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Maledetti Fotografi

ogni mese le interviste ai più grandi fotografi internazionali

www.maledettifotografi.it

Tutte le interviste sono state realizzate da Enrico Ratto, salvo dove
indicato diversamente.

Le interviste di Frank Horvat sono state pubblicate nel libro Entre


Vues e sono tradotte e pubblicate in italiano in esclusiva per
Maledetti Fotografi.


La riproduzione, anche parziale, dei testi è consentita esclusivamente con il


consenso scritto di Maledetti Fotografi.


Tutte le interviste del 2016



Michael Kenna
 Paola Agosti



Duane Michals
 Irene Kung

Efrem Raimondi Alberto Alicata

Olivo Barbieri
 Filippo La Mantia

Nino Migliori
 Marco Maria Zanin

Monika Bulaj
 Roberto Polillo

Francesco Radino
 Robert Doisneau

Heinz Stephan Tesarek Bettina Rheims

Piero Gemelli
 con un contributo di

Eva Rubinstein
 Michele Neri

Michael Kenna: 

cerco il silenzio come fuga dal
rumore di fondo del mondo 



Michael Kenna, è vero che da giovane voleva entrare in
seminario per diventare un prete cattolico?

È vero, sono entrato in un seminario scolastico giovanile con


l’intenzione di diventare un prete cattolico. In realtà è un passaggio
molto importante della mia vita, vorrei descriverlo nel dettaglio.
Sono nato e cresciuto in una povera famiglia operaia a Widnes,
una città industriale vicino a Liverpool, in Inghilterra.
Da ragazzo, nonostante avessi cinque fratelli più grandi di me, ero
abbastanza solitario, trascorrevo la maggior parte del mio tempo
nei parchi e nelle strade della mia città. Mi piaceva esplorare le
stazioni ferroviarie, le fattorie, i campi da rugby, i canali, le chiese
vuote e i cimiteri abbandonati.

Luoghi che sono diventati oggetto della sua fotografia.

Sì. Anche se all’epoca non avevo una macchina fotografica, penso


che quel periodo sia stato il più influente per la mia visione.
Tornando al seminario, erano anni in cui facevo il chierichetto nella
chiesa cattolica di St Bede e amavo prendere parte ai grandi riti
religiosi della chiesa. Assistevo il prete durante i battesimi, i
funerali, i matrimoni, le messe in latino. A undici anni volli entrare in
un collegio cattolico. Le mie esperienze in quel collegio, durante i
sette anni successivi, mi hanno dato importanti lezioni di vita. Ci
sono stati molti aspetti dell’educazione religiosa che credo abbiano
fortemente influenzato il mio lavoro nella fotografia, come la
disciplina, il silenzio, la meditazione e l’idea che anche dove le
cose possono essere invisibili, può esserci comunque una
presenza.

Ha abbandonato la religione a favore dell’arte, da un punto di


vista professionale.

La formazione è stata eccellente, ma l'”orientamento professionale”


non faceva per me. Durante la mia adolescenza capii che non
volevo seguire una vita religiosa. Pensavo di essere bravo a
disegnare e a pitturare, così sono andato a studiare presso la
Scuola d’Arte Banbury nell’Oxfordshire. Ma ho capito subito che le
possibilità di affermarmi come pittore, in Inghilterra, erano molto
basse, così decisi di specializzarmi in fotografia al London College
of Printing.

Qui ha iniziato a fotografare il paesaggio?

In realtà mi è stata insegnata prima di tutto la fotografia


commerciale. Poi ho imparato a conoscere il fotogiornalismo, la
fotografia di moda, la fotografia sportiva, la natura morta, la
fotografia di architettura. Quando mi sono laureato, avevo tutti i
mezzi per sopravvivere nel mondo competitivo della fotografia
commerciale. Ho iniziato a fotografare il paesaggio come
personale forma di espressione. In quel periodo non avevo idea di
che cosa potessi e volessi fare della mia vita.

Ha fotografato molti luoghi del pianeta, ha viaggiato senza


sosta per trent’anni per fare una fotografia che definiamo lenta.
Quando capisce di aver trovato il luogo giusto in cui posare il
cavalletto della sua Hasselblad?
Quando fotografo cerco una sorta di risonanza, un collegamento,
cerco di riconoscere una scintilla. Di solito, non preparo in modo
complesso i miei viaggi. Cammino, esploro e fotografo. Non so mai
se resterò in un posto per alcuni minuti, per ore o per giorni.
Avvicinarmi al soggetto da fotografare è per me un po’ come
incontrare una persona e iniziare una conversazione. Come si fa a
sapere in anticipo quale sarà l’oggetto della discussione, quanto
potrà diventare intimo il dialogo, per quanto tempo durerà il
rapporto? I sentimenti possono essere complicati, confusi e
mescolati.

Si fida molto del suo istinto?

Non mi fido mai completamente dei miei sentimenti, o del mio


istinto, quando si tratta di individuare un tema. Piuttosto, mi affido
al tempo, a quel senso di curiosità e a quella pazienza che
consentono all’oggetto di rivelarsi.

Resta sempre stupito dal modo in cui si rivela l’oggetto?

Cerco di non essere affrettato nel giudizio. Ci sono state molte


occasioni in cui sono emerse immagini interessanti da luoghi che
avevo considerato poco interessanti. Ma è successo spesso anche
il contrario. Uno ha bisogno di accettare che accadano le sorprese
e che siano le sorprese a determinare il risultato. Un risultato a
volte superiore a quanto avessi auspicato. Questi sono momenti
eccezionali, in cui mi viene un brivido e i miei capelli sembrano
drizzarsi.

Pensa che ci siano alcuni elementi che determinano questi


momenti?
Questi momenti sublimi avvengono quando luce, materia, punto di
vista personale ed eccellenza tecnica si combinano in una
equazione che produce quello che possiamo definire un
capolavoro. Si tratta di un evento raro nella mia esperienza, e
l’immagine che nasce da questo momento magico spesso risulta
inferiore alle mie aspettative. Per questi motivi, ho poca fiducia nel
prevedere una fotografia. Preferisco seguire la filosofia di Garry
Winogrand, ovvero fotografare per vedere come una certa cosa
appare quando viene fotografata.

Le sue fotografie, più del tipo di paesaggio, del bianco e nero e


di tutte le altre caratteristiche oggettive, ci permettono di
percepire il silenzio.

Nel mio lavoro cerco di presentare un’oasi di calma e di solitudine


che gli spettatori possano per lo meno intravedere. All’inizio delle
mie esplorazioni fotografiche preferivo fotografare all’alba perché
c’erano meno persone in giro, e non c’era rumore nell’aria. La luce
del mattino è spesso morbida e diffusa. Continuo a preferire le ore
dell’alba più di qualsiasi altro momento, anche se ora fotografo a
tutte le ore del giorno e della notte. Il nostro mondo è veloce,
colorato, pieno di distrazioni e, troppo spesso, molto rumoroso.
Cerco di creare ordine dal caos, e spesso cerco il silenzio come
una fuga dal rumore di fondo costante del mondo.

Alla fine degli anni ’70, dall’Inghilterra, lei è andato a San


Francisco nello studio Ruth Bernhard, dove si è dedicato alla
stampa fotografica.

Sono stato molto fortunato ad incontrare Ruth Bernhard nel 1978.


Aveva appena firmato un contratto di esclusiva con la Stephen
White Gallery di Los Angeles, per cui doveva produrre molte
stampe per un periodo di due anni. Sfortunatamente, Ruth poco
tempo prima era stata avvelenata dal monossido di carbonio e non
si sentiva in grado di realizzare queste stampe. Avevo appena
cominciato a collaborare con la stessa galleria e Stephen mi ha
chiesto se mi poteva interessare aiutare Ruth. È stata una
splendida opportunità per me.

È un bagaglio di competenze che si porta dietro ogni giorno.

I miei dieci anni di lavoro con Ruth Bernhard sono stati impagabili.
Non riesco a sottolineare abbastanza la sua influenza sulla mia vita
e sul mio lavoro. Prima di lavorare con Ruth, pensavo di essere un
buon stampatore fotografico, avevo stampato il mio lavoro e quello
di un certo numero di fotografi, sia a colori che in bianco e nero.
Tuttavia, Ruth mi ha trasmesso idee del tutto nuove sul processo di
stampa. Il suo principio fondamentale è che il negativo è il punto di
partenza. In quella camera oscura tutto poteva essere lavorato e
trasformato, si poteva ridurre la messa a fuoco per creare
un’uniformità dei toni, creare maschere per bruciare alcune zone
della foto, utilizzare diverse sostanze chimiche per modificare il
contrasto o il colore delle immagini. Ruth si rifiutava di credere che
l’impossibile non fosse possibile, e mi ha insegnato che non
esistono regole che non possano essere eliminate. Questo
abbiamo fatto per lunghe notti nella sua camera oscura.

Ancora una volta, sottolinea il fatto di avere avuto insegnanti


eccellenti.

Ruth diceva spesso che considerava il suo ruolo di insegnante di


gran lunga molto più importante del suo ruolo di fotografa. Io ero
un giovane fotografo che cercava di muoversi in quel mondo
strano e spesso sconcertante delle gallerie d’arte, degli editori e
degli agenti commerciali. Ruth era un faro per me. “Today is the
day” è stato il suo mantra, e la sua determinazione nel vivere il
presente, per apprezzare ogni momento, per dire sempre sì alla
vita, ha lasciato un’impressione indelebile su di me. Rimango in
debito con la sua gentilezza e la sua saggezza.

Il fatto che lei sia cresciuto in una zona industriale


dell’Inghilterra pensa che abbia influenzato il suo modo di
guardare il paesaggio?

Penso che essere cresciuto a Widnes, una città industriale, abbia


influenzato molto il mio lavoro. Ho fotografato l’industria per quasi
tutta la mia carriera, comprese le fabbriche di cotone e di lana di
Lancashire nello Yorkshire, le centrali elettriche nelle Midlands in
Scozia, l’impianto Rouge Steel a Detroit nel Michigan, e le
fabbriche di Calais in Francia. L’industria fa parte del nostro
paesaggio contemporaneo e ne sono sempre stato attratto.

L’industria è il tema del suo prossimo libro che uscirà in


autunno.

Il mio prossimo libro, che sarà pubblicato da Prestel il prossimo


autunno, sarà intitolato Rouge e si baserà sul lavoro che ho fatto
negli anni ’90 alla Ford Motor Plant a Dearborn, Michigan.
I dipinti e le fotografie di Charles Sheeler sono stati i principali
punti di riferimento per questo progetto. All’inizio degli anni ’90 ero
rappresentato a Detroit dalla Halsted Gallery e, tramite contatti, mi
è stato presentato un impiegato in pensione della Ford, Lee Kollins,
che gentilmente mi ha fatto fare un tour nelle strutture Rouge. Mi
ricordo che in un primo momento non ero molto interessato e non
ne vedevo il potenziale per realizzare un lavoro fotografico. Scattai
alcune foto e, come spesso accade, guardando i risultati mi sono
reso conto degli errori che avevo commesso. Sono tornato a
fotografare la Rouge poco dopo e ho continuato a fotografarla nel
corso dei successivi tre anni, di giorno e di notte. Da qui è nato il
libro.

Ha sempre fotografato il paesaggio in bianco e nero?

Da studente ho sperimentato il colore. Poi, come professionista, ho


fotografato a colori per una serie di progetti commerciali e per
qualche progetto personale. Tuttavia, sento che le fotografie in
bianco e nero sono generalmente più tranquille e misteriose di
quelle a colori. Per me, il bianco e nero ispira l’immaginazione dello
spettatore e lo porta a completare il quadro con l’immaginazione. Il
bianco e nero non cerca di competere con il mondo esterno. E
credo che persista più a lungo nella nostra memoria visiva. Dopo
tutto, vediamo il colore per tutto il nostro tempo. Il bianco e nero è
quindi un’interpretazione del mondo, piuttosto che una copia di ciò
che vediamo.

Lei è un fotografo che lavora esclusivamente in analogico e


stampa nella propria camera oscura.

Sono ancora al cento per cento analogico. Uso macchine


fotografiche analogiche e insisto nel realizzare tutte le stampe nella
mia camera oscura. Detto questo, credo che ogni fotografo, ogni
artista, dovrebbe scegliere i materiali e le attrezzature in base alla
propria visione personale. Non credo che l’analogico sia migliore
del digitale, o viceversa. Sono cose diverse, e io preferisco
continuare con il processo tradizionale ai sali d’argento. Non ho il
bisogno o il desiderio di una gratificazione immediata nella
fotografia, è il lungo e lento viaggio verso la stampa finale che mi
affascina. Continuo a preferire i limiti, le imperfezioni e
l’imprevedibilità del mondo analogico.
Perché sceglie di stampare i suoi paesaggi così aperti in
formato medio o piccolo, in un formato così intimo?

Ho sperimentato alcune volte il grande formato, per una serie di


progetti, ma per la maggior parte dei miei lavori preferisco una
stampa più intima, piccola e preziosa. I nostri occhi vedono in un
campo visuale di 35 gradi, preferisco quindi che le persone
osservino le mie foto da vicino, per creare più intimità tra la mia
stampa e l’osservatore. Stampo così dagli anni ’70 e mi sembra
che questo formato rappresenti la mia idea.

Parliamo della solitudine, un altro elemento della sua


fotografia. Un grande autore italiano ha detto che “la solitudine
è importante, ti permette di entrare in contatto con l’ambiente
circostante. E l’ambiente circostante non è fatto solo di esseri
umani”.

Sono d’accordo e preferisco essere in grado di ascoltare ciò che


mi circonda quando lavoro seriamente. Credo che l’atto di
fotografare sia abbastanza simile ad una conversazione. Se
fotografo un albero, per esempio, chiedo consapevolmente il
permesso all’albero di fare un ritratto, e a quel punto abbiamo una
conversazione. Si tratta di un’esperienza condivisa e l’immagine
risultante è una collaborazione.

Per questo le piace la solitudine?

Su un piano più filosofico, arriviamo soli in questo mondo e lo


lasciamo soli. Credo che sia incredibilmente importante stare bene
con la nostra solitudine. Gran parte del mio lavoro riguarda la
presenza dell’assenza. Raramente ho inserito delle persone nelle
mie fotografie, ciò che voglio è che lo spettatore immagini di
trovarsi da solo in questi spazi vuoti. Spesso utilizzo l’analogia con
il teatro. Preferisco fotografare il palco prima della comparsa degli
attori o dopo che l’hanno lasciato, quando c’è una forte atmosfera
di attesa. Mi piace pensare alle mie immagini come inviti ad
entrare nella tranquillità, negli spazi vuoti e a sperimentare la
solitudine. Nel mondo d’oggi, così affollato e caotico, a volte, non è
una cosa facile da realizzare. E può anche risultare anche molto
scomodo. Tuttavia, credo che sia estremamente importante dare
alle nostre menti il tempo e lo spazio per muoversi liberamente e
per esplorare.

Ho letto che ama correre, e che mentre la corsa sulle lunghe


distanze le permette di lavorare sul corpo, le lunghe
esposizioni fotografiche le permettono di lavorare sulla mente.

Mi piace correre e ho appena completato la mia 55ma maratona di


26,2 miglia. Per me si tratta di una forma di meditazione e mi tiene
in condizione fisica decente, che è molto importante per un
fotografo del paesaggio che spesso deve percorrere lunghi tratti
con uno zaino pesante e il treppiede. Un effetto collaterale
benefico della corsa su lunghe distanze è la possibilità di utilizzare
liberamente la nostra immaginazione. Nel corso di un lungo
percorso ho spesso inconsciamente pensato a soluzioni creative
riguardo i problemi che dovevo risolvere. Ad un livello più pratico,
ho scoperto molti bei luoghi durante la corsa, che sono poi tornato
a fotografare in seguito.

Esiste un’associazione americana, The Long Now Foundation,


che propone di ragionare su un orizzonte di diecimila anni,
anziché sui settanta – ottanta anni della nostra vita. Questo ci
consentirebbe di avere un diverso tipo di prospettiva su tutto
ciò che pensiamo e che produciamo. Se chiude gli occhi e non
pensa al quotidiano, quale è il suo orizzonte temporale?
Una volta ho fatto un sogno in cui ero un castagno gigante. Mi
sembrava di vivere attraverso i secoli. Guardavo in basso e
osservavo generazioni di persone, individui e famiglie, andare
avanti nella loro breve vita. Le nostre continue storie umane –
spesso viste attraverso i prismi soggettivi della commedia o della
tragedia – sembravano assumere una luce completamente diversa
se viste da questa nuova prospettiva. Quando mi sono svegliato,
ero una persona diversa. Il mio comportamento nei confronti del
tempo era profondamente cambiato e il mio rispetto per questi
bellissimi alberi, queste sentinelle di esperienza, è aumentato
notevolmente.

Ma Ruth Bernhard le ha insegnato a vivere il presente, vivere la


nostra vita, non la vita del castagno.

Sì, sento che, in ultima analisi, sia più importante pensare al


presente. Voglio sfruttare al meglio tutto il tempo che ho in questa
vita. Davvero, non voglio perdere un secondo. Non riesco a
capacitarmi che il prossimo novembre avrò sessantatre anni. Dove
sono finiti tutti questi anni? La vita è preziosa e fugace. Certamente
guardo al futuro e a volte lancio un’occhiata al passato, anche se
non c’è niente che io possa cambiare, ma il presente è ciò che mi
interessa di più.
Duane Michals: 

tutti i fotografi mentono
continuamente


Duane, hai iniziato a fotografare negli anni in cui Robert Frank
documentava l’America, Richard Avedon faceva rigorosi ritratti
in studio e tutto il mondo celebrava l’istante decisivo di Cartier-
Bresson. Come sono entrate in tutto questo le tue sequenze
fotografiche?

A metà degli anni ’60, il paradigma della fotografia era esattamente


quello che tu hai descritto. Potevi essere Robert Frank, Cartier-
Bresson, Ansel Adams, ma il fotografo era essenzialmente
qualcuno che fotografava la realtà. Non ho mai frequentato una
scuola di fotografia, e non sono nemmeno mai stato un fotografo
amatoriale, così quando sono diventato un fotografo non ero
interessato a diventare un altro Robert Frank, anche se pensavo
che lui fosse un genio. Sono sempre stato interessato alla lettura, al
racconto delle storie, e ho capito che c’era una differenza
sostanziale tra fare il reporter per un giornale e scrivere un
romanzo. Il giornalista deve documentare i fatti, mentre il mio caso
è simile a quello di uno scrittore che inventa storie, non che riporta
storie.

Nella tua mostra in Italia, al SI Fest di Savignano, c’è una


fotografia che sintetizza ciò che da sempre i fotografi tentano
di spiegare in centinaia di scritti, conferenze, interviste. Il titolo
della fotografia è “Self portrait as someone else” e compaiono
due persone, tu che fotografi e il soggetto. Insomma, ogni
ritratto è il ritratto di se stessi e, d’altra parte, un autoritratto
può realizzarsi tramite un’altra persona.

Ho fatto quella fotografia molti anni fa. Sono sempre stato


affascinato dalla ricerca dell’identità, non tanto per quanto riguarda
la superficie come poteva essere per Cindy Sherman attraverso i
vestiti, ma in un senso più psicologico per capire chi siamo come
uomini, come donne. Ci sono molte possibilità per presentare la
mia persona, ed una di queste è attraverso un’altra persona. È
molto complicato spiegare questa relazione.

Hai sempre ragionato sul ritratto. Dopo tutti questi anni, sei
arrivato ad una conclusione o il tuo pensiero è sempre in
evoluzione?

Ho scritto molto sul ritratto. Ho sempre avuto problemi con quello


tradizionale e non capisco perché le persone, per realizzare un
ritratto, devono documentare il volto. Ci sono due tipi di ritratti: lo
“stand portrait”, in cui il soggetto guarda in macchina e viene
documentato il suo volto, e il “prose portrait”, in cui non è
necessario fare una scansione del viso, e questo ritratto ti racconta
la storia delle persona che stai fotografando. Magritte realizzava
dei “prose portraits”, perché niente era rappresentato come
appariva, ma ognuno di noi riusciva ad entrare in ciò che questi
soggetti facevano, nella loro natura.

Un ritratto nasce sempre dal volto?

No. Per il New York Times ho fatto un auto ritratto in cui ero di
spalle, veniva inquadrata la mia testa mentre leggevo un libro, e
nel libro stavo scrivendo “I think about thinking”. Il punto è che io
passo gran parte del tempo a leggere e a pensare a ciò che sto
leggendo, e questo è più realistico di un auto ritratto che mostra la
grandezza del mio naso o il colore dei miei occhi. A chi importa
quale è il mio aspetto? Importa di più sapere come funziona la mia
mente e dove arriva la mia immaginazione.

C’è voluto molto coraggio per passare dagli incarichi per le


aziende, dall’advertising, ad una ricerca personale così
profonda. Tra l’altro, in un periodo in cui non c’erano tutte
queste gallerie che si occupavano di fotografia; la fotografia
era estranea al mercato dell’arte.

Esatto. Quando ho iniziato le mie ricerche, c’erano poche gallerie


d’arte che si occupavano di fotografia ed erano tutte underground.
Io facevo advertising per Life e altri magazine. Ho iniziato a fare
cose che mi interessavano ed è stato molto interessante portare la
fotografia nelle gallerie perché in quel contesto, in quel mercato, la
fotografia era una forma d’arte più democratica.

Non hai mai smesso di fare lavori commerciali.

Assolutamente no, l’ho fatto ancora per molti anni. Io mi sono


divertito molto a fare advertising, non c’è mai stato un conflitto con
i miei lavori privati. Ma non avevo uno studio, non volevo
trasformare la fotografia in un grande business, non ho mai voluto
lavorare come Richard Avedon, non ho mai voluto avere venti
assistenti. Ho sempre amato lavorare in piccoli ambienti, più intimi,
non trasformare il mio mestiere in una industria. Ed è così che ho
fatto, giorno dopo giorno.

Non avevi uno studio e così hai portato i tuoi soggetti fuori, in
strada. Molte scelte stilistiche nascono da esigenze pratiche.

Mi ha sempre annoiato lavorare in studio, di fronte a fondali di


carta. Ho sempre cercato di trovare location e di pensare a come
inserire il soggetto nell’ambiente circostante. È sempre stata la mia
sfida.

Hai bisogno di molto tempo per sintetizzare i tuoi pensieri, i


tuoi ragionamenti, in una fotografia?

No, è sempre stato molto istantaneo. Ho sempre scattato di istinto,


ho un grande intuito nel quale ho sempre avuto fiducia. Fare foto,
per me, è sempre stato molto automatico.

Perché quando parliamo di fotografia il focus è sempre sulla


“verità”?

Si spera che sia sulla “verità”. I fotografi di Donald Trump mentono


continuamente, i fotografi di moda mentono continuamente, tutti i
fotografi mentono continuamente. Chi fa fotografia di
documentazione ha sempre un proprio punto di vista sul disastro
che sta fotografando. La verità è sempre il soggetto più
importante, ma è il soggetto più difficile.

Aggiungi alle tue immagini i testi, la grafica, la pittura. Non


riesci a sintetizzare con il solo utilizzo della tecnica
fotografica?

Dicevamo che i fotografi mentono sempre. La parola chiave del


mio lavoro non è “fotografia” ma “espressione”. Come posso
esprimere me stesso, le mie idee? Posso mostrarti la fotografia di
una donna bellissima, ma come posso dirti se è una bugiarda, se è
una madre… che cosa può mostrarti il volto di qualcuno? Dove la
fotografia non arriva, devo scrivere, devo intervenire con altri
mezzi.
Per molti fotografi è stato semplice definire se stessi tramite il
proprio campo di interesse, il proprio settore. Per te è più
complesso, non riesci a definirti tramite ciò che fai.

È complicato, perché io ho sempre cercato di esprimere il


sentimento più che il fatto. Se scatti fotografie di una
manifestazione, ci saranno persone con le bandiere, altre che
sorridono, altre che avranno difficoltà a muoversi nella folla. Tutto
questo puoi documentarlo. Ma come puoi esprimere, per esempio,
l’amore? O la tristezza? Se muore qualcuno che ami, come lo
rappresenti? Attraverso il pianto di chi resta o l’assenza? La
tristezza è pressoché impossibile da rappresentare e io ho sempre
cercato i modi per rappresentare questo tipo di sentimenti.

Pensi di essere sempre stato compreso?

Il potere della fotografia è che rende le cose più semplici e


accessibili. C’è una mia fotografia in cui ci sono un uomo e una
donna su un letto e sotto ho scritto “c’è stato un tempo in cui
eravamo vicini, in cui ci amavamo ancora”. Quando mostro questa
fotografia, tutti possono comprendere quanto queste persone
siano state importanti l’uno per l’altra, e che questa relazione è
ormai finita. Io ho sempre sperato di rintracciare i sentimenti più
complessi e di renderli il più semplice possibile, su più livelli, non
solamente grafici, ma anche emozionali e psicologici.

Sei mai stato interessato a cambiare la nostra opinione del


mondo?

No, non ho mai voluto cambiare nulla. Ho realizzato, specialmente


ora che ho ottantaquattro anni, che quello che ho sempre voluto
fare è dire a voce alta “this is what I felt, this is what I thought”.
Questo è tutto.
Ho letto che sei orgoglioso di non avere mai studiato fotografia.

Oh certo! Gli insegnanti ti insegnano le regole, ti dicono: così si


fanno le fotografie, questi sono gli angoli, queste le linee, questo è
il modo migliore di guardare. Altri ti insegnano la storia della
fotografia. Ma tu devi dimenticare chi è Robert Frank, devi
dimenticare chi è Diane Arbus, devi prima scoprire chi sei tu. E il
modo migliore per scoprirlo è tuffarti in acqua e imparare a
nuotare.

New York e l’America continuano ad ispirarti?

Non sono mai stato uno di quei fotografi che sentono il bisogno di
attraversare l’America per trovare ispirazione. Ho fotografato New
York una sola volta, era quasi deserta e mi ha ispirato. Per quasi
tutti i fotografi americani, fotografare l’America è stato un
passaggio obbligato, seguendo la strada di Robert Frank. Per me
New York è stato il luogo della mia ispirazione, non la fonte della
mia ispirazione.

Ma da giovane ti sei spostato da Pittsburgh a New York perché


non era possibile fare arte in quella città industriale.

Sì, è vero. In ogni luogo, c’è una grande città in cui i talenti vanno
per scoprire il mondo. C’è stata Parigi, c’è stata Londra, c’è stata
New York. Sono città in cui andare per sviluppare la propria vita,
per scoprire la propria poesia. Questo è il motivo per cui sono
andato a New York, perché a New York tutto era possibile, a
Pittsburgh nulla era possibile.

Oltre alla scelta di andare a New York, ci sono stati altri


momenti chiave della tua vita?
Ci sono state esperienze interessanti che sono state anche terribili.
Sono stato due anni nell’esercito durante la guerra di Corea,
questa è stata l’esperienza peggiore. L’esperienza migliore è stata
andare in Russia quando avevo venticinque anni ed è stato
durante quel viaggio che ho scoperto la fotografia.

