo di lui e credevamo
che potesse farci del male come minacciava di farne a chiunque sfiorasse nostra
madre. In tram, quando c'era anche lui, avevamo paura. Sorvegliava soprattutto
gli uomini piccoli e scuri, ricciuti, le labbra grosse.
Attribuiva a quel tipo antropologico la tendenza a rapire il corpo di Amalia; ma
forse pensava che fosse mia madre a essere attratta da quei corpi nervosi,
squadrati, forti. Una volta si convinse che un uomo nella ressa l'aveva toccata. La
schiaffeggiò sotto gli occhi di tutti: sotto i nostri occhi. Io restai dolorosamente
meravigliata. Ero certa che avrebbe ucciso l'uomo e non capivo perché, invece,
avesse preso a schiaffi lei.
Anche adesso non sapevo come mai l'avesse fatto. Forse per punirla di aver
subìto sulla stoffa del vestito, sulla pelle, il calore del corpo di quell'altro.
XI
Fermi nel caos di via Salvator Rosa, scoprii che non provavo più alcuna
simpatia per la città di Amalia, per la lingua in cui mi si era rivolta, per le vie che
avevo percorso da ragazza, per la gente. Quando a un certo punto comparve uno
scorcio di mare (lo stesso che da bambina mi entusiasmava), mi sembrò carta
velina violacea incollata su una parete sbrecciata. Seppi che stavo perdendo mia
madre definitivamente e che era esattamente quello che volevo.
Le sorelle Vossi avevano il negozio in piazza Vanvitelli. Da ragazza mi ero
fermata spesso davanti alle loro vetrine, che erano sobrie, con vetri spessi chiusi
dentro cornici di mogano. L'ingresso aveva una vecchia porta col mezzo vetro e
sulla volta c'erano incise le tre V e la data di fondazione: 1948. Oltre il vetro, che
era opaco, non sapevo cosa ci fosse: non avevo mai avuto né la necessità di
andare a vedere né il danaro per farlo. Mi ero fermata spesso all'esterno,
soprattutto perché mi piaceva la vetrina d'angolo, dove gli indumenti per signora
erano distrattamente appoggiati sotto un dipinto che non ero capace di datare,
sicuramente di mano esperta. Due donne, i cui profili quasi si sovrapponevano,
tanto erano vicine e impegnate negli stessi movimenti, correvano a bocca
spalancata, da destra verso la sinistra della tavola.
Non si poteva sapere se inseguivano o erano inseguite. L'immagine sembrava
segata via da uno scenario molto più ampio, sicché delle donne non si vedeva la
gamba sinistra e le loro braccia tese erano troncate ai polsi.
Anche a mio padre, che aveva sempre da ridire su tutto quello che era stato
dipinto nel corso dei secoli, piaceva.
Si inventava attribuzioni insensate fingendosi esperto, come se non sapessimo
tutte che non aveva fatto scuole d'alcun genere, che d'arte sapeva poco o niente,
che era capace di fare giorno e notte solo le sue zingare. Quando era in vena e
disposto con noi figlie a sbruffoneggiare più del solito, addirittura se lo attribuiva.
Erano almeno vent'anni che non avevo occasione di salire in collina, posto che
ricordavo diverso dal resto della città, fresco e ordinato, a pochi passi da San
Martino. Mi infastidii subito. La piazza mi parve mutata coi suoi radi platani
stentati, divorata dalle lamiere delle auto, sovrastata da un trapezio in travi di
ferro verniciate di giallo. Ricordavo al centro della piazza di una volta palme che
mi erano sembrate altissime. Ce n'era una nana, malata, assediata dagli
sbarramenti grigi dei lavori in corso. Per di più non individuai il negozio al primo
colpo d'occhio.
Tallonata da mio zio che continuava a litigare tra sé con i figuri dell'autobus,
sebbene l'episodio fosse avvenuto un'ora prima, girai in circolo per quello spazio
polveroso, urlante, bombardato dai martelli pneumatici e dai clacson, sotto nuvole
da cielo che pare voler piovere e non ci riesce. Alla fine mi fermai davanti a
manichini di donne calve in mutande e reggipetto, disposti studiatamente in pose
audaci, spesso volgari. Tra specchi, metalli dorati e materiali dai colori elettrici,
feci fatica a riconoscere le tre V sulla volta, l'unica cosa che era rimasta identica.
Anche il quadro che mi piaceva non c'era più.
Guardai l'orologio: erano le dieci e un quarto. Il viavai era tale che tutta la
piazza - palazzi, colonnati grigio-viola, nuvole di suoni e di polvere - sembrava
una giostra. Zio Filippo lanciò uno sguardo alle vetrine e subito si girò da un'altra
parte in imbarazzo: troppe gambe larghe, troppi seni procàci, gli venivano brutti
pensieri. Disse che mi aspettava all'angolo: facessi presto.
Pensai che non l'avevo pregato io di seguirmi fin là ed entrai.
Mi ero sempre immaginata che l'interno del negozio Vossi fosse in penombra e
che lo abitassero tre gentili anziane con abiti lunghi, parecchi fili di perle e capelli
raccolti in chignon fissati con forcine d'altri tempi.
Invece trovai un ambiente illuminato sfarzosamente, clienti rumorose, altri
manichini in vestaglie di raso, top multicolori, calzoncini di seta, banchi e
banchetti che sovraccaricavano l'ambiente di merce, commesse giovanissime,
truccate pesantemente, tutte con una divisa color pistacchio molto attillata e le tre
V ricamate sul petto.
«È questo il negozio delle sorelle Vossi?» chiesi a una di loro, quella
dall'apparenza più gentile, forse a disagio nella sua divisa.
«Sì. Desidera?».
«Non potrei parlare con una delle signore Vossi?».
La ragazza mi guardò perplessa.
«Non ci sono più» disse.
«Sono morte?».
«No, non credo. Si sono messe a riposo».
«Hanno ceduto il negozio?».
«Erano anziane, hanno venduto tutto.
Ora c'è una nuova gestione, però il marchio è lo stesso. Lei è una vecchia
cliente?».
«Mia madre» dissi. E cominciai a estrarre lentamente dalla busta di plastica che
avevo portato con me le mutandine, la vestaglia, i due vestiti, i cinque slip trovati
nella valigetta di Amalia, disponendo ogni cosa sul banco. «Credo che li abbia
comprati tutti qui».
La ragazza diede uno sguardo competente.
«La merce sì, è nostra» disse con un'aria interrogativa. Percepii che sulla base
dell'età che mostravo stava cercando di valutare quella di mia madre.
«Fa sessantatré anni a luglio» dissi.
Poi mi venne di mentire: «Non erano per lei. Erano regali per me, per il mio
compleanno. Ho compiuto quarantacinque anni il 23 maggio scorso».' «Ne
dimostra almeno quindici in meno» disse la ragazza sforzandosi di fare il suo
mestiere.
Spiegai con tono accattivante: «È bella roba, di mio gusto. Solo questo vestito
mi stringe un po' e le mutandine sono strette».
«Vuole cambiarli? Ci vorrebbe lo scontrino».
«Non ho lo scontrino. Ma sono stati acquistati qui. Non se la ricorda mia
madre?».
«Non saprei. Viene tanta gente».
Lanciai uno sguardo alle persone a cui aveva alluso la commessa: donne che
vociavano in un dialetto pieno di forzata allegria, ridevano rumorosamente, erano
coperte di gioielli preziosissimi, uscivano dagli sgabuzzini in mutande e reggiseno
o in succinti costumi da bagno a pelle di leopardo, dorati, d'argento, ostentavano
carni abbondanti striate dalle smagliature e forate dalla cellulite, si contemplavano
il pube e le natiche, si sollevavano i seni con le mani a coppe, ignoravano le
commesse e si rivolgevano in quelle pose a una specie di buttafuori ben vestito e
già abbronzato, messo lì apposta per canalizzare il loro flusso di danaro e
minacciare con gli occhi le commesse inefficienti.
Non era la clientela che mi ero immaginata. Sembravano donne i cui uomini si
erano arricchiti all'improvviso e facilmente, scaraventandole in un lusso
provvisorio di cui erano costrette a godere con una sottocultura da interrato umido
e affollato, da fumetti semiporno, da oscenità usate come intercalare. Erano donne
costrette in una città-reclusorio, prima corrotte dalla miseria e ora dal danaro,
senza soluzione di continuità.
A vederle e a sentirle, mi accorsi che diventavo insofferente. Si comportavano
con quell'uomo come mio padre si immaginava che si comportassero le donne,
come s'era immaginato che si comportasse sua moglie appena lui girava le spalle,
come anche Amalia forse aveva fantasticato per tutta la vita di comportarsi: una
signora di mondo che si curva senza essere costretta a poggiare due dita al centro
della scollatura, accavalla le gambe non badando alla gonna, ride sguaiata, si
copre d'oggetti preziosi e deborda con tutto il corpo in continue indiscriminate
profferte sessuali, giostrando a tu per tu coi maschi nell'arena dell'osceno.
Ebbi un'incontrollata smorfia stizzosa. Dissi: «È alta quanto me, solo qualche
capello bianco. Ma l'acconciatura dei capelli è antiquata, nessuno si pettina più
così. È venuta in compagnia di un uomo sui settant'anni, ma piacevole, magro,
capelli molto fitti e tutti bianchi. Una bella coppia, a vederli... Se li dovrebbe
ricordare, hanno comprato tutta questa roba».
La commessa scosse il capo, non si ricordava.
«Viene tanta gente» disse. Poi lanciò uno sguardo al buttafuori, preoccupata per
il tempo che stava perdendo, e mi suggerì: «Se li provi. A me sembrano proprio la
sua misura. Se il vestito le tira...».
«Vorrei parlare con quel signore...» azzardai.
La commessa mi spinse verso uno spogliatoio, in ansia per quella richiesta
appena abbozzata.
«Se le mutandine non la convincono, ne prenderà un altro paio... le faremo uno
sconto» propose. E mi ritrovai in un bugigattolo tutto specchi rettangolari.
Sospirai, mi tolsi stancamente il vestito del funerale. Tolleravo sempre meno il
chiacchiericcio frenetico delle clienti, che lì dentro invece che attutito sembrava
amplificato.
Dopo un attimo di incertezza sfilai anche le mutande di mia madre che avevo
messo la sera prima e indossai quelle di pizzo che avevo trovato nella sua
borsetta. Erano esattamente la mia misura. Passai perplessa un dito lungo lo
strappo sul fianco che Amalia probabilmente aveva causato infilandosele e poi
feci passare per la testa l'abito color ruggine. Mi arrivava cinque centimetri sopra
le ginocchia e aveva una scollatura troppo ampia. Ma non mi tirava affatto, anzi
scivolava sulla mia magrezza tesa e muscolosa addolcendola. Uscii dallo
spogliatoio strattonando il vestito di lato, fissandomi un polpaccio e dicendo ad
alta voce: «Ecco, come vede, l'abito mi tira qui di lato... E poi è troppo corto».
Ma accanto alla giovane commessa ora c'era l'uomo, un tipo sui quaranta coi
baffi neri, alto almeno venti centimetri più di me, largo di spalle e torace. Era
gonfio nei lineamenti e nel corpo, minaccioso; solo lo sguardo non era antipatico
ma vivace, familiare. Disse in un italiano da televisione, ma senza gentilezza,
senza nemmeno l'ombra della consenziente complicità che mostrava con le altre
clienti, faticando anzi visibilmente a darmi del lei: «Le sta benissimo, non le tira
affatto. È il modello che va così».
«È proprio il modello, che non mi convince. L'ha scelto mia madre senza di me
e...».
«Ha scelto benissimo. Si tenga il suo vestito e se lo goda».
Lo fissai per un secondo, in silenzio.
Sentii che volevo fare qualcosa o contro di lui o contro di me. Lanciai uno
sguardo alle altre clienti.
Mi tirai l'abito sui fianchi e mi girai verso uno degli specchi.
«Guardi un po' gli slip» gli indicai nello specchio, «mi stanno stretti».
L'uomo non cambiò né espressione né tono.
«Senta, non so che dirle, non ha nemmeno lo scontrino» disse.
Mi vidi nello specchio con le gambe magre e nude: tirai giù la veste, a disagio.
Raccolsi l'abito vecchio e le mutandine, infilai tutto nella busta e cercai nel fondo
la custodia di plastica con la carta d'identità di Amalia.
«Mia madre se la dovrebbe ricordare» provai ancora estraendo il documento e
aprendoglielo sotto gli occhi.
L'uomo diede uno sguardo veloce e sembrò perdere la pazienza.
Passò al dialetto.
«Signora cara, qui non possiamo perdere tempo» disse e mi restituì il
documento.
«Le sto solo chiedendo...».
«La merce venduta non si cambia».
«Le sto solo chiedendo...».
Passò a un lieve tocco sulla spalla.
«Vuoi scherzare? Sei venuta per scherzare?».
«Non si azzardi a toccarmi...».
«No, tu vuoi proprio scherzare... Va', prenditi la tua roba e la tua carta
d'identità. Chi ti manda? Che vuoi?
Di' a chi ti manda che venga a riscuotere personalmente. Così poi vediamo!
Anzi, questo è il mio biglietto da visita: Poliedro Antonio, nome indirizzo e
numero di telefono. O mi trovate qui o a casa. Va bene?».
Era un tono che conoscevo benissimo.
Subito dopo avrebbe cominciato a spingermi più forte e poi a colpirmi senza
nessun riguardo, femmina o maschio che fossi. Gli strappai il documento di mano
con calcolato disprezzo e per capire cosa l'aveva fatto innervosire tanto lanciai
uno sguardo alla foto-tessera di mia madre. I lunghi capelli baroccamente
architettati sulla fronte e intorno al viso erano stati accuratamente raschiati via. Il
bianco emerso intorno alla testa era stato mutato con una matita in un grigio
nebuloso.
Con la stessa matita qualcuno aveva lievemente indurito i lineamenti del viso.
La donna della foto non era Amalia: ero io.
XII
Uscii in strada trascinando il mio bagaglio. Mi accorsi che avevo ancora in
mano la carta d'identità e la rimisi nella custodia di plastica lasciandovi dentro
meccanicamente il biglietto da visita di Poliedro. Feci scivolare il tutto nella mia
borsa e mi guardai intorno frastornata ma contenta che zio Filippo fosse davvero
rimasto ad aspettarmi all'angolo.
Me ne pentii subito. Sbarrò gli occhi e spalancò la bocca mostrandomi i pochi
denti lunghi e gialli di nicotina. Era stupefatto, ma la stupefazione si stava
trasformando velocemente in contrarietà. Non riuscii subito a capire perché. Poi
mi resi conto che la causa era il vestito che avevo addosso. Mi sforzai di
sorridergli, sicuramente per rabbonirlo ma anche per allontanare l'impressione di
aver perso il governo del mio viso, di averne uno che era l'adattamento di quello
di Amalia.
«Mi sta male?» chiesi.
«No» disse imbronciato, palesemente mentendo.
«E allora?».
«Abbiamo seppellito tua madre ieri» si rammaricò a voce troppo alta.
Pensai di svelargli, per dispetto, che il vestito era proprio di Amalia ma feci in
tempo a prevedere che il dispetto l'avrei fatto a me: avrebbe sicuramente
ricominciato a inveìre contro la sorella. Gli dissi: «Ero troppo depressa e ho
voluto farmi un regalo».
«Voi donne vi deprimete troppo facilmente» sbottò dimenticandosi subito, con
quel «troppo facilmente», ciò che mi aveva appena ricordato: che avevamo
seppellito da poco mia madre e avevo qualche buona ragione per essere depressa.
D'altra parte depressa non ero affatto. Mi sentivo invece come se mi fossi
lasciata in un posto e non fossi più in grado di ritrovarmi: affannata, cioè, coi
movimenti troppo veloci e scarsamente coordinati, la fretta di chi fruga
dappertutto e non ha tempo da perdere. Pensai che una camomilla mi avrebbe
fatto bene e spinsi zio Filippo nel primo bar che incontrammo in via Scarlatti,
mentre lui attaccava a parlare della moglie, che appunto era sempre triste: dura,
gran lavoratrice, attenta, ordinata ma triste. Il luogo chiuso però mi fece l'effetto
di un batuffolo d'ovatta in bocca. L'odore intenso del caffè e le voci troppo alte di
clienti e baristi mi ricacciarono verso l'uscita, mentre mio zio già strillava, con la
mano alla tasca interna della giacca: «Pago io!». Mi sedetti a un tavolo sul
marciapiede, tra stridor di freni, odore di pioggia imminente e di benzina, autobus
stracolmi a passo d'uomo e gente che passava in fretta urtando contro il tavolino.
«Pago io» ripetè zio Filippo più fiaccamente, anche se non avevamo nemmeno
ordinato e dubitavo che sarebbe mai comparso un cameriere. Poi si sistemò ben
bene sulla sedia e cominciò a lodarsi: «Io sono sempre stato un carattere energico.
Senza soldi? Senza soldi.
Senza braccio? Senza braccio. Senza femmine? Senza femmine. L'essenziale è
la bocca e le gambe: per parlare quando ti pare e per andare dove ti pare. Ho
ragione o no?».
«Sì».
«Anche tua madre è così. Noi siamo una razza che non si avvilisce.
Quand'era piccola, si faceva male continuamente ma non piangeva: nostra
madre ci aveva insegnato a soffiare sulla ferita e a ripetere: poi mi passa. Anche
quando lavorava e si pungeva con l'ago, le era rimasta questa abitudine di dire:
poi mi passa. Una volta l'ago della Singer le bucò l'unghia dell'indice, uscì
dall'altra parte, risalì e entrò di nuovo, tre o quattro volte. Beh, bloccò il pedale,
poi lo riavviò appena appena per estrarre l'ago, si fasciò il dito e riprese a
lavorare.
Io non l'ho mai vista triste».
Fu tutto quello che sentii. Mi pareva di affondare con la nuca nella vetrina alle
mie spalle. Anche la parete rossa dell'Upim di fronte sembrava colore fresco,
appena strizzato. Lasciai che i rumori di via Scarlatti diventassero così forti da
coprirgli la voce. Gli vidi le labbra che si muovevano, di profilo, senza suono: mi
sembrarono di gomma, mosse con due dita dall'interno. Aveva settant'anni e
nessun motivo per essere soddisfatto di sé, ma si studiava di esserlo e forse lo era
davvero quando avviava quella chiacchiera senza sosta che i movimenti
impercettibili delle labbra articolavano velocemente. Per un attimo pensai con
orrore a maschi e femmine come organismi viventi, e mi immaginai un lavoro di
bulino che ci levigasse come sagome d'avorio, riducendoci senza fori e senza
escrescenze, tutti identici e privi di identità, nessun gioco di tratti somatici, niente
calibratura delle piccole differenze.
Quel dito ferito di mia madre, forato dall'ago quando non aveva nemmeno dieci
anni, mi era noto più delle mie dita proprio grazie a quel dettaglio.
Era viola e alla lunetta l'unghia pareva sprofondare.
Avevo desiderato a lungo di leccarlo e succhiarlo, più dei suoi capezzoli.
Forse me l'aveva lasciato fare quando ero ancora molto piccola, senza sottrarsi.
Sul polpastrello c'era una cicatrice bianca: la ferita s'era infettata, gliel'avevano
incisa. Io ci sentivo intorno l'odore della sua vecchia Singer, con quella forma
d'animale elegante mezzo cane mezzo gatto, l'odore della corda di cuoio
screpolato che trasmetteva il movimento del pedale dal volano grande a quello
piccolo, l'ago che andava su e giù dal muso, il filo che correva per le nari e le
orecchie, il rocchetto che ruotava sul perno conficcato nella groppa. Ci sentivo il
sapore dell'olio che serviva a ingrassarla, la pasta nera del grasso misto a polvere
che grattavo via con l'unghia e mangiavo di nascosto.
Progettavo di bucarmi anch'io l'unghia, per farle capire che era rischioso
negarmi quello che non avevo.
Erano troppe le storie delle sue infinite, minuscole diversità che la rendevano
irraggiungibile, e che tutte insieme la facevano diventare un essere desiderato, nel
mondo esterno, almeno quanto la desideravo io.
C'era stato un tempo in cui mi ero immaginata di staccarle quel dito
eccezionale con un morso, perché non riuscivo a trovare il coraggio di offrire il
mio alla bocca della Singer. Ciò che di lei non mi era stato concesso volevo
cancellarglielo dal corpo. Così niente più si sarebbe perso o disperso lontano da
me, perché finalmente tutto era già stato perduto.
Ora che era morta, qualcuno le aveva raschiato via i capelli e le aveva
deformato il viso per ridurla al mio corpo. Accadeva dopo che negli anni, per
odio, per paura, avevo desiderato di perdere ogni radice in lei, fino alle più
profonde: i suoi gesti, le sue inflessioni di voce, il modo di prendere un bicchiere
o bere da una tazza, come ci si infila una gonna, come un vestito, l'ordine degli
oggetti in cucina, nei cassetti, le modalità dei lavaggi più intimi, i gusti alimentari,
le repulsioni, gli entusiasmi, e poi la lingua, la città, i ritmi del respiro. Tutto
rifatto, per diventare io e staccarmi da lei.
D'altro canto non avevo voluto o non ero riuscita a radicare in me nessuno.
Tra qualche tempo avrei perso anche la possibilità di avere figli. Nessun essere
umano si sarebbe staccato mai da me con l'angoscia con cui io mi ero staccata da
mia madre soltanto perché non ero riuscita mai ad attaccarmi a lei
definitivamente. Non ci sarebbe stato nessun più e nessun meno tra me e un altro
fatto di me. Sarei rimasta io fino alla fine, infelice, scontenta di quello che avevo
trascinato furtivamente fuori dal corpo di Amalia. Poco, troppo poco, il bottino
che ero riuscita a rapirle strappandolo al suo sangue, al suo ventre e alla misura
del suo fiato, per nasconderlo nel corpo, nella materia bizzosa del cervello.
Insufficiente. Che fard ingenuo e sbadato era stato cercar di definire «io»
questa fuga obbligata da un corpo di donna, sebbene ne avessi portato via meno
che niente! Non ero alcun io.
Ed ero perplessa: non sapevo se quello che andavo scoprendo e raccontandomi,
da quando lei non esisteva e non poteva ribattere, mi facesse più orrore o più
piacere.
XIII
Forse mi riscossi per la pioggia sul viso. O perché zio Filippo, in piedi accanto
a me, mi scuoteva per un braccio con l'unica mano che aveva.
Fatto sta che provai come una scossa elettrica e mi resi conto che mi ero
addormentata.
«Piove» farfugliai mentre mio zio seguitava a strattonarmi furiosamente.
