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Maledetti Fotografi
ogni mese le interviste ai più grandi fotografi internazionali
www.maledettifotografi.it
Tutte le interviste sono state realizzate da Enrico Ratto, salvo dove
indicato diversamente.
Michael Kenna, è vero che da giovane voleva entrare in
seminario per diventare un prete cattolico?
I miei dieci anni di lavoro con Ruth Bernhard sono stati impagabili.
Non riesco a sottolineare abbastanza la sua influenza sulla mia vita
e sul mio lavoro. Prima di lavorare con Ruth, pensavo di essere un
buon stampatore fotografico, avevo stampato il mio lavoro e quello
di un certo numero di fotografi, sia a colori che in bianco e nero.
Tuttavia, Ruth mi ha trasmesso idee del tutto nuove sul processo di
stampa. Il suo principio fondamentale è che il negativo è il punto di
partenza. In quella camera oscura tutto poteva essere lavorato e
trasformato, si poteva ridurre la messa a fuoco per creare
un’uniformità dei toni, creare maschere per bruciare alcune zone
della foto, utilizzare diverse sostanze chimiche per modificare il
contrasto o il colore delle immagini. Ruth si rifiutava di credere che
l’impossibile non fosse possibile, e mi ha insegnato che non
esistono regole che non possano essere eliminate. Questo
abbiamo fatto per lunghe notti nella sua camera oscura.
Hai sempre ragionato sul ritratto. Dopo tutti questi anni, sei
arrivato ad una conclusione o il tuo pensiero è sempre in
evoluzione?
No. Per il New York Times ho fatto un auto ritratto in cui ero di
spalle, veniva inquadrata la mia testa mentre leggevo un libro, e
nel libro stavo scrivendo “I think about thinking”. Il punto è che io
passo gran parte del tempo a leggere e a pensare a ciò che sto
leggendo, e questo è più realistico di un auto ritratto che mostra la
grandezza del mio naso o il colore dei miei occhi. A chi importa
quale è il mio aspetto? Importa di più sapere come funziona la mia
mente e dove arriva la mia immaginazione.
Non avevi uno studio e così hai portato i tuoi soggetti fuori, in
strada. Molte scelte stilistiche nascono da esigenze pratiche.
Non sono mai stato uno di quei fotografi che sentono il bisogno di
attraversare l’America per trovare ispirazione. Ho fotografato New
York una sola volta, era quasi deserta e mi ha ispirato. Per quasi
tutti i fotografi americani, fotografare l’America è stato un
passaggio obbligato, seguendo la strada di Robert Frank. Per me
New York è stato il luogo della mia ispirazione, non la fonte della
mia ispirazione.
Sì, è vero. In ogni luogo, c’è una grande città in cui i talenti vanno
per scoprire il mondo. C’è stata Parigi, c’è stata Londra, c’è stata
New York. Sono città in cui andare per sviluppare la propria vita,
per scoprire la propria poesia. Questo è il motivo per cui sono
andato a New York, perché a New York tutto era possibile, a
Pittsburgh nulla era possibile.
In fotografia?
Sì, ma dobbiamo pur partire da qualcosa. Per una parte del tuo
percorso hai fotografato personaggi molto noti. Hai mai avuto
la sensazione che stessi fotografando una serie di nomi più
che di persone?
Diciamo anche famosi, non è così grave… Mai. Tieni presente una
cosa: ho fotografato Pupo. Questo è un punto fondamentale per
chi fa fotografia di ritratto. Quando ritrai, stai ritraendo te stesso.
Ma siccome può capitare che quel personaggio, così come altri,
non ti riguardi da un punto di vista musicale o culturale, non puoi
pensare di fotografarlo in modo diverso, con sufficienza o con
distanza. Il ritratto è un percorso complesso che ha che fare con
un fatto determinante: il vero soggetto è l’autore, non la persona
che hai davanti. Ed è la tua faccia che mostri, la firma è la tua: il
nome della persona che hai davanti è solo un dettaglio.
Non necessariamente.
Oggi più che in qualsiasi altro periodo, il fotografo deve avere una
visione del mondo. Non deve necessariamente pronunciarsi dal
punto di vista politico o sociale, la contemporaneità non è la lettura
dell’attualità, ma una visione del mondo devi averla. Se sei un
fotografo non puoi sottovalutare alcune cose. Non devi sventolare
una bandiera, ma io devo riconoscere il tuo sguardo sul mondo.