Oggi le tue sequenze fotografiche potrebbero essere ricreate


con il computer, per esempio. Sei interessato a questo
argomento?

Certo. Non sono uno snob. Ho naturalmente sempre usato la


pellicola ma da qualche anno ho una fotocamera digitale, e amo
questo mezzo. Rende tutto più semplice, più immediato. Amo
l’idea di creare con il computer.

Sei mai stato competitivo con qualcuno nel mondo?

In fotografia?

Sì, nel tuo mestiere.

No, e ti spiego perché. Nessun altro fa quello che faccio io. Ho


letto molti libri, ho suonato varie melodie in modi sempre diversi. Ci
sono molti ritrattisti, molti fotografi di reportage, ma solo io
appartengo alla mia categoria. Ovviamente, sono sempre stato
competitivo con me stesso, cerco risposte sempre migliori alle mie
domande più private.
Efrem Raimondi: 

la fotografia non ha a che
fare con la democrazia


Efrem, dici di essere trasversale ma non eclettico, inattuale e
non contemporaneo. Che cosa sei?

Non ne ho la più pallida idea. Mi preoccupo da sempre di una sola


cosa: fare fotografia. E le fotografie per me sono uno strumento,
non un fine.

Sei riconosciuto come ritrattista.

È una definizione che mi sta un po’ stretta.

Sì, ma dobbiamo pur partire da qualcosa. Per una parte del tuo
percorso hai fotografato personaggi molto noti. Hai mai avuto
la sensazione che stessi fotografando una serie di nomi più
che di persone?

Diciamo anche famosi, non è così grave… Mai. Tieni presente una
cosa: ho fotografato Pupo. Questo è un punto fondamentale per
chi fa fotografia di ritratto. Quando ritrai, stai ritraendo te stesso.
Ma siccome può capitare che quel personaggio, così come altri,
non ti riguardi da un punto di vista musicale o culturale, non puoi
pensare di fotografarlo in modo diverso, con sufficienza o con
distanza. Il ritratto è un percorso complesso che ha che fare con
un fatto determinante: il vero soggetto è l’autore, non la persona
che hai davanti. Ed è la tua faccia che mostri, la firma è la tua: il
nome della persona che hai davanti è solo un dettaglio.

Il ritratto, nonostante spesso rientri tra i lavori commerciali, è


un momento di forte ricerca per l’autore.

Assolutamente sì. A volte si semplifica e si parla troppo di genere,


ma la fotografia di ritratto è fotografia pura, e non ha nulla a che
vedere con la riconoscibilità del soggetto. Si ha la tendenza,
quando si guarda un’immagine, di individuare al suo interno un
soggetto e di concentrarsi su quello. Ma il soggetto è la fotografia
in tutto il suo insieme, tutto ciò che sta all’interno di quel perimetro
è il soggetto. Per questo non ha alcuna importanza che si tratti di
una persona più o meno nota, non ha alcuna importanza il nome di
quella persona. Tra l’altro, non distinguo tra commerciale e chissà
cos’altro: a me interessa la cifra espressiva dell’autore, la potenza
dell’immagine. Non la destinazione d’uso.

Hai mai fatto un ritratto senza partire dal volto?

Spesso. Ho messo Philippe Starck sotto il pluriball, per esempio.


Quella è una fotografia fatta a Parigi negli anni ’90. Era un servizio
su una chaise longue che aveva disegnato e a me venne l’impulso
di impacchettarlo e di prepararlo per essere spedito.

Le fotografie che vanno in pagina sulle riviste sono quelle


scelte, perfette e finite?

Se intendiamo le pagine dei magazine, si deve tenere conto della


gabbia e della struttura grafica. Della carta e di altri fattori legati al
medium. Paradossalmente c’era molto più rispetto per la fotografia
e il suo autore quando le riviste contavano davvero. Adesso è
quasi un terno al lotto.
Quanto al concetto di perfezione in generale: il linguaggio è
imperfetto. Se fosse perfetto, avremmo sempre lo stesso risultato
indipendentemente da chi è l’autore. La perfezione non esiste,
esiste invece un percorso che ti riguarda e che riesci a declinare
nelle varie circostanze che affronti.

E tu credi che ai lettori arrivi sempre il tuo pensiero o pensi che


ci sia una distanza tra ciò che tu hai progettato e ciò che noi
comprendiamo?

Non mi interessa assolutamente nulla di come viene recepita la


fotografia che faccio. Mi interessa produrre una fotografia che mi
riguarda e con la quale è mia intenzione coincidere. Il lettore può
leggere cose differenti e questo non mi crea alcun problema. Ma
mi interessa una cosa: all’interno di una fotografia esiste un
elemento che riconduce all’autore? A me interessa che i percorsi
tracciati dalle mie singole fotografie riconducano ad una cifra
espressiva riconoscibile.

So che una volta hai fatto un gioco con un libro di Avedon.

Sì, Avedon, un’autobiografia. Didascalia e icona di ogni soggetto


stampata alla fine del volume, non sulle singole pagine. Sfogliando
il libro, cercai di intuire il nome del soggetto ritratto senza guardare
le didascalie in fondo. E mi è capitato di indovinarne parecchi, pur
non avendoli mai visti prima. Non so dire che cosa ci fosse in
quelle fotografie ma, se sai leggere e se sei figlio di questo mondo,
ovvero anagraficamente contemporaneo, riesci ad intercettare
alcuni elementi in modo preciso. Resta che non so darmi una
spiegazione.

Un fotografo si occupa del mondo contemporaneo o della


propria storia?
Parlo del mio caso. La fotografia mi permette di poter raccontare,
attraverso i soggetti, la mia storia. Esiste una indubbia
autoreferenzialità.

Autoreferenzialità non è una parola negativa?

Non necessariamente.

Resta il fatto che il fotografo deve avere un’opinione sul


mondo, una propria visione.

Oggi più che in qualsiasi altro periodo, il fotografo deve avere una
visione del mondo. Non deve necessariamente pronunciarsi dal
punto di vista politico o sociale, la contemporaneità non è la lettura
dell’attualità, ma una visione del mondo devi averla. Se sei un
fotografo non puoi sottovalutare alcune cose. Non devi sventolare
una bandiera, ma io devo riconoscere il tuo sguardo sul mondo.

C’è un grosso equivoco sulla parola contemporaneità. Essere


contemporaneo non significa occuparsi dei fatti in agenda.

Se hai una visione di questo tipo, sei fregato.

È normale che un giornale chieda in modo esplicito, ai propri


lettori, di mandare le foto di un fatto di cronaca?

Il vero differenziale non è il cosa fotografi, ma il come lo fotografi. E


quindi non è normale che i periodici o i quotidiani cerchino, per un
puro fatto economico, di utilizzare la rete per ottenere immagini.
Credo che oggi il reportage abbia senso se diventa qualcosa di
più intimista, e se è in grado di raccontare più il fotografo che non
ciò che è accaduto, anche perché quello che è accaduto lo sanno
già tutti.

Il reportage, il fotogiornalismo, possono finalmente interpretare


una verità?

Possiamo parlare ancora una volta, dopo anni, del miliziano di


Capa. Per quel che mi riguarda, non ha alcuna importanza se
quella fotografia è la cronaca dell’uccisione del miliziano.
L’equivoco è che, in qualche modo, si pensa che il fotografo che si
occupa di reportage si misuri con la verità. Questo è falso, perché
non si misura mai con la verità assoluta, si misura con una verità
relativa. È molto probabile che Robert Capa abbia visto decine di
volte quella scena senza mai fotografarla. Può essere quindi che
quella foto nasca da un percorso reale, e che sia un’icona in grado
di esemplificare molto bene che cosa è la guerra. Non sarà una
“foto vera” ma è veritiera.

Torniamo in qualche modo alla seconda domanda di questa


intervista. Qualche settimana fa, sul tuo blog hai scritto una
lista dei personaggi che avresti voluto fotografare. L’attenzione
non cadeva sui nomi, ma su un lungo elenco di motivazioni
personali e culturali.

Quella lista contiene tutte persone impossibili da fotografare


perché ormai sono morte. Ma ognuna di loro ha, in vari modi,
influenzato il mio percorso. Sono dei desiderata un po’ particolari.
In quella lista c’è tutta la potenza espressiva che, sotto varie forme,
ogni giorno mi riguarda.

Di un fotografo ti interessa la biografia o l’opera?


Non mi interessa la biografia dei fotografi, così come quella di
chiunque altro. A volte può essere una conferma, a volte una
smentita, ma in tutti i casi la biografia viene dopo. Quello che vedo
e che mi importa è ciò che ognuna di queste persone ha prodotto.
Parlavamo delle celebrities, non è il numero delle persone che hai
ritratto che determina il tuo peso specifico, è come hai fotografato
queste persone.

La fotografia è democratica, c’è spazio per tutti?

No. È pura demagogia pensare che la fotografia abbia a che fare


con la democrazia. La fotografia è arbitraria, e l’arbitrio è
determinato soltanto dall’autore. È stata sostituita la parola
massificazione con la parola democrazia, in realtà è soltanto un
paravento di chi ha interesse a dire che la fotografia è
democratica, perché chiunque possa produrre fotografie e quindi
chiunque possa utilizzarle. Senza alcun peso specifico né criterio:
un blob informe.
Il fatto che il mezzo, lo strumento ottico sia diventato uno oggetto
domestico al pari di un frullatore, non significa che si frulli tutti allo
stesso modo.

L’altro equivoco è pensare che in fotografia non esistano


confini, che si possa lavorare su un tema libero ed ottenere
buoni risultati.

I confini e la committenza sono un elemento fondamentale perché


ti permettono di elaborare un tuo percorso all’interno di una serie di
paletti che ti portano a crescere. I confini sono indispensabili per
focalizzare il tuo percorso. L’editoria periodica ha avuto per anni
questa funzione, finché non è andata in crisi. Serviva a dare dei
confini al percorso di un fotografo, e questo gli permetteva di
esprimere al meglio il proprio pensiero. È attraverso gli assignment
che ho elaborato un percorso ed una cifra espressiva.

Condividiamo molto, tu stesso condividi molto del tuo lavoro in


rete. È importante tenere qualcosa in archivio e non mostrarlo
nell’immediato?

Per alcuni può essere importante, può essere una necessità


all’interno di un progetto. Io non amo i fotografi che si risparmiano,
non amo la fotografia che si risparmia. Apprezzo chi mette sul
tavolo tutto ciò che ha da dare. In definitiva, direi che uno può fare
esattamente ciò che vuole.

E ognuno è anche libero di fotografare ciò che vuole?

La risposta è assolutamente sì, ma chiarisco. Esistono le fotografie,


che sono quelle robe bidimensionali alla portata di chiunque e
ognuno ne faccia l’uso che ritiene. Poi c’è la Fotografia, bella
maiuscola, che usa le fotografie come strumento per esprimere
con precisione sé stessa. Cioè la visione dell’autore. Che non è
necessariamente maiuscolo… autore è chiunque affronta
coscientemente il piano fotografico. Per esprimere la propria
visione. Perché la Fotografia non si occupa del visibile, ma
dell’invisibile alla tua portata: lo vedi o no? Se vedi, restituisci.
Questo fa un fotografo, per me.

Sei competitivo?

La fotografia non si misura in termini competitivi. Penso che


partecipare ad un contest o a qualsiasi altra forma di gara che
preveda un vincitore sia un atteggiamento suicida. La fotografia
non è una sfida con gli altri, semmai è una sfida con te stesso, e la
sfida è essere sempre più preciso rispetto al tuo intento
espressivo. Quanto più c’è precisione tra ciò che volevi dire e ciò
che hai detto, tanto più questo fa di te un autore. A volte anche
maiuscolo.
Olivo Barbieri:
un’immagine è una
fotografia che ce l’ha fatta


Olivo Barbieri, lei ha detto che non è mai stato interessato alla
fotografia, che è interessato alle immagini. E che il suo lavoro
inizia dove finisce la fotografia. Perché sposta l’attenzione da
fotografia a immagine?

La definizione di un famoso linguista tedesco: “una lingua è un


dialetto che ce l’ha fatta” potrebbe aiutarci a districarci nel mare di
stimoli visivi in cui navighiamo: un’immagine è una fotografia che
ce l’ha fatta.

Il suo lavoro è più attinente alla rappresentazione della realtà di


quanto non sembri. La messa a fuoco selettiva è ciò che
l’uomo fa ogni istante. È così?

Le immagini non sono diverse dalle parole, dobbiamo però


imparare a leggerle. La messa a fuoco selettiva è la riga che
stiamo leggendo o la riga che indichiamo debba essere letta per
capire la meccanica del racconto dell’immagine.

Selezionare porzioni del mondo significa semplificare?

No, se queste porzioni di immagini del mondo vengono messe in


dialogo. Possibilmente creando relazioni inedite per costruire nuovi
racconti o scenari.
Lei dice spesso che ha ammirato Man Ray e Andy Warhol: per
entrambi la fotografia è stata una tecnica scelta tra le altre, la
più adatta, la più contemporanea. È stato così anche per lei?

Man Ray e Andy Warhol mi interessavano perché realizzavano


immagini con strumenti meccanici. La fotografia può essere l’arte
concettuale perfetta, senza necessariamente eliminare
l’iconografia.

Quali autori contemporanei la interessano?

Tra gli autori viventi, William Eggleston, Peter Doig, David Lynch.

Quando ha iniziato la sua ricerca fotografica, il mondo della


fotografia era legato al reportage, alla documentazione, a
concetti come l’istante decisivo. All’inizio, immagino sia stato
difficile, si sentiva estraneo a quell’approccio?

Non ho mai considerato la fotografia come un punto di arrivo, ma


le immagini. Diciamo che ho navigato in mari paralleli. Avevo come
autori di riferimento Gertrude Stein e William S. Burroughs, Claude
Lévi-Strauss e Marshall McLuhan.

L’elicottero e le riprese dall’alto, quando sono arrivate, che


cosa hanno aggiunto al suo lavoro?

L’elicottero permette di non avere un punto di vista fisso obbligato.


Permette di ragionare sull’immagine del mondo senza sentire i
rumori, le voci.

Al SIFest di Savignano presenta oggi Adriatic Sea (staged)


Dancing People 2015. Un lavoro dall’alto, con presenza umana
che interagisce e un importante lavoro sul colore. Che cosa le
interessava capire volando in elicottero lungo la costa
adriatica?

ADRIATIC SEA (STAGED) DANCING PEOPLE 2015, ha per


soggetto la veridicità del ricordo. Paradossalmente il ricordo è
l’unica verità obiettiva che abbiamo. In queste immagini tutto è
vero, il paesaggio, le coreografie e le persone sono reali. Il blu è il
blu paradigmatico che vediamo nella nostra mente quando
ricordiamo un giorno trascorso al mare. Le danze organizzate sulla
battigia sono una manifestazione del genius loci di questi luoghi. A
Rimini e in tutta la Romagna il ballo popolare (liscio) è
estremamente condiviso e storicamente apprezzato sia dalle
vecchie che dalle nuove generazioni. Le grandi discoteche si
stagliano ancora come cattedrali nel deserto. La danza è un rito
liberatorio nel blu del mare, come in un quadro di Matisse. Forse
per rimuovere o dimenticare le spaventose immagini degli
innumerevoli sbarchi mortali in tutta l’area del Mediterraneo.

Che cosa la affascina del mare?

Il colore, il viaggio.

Massimo Vitali dice: mi interessa vedere che cosa fa la gente.


Anche a lei interessano le persone?

Le persone passano e le città rimangono. Per capire la gente


credo sia importante esaminarne le azioni. Perché a Shanghai c’è
Shanghai e a Roma c’è Roma? In che modo e perché, al di là delle
ovvie contingenze economiche, il pensiero delle persone ha dato
quella forma alle città, agli oggetti, ai luoghi.

Il “gioco”, inteso come interazione tra le persone, è stata una


componente importante del suo lavoro sull’Adriatico?
Mi ha colpito la coordinazione spontanea di questi gruppi
apparentemente gioiosi. Fanno tutti più o meno la stessa cosa alla
stessa ora, come se rispondessero ad un orologio biologico.

Le città sono state un soggetto che ha fotografato a lungo e


che continua ancora oggi a fotografare. Nell’ambiente urbano,
che cosa cerca?

Cerco di capire la forma delle città e delle metropoli.

Lei ha bisogno di tempo per fotografare?

Devo dire che, risolto il non semplice enigma di che cosa


fotografare e come fotografarlo, mi serve molto tempo dopo le
riprese, per scegliere le immagini.

Nino Migliori: 

scattiamo una fotografia
quando incontriamo e
riconosciamo noi stessi
Nino Migliori, lei è sempre stato un interprete. Possiamo dire
che le cose del mondo diventano fotografia quando incontrano
la sua cultura, ciò che ha visto, ciò che ha letto, ciò che ha
ascoltato?

Sì, è proprio così. Ognuno di noi interpreta la realtà attraverso la


propria cultura che è, come spesso mi piace citare, ciò che rimane
quando si è dimenticato tutto. Quando si fotografa si sceglie una
porzione di mondo che già ci appartiene e che viene letta
attraverso il filtro di ciò che ognuno di noi è. In altre parole si può
dire che scattiamo una fotografia quando incontriamo e
riconosciamo noi stessi.

L’interpretazione della realtà ha una vita più lunga, e forse una


portata più universale, rispetto alla documentazione?

Non credo nella documentazione asettica e al di sopra delle parti.


È sempre una lettura personale, è una rappresentazione e come
tale risente di chi ha impostato la scena. È una querelle decennale
che si accende soprattutto quando si parla di fotogiornalismo e per
usare termini quasi obsoleti è come dire “visto da destra e visto da
sinistra”.
Già nel 1978 con il lavoro Segnificazione sostenevo e dimostravo
che l’intervento del fotografo è pesante e fondante nella
esecuzione dell’oggetto fotografia, semplicemente utilizzando due
procedure tipiche nella realizzazione dell’immagine in camera
oscura: il contrasto e l’ingrandimento.
La partenza è stata una incisione dell’Ecce Homo del Guercino,
che fotografai e poi stampai aumentando o diminuendo il
contrasto, e ne risultarono immagini completamente diverse
attribuibili a secoli e movimenti pittorici diversi, da un
caravaggesco a un madonnaro ottocentesco. Quindi, ingrandendo
piccoli particolari ottenni immagini ascrivibili alla pop o alla optical
art.

Tutti interventi in camera oscura…

La camera oscura non è un luogo asettico, si può dire che è una


vera e propria fabbrica del consenso. Per fare un esempio banale,
ma storicamente documentato: quanti personaggi sono stati
cancellati dalle foto ufficiali di regime quando non erano più
allineati col potere?

Le dico alcune parole e lei ci spiega che ruolo hanno avuto


nella sua ricerca. Iniziamo con “Figura Umana”.

Iniziai a fotografare nel 1948 perché sentivo il bisogno di


riappropriarmi della vita dopo i tremendi anni della guerra e ritenni
che la fotografia fosse il mezzo per me più congeniale. Sentivo il
bisogno di allacciare rapporti e la macchina fotografica era come
un grimaldello che mi permetteva di entrare in comunicazione con
gli altri. Così iniziai le serie di “Gente dell’Emilia”, “Gente del Nord”,
“Gente del Sud” e “Gente del Delta”. Questo è il periodo realista, e
l’uomo c’è anche quando non compare direttamente, perché sono
presenti le sue tracce, le sue testimonianze a iniziare dalle scritte
sui muri, come nel lavoro sui muri iniziato negli anni cinquanta, per
arrivare al recente “Cuprum” del 2015 che rappresenta il
passaggio, la frequentazione numerosa di persone ai tavoli di un
pub londinese.

Adesso parliamo di “Natura”.

Per quanto riguarda la natura, uno dei miei punti di riferimento è


Lucrezio e il suo De rerum natura che mi portò a realizzare il primo
lavoro su questo tema Herbarium nel 1974. Tratta della bellezza e
del suo inesorabile mutamento fino alla dissoluzione, ma che
mantiene fascino e piacevolezza anche nel momento della morte.
Nel 2009 è stata realizzata una mostra Nature inconsapevoli che
raccoglieva i miei lavori su questo argomento, incluse le
installazioni, da “Natura morta” del 1977 a “Così in cielo” del
2000-2003, da “Naturalmente” del 1986 a “Voyage inside a leaf”
del 1991 fino a “Il magico giardino di Ludwig Winter” del 2009.
Quest’ultimo è un libro d’autore in unico esemplare, perché
composto da 21 Polaroid, che tratta dell’opus alchemico.

Infine “Ironia”.

Molte persone fanno riferimento all’ ironia che forse è una


componente del mio carattere.

Quando si è accorto che la fotografia amatoriale, legata ai


circoli, poteva diventare una professione? E che cosa segna
questo confine, se esiste un confine?

La fotografia, per me, non ha mai rappresentato una professione.


Per quanto mi riguarda la fotografia è comunicazione, è necessità
di raccontare qualcosa, significa esplicitare un‘idea, un
sentimento, un pensiero per mezzo delle immagini. Per questo
motivo quando mi sono stati commissionati lavori, ho sempre
chiesto carta bianca. Questo è certamente un mio limite, non sono
in grado di eseguire un mandato su scelte espressive fatte da altri.

Parliamo delle sue sperimentazioni. Mi pare che sia sempre


stato più interessato alla materia di cui è fatta pellicola, al
processo di stampa, rispetto all’apparecchio fotografico. C’è
qualcosa che lo affascina in quel processo di trasformazione
chimica?

L’interesse per i materiali è nato insieme alla pratica fotografica.


Allora si stampavano le proprie fotografie e mi incuriosì vedere che
un pezzo di carta fotografica bianco/nero bagnata dagli acidi
rimanendo alla luce aveva acquistato cromie inaspettate, così
cominciai a farmi domande sul mezzo, a verificarne il linguaggio:
luce, carta, pellicola, sviluppo, fissaggio, calore, tempo. Da qui
nacquero tutte le sperimentazioni off-camera dalle Ossidazioni,
appunto, ai Pirogrammi, ai Lucigrammi, ai Cellogrammi e così via.
Le trasformazioni, le manipolazioni, tutto ciò che avviene in camera
oscura si realizza con quei mezzi. Ovviamente la macchina
fotografica è importante a iniziare dalla scelta dell’obiettivo che
condiziona a monte il tipo di immagine, ma il risultato Fotografia è
la somma delle due componenti.

I suoi esperimenti generano un’opera con un’estetica molto


forte. Le interessa il bello?

No, non è una priorità, perché quello che per me conta è il


progetto, poi se la realizzazione ha anche una piacevolezza visiva
si ottiene il massimo. In realtà, negli anni cinquanta le
sperimentazioni rappresentavano uno strappo, una rottura degli
schemi, quasi un anti-estetico dato che allora il “bello” era
rappresentato dalla fotografia realista strutturata sui punti forti.
Pochissimi, come Luigi Veronesi, le consideravano fotografia, ma
del resto anche adesso, dopo quasi settant’anni, una parte dei
fotografi la pensano come allora sia da un punto di vista
concettuale che estetico.

Quando la ricerca del “bello” rischia di mettere in secondo


piano il “contenuto”? E lei come evita questo rischio?

Il bello è una categoria che cambia nel tempo, quindi non è


assoluto. Le belle donne di Rubens sono giunoniche e cellulitiche,
lontane dall’idea di bellezza femminile che abbiamo oggi, ma
questo ovviamente non toglie nulla alla grandezza di Rubens come
pittore, è solo per esemplificare il concetto. Chi insegue il bello fine
a se stesso non può che replicare con minime variazioni un
modello e questa è una cosa che mi annoia, perché, come già
dicevo, quello che mi affascina è il progetto cioè la capacità di
raccontare. E se vuoi scrivere racconti diversi non puoi proporre
sempre lo stesso stilema.

Il Tuffatore è la sua foto che consideriamo più celebre. Che


opinione ha di questo scatto?

Questo è il tipico caso in cui il figlio prende il sopravvento sul


padre: in tantissimi al mondo conoscono il Tuffatore, un numero
decisamente inferiore conosce il nome dell’autore. Non è il figlio
prediletto, ma visto che è diventato un’icona lo cito come carta da
visita, è un modo per presentarmi e di recente l’ho scelto anche
come logo della Fondazione Nino Migliori, istituzione nata da poco
tempo.

La sua fotografia nasce dall’osservazione dell’arte visiva. Chi


la ispira?
Poiché siamo il risultato tutto quello che abbiamo esperito, letto,
visto, ascoltato, siamo un mosaico complesso e i miti ispiratori non
provengono unicamente dalle arti visive. I tre punti di riferimento
che mi hanno da sempre accompagnato sono Lucrezio, che già ho
citato, Leonardo e Duchamp.
Leonardo per l’ ininterrotta ricerca, per il desiderio di sperimentare
ad oltranza, per la consapevolezza che non si è mai arrivati.
Duchamp per la necessità di rompere le regole, per il piacere del
fare indipendentemente dal plauso, addirittura il gusto di
progettare senza realizzare.

Uno degli oggetti più ricorrenti della sua ricerca è la natura. In


alcuni casi, lei si è confrontato con la metamorfosi della natura,
elementi che si trasformano grazie al processo fotografico e
diventano altro. Che cosa lo interessa della metamorfosi?

Sostanzialmente tutto è sottoposto a metamorfosi, cambiamo in


continuazione con il rinnovamento cellulare. È la strada che
percorriamo giornalmente verso il cambiamento estremo. La morte
mi ha sempre affascinato perché è l’unica certezza che abbiamo e
che paradossalmente, ma ovviamente, tendiamo a rimuovere. Nel
1974-76 ho realizzato “Il tempo dilatato”, un lavoro legato a questo
tema. È composto da quattro fotografie: la prima è il mio ritratto, la
quarta è la radiografia del mio teschio e le altre due sono i
passaggi intermedi.
La natura, il tempo, la metamorfosi e la morte sono anche il tema
de Il tempo rallentato del 2009. Al coffee shop del Museo Louisiana
vicino a Copenhagen incontrai dei vasi contenenti frutta e verdura
immerse in un liquido di conservazione ma che, seppur
impercettibilmente, cominciavano ad evidenziare dei segni di
deterioramento e li fotografai. Anche questo lavoro è legato al
concetto di bellezza, metamorfosi, caducità con un preciso
riferimento alla Vanitas.
Un altro rischio dei grandi sperimentatori è l’esercizio di stile.
Intanto vorrei chiederle se l’esercizio di stile è davvero un
rischio o se è qualcosa di positivo o di necessario. E poi, in
quale momento l’esercizio di stile evolve ed entra a far parte
del percorso artistico dell’autore?