Strillava apoplettico ma non riuscivo a capire cosa dicesse. Mi sentivo debole e
spaventata, non riuscivo ad alzarmi. La gente arrivava di corsa cercando un
riparo. Gli uomini gridavano o sghignazzavano e correndo urtavano
pericolosamente il tavolino. Temetti che mi avrebbero travolta. Un tale fece
volare un metro più in là la sedia fino a poco prima occupata da zio Filippo. «Che
bella stagione» disse ed entrò nel bar.
Provai ad alzarmi credendo che mio zio volesse tirarmi su. Invece mi lasciò il
braccio, barcollò tra la gente e corse a urlare insulti mirabolanti dal bordo del
marciapiede, indicando col braccio teso l'altro versante della strada, oltre le auto e
gli autobus ingorgati su cui tamburellava la pioggia.
Mi sollevai trascinandomi dietro la busta e la borsa. Volevo vedere con chi se la
stava prendendo, ma il traffico creava un muro compatto di lamiere e la pioggia
veniva giù sempre più fittamente. Allora scivolai lungo la parete dell'edificio per
evitare di bagnarmi e trovare intanto uno spiraglio tra autobus e auto bloccati.
Quando ci riuscii, vidi Caserta contro la chiazza rossa dell'Upim. Camminava
quasi piegato in due ma veloce, girandosi continuamente indietro come se
temesse di essere inseguito.
Sbatteva contro i passanti ma non sembrava accorgersene né rallentava: curvo,
le braccia ciondoloni, a ogni urto piroettava su se stesso senza fermarsi, come se
fosse una sagoma conficcata su un perno che grazie a un meccanismo segreto
scorreva veloce lungo il selciato. Da lontano pareva che cantasse e ballasse ma
forse imprecava solamente, gesticolando.
Cominciai ad affrettare il passo per non perderlo di vista ma, poiché tutti i
passanti si erano affollati nei portoni, negli atrii dei negozi, in corrispondenza dei
cornicioni o dei balconi, per muovermi più velocemente fui presto costretta ad
abbandonare ogni tentativo di riparo e a uscire allo scoperto, sotto la pioggia. Vidi
Caserta saltellare per evitare piante e vasi di fiori esposti sul marciapiede da un
fioraio. Non ci riuscì, inciampò, finì contro il tronco di un albero. Si fermò un
attimo come se si fosse incollato alla corteccia, poi si strappò di lì e riprese a
correre. Temeva non so cosa. Mi immaginai che avesse visto mio zio e si fosse
messo a scappare.
Forse i due vecchi stavano riproducendo come per gioco una scena già vissuta
da giovani: uno inseguiva, l'altro fuggiva. Pensai che si sarebbero azzuffati sul
selciato bagnato, ruzzolando ora di qua ora di là. Non sapevo bene come avrei
reagito, cosa avrei fatto.
All'incrocio di via Scarlatti con via Luca Giordano mi accorsi che l'avevo
perduto. Cercai con lo sguardo zio Filippo ma non vidi nemmeno lui.
Allora attraversai via Scarlatti, che era diventata un lungo punto interrogativo
di veicoli fermi, fino a piazza Vanvitelli, e cominciai a risalire lungo l'altro
marciapiede di corsa, fino alla prima traversa.
Tuonava senza fulmini visibili, e i tuoni erano come secche lacerazioni di un
tessuto. Vidi Caserta in fondo a via Merliani, sferzato dalla pioggia sotto il
metallo blu e rosso di una grande insegna, contro il muro bianco della Floridiana.
Gli corsi dietro ma un giovanotto uscì bruscamente dal riparo di un portone, mi
prese per un braccio ridendo e mi disse in dialetto: «Dove corri? Fatti asciugare!».
Lo strappo fu così forte che provai dolore alla clavicola e scivolai con la gamba
sinistra. Non caddi solo perché andai a sbattere contro un cassone della
spazzatura.
Riacquistai l'equilibrio e mi divincolai con forza urlando con mia meraviglia
insulti dialettali. Quando raggiunsi anch'io il muro di cinta del parco, Caserta era
quasi in cima alla strada, a pochi metri dalla stazione della funicolare in
ristrutturazione.
Mi fermai col cuore in gola. Anche lui ora procedeva senza correre lungo la fila
dei platani, tra le auto parcheggiate sulla destra. Arrancava, sempre piegato in
due, faticosamente, con una resistenza nelle gambe insospettabile in un uomo di
quell'età. Quando sembrò non farcela più, si appoggiò ansimando contro il recinto
di un cantiere. Lo vidi torcersi nel corpo, in una posizione in cui pareva che gli
uscisse dalla testa bianca il tubo Innocenti dove era fissato il cartello: «Lavori di
demolizione e ricostruzione della stazione di piazza Vanvitelli Funicolare di
Chiaia». Ero certa che non avrebbe avuto più la forza di muoversi di lì, quando
qualcosa tornò ad allarmarlo. Allora colpì con la spalla la parete del recinto come
se volesse sfondarla e scappare attraverso la breccia. Guardai a sinistra, per
vedere chi lo spaventava così: speravo che fosse mio zio. Non era lui. Sotto la
pioggia, proveniente da via Bernini, correva invece Poliedro, l'uomo del negozio
Vossi.
Gli urlava contro qualcosa e ora gli faceva cenno di fermarsi, ora lo indicava
minacciosamente con tutta la mano aperta.
Caserta saltellò da un piede all'altro guardandosi intorno in cerca di una via di
scampo. Parve decidere di tornare indietro, giù per via Cimarosa, ma mi vide.
Allora smise di agitarsi, si ravviò i capelli bianchissimi e sembrò all'improvviso
pronto ad affrontare sia Poliedro che me.
Strisciò con la schiena lungo il recinto del cantiere, poi contro un'auto in sosta.
Anch'io ripresi a correre, giusto per vedere Poliedro muoversi come se pattinasse
sul grigio metallico del selciato, figura massiccia e tuttavia agile contro il trapezio
di sbarre in ferro giallo posto all'imbocco di piazza Vanvitelli. Ma fu a quel punto
che ricomparve mio zio.
Sbucò da una friggitorìa dove doveva essersi riparato. Mi aveva vista arrivare e
ora mi correva incontro impettito, a passetti veloci sotto la pioggia. L'uomo delle
Vossi se lo trovò davanti all'improvviso e gli finì inevitabilmente addosso. Dopo
l'urto si abbracciarono cercando di aiutarsi l'un l'altro a tenersi in piedi, e a quel
modo ruotarono insieme cercando un punto d'equilibrio.
Caserta ne approfittò per tuffarsi nella luce bianca di via Sanfelìce, sotto una
pioggia scintillante, tra la folla che cercava riparo nell'ingresso della funicolare.
Io racimolai le poche energie che mi erano rimaste e gli corsi dietro, in un
ambiente spesso di fiati, reso fangoso dalla pioggia, grigio di calce.
La funicolare era in procinto di partire e i passeggéri si spingevano l'un l'altro
verso le macchine obliteratrici. Caserta era già oltre e stava scendendo i gradini
ma fermandosi spesso, protendendo il collo per guardarsi alle spalle e poi
accostando improvvisamente il viso congestionato a chi gli camminava di lato per
sibilare qualcosa. O forse parlava a se stesso ma a voce che si sforzava di tenere
bassa, agitando la destra su e giù con tre dita ben tese e pollice e indice congiunti.
Per qualche secondo aspettava inutilmente una risposta. Infine riprendeva a
scendere.
Feci il biglietto e mi precipitai anch'io verso i due vagoni, gialli e luminosi.
Non ero riuscita a vedere in quale dei due era entrato. Scesi fino a metà della
seconda carrozza senza riuscire a rintracciarlo e poi mi decisi a entrare cercando
un passaggio tra la folla dei passeggéri. L'aria era pesante e mescolava i sudori
all'odore di stoffe bagnate. Frugai intorno con lo sguardo, in cerca di Caserta. Vidi
invece Poliedro che faceva i gradini a due a due inseguito da mio zio che gli
gridava non so cosa. Ebbero appena il tempo di entrare nel primo vagone e subito
le porte si chiusero. Dopo pochi secondi apparvero contro il vetro rettangolare
della fiancata che dava sul mio vagone: l'uomo del negozio Vossi si guardava
attorno furibondo e mio zio lo tirava per un braccio.
La funicolare si mosse.
XIV
Erano vetture nuove, ben diverse da quelle in funzione quand'ero ragazza. Di
quelle mantenevano solo la forma da parallelepipedo che sembrava essere stato
proiettato all'indietro in tutta la sua struttura da un violento urto frontale. Ma
quando la funicolare cominciò a calare nel pozzo obliquo che aveva davanti, ne
ritrovai gli scricchiolii, le vibrazioni e i sussulti. Tuttavia le vetture scivolavano
per il pendio appese alle corde d'acciaio con una velocità che aveva poco a che
fare con la riposante lentezza punteggiata di sussulti e di tonfi con cui scorrevano
una volta. Da sonda circospetta sotto la pelle della collina, il veicolo mi sembrò
mutato in iniezione in vena, brutale. E con fastidio sentii che sbiadiva la memoria
dei viaggi piacevoli con Amalia, quando aveva ormai smesso di fare guanti e mi
portava con lei a consegnare alle clienti benestanti del Vomero gli abiti che aveva
cucito per loro. Si era fatta bella e curata per sembrare non meno signora di quelle
per cui lavorava. Io invece ero magra e sporca o almeno così mi sentivo. Le
sedevo a lato sul sedile di legno e avevo sulle ginocchia, ben sistemato in modo
che non si spiegazzasse, il vestito a cui lei stava lavorando o che aveva appena
terminato, avvolto in carta da imballaggio che era fissata alle estremità con spilli.
Il pacco mi poggiava sulle gambe e sul ventre come una custodia dentro cui era
chiuso l'odore e il calore di mia madre. Lo sentivo in ogni millimetro della pelle
che la carta sfiorava. E quel contatto, allora, mi dava un sospiroso languore
scandito dai sussulti della carrozza.
Ora invece avevo solo l'impressione di perdere quota come un'Alice
invecchiata all'inseguimento del coniglio bianco. Perciò reagii staccandomi dallo
sportello e sforzandomi di arrivare al centro della vettura.
Ero nella parte alta del vagone, nel secondo dei suoi scomparti. Provai a farmi
strada, ma i passeggéri mi squadravano infastiditi, come se avessi qualcosa di
ripugnante nell'aspetto, e mi respingevano con ostilità. Avanzai a fatica, poi
rinunciai a muovermi e cercai con lo sguardo Caserta. Lo individuai in fondo,
nell'ultimo scomparto, una piattaforma ampia. Se ne stava alle spalle di una
ragazza sui vent'anni, molto dimessa. Lo vedevo di profilo come vedevo di profilo
la ragazza.
Pareva un tranquillo signore di dignitosa vecchiezza intento a leggere il
giornale grigio di pioggia. Lo teneva con la sinistra, ripiegato in quattro, e con la
destra si reggeva al corrimano di metallo brunito. Ma mi accorsi presto che
assecondava le oscillazioni della vettura e si accostava sempre più al corpo della
giovane donna. Ora aveva la schiena ad arco, le gambe un po' larghe, il ventre
appoggiato alle natiche di lei.
Non c'era niente che giustificasse quel contatto. Malgrado l'affollamento, aveva
alle spalle abbastanza spazio per collocarsi a debita distanza. Ma, anche quando la
ragazza si girò con rabbia malamente contenuta e poi si spinse appena appena più
avanti per sfuggirgli, il vecchio non desistette. Attese qualche secondo prima di
guadagnare i centìmetri persi, quindi congiunse di nuovo la stoffa dei calzoni blu
ai jeans di lei. Ricevette un timido gomito nelle costole ma continuò impassibile a
fingere di leggere, anzi le spinse con maggior decisione il ventre contro.
Mi girai in cerca di mio zio. Lo vidi nell'altro vagone, intento, a bocca aperta.
Poliedro, accanto a lui, tra la folla, batteva contro il vetro.
Forse cercava di attirare l'attenzione di Caserta. O la mia. Non aveva più l'aria
indisponente che gli avevo visto nel negozio. Sembrava un ragazzo umiliato e in
ansia, costretto dietro una finestra ad assistere a uno spettacolo che lo faceva
soffrire.
Passai con lo sguardo da lui a Caserta, disorientata. Mi parve che avessero la
stessa bocca, di una plastica rossa, irrigidita dalla tensione. Ma non riuscii a
fissare quell'impressione. La funicolare si fermò oscillando, vidi che la ragazza si
spostava verso l'uscita quasi di corsa. Caserta, come se le fosse incollato, la seguì
a reni inarcate e gambe larghe, tra lo stupore e qualche risata nervosa dei suoi
compagni di viaggio. La giovane balzò fuori dal vagone. Il vecchio esitò un
attimo, si ricompose e sollevò lo sguardo.
Credetti che lo facesse richiamato dai colpi ormai frenetici di Poliedro.
Invece, come se avesse sempre saputo il punto preciso in cui mi trovavo, mi
individuò subito tra la folla, che ormai se lo indicava tra brusii di
disapprovazione, e mi rivolse uno sguardo allegramente ammiccante, per darmi a
intendere che la pantomìma cui si stava dedicando mi riguardava.
Quindi bruscamente scivolò fuori dalla carrozza al modo di un attore ribelle
che ha deciso di non seguire più il copione.
Mi accorsi che anche Poliedro cercava di scendere. Tentai a mia volta di
arrivare alla porta ma ero lontana dall'uscita e respinta dalla corrente di quelli che
stavano salendo. La funicolare si rimise in moto.
Guardai in alto e mi accorsi che anche l'uomo del negozio Vossi non ce l'aveva
fatta. Ma zio Filippo sì.
XV
Nelle facce dei vecchi è difficile rintracciare i lineamenti che hanno avuto da
giovani. A volte non riusciamo nemmeno a pensare che hanno avuto una
gioventù. Mi resi conto, mentre la funicolare seguitava la sua discesa, che poco
prima, col moto dello sguardo da Poliedro a Caserta e viceversa, avevo composto
un terzo uomo che non era Caserta e nemmeno Poliedro. Si trattava di un uomo
giovane, olivastro, nero di capelli, con un cappotto di cammello.
Quell'ectoplasma, subito disfatto, era il risultato di uno slittamento di tratti
somatici, come se il mio sguardo avesse causato una confusione accidentale tra gli
zigomi di Caserta e quelli del buttafuori del negozio Vossi, tra la bocca dell'uno e
quella dell'altro. Mi disapprovai. Avevo fatto troppe cose che non dovevo fare: mi
ero messa a correre, mi ero abbandonata al batticuore, avevo ecceduto in frenesìa.
Cercai di acquietarmi.
Pochi minuti dopo apparve la stazione di Ghiaia, un bunker in cemento,
fiocamente illuminata. Mi preparai a scendere ma non mi sentivo ancora
tranquilla. Amalia, dentro la mia testa, ora fissava a sua volta quell'estrosa
composizione somatica che avevo ottenuto poco prima.
Mi rassegnai. Era lì ferma, esigente, in un angolo della vecchia stazione di
quarantanni fa. La fissai meglio allo sfondo, come se stessi lavorando a un puzzle
non ancora identificabile nei dettagli: solo i capelli sciolti, un profilo scuro
davanti a tre sagome di legno colorato che forse erano state lì poco meno di
mezzo secolo prima per reclamizzare abiti. Intanto uscii dal vagone, quasi spinta
sulla gradinata dai passeggéri impazienti. Mi sentivo gelata malgrado l'aria afosa,
da serra o da catacomba.
Ora Amalia era definitivamente comparsa a tutto campo, giovane e flessuosa,
nell'atrio di una stazione che, come lei, non c'era più. Mi fermai per darle il tempo
di incantarsi a guardare le sagome: forse una coppia elegante che aveva un cane
lupo al guinzaglio. Sì. Erano di cartone e di legno, alte due metri, spesse meno di
un centimetro, con aste di sostegno dietro la schiena. Ricorsi a dettagli scelti alla
rinfusa per colorarle e vestirle. L'uomo mi parve che fosse in giacca e pantaloni
principe di Galles, soprabito di cammello, mano guantata che stringeva un guanto,
cappello di feltro ben calzato. La donna forse indossava un tailleur scuro con una
lunga sciarpa di stoffa blu coperta da una rete a maglie delicatamente colorate:
aveva in testa un cappello con le piume, e occhi profondi dietro la veletta. Il cane
lupo era accovacciato sulle zampe posteriori, a orecchie vigili, stretto contro le
gambe del padrone. Tutt'e tre sostavano con un'aria sana e contenta nell'atrio della
stazione, che all'epoca era grigia e polverosa, tagliata in due da un'inferriata nera.
A pochi passi da loro cadevano dall'alto grandi fasci di luce tra le gradinate, che
facevano brillare il verde (o il rosso?) della funicolare quando scivolava
lentamente fuori dal tunnel nella collina.
Cominciai a scendere la gradinata verso le sbarre del cancello automatico. Il
resto accadde in un lasso di tempo brevissimo ma straordinariamente dilatato.
Poliedro mi prese per una mano, goffamente, appena sotto il polso. Fui certa che
era lui ancor prima di girarmi. Sentii che mi chiedeva di fermarmi. Non lo feci.
Mi disse che ci conoscevamo bene, che lui era il figlio di Nicola Poliedro. Poi
aggiunse, nel caso che quell'informazione non fosse sufficiente a trattenermi: «II
figlio di Caserta».
Mi fermai. Lasciai che anche Amalia sostasse davanti a quelle sagome a bocca
socchiusa, i denti bianchi lievemente venati dal rossetto, incerta tra un commento
ironico o una frase di meraviglia. La coppia di legno e di- cartone si lasciò
ammirare con distacco, in fondo ai gradini, a sinistra. Io, che mi sentivo presente
al fianco di lei anche se non riuscivo a vedermi, credetti che quei signori fossero
le immagini dei padroni della funicolare. Gente venuta da lontano: erano così
anomali, così fuori luogo, così diversi nel loro magico assortimento, che
sembravano di un'altra nazione. Li dovetti considerare, quarant'anni fa, una
possibilità di fuga, la prova che esistevano altri luoghi dove potevamo andarcene,
io e Amalia, quando l'avessimo voluto. Pensai di certo che anche mia madre, così
intenta, stesse studiando il modo per fuggire via con me. Ma poi mi venne il
sospetto che sostasse lì per altre ragioni: forse solo per studiare gli abiti della
donna e il suo modo di atteggiare il corpo. Probabilmente voleva rifarli nei vestiti
che cuciva.
O imparare a vestirsi lei stessa a quel modo, e a quel modo sostare disinvolta,
in attesa della funicolare. Sentii con sofferenza, dopo molti decenni da allora, che
lì, in quell'angolo di quella stazione, io non ero riuscita in nessun modo a pensare
i suoi pensieri dal di dentro di lei, dall'interno del suo respiro.
La sua voce già a quel tempo mi poteva solo dire: fai questo, fai quello; ma non
potevo essere più parte della cavità che concepiva quei suoni e stabiliva quali
dovevano suonare nel mondo esterno e quali restare suoni senza suono. Ne ebbi
dispiacere.
La voce di Poliedro arrivò come uno spintone contro quel dolore.
L'atrio di quarantanni prima sussultò.
Le sagome si'rivelarono di polvere colorata e si dissolsero. Dopo molti anni,
abiti e pose di quel genere erano spariti dal mondo. La coppia era stata rimossa
insieme al cane come se, dopo aver atteso inutilmente, si fosse indispettita e
avesse deciso di tornare nel castello di chissadove.
Feci fatica a tenere Amalia ferma davanti a nulla. Per di più, un attimo prima
che Poliedro smettesse di parlare, mi ero resa conto che avevo fatto confusione,
che il tailleur scuro della donna di cartone e la sua sciarpa non erano stati suoi ma
di mia madre. Era stata Amalia a vestirsi a quel modo elegante, tanto tempo fa,
come per un appuntamento a cui teneva.
Ora a bocca socchiusa, i denti appena venati dal rossetto, stava fissando non le
sagome ma lui, l'uomo col cappotto di cammello. E l'uomo le parlava, e lei gli
rispondeva, e lui tornava a parlarle, ma io non capivo cosa si dicessero.
Poliedro mi si rivolgeva accattivante per costringermi a dargli retta.
Lo osservavo incantata, ma non riuscivo a prestargli attenzione.
Aveva il viso di suo padre da giovane sotto i lineamenti ben nutriti, e mi stava
aiutando senza volerlo a raccontarmi di Caserta che incontrava mia madre nello
spazio distrutto della stazione di Chiaia. Scossi la testa e Poliedro dovette pensare
che non gli credessi. In effetti era a me stessa che non davo fiducia. Tornò a
ripetere: «Sono io, Antonio, il figlio di Caserta». Mi stavo accorgendo che di
quelle figure di legno e cartone conservavo in realtà solo un'impressione di terre
straniere e di promesse non mantenute. Brillavano come scarpe trattate col Brill,
ma senza dettagli. Potevano essere state sagome pubblicitarie di due uomini, o di
due donne, indifferentemente; poteva non esserci stato alcun cane; potevano aver
avuto un prato sotto i piedi o un selciato; e non ricordavo nemmeno cosa
reclamizzassero. Non lo sapevo più. I dettagli che avevo dissepolto - adesso ne
ero certa - non appartenevano a loro: erano soltanto il risultato di un assemblaggio
disordinato di abiti e gesti. Di nitido ora c'era solo quel bel viso giovane,
olivastro, dai capelli neri, uno smottamento dei lineamenti di Poliedro figlio su
un'ombra che era stata Poliedro padre.
Caserta parlava con gentilezza ad Amalia, tenendo per mano suo figlio Antonio,
che aveva proprio la mia età; e mia madre teneva me, certamente senza accorgersi
della mia mano nella sua. Riconoscevo la bocca di Caserta che si muoveva veloce
e gli vedevo la lingua, rossa, col frenulo che l'ancorava impedendole di guizzare
verso Amalia più di quanto non si provasse già a fare. Mi resi conto che, nella mia
testa, l'uomo di cartone della funicolare aveva vestito i panni di Caserta e che la
sua compagna aveva vestito quelli di mia madre. Il cappello con piume e veletta
aveva viaggiato a lungo, proveniente da chissà quale festa di matrimonio, prima
di posarsi lì. Ignoravo il destino della sciarpa ma sapevo che era rimasta per anni
intorno al collo e lungo una spalla di mia madre.
Quanto al tailleur, esso - cucito, scucito, rivoltato - era lo stesso che Amalia
indossava quando aveva preso il treno per raggiungermi a Roma e festeggiare il
mio compleanno. Quante cose attraversano il tempo staccandosi fortunosamente
dai corpi e dalle voci delle persone. Mia madre conosceva l'arte di far durare gli
abiti in eterno.