Se per esercizio di stile si intende cercare di affermare uno stilema


e ripeterlo enne volte, questo diventa cristallizzazione,
congelamento di un percorso artistico e non mi appartiene. Nel
caso contrario è il tentativo di analizzare linguaggi diversi e, finito
un esercizio, iniziarne un altro. Ogni esercizio costituisce un
tassello del mosaico che alla fine conferisce forma all’immagine e
alla sostanza che abbiamo di un autore.

La realtà e il mondo le interessano oggi come le interessavano


all’inizio?

Direi che ho sempre mantenuto la stessa curiosità e interesse


verso l’altro da me. Forse, se è mutato, ora sono quasi bulimico di
conoscere, di poter entrare in contatto con tutto ciò che mi stimola.
È per questo che ho chiesto una proroga di almeno altri trent’anni
per soddisfare questa mia esigenza.


(ha collaborato Filippo Rebuzzini)

Monika Bulaj: 

fotografare è un gioco
molto serio

Monika Bulaj, il suo lavoro passa attraverso il viaggio, la
fotografia, la narrazione. Quale è l’obiettivo di questo
percorso?

È una domanda molto grande. Il mio lavoro si articola su diversi


temi ma ha un filone narrativo molto preciso. È un lavoro sulla
spiritualità dell’essere umano, ma questo non significa che sia un
lavoro sulla religione. D’altra parte è anche un lavoro legato alla
memoria delle guerre antiche e che, oggi, finisce per legarsi
necessariamente alle guerre in corso. Infine è un lavoro anche
filologico, nasce dalla parola, la fotografia non è la cosa più
importante, mi muovo sempre tra la parola e l’immagine. Non mi
interessa certo fare una bella immagine, mi interessa raccontare.

Quando parla del suo lavoro, forse il termine che usa più
spesso è “incontro”.

Cammino con le persone, cerco di condividere il più possibile del


loro modo di vivere, in qualche modo mi metto al loro servizio. È
vero che c’è un grande studio di preparazione ma è la strada, il
viaggio che faccio, a portarmi verso la conoscenza. Non parto per
confermare le mie idee, non vado nemmeno alla ricerca di ciò che
ho studiato, cerco di farmi prendere dalla storia. In tutto questo
l’incontro è fondamentale per ascoltare le persone, anche quando
non conosco la lingua. L’incontro si realizza in uno sguardo, in un
gioco, nella compassione, in molte altre forme. È difficile trovare
qualcosa di ricorrente nell’incontro.

Sceglie di essere sorpresa da ciò che incontra.

Certamente studio moltissimo, ma posso dire che le letture mi


danno molta più soddisfazione quando rientro dal viaggio perché
sono arricchite dai profumi e dai suoni che ho incontrato. Non
parto impreparata, sarebbe uno spreco di tempo, ma quando
viaggio mi metto completamente in ascolto. Per essere più
concreta, quando sono andata in Afghanistan ho studiato
moltissimo. Ma la ragione per cui sono partita è non sapevo come
fosse fatta Kabul, i nostri occhi erano pieni delle icone delle guerre
e io volevo semplicemente camminare e incontrare le persone per
strada. Avevo alcuni filoni narrativi da seguire, ma in realtà sono
state le strade di Kabul che mi hanno aperto le loro storie.

Noi conosciamo una Storia fatta di aggregazioni, di masse di


individui, una Storia di maggioranze raccontata con un
linguaggio a volte preso in prestito dalla statistica. Quello che
sorprende del suo lavoro è il desiderio di conoscere gli
individui.

Attraverso la Storia umana si possono leggere i grandi processi,


sono come gocce d’acqua. Conoscere la storia degli individui
aiuta a liberarsi dei vincoli che ci portiamo dietro. Per questo è
importante vedere e capire, e possibilmente anche imparare la
lingua.

Nell’introduzione al suo libro Genti di Dio scrive che non


svelerà i nomi dei luoghi più remoti che ha visitato e
raccontato, vuole preservarli. Perché vede questa necessità di
raccontare ma d’altra parte di preservare?
Perché molto spesso sono luoghi vergini che rischiano di essere
violentati da questo fenomeno della fotografia di massa, più o
meno professionale. Sono luoghi di grandissima delicatezza, di
intimità, dove il lavoro del fotografo, anche se accettato, è
comunque una violazione. Non vorrei che il mio lavoro
trasformasse questi luoghi, soprattutto oggi, quando è tutto più
immediato. Poi però sento la necessità di raccontarli e renderli
reali. Tra queste due strade, tra queste scelte, cerco di prendere le
mie decisioni. Penso che ci siano tantissimi luoghi che devono
essere protetti. Altri luoghi, sono talmente distanti, vivono nelle
pieghe della Storia, che si proteggono da soli. Ma queste sono
decisioni che devono essere prese.

La Fotografia oggi sembra concentrarsi su pochi fenomeni, ne


tralascia molti, ma soprattutto sembra concentrarsi sugli effetti
dei fenomeni. Se pensiamo alle migrazioni, vediamo in qualche
modo masse di uomini su navi e barche.

Spesso questi racconti non vanno a ricercare le radici, le cause. È


importante documentare, ma quando il documento diventa un
fenomeno di massa, allora penso che perda di interesse. Non
potrei dirigere la macchina fotografica verso queste persone,
potrei soltanto attraversare il mare con loro, magari riuscendo a
fare uno scatto, o magari anche no. Quello che manca, anche per
le ragioni di sicurezza, è il racconto sulle cause.

I suoi lavori sono così complessi che mi sono chiesto se lei


abbia mai il timore di non essere pronta ad affrontare un luogo,
un nucleo di persone, una cultura.

Succede sempre. Penso che questi temi siano così grandi che mi
sovrastano sempre. Studio tantissimo ma non sarà mai sufficiente.
Mi mancano un sacco di lingue, ne parlo otto, ma mi manca il
turco, mi manca una perfetta conoscenza della lingua persiana, il
creolo, l’ebraico moderno, l’arabo. Non so cosa farei per capire
bene la lingua araba. Quando si viaggia, ci sono tutte queste voci
che ci circondano e riuscire a capire in fondo che cosa pensano le
persone è fondamentale per fare il mio lavoro. Il mio lavoro è un
grandissimo mosaico che sto componendo cercando un equilibrio
narrativo. È sicuramente un atto di coscienza molto difficile.

Viaggia da trent’anni. Le sue motivazioni sono cambiate


rispetto all’inizio?

Certo, perché sto crescendo anche io. Dietro tutto il mio lavoro c’è
il desiderio di camminare, ascoltare le persone e poi trascrivere le
loro storie, servendomi delle parole o della fotografia, per rendere
queste storie accessibili in una forma giusta, immediata, bella
anche. Perché non sto facendo un lavoro per me. Ma sto facendo
qualcosa che spero che possa essere capito anche nel mondo di
oggi, dove ci sono così tanti problemi per comprendersi. Le mie
motivazioni sono sicuramente cambiate anche perché è cambiata
la Storia, che adesso ci invade con la sua prepotenza, con questo
male invisibile che esplode ovunque e che ci toglie la parola, il
coraggio di agire. Il mio lavoro cerca di resistere anche a questo
senso di impotenza nel cambiare le cose.

La fotografia è arrivata dopo, nel suo percorso?

Sì, non è arrivata subito. E pian piano è diventata importante


quanto la narrazione. Mi piace molto fotografare, lo trovo
divertente, è gioioso, è un gioco molto serio. Mi interessa esplorare
la forma in cui il mondo si presenta. E abbiamo questa
straordinaria possibilità tecnica di poter catturare il reale in
qualcosa di intenso, di meraviglioso.
Il suo lavoro riporta il baricentro sulla Storia dell’Uomo quando
noi siamo abituati a leggere i fenomeni tramite la lente
dell’economia, della politica.

La Storia è fatta di pulsioni, passioni, amore, maternità, idee. Per


esempio, se lavoro sul tema della religiosità popolare, trovo
sempre questa tensione del corpo, questa ripetitività dei gesti
umani che diventano un grande poema comune. E sono temi in
qualche modo legati al mondo contemporaneo. Pensiamo ai
grandi bazar, ai luoghi di incontro e delle chiacchiere dove le
persone si raccontano le storie, creano la narrazione. In realtà tutto
parte dalla lingua, dalla narrazione. Sono storie importanti, vale la
pena mettersi in ascolto, quando si fotografa ma anche quando
non si fotografa.

Francesco Radino: 

il fotografo ha il ruolo di
determinare una visione


Francesco Radino, il tuo lavoro sulle Cattedrali dell’Energia per
AEM riesce a mettere insieme paesaggio, architettura, industria.
Come nasce questo progetto?

Nel 1983 a New York, sul ponte di Brooklyn, mi sono sentito


chiamare. Era Sergio Segre, dirigente dell’Olivetti, stava per
iniziare una serie di pubblicazioni per AEM. Pochi mesi dopo
abbiamo varato il primo volume della serie: Fortezze Gotiche e
Lune Elettriche. Abbiamo fotografato impianti e centrali elettriche in
Valtellina con Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin. Poi la
produzione è andata avanti, abbiamo fatto otto volumi
coinvolgendo anche Martin Parr, Olivo Barbieri, Joel Meyerowitz,
Giampietro Agostini e molti altri.

Ognuno di loro ha interpretato l’energia?

Erano volumi a tema in cui emergeva la visione di ogni fotografo.


La cosa bella di questi lavori era che ciascuno era libero,
all’interno di una gabbia molto ampia, di produrre le proprie
immagini secondo la propria capacità. Lo scorso anno, mi sono
trovato per caso a parlare con Fabrizio Trisoglio della Fondazione
AEM, e abbiamo deciso di proseguire con nuove pubblicazioni.
Sono cambiate le tecnologie, il mondo è cambiato, abbiamo
deciso di rivedere con gli occhi di oggi le strutture dell’energia.
Sei partito ancora dalle centrali?

No, questa volta ho proposto di partire dai quattro elementi: terra,


aria, acqua e fuoco. Da qui nasce l’energia che gli uomini sono
riusciti a canalizzare. Ho realizzato più di seicento fotografie da cui
abbiamo estratto circa cinquanta immagini per il volume e
ventiquattro per la mostra.

Hai fotografato il legame con gli elementi e il legame con il


territorio.

Le centrali sono meravigliose architetture che esprimono un’epoca


storica in cui le fabbriche erano affidate a grandi architetti,
contenevano grandiosi macchinari, realizzavano una straordinaria
funzione sociale.

Perché le centrali elettriche venivano affidati a grandi architetti?

Perché non erano dei contenitori, non erano capannoni. Erano


fabbriche che esprimevano la forza e la bellezza dell’azienda, si
armonizzavano con i luoghi. L’identità con il territorio si realizzava
affidando ai grandi architetti queste cattedrali, che contenevano
macchinari altrettanto belli.

Il fatto che funzionassero, li rendeva belli.

E viceversa.

Tutto ciò di cui abbiamo parlato, penso derivi dalla tua


formazione sociologica.
C’è un legame continuo. Uno vede quello che sa. La fotografia ha
una funzione sociale e demiurgica, mostrare ciò che agli occhi dei
più è nascosto.

Le cattedrali dell’energia sono nascoste agli occhi dei più.

Molte centrali si stanno aprendo alla didattica, per fortuna. È un


percorso utile per conoscere il processo tecnologico, che aiuta a
capire anche la realtà in cui viviamo di ogni giorno.

È difficile collocarti, dire che sei un paesaggista.

Ho sempre detestato l’idea di chiudermi in un genere. Ho iniziato


come reporter e ho lavorato in tutti gli ambiti della fotografia. Non
ho mai voluto essere io a definire il percorso ma ho lasciato che
fosse il caso, le occasioni, a portarmi verso l’acquisizione di nuove
competenze per lavorare su più fronti. Pier Luigi Cerri mi chiese di
fare una campagna pubblicitaria per i mobili della Molteni. Non
avevo mai fotografato mobili ma a lui interessava il mio modo di
dividere lo spazio, di usare le luci. Ho lavorato nelle acciaierie, ho
fatto campagne sui camion, sulle navi, su tanti settori dell’industria.

Oggi si cerca più specializzazione?

No, direi che non è cambiato molto. È aumentata l’offerta, si è


semplificato il processo di creazione delle immagini, ma non è
cambiato molto da un punto di vista degli incarichi.

Che cosa cerchi nel paesaggio contemporaneo?

Il paesaggio contemporaneo rappresenta l’espressione dello


sviluppo dell’umanità e della nostra società. È in genere un
paesaggio sofferente, con l’inclusione di manufatti non sempre in
armonia con lo spazio. A volte ci sono stridenti contraddizioni, a
volte momenti di armonia. All’interno di questo spazio, ogni
fotografo seleziona porzioni del reale per produrre una immagine
del paesaggio che rappresenta una propria visione soggettiva di
ciò che riteniamo bello o brutto, da correggere o da amare. Questo
aspetto partecipativo, ovvero farsi carico di ciò che si vede, riesce
a dare un senso anche alla nostra esperienza. Il fotografo ha il
ruolo di determinare una visione.

Tu senti di avere questa funzione rispetto alla società?

La sento molto. Ho anche avuto la fortuna di lavorare per molte


missioni pubbliche, con incarichi da regioni, città e stati. Sento che
le fotografie siano una rappresentazione che resterà nel tempo, e
questo patrimonio di immagini e di visioni permetteranno ad una
parte di umanità di riconoscere il passato.

Pensi di condizionare e influenzare l’osservatore?

Condizionarlo, no. Influenzarlo, sì. So però che è un fatto corale.


Non sono io che cambio una certa visione del mondo, siamo noi
tutti insieme, i milioni di operatori dei linguaggi, ad influenzare il
mondo. È un rapporto dialettico. Il mondo influenza coloro che si
occupano delle immagini, e chi si occupa delle immagini
determina la visione di chi osserva.

Trovi che ci siano ambienti più stimolanti di altri?

Ho sempre avuto l’idea che il mondo fosse uno. La divisione in


urbano, rurale, primo mondo, terzo mondo, a me non interessa.
Lascio che il destino mi porti a lavorare nelle diverse dimensioni.
Se dovessi uscire dal tuo studio, oggi, per una tua ricerca
personale, dove andresti?

Di recente, per esempio, sono andato a fare un lavoro a Lesbo sui


migranti, perché ritengo che sia un aspetto nodale della nostra
civiltà. La gente, oggi, disperatamente si muove e si sposta.
Questo determinerà grandi cambiamenti.

Ti interessa raccontare la presenza dell’uomo?

Ho sempre ritenuto che la mia fotografia non dovesse essere


antropocentrica, gli uomini sono una parte degli abitanti di questo
pianeta. La fotografia è sempre stata antropocentrica, ha sempre
rappresentato gli uomini al centro e tutto intorno uno scenario. Io
ho sempre cercato di dare lo stesso peso a tutti gli elementi che
determinano la realtà. Il mondo continuerà ad esistere anche
quando gli uomini si estingueranno.

Come è cambiato il tuo modo di fotografare dal 1966 al 2016, in


questi cinquant’anni?

Sono stato una continua evoluzione, un cambiamento di modalità


espressive, all’interno di un unico corpus che si espande e che si
determina nel corso del tempo. Ho cominciato a fare il fotografo in
un momento in cui mi sembrava che il mondo stesse cambiando.
Studenti, intellettuali, si muovevano per cercare di cambiare le
cose. Questo mi ha spinto a lavorare con la fotografia. Poi ho
cominciato ad avere delle committenze, e quindi non ero più solo
io a determinare l’orientamento del mio lavoro.

I lavori su commissione che effetti hanno avuto sul tuo lavoro?


Mi hanno dato un rigore. Devo aderire e rispettare le richieste della
committenza, devo saper piegare la mia visione ad uno scopo che
mi viene richiesto. In questo mi è servito molto il lavoro con il
Touring Club Italiano. Per esempio, è formativo sapere che
nell’arco di tredici giorni devi realizzare un libro sull’Islanda, sulla
base di un target editoriale, di un tipo di impaginato e, in tutto
questo, devi dare un contributo innovativo che ti permetta di
andare oltre.

È l’aspetto più difficile del lavoro di un fotografo.

Questo è il mestiere.

Heinz Stephan Tesarek: 

ho fotografato il declino
dell’Europa


Heinz, il tuo progetto Interim, esposto al Festival Internazionale
di Roma, racconta il cambiamento che vive l’Europa. Non
parliamo però di Mediterraneo ma di Europa continentale.
Quanti anni hai lavorato su questo tema?

Il progetto è durato sei anni, dal 2004 al 2010. Sono fotografie


scattate durante gli assignment più diversi attraverso l’Europa. Ho
scattato queste foto in ogni situazione utile. Dalle camere private,
alle strade, ai raduni, ogni situazione era buona per realizzare
questo progetto.

In quali aree dell’Europa e dell’Asia ti sei mosso?

Ho iniziato questo lavoro mentre ero di ritorno da un periodo di sei


anni a Mosca. Ho lavorato in Austria, Bielorussia, Russia, in gran
parte dell’Europa continentale. Ho documentato i forti contrasti tra
le condizioni di vita in Europa, un aspetto spesso trascurato perché
che l’Europa viene immaginata come un territorio pressoché
omogeneo e senza gravi problemi economici per la popolazione.
Non è così. È un lavoro che tocca vari aspetti del problema, avevo
assignment per magazine molto differenti tra loro. La mia base è
l’Austria, e quello era un periodo molto vivace per il
fotogiornalismo. Adesso, lentamente, è tutto molto cambiato.

È un momento difficile per fare fotogiornalimo?


Sì, molto.

Tu credi che sia solo un fatto di budget, o è un momento


complicato perché i giornali non colgono più le notizie di reale
interesse per i lettori?

È difficile risponderti. Penso che ci siano due parole chiave per


tutto ciò che è successo ai giornali, non solo in Austria o in Italia o
negli Stati Uniti, ma ovunque. La prima è naturalmente internet e le
possibilità digitali, che hanno segnato il declino di questo mestiere.
La seconda ragione è più delicata. La mia opinione è che i media
si siano trasformati da strumenti per esplorare il mondo e capire
che cosa stesse succedendo, a strumenti per estendere il potere.
Il focus è passato dall’informazione al potere.

Che cosa pensi del data journalism e della pubblicazione di


dati e dossier senza molti filtri?

I media sono pieni di data journalism, un giornalismo che si fa da


distante, accumulando dati, manca l’esperienza diretta sul campo.
È qualcosa di molto vicino alla propaganda.

Il tuo lavoro Interim è rivolto all’Europa continentale, una cosa


non comune. Che cosa hai trovato di interessante in questa
parte di Europa?

Credo che oggi il declino dell’Europa sia semplicemente la storia


più grande da raccontare. Qui si intreccia tutto, dalle differenze
culturali a quelle economiche, dalle migrazioni ai mutamenti dello
stato dei lavoratori.
Possiamo dire che il tuo è un lavoro sul declino di questa
società?

Sì, ho cercato di capire il perché di questo declino. Nessuno si


domanda più il perché delle cose che stanno succedendo. In
Austria avremo presto le elezioni, e c’è il forte rischio che vinca un
candidato fascista. Tutta l’informazione è orientata a dare questa
notizia, ma nessuno si chiede perché potrebbe vincere questo
genere di candidato. Si guardano le cose mentre succedono.

Nelle tue foto ci sono molti simboli erotici. Sono ovunque, nella
comunicazione, nella vita quotidiana, nella cultura. È un altro
simbolo della decadenza di questa società?

Questi simboli ci dicono una cosa molto chiara: siamo concentrati


su noi stessi. È come se non vedessimo che nei nostri paesi vivono
persone di altre culture che hanno un approccio completamente
differente a questi temi. Si creano così delle prospettive distorte. Il
sesso ha semplicemente rimpiazzato l’amore, ma lo ha fatto in un
modo che divide più che unire.

Le tue foto sono piene di persone. Sono gli esseri umani il


focus del tuo lavoro?

Voglio capire come le persone si relazionano tra loro.

Nelle immagini ci sono masse di individui in movimento. E


allora mi sono chiesto: quando lavori, entri in contatto con le
persone o il tuo è un lavoro più sui fenomeni che sui singoli
casi?

In realtà il mio modo di lavorare varia molto. Se guardi Interim,


alcune foto sono tipicamente street, altre documentarie, altre
ancora sono più intime. Di conseguenza, a volte conosco la
persona che fotografo, alcune volte conosco la sua storia, altre
volte non ho la minima idea di chi ho di fronte. Ogni approccio è
possibile.

Che cosa è successo nel 2010, quando hai deciso di chiudere il


progetto?

Il lavoro è terminato mentre mi trovavo in Bielorussia durante le


elezioni presidenziali. Durante una dimostrazione, la polizia di
Lukashenko mi ha rotto un dito della mano destra e non ho più
potuto scattare fotografie per un certo periodo. Ma questa è solo
una parte della risposta. In realtà, la mia è la tipica storia di un
fotografo che ha avuto problemi durante il proprio lavoro, quando
sono tornato a casa il direttore non era così interessato al progetto
e poi, quando sono iniziati altri lavori, ho considerato chiuso questo
reportage. Probabilmente aveva solo bisogno di tempo per essere
considerato attuale e di interesse generale. Oggi è il momento.


Piero Gemelli: 

non ritraggo una persona,
ritraggo ciò che quella
persona mi suggerisce


Piero Gemelli, dopo tanti anni a New York, a Parigi, a Londra,
dopo aver pubblicato sulle più importanti riviste di moda, ti sei
fatto un’idea di che cosa sia la Fotografia?

Può far parte della tua vita per anni, ma dare una definizione di
Fotografia non è semplice. Sicuramente è una rappresentazione di
qualcosa, ma è su questo qualcosa che si dividono i pareri. Per
alcuni è la documentazione di una realtà avvenuta. Per altri è una
documentazione del fatto che tu abbia documentato una realtà non
necessariamente avvenuta in quei termini. Per altri ancora è
totalmente una finzione.

Con chi sei d’accordo?

Credo di sposare le ultime due teorie. Ritengo che la Fotografia


testimoni il fatto che io fossi presente in quel momento, ma non
necessariamente testimonia ciò che è avvenuto in termini di realtà.
È la documentazione di qualche cosa, di qualche cosa non
credibile fino in fondo. La “mia fotografia” è quindi certamente
documentazione di una realtà, ma della “mia realtà” personale, che
è vera e reale pur se costruita.

Hai realizzato molti ritratti. È vero che parlano di te?


Il ritratto è un tipo di fotografia dove emerge in modo molto forte il
fotografo. Se lavori per tirare fuori la personalità di chi hai di fronte,
selezioni un aspetto che la tua sensibilità ti permette di vedere. “Si
vede solo ciò che si conosce” non è una frase ad effetto, è la realtà
delle cose. Non ritraggo la persona, ritraggo ciò che quella
persona mi suggerisce. Dissento da chi dice che la fotografia ruba
l’anima del soggetto fotografato perché nella scelta, anche
istintiva, di un punto di vista, di un taglio, di un angolo, ci metti te
stesso, c’è molto del tuo se in te c’è del tuo.

Come riesce un autore a lavorare nella moda, dove la fotografia


è condizionata in modo così forte da un’industria, da un
committente, da un meccanismo editoriale?

È vero che bisogna sentire la moda e che bisogna avere una


sensibilità per la moda, ma è altrettanto vero che se vai a fare una
foto di un vestito e la inserisci in un tuo percorso personale,
l’autorialità del fotografo diventa molto importante rispetto alla
semplice rappresentazione del vestito. Diventa l’interpretazione
personale della moda e della donna che la indossa. È ciò che
viene chiesto ad un autore, quando viene riconosciuto tale. Per
quanto riguarda il mio lavoro, devo dire che la mia attenzione è
sempre stata rivolta alla donna, alla bellezza femminile, piuttosto
che al vestito come oggetto. Non ho fotografato sempre vestiti,
anzi spesso dico che ho fotografato “svestiti” per quanto mi sono
trovato a lavorare nel beauty. Ho sempre cercato di svelare, e l’ho
fatto andando a guardare l’aspetto che mi provocava del soggetto
che avevo di fronte, pur tenendo ben presente l’obbiettivo della
commitenza.
Hai lavorato molti anni a New York, sei stato un fotografo
italiano negli Stati Uniti. Aveva importanza esserlo, a qualcuno
interessava?

In realtà ho lavorato negli Stati Uniti, più che altro a New York, ma
altrettanto a Parigi, a Londra, in Germania. Mi sono spostato in
base agli incarichi. E poi ho lavorato molto a Milano, dove facevo
lavoro più editoriale, mentre in America ho fatto quasi
esclusivamente pubblicità. Indubbiamente c’è stato un periodo in
cui il Made in Italy funzionava molto bene. Negli anni ’80, quando
Vogue Italia era il giornale, credo, più importante al mondo, c’erano
giovani fotografi americani che venivano a lavorare qui in Italia e,
quando rientravano, avevano acquisito una maggiore reputazione,
vera o presunta. Una sorta di “patente di italianità”. L’Italia
aggiungeva qualcosa, insomma. Personalmente, però, non penso
di essere mai stato scelto in quanto italiano.

L’Italia aggiungeva qualcosa. Allora perché i fotografi italiani


hanno sempre avuto difficoltà ad essere scelti in quanto
italiani?

Credo che in Italia non ci sia mai stato un sistema, un modo di fare
gruppo. Non siamo la “fotografia tedesca”, o la “fotografia
francese”. In Italia esistono molte realtà singole. Mancano le
connessioni. Basta guardare il legame tra moda e fotografia in
Francia, è un sistema che funziona, che supporta e si supporta.

L’italiano è davvero così individualista come sembra?

In genere ci muoviamo da soli. Abbiamo inventato i Comuni,


abbiamo inventato le corporazioni. Tra italiani è difficile parlare di
gruppo. Negli anni ricordo di aver vissuto situazioni di chiusura da
parte di altri colleghi. Ricordo che c’erano studi in cui non si
poteva entrare. Oggi tutto è più condiviso e comunicato, forse ci
sentiamo di più un gruppo di persone dove c’è qualcuno che può
trainare e altri che prendono coscienza della propria identità. Ma è
una cosa più recente. Ora forse si sta cominciando a capire che lo
scambio e il confronto aiutano a crescere. È questo che differenzia
i bravi fotografi dai semplici realizzatori .

Mi parlano dei fotografi italiani come di professionisti poco


imprenditori, senza un vero team. È per questo che la moda,
editoria e brand, cercano fotografi lontano dall’Italia?

Tutte cose vere ma anche molte scuse. Il fatto che gli americani si
organizzino in tutto ciò che fanno è nella loro natura. Ma questa
profonda specializzazione è anche un modo per circoscrivere i
propri ambiti di intervento e, forse, per proteggersi e limitare le
proprie responsabilità. Se fotografo solamente automobili, avrò
un’organizzazione talmente specializzata che non otterrò
facilmente incarichi di moda. Non ho interesse ad occuparmi di un
settore per cui non ho una struttura tecnica di supporto. Ma tutto
questo fa parte di un tipo di fotografia poco autoriale, più da
documentazione o da catalogo. Se faccio l’autore, fotografo
qualunque cosa, perché la foto è la mia lettura di quel “qualunque
cosa”. Ciò non toglie che per fare un buon lavoro occorrano
collaborazioni con professionisti validi e motivati quanto te, e non
sto parlando per forza di un team chiuso. Per fare questo ci vuole
anche un cliente lungimirante.