Dissi finalmente a Poliedro, sorprendendolo per il tono socievole che non si
aspettava, dopo tanta muta resistenza: «Mi ricordo benissimo. Sei Antonio.
Come ho fatto a non riconoscerti subito? Hai gli stessi occhi di allora».
Gli sorrisi per mostrare che non gli ero ostile ma anche per capire se lui
provava ostilità nei miei confronti.
Mi fissò perplesso. Lo vidi pronto a chinarsi per baciarmi sulle guance ma poi
ci rinunciò come se qualcosa di me gli repellesse.
«Cos'è?» chiesi all'uomo delle Vossi che ora, dissolta la tensione del primo
approccio, mi guardava con una lieve ironia, «non ti piace più il mio vestito?».
Poliedro dopo un attimo di incertezza si decise. Rise e mi disse: «Come sei
ridotta. Ti sei vista?
Vieni, non puoi andare in giro così».
XVI
Mi spinse verso l'uscita e poi, di corsa, verso la stazione dei taxi.
Sotto la tettoia della metropolitana si affollava la gente sorpresa dalla pioggia.
Il cielo era nero e il vento soffiava forte spingendo obliquamente una cortina
d'acqua sottile e fitta.
Poliedro mi fece salire in un taxi puzzolente di fumo. Parlava svelto e sicuro,
senza lasciarmi spazio, come se fosse convinto che dovessi provare molto
interesse per quello che stava dicendo. Ma io ascoltavo poco e male, non riuscivo
a concentrarmi. Avevo l'impressione che si stesse esprimendo senza un disegno
preciso, con una disinvoltura freneticamente esibita che gli serviva solo a
contenere l'ansia. Non volevo che me la contagiasse.
Con una certa solennità mi chiese scusa a nome di suo padre. Disse che non
sapeva proprio come fare: la vecchiaia gli aveva guastato il cervello
definitivamente. Ma mi assicurò subito che il vecchio non era pericoloso e che
non era nemmeno malvagio. Era incontrollabile, questo sì: aveva un corpo sano e
resistente, andava sempre in giro, era impossibile tenerlo a freno. Quando riusciva
a rubacchiargli abbastanza danaro, spariva per mesi. Bruscamente cominciò a
elencarmi le cassiere che aveva dovuto licenziare perché corrotte o abbindolate
dal padre.
Mentre Poliedro parlava, ne avvertii l'odore: non l'odore vero, sopraffatto da
quello di sudore e tabacco che dominava nel taxi; un odore inventato muovendo
da quello della bottega di dolci e di spezie dove avevamo giocato spesso insieme.
La bottega apparteneva a suo nonno e si trovava a pochi isolati dall'edificio dove
abitavano i miei genitori. L'insegna era di legno, azzurra, e ai lati della scritta
«Coloniali» c'era una palma e una donna nera con labbra molto rosse.
Quell'insegna l'aveva dipinta mio padre a vent'anni.
Aveva dipinto anche il banco della bottega, con una tinta che si chiamava terra
di Siena bruciata e che era servita a fare il deserto. Nel deserto aveva messo molte
palme, due cammelli, un uomo in sahariana e stivali, cascate di caffè, danzatrici
africane, un cielo blu-oltremare e un quarto di luna. Bastava poco per arrivare di
fronte a quel paesaggio. I bambini vivevano per strada, senza sorveglianza: mi
allontanavo dal cortile di casa, giravo l'angolo, spingevo la porta, che era di legno
ma con un mezzo vetro nella parte superiore e una sbarra di metallo in diagonale,
e subito suonava una campanella. Allora entravo e la porta mi si chiudeva alle
spalle. Lo spigolo era imbottito di stoffa o forse coperto di gomma per impedire
alla porta di sbattere con fracasso. L'aria odorava di cannella e di crema.
Sulla soglia c'erano due sacchi dai bordi arrotolati, colmi di caffè. In alto, sul
marmo del bancone, certi recipienti di vetro lavorato, con disegni in rilievo,
mostravano confetti bianchi, azzurri e rosa, le caramelle al latte mou, certe perline
multicolori di zucchero che si scioglievano in bocca versando sulla lingua un
liquido dolce, liquirizia in bacchette nere, in stringhe sciolte o arrotolate, a forma
di pesce o di barchetta.
Mentre il taxi combatteva col vento, con la pioggia, con le vie allagate, con il
traffico, non riuscivo a far combaciare il ribrezzo per la lingua rossa di Caserta,
per i giochi da batticuore con il bambino Antonio, per la violenza e il sangue che
ne erano derivati, con quell'odore languido che Poliedro aveva conservato nel
respiro.
Ora stava cercando di giustificare suo padre. A volte - mi stava dicendo
infastidiva un po' la gente, ma bastava avere pazienza: senza la pazienza, vivere in
quella città diventava difficile. Tanto più che il vecchio non faceva gran danno. Il
danno maggiore non lo arrecava al prossimo; lo arrecava al negozio Vossi quando
molestava le clienti. Allora gli faceva venire il sangue agli occhi e se ce l'avesse
avuto tra le mani avrebbe impiegato poco a dimenticarsi che era suo padre. Mi
chiese se mi aveva dato fastidio. Possibile che non si fosse accorto che ero la
figlia di Amalia? A lui c'erano voluti pochi minuti, il tempo di raccogliere le idee:
non potevo sapere quanto gli aveva fatto piacere rivedermi. Mi era corso dietro
ma ero già sparita. Aveva visto suo padre, invece, e questo gli aveva fatto perdere
le staffe. No, non potevo capire. Stava rischiando il presente e l'avvenire, nel
negozio Vossi. Gli credevo se mi diceva che non aveva un attimo di tregua? Ma
suo padre non si rendeva conto dell'investimento economico ed emotivo fatto in
quell'impresa. No, non si rendeva conto. Lo tormentava con continue richieste di
soldi, lo minacciava notte e giorno per telefono e gli molestava le clienti apposta.
D'altra parte non dovevo pensare che era sempre così come l'avevo visto in
funicolare. All'occorrenza il vecchio sapeva essere di buone maniere, un vero
signore, sicché le donne gli davano retta. Poi, se cambiava registro, arrivavano i
guai. Ne perdeva di soldi per colpa di suo padre, ma che poteva fare?
Ammazzarlo?
Gli dicevo senza impegno: sì, certo, no, macché. Ero a disagio. Avevo il vestito
zuppo. Mi ero intravista nello specchietto retrovisore del taxi e mi ero accorta che
la pioggia aveva sciolto la maschera del trucco. La pelle sembrava un tessuto
sgranato e stinto, attraversato dai rigagnoli neroazzurri del mascara. Ero
infreddolita. Avrei preferito tornare a casa di mio zio, sapere cosa gli era successo,
rassicurarmi, fare un bagno caldo, mettermi sdraiata. Ma quel corpo massiccio al
mio fianco, gonfio dì cibo, di bevande, di preoccupazioni e di astio, che portava
sepolto dentro di sé un bambino odoroso di chiodi di garofano, di millefiori e di
noce moscata col quale segretamente avevo giocato da piccola, mi incuriosiva più
delle parole che stava pronunciando.
Escludevo che potesse raccontarmi cose che non mi fossi già narrata per conto
mio. Non ci contavo. Però vedergli quelle mani enormi, larghe e tozze, e ricordare
quelle che aveva avuto da bambino, e sentire che erano le stesse anche se non
conservavano alcun segno di allora, mi tratteneva persino dal chiedergli dove
stavamo andando.
Accanto a lui mi sentivo miniaturizzata, con uno sguardo e una statura che non
mi appartenevano da tempo. Costeggiavo il deserto dipinto lungo il banco del bar-
coloniali, scostavo una tenda nera ed entravo in un altro ambiente, dove le parole
di Poliedro non arrivavano. Qui c'era suo nonno, il padre di Caserta, color bronzo,
calvo ma con il cranio scuro, gli occhi col bianco che era rosso, la faccia lunga,
pochi denti in bocca.
Intorno a lui si assiepavano varie macchine misteriose. Con una, di forma
allungata, celeste, attraversata da una sbarra lucente, fabbricava gelati.
Con un'altra montava crema gialla in una vasca dentro cui ruotava 70 un
braccio meccanico. In fondo c'era un forno elettrico a tre scomparti, spioncini bui
quando era spento, manopole nere. E dietro un banco di marmo, il nonno di
Antonio, cupo, senza parole, premeva con grande abilità un imbuto di tela, dalla
cui bocca dentata usciva crema. La crema si allungava su paste e intorno a torte
lasciando una bella traccia ondulata. Lavorava ignorandomi. Io mi sentivo
gradevolmente invisibile.
Intingevo un dito nella vasca della crema, mangiavo una pasta, prendevo un
candito, rubacchiavo confetti d'argento. Lui non batteva ciglio.
Finché non compariva Antonio che mi faceva cenno e apriva, alle spalle del
nonno, la porticina dell'interrato. Di lì, da quel luogo di ragni e di muffe,
comparivano spesso, cento volte di seguito e in pochi secondi, Caserta in cappotto
di cammello e Amalia in tailleur scuro, a volte col cappello e la veletta, a volte
senza. Io li vedevo e cercavo di chiudere gli occhi.
«Mio padre è stato bene solo in quest'ultimo anno» disse Poliedro col tono di
chi si prepara a esagerare per guadagnarsi un po' della benevolenza
dell'ascoltatore. «Amalia è stata con lui di una gentilezza, di una comprensione,
che non mi sarei mai aspettato».
Vero era - seguitò cambiando tono che il vecchio gli aveva rubacchiato
moltissimi soldi per vestirsi come un figurìno e far bella figura con mia madre.
Ma di quei soldi Poliedro non si lagnava. Suo padre gli aveva combinato ben
altro. E temeva che presto si sarebbe infilato in guai più grossi. No, era stata una
vera sventura: Amalia non avrebbe dovuto fare quello che aveva fatto.
Annegarsi. Perché? Che peccato, che peccato. La sua morte era stata una
terribile disgrazia.
A quel punto Poliedro parve sopraffatto dalla memoria di mia madre e
cominciò a scusarsi per non essere venuto al funerale, per non avermi fatto le
condoglianze.
«Era una donna eccezionale» ripetè più volte, anche se probabilmente non si
erano mai parlati. E poi mi chiese: «Tu lo sapevi che lei e mio padre si
vedevano?».
Gli risposi di sì, guardando fuori dal finestrino. Si vedevano. E mi vidi sul letto
di mia madre, mentre mi osservavo stupefatta la vagina con uno specchietto.
Vedersi: Amalia mi aveva guardata, incerta, e poi aveva richiuso senza fretta la
porta della camera da letto.
Ora il taxi costeggiava la litoranea grigia e trafficata: un traffico denso e veloce,
battuto dalla pioggia e dal vento. Il mare sollevava onde alte.
Avevo visto raramente da ragazza una mareggiata così imponente nel golfo.
Era simile alle ingenue esagerazioni pittoriche di mio padre.
Le onde si alzavano scure, di cresta bianca, e scavalcavano senza fatica la
barriera degli scogli, arrivando certe volte a spruzzare il selciato. Lo spettacolo
aveva raccolto gruppi di curiosi che, sotto selve di ombrelli, gridavano
indicandosi le creste più alte nel momento in cui quelle si slanciavano in mille
scaglie oltre la scogliera.
«Sì, lo sapevo» gli ripetei con maggiore convinzione.
Tacque per un attimo, meravigliato.
Poi riprese divagando sulla sua vita: una brutta esistenza, il matrimonio a pezzi,
tre figli che non vedeva da un anno, una vita dura. Solo adesso stava risalendo la
china. E gli stava riuscendo bene. Io? Mi ero sposata?
Avevo figli? Come mai?
Preferivo vivere libera e indipendente? Beata me. Ora mi sarei rimessa un po'
in ordine e avremmo pranzato insieme. Doveva vedere certi amici suoi ma, se non
mi seccava, lo potevo accompagnare. Aveva il tempo contato però, coi negozi era
così. Se avevo pazienza, poi potevamo parlare un po'.
«Ti va?» si ricordò finalmente di chiedermi.
Gli sorrisi dimenticando la faccia che avevo, e lo seguìi fuori dal taxi, accecata
dall'acqua e dal vento e costretta a un passo veloce dalla sua mano che mi
stringeva un braccio.
Spinse una porta e mi cacciò davanti a sé come un ostaggio, senza allentare la
presa. Mi ritrovai nella hall di un albergo dallo sfarzo trascurato, di polverosa e
tarmata opulenza. Malgrado il legno pregiato e i velluti rossi, il luogo mi sembrò
miserabile: luci troppo basse per una giornata plumbea, un brusìo intenso di voci
dialettali, un tramestìo di piatti e di posate proveniente da una grande sala sulla
mia sinistra, un incrociarsi di camerieri che si scambiavano reciproche villanìe, un
odore greve di cucina.
«C'è Moffa?» chiese Poliedro in dialetto a un tale alla reception.
Quello gli rispose con un cenno seccato che voleva dire: c'è eccome; è qui da
un pezzo. Poliedro mi lasciò e andò frettolosamente all'ingresso del salone dove si
stava svolgendo un banchetto. L'uomo della reception ne approfittò per lanciarmi
uno sguardo disgustato. Io mi vidi in un grande specchio verticale chiuso dentro
una cornice dorata. Avevo l'abito leggero incollato addosso. Sembravo più magra
e insieme più muscolosa. I capelli erano così attaccati al cranio che parevano
dipinti.
La faccia sembrava decomposta da una brutta malattia della pelle, livida di
mascara intorno agli occhi e squamata o a chiazze sugli zigomi e sulle guance.
Portavo appesa stancamente a una mano la busta di plastica in cui avevo infilato
tutte le cose ritrovate nella valigetta di mia madre.
Poliedro ritornò indietro seccato.
Capii che era in ritardo per colpa del padre e forse per colpa mia.
«Come faccio adesso?» disse a quello della reception.
«Siediti, mangia e quando il pranzo è finito gli parli».
«Non mi puoi trovare un posto al suo tavolo?».
«Sei scemo» disse l'uomo. E spiegò ironicamente, con l'aria di chi dice cose
risapute a gente di scarso comprendonio, che al tavolo di quel Moffa c'erano i
professori, il rettore, il sindaco, l'assessore alla cultura e le consorti. Era
impensabile un posto a quel tavolo.
Guardai il mio amico di infanzia: anche lui era bagnato di pioggia e in
disordine. Vidi che ricambiava lo sguardo con imbarazzo. Era agitato, gli
apparivano e gli sparivano dal volto tratti del bambino che ricordavo. Ne ebbi
pena e non ne fui contenta. Mi allontanai verso la sala da pranzo per permettergli
di litigare con l'uomo della reception senza sentirsi costretto a tener conto della
mia presenza.
Mi appoggiai alla vetrata che dava sul ristorante, attenta a non essere travolta
dai camerieri che entravano e uscivano. Le voci alte e il tintinnìo delle posate mi
sembrarono di volume insopportabile. Era in atto una sorta di pranzo inaugurale,
o forse conclusivo, di chissà quale congresso o convegno. C'erano almeno
duecento persone. Mi colpì la disparità evidente tra i commensali. Alcuni erano
composti, assorti, a disagio, a volte ironici, a volte acquiescenti, in genere
sobriamente eleganti. Altri erano congestionati, smaniavano tra cibo e
chiacchiere, avevano caricato il corpo di tutto quello che poteva segnalare la
possibilità di spendere spandendo danaro a fiotti. Erano soprattutto le donne a
sintetizzare le differenze tra i loro uomini. Magrezze racchiuse in abiti di fine
fattura, nutrite con molta parsimonia e illuminate in modo soffuso da sorrisi
cortesi, sedevano accanto a corpi debordanti, stretti in abiti tanto costosi quanto
chiassosi, colorati e scintillanti d'ori e gioie, biliosamente muti, o ciarlieri e
ridenti.
Da dove mi trovavo era difficile capire quali vantaggi, quali complicità, quali
ingenuità avessero portato gente così visibilmente diversa allo stesso tavolo. Né
d'altra parte mi interessava saperlo. Mi colpì solo che la sala sembrava uno dei
luoghi dove da bambina mi immaginavo che scappasse mia madre appena usciva
di casa. Se in quel momento Amalia fosse entrata col suo tailleur blu di decenni
prima, la sciarpa delicatamente colorata e il cappello con veletta, al braccio di
Caserta in cappotto di cammello, avrebbe sicuramente accavallato vistosamente le
gambe e avrebbe fatto scintillare gli occhi a destra e a sinistra con allegria. Era a
feste di cibo e risate come quella che la facevo andare quando lasciava la casa
senza di me ed ero certa che non sarebbe tornata mai più. Mi inventavo che fosse
carica d'oro e d'argento, che mangiasse senza ritegno. Ero sicura che anche lei,
appena fuori di casa, estraesse dalla bocca una lunga lingua rossa. Piangevo nel
ripostiglio, accanto alla camera da letto.
«Ora lui ti da la chiave» mi disse Poliedro parlando da dietro le mie spalle,
senza la gentilezza di prima, anzi sgarbatamente. «Ti metti un po' in ordine e mi
raggiungi a quel tavolo lì».
Lo vidi attraversare la sala, sfiorare un lungo tavolo, rivolgere un saluto
deferente a un uomo anziano che stava parlando a voce altissima a una signora
curata, composta, dai capelli turchini, la pettinatura antiquata. Il saluto fu
ignorato. Poliedro guardò altrove furibondo e andò a sedersi, volgendomi le
spalle, a un tavolo dove un uomo grasso, con baffi nerissimi, e una donna molto
dipinta, l'abito stretto che nel sedersi le era salito troppo sopra le ginocchia,
divoravano cibo in silenzio, a disagio.
Non mi piacque che mi avesse parlato a quel modo. Era un tono di voce che
dava disposizioni e non ammetteva repliche. Pensai di attraversare la sala e dire al
mio ex compagno di giochi che me ne andavo.
Ma mi frenò l'aspetto che sapevo di avere e quella formula: compagno di
giochi. Quali giochi? C'erano stati giochi che avevo giocato con lui solo per
vedere se sapevo giocarli come mi immaginavo che facesse segretamente Amalia.
Mia madre pedalava tutto il giorno sulla Singer come un ciclista in fuga. In casa
viveva dimessa e schiva, nascondendo i suoi cappelli, le sue sciarpe colorate, i
suoi vestiti. Ma sospettavo, proprio come mio padre, che fuori casa ridesse
diversamente, respirasse diversamente, orchestrasse i movimenti del corpo in
modo da lasciare tutti a occhi sbarrati. Girava l'angolo ed entrava nella bottega del
nonno di Antonio.
Scivolava intorno al bancone, mangiava dolci e confetti argentati, zigzagava
senza sporcarsi tra banchi e teglie.
Poi arrivava Caserta, apriva la porticina di ferro e scendevano insieme in fondo
all'interrato. Qui mia madre si scioglieva i lunghissimi capelli neri e quel
movimento brusco riempiva di scintille l'aria buia che odorava di terra e di muffa.
Quindi si coricavano entrambi sul pavimento a pancia sotto e strisciavano
ridacchiando. L'interrato infatti si sviluppava come un'intercapedine lunga ma di
scarsa altezza. Si poteva avanzare solo carponi, tra rottami di legno e di ferro,
casse e casse piene di vecchie bottiglie per la conserva di pomodoro, aliti di
pipistrello e fruscii di topo. Caserta e mia madre strisciavano tenendo d'occhio i
finestroni bianchi di luce che si aprivano a intervalli fissi sulla loro sinistra. Erano
sfiatatoi tagliati da nove sbarre e schermati con un reticolo per impedire ai topi di
passare. I bambini, dall'esterno, fissavano il buio e le pozze di luce, imprimendosi
il marchio del reticolo sul naso e sulla fronte.
Loro invece, dall'interno, li sorvegliavano per essere certi di non essere visti.
Ben celati nelle aree più buie, si toccavano reciprocamente tra le gambe. Io
intanto mi distraevo per non piangere e, poiché il nonno di Antonio non
accennava a vietarmelo ma sperava di vendicarsi di Amalia facendomi morire di
indigestione, mi rimpinzavo di caramelle mou, di liquirizia, di crema raschiata dal
fondo della vasca dove veniva fabbricata.
«208, al secondo piano» mi disse un inserviente. Presi la chiave e rinunciai
all'ascensore. Me ne andai a passo lento su per un'ampia gradinata, lungo cui
correva una guida rossa fissata da aste dorate.
XVII
La stanza 208 era squallida come quella di un albergo di terz'ordine.
Si trovava in fondo a un corridòio cieco e male illuminato. Era contigua a uno
sgabuzzino lasciato sciattamente aperto e pieno di ramazze, carrelli,
aspirapolvere, biancheria sporca. Le pareti avevano un colore giallastro e sopra il
letto matrimoniale c'era una Madonna di Pompei con un ramoscello secco d'ulivo
infilato tra il chiodo e il triangolo di metallo che reggeva l'immagine in cornice. I
sanitari, che date le pretese dell'hotel avrebbero dovuto essere sigillati, erano
sporchi come se fossero stati usati da poco.
Il cestino dei rifiuti non era stato svuotato.
Tra il letto matrimoniale e la parete c'era uno stretto corridoio che permetteva
di arrivare alla finestra.
L'aprii sperando che desse sul mare: naturalmente affacciava su un cortile
interno. Mi accorsi che non pioveva più.
Per prima cosa provai a telefonare. Mi sedetti sul letto evitando di guardarmi
nello specchio che avevo di fronte. Feci squillare il telefono a lungo ma mio zio
Filippo non rispose.
Allora frugai nella busta di plastica dove avevo ficcato la roba che mia madre
aveva nella sua valigetta, ne estrassi la vestaglia di raso color cipria e il vestito
blu, molto corto.
L'abito, infilato nella busta senza cura, era tutto spiegazzato. Lo disposi sul
letto stirandolo con le mani. Poi presi la vestaglia e andai nel bagno.
Mi spogliai e mi tolsi l'assorbente interno: le mestruazioni parevano
bruscamente finite. Avvolsi il tampone nella carta igienica e lo gettai nel cestino.