Capitano spesso i clienti lungimiranti?

Negli anni ’90, la Mercedes incaricò venti fotografi di paesi diversi


e ci affidò un nuovo modello di automobile da fotografare.
Avevamo a disposizione un ampio budget, un’auto e nessuno mi
ha chiesto “Gemelli, lei ha mai fotografato macchine?”. Hanno
scelto nomi come Paolo Roversi, Peter Lindbergh, Elliot Erwitt ,
Nick Knight, Sheila Metzner… e anche me. Nessuno di noi era un
fotografo conosciuto per essere esperto di automobili e ciascuno
ha fatto la propria foto, abbiamo fatto “nostra” quell’automobile.

Il denaro ha condizionato il tuo lavoro?

Questo è un lavoro che per molti è stato occasione di grandi


guadagni. Se attraverso una mia fotografia il cliente ottiene risultati
commerciali importanti, io devo essere pagato molto. Ho sempre
sostenuto che una foto debba essere pagata in relazione all’utilizzo
che se ne fa. Se io scatto una foto e il cliente non utilizza questa
foto, perché dovrebbe pagarne i diritti di utilizzo? Mi pagherà il
lavoro di esecuzione, e questo prezzo sarà legato alla mia
posizione nel mercato come professionista, come autore. È giusto
che il compenso sia legato all’utilizzo delle cose. Con un mio
agente ho smesso di lavorare quando ho scoperto che, durante
una trattativa, mi ha messo in bocca una frase che non ho mai
pronunciato: “Gemelli per meno di tot non si alza neppure dal
letto”. Sbagliato. Io per un ignorante non mi alzo dal letto.

Serve cultura per fare fotografia e per commissionare


fotografia?

Cultura è un termine con molte sfumature. Conoscere è qualcosa


che permette di analizzare. Più mi documento e più mi informo, più
ho possibilità di elaborare il mio pensiero. La cultura non è un
indottrinamento, è un modo di vivere le cose che ci stanno intorno
e di riconoscerle secondo il proprio modo di essere. È un gioco di
azione e reazione, a cui io credo molto. È un meccanismo di
contrasti, il contrasto tra ciò che penso e ciò che vado a trovare
negli altri.
Sei un architetto. Credi che si veda nelle tue foto?

Ho studiato architettura ma purtroppo, a causa delle vicende della


vita, non ho fatto davvero l’architetto. Ma senz’altro i nostri studi ci
condizionano. Mi sento molto più architetto di qualsiasi altra cosa.
Gli studi di architettura mi hanno insegnato a fare una corretta
analisi dei dati raccolti, ad avere la capacità di scegliere i dati
necessari, di analizzarli ed elaborare un pensiero, un progetto e di
fare in modo che questo progetto sia coerente con il desiderio
della committenza. Ma anche che rispetti la mia cifra stilistica e la
mia intenzione. L’architettura mi ha insegnato che dev’esserci
sempre una ragione in ciò che fai e che devi essere sempre in
grado di difendere la tua scelta, anche se hai tutti contro, devi
poter sostenere il tuo pensiero dimostrando a te e ad altri la
coerenza del tuo lavoro.

Se guardi il tuo archivio, riesci a difendere tutte le tue


fotografie?

Sì, almeno tutte quelle che ho fatto con coscienza. Ma essere un


professionista significa anche sapere come concludere un
incarico. Se ti ritrovi “stretto” in un lavoro che hai mal valutato,
essere un professionista significa saper comunque concludere con
successo quel lavoro. Il lavoro dev’essere sempre portato a
termine, facendo ricorso all’ esperienza, alla conoscenza della
tecnica, alla propria capacità. Questa è la cosiddetta serietà
professionale

Perché c’è più bisogno di autori che di fotografi?

Perché c’è troppa gente che fotografa… il che è un bene. Vorresti


vivere in un mondo di analfabeti per essere l’unico incaricato di
scrivere? Non per questo tutti devono essere poeti e scrittori, ma
c’è bisogno di autori che ci diano una lettura del mondo attraverso
i loro occhi e sentimenti. Fino a quindici anni fa, fare fotografia era
difficile. Era, semplicemente, tecnicamente, difficile. Se lavoravi
male, era finita. Un giorno, negli Stati Uniti, di fronte ad un set
complesso, con un budget molto elevato, mi chiesero “ma tu ce
l’hai l’assicurazione?” Lì mi resi conto che c’era tutto un mondo
che, in quel momento, dipendeva dalle mie scelte, dalla mia
capacità, da un mio “non errore” anche da una mia semplice
distrazione o sfortuna tecnica. Oggi una foto viene comunque
bene e lo sai già appena hai scattato. La Kodak pubblicizzava “voi
schiacciate un bottone, al resto pensiamo noi”, ed è sparita anche
a causa di quella tecnologia troppo facile, oltre che per aver
pensato che la loro pellicola fosse l’unica via per fotografare.

Vince sempre il contenuto.

Credo di si, spero di sì. In un mondo con tanti contenitori e non


sempre altrettanti validi contenuti, credo sia importante che vinca
un contenuto ben “contenuto”.

Fare una fotografia pubblicitaria è fare un falso?

Se io dico “albero” tutti capiscono che cosa intendo, ma ognuno


pensa al proprio albero. È importante l’essenza della cosa, non è
importante mostrare davvero un albero. Ricordi ciò che riconosci, e
riconosci ciò che conosci. La realtà, in definitiva, non esiste,
viviamo in un mondo assolutamente surrealista ma non per questo
si è autorizzati a mentire e ad ingannare sul vero contenuto.

Eva Rubinstein: 

ogni nostra manifestazione
è un autoritratto

intervista di Frank Horvat


Secondo te, tutto ciò che compare in una foto sarebbe
un’espressione – conscia o inconscia – di chi fotografa.

Sì, inevitabilmente, se la foto è un lavoro personale, e non un


incarico. Anni fa, quando soffrivo di una depressione, un’amica mi
ha regalato un libro che pensava che avrebbe potuto aiutarmi:
Gestalt Therapy Verbatim. L’autore, Frederick Perls, dirige dei
seminari sui sogni. Se un partipante racconta, per esempio, un
sogno in cui s’è visto bambino, in fuga davanti a qualcosa, Perls gli
chiede: “e che t’ha fatto fuggire?”. Se quello risponde “il buio”,
Perls chiede: “E che ti dice il buio?” Ma l’essenziale
dell’insegnamento di Perls si manifesta nella domanda seguente:
“E tu che gli rispondi, al buio?” E Perls poi spiega: “Tu sai quello
che il buio ti dice, perché il buio fa parte di te: ogni dettaglio del
tuo sogno fa parte di te, poiché sei tu che l’hai inventato.” Per le
nostre foto è la stessa cosa, tutto quello che vi compare parla di
noi: il soggetto che ci ha attratto, l’angolazione cha abbiamo
scelta, l’inquadratura, la focale, le relazioni tra gli oggetti. Ogni
nostra manifestazione è un autoritratto – o il frammento d’un
autoritratto. Quando uno studente mi dice: “Vorrei imparare ad
esprimermi”, io gli rispondo: “Mostrami piuttosto come potresti non
esprimerti, o esprimere altro che te stesso!”
Ma una foto non è come un quadro, in cui ogni dettaglio viene
dalla mano del pittore. Il negativo registra anche tutto quello
che abbiamo lasciato passare, intenzionalmente o no, magari
solo per distrazione. I suoni di fondo come la musica.

Nulla di ciò che scegliamo è scelto a caso. Ci sono livelli di


coscienza, in noi, che percepiscono più di quanto crediamo
percepire. Parlo “col mio occhio destro”, beninteso.

Col tuo occhio destro?

Sì, parlo come qualcuno di cui l’occhio dominante è il destro – e


dicendo “dominante”, non voglio dire il più forte o il più sano. Una
persona mancina direbbe il contrario, direbbe per esempio che
quello che conta è la struttura.

Ma perché l’occhio destro e l’occhio sinistro?

È un mistero che non è stato ancora chiarito. Ma si sa che la


dominanza d’un occhio, il destro o il sinistro, è un elemento
importante della psiche, che non determina solo ciò che vediamo,
ma anche come lo vediamo e quali emozioni suscita in noi. Nel mio
caso, è l’occhio destro che domina: potrei fotografare con l’occhio
destro anche a testa in giù, tutto mi sembrerebbe al suo posto.
Invece quando guardo nel mirino con l’occhio sinistro, sento il
bisogno di raddrizzare le verticali e di avere angoli a 90°. Quando
qualcuno mi parla della sua famiglia, o di politica, o di qualsiasi
altro argomento, so immediatamente qual’è il suo occhio
dominante.

Quello che dici m’interessa per una ragione personale: io ho


sempre fotografato con l’occhio sinistro, fino a quando
quest’occhio ha dovuto essere operato, prima di una cataratta,
poi di una complicazione più grave. I chirurghi sono riusciti a
salvarlo, però lui non ci vede più abbastanza per mettere a
fuoco – e dunque devo utilizzare il destro. Dapprima temevo
che l’altro non avrebbe saputo vedere e comporre altrettanto
bene, ma in fin dei conti ci riesce, tanto che nessuno ha notato
una differenza tra le mie foto di prima e quelle di adesso.

Questo può dipendere dall’intensità della dominanza. Ci sono


persone ambidestre, che sanno utilizzare l’una o con l’altra mano –
tranne per scrivere.

Devo dire che spesso la questione mi preoccupa. A volte mi


pare che l’occhio destro mi trasmette ciò che vede nel mirino,
ma con una carica emotiva meno intensa. Ma sono sensazioni
soggettive, non oserei trarne una conclusione.

È proprio quello che volevo dire: non è il tuo “vero” occhio destro.
Io non conosco tutti i dettagli della teoria, ma so che le implicazioni
sono profonde. Anche mio figlio Alex – come me – aveva l’occhio
destro dominante, ed eravamo effettivamente sulla stessa
lunghezza d’onda, percepivamo le relazioni allo stesso modo,
emozionalmente più che coll’intelletto.

Eppure il mio caso proverebbe piuttosto il contrario. Io ho


l’impressione che il mio occhio destro è più sensibile alle
strutture, e meno alle emozioni.

Forse perché vede attraverso la tua psiche d’origine: non “si sente”
destro, non è più connesso come lo era all’origine.

Sì, forse si è riconnesso da quando me ne servo di più, le


connessioni si adattano. Ma per tornare al nostro soggetto
iniziale: io non sono affatto convinto che tutto ciò che appare in
ogni nostra foto sia un’espressione di quello che siamo.
Fotografiamo tante cose di cui non ci rendiamo conto!

È proprio quello che cerco di dire! Ma le notiamo a un certo livello


del nostro inconscio. Anni fa, ho esposto a New York una serie di
foto che avevo intitolato “Flash-forward” – l’opposto di flash-back.
Le avevo scattate in periodi diversi – fino a quindici anni prima –
ma non le avevo mai scelte né stampate, come se, al momento
dello scatto, non avessero alcun nesso con quello che credevo
vedere. Poi, all’improvviso, mi hanno colpito – davvero come un
pugno in faccia. Noi percepiamo molto più di quanto crediamo
percepire: solo quando ho permesso alla mia coscienza di
raggiungere la mia intuizione, queste foto sono diventate
significative. Qualcosa di simile è successo a mio padre, verso la
fine della sua vita, quando aveva ormai perso la visione centrale e
non poteva più suonare. C’era una serie di registrazioni, fatte
quindici o vent’anni prima, di cui aveva sempre rifiutato la
diffusione, perché non ne era del tutto soddisfatto. Le riascoltava
ogni tanto, ad anni d’intervallo, ma manteneva sempre il suo veto.
Fino al giorno in cui, improvvisamente, cambiò parere prima su
una, poi su un’altra. Quando gliene chiesi il motivo, mi spiegò che
all’epoca il modo in cui “veniva fuori” non gli piaceva – ma che se
ora avesse potuto suonare quel pezzo, lo avrebbe suonato proprio
così.

Anch’io ho esplorato dei vecchi provini per farci delle scoperte,


ma con scarso successo. Forse perché sono ostinato nei miei
giudizi.

È il tuo occhio sinistro! Io invece scopro spesso, nelle mie foto,


dettagli che non avevo notato al momento dello scatto, e senza i
quali la foto sarebbe meno interessante – o del tutto priva di
interesse. Come quella dell’orfanotrofio, con la monaca che ripara
una bambola. A destra c’è un paio di scarpe da bambino, messe a
forma di croce, che non avevo notato, ma senza le quali la foto non
sarebbe la stessa. Un orfanotrofio e delle scarpe vuote disposte a
croce! Non avrei saputo immaginarlo! Ma son sicura che,
inconsciamente, le ho percepite. Non siamo noi che prendiamo le
foto, sono loro che ci prendono, a volte è come se un’immagine mi
pigliasse per il collo e mi obbligasse a reagire. Fare una foto è
come ritrovare un pezzo di sé in una qualche parte nel mondo, dei
frammenti di sogno o di realtà che finiscono per costituire un
autoritratto. Mi infastidisce un po’ quando parlano del mio lavoro
come di una “creazione”, mi pare piuttosto di interpretare una
musica che è dappertutto, che è offerta a chiunque, ma che la mia
interpretazione rende personale. Come quando mio padre suonava
Chopin. Ogni fotografo ha un suo modo di isolare le cose, come se
ponesse una firma sul proprio sguardo.

Per me il soggetto principale della fotografia è il tempo. Una


foto non è tanto una descrizione di oggetti, di persone o di
luoghi, quanto la percezione di un istante, che è stato e che
non tornerà mai più. Una foto che potrebbe essere rifatta non è
una buona foto. Mi ci fanno pensare le tue: ciascuna racconta
un momento unico, anche quando mostra solo una stanza
quasi vuota, in cui avresti potuto tornare a qualsiasi momento.

Non si torna mai indietro – ed a questo proposito ho da raccontarti


una storia. Qualche anno fa, durante un seminario, mi sono legata
intensamente a qualcuno. Questa persona è dovuta partire prima
di me. Qualche minuto dopo la sua partenza ho fatto delle foto
nella stanza in cui eravamo stati insieme. Non avevo treppiede ed
ho dovuto lavorare a un quarto di secondo, a mano libera. E in più
ero emozionata. Due giorni dopo, guardando i provini, ho trovato
che la foto non era molto nitida. Dunque sono tornata in quella
stanza, con un treppiede e con l’animo più calmo. Tutto era come
la prima volta, l’ora, la luce, la disposizione degli oggetti. La
seconda foto è nitida – ma completamente sterile. Le ho mostrate
entrambe a diverse persone, senza dire nulla, e tutte hanno
preferito la prima. Senza dubbio perché la seconda non contiene
emozione, nulla succede in me, al di fuori della ricerca di una
“buona” foto.

Sei sicura che la differenza non sia solo nella tua


immaginazione?

È stata la reazione degli altri a farmi pensare a una differenza. E


nessuno ha saputo spiegarla, una sola persona ha notato la
mancanza di nitidezza. Per me, questo prova che l’impatto emotivo
di una foto dipende dal “prezzo emotivo” che si paga. Potrei
raccontarti altre storie su questa foto, ma quella che preferisco è la
seguente: la foto faceva parte di una mostra personale, insieme ad
altre 129. Alla fine della mostra, ho voluto esprimere la mia
gratitudine a due delle organizzatrici, proponendo loro di scegliere
ciascuna una stampa. Preciso che le mie foto non hanno titoli e
che queste donne ignoravano le circostanze in cui le avevo
scattate. Una ha scelto la foto d’un letto disfatto, l’altra – una
persona molto intellettuale, professoressa universitaria – ha scelto
questa. Dovevo sembrarle sorpresa, perché ha aggiunto, come
spiegazione: “Mi fa venir voglia di fare l’amore.” Tra centotrenta
foto, queste persone hanno scelto le due che effettivamente sono
state scattate dopo aver fatto l’amore! Dev’esserci qualcosa che
veicola questo messaggio – eppure la foto di cui parlo mostra solo
alcuni dettagli di un interno!

Ci vorrebbe un’analisi semiologica…

Dio ce ne scampi! Si può spiegare la musica? Se tu sapessi fare


un’analisi semiologica di Mozart, saresti Mozart! Meno male che ci
sono ancora dei misteri, se no non ci sarebbe più arte! L’arte, è
quando certe cose “funzionano”, anche se sono teoricamente o
tecnicamente sbagliate, semplicemente perché portano la carica
emotiva di un momento. È proprio questo che ha fatto impazzire il
povero Salieri. Ma tu cosa ci vedi in questa foto?

Se devo proprio essere sincero, non è una foto sulla quale mi


soffermerei.

Ma vedi una differenza tra le due?

La differenza di nitidezza non mi colpisce. Vedo che una è stata


scattata un po’ più dall’alto, di modo che l’angolo della porta
sembra più acuto. Per usare la terminologia di Barthes, mi pare
che quest’angolo sia il “punctum”.

La tua reazione è tipica di un occhio sinistro, ma quello che dici


dell’angolo è vero. Non ci avevo mai fatto caso.

Vedo anche una terza differenza: nella prima foto la macchia di


luce è più intensa, ed è probabilmente questa macchia di luce
che ha indotto la tua reazione emotiva. In tal caso sarebbe
questo il “punctum”. Resta da chiedersi perché hai riconosciuto
la tua emozione in questo dettaglio piuttosto che in un altro.

Non ne ho la minima idea. Per quanto riguarda l’intensità della


macchia di luce, potrebbe venire dalla stampa. Tutto quello che so
è che al momento di scattare ero emozionata e in pena per una
separazione. Ma perché l’ho espresso mostrando un raggio di sole
su un vecchio parquet, un frammento della porta del bagno e il
disotto di un comò? Perché non il letto o la finestra?
Eri emozionata e il logico sfogo della tua emozione era di
fotografare, dal momento che sei fotografa e che ti trovavi in un
seminario di fotografia. Dunque hai cercato col tuo mirino…

Non cerco mai col mirino, non lavoro in questo modo. Prima
qualcosa mi colpisce e solo dopo prendo la macchina fotografica.

Dunque hai visto l’angolo della porta e il raggio di luce, e la tua


emozione ha riconosciuto qualcosa che la tua coscienza non
avrebbe saputo definire. Quando sei tornata, due giorni dopo, a
mente fredda, questi significanti emotivi non ti colpivano più. Ti
sei dunque concentrata sulla nitidezza e su altri dettagli,
secondari per l’emozione. Nella seconda foto questi dettagli
acquistano importanza, a detrimento dei significanti emotivi.
Tutto questo è affascinante, stiamo parlando del problema
centrale della fotografia: in quale momento scattare?

E perché scattare? Nei miei seminari chiedo spesso: “Quali sono le


foto che non avete fatto? E perché non le avete fatte?”

E tu che risponderesti a questa domanda?

Mi capita di vedere cose, di cui so che, se le fotografassi, le


distruggerei. Per esempio una rete di relazioni tra persone che
vedo per strada, e che interromperei sei mi avvicinassi con
l’apparecchio.

E se tu potessi fare la foto prima di interromperla?

Sarebbe come un furto. A volte sento che un passo di più


distruggerebbe quello che avviene tra loro. Allora preferisco
rinunciare alla foto e conservare questo momento nella mia
memoria.
E se tu potessi fare la foto senza essere vista, come attraverso
una vetrata a specchio?

Non so se lo farei, ma non mi piace parlare in termini di regole. E tu


che faresti? Guardando le tue foto di New York, ho notato che
spesso fotografi persone che non ti vedono: che hanno gli occhi
chiusi, che si nascondono sotto un impermeabile o che si
avvolgono in teli di plastica. Non li affronti mai faccia a faccia.

È vero. Persino in studio, dove la collaborazione delle modelle


è di regola, mi sembra che una foto debba essere rubata. Le
tengo occupate in un modo o in un altro, per esempio
proponendogli di assumere un ruolo, ma ciò che prendo non è
mai quello che loro credono di dare.

L’idea di prendere mi mette a disagio, per me le persone non sono


fatte per essere prese. In questo non sono d’accordo con Diane
Arbus, né con Lisette Model, che pure è stata la maestra di Diane
e la mia. Loro si arrogavano il diritto di fare qualsiasi cosa, con
chiunque, in nome della loro “arte”. Io rifiuto quest’idea, forse per
contrasto a certe persone che hanno avuto un ruolo importante
nella mia vita, e che ponevano le loro esigenze “d’artista” al di
sopra di tutto. Per me, gli esseri umani sono più importanti
dell’arte. Mi sembra che quando Diane fotografava quei nani, quei
nudisti o quei freaks, lei prendeva sempre un po’ più di quanto
queste persone offrivano di loro spontanea volontà – a little pound
of flesh more, una libbra di carne in più – forse perché questo le
dava un senso di potere.

Forse hai ragione, ma per me Diane è stata come una santa, e


sono sempre stato disposto a giustificare tutto quello che
faceva. Ma quando guardo la tua foto di questa vecchia, mi dico
che anche tu devi aver avuto dei momenti di santità, se no non
ti saresti sentita in diritto di farla.

Questa foto è effettivamente carica di sofferenza. Avevo viaggiato


da sola per tre settimane, attraverso gli Stati del Sud e i monti
Appalachi, con un’automobile così vecchia che non potevo
neanche chiuderla a chiave. Una notte, in una cittadina del
Tennessee, trasportai tutta la mia attrezzatura e i miei bagagli fino
al secondo piano dell’albergo. Una precauzione stupida, perché
già da anni avevo problemi di schiena e lo sforzo mi fece rompere
due vertebre. L’indomani ripresi la strada per New York, malgrado
un dolore così intollerabile, che per accelerare o frenare dovevo
reggermi la gamba con una mano. Nel Kentucky si mise a piovere
così forte che non c’era più visibilità. Fermai la macchina e il caso
volle che fosse davanti ad un ospizio, in cui entrai zoppicando e
sperando di trovare un analgesico. Non ne avevano, ma
guardandomi attorno vidi questa donna e chiesi il permesso di
farle qualche foto. Non so se fosse cosciente, a momenti
ridacchiava come una bambina e un attimo dopo si metteva ad
ululare. Mi sono chiesta se avevo il diritto di fare quello che facevo,
non mi piace fotografare persone che non lo accettano. Credo che
non lo avrei fatto se non fossi stata anch’io in una condizione di
estrema sofferenza. Ma quella volta l’ho fatto. Qualche settimana
dopo, ho inviato una stampa alla responsabile, per chiedere il
permesso di pubblicare la foto. Non hanno fatto difficoltà, e
sembra anzi che qualcuno della sua famiglia abbia detto: “Ma
guarda! È proprio tipico della vecchia Mathilda!” Pare sia morta
poco dopo il mio passaggio, e credo di averla fotografata con
rispetto, anche se non ho potuto farle comprendere quello che
facevo. Mi fa pensare alla poesia di Dylan Thomas, a proposito di
suo padre morente: “Do not go gentle into that good night / rage,
rage against the dying of the light.”
Dunque è stato effettivamente un momento di santità.

Non so cosa intendi con questa parola, non sono esperta di


santità. Ma credo che non bisogna dare meno di quanto si riceve.

Lo vedo in alcuni dei tuoi ritratti, le persone guardano il tuo


obiettivo come se si aspettassero una carezza.

Vorrei che tutti i miei ritratti avessero questa qualità, perché è


effettivamente quello che vorrei dare, in un certo senso, alle
persone che fotografo. Non voglio che la mia macchina fotografica
sia uno strumento d’aggressione o di potere. Non so se
pubblicherai questa registrazione tale e quale, ci sono cose che
vorrei dire e che non so come verranno fuori… Una volta, qualcuno
mi ha detto che facevo l’amore come un uomo, ed io ho risposto:
“No, faccio l’amore come una persona.” Non credo che quello che
me l’ha detto mi trovasse aggressiva, ma non era abituato a donne
che partecipano. Io ho bisogno di partecipare, in fotografia come
in amore. Ho bisogno che una parte di me divenga l’altra persona.
Dopo una seduta fotografica come la intendo io, mi sento come se
avessi fatto l’amore per un giorno intero, spossata, appagata e sul
punto di crollare. È anche per questo che non so fotografare il
primo venuto, che riesco così male a far lavori su commissione: è
come dover far l’amore con qualcuno che non si è scelto. A volte
vorrei che la macchina fotografica scomparisse, per fotografare
solo con i miei occhi o col mio corpo. Fotografare può essere
davvero come far l’amore: talvolta mi capita di tremare come una
foglia. Ho un amico fotografo per il quale provavo un sentimento
molto intenso – ma da cui non volevo farmi coinvolgere. Ho fatto il
suo ritratto, e durante la seduta lui ha osservato: “È la prima volta
che vedo un fotografo per cui l’apparecchio sembra un ostacolo” –
ed era proprio così!
Anche per me la fotografia può essere sensuale e sessuale. Ma
se per te è come carezzare qualcuno che ti guarda, per me…
Conosci un romanzo giapponese che si intitola La casa delle
belle addormentate? È la storia di un bordello per vecchi:
trascorrono la notte accanto a delle ragazze addormentate, che
però non hanno il diritto di penetrare.

Una situazione senza rischi!

È uno dei romanzi più sensuali che io conosca.

Per un uomo. È una idea maschile della sensualità.

Quello che cerco è forse un po’ come in quel romanzo. Ma tu


dovresti capirlo, non ti hanno detto che fai l’amore come un
uomo? Non ti piacerebbe fotografare persone che dormono?

Ci ho pensato ed ho anche chiesto ad alcune il permesso di farlo,


ma alla fine ci ho rinunciato. Mi sembrerebbe di utilizzare un essere
umano come un oggetto. Non mi piace agire quando l’altro non
può reagire, sarebbe come far l’amore con una cosa inanimata.
D’altra parte, l’osservazione sul mio modo di far l’amore non era
mia, mi era stata fatta molto tempo fa, da uno che era un “macho”
nel senso peggiore della parola.

Eppure mi chiedo se i momenti più belli dell’amore – ed anche


della fotografia – non contengano necessariamente una parte
di malinteso, o quanto meno d’illusione.

Mi rifiuto di crederlo. Ho subito troppe illusioni che mi sono state


imposte, da persone che mi vedevano diversa da quello che sono.
È un gioco terribilmente destrutturante, benché capisco che ci si
possa lasciar prendere, per facilità o perché non si sa resistere alle
lusinghe. Ma finisce sempre male, si finisce per non sapere più chi
si è. È un gioco che non voglio subire mai più, né tantomeno farlo
subire ad altri.

Ma può esserci amore – o fotografia – senza una parte


d’illusione? Per me, fare una foto di nascosto può essere come
accarezzare qualcuno in un sogno. Se la persona alza lo
sguardo verso la macchina fotografica, il sogno svanisce.