Controllai la pedana della doccia: aveva ripugnanti peli corti e neri distribuiti ai
bordi della porcellana. Lasciai scorrere a lungo l'acqua prima di infilarmi sotto il
getto. Mi accorsi con soddisfazione che riuscivo a dominare la necessità di
affrettarmi. Ero separata da me: la donna che voleva essere scoccata via a occhi
sbarrati era osservata spassionatamente dalla donna sotto l'acqua. Mi insaponavo
accuratamente e facevo in modo che ogni gesto appartenesse a un mondo esterno
senza scadenze. Non stavo inseguendo nessuno e nessuno mi inseguiva. Non ero
attesa e non aspettavo visite. Le mie sorelle erano partite per sempre. Mio padre
sedeva nella sua vecchia casa davanti al cavalletto e dipingeva zingare. Mia
madre, che da anni esisteva solo come un'incombenza fastidiosa, a volte come un
assillo, era morta. Mentre mi strofinavo il viso vigorosamente, in specie intorno
agli occhi, mi resi conto con tenerezza inattesa che invece avevo Amalia sotto la
pelle, come un liquido caldo che mi era stato iniettato chissà quando.
Mi strofinai per bene i capelli bagnati fino a renderli quasi asciutti e controllai
nello specchio che non mi fosse rimasto del mascara tra le ciglia. Vidi mia madre
così come figurava sulla sua carta di identità e le sorrisi. Poi indossai la vestaglia
di raso e per la prima volta nella mia vita, malgrado quel detestabile color cipria,
ebbi l'impressione di essere bella. Provai, all'apparenza immotivatamente, lo
stesso gradevole stupore di quando trovavo in luoghi impensati i doni che Amalia
aveva nascosto fingendo intanto di aver dimenticato per sbadataggine date e
festività. Ci teneva sulle spine fino a che il regalo non saltava fuori all'improvviso
da angoli della vita quotidiana che non avevano niente a che fare con
l'eccezionaiità del dono.
A vederci felici era più felice di noi.
Capii all'improvviso che il contenuto della valigia non era destinato a lei ma a
me. La menzogna che avevo raccontato alla commessa del negozio Vossi era in
effetti la verità. Anche il vestito blu che mi attendeva sul letto era sicuramente
della mia misura. Me ne resi conto di colpo come se fosse la vestaglia stessa sulla
pelle a raccontarmelo. Infilai le mani nelle tasche, certa che vi avrei trovato il
biglietto d'auguri.
Infatti era lì, preparato apposta per sorprendermi. Aprii la busta e lessi la grafia
elementare di Amalia, con quelle lettere ornate che nessuno sa fare più: «Buon
compleanno, Delia. Tua madre». Subito dopo mi accorsi che avevo le dita
lievemente sporche di sabbia. Rimisi le mani in tasca e scoprii che nel fondo c'era
un lieve strato di rena. Mia madre aveva indossato quella vestaglia prima di
annegarsi.
XVIII
Non mi accorsi che la porta si apriva. Sentii invece che qualcuno la stava
richiudendo a chiave. Poliedro si tolse la giacca e la gettò su una sedia. Disse in
dialetto: «Non mi daranno una lira».
Lo guardai perplessa. Non capivo di cosa stesse parlando: forse di un prestito
bancario, forse di soldi a usura, forse di una tangente. Sembrava un marito stanco
che credeva di potermi raccontare i suoi guai come se fossi sua moglie. Senza la
giacca, gli si poteva vedere la camicia gonfia sulla cintura dei calzoni, il torace
con le mammelle larghe e pesanti. Mi preparai a dirgli di uscire dalla stanza.
«In compenso rivogliono i soldi che mi hanno anticipato» seguitò a monologare
dal bagno e la voce mi arrivò attraverso la porta aperta insieme allo scroscio
dell'urina nella tazza.
«Mio padre è andato a chiedere danaro a Moffa senza avvisarmi. Alla sua età
vuole riprendersi l'ex pasticceria di via Gianturco e farci non si sa cosa.
Ha raccontato frottole come al solito.
Così ora Moffa non mi da più fiducia.
Dice che non so tenere a freno il vecchio. Mi leveranno il negozio».
«Non dovevamo pranzare insieme?» chiesi.
Mi passò davanti come se non avesse sentito. Andò alla finestra e abbassò la
persiana. Restò solo la luce debole che usciva dalla porta del bagno aperta.
«Te la sei presa troppo comoda» mi rimproverò infine. «Vuol dire che salterai il
pranzo: alle quattro mi riapre il negozio, non ho molto tempo».
Guardai meccanicamente le lancette fosforescenti dell'orologio: erano le tre
meno dieci.
«Lasciami vestire» dissi.
«Stai bene così» rispose. «Ma preparati a restituirmi tutto: vestiti, vestaglia e
mutande».
Cominciai a sentire il cuore che mi batteva. Sopportavo male il suo dialetto e
l'ostilità che emanava.
Inoltre non gli vedevo più l'espressione del viso, cosa che mi impediva di
capire fino a che punto stava mettendo in scena un suo modello molto elementare
di virilità, e fino a che punto invece il modello materializzasse reali intenzioni di
violenza. Ne vedevo solo la sagoma scura che si stava slacciando la cravatta.
«È roba mia» obiettai pronunciando con cura le parole. «Me l'ha regalata mia
madre per il mio compleanno».
«È roba che ha preso mio padre dal negozio. Perciò me la restituisci» rispose
con una lieve incrinatura infantile nella voce.
Esclusi che mentisse. Mi immaginai Caserta che sceglieva quegli indumenti per
me: colori, taglia, modelli. Ebbi un moto di ribrezzo.
«Prendo solo il vestito e ti lascio tutto il resto» decisi. Quindi allungai la mano
verso il letto per afferrare l'abito e sgusciare nel bagno, ma il gesto tagliò l'aria
con velocità eccessiva e si tirò dietro la parete con la Madonna di Pompei e il
ramo secco d'olivo. Dovevo muovermi più lentamente. Imposi al braccio un moto
contenuto per evitare che tutta la stanza si animasse e ogni cosa cominciasse a
spostarsi in preda all'ansia. Odiavo i momenti in cui la frenesìa prendeva il
sopravvento.
Poliedro notò quella mia esitazione e mi afferrò il polso. Non reagii, soprattutto
per evitare che, per stroncare sul nascere un mio accenno di resistenza, mi tirasse
contro di sé con forza. Sapevo di poter tenere a bada l'impressione di violenza
incombente solo se la velocità dei movimenti mi fosse sembrata scelta da me.
Mi baciò senza abbracciarmi, ma seguitando a stringermi saldamente il polso.
Poggiò prima le labbra sulle mie e poi provò ad aprirmele con la lingua. Lo fece
in modo tale che mi rassicurai: sì, stava solo comportandosi come pensava che si
dovesse comportare in quelle circostanze un uomo, ma senza reale aggressività e
forse senza convinzione. Probabilmente aveva abbassato la persiana' per
approfittare del buio e cambiare sguardo di nascosto, allentare i muscoli del volto.
Schiusi le labbra. Quarantanni prima mi ero immaginata con affascinato orrore
che Antonio bambino avesse la stessa lingua di Caserta, ma non ne avevo mai
avuta la prova. Antonio da piccolo non era stato interessato ai baci: preferiva
esplorarmi l'accesso alla vagina con le dita sporche e intanto tirarmi la mano verso
i suoi pantaloncini corti.
Poi col tempo avevo scoperto che quella di Caserta era una lingua della
fantasia. Nessuno dei baci che mi avevano dato mi era sembrato come quelli suoi
che mi ero immaginata per Amalia. Anche Antonio da adulto mi stava
confermando di non essere all'altezza, di quelle fantasie. Non mi baciò con molta
convinzione. Appena si rese conto che accettavo di aprire la bocca, mi spinse con
troppa irruenza la lingua tra i denti e subito, seguitando a stringermi il polso, si
passò la mia mano sopra i pantaloni. Sentii che non avrei dovuto schiudere le
labbra.
«Perché al buio?» gli chiesi a bassa voce, con la bocca contro la sua.
Volevo sentirlo parlare per essere definitivamente certa che non avrebbe cercato
di farmi del male. Invece non mi rispose. Fece il respiro corto, mi baciò su una
guancia, mi leccò il collo. Intanto non cessava di premersi forte la mia mano sulla
stoffa dei calzoni. Lo faceva con insistenza, perché capissi che non dovevo
starmene inerte, a palmo aperto. Gli strinsi il sesso. Solo allora mi lasciò il polso e
mi abbracciò con forza. Mormorò qualcosa che non capii e si curvò appena per
cercarmi i capezzoli, spingendomi indietro il busto, saggiando con la bocca il
tessuto di raso e bagnandomi di saliva la vestaglia.
Seppi allora che non sarebbe accaduto niente di nuovo. Stava cominciando un
rito ben noto a cui da giovane mi ero sottoposta spesso, sperando che cambiando
uomo di frequente il mio corpo inventasse una volta o l'altra risposte adeguate. La
risposta invece era stata sempre la stessa, identica a quella che ora andavo
articolando. Poliedro mi aveva aperto la vestaglia per succhiarmi i seni e io
cominciavo a provare un piacere lieve, non localizzato, come se mi scorresse
acqua calda sul corpo intirizzito. Intanto con una mano, attento a non disturbare la
mia che gli stringeva il membro sotto la stoffa, mi stava carezzando il sesso con
foga eccessiva, eccitato dalla scoperta che non avevo slip. Ma io non avvertivo
nient'altro che quel piacere diffuso, gradevole e tuttavia non urgente.
Ero sicura da tempo che non avrei mai superato quella soglia. Dovevo solo
aspettare che lui eiaculasse. D'altra parte, come sempre, non sentivo nessuna
spinta ad aiutarlo, anzi stentavo a muovermi. Intuivo che si aspettava che gli
slacciassi i pantaloni, che gli estraessi il pene, che non mi limitassi a
stringerglielo.
Sentivo che agitava il bacino cercando di trasmettermi trepidanti istruzioni.
Non riuscivo a rispondere.
Temevo che il respiro già lento mi si sarebbe fermato del tutto. Inoltre ero
paralizzata da un imbarazzo crescente per i liquidi copiosi che stavo versando.
Anche quando da ragazza cercavo di masturbarmi accadeva così. Il piacere si
diffondeva tiepidamente, senza nessun crescendo, e la pelle cominciava subito a
bagnarsi. Per quanto mi carezzassi, ottenevo solo che gli umori del corpo
debordassero: la bocca, invece di seccarsi, si riempiva di una saliva che mi pareva
gelida; il sudore colava dalla fronte, dal naso, dalle guance; le ascelle diventavano
pozze; non un centimetro di pelle restava asciutto; il sesso si faceva così liquido,
che le dita vi scivolavano sopra senza attrito e non sapevo più se mi stavo
veramente toccando o immaginavo soltanto di farlo. La tensione dell'organismo
non riusciva a salire: restavo stremata e insoddisfatta.
Di tutto questo Poliedro per ora sembrava non accorgersi. Mi spinse verso il
letto, su cui, per evitare che cadessimo insieme con la velocità indotta dal suo
peso, prima mi sedetti cautamente e poi mi allungai remissiva. Vidi la sua ombra
che si attardava per qualche secondo indecisa. Poi si tolse le scarpe, i pantaloni, le
mutande. Quindi salì sul letto in ginocchio e mi si mise a cavalcioni,
appoggiandosi sulla mia pancia lievemente, senza gravarmi addosso.
«Allora?» mormorò.
«Vieni» gli dissi ma restando immobile. Gemette, ben erto nel busto: sperava
che finalmente il suo sesso, largo e tozzo nella penombra, mescolasse i suoi
desideri a quelli che attribuiva al mio. Poiché non accadde nulla, dopo un lungo
respiro allungò una mano e tornò a frugarmi tra le gambe. Dovette credere che
così mi avrebbe indotta finalmente a reagire: per passione, per pietà materna, la
modalità della reazione non gli pareva importante; stava solo cercando la leva per
sollecitarmi. Ma la mia accondiscendenza senza partecipazione cominciò a
disorientarlo. Pensai, come sempre in quelle circostanze, che avrei dovuto fingere
una frenesìa sospirosa e incontrollata o respingerlo. Ma. non osai fare né l'una
cosa né l'altra: temevo di dover correre a vomitare per le onde da terremoto che ne
sarebbero derivate. Bastava aspettare. Del resto già non sentivo più le sue dita:
forse si era ritratto con disgusto, forse mi stava toccando ancora ma io avevo
perso ogni sensibilità.
Deluso, Poliedro mi prese le mani e se le portò intorno al sesso. A quel punto
capii che non mi sarebbe mai entrato nella vagina, se non si fosse convinto che lo
desideravo. Mi accorsi del resto che la sua erezione cominciava a cedere come un
neon difettoso. Se ne rese conto anche lui e si spostò in avanti per trovarsi col
ventre prossimo alla mia bocca. Provai per lui una vaga simpatia, come se fosse
davvero l'Antonio bambino che avevo conosciuto; e volevo dirglielo ma la voce
non mi uscì: si stava strofinando lentamente contro le mie labbra ed ebbi paura
che un lieve impercettibile movimento della bocca sarebbe risultato così
incontrollabile da dilaniargli il sesso.
«Perché sei venuta al negozio?» allora disse indispettito, scivolando di nuovo
all'indietro lungo il mio corpo zuppo di sudore. «Non sono stato io a cercarti».
«Non sapevo nemmeno chi fossi» gli risposi.
«E tutte quelle storie? Il vestito, le mutande... Che volevi?».
«Non ero venuta per vedere te» gli dissi ma senza aggressività. «Volevo solo
incontrare tuo padre. Volevo sapere che cosa era successo a mia madre prima che
si annegasse».
Mi accorsi che non si persuadeva e che stava provando di nuovo a carezzarmi.
Scossi la testa per fargli capire: basta. Mi si accasciò sopra ma per un istante. Si
ritrasse subito con un moto di repulsione nel sentirmi madida.
«Non stai bene» disse incerto.
«Sto bene. Ma se pure fossi malata, sarebbe troppo tardi per guarire».
Poliedro si rovesciò al mio fianco rassegnato. Vidi nella penombra che si
asciugava con il lenzuolo le dita, la faccia, le gambe; poi accese la luce sul
comodino.
«Sembri un fantasma» mi disse guardandomi senza ironia e, con un lembo della
camicia che gli era rimasta addosso, prese ad asciugarmi il viso.
«Non è colpa tua» lo rassicurai e lo pregai di spegnere di nuovo la luce.
Non volevo essere vista e non volevo vederlo. Così, smarrito e desolato,
assomigliava troppo a Caserta come me l'ero immaginato o l'avevo visto davvero
quarant'anni prima.
L'impressione fu tanto intensa che pensai perfino di raccontargli subito, al buio,
cosa si affollava intorno a quel suo viso così diverso da quello gonfio e camorrista
che mi aveva mostrato per tutta la mattina.
Parlando, volevo cancellare sia me che lui, in quel letto, diversi dai bambini di
una volta. Avevamo in comune soltanto le violenze a cui avevamo assistito.
Quando mio padre seppe che Amalia e Caserta si vedevano segretamente
nell'interrato - pensai di raccontargli piano piano, - non perse tempo. Innanzitutto
rincorse Amalia per il corridòio, poi per le scale, poi per la strada. Ne sentii
l'odore dei colori a olio, quando mi passò davanti, e mi sembrò che lui stesso
fosse molto colorato.
Mia madre scappò sotto il ponte della ferrovia, scivolò in una pozzanghera, fu
raggiunta e si buscò pugni, schiaffi, un calcio nel fianco.
Una volta che lui l'ebbe punita per bene, la riaccompagnò a casa sanguinante.
Appena lei tentava di parlare, tornava a colpirla. La guardai a lungo, pesta,
sporca, e lei mi guardò a lungo, mentre mio padre spiegava l'accaduto a zio
Filippo.
Amalia aveva uno sguardo meravigliato: mi fissava e non capiva. Allora,
indispettita, me ne andai a spiare gli altri due.
Mio padre e zio Filippo si erano appartati e li potevo osservare dalla finestra:
erano soldatini di stagno che prendevano gravi decisioni nel cortile. O militari, da
ritagliare e incollare in un album delle figurine, l'uno accanto all'altro perché si
potessero parlare a mezza bocca. Mio padre aveva calzato stivali e indossato una
sahariana. Lo zio Filippo aveva vestito una divisa verdeoliva, o forse bianca, o
nera.
Non solo: aveva preso una pistola.
O restò in borghese, anche se nella penombra della stanza 208 una voce ancora
diceva: «L'ucciderà, ha preso la pistola». Forse erano quei suoni a farmi vedere
mio padre con gli stivali, lo zio Filippo in divisa, con tutte e due le braccia appese
al busto e la pistola nella mano destra.
Insieme inseguivano Caserta giovane, nero col cappotto di cammello, su per le
scale di casa sua. Dietro di loro, a distanza per non essere di nuovo massacrata, o
perché era fiacca e non riusciva a correre, c'era Amalia col suo tailleur blu e il
cappello con le piume, che diceva a bassa voce, sempre più stupita: «Non
l'ammazzate, non ha fatto niente».
Caserta abitava all'ultimo piano, ma fu raggiunto una prima volta al secondo. Lì
i tre uomini si erano fermati come per un conciliabolo. In effetti avevano prodotto
all'unisono un vocìo di insulti in dialetto, un lungo elenco di parole che finivano
in consonante, come se la vocale finale fosse precipitata in un abisso e il resto
della parola mugolasse sordamente di dispiacere.
Esaurito l'elenco, Caserta era stato spinto giù per le scale ed era ruzzolato fino
al primo piano. Si era rialzato in fondo alla rampa ed era corso su di nuovo: non si
sa se per andare audacemente incontro ai vendicatori o per tentare di raggiungere
la sua casa e la sua famiglia al quarto piano. Fatto sta che era riuscito a passare e,
con una mano che correva leggera su per la ringhiera ma poi ci si avvinghiava
quando il corpo curvava senza che le gambe smettessero di fare i gradini a tre a
tre, si era avvitato su per le gradinate fino alla porta di casa sua, incalzato da calci
che lo mancavano e da sputi che a volte lo colpivano come meteore.
Mio padre lo aveva raggiunto per primo atterrandolo. Gli aveva tirato su la
testa per i capelli sbattendogliela contro la ringhiera. I tonfi si erano allungati in
un'eco interminabile.
Infine l'aveva lasciato tramortito, nel sangue sul pavimento, soprattutto per
consiglio del cognato che forse aveva la pistola ma era più saggio.
Filippo teneva mio padre per un braccio e lo tirava compostamente: lo faceva
perché altrimenti mio padre avrebbe lasciato lì a terra Caserta morto. Anche la
moglie di Caserta tirava via mio padre: gli stava attaccata all'altro braccio. Di
Amalia era rimasta solo la voce, che diceva: «Non l'ammazzate, non ha fatto
niente». Antonio, che era stato mio compagno di giochi, piangeva ma a testa in
giù, sospeso sulla tromba delle scale come se volasse.
Sentii Poliedro che mi respirava accanto in silenzio ed ebbi pietà per il bambino
che era stato. «Vado via» gli dissi.
Mi alzai e mi infilai subito il vestito blu per evitare il suo sguardo sulla mia
ombra. Sentii che l'abito mi stava perfettamente. Allora cercai nella busta di
plastica un paio di slip bianchi e infilai anche quelli, facendoli scivolare sotto il
vestito.
Quindi accesi la luce. Poliedro aveva uno sguardo assente. Lo vidi e non riuscii
più a pensare che era stato Antonio, che assomigliava a Caserta.
Il suo corpo greve giaceva nel letto, nudo dalla cintola in giù. Era quello di un
estraneo, senza nessi evidenti con la mia vita passata e con quella presente, se
escludevo l'impronta umida che gli avevo lasciato al fianco. Ma gli fui grata
ugualmente per la dose minima di umiliazione e di dolore che mi aveva inflitto.
Girai intorno al letto, mi sedetti sulla sponda dal suo lato e lo masturbai. Mi lasciò
fare, a occhi chiusi. Eiaculò senza un gemito, come se non stesse provando alcun
piacere.
XIX
Il mare era diventato una pasta violacea. I suoni della mareggiata e quelli della
città producevano una miscela furibonda. Attraversai la strada schivando auto e
pozzanghere.
Più o meno indenne, mi fermai a guardare le facciate dei grandi alberghi
allineati lungo il flusso feroce delle vetture. Ogni apertura di quegli edifici era
dispettosamente chiusa contro il rumore del traffico e del mare.
Andai in autobus fino a piazza Plebiscito. Dopo un pellegrinaggio per cabine
devastate e bar con apparecchi guasti, trovai finalmente un telefono e feci il
numero di zio Filippo. Non ebbi risposta. Mi avviai per via Toledo quando i
negozi tiravano su le saracinesche e il flusso dei passanti era già intenso. La gente
sostava in grumi solo alle imboccature dei vicoli, erti e neri sotto strisce di cielo
cupo. All'altezza di piazza Dante comprai un po' di cioccolata, ma lo feci solo per
respirare l'aria liquorosa del negozio. In effetti non avevo voglia di niente: ero
così distratta che mi dimenticavo di mettermi in bocca la cioccolata e me la
facevo sciogliere tra le dita.
Badavo poco agli sguardi insistiti degli uomini.
Faceva caldo e per Port'Alba non c'era né aria né luce. Sotto casa di mia madre,
fui attratta da certe ciliegie gonfie e lucide. Ne acquistai mezzo chilo, mi infilai
senza piacere nell'ascensore e andai a bussare alla porta della vedova De Riso.
La donna mi aprì al solito modo circospetto. Le mostrai le ciliegie, dissi che le
avevo comprate per lei.
Fece gli occhi grandi. Liberò la porta dalla catena e mi chiese di entrare,
visibilmente contenta per quel dono di insperata socievolezza.
«No» dissi, «venga lei da me. Aspetto una telefonata». Poi aggiunsi qualcosa
sui fantasmi: ero certa - le assicurai - che in poche ore diventavano sempre meno
autonomi. «Dopo un po' cominciano a fare e a dire solo quello che gli ordiniamo
di fare. Se vogliamo che tacciano, alla fine tacciono».
Il verbo «tacere» mise alla signora De Riso una sorta di soggezione linguistica.
Per accettare l'invito cercò un italiano all'altezza del mio; quindi chiuse a chiave
la porta di casa sua mentre io aprivo la porta di quella di mia madre.
Nell'appartamento si soffocava. Mi affrettai a spalancare le finestre e misi le
ciliegie in un recipiente di plastica. Lasciai scorrere l'acqua, mentre la vecchia
signora, dopo uno sguardo panoramico molto sospettoso, andava a sedersi quasi
meccanicamente al tavolo di cucina.
Mi disse, per giustificarsi, che mia madre la faceva accomodare sempre lì.
Le misi davanti le ciliegie. Aspettò che la invitassi a prenderne e, quando lo
feci, ne portò una alla bocca con un gesto infantile che mi piacque: la prese per il
picciuolo e se l'abbandonò in bocca rigirandosi il frutto tra lingua e palato senza
morderlo, col gambo verde che le danzava lungo le labbra pallide; poi afferrò di
nuovo il picciuolo con le dita e lo staccò con un lieve plop.