Così ti proteggi. Perché a te l’identificazione con un altro sembra


un rischio.

Quando fotografo in strada, capita che le persone se ne


accorgano. Allora guardo altrove e me ne vado. Non per paura
di loro e neanche per un rifiuto di identificarmi con loro, ma
perché è come se potessi vederli solo a condizione che loro
non mi vedano: proprio come attraverso un vetro a specchio.

Perché vuoi essere solo a decidere, e perché questo ti dà un


senso di potere. Il loro sguardo è una richiesta, alla quale tu forse
non hai voglia di rispondere. A me non piace fotografare le
persone in strada. Forse è anche per paura di farmi scoprire, ma
preferisco credere che sia soprattutto per non prendere ciò che gli
altri non sono coscienti di dare. Forse c’è un po’ dell’uno e
dell’altro, non si è mai sicuri delle proprie motivazioni. Una volta,
scendendo sulla Diciannovesima strada, ho notato una grossa
negra che dormiva sul marciapiede, davanti ad un negozio chiuso.
Ho sentito un bisogno irresistibile di fotografarla, senza sapere
perché, non avevo mai fatto una foto simile. Ma è stato più forte di
me: mi sono inginocchiata sul marciapiede, ho fatto alcuni scatti,
molto lentamente, poi ho preso un respiro profondo, mi sono
rialzata e sono ripartita. Come se di proposito avessi corso il
rischio che si svegliasse e mi scorgesse. Ma non potevo fare
altrimenti, non tanto per l’angolo di ripresa – avrei anche potuto
accovacciarmi – quanto perché bisognava che fossi in
ginocchio…

Anch’io, quando scatto una foto di nascosto, provo un pizzico


di cattiva coscienza! È forse una delle ragioni per cui, a New
York, riesco a fotografare solo quando fa eccessivamente caldo
o eccessivamente freddo: come se sentissi un bisogno di
punirmi.

E se non mi fossi rotta le vertebre il giorno in cui ho fotografato la


vecchia del Kentucky…

… non ti saresti sentita in diritto di farlo!

Neanche adesso so se ne avevo il diritto. Ma so che non l’ho fatto


alla leggera.

Piuttosto che “cattiva coscienza”, avrei potuto dire “disagio”.


Quando queste forme nel mirino, che cerco di comporre e di
rendere nitide, alzano improvvisamente lo sguardo verso di me,
mi sembra che esprimano un’attesa che non ha nulla a che
vedere con quello che io stesso cerco di fare.

È proprio quello che mi sforzo di dirti. È questa la nostra difficoltà e


la sfida che dobbiamo affrontare: guardare il mondo attraverso
questo strumento meccanico, questi pezzi di vetro e di metallo, e
riuscire a vedere delle persone; non dimenticare mai che queste
“forme” nel nostro mirino sono esseri umani. Il rischio che
prendiamo, l’attesa da non dobbiamo deludere è di trovare una
contropartita a questo metallo, a questo strumento, a tutta questa
meccanica. Se no sarebbe troppo ingiusto!
È come se ci fosse sempre un vetro a specchio: il mirino.

Sì, il mirino si interpone tra noi e la realtà e ci disconnette da essa.


È il gran pericolo di questo mestiere: onde la mia avversione per la
macchina fotografica. L’ho sentito molto intensamente una volta, in
Irlanda del Nord, in una situazione potenzialmente pericolosa, la
gente lanciava pietre e la polizia rispondeva con bombe
lacrimogene e pallottole di caucciù. All’inizio ho avuto molta paura,
ma quando mettevo l’occhio al mirino la paura svaniva, era come
guardare uno schermo televisivo. Una cosa un po’ simile m’è
successa quando ho partorito il mio secondo figlio: avevano
appeso uno specchio sopra il letto, affinché potessi vederlo
quando usciva, e naturalmente io guardavo, con una curiosità così
grande che non mi concentravo più, come avrei dovuto, sulla mia
respirazione. Avevo dimenticato che guardavo me stessa, mi ero
disconnessa dal mio proprio parto! Alla fine ho fatto togliere lo
specchio e ho continuato il mio travaglio.

La differenza tra noi, è che io auspico la disconnessione. È la


differenza tra l’approccio romantico e l’approccio classico.

Capisco, se utilizzi questi termini nel loro significato storico.


Ciascuno di noi cerca di dire all’altro chi lui è. Il mio ideale, in
fotografia, sarebbe di avere, con i modelli, lo stesso rapporto che
mio padre aveva con la musica. Al pianoforte, mio padre diventava
la musica, mentre invece nella vita gli capitava di interpretare una
parte. Aveva una relazione umana e personale con ogni singola
nota, un rispetto per la partitura, che non deformava mai per
ottenere un effetto in più, un senso profondo della struttura
musicale. In quei momenti, lo trovavo persino commovente: perché
lo sentivo aperto e vulnerabile, nonostante tutto il suo controllo e la
sua tecnica. Nella situazione fotografica, noi fotografi abbiamo
sempre un vantaggio sulla persona che ci sta di fronte, perché
siamo noi che decidiamo di scattare. Supponiamo che questo
vantaggio sia di 90 a 10. Io cerco di avvicinarlo, per quanto è
possibile, a un rapporto di 50 a 50 – o, quanto meno, di 52 a 48.
Quando dico “identificarmi col modello”, non voglio dire solo
“riconoscermi in lui”, ma anche “uscire da me stessa per
incontrarlo a metà strada” o “aiutarlo ad uscire da sé per
incontrarmi”. La fotografia è il risultato di un tale incontro, è un
fenomeno bipolare, come una scarica elettrica. Se uno dei fili è
interrotto non succede nulla. Se non accetti di renderti vulnerabile,
non puoi chiedere che l’altro lo diventi, e non hai nessun diritto di
fare quello che fai. Il tuo atto di fotografare sarà solo un piacere da
voyeur, un esercizio gratuito di potere, una violazione dell’intimità
altrui. Quando mi son messa in ginocchio davanti a quella donna
addormentata, l’ho fatto per provare che anch’io assumevo un
rischio: quello di avere l’aria d’una stupida, o peggio di farmi
aggredire da lei se si fosse svegliata. Non potevo espormi più di
così. Credo che un tale comportamento finisca per far parte della
nostra foto, e che anche uno spettatore che non ci conosca ne
percepirà qualcosa.

New York, April 1987

Traduzione italiana di Giancarlo Biscardi



Paola Agosti:
ogni fotografo, attraverso
ciò che produce, scrive la
propria autobiografia


Paola Agosti, partiamo dalla fine. Guardando il suo archivio, il
suo percorso nella fotografia e nel giornalismo, quale
messaggio pensa di averci trasmesso?

Non mi sono mai posta il problema di lasciare un messaggio.


Penso che ogni fotografo, attraverso ciò che produce, scriva la
propria autobiografia. Questa è la mia impressione quando guardo
le mie foto. I temi che ho affrontato negli anni ’70 sono tutti riferiti
alla mia generazione. Le lotte studentesche e operaie, il
movimento delle donne, i movimenti di liberazione nel Terzo
Mondo, la fine dei fascismi in Europa, la costruzione della
democrazia in Sudamerica.

Sono tutti temi di ampia portata, grandi cambiamenti. Ma c’è


stata una fase della sua vita in cui ha lavorato anche vicino alla
sua Torino, in una dimensione solo apparentemente più
piccola.

Sì, alla fine degli anni ’70 ho scoperto che esisteva un Terzo Mondo
anche alle porte di Torino. Sono andata nel cuneese a fotografare il
Mondo dei Vinti, sulle tracce del libro di Nuto Revelli.
Poi la mostra dedicata al Mondo dei Vinti ha attraversato il mondo,
è arrivata in Sudamerica, dove la fotografa Sara Facio mi invitò per
una esposizione a Buenos Aires. Passò molta gente, tra cui molti
argentini di origine piemontese. Così, nella seconda metà degli
anni ’80, ho iniziato a lavorare sull’emigrazione piemontese in
Argentina. Intorno a Buenos Aires, Rosario, Santa Fe e Cordova ho
scoperto paesi con nomi particolari, come Cavour o Nueva Torino.
Il lavoro sui piemontesi d’Argentina mi ha dato tanto e mi fa piacere
che persone autorevoli della fotografia lo considerino come il mio
lavoro migliore. Anch’io lo sento come tale.

Sara Facio ha fotografato i grandi scrittori del Sudamerica. Lei,


qui in Europa, ha intervistato e fotografato i grandi scrittori del
‘900.

Sono nata in una famiglia di intellettuali, tra gli amici dei miei
genitori c’erano nomi importanti della letteratura, ma ero una
pessima scolara e non mi piaceva leggere, anche se amavo
scrivere. Solo più tardi, grazie al mio lavoro di fotografa, ho
scoperto il piacere della lettura. Per avvicinarmi al mondo degli
scrittori che fotografavo leggevo le loro opere. Nel 1984
l’Associazione Nazionale delle Cooperative Culturali mi
commissionò una mostra con cinquanta ritratti di scrittrici,
poetesse e saggiste italiane. E nel 1988, per il Primo Salone del
Libro di Torino, curai la mostra e il catalogo Volto d’Autore, ritratti di
scrittori realizzati da sei fotografi.

Attraverso i ritratti dei protagonisti della cultura, che cosa ha


capito del ‘900?

All’inizio degli anni ’90 con Giovanna Borgese pubblicammo per


Einaudi Mi pare un secolo, un centinaio di ritratti dei grandi vecchi
della cultura europea. Ad ognuno di loro ponemmo un paio di
domande sul ‘900. Il libro fotografico fu così corredato da molte
testimonianze sulla Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto,
Hiroshima, l’arrivo dell’uomo sulla luna e tanto altro che ci aiutò a
capire meglio il secolo attraverso quei vecchi che potevano essere
i nostri padri. Avevamo scelto i protagonisti secondo un criterio,
dovevano aver computo settant’anni. Il grande storico marxista
Eric Hobsbawm nelle pagine iniziali de Il Secolo Breve inserì una
serie di definizioni sul ‘900 che avevamo raccolto Giovanna ed io.
È stata una bella gratificazione. Mi è sempre piaciuto unire scrittura
e fotografia.
Ma devo dire che ho capito di più fotografando la gente comune,
ho trovato più disponibilità e meno maschere. Ciò non vuol dire
che fotografare gli scrittori sia stata una brutta esperienza, anzi, di
alcuni sono diventata anche amica.

Lei si definisce una femminista “simpatizzante” e non


“militante”.

In qualche modo, con la macchina fotografica, mi sono avvicinata


a questo tema. A metà degli anni ’70 con il libro Riprendiamoci la
Vita avevo documentato il movimento femminista romano e
contemporaneamente avevo iniziato la mia collaborazione con il
settimanale Noi Donne, che mi ha permesso di girare l’Italia alla
ricerca della realtà al femminile in tutte le sue tipologie: contadine,
operaie, mondine, ex staffette partigiane. Sì, penso di aver lavorato
in questo ambiente non in qualità di femminista militante ma di
femminista simpatizzante. All’inizio degli anni ’80 ho pubblicato un
libro che si intitolava La donna e la macchina, una parafrasi de
L’uomo e la macchina di Henri Cartier-Bresson, il tema era la realtà
femminile, le operaie delle grandi fabbriche di Torino, Milano e
Genova.

Quando ha capito che il suo territorio, il suo ambito, non era


l’Italia ma il mondo?
Ho avuto la grande fortuna di incontrare, nel ’68, Saverio Tutino,
corrispondente per L’Unità da Cuba. In quel periodo avevo
partecipato a un campo di lavoro volontario piantando caffè a
Cuba per un paio di mesi. Lo incontrai di nuovo a Roma verso la
fine del 1970, quando avevo appena iniziato a fare questo
mestiere, e mi propose di partire con lui per l’America Latina per
realizzare una serie di reportage. Grazie a lui e ai suoi contatti ho
potuto fotografare una serie di personaggi e di situazioni che mi
hanno permesso di vivere un’esperienza straordinaria come quella
del Cile di Salvador Allende. Il lavoro in Sudamerica mi è rimasto
nel cuore.

Al di là delle trasformazioni sociali di medio e lungo periodo,


c’è stato un momento in cui ha capito chiaramente di trovarsi
di fronte ad un evento storico, ad una svolta?

A Lisbona, pochi giorni dopo la Rivoluzione dei Garofani, il 25


aprile 1974. Dopo quarant’anni di fascismo vedere
quest’esplosione di gioia della popolazione, le statue di Salazar
abbattute e le sedi della PIDE bruciate, mi ha emozionato, ho
pensato che stavo assistendo ad un momento irripetibile della
Storia, con la “esse” maiuscola.

C’è stato un progetto che l’ha coinvolta più di altri?

Il Mondo dei Vinti che, come ho detto, mi è stato ispirato dal libro di
Nuto Revelli. All’epoca, dal punto di vista iconografico, in Italia era
molto più presente il profondo Sud rispetto al profondo Nord. Pur
non avendo frequentazioni rurali, dato che ho sempre vissuto in
città, ho sempre amato le campagne, la natura e gli animali.
Avvicinarmi a questo mondo mi ha permesso di conoscere una
parte della mia regione che stava a pochi chilometri da me ma che
in quel momento mi era quasi del tutto sconosciuta. Ho potuto
lasciare una testimonianza visiva di quel mondo agonizzante, di
quei contadini che nessuno ha voluto accompagnare nella Storia
come protagonisti.

Erano anni in cui il Piemonte era prima di tutto industria, il


Piemonte rurale non si conosceva.

Sì, in quel momento il Piemonte era l’industria. Oltre alla Fiat a


Torino, c’era la Michelin a Cuneo, la Ferrero ad Alba, l’Olivetti a
Ivrea. Questo era il Piemonte raccontato negli anni ’60 e ’70.

Le fotografie che non ha realizzato per cronaca, per rincorrere


l’attualità, sono durate di più nel tempo?

In realtà anche i lavori di pura cronaca, riletti oggi, possono essere


molto interessanti. Qualche anno fa, Salvatore Gajas, che allora
dirigeva Il Fotografo, ha trovato nel suo cassetto settantotto miei
vintage dei politici della Prima Repubblica e con quel materiale ci
ha costruito un servizio. Anche la cronaca si può storicizzare.

Sono i giornalisti che scrivono la storia giorno dopo giorno?

Beh, mio fratello, storico, non so se sarebbe d’accordo. Ma negli


anni, l’immagine è diventata importantissima anche dal punto di
vista storico. Pensi che anni fa, lo storico Giovanni De Luna,
grande amico di mio fratello, mi chiese di aiutarlo a comprendere
meglio il linguaggio fotografico. Questo, secondo me, dimostra che
gli storici sono approdati, anche se forse un po’ tardi, alla scoperta
dell’immagine come aiuto alla ricerca.

Ma resta importante la didascalia che contestualizza la foto.

La didascalia per me non deve mancare mai.


Il fotogiornalismo di oggi, per molte cause, sembra porre
l’attenzione su pochi eventi nel mondo, segue dei filoni. È
qualcosa che è sempre successo?

Direi di sì. Certamente all’epoca mia il ruolo dei giornali nel mondo
dell’informazione era più importante e di conseguenza anche il
lavoro dei fotogiornalisti aveva un peso maggiore. Sicuramente nel
mio caso la passione mi spingeva a seguire degli argomenti a
prescindere dal mercato.

È vero che non trova una grande differenza tra l’occhio di un


uomo e quello di una donna?

È una domanda a cui non ho ancora trovato una risposta, non


credo che nello sguardo femminile ci sia una sensibilità diversa.
Nella storia della fotografia femminile ci sono state donne che si
sono misurate con temi difficili, come le guerre o i campi di
concentramento. Tanti anni fa, verso l’inizio degli anni ’80, volevo
organizzare una mostra sulle pioniere della fotografia. Avevo scritto
ad una serie di fotografe nel mondo e tutte mi hanno dato una
risposta positiva al riguardo. Ma tra le lettere ricevute mi ricordo
particolarmente quella di Eve Arnold, che scrisse: “Perché dovrei
partecipare ad una mostra sulle pioniere della fotografia? Io non mi
considero una fotografa ma un fotografo. Essere etichettata come
una fotografa non mi appartiene”. Questa dichiarazione mi fece
molto riflettere.

Le dispiace se viene definita “fotogiornalista”?

Io mi sento una fotoreporter, fotografa e ritrattista.


Le ho fatto questa domanda perché, una volta, Romano
Cagnoni, mi disse: io non sono un fotogiornalista, sono un
fotografo, un autore.

Mi sento una fotoreporter. Sicuramente non sono un’artista, non so


se sono un autore, anzi un’autrice.

Oggi affronterebbe questo lavoro con la stessa passione e le


stesse rinunce che, immagino, abbia fatto?

Direi di si. La rinuncia più importante per una donna della mia
generazione, al di là delle vicende personali che si intrecciano con
quelle professionali, è stata la maternità. Se volevi lavorare come
ho fatto io non potevi mettere al mondo un figlio e
contemporaneamente alla professione fare la mamma. Laura
Lepetit, fondatrice della case editrice esclusivamente femminile La
Tartaruga, che ha scritto recentemente un bel libro di memorie,
Una femminista distratta, tanti anni fa mi diede una risposta
importante. Le dissi che l’ammiravo molto per l’impegno che aveva
messo nella sua professione senza per questo rinunciare a mettere
al mondo due figli, mentre io non c’ero riuscita. Lei mi rispose: “I
tuoi figli sono le tue fotografie”.

È vero?

Non credo proprio sia la stessa cosa. Ma io, anche se amo


particolarmente guardare al passato, cerco di non aver rimpianti
per il mio passato.

Irene Kung:
il razionale ci può portare
fuori strada, il sentimento
no


Irene Kung, il suo ultimo progetto Trees è dedicato agli alberi.
Quale è stata la ricerca che l’ha portata a realizzare il libro e la
mostra?

Gli alberi, soprattutto quelli da frutto, sono simboli di produttività,


salute, fertilità e rappresentano un’immagine positiva in questo
momento di crisi e difficoltà.

“Fermarsi per vedere, sentire, pensare e sognare” è lo stesso


atteggiamento con cui aveva affrontato il lavoro La città
invisibile. Trees è un proseguimento di questo progetto o ci
sono elementi di rottura?

Non ci sono elementi di rottura. Sono due progetti diversi ma in


entrambi il soggetto è isolato dal suo contesto e diventa parte di un
insieme immaginario.

Che cosa significa per lei la parola “essenziale”?

“Essenziale” significa riportare il soggetto a quello che ho sentito


nel momento in cui lo fotografavo. Significa eliminare il rumore per
far vedere l’albero o il monumento come sono, come li sento.
Il suo passato nell’advertising e nel graphic design le ha
insegnato ad eliminare e a lavorare, appunto, sull’essenziale?

Si, nel graphic design è importante mandare un messaggio chiaro


e leggibile. Ho però imparato a togliere quando dipingevo. Pablo
Picasso diceva “Chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione
non quando non ha più nulla da aggiungere ma quando non gli
resta più niente da togliere”.

Le didascalie di Trees non parlano di luoghi, ma di specie di


alberi. Ancora una volta, le sue foto escono dal contesto
geografico. La fotografia ci porta in una dimensione diversa,
che non dobbiamo individuare su una mappa?

La mia fotografia sì. Gli alberi di Trees non appartengono ad un


luogo geografico ma rappresentano le diverse sfaccettature
dell’animo senza però perdere la loro identità di limone, ulivo, fico e
così via. In questo progetto non è importante sapere dove si trova
l’albero bensì riconoscersi nelle varie emozioni che suscita.

Ha fotografato i monumenti che molti hanno fotografato. Ha


fotografato alberi che probabilmente molti hanno fotografato.
Allora, ha davvero senso dire fotografo “ciò che mi interessa”,
fotografo “il mio albero”?

Penso che l’artista debba dare al pubblico ciò che il pubblico non
ha, e quindi il compito di un artista contemporaneo è quello di far
sognare le persone tramite un messaggio positivo e intimo. Scelgo
i soggetti che più mi interessano e do vita alle mie emozioni
attraverso di loro, nel tentativo di arrivare anche all’animo di chi
guarda le mie fotografie.
Il lavoro sugli alberi esprime più silenzio rispetto al lavoro sugli
edifici, non trova?

Forse perché anche se nelle mie fotografie appaiono immersi nel


buio, immaginiamo gli edifici al centro delle città, circondati da
macchine, rumore e turisti mentre è più facile riuscire ad entrare in
contatto con le proprie emozioni guardando un albero che si
immagina nella natura, in un bosco. E poi gli edifici non
esisterebbero senza l’umanità, gli alberi invece sì.

Parliamo dell’elaborazione delle immagini. Frank Horvat,


grande autore pioniere del digitale, in una intervista ci ha detto
che a lui la post produzione è utile non certo per correggere,
ma per ritrovare ciò che lo aveva interessato quando ha
scattato la foto. Lei si riconosce in questo?

Assolutamente sì, come ho già detto cerco di riportare il soggetto


all’emozione che ho sentito mentre lo fotografavo. La post
produzione mi serve proprio a questo scopo.

Le sue stampe stimolano il dibattito, molto antico, su fotografia


e pittura. Lei pensa alla pittura quando fotografa o quando
elabora un’immagine?

Certo. Nasco pittrice e per me la macchina fotografica è


semplicemente uno strumento per creare le immagini. Quando poi
lavoro sulla fotografia mi concentro moltissimo sulla luce e lo faccio
con un pensiero pittorico.

Qual è il momento in cui smette di scattare, e soprattutto quale


è il momento in cui, successivamente, smette di lavorare
sull’immagine?
Quando sono soddisfatta di quello che sento. Per alcune fotografie
succede quasi subito, mentre per altre ci possono volere mesi o
addirittura anni.

Il rigore, le regole, le linee guida nei suoi progetti sono così


chiare. Non si è mai sentita in qualche modo limitata dal suo
stesso rigore?

Dopo aver lavorato a lungo sui monumenti ho sentito il bisogno di


cambiare ed è iniziato il progetto Trees. Tengo molto a proteggere
la passione per il mio lavoro, se dovessi sentirmi limitata andrei alla
ricerca di nuove sfide.

Il sogno è importante tanto quanto la nostra vita reale?

Non solo, ne è una parte fondamentale. È intuizione, è irrazionale: il


razionale ci può portare fuori strada, il sentimento no.

Alberto Alicata: 

le mie Barbie tra le icone
della fotografia


Alberto, intanto congratulazioni, questa notte hai vinto il Primo
Premio nella categoria Staged dei Sony World Photography
Awards 2016. Che progetto è ICONIC B?

ICONIC B ripercorre la storia della fotografia di moda degli ultimi


cinquant’anni utilizzando come soggetto la Barbie, uno dei simboli
della cultura occidentale contemporanea. L’idea è nata osservando
una delle più famose foto di Guy Bourdin, la modella con le gambe
tra il pavimento e la parete. Ho provato a ricreare quella foto
utilizzando una Barbie e il risultato mi è piaciuto, sia a livello
progettuale sia estetico.
Da quel momento ho iniziato una ricerca sui grandi fotografi che si
sono occupati di moda negli ultimi cinquant’anni. Ho lavorato sulle
foto dei grandi del bianco e nero come Richard Avedon, Irving
Penn, Gian Paolo Barbieri, Helmut Newton e sui fotografi che
hanno utilizzato il colore in maniera differente come David
LaChapelle, Guy Bourdin, Mario Testino.

Una serie che parte dalla fotografia di moda ma si realizza nello


still life.

Non sono un fotografo di still life. Lo still life è stato lo strumento


per riuscire a realizzare il progetto. Tutte le foto sono state
realizzate su set in scala ridotta, ma il metodo di lavoro che ho
seguito è stato molto simile ai progetti in grande scala.
Come è nata l’idea di inserire le Barbie nelle foto dei grandi
autori?

L’idea nasce durante il mio percorso di studi in fotografia. Dovevo


eseguire alcuni scatti still life con alcune stoviglie ma non mi
sembrava interessante fare gli scatti a piatti e forchette, così ho
iniziato a pensare a qualcosa che fosse il più vicino possibile alla
moda. Guardando l’immagine di Guy Bourdin, ho notato che le
gambe della modella somigliavano molto a quelle di una bambola.
Da quel momento ho pensato alla bambola per eccellenza e quindi
alla Barbie.

Hai invertito il paradigma: la Barbie assomiglia alla modella.

Esatto. I fotografi di moda hanno spesso affrontato questo


passaggio, hanno cercato di fare assomigliare la modella alla
Barbie. L’obiettivo di questo lavoro è trasformare la Barbie in una
modella in carne ed ossa, ovvero smaterializzare la modella. Un
lavoro che mi ha colpito fortemente è stato quello di Gianpaolo
Sgura, che qualche anno fa ha inserito le modelle all’interno delle
confezioni delle Barbie.

In pratica come hai riprodotto questa serie di immagini?

Una volta scelta l’immagine da riprodurre, effettuavo una ricerca


molto dettagliata sul set, sulla location, sulle luci e
sull’abbigliamento della modella. La parte più complicata in
assoluto è stata riprodurre la foto-icona in modo quasi identico
all’originale.

Sono fotografie più lunghe da costruire che da scattare.


Il momento dello scatto è sempre stato molto rapido mentre la
ricerca per ogni foto è durata settimane, a volte mesi. Ho contattato
persone specializzate nel ricostruire gli abiti in miniatura, mentre
dei set me ne sono occupato direttamente io grazie ad un passato
nell’ambito della scenografia.
La maggior parte delle foto sono realizzate in interno, su un tavolo
da still life, altre in esterno. Per la foto di Helmut Newton con la
ragazza mangiata dal coccodrillo ho usato il pavimento del mio
terrazzo, era in marmo ed era perfetto. Per ricreare l’outfit di
Audrey Hepburn nella foto di Gian Paolo Barbieri ho impiegato più
o meno un mese.

Penso sia più difficile fotografare una Barbie rispetto ad una


modella.

Quando hai una modella davanti puoi chiederle di mettersi in una


determinata posizione, invece con la Barbie, per quanto sia
snodabile, spesso ho dovuto riscaldare la superficie di gomma e
modellarla. Oppure ho dovuto togliere un braccio, metterlo nella
posizione corretta e riattacarlo.

E l’espressività?

Ho deciso di non ricreare mai l’espressione dell’originale,


nemmeno modificando la foto in post produzione. Era opportuno
mantenere una costante all’interno del progetto, l’espressione della
Barbie con il suo sorriso e gli occhi molto aperti. La foto su cui ho
avuto la maggiore difficoltà è stata quella di Audrey Hepburn,
perché non mi trovavo di fronte ad una modella ma ad un’attrice
che dell’espressività ha fatto la sua caratteristica peculiare, è stato
molto difficile colmare il gap con la forza della foto originale.
Fino ad ora abbiamo parlato delle tue foto e delle foto originali.
Ma a te questo confronto interessa?

Le fotografie originali sono la porta per entrare nel progetto.


Questo lavoro è destinato a tutti, anche a chi non conosce la
fotografia, perché nasce da immagini famose e riconoscibili da
chiunque abbia a che fare con la cultura contemporanea. Una
volta entrati nel progetto, la chiave di lettura diventa però la Barbie.

Nella foto che riprende la campagna Jesus di Oliviero Toscani,


la Barbie non si vede in volto eppure è chiaro che è lei.

Si, per questo ho mantenuto il marchio stampato sulla plastica e lo


snodo della gamba che spunta dagli shorts. Sono i dettagli che
fanno capire che si tratta di una bambola. La stessa Barbie, a sua
volta, doveva mantenere elementi immediatamente riconoscibili.

Tu parti da foto che sono state scattate per un determinato


scopo e su una determinata idea dell’autore. Per la foto di
Oliviero Toscani, ad esempio, l’impianto culturale è molto forte.
Questo è un aspetto che nel tuo progetto entra?

No, non vado a vedere questo aspetto. A me interessa partire dalla


foto-icona perché è cristallizzata nel nostro immaginario, al di là
delle ragioni per cui è stata scattata.

La donna araba di Shirin Neshat non è una foto di moda.

Ho aggiunto quella foto alla serie subito dopo gli attentati di Parigi.
Nei giorni seguenti gli attentati ho deciso di fare qualcosa a modo
mio e nell’arco di tre ore ho comprato il materiale che mi serviva,
ho ricostruito la canna del fucile e ho tagliato la stoffa per creare
una sorta di burqa. È l’unica foto della serie che non riguarda la
moda, è una mia interpretazione diretta di un fatto di attualità.

Consideri chiusa questa serie o pensi di proseguire?

Per ora penso che la sia chiusa. Ma più avanti potrei allargare il
progetto a più soggetti, a fotografie che non parlino di moda, come
ho fatto per Parigi.

Da domani, dove presenterai questo progetto?

Intanto i Sony Awards esporranno ICONIC B alla Somerset House


di Londra fino all’8 maggio. Ma la prima mostra vera e propria sarà
organizzata l’11 maggio alla galleria DaDAEast di Milano, dove
presenterò ufficialmente tutte le quindici fotografie della serie, con
la curatela di Benedetta Donato. Spero che il progetto possa
essere apprezzato anche in Italia.

Filippo La Mantia:
la sofferenza, per me, non si
fotografa


Filippo La Mantia, preparando questa intervista mi sembrava
chiaro che ci fosse un prima e un dopo nella tua vita. Prima la
fotografia, poi la cucina. In realtà, il tuo percorso segue un
unico binario, il coraggio di cambiare.

Vivo alla giornata, mi rimetto sempre in discussione, ogni giorno è


il primo giorno. Questo sono io. La gente ha bisogno di certezze, di
promesse. Io posso anche dare alla gente le certezze, ma so che
sono relative. Stiamo parlando del coraggio di essere
indipendente, di non essere schiavo del dio moneta. Credo che
con tutto quello che ho fatto nella mia vita avrei potuto essere
ricco, non lo sono affatto. Se avessi seguito la strada che hanno
seguito i miei colleghi, sarei molto ricco. Questo continuo cambiare
non mi ha permesso di approfittare delle situazioni solide. Ma in
questa vita, mi va bene così.

Il ristorante a Roma, all’interno di un grande albergo di via


Veneto, andava piuttosto bene. Due anni fa hai cambiato tutto,
sei venuto a Milano.

È un’altra tappa della mia vita. A cinquantacinque anni mi sono


rimesso in discussione e oggi mi sto giocando tutto qui. Ma in ogni
cosa che faccio c’è sempre l’immagine, la fotografia, ogni giorno
discuto di fotografia. La fotografia per me è stato l’inizio di tutto. E
tutto è nato grazie ad una donna straordinaria, Letizia Battaglia,
l’ho incontrata nel 1979, avevo diciannove anni.

Palermo, 1979. Era una Sicilia in guerra.

Io ho partecipato ad una guerra, da spettatore, in prima fila.


Purtroppo, lo posso dire.

Ma la tua vita era distante da quei morti. È stata la fotografia a


farti capire che cosa stava succedendo in quella città.

In Sicilia, qualsiasi persona che non avesse rapporti con la


cronaca non era consapevole di quello che stava succedendo
nella nostra città. Non aveva idea dei morti, dei processi, delle
bombe. Se non avessi fatto il fotoreporter, se non fossi stato
chiamato a documentare i fatti di cronaca, sarei rimasto totalmente
distaccato da quello che stava succedendo. Noi vivevamo una
situazione di benessere e non leggevamo messaggi alternativi.

Letizia Battaglia è stata la prima a volerti nel suo gruppo di


lavoro. Come è successo?

Ho conosciuto Letizia Battaglia per amore e per passione è iniziato


tutto. Erano periodi duri, di fame, Letizia aveva un sottoscala dove
sviluppava le fotografie. Ho iniziato a frequentare il suo studio per
curiosità, lei forse lesse nei miei occhi un po’ di vivacità e mi mise
a lavorare in archivio. Collaboravamo con Grazia Neri, Gamma e
altre agenzie di allora. Un giorno mi chiese: vuoi uscire con noi?
Quel giorno avevano ucciso il Professor Bosio, tra l’altro padre di
una mia cara amica, era un medico straordinario che si era rifiutato
di curare un boss ferito, e lì per la prima volta incontrai la morte.

Come era la tua giornata?


Vivevo in studio. Archiviavo, stampavo. C’era talmente tanto da
fare che le giornate volavano. Oltre ai morti, fotografavamo anche
la cronaca cittadina. Poi ho iniziato a fotografare, ma con molto
distacco, faceva impressione a tutti vedere morti sparati a terra.

Circolavano tanti fotografi intorno a quello studio, eravate un


punto di riferimento. Scianna, Koudelka…

Erano i pionieri dell’immagine e posso dire che io c’ero. In quegli


anni il nostro era uno studio allo studio di tutti gli studi del mondo di
fotografia. Tutti osservavano il nostro lavoro e quello di Letizia
Battaglia, un’eroina straordinaria che andava in giro a documentare
le cose più assurde che potevano succedere. Quando venivano a
Palermo i fotografi, io li portavo in giro. Koudelka è arrivato
attraverso Letizia ed è nata un’amicizia fraterna, ancora oggi
abbiamo un rapporto forte. Qualche anno fa mi fece quattro scatti
indimenticabili: eravamo a Roma, avevano appena finito di montare
una sua mostra, e con la mia moto andammo a Fregene in
spiaggia, lì questa grossa moto si impantanò e, mentre acceleravo
e usciva sabbia da tutte le parti, lui scattava fotografie. Ho quattro
scatti pazzeschi.

Ogni giorno, in questo ristorante, sei quel Filippo La Mantia che


fotografava in bianco e nero le stragi di mafia e sviluppava i
negativi con acidi usati e riusati?

Sono sempre lo stesso. Ho sempre quello spirito, sono sempre


stato un hippie, sono cresciuto in strada, con la moto. Sono felice
che, dopo tutti questi anni, il mio atteggiamento alla vita venga
riconosciuto.

Quando hai smesso di fare foto?


Quando ho pensato che il mio lavoro l’avevo fatto. Ho fotografato
parecchi morti ammazzati, ho fotografato l’omicidio Dalla Chiesa,
la testa tagliata sul sedile dell’auto. Potevo iniziare a fare altro.

Da tutto questo lavoro al fronte ti porti dietro il rispetto per le


persone.

Non ho mai sfruttato il dolore dei parenti, anche se il morto era il


peggior killer della mafia. La sofferenza, per me, non si fotografa.
Tu devi fotografare il fatto, è quella la cronaca. Ma questa è una
cosa innata, non mi è mai piaciuto mostrare le persone che
soffrono. Ripulivo tutto, fotografavo il particolare. Quando ho fatto
la strage di Chinnici, a terra avevo arti, gambe, il corpo di Chinnici
bruciato, ma era tutto talmente duro ed inenarrabile, anche
attraverso le immagini, che la foto che ho dato ai giornali mostrava
questa chiesa sgranatissima sullo sfondo, un occhiale, una carta
d’identità bruciata e le macerie.

È quella distinzione che fanno i fotoreporter: momento dello


scatto e momento della diffusione.

Ho fatto scatti crudi, feroci e molto impressionanti. Ai giornali


mandavo le foto che volevo io, non quelle che chiedevano loro.

Poi c’è il momento che ha cambiato la tua vita. La storia è nota:


a ventisei anni, per un clamoroso errore giudiziario, finisci otto
mesi in carcere per una strage di mafia. Vieni liberato la vigilia
di Natale, avevi appena finito di cucinare per tutto il carcere.
Che cosa tu hai pensato di quell’arresto, possiamo
immaginarlo. Ma Palermo che cosa ha pensato di te?
Palermo ha pensato che facessi parte della squadra dei killer. Le
città sono così. Se ti arrestano, nessuno si chiede se hanno
sbagliato. Tutti dicono hai visto? per questo aveva la Vespa, aveva
la macchina. Letizia è stata la prima donna ad andare a parlare col
giudice Falcone. Sono stato vittima di un periodo della mia città,
non ce l’ho con nessuno. Il carcere è stata un’esperienza
pazzesca. Se avessi saputo che erano otto mesi sarebbe stato
diverso, ma io avevo l’ergastolo. Sono stato in carcere senza
sapere quando sarei uscito e sapendo di essere innocente. Così la
vita cambia.

Hai detto che nella tua Palermo visiva, quella che osservavi
ogni giorno con la macchina fotografica, anche nei quartieri più
difficili c’era sempre una tavola apparecchiata.

Il cibo è sempre stato il momento di comunità di qualsiasi popolo.


Ogni volta che andavo a fotografare le case povere di Palermo, le
uniche cose a cui tenevano erano le bottiglie della Fanta e della
Coca Cola sulla tavola. Il lusso non era il vino, perché il vino era da
osteria, il lusso era avere sulla tavola la Coca Cola nella bottiglia di
plastica. Il cibo è sempre stato il filo conduttore tra il malessere e il
benessere, tra la povertà e la dignità.

Se puoi, oggi vai a cucinare nei campi profughi con


Emergency.

Sono onorato di avere amici come Gino Strada, è un fratello.


Quando andai a Khartoum a trovarlo sono stato con lui in sala
operatoria per diversi giorni. Lì ho capito che dentro abbiamo tutti
un colore, è inutile parlare di nero, di giallo, di bianco. Lì trovi in
cucina persone che non conosci neppure. Mentre qui è tutta
immagine, vai in questi posti e trovi persone che lavorano in
condizioni estreme.
E lì non ti viene voglia di fotografare?

No, assolutamente. Questi sono momenti che ti devi tenere dentro,


sennò diventa spettacolo. Quando vado in questi posti, non
fotografo mai. La solidarietà è una cosa mia, non si racconta.

Continui ad eliminare la sofferenza dalla fotografia.

La sofferenza non si fotografa.



Marco Maria Zanin: 

esploro il presente fino alla
più profonda delle sue
radici


Marco, da quattro anni tua vita è divisa tra l’Italia, Padova, e il
Brasile, San Paolo. Dici che lo fai perché hai bisogno di
spostarti per comprendere e per decodificare il presente.

Certo. Sono stato attratto dal Brasile perché è il luogo più distante,
sia a livello geografico che simbolico, da quella che è la mia terra
d’origine. Credo che uno dei problemi più grandi dell’epoca
contemporanea sia che abbiamo sostituito i principi universali, i
punti guida, con le sovrastrutture. Ad esempio, se chiedi ad una
persona che cos’è la giustizia, ti risponderà che è un sistema di
norme. Chiamiamo giustizia ciò in realtà che è un codice.
Continuiamo a parlarci tra addetti ai lavori, a cercare soluzioni
dentro i problemi stessi.

Abbiamo una visione troppo confinata al territorio in cui ci


troviamo, e peggioriamo le cose perché pensiamo che questa
sia una visione universale.

Credo che la prima cosa che dobbiamo fare per riuscire a


decodificare il presente sia uscire da questi compartimenti stagni.
È qui che nasce l’esigenza di ciò che io chiamo dislocamento,
ovvero uscire forzatamente da un contesto per collocarsi in un
altro, il più distante possibile rispetto alle categorie del contesto di
partenza.

Tu metti in atto il tuo “dislocamento” tra Padova e San Paolo.


Che cosa rappresentano?

Padova e San Paolo sono due città che più diverse non potrebbero
essere. Una rappresenta il legame con la terra, con le tradizioni,
con le radici. L’altra rappresenta il salto nel mondo, il cemento,
l’incertezza, l’esplosione delle metropoli contemporanee. Uso
questi due poli come due pietre focaie, facendoli cozzare uno con
l’altro per generare scintille in grado di aprire possibili vie d’uscita.

Parliamo della percezione che il pubblico, i tuoi collezionisti, i


tuoi galleristi hanno di te. Anche qui siamo piuttosto distanti:
sei al tempo stesso un giovane emergente in Italia e un autore
nel pieno del proprio percorso lavorativo per il resto del
mondo.

Non è solo una questione di età anagrafica. Il mio lavoro in Brasile,


da quando sono arrivato quattro anni fa, viene assorbito e viene
fatto circolare. È normale che sia più difficile avere attenzione
all’inizio della carriera artistica, però, ancora adesso, in Italia a
volte succede che quando chiedo ad un curatore se posso
mostrare il mio lavoro, questo mi guardi dall’alto in basso. In
Brasile non è mai successo, c’è sempre stata un’apertura, un
grande interesse nei confronti di un artista proveniente, tra l’altro,
da un contesto così diverso.

Non credo sia solo un fatto di atteggiamento, di sensazioni. Da


un punto di vista pratico, dove sono le differenze?

In Brasile, oltre a quelli storici, c’è una generazione di curatori dai
venticinque ai trentacinque anni che ha in mano la situazione. Sto
parlando di livelli altissimi, anche istituzionali. Vengono organizzate
tantissime mostre collettive, le gallerie si confrontano, collaborano,
scambiano, non sono gelose dei loro artisti. Poi i luoghi istituzionali
hanno un ottimo sistema di bandi per esposizioni temporanee che
vengono finanziate dalle istituzioni stesse, nonostante il Brasile sia
entrato in una grossa crisi economica. Infine, il punto di forza è
proprio questo grande desiderio di condivisione e di scambiare
idee. Capita, almeno due o tre volte a settimana, che artista e
curatore si siedano attorno ad un tavolo e passino ore a sviscerare
i contenuti relativi alle rispettive ricerche. Ci sono gruppi di
discussione, si fanno vedere i lavori e questo permette al lavoro di
un artista di rafforzarsi e assumere rotondità. Ovviamente, in
questo modo, sei anche molto più presente nel mercato, i
collezionisti ti vedono e ti seguono.

La tua ricerca sintetizza uomo, territorio e tempo. È intorno a


questi tre temi che rintracci le linee guida della
contemporaneità?

Quello che cerco di fare con le mie fotografie è una sorta di


carotaggio, da quella che è una manifestazione formale
contemporanea fino agli strati più sotterranei, dove si muovono,
anzi ci muovono, i miti e gli archetipi. Cerco di leggere nella realtà i
modi con cui lo spirito ha intriso la materia nelle sue diverse
manifestazioni. Molti dei segni che nascono nell’interazione
dell’uomo con la materia possono essere letti come dei simboli,
dall’architettura alle infrastrutture, dall’oggetto sacro allo strumento
di lavoro. Questa lettura multidimensionale ci può aiutare a una
maggior consapevolezza quando poi dobbiamo agire in prima
persona, quando dobbiamo essere noi stessi a lasciare un segno
nel tempo e a fare le nostre scelte.
Hai fotografato San Paolo in due modi. In una occasione hai
mostrato la città, in un’altra occasione, nel lavoro Lacuna e
Equilibrio, hai fotografato la città senza fotografarla, hai
allestito un set in casa tua e hai posizionato oggetti di uso
comune. Questa era per te San Paolo. Il racconto ha più forza
se non ricorre alla documentazione o alla descrizione?

A me interessa il presente come pretesto per andare a scavare fino


a dove si innesta la più profonda delle sue radici. Nel 2013 ho
realizzato a San Paolo un lavoro alla Gabriele Basilico, nel quale
leggevo la città attraverso l’architettura. È un lavoro che io
considero uno studio, un passaggio. In Lacuna e Equilibrio, che è
un lavoro dell’anno scorso, c’è stata invece un’immersione nella
città totale, intima, inconscia, una cosa che nemmeno io sono
ancora riuscito a decifrare fino in fondo. Ho messo su un piano
neutro le macerie degli edifici che San Paolo demolisce e
ricostruisce alla velocità della luce, manifestazione del rapporto
patologico che la nostra epoca ha con il tempo.

A quale patologia ti hanno fatto pensare i progettisti di San


Paolo?

Nelle città delle economie emergenti le dinamiche del mercato


assumono dimensioni violente. Un edificio viene costruito per
esercitare una funzione immediata. Il rapporto patologico con il
tempo dell’epoca contemporanea è che noi eternizziamo il
presente, tutto ciò che costruiamo è usa e getta, vive ed è
funzionale solo nel presente, senza alcuna considerazione e
cautela riguardo la sua genesi o il suo destino.

Tutto questo lo hai mostrato ricorrendo ai simboli e alla


decontestualizzazione.
È ancora il principio delle pietre focaie che cozzano e scatenano la
scintilla. Questa volta ho usato come referenza relativa all’Italia, alla
mia cultura, Giorgio Morandi, che con i suoi oggetti di poca
importanza è riuscito a dare alle opere una dimensione metafisica,
una dimensione eterna. Usando un set e oggetti di un rango
ancora più basso di quelli di Morandi, le macerie, ho ragionato
sulla dinamica della distruzione e della costruzione di edifici.
Credo sia un lavoro importante perché racconta come di fronte allo
scenario di rovine che spesso rimane dopo il passaggio di questo
uragano della modernità, è ancora possibile ricostruire una
possibile armonia, un possibile equilibrio che nasce da quella che
era una lacuna.

Da qui il titolo del progettto, Lacuna e Equilibrio.

Esatto. Si tratta della capacità umana di ricostruire un senso, una


possibile via d’uscita, anche di fronte al deserto. Ed è in questo
senso, forse, che un’immagine che non si limita a documentare
può costituire una forza più ampia. Oltre a riferirsi al presente, può
indicare una possibile direzione per il futuro.

Con questo tipo di lavoro così simbolico racconti un presente


più ampio, che può interessare anche altre realtà.
Probabilmente questo risultato non lo avresti ottenuto con la
pura documentazione.

Questo è ancora un altro punto di vista. Quando si astrae


diventano poi possibili diversi livelli di lettura e sicuramente quello
che dici tu è uno di questi. Certo, uno dei pericoli quando cominci
a lavorare in maniera più concettuale è che un’immagine rimanga
inaccessibile. È una sfida, per me è importante che ci sia sempre
una via di accesso alla soluzione dell’enigma, una comprensione
da parte del pubblico del mio lavoro.

San Paolo è stata oggetto anche di un tuo lavoro sulle


migrazioni in cui non mostri mai l’essere umano. Perché hai
scelto di non inserire le persone?

In quel progetto sono partito da un tema di estrema attualità come


la migrazione, ma non l’ho mai mostrato esplicitamente. Deve
essere uno dei livelli di lettura a cui si arriva. Oggi il pericolo è che
se tu parli in maniera diretta di un tema di attualità la gente
scappa. Invece, mi piacerebbe arrivare come un profumo a
risvegliare queste note del nostro presente. Il lavoro si chiama Os
Argonautas, ovvero Gli Argonauti, coloro che guidati da Giasone
partirono alla ricerca del Vello d’Oro. Come vedi, si tratta sempre di
andare a cercare l’ultima radice. I protagonisti dell’indagine sono i
contadini e i piccoli artigiani del Veneto dell’Ottocento, quelli che
poi Nuto Revelli, riferendosi però al Piemonte, avrebbe chiamato i
vinti. Ed ecco perché non mostro mai l’uomo. È una storia, quella
dei migranti, dei vinti, completamente trascurata dalla storia
celebrativa. E’ anche una storia in costante demolizione,
soprattutto a San Paolo dove tutti gli edifici in cui hanno vissuto
questi migranti sono stati ridotti in poltiglia come quelle macerie di
Lacuna e Equilibrio.
Oltre a questo c’è anche un’epoca, quella in cui viviamo, che non
ha memoria. Per questo mi sono mosso attraverso quelle tracce
che emergono dalle storie delle persone che ho incontrato,
attraverso gli oggetti che ho trovato nei mercatini dell’antiquariato.
Quello che mi interessava era entrare in quelle stanze dove la
memoria si mescola con il sogno, una memoria affettiva che spero
possa risuonare con la nostra.
Ogni tua risposta ha spunti storici, visivi, legati al viaggio,
all’attualità, alla condizione umana. Quali sono i tuoi riferimenti
culturali?

Da sempre sono stato spinto, anche per contingenze della vita, a


cercare delle risposte, a vivere esperienze diverse, a far sorgere
nuove domande. Questa mia ricerca umanistica si è anche
riflettuta nella mia formazione, mi sono laureato prima in letteratura,
poi in relazioni internazionali e infine ho preso il master in
psicologia.

La fotografia è una sintesi di tutte queste tue curiosità, di


queste forze?

Una cosa che avrei sempre voluto fare è insegnare, come modo di
comunicazione e di possibile contaminazione di quello che mi
stava intorno. Poi ho scoperto che la fotografia poteva veramente
sintetizzare, come dici tu, tutte queste cose, in quanto è un mezzo
di comunicazione molto efficace e forse anche più efficace della
parola. Però mi piacerebbe riuscire a generare, attraverso la
fotografia, delle ricadute che non si esauriscano nella dinamica
atelier-galleria oppure fiera-collezione privata. Per me questa è una
questione ancora apertissima, su questo aspetto sto vivendo un
momento di conflitto molto creativo.

Pensi che le troppe immagini da cui siamo circondati abbiano


un peso specifico ormai molto basso, oppure continuano ad
essere efficaci?

Quando ho finito di studiare ero saturo di parole e pensavo che


fossimo circondati da troppe parole, che le immagini fossero più
incisive e sintetiche. Ora lavoro nel mondo delle immagini e mi
rendo conto anche di quanto siamo saturi di fotografie. La mia
strategia per poter comunicare è quella del silenzio. Nelle mie
fotografie c’è sempre una sensazione legata al vuoto, al silenzio.

Ma fai molta attenzione alle parole dei tuoi titoli.

Ho sempre pensato di non essere bravo a nominare le serie, ed è


una cosa a cui dedico un sacco di tempo. Cerco di fare in modo
che i titoli siano evocativi e mai descrittivi. C’è una mia foto che
sembra un castello di carte e che in realtà è un castello di antiche
foto di famiglia, il cui titolo è Carvalho, in portoghese quercia, un
titolo in contrasto con la fragilità della memoria che è comunicata
dalla forma di questo castello di fotografie. C’è sempre il tentativo
di evocare senza dire troppo.

Nel tuo lavoro Cattedrali Rurali, che significato ha il termine


Cattedrali?

Cattedrali riguarda la sfera del sacro. Il mio lavoro va nella


direzione di conferire un valore sacrale a ciò che è stato escluso
dalla storia celebrativa capitalistica, che è stata scritta dai vincitori.
Le cattedrali rurali sono case coloniche dove vivevano queste
famiglie di contadini. Per me simboleggiano il vincolo sacro tra
l’uomo e la terra che si è realizzato fino alla metà dell’Ottocento e
che oggi va assolutamente riattivato.

Cattedrali Rurali è nato dal tuo territorio, così come la tua


ricerca sui ritratti è partita da un autoritratto. I tuoi progetti
nascono da ciò che ti circonda e che più conosci?

Questa cosa è vera per quella parte di me che esplora il rapporto


con le radici. Però, poi, amo anche il salto nel vuoto, come è stato
per esempio andare a San Paolo. Mi piace costruire una sintesi tra
ciò che è nuovo ed inesplorato e ciò che fa parte di una storia, di
una tradizione, di una radice.

Forse doveva essere la prima domanda: come mai San Paolo?

All’università feci la mia prima tesi sulla comparazione tra due


filosofi, Herman Keyserling e José Enrique Rodó. Herman
Keyserling, europeo, cercava la medicina dell’Europa malata
nell’America del Sud, e ai primi del Novecento partì per un viaggio
pensando che lì ci fosse davvero la soluzione ad un’Europa troppo
intellettualizzata. José Enrique Rodó, filosofo uruguaiano, cercava
in Europa la medicina per la sua America del Sud malata.
Insomma, già durante gli studi sentivo che nell’interazione tra
questi due mondi c’era una corrente elettrica davvero
contemporanea.

Roberto Polillo:
fotografo il mondo, tra caso
e sogno


Roberto Polillo, partirei da Visions of Venice, la sua mostra in
corso a Venezia curata da Alessandro Luigi Perna e con i testi
di Denis Curti. Sono fotografie molto pittoriche, è
un’impressione corretta?

Sì, è così. Sono sempre stato molto interessato alla pittura anche
se non ho mai preso il pennello in mano. Fin da piccolo sono
sempre stato affascinato dall’arte figurativa e dagli impressionisti.
Sicuramente, questo è il background del lavoro Impressions of the
World, um progettonche ho iniziato quasi dieci anni fa. Mi interessa
una fotografia che rappresenti il sogno con strumenti, diciamolo
pure, pittorici. Sono stato fortemente influenzato anche dai pittori
viaggiatori della seconda metà dell’800, in particolare da chi
viaggiava in Oriente.

La mostra di Venezia è quindi parte di un progetto più ampio,


che riguarda tutto il mondo.

Visions of Venice è parte di un progettoche riguarda soprattutto la


rappresentazione di paesi orientali.

Per questo è stata scelta Venezia come prima tappa espositiva


pubblica, per la sua vicinanza culturale all’Oriente?
Venezia è la città più orientale d’Italia, è una città dalle atmosfere
magiche. Per definirla uso il termine Spiritus Loci. La scelta è
dipesa anche dal fatto che alla Casa dei Tre Oci si era liberato uno
spazio e, insieme a Denis Curti, il direttore artistico, abbiamo
deciso di portare a Venezia la serie di fotografie il cui soggetto
fosse questa città.

Gli effetti delle sue fotografie nascono da un errore trasformato


in una tecnica ben precisa.

Sì, è stato un caso ed uno sbaglio. Nel Natale 2006 ero a


Marrakech, in Marocco, e facevo un po’ di foto, senza particolare
attenzione. Avevo una macchina fotografica nuova che non
conoscevo, era la prima digitale che possedevo, una Canon 5D.
Ho sbagliato un settaggio e mi è uscita un’immagine fortemente
sovraesposta e mossa. L’ho guardata sul visore e mi ha
affascinato, sembrava un acquerello. Da quel momento, per le
fotografie a colori dei paesaggi ho usato solo questa tecnica, che
si è rivelata molto più feconda di quanto potessi immaginare.