«Buona» disse e più rilassata cominciò a lodare l'abito che avevo addosso.
Quindi sottolineò: «L'avevo detto che questo blu ti sarebbe stato meglio
dell'altro».
Mi guardai il vestito e poi guardai lei per essere sicura che parlasse proprio di
quello. Non aveva dubbi, seguitò: mi stava benissimo.
Quando Amalia le aveva mostrato i regali per il mio compleanno, lei si era
subito accorta che era quello l'abito adatto a me. Anche mia madre sembrava
convinta. La De Riso mi raccontò che era molto euforica. Lì in cucina, davanti a
quello stesso tavolo, si appoggiava addosso ora la biancheria, ora i vestiti,
ripetendo: «Le staranno bene». Ed era molto soddisfatta di come si era procurata
quella roba.
«Come?» chiesi.
«Quel suo amico» disse la vedova De Riso. Le aveva proposto uno scambio:
voleva tutta la sua biancheria vecchia in cambio di quelle cose nuove. Gli costava
quasi niente, il baratto. Era proprietario d'un negozio di gran lusso al Vomero.
Amalia, che lo conosceva fin da giovane e lo sapeva molto dotato per gli affari,
sospettava che volesse partire da quelle vecchie mutande e sottovesti rattoppate
per inventarsi chissà quale nuova mercanzìa. Ma la De Riso era abbastanza
pratica del mondo. Le aveva detto che, perbene o no, vecchio o giovane, ricco o
povero, cogli uomini era bene stare sempre in allarme. Mia madre era troppo
contenta per darle ascolto.
Nel percepire la tonalità volutamente equivoca della De Riso, mi venne da
ridere ma mi contenni. Vidi Caserta e Amalia che, muovendo dagli stracci più
antichi di lei, progettavano insieme in quella casa, sera dopo sera, un rilancio alla
grande della biancheria intima per signora degli anni Cinquanta. Mi inventai un
Caserta persuasivo, un'Amalia suggestionata, vecchi e soli, tutt'e due senza una
lira, in quella cucina squallida, a pochi metri dall'orecchio ricettivo della vedova
altrettanto vecchia, altrettanto sola. La scena mi sembrò plausibile. Ma dissi:
«Forse non era un vero baratto. Forse il suo amico voleva farle un favore e basta.
Non le pare?».
La vedova mangiò un'altra ciliegia.
Non sapeva dove mettere i noccioli: se li sputava nel palmo della mano e li
lasciava lì.
«Può essere» ammise, ma poco convinta.
«Lui era molto perbene.
Veniva quasi tutte le sere e ora andavano a cenare fuori, ora andavano al
cinema, ora a passeggio. Quando li sentivo sul pianerottolo, lui chiacchierava
senza interrompersi mai e tua madre rideva sempre».
«Non c'è niente di male. È bello ridere».
La vecchia tentennò masticando ciliegie.
«Tuo padre mi aveva fatto insospettire» disse.
«Mio padre?».
Mio padre. Respinsi l'impressione che fosse già lì in cucina, chissà da quando.
La De Riso mi spiegò che era venuto di nascosto a chiederle di avvertirlo, se si
accorgeva che Amalia faceva cose avventate. Non era la prima volta che
compariva all'improvviso con richieste del genere. Ma in quell'occasione era stato
particolarmente insistente.
Mi chiesi quale fosse, per mio padre, la differenza tra ciò che è avventato e ciò
che non lo è. La De Riso sembrò accorgersene e a modo suo cercò di spiegarmelo.
Avventato era esporsi ai rischi dell'esistenza con leggerezza.
Mio padre si preoccupava per la moglie, anche se erano separati da ventitré
anni. Il pover'uomo seguitava a volerle bene.
Era stato così gentile, così... La signora De Riso cercò con cura il vocabolo
italiano adatto. Disse: «desolato».
Lo sapevo. Aveva cercato come al solito di fare buona figura con la vedova.
Era stato affettuoso, s'era detto preoccupato. Ma in effetti pensai - non c'era
barriera urbana tra loro che potesse impedirgli di sentire l'eco della risata di
Amalia. Mio padre non sopportava che ridesse.
Considerava la risata di lei d'una sonorità d'occasione, visibilmente falsa. Tutte
le volte che c'era qualche estraneo per casa (ad esempio, i figuri che comparivano
a scadenze fisse per commissionargli scugnizzi, zingare o vesuvi con pino), le
raccomandava: «Non ridere».
Quella risata gli sembrava uno zucchero sparso ad arte per umiliarlo.
In realtà Amalia cercava solo di dare suono alle donne d'apparenza felice
fotografate o disegnate sui manifesti o sulle riviste degli anni Quaranta: bocca
larga dipinta, tutte denti scintillanti, sguardo vivace. Era così che si immaginava
di essere, e si era data la risata giusta. Le doveva essere stato difficile scegliersi il
riso, le voci, i gesti che il marito potesse tollerare. Non si sapeva mai cosa andava
bene, cosa no. Uno che passa per strada e ti guarda. Una frase per scherzo. Un
consenso irriflesso. Ecco che suonavano alla porta. Ecco: le consegnavano le rose.
Ecco: lei non le respingeva. Rideva, invece, e sceglieva un vaso di vetro
azzurro, e le allargava nel recipiente colmo d'acqua. Nel tempo in cui a scadenze
fisse erano arrivati quei doni misteriosi, quegli omaggi anonimi (ma sapevamo
tutti che erano di Caserta: Amalia lo sapeva), lei era stata giovane e pareva
giocare tra sé e sé, senza malizia. Si lasciava il ricciolo nero sulla fronte, sbatteva
le palpebre, dava mance ai commessi, permetteva che la merce sostasse un po'
nella nostra casa come se la sua permanenza fosse lecita. Poi mio padre se ne
accorgeva e distruggeva ogni cosa. Cercava di distruggere anche lei ma riusciva a
fermarsi sempre a un passo dallo scempio. Comunque il sangue testimoniava
l'intenzione.
Mentre la signora De Riso mi parlava, io mi raccontavo del sangue. Nel
lavandino. Gocciolava dal naso di Amalia con uno stillicidio fitto e prima era
rosso, poi sbiadiva a contatto con l'acqua del rubinetto.
Ne aveva anche lungo il braccio, fino al gomito. Cercava di tamponarsi con una
mano ma veniva giù ugualmente dal palmo e lasciava scie rosse come graffi. Non
era sangue innocente. A mio padre niente di Amalia era mai sembrato innocente.
Lui, così furibondo, così astioso e insieme così desideroso di piacere, così rissoso
e così innamorato di sé, non sapeva accettare che lei intrattenesse col mondo un
rapporto amichevole, a volte gioioso. Vi riconosceva subito la traccia del
tradimento. Non solo il tradimento sessuale: non credevo più, ormai, che temesse
soltanto di essere tradito nel sesso. Mi ero persuasa, invece, che temesse
soprattutto l'abbandono, il passaggio in campo nemico, l'accettazione delle
ragioni, del lessico, del gusto di gente come Caserta: trafficanti infidi, privi di
regole, seduttori laidi ai quali lui si doveva piegare per necessità.
Cercava allora di imporle un galateo adatto a comunicare la distanza se non
l'inimicizia. Ma presto esplodeva in insulti. Amalia, secondo lui, aveva il timbro
della voce troppo facilmente persuasivo; il gesto della mano troppo mollemente
languido; lo sguardo vivo fino alla sfrontatezza. Soprattutto riusciva a piacere
senza lo sforzo e senza l'ambizione di piacere. Le accadeva, anche se non voleva.
Oh sì: per quel suo essere gradita lui la puniva con schiaffi e pugni.
Interpretava i gesti di lei, i suoi sguardi, come segnali di traffici oscuri, di
abboccamenti segreti, di intese accennate solo per emarginarlo.
Facevo fatica a staccarmelo dagli occhi, così sofferente, così violento.
La forza. Mi pietrificava. L'immagine di mio padre che devastava rose
spampanando petali urlava e urlava da decenni dentro la mia testa.
Ora le bruciava il vestito nuovo che lei non aveva rimandato indietro, che
aveva indossato in segreto. Non potevo sopportare l'odore della stoffa bruciata.
Anche se avevo spalancato la finestra.
«È tornato e l'ha picchiata?» chiesi.
La donna ammise a malincuore: «È comparso qui una mattina presto, non più
tardi delle sei, e ha minacciato di ucciderla. Le ha detto cose veramente brutte».
«Quando è successo?».
«A metà maggio: una settimana prima che tua madre partisse».
«E Amalia aveva già ricevuto i vestiti e la biancheria nuova?».
«Sì».
«Ed era contenta?».
«Sì».
«Come ha reagito?».
«Come reagiva sempre lei. Se n'è scordata appena lui è andato via.
L'ho visto uscire: era bianco come un pesce nella farina. Lei invece niente.
Ha detto: è fatto così; nemmeno la vecchiaia l'ha cambiato. Ma io ho capito che
non era tutto chiaro. Fino a quando è partita, fino al treno, le ho ripetuto: Amalia,
sta' attenta.
Niente. Sembrava tranquilla.
Però per strada faceva fatica a tenere il passo normale. Rallentava apposta.
Nello scompartimento s'è messa a ridere senza motivo e ha cominciato a
sventolarsi con un lembo della gonna».
«Che c'è di strano?» le chiesi.
«Non si fa» rispose la vedova.
Presi due ciliegie con i picciuoli uniti e me le appesi all'indice teso, facendole
oscillare a destra e a sinistra. Probabilmente nel corso della sua esistenza Amalia
aveva rinunciato a fare molte cose che, come ogni essere umano, avrebbe potuto
legittimamente e illegittimamente fare.
Ma forse aveva solo finto di non averle fatte. O forse s'era data l'aria di chi
finge perché mio padre potesse pensare in ogni istante alla sua inaffidabilità e
soffrirne. Forse era stato quello il suo modo di reagire. Ma non aveva messo in
conto che l'avremmo pensato anche noi, le figlie, per sempre: io soprattutto.
Non riuscivo a reinventarmela ingenua.
Nemmeno adesso. Era possibile che Caserta, nel cercarne la compagnia,
inseguisse solo un frammento della sua giovinezza. Ma ero certa che Amalia
giocasse ancora tra sé e sé ad aprirgli la porta con malizia da giovinetta, tirandosi
il ricciolo sul sopracciglio e sbattendo le palpebre.
Era possibile che con quella storia da uomo d'affari ricco di idee il vecchio le
avesse solo voluto comunicare in modo discreto il suo feticismo. Ma lei non si era
tirata indietro. Di quel baratto aveva subito riso consapevolmente e aveva
assecondato le pulsioni senili sue e di lui usando me e il mio compleanno. No, sì.
Mi accorsi che stavo riesumando una donna senza prudenza e senza la virtù dello
spavento. Ne avevo la memoria.
Anche quando mio padre sollevava i pugni e la colpiva per modellarla come
una pietra o un ciocco, lei non dilatava le pupille per la paura ma per lo stupore.
Doveva aver sbarrato gli occhi allo stesso modo quando Caserta le aveva proposto
il baratto.
Con divertito stupore. Mi stupii anch'io, come davanti a una messinscena della
violenza, un gioco a due fatto di convenzioni: lo spauracchio che non spaura, la
vittima che non è annichilita. Mi venne in mente che Amalia doveva aver pensato
fin da bambina alle mani come guanti, sagome prima di carta e poi di pelle.
Ne aveva cuciti e cuciti. Poi era passata a ridurre vedove di generali, mogli di
dentisti, sorelle di magistrati a misure del busto e dei fianchi. Quelle misure, prese
abbracciando discretamente col metro giallo da sarta corpi femminili di tutte le
età, diventavano modelli di carta che, applicati alla stoffa con spilli, disegnavano
sul tessuto ombre di seni e di fianchi. Ora tagliava intenta, in tensione, la stoffa,
seguendo il percorso imposto dai modelli. Per tutti i giorni della sua vita aveva
ridotto il disagio dei corpi a carta e tessuti, e forse se ne era fatta un'abitudine
dall'interno della quale tacitamente ripensava la dismisura secondo misura. Non ci
avevo mai pensato e ora che ci pensavo non potevo chiederle se era stato davvero
così. Tutto era andato perduto. Ma davanti alla De Riso che mangiava ciliegie,
trovavo che fosse una sorta di compimento ironico quel gioco finale fatto di stoffe
tra lei e Caserta, quella riduzione della loro storia sotterranea a uno scambio
convenzionale di indumenti vecchi con nuovi indumenti.
Cambiai bruscamente umore. Mi sentii all'improvviso contenta di credere che
la sua era stata una leggerezza pensosa. Mi piacque insperatamente, con sorpresa,
quella donna che in qualche modo s'era inventata fino alla fine la sua storia
giocando per conto suo con stoffe vuote. Mi immaginai che non fosse morta
insoddisfatta e sospirai di soddisfazione inattesa. Mi sistemai su un orecchio le
ciliegie con cui avevo giocherellato fino a quel momento e risi.
«Come sto?» chiesi alla vecchia che intanto aveva ammucchiato nel palmo a
coppa almeno dieci noccioli.
Ebbe una smorfia incerta.
«Bene» disse poco convinta da quella mia stranezza.
«Lo so» affermai invece io con compiacimento. E scelsi altre due ciliegie coi
picciuoli uniti. Feci per sistemarmele sull'altro orecchio, poi cambiai idea e le
allungai verso la De Riso.
«No» lei si schermì tirandosi indietro.
Mi alzai, le andai alle spalle e, mentre scuoteva la testa ridacchiando
congestionata, le liberai l'orecchio destro dai capelli grigi e le appoggiai sul
padiglione le ciliegie.
Poi indietreggiai per contemplare lo spettacolo.
«Bellissima» esclamai.
«Ma no» mormorò la vedova con imbarazzo.
Scelsi un altro paio di ciliegie e tornai alle sue spalle per ornarle l'altro
orecchio. Dopo l'abbracciai incrociandole le braccia sul seno grande e stringendo
forte.
«Mammina» le dissi, «sei stata tu a dire tutto a mio padre, non è vero?».
Quindi la baciai sul collo rugoso, che le si stava congestionando velocemente.
Mi si agitò tra le braccia non so se per il disagio o per liberarsi. Negava, diceva
che non l'avrebbe fatto mai: come mi era venuto in mente?
L'aveva fatto invece - pensai: aveva fatto la spia per sentirlo urlare, sbattere
porte, spaccare piatti, godendone in trepidazione dentro la tana del'suo
appartamento.
Il telefono squillò. La baciai ancora, con forza, sulla testa grigia, prima di
andare a rispondere: era già al terzo squillo.
«Pronto» dissi.
Silenzio.
«Pronto» ripetei con calma mentre osservavo la signora De Riso che mi fissava
incerta e intanto si sollevava a fatica dalla sedia.
Riattaccai.
«Si fermi un altro po'» la invitai tornando al «lei». «Vuole darmi i noccioli? Si
mangi le altre ciliegie.
Un'altra soltanto. O se le porti via».
Ma sentii che non riuscivo ad avere un tono rassicurante. La vecchia signora
era in piedi, ormai, e si stava avviando verso la porta, con le ciliegie a cavalcioni
delle orecchie.
«E arrabbiata con me?» le chiesi accomodante.
Mi guardò stupefatta. Doveva aver pensato di colpo a qualcosa che l'aveva
fermata a mezza strada.
«Quel vestito» mi disse perplessa, «come fai ad averlo? Non dovresti. Era nella
valigia insieme all'altra roba.
E la valigia non s'è mai trovata. Da dove l'hai preso? Chi te l'ha dato?».
Mentre parlava, mi accorsi che le pupille passavano rapidamente dallo stupore
alla paura. Non ne fui contenta, non avevo intenzione di spaventarla, non mi
piaceva far paura.
Mi stirai l'abito col palmo delle mani come per allungarmelo e provai disagio a
sentirmi fasciata da quell'abito corto, attillato, troppo elegante, inadatto alla mia
età.
«È solo stoffa senza memoria» mormorai. -Volevo dire che non poteva far male
né a me né a lei. Ma la vedova De Riso sibilò: «È roba sporca».
Aprì la porta e se la richiuse in fretta alle spalle. In quel momento tornò a
squillare il telefono.
XX
Lasciai che l'apparecchio trillasse due o tre volte. Poi alzai il ricevitore: ronzii,
voci lontane, rumori indecifrabili. Ripetei «pronto» senza speranza, solo per far
sentire a Caserta che c'ero, che non ero spaventata. Infine riattaccai. Mi sedetti al
tavolo di cucina, mi tolsi le ciliegie dall'orecchio e me le mangiai. Ormai sapevo
che tutte le telefonate che sarebbero seguite ayrebbero avuto una pura funzione di
richiamo, una sorta di fischio come quello che gli uomini usavano fare una volta
per annunciare dalla strada che stavano rientrando a casa e le donne potevano
calare la pasta.
Controllai l'orologio: erano le diciotto e dieci. Per evitare che Caserta mi
costringesse di nuovo ad ascoltare il suo silenzio, sollevai il ricevitore e composi
il numero di zio Filippo. Lo feci preparata a sentire il suono lungo della linea
libera.
Invece Filippo mi rispose ma senza passione, quasi infastidito dal fatto che
fossi io. Disse che era appena rientrato, che era stanco e raffreddato, che voleva
mettersi a letto. Tossì artificialmente. Accennò a Caserta solo su mia richiesta,
seccato. Disse che avevano parlato a lungo ma senza litigare.
All'improvviso si erano accorti che non ce n'era più motivo. Amalia era morta,
la vita era passata.
Tacque un attimo per lasciarmi parlare: si aspettava una mia reazione. Non ne
ebbi. Allora riprese a borbottare sulla vecchiaia, sulla solitudine. Mi disse che
Caserta era stato cacciato via di casa dal figlio e abbandonato a se stesso, così,
senza un tetto, peggio d'un cane. Il ragazzo gli aveva rubato prima tutti i soldi che
aveva messo da parte e poi l'aveva buttato fuori. L'unica sua fortuna era stata la
gentilezza di Amalia. Caserta gli aveva confidato che si erano rivisti dopo tanti
anni: lei l'aveva aiutato, si erano fatti un po' di compagnia ma con discrezione,
con reciproca cortesia. Ora viveva come un vagabondo, un po' qua un po' là.
Erano cose che nemmeno uno come lui si meritava.
«Un brav'uomo» commentai.
Filippo diventò ancora più freddo.
«C'è un momento in cui bisogna mettersi in pace col prossimo».
«E la ragazza della funicolare?» chiesi.
Mio zio si imbarazzò.
«Qualche volta succede» disse. Non lo sapevo ancora ma avrei sperimentato
anche io che la vecchiaia è una bestia brutta e feroce. Poi aggiunse: «Ci sono
porcherie più grosse di quelle».
Infine'riprese con astio non più contenuto: «Tra lui e Amalia non c'è mai stato
niente».
«Forse è vero» ammisi.
Alzò la voce: «Perché ci raccontasti quelle cose, allora?».
Ribattéi: «E voi perché mi credeste?».
«Avevi cinque anni».
«Infatti».
Mio zio Filippo tirò su col naso.
Mormorò: «Vattene via. Lascialo perdere».
«Curati» gli consigliai e riattaccai.
Fissai il telefono per qualche secondo. Sapevo che avrebbe squillato: da
qualche parte Caserta era in attesa che la linea si liberasse. Il primo trillo non
tardò a farsi sentire. Mi decisi e uscii in fretta, senza chiudere a chiave la porta di
casa.
Non c'erano più nuvole, non c'era più vento. Una luce biancastra toglieva
spessore all'Arciconfraternita di Santa Maria delle Grazie, minuscola tra le
facciate trasparenti di palazzi volgari, carichi di scritte pubblicitarie. Mi diressi
verso i taxi, poi cambiai idea ed entrai nell'edificio giallastro della metropolitana.
La folla mi frusciò accanto come se fosse di carta ritagliata ad arte per divertire i
bambini. Le oscenità in dialetto - le uniche oscenità che riuscivano a far
combaciare nella mia testa suono e senso in modo da materializzare un sesso
molesto per il suo realismo aggressivo, gaudente e vischioso: ogni altra formula
fuori di quel dialetto mi pareva insignificante, spesso allegra, dicibile senza
repulsione ammorbidirono i loro suoni in modo inaspettato, diventando una specie
di fruscìo extrastrong contro il rullo d'una vecchia macchina da scrivere.
Mentre mi inabissavo nella sotterranea di piazza Cavour, trapassata da un vento
caldo che ondulava le pareti metalliche e mescolava il rosso e il blu della scala
mobile, mi immaginai di essere una figura delle carte napoletane: l'otto di spade,
la donna tranquilla e armata che avanza a piedi, pronta a mettersi in gioco durante
una partita di briscola.
Strinsi le labbra tra i denti fino a quando non sentii male.
Lungo tutto il percorso mi guardai continuamente alle spalle. Non riuscii a
vedere Caserta. Per controllare meglio le aree semivuote del marciapiede tra i due
fori neri del tunnel, mi confusi nel gruppo più folto dei passeggéri in attesa. Il
treno arrivò gremito ma si svuotò poco dopo, nella penombra al neon della
stazione di piazza Garibaldi. Scesi alla fine della corsa e, dopo una breve
gradinata, mi trovai di lato alla vecchia Manifattura dei Tabacchi, ai margini del
rione dove ero cresciuta.
L'aria paesana che gli era appartenuta, con quegli edifici biancastri a quattro
piani costruiti in mezzo alla campagna polverosa, si era trasformata attraverso gli
anni in quella di una periferia itterica sopraffatta dai grattacieli, strozzata dal
traffico e dai serpenti dei treni che costeggiavano le case rallentando.
Piegai subito a sinistra, verso un cavalcavia a tre tunnel, quello centrale
bloccato dai lavori di ristrutturazione. Ricordavo un unico interminabile
passaggio, deserto e continuamente terremotato dai treni dello sminamento che mi
passavano sulla testa.
Feci invece non più di cento passi in una penombra puzzolente d'orina,
lentamente, stretta tra una parete che grondava larghe bave d'umido e un guardrail
polveroso che mi proteggeva dalla corsa fitta delle automobili.
Il cavalcavia era rimasto lì fin da quando Amalia aveva sedici anni.
Lei doveva percorrere quei tunnel freschi e ombrosi, quando andava a
consegnare i guanti. Mi ero sempre immaginata che li portasse nello spazio che
mi stavo lasciando alle spalle, in una vecchia fabbrica con tettoia a tegole che ora
mostrava l'insegna della Peugeot. Ma certamente non era così. Del resto cosa era
così?
Non esisteva più gesto o passo che, rimasto tra le pietre e l'ombra, le stesse di
allora, potesse aiutarmi.
Sotto il cavalcavia Amalia era stata inseguita da sfaccendati, ambulanti,
ferrovieri, muratori che addentavano pagnotte imbottite di broccoli e salsicce o
bevevano vino dai fiaschi.
Raccontava, quando le andava di raccontare, che la incalzavano fianco a fianco,
spesso respirandole nell'orecchio. Cercavano di sfiorarle i capelli, una spalla, un
braccio.
Qualcuno provava a prenderle una mano mentre le diceva oscenità in dialetto.
Lei teneva gli occhi bassi e affrettava il passo. A volte scoppiava a ridere non
riuscendo più a trattenersi. Dopo cominciava a correre più veloce dell'inseguitore.
Come correva: pareva che giocasse. Mi correva nella testa. Era possibile che io
stessi passando di là portandola dentro il mio corpo invecchiato così
impropriamente vestito? Era possibile che il suo corpo di sedicenne, vestito d'una
veste a fiori fatta in casa, passasse per la penombra servendosi del mio, attento a
scansare agilmente le pozzanghere, di corsa verso l'arco di luce gialla che
conteneva l'anacronismo di una pompa di benzina Mobil?
Forse, alla fine, di quei due giorni senza tregua importava solo il trapianto del
racconto da una testa all'altra, come un organo sano che mia madre mi avesse
ceduto per affetto.
Anche mio padre l'aveva braccata per quel tratto di strada, poco più che
ventenne. Amalia raccontava che, a sentirselo alle calcagna, si era spaventata.
Non era come gli altri, che le parlavano di lei cercando di lusingarla. Lui le parlò
di sé: si vantò delle cose straordinarie di cui era capace; disse che voleva farle un
ritratto, forse per provarle com'era bella e com'era bravo. Accennò ai colori che le
vedeva addosso. Quante parole andate chissà dove. Mia madre, che non guardava
mai in faccia nessuno dei suoi molestatori e mentre le parlavano stentava a non
ridere, ci diceva che l'aveva guardato di sbieco una volta sola e aveva subito
capìto.
Noi, le figlie, non capivamo. Non capivamo perché le fosse piaciuto.
Nostro padre non ci pareva affatto d'eccezione, disfatto com'era, ingrassato,
calvo, mal lavato, i pantaloni cascanti imbrattati di colore, sempre ringhioso per le
miserie d'ogni giorno, per i soldi che lui guadagnava e Amalia - ci gridava buttava
dalla finestra. Tuttavia, proprio a quell'uomo senza mestiere nostra madre aveva
detto di venire a casa, se voleva parlarle: lei non faceva l'amore di nascosto; non
l'aveva mai fatto con nessuno. E mentre pronunciava «fare l'amore», io l'ascoltavo
a bocca aperta, tanto mi piaceva la storia di quel momento, senza seguito,
bloccata a quel punto prima che continuasse sciupandosi. Ne conservavo suoni e
immagini. Forse adesso ero sotto quel cavalcavia perché suoni e immagini si
rapprendessero di nuovo tra le pietre e l'ombra, e di nuovo mia madre, prima che
diventasse mia madre, fosse incalzata dall'uomo con cui avrebbe fatto l'amore,
che l'avrebbe coperta col suo cognome, che l'avrebbe cancellata col suo alfabeto.
Affrettai il passo, dopo essermi accertata ancora una volta che Caserta non mi
seguisse. Il rione, malgrado la sparizione di una serie di dettagli (sullo stagno
verde-marcio presso il quale andavo a giocare era sorto un edificio di otto piani),
mi sembrò ancora riconoscibile. I bambini uggiolavano per le strade sconnesse
come una volta a ogni principio d'estate. C'erano le stesse grida dialettali nelle
case dalle finestre spalancate. La disposizione degli edifici rispettava la stessa
geometria senza immaginazione. Era durata nel tempo persino qualche povera
impresa commerciale di decenni prima: per esempio il negozio infossato nella
terra, dove ero andata a comprare sapone e lisciva per mia madre, apriva ancora la
sua porticina nello stesso edificio scrostato di tanti anni prima. Ora esponeva sulla
soglia scope d'ogni tipo, recipienti di plastica e fustini di detersivi. Mi affacciai un
attimo solo credendo di ritrovare in quel luogo la caverna ampia della mia
memoria. Essa invece mi si richiuse addosso come un ombrello rotto.
Il palazzo dove abitava mio padre distava pochi metri. Ero nata in quella casa.
Varcai il cancello e girai con sicurezza tra gli edifici bassi e poveri. Entrai in un
portone polveroso, le mattonelle dell'atrio sconnesse, niente ascensore, i gradini
col marmo scheggiato e ingiallito.
L'appartamento era al secondo piano e non vi entravo da almeno dieci anni.
Mentre salivo cercai di ridisegnarne la mappa in modo che l'impatto con quello
spazio non mi turbasse troppo.
La casa aveva due stanze e una cucina.
La porta si apriva su un corridòio senza finestre.
In fondo a sinistra c'era la camera da pranzo, irregolare, con un'argentiera per
argenterie mai possedute, un tavolo usato per qualche pranzo festivo e un letto
matrimoniale dove dormivamo io e le mie sorelle dopo i litìgi serali per stabilire
chi delle tre doveva sacrificarsi e sistemarsi al centro. Accanto a quella camera si
apriva il cesso, lungo, con un finestrino stretto, fornito della sola tazza e di un
bidet mobile di metallo smaltato. Dopo veniva la cucina: il lavello dove la mattina
ci lavavamo a turno, un focolare in maioliche bianche caduto velocemente in
disuso, un ramaio pieno di pentole che Amalia luci dava con cura. Infine c'era la
camera da letto dei miei genitori e, accanto, un ripostiglio senza luce, soffocante,
zeppo di oggetti inutili.
Nella camera di mio padre e di mia madre era vietato entrare: lo spazio era
ridottissimo. Di fronte al letto matrimoniale si trovava un armadio con un'anta
centrale a specchio. Sulla parete di destra c'era una toletta con specchio
rettangolare. Al capo opposto, tra la sponda del letto e la finestra, mio padre aveva
sistemato il cavalletto, un oggetto massiccio, alto, coi piedi spessi, forato dalle
tarme, da cui pendevano laide pezzuole per asciugare i pennelli. A pochi
centimetri dalla sponda del letto, c'era una cassa dove alla rinfusa erano stati
gettati i tubi dei colori: quello del bianco era il più grande e il meglio
identificabile, anche quando era stato strizzato e arrotolato fino al collo filettato;
ma anche molti tubetti erano rimarchevoli, ora per il nome da principe di fiaba,
come il Blu di Prussia, ora per l'aura da incendio devastatore, come la Terra di
Siena bruciata. Il coperchio della cassa era un foglio di compensato, mobile, su
cui c'era una caraffa con i pennelli, un'altra con l'acquaragia, e un golfo di colori
che i pennelli mescolavano in un mare variopinto. Le mattonelle ottagonali del
pavimento in quell'area erano sparite sotto una crosta grigia sgocciolata negli anni
dai pennelli.
Intorno c'erano rotoli di tele già preparate, fornite a mio padre dai suoi datori di
lavoro; gli stessi che poi, dopo avergli versato poche lire, pensavano a smistare il
prodotto finito ai rivenditori ambulanti, quelli che offrivano la merce sui
marciapiedi della città, nei mercatini rionali, nelle fiere di paese. La casa era
intrisa dell'odore dei colori a olio e della trementina ma nessuno di noi era più in
grado di accorgersene.
Amalia aveva dormito con mio padre per quasi due decenni senza mai lagnarsi.
Si lagnò invece quando lui smise di fare ritratti di donne per i marinai
americani o vedute del golfo e cominciò a lavorare alla zingara seminuda che
danzava. Di quel periodo conservavo un ricordo confuso, indotto più dai racconti
di Amalia che da esperienze dirette: non avevo più di quattro anni. Le pareti della
camera da letto si affollarono di donne esotiche a colori vivaci, intervallate da
bozzetti di nudi tratteggiati con un pastello sanguigno. Spesso le pose della
zingara erano malamente ricopiate da certe foto di donne che mio padre
nascondeva in una scatola dentro l'armadio e che io andavo a sbirciare di
nascosto.
Altre volte certi abbozzi a olio prendevano le forme dei nudi in sanguigna.
Non avevo dubbi che gli schizzi col pastello riproducevano il corpo di mia
madre. Mi immaginavo che la sera, quando chiudevano la porta della loro camera
da letto, Amalia si togliesse i vestiti, assumesse le pose delle donne che se ne
stavano nude nelle fotografie dell'armadio e dicesse: «Disegna». Lui prendeva un
rotolo di carta giallastra, ne staccava un pezzo e disegnava. Ciò che gli veniva
meglio erano i capelli.
Lasciava quelle donne senza volto ma sull'ovale vuoto del viso tratteggiava con
efficacia una costruzione maestosa, inequivocabilmente simile alla bella
pettinatura che Amalia sapeva realizzare coi suoi lunghi capelli. Smaniavo nel
letto senza riuscire a dormire.
Quando nostro padre portò a termine la sua zingara, io ne fui certa e anche
Amalia: la zingara era lei: meno bella, sproporzionata, pasticciata nei colori; ma
lei. Caserta la vide e disse che non andava bene, non si sarebbe venduta. Pareva
contrariato.
Amalia intervenne, disse che era d'accordo. Ne nacque una discussione.
Lei e Caserta si schierarono contro mio padre. Sentivo le loro voci che
correvano per quelle scale. Quando Caserta andò via, mio padre senza preavviso
colpì Amalia due volte in faccia con la destra, prima col palmo e poi col dorso.
Quel gesto lo ricordavo preciso, col suo movimento a onda che prima va, poi
viene: glielo vedevo fare per la prima volta. Lei scappò in fondo al corridoio, nel
ripostiglio, e cercò di chiudersi dentro. Fu tirata fuori a calci. Uno la colpì a un
fianco e la mandò contro l'armadio della camera da letto. Amalia si rialzò e
strappò tutti i disegni dalle pareti. Fu raggiunta, afferrata per i capelli e sbattuta
con la testa contro lo specchio dell'armadio, che si spezzò.
La zingara piacque molto, soprattutto nelle fiere della provincia.
Erano passati quarant'anni e mio padre seguitava a farla. Col tempo era
diventato velocissimo. Fissava la tela bianca al cavalletto e ne abbozzava i
contorni con mano esperta.
Poi il corpo diventava di bronzo con luccichii rossastri. Il ventre si arcuava, le
mammelle si gonfiavano, i capezzoli si ergevano. Intanto spuntavano occhi
lucenti, labbra rosse, capelli corvini in gran quantità e pettinati a quel modo di
Amalia, che col tempo era diventato antiquato ma suggestivo. In poche ore la tela
era completata. Lui staccava le puntine che la fermavano, la fissava su una parete
per farla asciugare e ne sistemava sul cavalletto una nuova, bianca. Quindi
ricominciava.
Durante l'adolescenza vedevo quelle figure di donna uscire di casa tra le mani
di estranei che spesso non risparmiavano grevi commenti in dialetto. Non capivo
e forse non c'era niente da capire. Com'era possibile che mio padre consegnasse in
forme audaci e seducenti, a uomini volgari, quel corpo che all'occorenza
difendeva con rabbia assassina? Come mai gli imponeva pose sguaiate quando per
un sorriso o uno sguardo non dimesso era pronto a infierire bestialmente, senza
pietà? Perché lo abbandonava per le strade e in case estranee a decine e centinaia
di copie, quando era così geloso dell'originale? Guardavo Amalia china sulla sua
macchina da cucire fino a notte tarda. Credevo che, mentre lavorava così, muta e
affannata, si ponesse anche lei quelle domande.
XXI
La porta dell'appartamento era socchiusa. Mi sentii esitante e perciò entrai con
tale decisione che l'anta andò a urtare contro la parete con fracasso. Non ci fu
reazione. Mi investì solo un odore intenso di colori e fumo. Entrai nella camera da
letto con la sensazione che il resto dell'appartamento fosse stato distrutto dagli
anni. Ero certa invece che in quella camera tutto era rimasto immodificato: il letto
matrimoniale, l'armadio, la toletta con lo specchio rettangolare, il cavalletto
accanto alla finestra, le tele arrotolate in ogni angolo, le mareggiate, le zingare e
gli idilli campestri. Mio padre era di schiena, grosso e curvo, in canottiera. Il
cranio Aguzzo era calvo, chiazzato di macchie scure. La nuca era coperta da una
zazzera bianca.
Mi spostai lievemente sulla destra per vedere nella luce giusta la tela a cui stava
lavorando. Dipingeva a bocca aperta, gli occhiali da presbite sulla punta del naso.
Nella destra aveva il pennello che, dopo lievi tocchi tra i colori, si muoveva sicuro
sulla tela; tra indice e medio della sinistra teneva una sigaretta accesa, per metà
già cenere prossima a cadere sul pavimento. Dopo qualche pennellata si ritraeva e
restava immobile per lunghi secondi; poi emetteva una sorta di «ah», un lieve
sussulto sonoro, e riprendeva a impastare colori aspirando dalla sigaretta. Il
quadro non era a buon punto: il golfo languiva in una chiazza azzurra; più
lavorato era il Vesuvio sotto un cielo rossofuoco.
«Il mare non può essere azzurro se il cielo è rossofuoco» dissi.
Mio padre si girò e mi guardò al di sopra degli occhiali.
«Chi sei?» domandò in dialetto, ostile nell'espressione e nel tono.
Aveva grandi borse livide sotto gli occhi. Il ricordo più recente che avevo di lui
fece fatica ad aderire a quel viso giallastro, affogato in umori non smaltiti.
«Delia» dissi.
Posò il pennello in una delle caraffe.
Si alzò dalla sedia con un lungo lamento gutturale e si girò verso di me a
gambe larghe, il busto curvo, strofinandosi le mani sporche di colore sui pantaloni
cascanti. Mi guardò con crescente perplessità. Poi disse sinceramente
meravigliato: «Sei diventata vecchia».
Mi accorsi che non sapeva se abbracciarmi, baciarmi, invitarmi a sedere, o
mettersi a urlare e cacciarmi fuori di casa. Era sorpreso ma non piacevolmente: mi
sentiva una presenza fuori luogo, forse non era nemmeno certo che fossi la sua
figlia maggiore. Le rare volte che c'eravamo visti, dopo la separazione da Amalia,
avevamo litigato. Nella sua testa la figlia vera doveva essersi impigliata in
un'adolescenza impietrita, muta e accomodante.
«Me ne vado subito» lo rassicurai.
«Sono passata solo per sapere di mia madre».
«È morta» disse. «Stavo pensando che è morta prima di me».
«Si è ammazzata» pronunciai con chiarezza, ma senza enfasi.
Mio padre fece una smorfia e mi accorsi che gli mancavano gli incisivi
superiori. Quelli di sotto gli erano diventati lunghi e gialli.
«Se ne era andata a nuotare a Spaccavento» borbottò, «di notte, come una
ragazzina».
«Perché non sei venuto al funerale?».
«Quand'uno è morto è morto».
«Dovevi venire».
«Tu ci verrai al mio?».
Ci pensai un attimo e gli risposi: «No».
Le grandi borse sotto gli occhi gli diventarono paonazze.
«Non ci verrai perché morirò dopo di te» borbottò. Poi senza che potessi
prevederlo mi colpì con un pugno.
Ricevetti il colpo contro la spalla destra e feci fatica a controllare la parte di me
annichilita da quel gesto.
Il dolore fisico invece mi sembrò poca cosa.
«Sei una zoccola come tua madre» disse col respiro mozzo, e intanto si afferrò
alla sedia per non cadere. «Mi avete lasciato qui come un animale».
Mi cercai la voce in gola e solo quando fui sicura di averla gli chiesi: «Perché
sei andato a casa sua? L'hai tormentata fino all'ultimo».
Cercò di nuovo di colpirmi ma questa volta ero preparata: mi mancò e diventò
più rabbioso.
«Che pensava di me?» si mise a gridare. «Non sapevo mai cosa pensava.
Era bugiarda. Eravate tutte bugiarde».
«Perché sei andato a casa sua?» ripetei con calma.
Disse: «Per ammazzarla. Perché pensava di godersi la vecchiaia lasciandomi a
marcire in questa stanza. Guarda cosa ho qui sotto. Guarda».
Sollevò il braccio destro e mi mostrò l'ascella. Aveva delle pustole violacee tra i
peli arricciolati dal sudore.
«Non morirai per questo» dissi.
Abbassò il braccio, sfinito dalla tensione. Cercò di raddrizzare il busto ma la
spina dorsale non volle ergersi che di pochi centimetri. Restò a gambe larghe, con
una mano avvinghiata alla sedia, un sibilo catarroso che gli usciva dal petto.
Forse pensava anche lui che al mondo in quel momento era rimasto solo quel
pavimento, solo la sedia a cui si stava reggendo.
«Li ho seguiti per una settimana» mormorò. «Lui veniva tutte le sere alle sei,
vestito bene, giacca e cravatta: sembrava un figurìno.
Mezzora dopo uscivano. Lei aveva sempre i suoi soliti quattro stracci ma se li
aggiustava in modo da sembrare giovane. Tua madre era una donna bugiarda,
senza sensibilità. Gli camminava a fianco e parlavano. Poi si infilavano in un
ristorante o in un cinema. Ne uscivano sottobraccio e lei faceva le smorfie che le
venivano appena c'era un uomo: la voce così, la mano così, la testa così, i fianchi
così».
Mentre parlava agitava una mano floscia all'altezza del petto, scuoteva la testa
e sbatteva le palpebre, protendeva le labbra, dimenava le anche con disprezzo.
Stava mutando strategia. Prima voleva spaventarmi, ora voleva divertirmi
ridicolizzando Amalia. Ma non aveva niente di lei, di nessuna delle Amalie che ci
eravamo inventate, nemmeno delle peggiori. E non aveva niente di divertente. Era
solo un uomo vecchio privato di ogni umanità dall'insoddisfazione e dalla ferocia.
Forse si aspettava un po' di complicità, un accenno di sorriso. Mi rifiutai.
Invece concentrai ogni energia per reprimere il ribrezzo. Lui se ne accorse e si
imbarazzò. Era contro la tela a cui stava lavorando e mi resi conto all'improvviso
che stava cercando di dipingere, con quel cielo rossofuoco, un'eruzione.
«L'hai umiliata come al solito» gli dissi.
Mio padre scosse la testa confuso e si rimise seduto con un lungo gemito.
«Sono andato a dirle che non volevo vivere più solo» borbottò e fissò con
dispetto il letto che aveva di lato.
«Volevi che tornasse a vivere con te?».
Non rispose. Dalla finestra arrivava una luce arancione che sbatteva contro il
vetro, finiva nello specchio dell'armadio e si espandeva per la stanza rendendone
nitido il disordine e lo squallore.
«Ho molti soldi da parte» disse.
«Gliel'ho detto: ho molti soldi».
Aggiunse altre cose che non sentii.
Mentre parlava, vidi di sbieco, sotto la finestra, la tavola che avevo ammirato
da ragazza nella vetrina delle sorelle Vossi. Le due donne urlanti dai profili che
quasi combaciavano - slanciate da destra verso sinistra in un movimento mutilato
di mani, di piedi, di parte delle teste, come se la tavola non fosse riuscita a
contenerle o fosse stata ottusamente segata - erano finite lì, in quella stanza, tra le
mareggiate, le zingare e le pastorelle. Diedi un lungo sospiro di sfinimento.
«Te l'ha dato Caserta» dissi indicando il dipinto. E mi resi conto che avevo
sbagliato: non era stata la De Riso a dirgli di Caserta e di Amalia. Era stato
Caserta stesso. Era venuto lì, gli aveva fatto quel regalo a cui teneva da decenni,
gli aveva parlato di sé, gli aveva detto che la vecchiaia era brutta, che il figlio lo
aveva gettato sul lastrico, che tra lui e Amalia c'era stata sempre un'amicizia
devota e rispettosa. E lui gli aveva creduto. E forse gli aveva raccontato di sé. E
certamente si erano scoperti desolati e solidali nella miseria. Mi sentii una cosa,
misteriosamente in equilibrio al centro della stanza.
Mio padre si agitò sulla sedia.
«Amalia è stata una bugiarda» sbottò, «non mi ha mai detto che tu non avevi né
visto né sentito nulla».
«Morivi dalla voglia di massacrare Caserta di botte. Ti volevi sbarazzare di lui
credendo che con le zingare avresti fatto finalmente soldi.
Sospettavi che lui piacesse ad Amalia.
Quando venni a dirti che li avevo visti insieme nell'interrato della pasticceria, ti
eri già immaginato più cose di quante io ne stessi dicendo.
Quello che dissi ti servì solo per giustificarti».
Mi fissò sorpreso.
«Te lo ricordi? Io non mi ricordo più niente».
«Mi ricordo tutto o quasi tutto. Mi mancano solo le parole di allora.
Ma ne conservo l'orrore e lo risento ogni volta che in questa città qualcuno apre
la bocca».
«Credevo che non ricordassi» borbottò.
«Ricordavo ma non riuscivo a raccontarmelo».
«Eri piccola. Come potevo immaginare...».
«Potevi immaginare. Hai sempre saputo immaginare quando si trattava di farle
male. Sei andato da Amalia per vederla soffrire. Le hai detto che era stato Caserta
a venire apposta da te per raccontarti di loro due. Le hai detto che ti aveva riferito
di me, di come avevo mentito, quarant'anni fa. Le hai scaricato addosso tutta la
colpa. E l'hai accusata di avermi fatta malata e bugiarda».
Mio padre tentò di sollevarsi di nuovo dalla sedia.
«Eri una schifosa già da piccola» gridò. «Sei stata tu a spingere tua madre a
lasciarmi. Mi avete usato e poi mi avete buttato via».
«Le hai rovinato l'esistenza» ribattéi. «Non l'hai mai aiutata a essere felice».
«Felice? Nemmeno io sono stato mai felice».
«Lo so».
«Caserta le pareva migliore di me. Ti ricordi i regali che le arrivavano? Lo
sapeva bene che Caserta glieli mandava per calcolo, per vendicarsi: oggi la frutta;
domani un libro; poi un vestito; poi i fiori. Lo sapeva che lui lo faceva perché io
sospettassi di lei e la massacrassi. Sarebbe bastato che rifiutasse quei regali. Ma
non lo faceva. Prendeva i fiori e li metteva in un vaso. Leggeva il libro senza
nemmeno nascondersi. Metteva il vestito e usciva. Poi si lasciava battere a
sangue. Non mi potevo fidare. Non capivo cosa nascondeva nella testa. Non
capivo cosa pensava».