È una tecnica per cui deve fare molti scatti per ottenere il
risultato. Non può fare previsioni. Quando decide che ha la
fotografia buona, quando si ferma?

La tecnica prevede tempi lunghi, diciamo, normalmente 1/3 di


secondo ma anche più lunghi. Bisogna poi muovere la macchina
per creare uno sfumato interessante. La macchina viene mossa in
tanti modi mentre scatta a raffica. Se la scena ha delle forme
verticali, allora bisogna assecondarle con un movimento verticale,
mentre se ci sono delle persone bisogna fare dei movimenti
differenti. Scatto dieci, venti, trenta immagini sperando che ce ne
sia una che sostanzialmente è quella magica. Spesso capita che la
foto buona sia la prima, anche se statisticamente non capisco
perché.

Quando ho sentito parlare del progetto e della mostra, ho


immaginato stampe grande formato, poi ho trovato anche molte
piccole stampe. Quali considerazioni avete fatto per produrre
ed allestire la mostra?

Intanto c’è una cosa importante che riguarda il libro. Il libro è


stampato su carta patinata opaca anche se queste immagini,
proprio per la loro natura pittorica, dovrebbero essere sempre
stampate su una carta cotone molto textured, una Hahnemühle –
William Turner da 310gr molto ruvida. Il libro è quindi più
fotografico che pittorico. Inizialmente pensavo che il formato
corretto per queste immagini fosse un formato piccolo, perché gli
acquerelli sono normalmente fogli piccoli. Poi mi sono ricreduto e a
Venezia ho stampato per la prima volta su formati molto grandi, ci
sono cinque immagini 225 x 150. Devo dire che questa dimensione
è molto impressive e quindi mi sto spostando progressivamente
dal piccolo formato al formato medio o grande. In mostra, per le
immagini più piccole, abbiamo fatto delle quadrerie.

Lei lavora molto sull’impressione piuttosto che sulla


descrizione. Pensa che questo approccio, questo linguaggio,
sia il più contemporaneo, più adatto a raccontare il mondo di
oggi?

Oggi la fotografia impressionista è stata abbastanza squalificata,


forse perché il mondo è molto complicato e diventa sempre più
pericoloso. Sembra sbagliato sfuggire nel sogno, è preferibile
lavorare per migliorare la realtà. Tengo a precisare questo: le mie
fotografie non vogliono essere un fuga dalla realtà, non è il lavoro
dell’artista che si nasconde nella torre d’avorio. Però, cinque minuti
al giorno, dobbiamo sognare. Io dico che per cinque minuti al
giorno bisogna uscire a vedere le stelle, perché non possiamo
perdere questa dimensione di fronte ad una realtà così complicata,
così difficile. Quella del sogno è un’esigenza della natura umana.

Rispetto ai ritratti dei jazzisti, le sue prime fotografie, ha un


approccio diverso?

Sì, è completamente diverso. Adesso ho sessantanove anni, le foto


di jazz le ho fatte dai sedici ai ventisette anni. Facevo quelle foto
perché mio padre Arrigo si occupava di Jazz, dirigeva una
importante rivista e, quando si è accorto che ero appassionato di
fotografia, mi mise in mano una macchina fotografica professionale
e mi disse: vieni ai concerti e fai le foto per la rivista.

Aveva solo sedici anni?

Sì, ho fatto le prime foto nel 1962 al Festival di Sanremo del Jazz,
mio padre lo ha organizzato per sette edizioni. Erano foto in bianco
e nero per un fatto molto pratico, oltre che estetico. Il fatto pratico è
che allora non esistevano pellicole a colori sufficientemente
sensibili per la luce artificiale e in teatro c’era poca luce. Il fatto
stilistico è che mio papà mi chiedeva soprattutto ritratti, e i ritratti in
teatro, soprattutto di musicisti quasi sempre di colore, avevano
senso in bianco e nero, perché i volti vengono drammatizzati e le
espressioni contrastate.

Poi per trent’anni si è occupato d’altro, non ha avuto nemmeno


una macchina fotografica.

Per trent’anni ho fatto l’informatico, l’imprenditore, il professore


universitario, e non ho più avuto il tempo di fare fotografia. Facevo
l’amministratore delegato della mia azienda e, quando abbiamo
deciso di affidare l’azienda ad un management esterno, in modo
simbolico, il giorno dopo mi sono ricomprato una macchina
fotografica. Era il 2003 e ho comprato una macchina analogica,
sbagliando. A quel punto ho dovuto studiare tutto quello che era
successo nel frattempo. Ho dovuto studiare le pellicole, fare degli
esperimenti, mi sono riavvicinato alla fotografia con l’atteggiamento
dell’artigiano che deve studiare il funzionamento di strumenti che
non conosce più. Nel 2006 e mi sono comprato una Canon 5D e
da allora non ho più fatto uno scatto in analogico.

Non ha pensato: ormai è tardi per ricominciare a fare


fotografia?

No, per me la fotografia era un bisogno. Non tanto o non solo la


fotografia, ma la comunicazione visiva. Quando con alcuni amici,
nel 1978, ho fondato l’azienda informatica, una delle primissime
cose che ho fatto è stata creare un ufficio che si occupava di
immagine. Prima di assumere degli informatici, ho assunto dei
grafici.

Ciò che lei trasmette è una visione internazionale. Pensa che


una delle sue caratteristiche sia questa voglia continua di
conoscere il mondo?

Sì, guardi, io ho alcune passioni nella vita. Una è la comunicazione


visiva, la fotografia, la pittura. L’altra sono i viaggi, soprattutto in
paesi orientali. Per me, il viaggio in un paese lontano ha sempre
avuto il significato del sogno, la stessa dimensione del sogno in cui
mi portano queste immagini di cui le ho parlato prima.

Nelle sue fotografie c’è il sogno, ma c’è anche il caso.


L’intervento del caso è fondamentale in questa ricerca. Henri
Cartier-Bresson parlava di allineamento dell’occhio, della mente e
del cuore. Ecco, io dico che queste immagini nascono
dall’allineamento dell’occhio, del soggetto e del caso. Il caso
interviene in modo creativo. Spesso viene impressa nella fotografia
qualche cosa che non avevo visto durante la ripresa. In Marocco,
avevo fatto una foto, c’era un’asta di tappeti e due arabi stavano
contrattando e agitavano le mani. In questa fotografia si vede che
uno dei due ha in mano un mazzo di chiavi, perfettamente a fuoco,
ma io quelle chiavi non le avevo viste. Il caso interviene e aiuta a
capire la scena. Questo è un aspetto che mi affascina e che
concettualmente mi sembra importante.

Il caso non fa parte della pittura, nemmeno


dell’impressionismo.

Gli impressionisti erano padroni di ciò che facevano con il


pennello, non c’era il caso nella loro arte. Questo mi sembra un
passo concettuale diverso. Tutto sommato, definirla fotografia
impressionista è giusto fino ad un certo punto.


Robert Doisneau:
ho fatto tutti gli errori
possibili
intervista di Frank Horvat

Vorrei cominciare con degli argomenti molto semplici, quelli
profondi seguiranno, non ci si scapppa. Per esempio dal fatto
che hai dovuto guadagnarti da vivere. Alcuni fotografi lavorano
senza preoccuparsi se venderanno le loro foto, sia perché
hanno altre risorse, sia perché hanno il coraggio di privarsi di
tutto, come Koudelka. Non è stato il tuo caso, e neanche il mio.
Hai fatto certe foto semplicemente perché dovevi guadagnarti
da vivere. Eppure, in quello che resta di questi cinquant’anni,
non si avverte il lavoro su commissione, si riconosce solo
Robert Doisneau. Come è stato possibile? Non immagino che
ad ogni scatto tu ti dicevi: Questo è per esprimere me stesso o
al contrario: Questo è per guadagnarmi da vivere.

Non credo che la libertà totale sia davvero auspicabile. Quando si


può contare solo su se stessi per le esigenze quotidiane, si
accettano proposte di lavoro di ogni genere. Ma si conserva
sempre uno sguardo obliquo, una parte di gioco. È come una
specie di piccolo furto sulle ore di lavoro dovute al padrone – e
sono queste le foto, un po’ rubate, che restano.

Dunque tu distinguevi: Questa foto è per me, questa per il


cliente. Lo noto perché per me non è sempre stato così.
Quando facevo certe foto di moda, per esempio, mi capitava di
crederci, come se le stessi facendo per me stesso.
Questa è una tua abilità, un tuo lato professionale. Quando io
praticavo la foto di moda su fondo bianco, per Vogue, il mio ruolo
mi pareva secondario. Quando vedevo sflilare una collezione, non
provavo niente di particolare, non mi dicevo mai: Devo
assolutamente fotografare questa ragazza con quest’abito. D’altra
parte le modelle erano meno simpatiche che oggigiorno, avevano
tutte l’aria di disprezzare quel tipetto che, dall’altra parte
dell’obiettivo, cercava di fare la sua foto.

Tuttavia penso che tu sia arrivato a convincerti dell’interesse di


certe ricerche, delle quali oggi ti dici: È stato un errore, mi sono
lasciato trascinare dal gioco.

Ho fatto tutti gli errori possibili. Perché per indole sono


disobbediente e non accetto mai di fare quello che mi si dice.
Devo provarmici da solo, e questo mi ha fatto prendere molte piste
false. Ho passato un anno a fabbricare un apparecchio per
mettere in piano i cilindri. Volevo fotografare dei vasi fatti da un
contadino, portarli in due dimensioni, affinchè si potesse leggere il
bassorilievo con un solo colpo d’occhio. Ci vuole una bella
testardaggine per accanirsi su una cosa di questo genere. Volevo
imitare le ricerche di Marey, sulle quali avevo delle vaghe nozioni.
Ma in fondo non avevo letto un gran che, mi ci son messo come
l’ignorante che ero.

È stato così anche per me. Conoscevamo il lavoro degli altri


solo attraverso qualche foto nelle riviste.

È proprio così: io avevo visto qualche foto di Brassaï, ma ignoravo


l’esistenza di Kertesz o di Atget. Il caso ha voluto che lavorassi
negli stessi luoghi di Atget, alla Porte d’Italie o nella valle della
Bièvre, con una macchina fotografica in legno su treppiedi, un po’
come la sua. Ma non ho conosciuto il suo lavoro che molto più
tardi.

È interessante confrontare il tuo primo libro sulla periferia con


quello pubblicato adesso da Delpire. Molte foto sono le stesse,
ma l’insieme è diverso, come se qualcosa d’essenziale si fosse
chiarificato.

Del tutto a mia insaputa. Me ne sono reso conto preparando la mia


mostra a Saint-Denis. Questa sarà la mia ultima mostra – o almeno
l’ultima fatta in questo modo. Il caso ha voluto che tornassi sempre
di nuovo a Saint-Denis, benché sia una periferia lontana dalla mia.
È un miscuglio straordinario, io sono sempre attirato dai miscugli
strani. Gente di ogni origine, una basilica con le salme dei re di
Francia, a venti metri da un municipio comunista, un canale, una
autostrada, un’architettura di grandi complessi e delle villette. È il
tipo di miscuglio che mi attira. In fin dei conti, io ho sempre fatto
degli autoritratti, nella misura in cui ho mostrato persone che
vivono in scenari assurdi, come me. La mia periferia è stata
piuttosto quella delle case a due piani, grigie e stupide, con degli
angolini, delle escrescenze, dei rattoppi, della gente che viveva tra
la strada e il bar. Ogni tanto c’era un’officina, come l’impresa di
impianti idraulici di mio nonno. Dalla mia finestra, vedevo gli operai
che venivano a prendere il loro lavoro la mattina presto. Se gli
restava un quarto d’ora prima di iniziare, andavano a farsi un
bicchiere al bar di fronte. Ne uscivano leggermente brilli,
prendevano il carretto a mano e se ne andavano a lavorare, a volte
molto lontano, l’apprendista tra le stanghe ed l’operaio che
spingeva da dietro. Mi conoscevano tutti, ben inteso, io li guardavo
lavorare: è bello da vedere, uno che fa una saldatura.

Ma perché dici che la mostra di Saint-Denis sarà l’ultima?


Il museo di Saint-Denis è un antico convento carmelitano, un luogo
pieno di fantasmi, dove ha vissuto Luisa di Francia, la figlia di Luigi
XV, e dove adesso si possono vedere dei documenti su Louise
Michel, l’ispiratrice della Comune – ancora un accostamento
straordinario. L’idea della mostra è venuta un po’ dal fascino di
questo luogo. Il direttore voleva presentare le foto che avevo fatto a
Saint-Denis nel 1943 e nel 1944, durante l’occupazione. Era stato
un inverno molto freddo, il canale era gelato, i ragazzi ci
raccoglievano il carbone caduto dalle gru. Gli ho proposto di
esporre dieci foto di allora e di aggiungerne cinquanta che avrei
fatto nella Saint-Denis di oggi. Mi ci sono voluti due anni, è raro che
mi riesca più di una foto al giorno, e ci sono dei giorni in cui non ne
riesce nessuna. Queste foto recenti sono forse un po’ meno
aneddotiche di quelle del 1944, più spoglie. Oggi la gente
comprende meglio le immagini, non c’è più bisogno di raccontare
una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. L’inizio basta,
la fine la indovinano. Ti ho detto che è l’ultima mostra di questo tipo
perché tra quattro o cinque anni non avrò più la forza fisica per una
tale impresa. Non mi rendo bene conto a che somigli, questa
mostra. Mi dicono che è molto bella, ma sono gli amici che me lo
dicono. L’ho fatta con quel po’ di faccia tosta che mi resta, e con le
mie possibilità di adesso.

Tu dici che le tue prime foto erano più aneddotiche. Era proprio
questo che allora gli rimproveravo. Bisogna dire che io ero
diventato un seguace fanatico di Cartier-Bresson. Al mio primo
incontro con lui, avevo avuto la faccia tosta di mostrargli i miei
primi reportage, fatti con una Rolleiflex. Ha esclamto che se il
Buon Dio avesse voluto che si fotografasse con una 6×6, ci
avrebbe messo gli occhi sulla pancia. Dunque mi sono
comprato una Leica e ho cercato di seguire i suoi consigli,
nella misura in cui potevo intenderli. Ma tutto questo mi
rendeva intollerante. Per esempio, trovavo che nelle tue foto ci
fosse troppa aneddotica e troppo poca composizione. Gli
rimproveravo i difetti del 6×6: la costruzione in rapporto al
centro dell’immagine, l’imprecisione di quello che succede ai
lati. È solo molto più tardi che ho capito meglio, ed è stato
come una rivelazione istantanea, come certe conversioni sotto
l’effetto di uno choc. Da quel momento, i tuoi personaggi hanno
cominciato a vivere per me, sapevo quello che pensavano o
quello che stavano per fare. Da ciascuno di loro partiva una
linea di forza, e la composizione della foto era nel rapporto tra
queste linee. Avrei dovuto rendermene conto molto prima.

È un po’ colpa mia. Avevo la sensazione che la gente non sapesse


leggere le foto, e mi dicevo: Sarò gentile, esageratamente, come
bisogna esserlo con i malati. Da qui tutte queste piccole farse, le
sequenze, gli aneddoti, lo stile da vignetta umoristica. Adesso è
diverso, la gente capisce subito, non c’è più bisogno di caricare
l’immagine con simboli pesanti come mazzate.

D’altra parte non sono solo i personaggi umani delle tue foto
che io sento vivere in questo modo, ma anche il coniglio, la
scimmia…

… le case…

… e le statue, i personaggi dei manifesti. Tutti hanno l’aria di


avere delle cose da dire, delle intenzioni, le loro linee di forza si
incrociano tra loro e con quelle delle persone umane.

Il nostro vantaggio, rispetto ai pittori e agli scrittori, è questo


contatto con il lato rugoso delle vita. Questo ci dà una lezione di
umiltà e ci permette di evitare certi errori. Ma soprattutto ci nutre.
La vitalità degli altri ci nutre, a loro insaputa. È questo che mi ha
fatto del bene in questo lavoro a Saint-Denis: il fatto di ritrovarmi
ancora una volta nella strada, a contatto con la gente. Devo dire
che le persone mi sono sembrate meno gentili che vent’anni fa,
forse per via dei fotografi di oggi, che impugnano i loro apparecchi
come delle armi – allora il coniglio, dall’altra parte dell’obbiettivo,
reagisce male. Io non oso lavorare come questi fotografi, non ho la
sfacciataggine di William Klein. Mi capita di lasciarmi trascinare
dalla macchina fotografica, ma dopo aver scattato la mia foto, mi
chiedo: E adesso come faccio a tirarmene fuori, a dare una
spiegazione a queste persone?

Immagino che quando Klein guarda attraverso il mirino, veda


soprattutto delle forme. Mentre tu non dimentichi mai gli esseri
umani. Tranne forse nel caso degli innamorati, in cui il ruolo
diventa più importante delle persone. I tuoi innamorati recitano
un po’, come degli attori, mentre i personaggi nello sfondo
restano veri, di loro so cosa gli passa per la testa.

Io ho avuto due o tre noie con la giustizia, l’invenzione del diritto


delle persone sulla loro immagine spesso impedisce di cogliere la
spontaneità. Quindi io fermo le persone e gli dico: Vi ho visto
passare là, vorreste gentilmente ricominciare a baciarvi? È stato il
caso degli innamorati dell’Hôtel de Ville, che hanno ripetuto la
scena. Quelli con il venditore di frutta e verdura erano innamorati a
noleggio, una mia messa in scena.

Lo si sente un po’…

L’avevo fatto per restare in uno stile di amabilità, per mostrare delle
piccole scene parigine, come in uno di quegli spettacoli di rivista
del tipo Parigi sarà sempre Parigi. Forse oggi sembrano un po’
sdolcinate, ma allora si vendevano. La foto degli innamorati
dell’Hôtel de Ville faceva parte di una serie sulla quale avevo già
lavorato una settimana, bisognava completarla con due o tre foto
dello stesso tipo. Ma io non le trovo fastidiose. In fondo, non c’è
niente di più soggettivo dell’obiettivo, noi non mostriamo il mondo
com’è veramente. Quello che io cercavo di mostrare era un mondo
dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili,
dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto
erano come una prova che questo mondo può esistere.

Barthes lo chiama lo studium. È ciò che il fotografo vuol dire


quando fa una foto. Ma al di là di questa intenzione, c’è il
miracolo che noi aspettiamo e che qualche volta riusciamo a
cogliere. È comunque questo che ci fa correre.

L’attesa del miracolo, è vero. È una cosa molto infantile, e allo


stesso tempo è quasi un atto di fede. Troviamo una scenografia e
aspettiamo il miracolo. Conosco una scenografia che non ha mai
funzionato, forse perché non ci sono rimasto il tempo necessario, o
perché non ci sono tornato abbastanza spesso. In primo piano ci
sono gli scalini della chiesa di Saint-Paul, quello che si vede sullo
sfondo è un perfetto sobborgo, tale e quale la letteratura e il
cinema ci hanno insegnato a immaginarlo. Io lo inquadro nel
mirino, dalla via Turenne fino al negozio del Gant d’Or, e mi pianto
là, per un’ora, due ore, e mi dico: In nome di Dio, dovrà pur
succedere qualcosa. Immagino delle cose che mi piacerebbe
vedere, una più folle dell’altra. E poi niente e ancora niente.
Oppure succede qualcosa – boom – ma non è proprio quello che
avevo immaginato e lo manco. Il miracolo si è prodotto, ma a
causa della mia disattenzione, della mia stanchezza fisica, l’ho
mancato. Dopo aver aspettato due ore, i riflessi non sono più
pronti, l’emozione non è più disponibile.

Ho avuto la stessa esperienza nelle strade di New York. Mi


dicevo: È una buona cornice, aspetterò qui. Ma io non sono un
pescatore, come te. Se il miracolo non è puntuale
all’appuntamento, perdo la pazienza e me ne vado. Ma mi
chiedo se le attese spese in questi luoghi non portino i loro
frutti altrove, in altri momenti. Come un vuoto che si forma
nella mente, e che sarà pronto per accogliere il miracolo,
quando il miracolo verrà.

Hai ragione. Si va altrove e si conserva questa tensione e nello


stesso tempo questa calma interiore che fanno sì che si sia pronti a
cogliere quello che si attende. Un’altra cosa che ci prepara è la
notte. Quando mi trovo in posizione orizzontale, il cervello è
irrigato, come il tappo di una bottiglia coricata. Questo mi fa
immaginare delle cose, mi fa venire voglia di essere per strada, di
utilizzare questo funzionamento del mio cervello. Dunque mi alzo
ed esco, con un desiderio di vedere e di ammirare. Questo, il
meravigliarsi, non si impara nelle scuole. E non succede tutti i
giorni.

Ho una domanda terra terra da porti: tu hai trovato questo titolo


meraviglioso, Tre secondi d’eternità…

È tratto da Jardin, la poesia di Jacques Prévert.

…ma in realtà, evidentemente, il tempo che tu passi con il tuo


apparecchio, a guardare, a girare attorno ai soggetti,
rappresenta molto più che la semplice somma dei tempi di
posa. Quanto tempo in rapporto alla tua vita? Quanti giorni per
settimana, quante ore per giorno?

Moltissime. Non saprei contare le mie ore di folle speranza, di


attesa che il miracolo si produca. È raro che passi una settimana,
senza che io mi preservi a questo scopo almeno un giorno. Ma a
volte ho l’impressione che la sorte si accanisca contro di me. Mi ci
sono voluti cinque anni per farmi mettere alla porta dalla Renault –
avevo fatto di tutto, ma ho comunque dovuto attendere cinque anni
– e tre mesi dopo c’è stata la dichiarazione di guerra, e la mia
libertà è finita. Adesso, che non ho più bisogno di fare foto
pubblicitarie o di piegarmi alle esigenze delle riviste, è la malattia
di mia moglie a piombarmi addosso, che dura da dieci anni e mi
impedisce di disporre delle mie giornate. È come una fatalità. Ma
credo che l’esasperazione che ne consegue possa anche avere un
effetto creativo.

Il tempo di noi fotografi è particolare. Ci sono dei musicisti che


provano dieci ore al giorno, degli scrittori o dei pittori che
lavorano con regolarità, da tale ora a tale ora. Per noi, le ore
che passiamo con l’apparecchio in mano sono relativamente
poche. Ma, come dici tu, la creatività si accumula forse nei
tempi morti.

La mancanza di libertà aumenta la mia determinazione, mi dico:


Riuscirò comunque a farla, questa mostra a Saint-Denis, anche se
non posso lavorare che il sabato – che è il giorno in cui
un’infermiera si occupa di mia moglie – anche se non posso
andarci al mattino presto, se non posso fare foto di notte. Forse è
questa costrizione che porta una specie di unità nelle immagini.

Un’accumulazione del desiderio di vedere. Come il cappuccio


che si mette sugli occhi dei falchi da caccia.

Il cappuccio è esattamente quello che sento. Quando vado in giro,


sono sempre accompagnato da fantasmi: Cendrars, Prévert,
Pontrémoli, i miei amici scomparsi. Quando trovavo un’immagine,
era a uno di loro che la destinavo e a cui la mostravo per primo.
Era un po’ come un debito, perchè erano loro che mi avevano
insegnato a vedere questo tipo di cose. Adesso loro sono in
anticipo su di me, se ne sono andati. Ma a volte, quando
passeggio, una canzone di Prévert mi accompagna.

Pensavo a ciò che dicevi sulla costrizione. In fin dei conti, la


fotografia è un’alternanza di aperture e di chiusure. Come
l’otturatore. Quando dici: Io non parlo le lingue, non mi
piacciono i grandi viaggi, è una chiusura, ma che ti è
necessaria, che ti permette altre aperture.

Sono regole che ci imponiamo, di un gioco molto complicato, con


dei giardini segreti che non bisogna calpestare. Come i ragazzini
che fanno dei disegni per terra e saltano, incrociando i piedi, hop il
cielo! hop l’inferno! È il gioco della campana. Io mi impongo dei
limiti, mi proibisco di mostrare certe cose, la violenza per esempio.
So che esiste, che ci sono dei fotografi che la mostrano molto
bene, e io non dico che hanno torto, ma non è una cosa che fa per
me, il settore è troppo affollato. Il meravigliarsi, al contrario, è un
obiettivo che pochi fotografi si sono dati. Ci si può meravigliare
davanti a un oggetto, un edificio, un albero. Un personaggio può
sembarci misterioso quanto un oggetto, perché non sappiamo
quello che succede dentro di lui.

A proposito del gioco della campana: tu mi hai detto che non ti


dà fastidio che le tue foto siano selezionate da altri – ed anche
riquadrate. Pochi fotografi direbbero la stessa cosa. È ancora il
gioco della campana, una possibilità supplementare concessa
al caso? Eppure tu hai le idee molto chiare a proposito del tuo
lavoro, sai molto bene quali sono le scelte e le inquadrature
che preferisci.

C’è un aspetto del mio personaggio, che fa sì che ci si aspetti da


me un certo tipo di foto. E per me va benissimo, pazienza se le foto
che scelgono non sono le mie preferite. Le foto che preferiamo
sono come i bambini che ci hanno dato filo da torcere per
crescerli, ci attacchiamo a loro perché ci hanno fatto penare di più.
Ma non sono necessariamente le migliori. Qualcuno dall’esterno
giudica meglio, dice: Questo fotografo è così, dunque queste sono
le foto che lo rappresentano. Bisogna lasciarli fare.

E anche lasciarli riquadrare?

Pazienza. Sono stato abituato a essere rifilato ai bordi quando


lavoravo con dei formati quadrati, che non corrispondevano mai al
formato delle riviste. Tu hai sottolineato, giustamente, che sui bordi
di queste foto succedono cose che non avevo controllato. Ma è
un’imperfezione che accetto, questo dà alla foto un po’ più di…
verità? No, non è proprio così…

Di autenticità? Di credibilità? È forse un aspetto che porta lo


spettatore a dirsi: Questo fotografo non è molto abile, quindi
dice la verità. È così?

Sì, forse. Si vede un tipo che guarda, un altro che si ferma. Non è
male così, la foto non è troppo costruita. Lascio la sua parte al
caso, è come la parte del povero. Ai pranzi di festa si lasciava una
sedia vuota perché, se dovesse arrivare un visitatore inatteso, resti
un posto per lui.

In fin dei conti i difetti della Rollei comportavano anche dei


vantaggi. Il fatto di tenere la macchina fotografica sulla pancia
dava al fotografo un’aria meno aggressiva.

Ci si inchinava davanti al soggetto, come una genuflessione.


Mentre con il 24×36 lo metti sulla linea di tiro, o di mira, in piena
faccia, e se non sei molto rapido si infastidiscono e ti rifiutano. Me
ne rendo conto perché ormai mi fotografano sempre più spesso, è
l’attrazione delle rovine, si diventa pittoreschi senza volerlo. E mi
rendo conto dell’effetto può fare, un tale arnese puntato su di te. Se
ti infili un dito nel naso, poom, il collega non ti manca.