Mormorai, indicando la tavola dietro di lui: «Nemmeno tu sai resistere ai regali
di Caserta».
Si girò a guardare il dipinto, a disagio.
«L'ho fa tto io» disse. «Non è un regalo. È mio».
«Non ne saresti mai stato capace» mormorai.
«L'ho fatto io da giovane» insistette ed ebbi l'impressione che mi supplicasse di
credergli. «Lo vendetti alle sorelle Vossi nel 1948».
Mi sedetti sul letto senza che me lo chiedesse, accanto alla sua sedia.
Gli dissi con dolcezza: «Me ne vado».
Sussultò.
«Aspetta».
«No» dissi.
«Non ti darò fastidio. Possiamo vivere bene insieme. Che lavoro fai?».
«Storie a fumetti».
«Rendono?».
«Non ho molte esigenze».
«Io ho soldi da parte» ripeté.
«Sono abituata a vivere con poco» dissi. E pensai di cacciarlo dall'area infantile
della memoria abbracciandolo qui, adesso, per renderlo umano come forse era in
realtà, malgrado tutto.
Non feci in tempo. Mi colpì di nuovo, in petto. Finsi di non aver sentito dolore.
Lo respinsi, mi alzai e uscii senza lanciare nemmeno uno sguardo all'altro lato del
corridòio.
«Sei vecchia anche tu» mi strillò dietro. «Togliti quel vestito. Fai schifo».
Mentre andavo verso la porta, mi sentii in precario equilibrio su una scheggia
di pavimento della casa di quarant'anni prima: riusciva ancora a sostenere mio
padre, il suo cavalletto, la camera da letto, ma temetti che il mio peso l'avrebbe
fatta sprofondare. Uscii in fretta sul pianerottolo e accostai con cautela la porta.
Una volta all'aperto, mi osservai il vestito. Scoprii solo allora, con disgusto, che
all'altezza del pube avevo una larga macchia dall'orlo biancastro. La stoffa in quel
punto era più scura e, a toccarla, sembrava inamidata.
XXII
Attraversai la strada. Oltre l'angolo, riconobbi facilmente il «Coloniali» che era
stato del padre di Caserta. Era chiuso da due assi di legno incrociate su una
saracinesca arricciolata da un lato come l'angolo della pagina di un libro. In alto
c'era un'insegna imbrattata di melma su cui si leggeva a fatica: sala giochi. Dal
triangolo nero, aperto nella saracinesca sgangherata, uscì un gatto dagli occhi
gialli con la coda di un topo che gli guizzava tra le labbra: mi guardò in allarme e
poi strisciò cautamente tra le assi e la saracinesca allontanandosi.
Mi mossi lungo la parete dell'edificio. Trovai i passaggi dell'aria per le cantine
del palazzo.
Erano esattamente come li ricordavo: aperture rettangolari a mezzo metro dal
selciato, solcate da nove sbarre e coperte da un fitto reticolo. Ne veniva fuori un
fiato fresco e un odore di umidità e di polvere. Guardai dentro schermandomi gli
occhi e cercando di abituarmi al buio. Non vidi nulla.
Ritornai all'ingresso del negozio, allora, ed esaminai la via. C'era un vocìo
infantile senza inquietudine in una strada che non era rassicurante col suo
squallore al crepuscolo.
L'aria calda era intrisa di un forte odore di gas, proveniente dalle raffinerie.
L'acqua delle pozzanghere era incoronata da nugoli di insetti.
Sul marciapiede di fronte bambini tra i quattro e i cinque anni gareggiavano
correndo su tricicli di plastica.
Pareva sorvegliarli fiaccamente un uomo sui cinquant'anni, i pantaloni
aggrappati al ventre sotto una canottiera gialliccia molto gonfia.
Aveva braccia massicce, busto lungo e peloso, gambe corte. Stava appoggiato
al muro, accanto a una sbarra di ferro che sembrava non appartenergli: era lunga
una settantina di centimetri, acuminata alla punta, il relitto di una vecchia
cancellata abbandonato lì da qualche ragazzino che l'aveva recuperata tra
l'immondizia per giocarci pericolosamente. L'uomo fumava un toscano e mi
fissava.
Attraversai la strada e gli chiesi in dialetto se mi dava dei fiammiferi.
Estrasse fiaccamente dalla tasca una scatola di fiammiferi da cucina e me li
porse, guardando con ostentazione la macchia sul vestito. Ne presi cinque
estraendoli uno per volta, come se quel suo sguardo non mi imbarazzasse. Mi
chiese senza tono se volevo anche un sigaro. Lo ringraziai: non fumavo né sigari
né sigarette.
Allora mi disse che facevo male ad andarmene in giro da sola. Il posto non era
sicuro: c'era certa brutta gente che dava fastidio persino ai bambini. Me li indicò
afferrando la sbarra e imponendole un rapido giro nella loro direzione. Si stavano
reciprocamente insultando in dialetto.
«Figli o nipoti?» chiesi.
«Figli e nipoti» rispose pacatamente.
«Il primo che prova a toccarli l'ammazzo».
Lo ringraziai di nuovo e riattraversai la strada. Scavalcai una delle assi, mi
curvai ed entrai nel triangolo buio oltre la saracinesca.
XXIII
Provai a orientarmi come se avessi davanti il banco con le scene esotiche
dipinte da mio padre tanti anni prima. Lo sentii massiccio, alto tanto da superare
almeno di cinque centimetri la mia testa. Poi mi resi conto che dall'epoca in cui
mi ero fermata davvero di fronte a quell'oggetto carico di liquerizia e confetti ero
cresciuta di almeno settanta centimetri. Subito la parete di legno e di metallo, che
per un attimo era stata alta quasi due metri, scivolò giù e mi si fermò ai fianchi.
Le girai intorno con cautela. Alzai persino il piede per salire sulla pedana di
legno alle spalle del banco, ma fu inutile: naturalmente non c'era né banco né
pedana. Strisciavo le suole sul pavimento avanzando a tentoni e non incontravo
nulla, solo detriti e qualche chiodo.
Mi decisi ad accendere un fiammifero.
L'ambiente era vuoto e non esisteva memoria capace di riempirlo: soltanto una
sedia rovesciata mi separava dall'apertura che portava nello spazio dove il padre
di Caserta aveva custodito le sue macchine per fabbricare dolci e gelati. Lasciai
cadere il fiammifero per evitare di scottarmi ed entrai nell'ex pasticcerìa. Lì, se la
parete di destra era cieca, quella di sinistra aveva ben tre aperture rettangolari in
alto, sbarrate e schermate col reticolo. Il luogo era illuminato abbastanza da
permettermi di distinguere con chiarezza una brandina e su di essa un corpo
scuro, disteso come se dormisse.
Mi raschiai la gola per farmi sentire ma non accadde nulla. Accesi un altro
fiammifero, mi avvicinai e allungai una mano verso l'ombra sdraiata sul letto. Nel
farlo urtai con un fianco contro una cassetta di quelle per la frutta. Qualcosa
ruzzolò per terra, ma la sagoma non si mosse. Mi inginocchiai con la fiamma che
mi lambiva i polpastrelli. A tastoni rintracciai sul pavimento l'oggetto che avevo
sentito cadere.
Era una torcia elettrica di metallo.
Il fiammifero si spense. Col raggio della torcia illuminai subito un sacco di
plastica nera, abbandonato sul letto come un dormiente. Sul materasso senza
lenzuolo erano sparse una sottoveste e alcune vecchie mutande di Amalia.
«Sei qui?» chiesi con una voce roca, mal governata.
Non ci fu risposta. Allora feci ruotare il raggio della torcia. In un angolo era
stata tesa una corda da una parete all'altra. Dalla corda pendevano stampelle di
plastica con due camicie, una giacca grigia e i relativi pantaloni accuratamente
piegati, un impermeabile. Esaminai le camicie: erano della stessa marca di quella
trovata in casa di mia madre.
Allora passai a frugare nelle tasche della giacca e vi trovai pochi spiccioli, sette
gettoni del telefono, un biglietto di seconda classe Napoli-Roma via Formia
datato 21 maggio, tre biglietti Atan usati, due caramelle alla frutta, la ricevuta di
un albergo di Formia, conto unico per due singole, tre scontrini di tre diversi bar e
la ricevuta fiscale di un ristorante di Minturno. Il biglietto ferroviario era stato
rilasciato nello stesso giorno in cui mia madre era partita da Napoli. Il conto
dell'albergo, invece, e la ricevuta fiscale del ristorante portavano la data del 22. La
cena di Caserta e Amalia era stata lauta: 2 coperti 6.000 lire; 2 antipasti di mare
30.000 lire; 2 gnocchetti agli scampi 20.000 lire; 2 grigliate miste di pesce 40.000
lire; 2 contorni 8.000 lire; 2 gelati 12.000 lire, 2 vini 30.000 lire.
Molto cibo, vini. Mia madre mangiava pochissimo e un sorso di vino le faceva
subito girare la testa.
Ripensai alle telefonate che mi aveva fatto, alle oscenità che mi aveva detto:
forse non era atterrita, forse era solo allegra; forse era allegra e atterrita. Amalia
aveva l'imprevedibilità di una scheggia, non potevo imporle la trappola di un
unico aggettivo.
Aveva viaggiato con un uomo che l'aveva tormentata almeno quanto il marito e
che seguitava sottilmente a tormentarla. Insieme a lui era uscita dal filo che
portava da Napoli a Roma per scivolare di sbieco verso una camera d'albergo,
verso una spiaggia di notte. Non doveva essersi turbata eccessivamente quando il
feticismo di Caserta era emerso con maggior decisione. La sentivo, lì nella
penombra, come se fosse in quel sacco sul letto, contratta e incuriosita, ma non
sofferente. Certamente le aveva causato più dolore la scoperta che quell'uomo
seguitava con perversa costanza a perseguitarla, come aveva fatto anni prima
quando le aveva inviato i suoi regali sapendo di esporla alla brutalità del marito.
Me l'immaginavo disorientata, quando aveva saputo che Caserta era andato da
mio padre a raccontare di lei, del tempo che passavano insieme. La vedevo
sorpresa perché mio padre non aveva ucciso il suo presunto rivàle, come aveva
sempre minacciato di fare, ma gli aveva dato pacatamente ascolto per poi mettersi
a spiarla, per malmenarla, per minacciarla, per tentare di reimporle la sua
vicinanza.
Era partita in fretta e furia, certa probabilmente di essere seguìta dall'ex marito.
Per strada, insieme alla De Riso, doveva essersene convinta. Una volta in treno
aveva sospirato di sollievo e forse aveva aspettato che si facesse vivo Caserta per
spiegarsi, per capire. La pensavo confusa e determinata, ancorata soltanto alla
valigia dentro cui aveva i regali per me.
Mi riscossi e rimisi nelle tasche della giacca di Caserta tutti quei segni del loro
percorso. Nel fondo, tra le cuciture, c'era sabbia.
Quando ripresi la mia ricognizione, mi mancò il respiro. Il raggio della torcia,
ruotando, attraversò una sagoma femminile in piedi contro la parete di fronte al
letto. Riportai il cerchio di luce sulla silhouette che avevo intravisto. Appeso a una
stampella fissata al muro con un chiodo c'era in bell'ordine il tailleur blu che mia
madre indossava quando era partita: giacca e gonna di una stoffa così resistente,
che Amalia per decenni era riuscita ad adattare con lievi interventi a tutte le
circostanze che riteneva importanti. Entrambi gli indumenti erano stati disposti
sulla stampella come se la persona che li aveva indossati fosse sgusciata via dagli
abiti per un momento solo, promettendo di tornare presto. Sotto la giacca c'era
una vecchia camicetta azzurra, che mi era ben nota. Introdussi esitando una mano
nella scollatura e trovai uno dei reggiseni antiquati di Amalia attaccati con uno
spillo da bàlia alla camicetta. Frugai anche sotto la gonna: c'erano le sue mutande
rattoppate. Sul pavimento vidi le scarpe consumate e fuori moda che le erano
appartenute, col tacco basso più volte rifatto, e il collant che vi giaceva sopra
come un velo.
Mi sedetti sul bordo del letto. Dovevo cercare di impedire al tailleur di staccarsi
dalla parete. Volevo che ognuno di quegli indumenti restasse lì, immobile, e
consumasse il residuo di energia che Amalia vi aveva abbandonato. Lasciai che
ogni punto si scucisse, che la stoffa blu ridiventasse tessuto senza taglio, odoroso
di nuovo, nemmeno sfiorato da Amalia che, giovane, in una veste americana a
fiori rossi e blu, stava ancora scegliendo tra le pezze arrotolate, in un negozio
densamente profumato di tessuti. Discuteva con allegria. Stava ancora
progettando di cucirselo addosso, stava ancora sfiorandone la cimosa, stava
ancora sollevandone un lembo per valutarne lo sbieco. Ma non fui capace di
trattenerla a lungo. Amalia già lavorava alacremente. Distendeva sulla stoffa la
carta che riproduceva le parti del suo corpo. La fissava con gli spilli, brano dietro
brano.
Tagliava tendendo il tessuto col pollice e il medio della sinistra.
Imbastiva. Cuciva a punti radi.
Misurava, scuciva, ricuciva. Foderava.
Oh, ero affascinata dalla sua arte di costruire un doppio. Vedevo crescere l'abito
come un altro corpo, un corpo più accessibile. Quante volte ero entrata di
soppiatto nell'armadio in camera da letto, avevo richiuso l'anta, ero rimasta al buio
tra i suoi vestiti, sotto la gonna odorosa di quel tailleur, respirando il corpo di lei,
rivestendomene? Mi incantava che da ordito e trama del tessuto lei sapesse
ricavare una persona, una maschera che si nutriva di tepore e odore, che pareva
figura, teatro, racconto. Se lei non mi aveva mai concesso nemmeno di sfiorarla,
quella sua sagoma era stata certamente, fino alle soglie della mia adolescenza,
generosa di suggestioni, di immagini, di piacéri. Il tailleur era vivo.
Anche Caserta doveva pensarlo. Su quell'abito il suo corpo si era certamente
adagiato, quando nel corso dell'ultimo anno era nato tra loro un affiatamento
senile, che non riuscivo a valutare in tutta la sua intensità e in tutte le sue
implicazioni. Con quell'abito lei era partita in fretta, agitata dopo le rivelazioni di
mio padre, sospettosa, timorosa di essere ancora spiata. Con quell'abito il corpo di
Amalia aveva sfiorato Caserta, quando le si era seduto accanto all'improvviso, in
treno.
Avevano un appuntamento? Ora li vedevo insieme, mentre si incontravano
nello scompartimento, appena fuori dallo sguardo della De Riso. Amalia ancora
slanciata, sottile, con la sua pettinatura antiquata; lui alto, asciutto, curato: una
bella coppia anziana. Ma forse tra loro non c'era alcun accordo: Caserta l'aveva
seguìta sul treno di sua iniziativa, le si era seduto accanto, aveva cominciato a
parlarle accattivante come pareva capace di essere. Del resto, comunque fossero
andate le cose, dubitavo che Amalia contasse di presentarsi a casa mia con lui:
forse Caserta si era solo offerto di farle compagnia durante il viaggio, forse per
strada lei aveva cominciato a raccontare delle nostre villeggiature, forse, come le
capitava negli ultimi mesi, aveva cominciato a smarrire il senso delle cose, a
dimenticarsi di mio padre, a dimenticare che l'uomo che le sedeva accanto era
ossessionato da lei, dalla sua persona, dal suo corpo, dal suo modo di essere, ma
anche da una vendetta sempre più astratta, sempre meno concretizzabile, puro
fantasma tra i tanti fantasmi della vecchiaia.
O no: lei seguitava a tenerlo ben presente e già progettava, come faceva con gli
abiti, la piega da dare agli ultimi avvenimenti della sua esistenza. Ad ogni modo,
all'improvviso la meta era cambiata, non per volontà di Caserta. Era stata
sicuramente Amalia a spingerlo a scendere a Formia. Lui non poteva avere nessun
interesse a tornare nei luoghi in cui avevamo fatto (mio padre, lei, io, le mie
sorelle) bagni di mare negli anni Cinquanta. Era possibile invece che Amalia,
convinta che mio padre insistesse a spiarli nascosto chissà dove, avesse deciso di
trascinarsi quello sguardo per percorsi capaci di pietrificarlo.
Avevano mangiato in qualche bar, avevano bevuto, certamente era cominciato
tra loro un gioco nuovo, che Amalia non aveva previsto ma che la seduceva. La
prima telefonata che mi aveva fatto testimoniava un disordine che la eccitava e
insieme la disorientava. E sebbene avessero preso camere separate in albergo, la
seconda telefonata mi faceva dubitare che Amalia si fosse chiusa nella sua stanza.
Sentivo in quel vecchio abito per le grandi occasioni la forza che la spingeva fuori
di casa, lontano da me, e rischiava di non farla tornare mai più. Vedevo nella
stoffa blu la notte del ripostiglio di lato alla sua camera da letto, dove mi
rinchiudevo per combattere con il terrore il terrore di perderla per sempre. No,
Amalia non era rimasta in camera sua.
Il giorno dopo avevano raggiunto insieme Minturno, probabilmente in treno,
forse in pullman. In serata avevano cenato senza badare a spese, allegramente,
fino al punto di ordinare due bottiglie di vino. Poi erano andati in giro per la
spiaggia di notte. Sapevo che, sulla spiaggia, mia madre aveva indossato gli
indumenti che in un primo momento intendeva regalarmi. Forse era stato Caserta
a indurla a spogliarsi e a mettere i vestiti, la biancheria, la vestaglia che aveva
trafugato per lei dal negozio Vossi. Forse lo aveva fatto Amalia spontaneamente,
disinibita dal vino, ossessionata dalla vigilanza nevrotica dell'ex marito. Era da
escludere che ci fosse stata violenza: la violenza che l'autopsia poteva accertare
non era stata accertata.
La vedevo sgusciare dal suo vecchio tailleur e avevo l'impressione che l'abito
restasse rigido e desolato, sospeso sulla sabbia fredda come era sospeso adesso,
contro la parete. La vedevo mentre si sforzava di entrare in quella biancheria di
lusso, in quegli abiti troppo giovanili, barcollante di ubriachezza. La vedevo fino
a quando, esausta, non si era coperta con la vestaglia di raso.
Doveva aver percepito che qualcosa s'era come sgranato per sempre: con mio
padre, con Caserta, forse anche con me, quando aveva deciso di cambiare
itinerario. Lei stessa s'era sgranata: le telefonate che mi aveva fatto, con tutta
probabilità in compagnia di Caserta, con la loro allegra disperazione forse
volevano segnalarmi soltanto la confusione della situazione in cui si trovava, il
disorientamento che stava vivendo.
Certamente quando era entrata in acqua nuda, lo aveva fatto per sua scelta.
La sentivo che si immaginava stretta tra quattro pupille, espropriata da due
sguardi. E la sentivo scoprire stremata che mio padre non c'era, che Caserta
inseguiva le sue fantasie di vecchio col cervello perso, che gli spettatori di quella
messinscena erano assenti. Aveva abbandonato la vestaglia di raso, si era lasciata
addosso solo il reggiseno Vossi.
Probabilmente Caserta era lì che guardava senza vedere. Ma non ne ero sicura.
Forse se ne era già andato con gli indumenti di Amalia. O forse lei stessa gli
aveva imposto di andarsene.
Dubitavo che avesse portato via abiti e biancheria per sua scelta. Ero certa
invece che Amalia gli aveva imposto di consegnarmi i regali e che lui glielo aveva
promesso: ultimo baratto per ottenere quella biancheria vecchia a cui teneva.
Dovevano aver parlato di me, di quello che avevo fatto da piccola. O forse
rientravo già da tempo nel gioco di sadismo di piccolo cabotaggio condotto da
Caserta.
Certamente ero parte preponderante dei suoi fantasmi senili e voleva vendicarsi
di me come se fossi la bambina di quarantanni prima. Mi immaginavo Caserta
sulla sabbia, frastornato dal rumore della risacca e dall'umidità, disorientato
quanto Amalia, ubriaco come lei, incapace di capire dove era arrivato il gioco.
Temetti che non si fosse nemmeno reso conto che il topo con cui si era divertito
per buona parte della vita gli stava sfuggendo per andarsi ad affogare.
XXIV
Mi alzai dal letto soprattutto per non vedere più la sagoma blu appesa alla
parete di fronte.
Individuai i gradini che conducevano alla porta sul cortile dell'edificio.
Erano cinque, me ne ricordavo bene: giocavo con Antonio a saltarli mentre suo
nonno lavorava ai dolci. Li contai salendo. Arrivata in cima, mi accorsi con
sorpresa che la porta non era chiusa ma accostata: la serratura era rotta.
Evidentemente il vecchio entrava e usciva di lì. L'aprii e mi affacciai sull'androne:
da un lato c'era il portone che dava nel cortile, dall'altro la rampa di scale in cima
alle quali una volta c'era stato l'appartamento di Caserta. Su per quei gradini
Filippo e mio padre l'avevano inseguito per amma2zarlo.
Lui aveva prima cercato di difendersi; poi non l'aveva fatto più.
Guardai in alto, dal fondo delle scale, e sentii male alla nuca. Avevo uno
sguardo vecchio di decenni che voleva mostrarmi più di quanto ora potessi
vedere. Il racconto, fratto in mille immagini incoerenti, stentava ad adattarsi alle
pietre e al ferro.
Invece la violenza si compiva adesso, avvinghiata alla ringhiera delle scale, e
mi pareva che fosse rimasta qui - qui e non lì - per quarant'anni, a urlare. Caserta
aveva rinunciato a difendersi non per mancanza di forze o ammissione di colpa o
vigliaccheria, ma perché lo zio Filippo, al quarto piano, aveva afferrato Antonio
ed ecco - lo sospendeva per le caviglie bestemmiando in un dialetto ostile, la
lingua di mia madre. Lo zio era giovane, con tutt'e due le braccia, e minacciava di
lasciar cadere giù il bambino se solo Caserta avesse accennato a muoversi. Il
compito di mio padre era facile.
Lasciai la porta aperta e rientrai nello scantinato. Con la torcia cercai la
porticina che introduceva al livello più basso dell'interrato. Me la ricordavo di
ferro verniciato, forse marrone. Ne scovai una di legno, alta non più di cinquanta
centimetri: uno sportello più che una porta, socchiuso, con un occhiello sull'anta e
uno sulla cornice: in quest'ultimo era infilato un lucchetto aperto.