Questa scena di bar è stata fatta con una 6×6? La trovo


miracolosa, ci vedo sei, sette, otto linee di forza, non meno che
i personaggi. Ci si chiede come hai fatto per accorgerti di tutto
questo nello stesso istante.

Forse ero ubriaco. No, in realtà non lo ero. Ecco un’altra


scenografia assurda, un gioco completamente idiota. Ma
funzionava bene.

Anche la signora riprodotta sul manifesto partecipa alla scena.


Se la nascondo col dito…

Sì, mancherebbe un personaggio. È vero che è un miracolo. Era un


mondo che conoscevo bene, in cui mi sentivo a mio agio. Prima di
fare una foto come questa, bisogna essere accettati, far parte
dell’ambiente, venire a bere per delle sere. Fino a quando non ti
dimenticano del tutto. Forse era una Rolleiflex, non ne sono sicuro.
Ma è una buona foto, giusto quel po’ di casualità che bisogna, e
allo stesso tempo l’equilibrio. Un momento felice che ti viene
offerto e che non bisogna lasciarsi sfuggire.

Tu ne hai colti alcuni di questi momenti felici. Ma oggi senti il


bisogno di esprimerti attraverso la scrittura, come se ci fosse
qualcosa di importante che non può esser detta attraverso la
fotografia.

Io scrivo come si parla. Tutte le domeniche mattina, scrivo cinque o


sei o sette lettere, lo faccio senza difficoltà, è come se quelli a cui
mi rivolgo fossero presenti. Ma quando è per essere stampato, la
paura mi paralizza. Il mio vocabolario è ristretto, la mia conoscenza
della lingua francese ha delle lacune. Mi vergogno all’idea che un
dattilografo, in una casa editrice, decifri il mio manoscritto e rida
dei miei errori. Ma effettivamente sento il bisogno di scrivere. Forse
perché ho ascoltato molto: non è soltanto la vista che funziona
quando si vede una foto, c’è anche l’udito, e anche l’olfatto, che
potrebbe essere assimilato alla musica, una specie di scorciatoia
tra le cose e l’emozione. Quello che spesso mi è mancato è stato
di poter registrare queste cose con il mio apparecchio: allora provo
timidamente, con la mia povera memoria piena di lacune, a
scriverle. Con umorismo, se posso: l’umorismo è una forma di
pudore di fronte all’emozione. Quando lo spettacolo è troppo
tenero o troppo crudele, ci si rifugia nell’umorismo, questo evita
l’impudenza.

Diversi fotografi che stimo provano questo bisogno di


esprimersi attraverso un altro mezzo. Cartier-Bresson disegna,
Boubat suona il piano, Robert Frank e William Klein fanno
cinema. Come se, a un certo punto della loro vita, avessero
avuto la sensazione di essere arrivati ai limiti della fotografia.

Forse tutti, verso la fine della nostra vita, proviamo il bisogno di


scrivere. È un grande chirurgo, il professor Gosset, che mi ha fatto
questa osservazione. Si accetta difficilmente l’idea della propria
scomparsa brutale, e si vuol lasciare una traccia, mostrare le cose
che ci son piacute. La scrittura, come la fotografia, esprime questo
desiderio di sopravvivenza – il titolo del libro di Boubat (La
Survivance) non era male. Quando ero bambino, sognavo di fare
cinema. Più tardi mi sono accorto che non era possibile, che ci
vuole un’autorevolezza che non ho. Ma mi son detto che
raccogliere alcune immagini dal vivo poteva essere non meno
importante che fare della fiction.
Alcune frazioni di secondo strappate all’eternità, l’hai detto
bene.

Mi torna in mente un ricordo di gioventù. Vai in bicicletta con una


ragazza, nei boschi. C’è l’odore della brughiera, il vento tra gli
abeti, tu non hai il coraggio di dirle che l’ami, ma sei felice, come
se ti fossi staccato dalla terra. Poi guardi le nuvole sopra gli alberi,
e le nuvole se ne vanno. Tu sai che fra un’ora bisognerà rientrare e
che domani sarà un altro giorno di lavoro. Vorresti eternizzare
questo momento, ma non puoi farci nulla, bisogna andarsene.
Allora fai una foto, è come una sfida al tempo. Forse quella
ragazza se ne andrà e non la rivedrai mai più, o la rivedrai
cambiata, stanca, umiliata dalla quotidianità, commessa in un
negozio, con un caporeparto che le grida dietro. Questo bisogno
di preservare un momento mi sembra giustificato, checché ne dica
quel prete tedesco di cui parla Gisèle Freund, e che sostiene che
l’immagine fotografica è un sacrilegio.

Tuttavia anche lui non aveva del tutto torto. Tu la prendevi


sempre la tua Rolleiflex, quando andavi a passeggiare nei
boschi con le ragazze? Io non credo che l’attimo possa essere
allo stesso tempo vissuto e preservato. Bisogna scegliere.

Sì, noi siamo degli impagliatori di uccelli, è questo il sacrilegio. Ma


è un sacrilegio che ci permette di condividere i nostri momenti di
felicità con gli altri.

Bisogna dire che questo problema ti concerne meno che altri.


Tu non sei uno di quelli che fotografano la moglie mentre
partorisce o la madre morente o che si fanno l’autoritratto
mentre si masturbano davanti allo specchio.
Quello che mi circonda mi sembra più interessante che la mia
modesta persona. Io mi considero un osservatore… no, non
proprio un osservatore, io non guardo gli altri con la lente
d’ingrandimento, come degli insetti… Direi piuttosto un
contemporaneo, io vivo allo stesso ritmo che loro, subisco le stesse
costrizioni. Ma non andrò a fotografare mia moglie all’ospedale,
non mi sembrerebbe bello. E non mi fotograferò nudo davanti allo
specchio, non ne ho la minima voglia.

Un altro settore troppo affollato!

Mi chiedo cosa cercheranno i giovani. Nei paesi ad alta densità


umana, sono alla ricerca di un sistema che gli permetta di
distinguersi dalla massa. Hanno bisogno di qualcosa di
ingegnoso, di stridente, che scuota i nervi di un pubblico saturo di
immagini. Come quei giapponesi che disegnano delle figure sui
seni e sui sederi. Loro nascono con una macchina fotografica in
mano, allora, se vogliono essere pubblicati, bisogna che facciano
delle immagini scandalose.

Che fare d’altro? È alla tua generazione – e un po’ alla mia –


che è stato concesso di scoprire il mondo attraverso la
fotografia. Questo non si ripeterà, non si rifà il viaggio di
Cristoforo Colombo. A che scopo rifotografare la tua periferia?

Quella che ho fotografato io è scomparsa.

Ma anche se fosse ancora là non ci sarebbe nessuna ragione


per fotografarla. Non c’è più bisogno di cacciare – o di pescare
– quello che già si possiede. Forse sta proprio qui il sacrilegio.
Come guardare oggi la periferia parigina, senza pensare
Doisneau? È vero che una nuova periferia si è sovrapposta alla
vecchia, ma allo stesso tempo la capacità di meravigliarsi si è
consumata. Quando tu hai portato le tue stampe a Cendrars, lui
doveva essere meravigliato, certamente ti ha detto: Non ho mai
visto foto di questo genere. Oggi cosa puoi mostrare senza che
ti si risponda: Sì, lo conosco?

È vero che la nostra sensibilità si è indurita. Ma ci sono dei modi


nuovi di vedere le cose. Per esempio i colori dei tuoi personaggi,
che ricordano i colori della pittura. Il colore può portare delle
novità.

Allora se il diavolo ti proponesse, come a Faust, di ricominciare


da zero, che faresti?

Non lo so. C’è questa parola: Già. Già la vita è passato, così in
fretta, malgrado tutte le grane, tutti i momenti che non si
vorrebbero assolutamente rivivere. È comunque passata – già. C’è
un momento in cui si accetta di scomparire. Non tocca a me
immaginare, tocca a loro, che se la sbrighino, accidenti! Forse c’è
ancora modo di fare altre immagini, diversamente. Le mie foto
attuali di Saint-Denis sono piuttosto diverse da quelle fatte per
Cendrars: ho voluto suggerire più che descrivere. In futuro,
potrebbero essere ancora più suggerite, per degli spettatori
ancora più evoluti, ma senza cadere nell’inquinamento della
pubblicità, che è il maggior pericolo, né nello stridore della
televisione. Prima dell’agricoltura c’era stata la raccolta, ciò che io
ho fatto in fotografia era raccolta. Dopo la raccolta c’è stato
l’allevamento, le foto in studio sono allevamento. Forse nel futuro si
faranno immagini ben confezionate, con tutta una scienza della
sensibilità del pubblico, si potranno calcolare i costi, un computer
darà un po’ più luce qui, un po’ meno là, e si avrà un prodotto
immediatamente digeribile. Ma non è una cosa che fa per me. Io
ho dato quello che avevo da dare.

Bettina Rheims:
il racconto di una storia
universale


Bettina Rheims, I.N.R.I. viene esposto per la prima volta in
Italia. È stata una sua scelta?

Naturalmente era un mio sogno portare questa mostra in Italia e


questa è stata la prima volta in cui un’organizzazione me l’ha
chiesto. I.N.R.I. è un lavoro che ho esposto in molte città del
mondo. La prima volta a Berlino, poi a Parigi dove abbiamo avuto
parecchi problemi e diverse controversie. In Francia, la mostra è
stata oggetto di una causa da parte del Fronte Nazionale,
principalmente perché volevano avere copertura mediatica.
Abbiamo vinto tutte le cause, naturalmente. Solo Spagna e Italia
non l’avevano mai chiesta.

Qui a Lucca sono esposte quaranta delle centocinquanta


fotografie del progetto. Si percepisce, comunque, che è stato
un lavoro molto complesso.

Abbiamo iniziato questo lavoro nel 1998, insieme a Serge Bramly. Il


gruppo di lavoro per I.N.R.I. è stato molto ampio, una ventina di
persone coinvolte, sei mesi di riprese, durante il casting sono state
viste più di mille persone. In realtà è stato quasi come fare un film.
Abbiamo discusso e realizzato ogni singola scena, il risultato è un
lavoro di squadra molto importante, quasi raro nella fotografia.
Sono molti anni che lavora insieme a Serge Bramly. Rose c’est
Paris è il vostro lavoro più noto. Come avete lavorato insieme
per I.N.R.I.?

Con Serge Bramly ho già realizzato sei lavori, collaboriamo da


diversi anni. Rose c’est Paris è stato un lavoro fotografico,
cinematografico che è poi confluito in un libro e in un film. La
differenza è che in Rose c’est Paris io ho fatto le fotografie e Serge
il lungometraggio. Questa volta abbiamo lavorato insieme su ogni
scena, abbiamo costruito insieme l’intero progetto.

Il vostro soggetto è stata la Bibbia.

Sì, ogni scena rappresentata nella mostra è contenuta nella Bibbia.


Abbiamo trasferito quelle descrizioni e quelle scene nel nostro
modello di società contemporanea. La contaminazione tra arte e
religiosità erano all’ordine del giorno fino alla Rivoluzione Francese,
quasi ogni artista si è ispirato alle scene religiose. La Bibbia è stata
fino al XVIII Secolo i il principale soggetto per gli artisti italiani,
francesi, tedeschi. Negli ultimi duecento anni abbiamo assistito ad
una secolarizzazione dell’arte. Tuttavia la Bibbia racconta una
storia universale.

C’è una domanda che ha guidato tutto il progetto?

Da fotografa, mi sono posta una semplice domanda: se Cristo


tornasse oggi sulla Terra, chi sarebbe? Con chi parlerebbe? Dove
vivrebbe? Da chi sarebbe giudicato? Né io né Serge siamo
cattolici, abbiamo quindi portato avanti una ricerca molto
importante sui temi della Bibbia. Ogni settimana abbiamo parlato
con preti, uomini di religione, avevamo un’idea originale molto
semplice. Scegliere ogni capitolo della Bibbia, dall’inizio alla fine, e
trasferirlo nel contemporaneo. Anche per quanto riguarda la
composizione delle immagini, ci siamo rifatti all’arte classica e ai
dipinti del mille quattrocento. Un esempio piuttosto evidente: ogni
volta che abbiamo rappresentato la Vergine Maria, la
composizione rientra in un triangolo. È stato il lavoro più complesso
che abbia realizzato.

Che cosa l’ha spinta a mettere in scena un progetto così


complesso?

Non bisogna essere per forza credenti per essere affascinati dalla
storia della Bibbia. La Bibbia è sempre stata un soggetto per gli
artisti perché è la più bella storia del mondo. È una storia con cui
tutti noi possiamo entrare in relazione ed empatia.

Come avete realizzato il casting?

Il casting è stato un momento affascinante del lavoro. In studio


sono arrivati modelli di ogni genere. Così, abbiamo iniziato a
chiederci se davvero fosse necessario rappresentare Gesù Cristo
con gli occhi azzurri e i capelli lunghi e biondi. Il risultato è che
ogni immagine di I.N.R.I. rappresenta un tipo diverso di Cristo, ci
sono più di cento Gesù in questa storia. Mi piaceva molto l’idea di
rappresentare Cristo come chiunque di noi.

Ha selezionato modelle e modelli, ma non celebrities,


nonostante lei lavori spesso con personaggi famosi. È stata
una scelta?

Quello che volevo rappresentare in I.N.R.I., affinché le persone


entrassero davvero in questa storia, era rappresentare la Bibbia in
modo credibile. Per questo, al centro abbiamo voluto mettere la
scena, non le persone. Non inserire celebrities è stata una scelta,
altrimenti avremmo ottenuto un soggetto più importante della
scena e probabilmente la gente non ci avrebbe creduto. Abbiamo
fatto casting lungo la strada, nei bar, ovunque a Parigi.

Chi ha visto questo progetto, realizzato da una fotografa non


cristiana, che cosa ha commentato?

Durante il lavoro siamo stati aiutati da due preti che quasi ogni
giorno venivano sul set per seguire lo shooting. Naturalmente
qualche prete non ha gradito il lavoro, lo hanno considerato inutile.
La cosa più strana è che a distanza di quindici anni, ogni
settimana ricevo una richiesta per esporre queste fotografie a
scopo educativo. In qualche modo, oggi abbiamo tutti un po’
perso la capacità di capire la Bibbia e la trasposizione in un
linguaggio contemporaneo, probabilmente, ha reso questi simboli
più accessibili.

Michele Neri:
l’origine di questo
linguaggio fotografico
nuovo, vago, analfabeta,
ricco, strano


Michele, vorrei iniziare dai lettori di Maledetti Fotografi. Questo
magazine funziona in modo molto semplice: se pubblichiamo
un’intervista a Josef Koudelka facciamo qualche migliaio di
visite, se pubblichiamo un trentenne contemporaneo che fa
esperimenti con la macchina fotografica, ne facciamo qualche
decina. Nel tuo ultimo libro, Photo Generation, spieghi che tutta
l’attenzione che vediamo oggi verso i grandi autori classici non
è un atteggiamento conservatore, ma è la ricerca di punti di
riferimento che aiutino a comprendere il proprio percorso.

Credo che risponda anche a un senso d’insicurezza sul presente,


siamo sommersi dalla sensazione che tutto sia uguale, fluido e
pressoché privo di vette. Per questo si cercano conferme
attraverso il ritorno al classico, a qualcosa di puro. Oggi, in questo
flusso di immagini confuso che non permette di fare distinzioni,
aggrapparsi ad uno scoglio come Koudelka è la garanzia che la
fotografia possieda ancora dei punti fermi.

Ma è impossibile produrre, o studiare, fotografia senza un


punto di riferimento?
Bisognerebbe cercare di non fermarsi alla tradizione ma di
accettare questa confusione adolescenziale, come la definisco nel
libro. Bisognerebbe cercare di vedere l’energia enorme che c’è
sotto questo magma e che, per ora, non è matura. Il mio approccio
è stato quello di cercare di capire l’origine di questo linguaggio
fotografico nuovo, vago, analfabeta, ricco, strano.

Molti sottolineano un analfabetismo diffuso nei confronti delle


immagini.

Esistono almeno due tipi di analfabetismo. Uno è tecnico, legato


alla composizione, al rigore, e questo mi pare meno grave. Poi c’è
un altro analfabetismo, ed è quello che mi interessa di più, che è di
tipo etico e umanistico. Ciò che manca oggi non è la tecnica,
quanto un principio etico, un background che faccia della
fotografia un sentimento, un valore, una necessità.

È certamente vero per chi fa fotografia per passione o per


curiosità. Ma anche chi fotografa per professione è spesso
soggetto a scelte così inedite, in tempi così rapidi, che non ha
la possibilità per fare profonde valutazioni. In altre parole, un
lavoro realizzato con le migliori motivazioni può finire in
contesti sbagliati e venir meno all’etica.

Qui forse c’è un’altra questione ed è legata ai tempi di reazione.


Oggi il consumo delle immagini è diventato eccessivamente
veloce. La normale maturazione del proprio lavoro, che aveva
bisogno di intermediari, di editing, di curatori, adesso si espone
senza una mediazione, in modo nudo e crudo, a ciò che sta fuori,
ad una audience immediata. Questo può produrre meccanismi di
accelerazione acritica.
La “Photo Generation” è quella che scatta foto ma non pensa
alle conseguenze.

C’è una inconsapevolezza sull’utilizzo che viene fatto delle proprie


fotografie. Ma lo stesso atto di fotografare è oggi un gesto
inconsapevole, è diventata una delle azioni della quotidianità. Ma è
diventato normale anche entrare nelle immagini altrui, e sempre di
più spesso succede senza che ci si accorga. Tutto questo
assomiglia a quella ripetitività di azioni vuote tipiche, appunto,
dell’adolescenza.

Tu affermi che questo condiziona anche la formazione della


nostra identità?

Certo, è un meccanismo automatico che può produrre delle


alterazioni nella nostra vita. Il fatto di continuare a scattare senza
farsi alcuna domanda non ha più niente a che vedere con quella
strettoia fatta di luce, tempo e volontà che era la fotografia. Ma,
appunto, è interessante domandarsi quale ricaduta avrà sulla
nostra identità. Se noi continuiamo ad entrare in immagini che un
giorno deporranno a favore o a sfavore della nostra reputazione, mi
pare che l’atteggiamento sia quello di chi sta preparando, ogni
giorno, il proprio necrologio, come ha scritto il romanziere inglese
di origine indiana Rana Dasgupta.

Stiamo parlando di tutto questo perché, una decina di anni fa,


qualcuno ha deciso di installare una fotocamera nel telefono.

Dici che se avesse installato un termometro, saremmo qui a parlare


di meteo?

Può essere.
È possibile, ma credo che ci siano delle ragioni per cui l’immagine
è entrata nel primo Nokia e poi in tutti i telefoni successivi.
L’immagine faceva già parte del nostro dizionario universale, molto
più della parola, era una necessità pregressa di relazione con
l’altro che cercava uno sfogo. Il tema centrale di questi anni
riguarda lo spazio tra noi stessi e l’altro e le immagini sono il mezzo
più universale per occuparlo. Il fotogiornalista ha sempre cercato
di utilizzare la fotocamera per occupare questo spazio, e ha quasi
sempre tentato di farlo in modo rispettoso, per testimoniare una
verità, per quanto si sappia che al massimo si può arrivare a
un’approssimazione.

Qualche settimana fa, durante il terremoto nel centro Italia, i


media tradizionali dalle loro home page sollecitavano i lettori a
mandare i propri scatti alla redazione. È un cambiamento
interessante o una deriva?

Da un lato, è un arricchimento, dall’altro c’è uno sfruttamento delle


immagini molto utilitaristico e non educativo. A me colpisce molto
quando le immagini scaricate da Facebook, per esempio dal
profilo di una vittima di un fatto di cronaca, vengono accostate
nella stessa gallery o nella stessa pagina alle fotografie realizzate
da un professionista. La trovo una sequenza non logica di
contenuti diversi: nella stessa gallery troviamo le fotografie
responsabili realizzate da un professionista e fotografie dell’utente,
scattate in tutt’altro contesto e per tutte altre ragioni. Anche qui, c’è
inconsapevolezza. Chi ha realizzato quelle foto non era
consapevole che sarebbero state utilizzate per vendere un
giornale, per ottenere un clic in più, non poteva valutare tutti gli
aspetti di cui, invece, un professionista è consapevole.

Il fatto di utilizzare “fotografie inconsapevoli” probabilmente


nasce anche da un vuoto. Oggi il sistema dell’editoria italiana
sembra paradossalmente meno connesso con il mondo
rispetto ai tempi, per esempio, di Grazia Neri. Quando non si
interpellano i professionisti, e spesso neppure si conoscono
più i professionisti, si attinge al materiale più facile da reperire.

Non so se le due cose non sarebbero comunque andate avanti in


parallelo. Nella mia vita, da una parte sono stato legato all’attività
professionale in agenzia, ma dall’altra sono sempre stato attratto
dal cambiamento e ho sempre pensato che l’ondata dei contenuti
creati dagli utenti sarebbe stata deflagrante e avrebbe sconvolto il
mercato. Ad un certo punto, quel gioco meraviglioso dell’agenzia,
quel grande luogo di scambio che io paragonavo ad una stazione
ferroviaria, si è ridotto. Ma si è ridotto per molte ragioni, non solo
per la crisi dei budget o l’affermazione degli smartphone. Penso
alla legge sulla privacy che ha imposto vincoli fondamentali
all’accesso dei fotografi alla vita privata delle persone. Oggi siamo
sommersi di nuovo da fotografie di vita quotidiana delle persone,
ma quindici anni fa queste storie non potevano più essere
raccontate. Sentivo allora che si stava creando un vuoto enorme
da riempire, e capivo che sarebbe stato riempito da un altro tipo di
fotografia.

Tu pensi che oggi ci sia “vita vera” in questa nuova fotografia?

Molto poco e anche qui c’è un paradosso. Su Instagram si vedono


abbellimenti, fotografie idealistiche, aspirazionali, molto
conservatrici. Ma la vita reale non si vede. Questo vale anche per i
media tradizionali. Anni fa mi chiedevo se i giornali di oggi fossero
finiti in una cassa in mano ai marziani del tremila, questi che cosa
avrebbero capito di noi? Il mondo reale, in quella cassa, non ci
sarebbe entrato. Oggi i numeri ci sono, le fotografie vengono
prodotte, ma in definitiva la vita vera resta ancora fuori da quella
cassa.
Secondo te è possibile dare qualche regola alla Photo
Generation?

Come dicevo, non è tanto l’aspetto tecnico che mi interessa, ma


vorrei che ci fosse più consapevolezza. Lo scatto con lo
smartphone si conclude nel momento in cui viene fatto, ma prima e
dopo quel momento c’è tutta la vita della fotografia. È su questo
punto che ci può essere un collegamento tra la fotografia che
andiamo a vedere nei musei e la fotografia che due o tre miliardi di
persone condividono ogni giorno.

Può essere che questi tre due miliardi di persone diano lo


stesso nome – fotografia – sia alla stampa di Salgado esposta
nel museo, sia a quella cosa che stanno condividendo. Ma in
realtà sono loro i primi a considerarle cose completamente
diverse, nessuno di loro ha mai pensato che l’una fosse figlia o
parente dell’altra.

Anche io ho ragionato su questo. Ma purtroppo non esiste ancora


un’altra parola che definisca quella “fotografia”, e credo che
bisognerebbe trovarla tramite ciò che questo gesto evoca. Se si
vuole cercare un punto di partenza su cui ragionare, credo che
fare fotografie sia diventato qualcosa di più simile alla telepatia, ad
un modo per connettersi con chi ci si sta vicino, e rispetto alla
Fotografia è naturalmente una cosa diversa.

Quando parliamo di fotografia, si finisce sempre per fare


riferimento al “vero”, e qui si aprono le divisioni. Possiamo
sdoganare una volta per tutte il “verosimile”?

Finché un bambino ha cinque o sei anni, sente il bisogno di


chiedersi se una cosa è vera o è falsa. Probabilmente questo gli
porta un benessere, una chiarezza. Nell’adolescenza questo
bisogno di distinguere si perde e, per quanto riguarda l’immagine,
l’adolescente sembra apprezzare sempre di più la manipolazione, i
trucchi, i filtri. E qui penso che ci sia una frattura da sanare. Perché
se i ragazzi si abituano a non dare importanza alla distinzione tra
vero e falso, diventa impossibile ripartire da un’etica dell’immagine.

Con queste premesse, la “vita vera” nella scatola per i marziani


non entrerà mai.

La vita vera, anche con gli smartphone, non è ancora arrivata.

Ma non arriva perché a nessuno di noi interessa condividerla.

È necessario che qualcuno faccia un passo avanti, che operi una


rottura e che mostri la vita vera. Milioni di persone mandano oggi
su Instagram una foto che riprende i modelli imperanti,
aspirazionali, di abbellimento, di benessere. Ma noi nella nostra
verità non siamo mai peggiori di quello che il cliché impone. Il
cliché, l’aspirazione, il politicamente corretto sono peggio del
peggiore sé.

Tra il fotogiornalismo classico e Instagram, c’è una fase


intermedia che viene spesso ignorata: le foto di stock. Sono
state le prime a portare i modelli imperanti nell’editoria e nella
fotografia professionale.

Con loro si è aperta una crepa nel mercato, naturalmente. Ma


soprattutto questo tipo di immagini hanno portato al disinteresse,
anche se inconsapevole, del lettore verso i giornali. Se il giornale
continua a pubblicare fotografie ripetitive di persone sorridenti e
molto simili tra loro, e spesso scattate in contesti che non ci
riguardano, si genera una progressiva diseducazione e
allontanamento. È un’altra parte di “vero” che scompare. Basta
guardare al caso della fotografia adoperata nella campagna sulla
fertilità del ministro Lorenzin.

È probabilmente la velocità una delle cause di questi cliché, di


questo comunicare per simboli.

Pensa alle didascalie. La didascalia rallenta la fruizione di un


contenuto, e anche queste nei giornali sono quasi scomparse,
sono sempre più piccole e meno informative. Le didascalie degli
anni settanta e ottanta fornivano informazioni fondamentali,
venivano scritte con la stessa cura dell’articolo.

Rispettare ogni aspetto della fotografia significa rispettare le


storie che vengono fotografate.

Se sono arrivato a fare questi ragionamenti, è perché negli anni


ottanta e novanta ho incontrato un vasto gruppo di fotoreporter e,
in loro, ho sempre riconosciuto il tentativo di conservare il rispetto
per l’altro e di vincere l’indifferenza. C’erano agenzie più o meno
piccole, o free lance incredibili come Tim Hetherington nei quali
convivevano la creatività tecnica e il rispetto dell’altro. Queste
forme di rispetto valgono sia nella fotografia sia in questo magma
indefinito che nasce con gli smartphone. Nel momento in cui rivolgi
la macchina fotografica o lo smartphone all’altro, non lo fai soltanto
per cambiare qualcosa, ma per essere cambiato a tua volta.

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