A vederla dovetti ammettere subito che l'immagine di Caserta e Amalia
impegnati a uscirne o a entrarvi ben ritti nelle persone e raggianti, a volte a
braccetto, a volte tenendosi per mano, lei col tailleur, lui col cappotto di
cammello, era una bugia della memoria. Anche io e Antonio, quando passavamo
di lì, dovevamo curvarci. L'infanzia è una fabbrica di menzogne che durano
all'imperfetto: la mia almeno era stata così. Ma sentivo il vociare dei bambini
sulla strada e mi pareva che non fossero diversi da com'ero stata: strillavano nello
stesso dialetto; ciascuno di loro si sentiva qualcos'altro: erano invenzione, mentre
vivevano la sera lungo il marciapiede squallido sotto l'occhio «dell'uomo in
canottiera.
Correvano sui tricicli e si scambiavano insulti intervallandoli con grida
lancinanti d'allegria.
Insulti a sfondo sessuale: sul loro gergo osceno si inseriva a tratti, con oscenità
ancora più sanguigne, la voce dell'uomo con la sbarra.
Emisi un lieve gemito. Mi sentii ripetere ad Antonio parole non diverse da
quelle che stavo ascoltando, dietro quella porticina, nello spazio nero
dell'interrato; e lui le ripeteva a me. Ma io mentivo, mentre le dicevo.
Fingevo di non essere io. Non volevo essere «io», se non ero l'io di Amalia.
Facevo come mi ero immaginata che in segreto Amalia facesse. E le imponevo, in
mancanza di percorsi suoi dei quali potessi essere parte, i miei percorsi da casa al
«Coloniali» di Caserta il vecchio.
Usciva di casa, voltava l'angolo, spingeva la porta a vetri, assaggiava creme,
aspettava il suo compagno di giochi. Ero io ed ero lei. Io-lei ci incontravamo con
Caserta. Infatti non vedevo il viso di Antonio, quando Antonio appariva dalla
porta sul cortile, ma quello che, in quel viso, c'era del viso adulto di suo padre.
Amavo Caserta con l'intensità con cui m'ero immaginata che l'amasse mia
madre. E lo detestavo, perché la fantasia di quell'amore segreto era talmente
vivida e concreta, che sentivo che non avrei mai potuto essere amata allo stesso
modo: non da lui, ma da lei, da Amalia. Caserta si era preso tutto quello che
spettava a me. Mentre giravo intorno al banco dipinto, mi muovevo come lei,
parlavo da sola rifacendo la sua voce, sbattevo le ciglia, ridevo come mio padre
non voleva che ridesse.
Poi salivo sulla pedana di legno ed entravo con movenze di donna nella
pasticceria. Il nonno di Antonio spruzzava crema ondulata dalla sacca di tela e mi
guardava con occhi profondi, velati dal calore dei forni.
Tirai indietro lo sportello e vi introdussi il raggio della torcia. Mi accovacciai,
ginocchia contro il petto, testa reclinata. Curva a quel modo, strisciai giù per tre
gradini scivolosi. Accettai, lungo quel percorso, di raccontarmi tutto: tutto quello
che le bugie custodivano di vero.
Ero sicuramente Amalia, quando un giorno trovai la pasticceria vuota e quella
porticina aperta. Ero Amalia che nuda come la zingara dipinta da mio padre,
intorno alla quale stavano volando da settimane gli insulti, i giuramenti, le
minacce, andava a strisciare nell'interrato buio insieme a Caserta. Ero,
all'imperfetto. Mi sentivo lei coi suoi pensieri, libera e felice, sfuggita alla
macchina per cucire, ai guanti, all'ago e al filo, a mio padre, alle sue tele, alla
carta giallastra su cui era finita in sgorbi sanguigni. Ero identica a lei e tuttavia
soffrivo per l'incompiutezza di quell' identità. Riuscivamo a essere «io» solo nel
gioco, ormai, e lo sapevo.
Senonché curvo, in fondo ai tre gradini oltre la porticina, Caserta mi guardò di
sbieco e mi disse: «Vieni».
Mentre mi inventavo che la sua voce, insieme a quel verbo, dava suono anche
ad: «Amalia», lui mi salì lievemente con un dito nodoso e sporco di crema su per
una gamba, sotto il vestitino che mi aveva cucito mia madre. A quel contatto
provai piacere. E mi accorsi che accadevano puntigliosamente nella mia testa le
oscenità che intanto l'uomo balbettava roco, toccandomi. Le memorizzavo e mi
pareva che le dicesse con una lunga lingua rossa che gli parlava non dalla bocca
ma dai calzoni. Ero senza respiro. Provavo piacere e terrore insieme. Cercavo di
contenerli entrambi, ma mi accorgevo con astio che il gioco non riusciva bene.
Era Amalia a provare tutto il piacere: a me restava solo il terrore.
Più le cose accadevano, più mi indispettivo, perché non riuscivo a essere «io»
nel piacere di lei, e tremavo soltanto.
Del resto anche Caserta non mi stava venendo convincente. A volte ce la faceva
a essere Caserta, a volte smarriva i suoi lineamenti. Questo mi metteva sempre più
in allarme. Stava accadendo come con Antonio: durante i nostri giochi, io ero
Amalia con convinzione, lui era suo padre labilmente, forse per un difetto
dell'immaginazione. Lo odiavo, allora.
Sentirlo Antonio mi rendeva meschinamente Delia lì sotto, nell'interrato, con
una mano sul suo sesso; e intanto Amalia giocava a essere realmente Amalia
chissà dove, escludendomi dal suo gioco come a volte le bambine del cortile.
Così a un certo punto dovetti cedere e ammettere che l'uomo che mi diceva
«Vieni» in fondo ai tre gradini dell'interrato era il venditore di coloniali, il vecchio
cupo che fabbricava gelati e dolci, il nonno del piccolo Antonio, il padre di
Caserta. Ma Caserta no: Caserta era sicuramente altrove, con mia madre.
Allora lo respinsi e scappai via piangendo. Saltai sulla scheggia di pavimento
su cui c'era mio padre, il cavalletto, la camera da letto. Gli riferii, nel dialetto
sguaiato del cortile, le cose oscene che quell'uomo mi aveva fatto e detto.
Piangevo. Ne avevo in mente con chiarezza il volto vecchio deformato
dall'avvampare della pelle e dalla paura.
Caserta, dissi a mio padre. Gli dissi che Caserta aveva fatto e detto ad Amalia,
col suo consenso, nell'interrato della pasticceria, tutte le cose che in realtà il
nonno di Antonio aveva detto e forse fatto a me. Lui smise di lavorare e attese che
mia madre tornasse a casa.
Dire è incatenare tempi e spazi perduti. Sedetti sull'ultimo gradino, credendo
che fosse proprio quello di allora. Mi ripetei a fior di labbra una per una le
formule oscene che il padre di Caserta mi aveva snocciolato con crescente
agitazione quarant'anni prima. E mi resi conto che, nella sostanza, erano le stesse
che mia madre ridacchiando mi aveva gridato per telefono, prima di andarsi ad
annegare. Parole per perdersi o per trovarsi. Forse voleva comunicarmi che anche
lei mi detestava per quello che le avevo fatto quarant'anni prima.
Forse a quel modo voleva farmi capire chi era l'uomo che si trovava lì con lei.
Forse voleva dirmi di badare a me, di stare attenta alle furie senili di Caserta.
O forse voleva semplicemente dimostrarmi che anche quelle parole erano
dicibili e che, contrariamente a quanto avevo creduto per tutta la vita, potevano
non farmi male.
Mi aggrappai a quell'ultima ipotesi.
Ero lì, raggomitolata sulla soglia di tormentate fantasie, per incontrare Caserta
e dirgli che non avevo mai voluto nuocergli. Non mi interessava più la storia tra
lui e mia madre: desideravo solo confessare ad alta voce che, allora e dopo, avevo
odiato non lui, forse nemmeno mio padre: soltanto Amalia. Era a lei che volevo
fare del male. Perché mi aveva lasciata nel mondo a giocare da sola con le parole
della menzogna, senza misura, senza verità.
XXV
Ma Caserta non si mostrò.
Nello scantinato c'erano solo scatole vuote di cartone e vecchie bottiglie di
gazzosa o di birra. Strisciai fuori, impolverata, infastidita dal tocco lieve delle
ragnatele, e tornai alla brandina. Per terra vidi il mio slip macchiato di sangue e lo
cacciai con la punta del piede sotto il letto.
Ormai mi dava più fastidio scoprirlo in quel luogo come una parte trafugata di
me, che immaginare l'uso che ne aveva fatto Caserta.
Tornai alla parete dov'era appeso l'abito blu di Amalia. Staccai la stampella,
allungai con delicatezza il vestito sul letto, sfilai la giacca: aveva all'interno una
fodera sdrucita; le tasche erano vuote. Me l'appoggiai addosso quasi volessi
vedere come mi stava. Poi mi decisi: deposi sulla branda la torcia, mi sfilai il
vestito e lo lasciai sul pavimento; quindi mi rivestii con cura, senza fretta. Usai la
spilla di sicurezza con cui Caserta aveva fissato il reggiseno alla camicetta per
stringermi la gonna alla vita: era troppo larga. Anche la giacca era abbondante e
tuttavia me la sistemai addosso con soddisfazione.
Sentii quell'abito vecchio come la narrazione estrema che mia madre mi aveva
lasciato e che ora con tutti gli artifìci necessari mi calzava a pennello.
La storia poteva essere più debole o più avvincente di quella che mi ero
raccontata. Bastava tirare via un filo e seguirlo nella sua linearità semplificatoria.
Per esempio, Amalia era partita insieme al suo vecchio amante e con lui aveva
trascorso un'ultima vacanza segreta, ridendo rumorosamente, mangiando e
bevendo, spogliandosi sulla sabbia, vestendo e svestendo gli indumenti che
progettava di regalarmi. Un gioco da anziana che si finge giovane, per far piacere
a un altro anziano. Infine aveva deciso di fare il bagno nuda. Ma, brilla com'era,
s'era allontanata troppo dalla riva ed era annegata. Caserta aveva avuto paura,
aveva raccolto ogni cosa ed era andato via. Oppure eccola che correva nuda lungo
la battigia e lui la inseguiva, entrambi ansanti, entrambi terrorizzati, lei dalla
scoperta dei desidéri di lui, lui dalla scoperta della repulsione di lei. Finché
Amalia aveva creduto di potergli sfuggire nell'acqua.
Sì, bastava tirare un filo per seguitare a giocare con la figura misteriosa di mia
madre, ora arricchendola, ora umiliandola. Ma mi accorsi che non ne sentivo più
la necessità e mi mossi nel raggio di luce proprio come mi pareva che si muovesse
lei. Dopo aver spento la torcia, mi chinai verso il triangolo azzurrino della
saracinesca e cacciai la testa all'aperto. I lampioni erano accesi, ma c'era ancora
luce. I bambini non correvano più né gridavano. Erano intorno a un uomo curvo,
col viso all'altezza dei loro visi, le mani sulle ginocchia. L'uomo era Caserta.
Aveva la testa fitta di capelli bianchi e un'espressione accattivante.
Se ne stavano tutti, i piccoli, il grande, con le scarpe in una pozzanghera
scintillante. I bambini avevano cominciato a scartocciare le caramelle che lui
aveva appena distribuito.
Guardai quel vecchio asciutto, ben rasato, ben vestito, il viso pallido e teso, e
non avvertii più alcun bisogno di parlargli, di sapere, di fargli sapere. Decisi di
sgusciare via lungo il marciapiede, oltre l'angolo, ma lui si girò e mi vide. Lo
stupore fu tale che non si accorse di quello che gli accadeva alle spalle. L'uomo in
canottiera aveva appoggiato con cura la sbarra al muro, aveva appena gettato via
il sigaro e ora gli si stava avvicinando guardando diritto davanti a sé, a busto
eretto, le gambe corte che muovevano passi ragionatamente tranquilli. I bambini
indietreggiarono ritraendosi dalla pozzanghera. Caserta restò solo nello specchio
d'acqua viola, la bocca aperta, gli occhi senza ansia fissi su di me. Quella sua
calma mi aiutò a respirare. Rientrai nel «Coloniali» di quarantanni prima, stetti
bene attenta a non sbattere contro il banco con palmizi e cammelli, salii sulla
pedana di legno, attraversai la pasticceria scansando abilmente il forno, le
macchine, i banchi, le teglie, uscii dalla porta che dava sul cortile. Una volta
all'aperto cercai il passo giusto per una persona adulta che non ha fretta.
XXVI
Il gas bruciava nella notte sui pinnacoli delle raffinerie.
Viaggiai su un diretto lento come un'agonia, dopo aver cercato e trovato uno
scompartimento illuminato, senza passeggéri immersi nel sonno. Volevo che, se
non l'intero treno, almeno il mio sedile mantenesse una sua consistenza. Trovai
posto insieme a ragazzi sui vent'anni, reclute di ritorno da una breve licenza. In un
dialetto quasi incomprensibile esibivano a ogni frase un'aggressività atterrita.
Avevano perso il treno che li avrebbe portati puntuali in caserma. Sapevano che
sarebbero stati puniti e avevano paura. Ma non lo confessavano. Progettavano
invece, tra grida e sghignazzi, di sottoporre gli ufficiali che li avrebbero puniti a
umiliazioni sessuali d'ogni tipo. Le collocavano in un futuro indeterminato e,
nell'attesa, le descrivevano senza risparmio. Sostenevano, rivolgendosi a me, ma
di sbieco, che non avevano paura di nessuno. Ogni volta mi lanciavano sguardi
più sfrontati. Uno di loro cominciò a rivolgermi la parola direttamente e a offrirmi
birra dalla lattina a cui aveva bevuto. Ne bevvi. Gli altri sghignazzavano senza
riuscire a contenersi,, addossandosi gli uni agli altri coi corpi contratti dal riso
represso e poi respingendosi con forza, paonazzi.
Li lasciai a Minturno. Raggiunsi l'Appia a piedi, per vie deserte, tra villini
volgari e vuoti. Era ancora buio, quando riuscii a trovare la casa delle nostre
villeggiature, una costruzione a due piani col tetto spiovente, sprangata e muta
sotto la rugiada. Ai primi chiarori, mi avviai per un sentiero sabbioso. C'erano
solo scarabei e lucertole immobili, in attesa dei primi tepori. Le foglie delle canne
con cui avevo fabbricato per me e per le mie sorelle scheletri di aquiloni mi
bagnavano il tailleur appena le sfioravo.
Mi tolsi le scarpe e affondai i piedi doloranti in una rena sottile, fredda e
sporca, tra rottàmi d'ogni genere.
Andai a sedere su un tronco d'albero presso la riva, in attesa che il sole mi
scaldasse, ma anche per aggrappare la mia presenza a un relitto ben radicato nella
sabbia. Il mare adesso era calmo e azzurro sotto il sole, ma i raggi arrivavano a
stento alla battigia lasciando la sabbia sotto un'ombra grigia. Una nebbiolina
prossima a svanire riusciva ancora a cancellare la macchia, le colline, le
montagne. Ero già tornata in quel luogo, dopo la morte di mia madre. Non avevo
visto né il mare né la spiaggia.
Avevo visto solo dettagli: la valva bianca di una conchiglia, striata con rigore;
un granchio coi segmenti dell'addome rivolti al sole, la plastica verde di un
contenitore per detersivi; quel tronco su cui ero seduta. Mi ero chiesta perché mia
madre avesse deciso di morire in quel posto. Non l'avrei saputo mai. Ero l'unica
fonte possibile del racconto, non potevo né volevo cercare fuori di me.
Quando il sole cominciò a lambirmi, sentii Amalia giovane e piena di
meraviglia per l'apparizione dei primi bikini. Diceva: «Tutt'e due i pezzi stanno in
una mano sola». Lei invece portava un costume verde che s'era cucita da sola,
accollato, robusto, adatto a soffocare le forme, sempre lo stesso negli anni. Per
prudenza lei controllava spesso che la stoffa non le risalisse su per le cosce o le
natiche. La domenica, apparentemente per sua scelta, se ne stava avvolta in un
asciugamano come se avesse freddo, sulla sdraio sotto l'ombrellone, accanto a
mio padre.
Ma non aveva freddo. Nei giorni festivi arrivavano sulla spiaggia,
dall'entroterra, comitive di ragazzi ricciuti, con costumi da bagno indecenti,
bruciati dal sole in faccia, sul collo e sulle braccia, per il resto bianchi, vocianti,
rissosi, impegnati tra loro ora per gioco ora sul serio in lotte furibonde nella rena
o nell'acqua. Mio padre, che in genere trascorreva il tempo sulla battigia
mangiando telline pescate nella sabbia, a vederli cambiava umore e
atteggiamento. Imponeva ad Amalia di non allontanarsi dall'ombrellone. La
spiava per capire se li guardava in tralice. Quando i ragazzi, nel corso delle loro
esibizioni, sporchi di sabbia fino ai capelli, si accostavano troppo all'ombrellone
ridendo, ci raggiungeva in fretta e ci obbligava tutt'e quattro a stare accanto a lui.
Intanto dichiarava guerra ai giovani con sguardi feroci. Noi, come sempre,
avevamo paura.
Ma, di quelle vacanze, ciò che ricordavo con maggior fastidio era il cinema
all'aperto, dove andavamo spesso. Mio padre, per proteggerci da eventuali
molestatori, faceva sedere la più giovane delle mie sorelle sul primo seggiolino
della fila, quello che affacciava sul corridòio centrale. Poi ordinava all'altra di
sederle accanto. Seguivo io, mia madre, infine lui. Amalia assumeva un'aria tra
divertita e ammirata. Io invece interpretavo quella disposizione dei posti come un
segnale di pericolo e diventavo sempre più inquieta. Quando mio padre si
sistemava al suo posto e metteva un braccio intorno alle spalle della moglie, quel
gesto mi sembrava l'ultima fortificazione contro una minaccia oscura che presto si
sarebbe rivelata.
Il film cominciava ma sentivo che lui non era tranquillo. Assisteva allo
spettacolo nervosamente. Se per caso Amalia si girava a guardare indietro, subito
lo faceva anche lui. A intervalli fissi le chiedeva: «Che c'è?». Lei lo rassicurava
ma mio padre non si fidava. Io ero suggestionata da quella sua ansia. Pensavo che
se mi fosse accaduto qualcosa la cosa più terribile, non sapevo quale - gliePavrei
taciuto. Ne deducevo, non so perché, che anche Amalia si sarebbe comportata allo
stesso modo. Ma questa consapevolezza mi faceva ancora più paura. Perché, se
mio padre avesse scoperto che lei gli aveva nascosto il tentativo d'approccio di
chissà quale estraneo, avrebbe avuto subito la prova di tutte le altre innumerevoli
complicità di Amalia.
Io quelle prove le avevo già. Quando andavamo al cinema senza di lui, mia
madre non rispettava nessuna delle regole che le aveva imposto: si guardava
intorno liberamente, rideva come non doveva ridere e chiacchierava con
sconosciuti, per esempio col venditore di caramelle, che quando si spegnevano le
luci e compariva il cielo stellato le si sedeva accanto.
Perciò, quando mio padre c'era, non riuscivo a seguire la storia del film.
Lanciavo sguardi furtivi nel buio per esercitare a mia volta un controllo su
Amalia, anticipare la scoperta dei segreti di lei, evitare che anche lui scoprisse la
sua colpevolezza. Tra i fumi delle sigarette e il lampeggiare del fascio di luce
sprizzato dal proiettore, fantasticavo atterrita di corpi d'uomini in forma di
ranocchio che saltavano agili sotto la fila dei seggiolini, allungando non zampe
ma mani e lingue viscide. Così mi riempivo d'un sudore gelato malgrado il caldo.
Intanto Amalia, dopo uno sguardo furtivo di lato, incuriosito e insieme in
apprensione, abbandonava la testa sulla spalla di mio padre e pareva felice. Quel
doppio movimento mi lacerava. Non sapevo dove seguire mia madre in fuga, se
lungo l'asse di quello sguardo o per la parabola che la sua pettinatura disegnava
verso la spalla del marito.
Ero lì accanto a lei e tremavo.
Persino le stelle, così fitte d'estate, mi sembravano bagliori del mio
smarrimento. Ero così decisa a diventare diversa da lei, che perdevo a una a una le
ragioni per assomigliarle.
Il sole cominciò a scaldarmi. Mi frugai nella borsetta ed estrassi la mia carta
d'identità. Fissai la foto a lungo, studiandomi di riconoscere Amalia in quella
immagine. Era una foto recente, fatta apposta per rinnovare il documento scaduto.
Con un pennarello, mentre il sole mi scottava il collo, disegnai intorno ai miei
lineamenti la pettinatura di mia madre. Mi allungai i capelli corti muovendo dalle
orecchie e gonfiando due ampie bande che andavano a chiudersi in un'onda
nerissima, levata sulla fronte. Mi abbozzai un ricciolo ribelle sull'occhio destro,
trattenuto a stento tra l'attaccatura dei capelli e il sopracciglio. Mi guardai, mi
sorrisi. Quell'acconciatura antiquata, in uso negli anni Quaranta ma già rara alla
fine degli anni Cinquanta, mi donava. Amalia c'era stata. Io ero Amalia.

Tra il corpo di Amalia, che galleggia nel mare in cui è oscuramente annegata, e
il corpo di Delia, sua figlia, esposto alla pioggia di una Napoli plumbea e ostile, si
distende un racconto di cento pagine che ora pare accentuare la frattura tra le due
donne, ora sembra un cordone ombelicale teso a ristabilire un legàme troppo
presto e troppo dolorosamente troncato.
Che cosa è accaduto ad Amalia? Chi c'era con lei la notte in cui è morta?
È stata davvero, come spingono a pensare le ultime ore della sua vita, la donna
che sua figlia si è sempre immaginata, ambigua e incontentabile, pronta a
deviazioni segrete, capace di sfuggire alla sorveglianza ossessiva del marito? Il
percorso che porterà Delia dal funerale della madre all'evocazione sempre più
dettagliata della figura mobile e seducente di lei, allo scioglimento imprevedibile
del racconto, è costellato di sussulti della memoria, sentimenti di repulsione e
d'amore, colpi di scena a volte agghiaccianti, spostamenti carichi d'ansia per una
città che non da tregua e che a ogni angolo nasconde la figura insidiosa di
Caserta, vecchio amico di Amalia, laido e affascinante, vittima e carnefice.

Elena Ferrante governa con sapienza un intreccio che di pagina in pagina, con
un linguaggio sempre più intenso, cattura il lettore dosando fascinazione e orrore.
Il risultato è un libro che scava nel rapporto madre-figlia con crudeltà, con
passione, con nostalgia struggente, con torbida innocenza, trasformando una
vicenda di quotidiani strazi familiari in un thriller domestico che mozza il respiro.
Elena Ferrante è vissuta a lungo a Napoli. Attualmente risiede in Grecia.
Questo è il suo primo romanzo.

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