Sei competitivo?
Tra gli autori viventi, William Eggleston, Peter Doig, David Lynch.
Il colore, il viaggio.
Infine “Ironia”.
Quando parla del suo lavoro, forse il termine che usa più
spesso è “incontro”.
Succede sempre. Penso che questi temi siano così grandi che mi
sovrastano sempre. Studio tantissimo ma non sarà mai sufficiente.
Mi mancano un sacco di lingue, ne parlo otto, ma mi manca il
turco, mi manca una perfetta conoscenza della lingua persiana, il
creolo, l’ebraico moderno, l’arabo. Non so cosa farei per capire
bene la lingua araba. Quando si viaggia, ci sono tutte queste voci
che ci circondano e riuscire a capire in fondo che cosa pensano le
persone è fondamentale per fare il mio lavoro. Il mio lavoro è un
grandissimo mosaico che sto componendo cercando un equilibrio
narrativo. È sicuramente un atto di coscienza molto difficile.
Certo, perché sto crescendo anche io. Dietro tutto il mio lavoro c’è
il desiderio di camminare, ascoltare le persone e poi trascrivere le
loro storie, servendomi delle parole o della fotografia, per rendere
queste storie accessibili in una forma giusta, immediata, bella
anche. Perché non sto facendo un lavoro per me. Ma sto facendo
qualcosa che spero che possa essere capito anche nel mondo di
oggi, dove ci sono così tanti problemi per comprendersi. Le mie
motivazioni sono sicuramente cambiate anche perché è cambiata
la Storia, che adesso ci invade con la sua prepotenza, con questo
male invisibile che esplode ovunque e che ci toglie la parola, il
coraggio di agire. Il mio lavoro cerca di resistere anche a questo
senso di impotenza nel cambiare le cose.
E viceversa.
Questo è il mestiere.
Heinz Stephan Tesarek:
ho fotografato il declino
dell’Europa
Heinz, il tuo progetto Interim, esposto al Festival Internazionale
di Roma, racconta il cambiamento che vive l’Europa. Non
parliamo però di Mediterraneo ma di Europa continentale.
Quanti anni hai lavorato su questo tema?
Nelle tue foto ci sono molti simboli erotici. Sono ovunque, nella
comunicazione, nella vita quotidiana, nella cultura. È un altro
simbolo della decadenza di questa società?
Può far parte della tua vita per anni, ma dare una definizione di
Fotografia non è semplice. Sicuramente è una rappresentazione di
qualcosa, ma è su questo qualcosa che si dividono i pareri. Per
alcuni è la documentazione di una realtà avvenuta. Per altri è una
documentazione del fatto che tu abbia documentato una realtà non
necessariamente avvenuta in quei termini. Per altri ancora è
totalmente una finzione.
In realtà ho lavorato negli Stati Uniti, più che altro a New York, ma
altrettanto a Parigi, a Londra, in Germania. Mi sono spostato in
base agli incarichi. E poi ho lavorato molto a Milano, dove facevo
lavoro più editoriale, mentre in America ho fatto quasi
esclusivamente pubblicità. Indubbiamente c’è stato un periodo in
cui il Made in Italy funzionava molto bene. Negli anni ’80, quando
Vogue Italia era il giornale, credo, più importante al mondo, c’erano
giovani fotografi americani che venivano a lavorare qui in Italia e,
quando rientravano, avevano acquisito una maggiore reputazione,
vera o presunta. Una sorta di “patente di italianità”. L’Italia
aggiungeva qualcosa, insomma. Personalmente, però, non penso
di essere mai stato scelto in quanto italiano.
Credo che in Italia non ci sia mai stato un sistema, un modo di fare
gruppo. Non siamo la “fotografia tedesca”, o la “fotografia
francese”. In Italia esistono molte realtà singole. Mancano le
connessioni. Basta guardare il legame tra moda e fotografia in
Francia, è un sistema che funziona, che supporta e si supporta.
Tutte cose vere ma anche molte scuse. Il fatto che gli americani si
organizzino in tutto ciò che fanno è nella loro natura. Ma questa
profonda specializzazione è anche un modo per circoscrivere i
propri ambiti di intervento e, forse, per proteggersi e limitare le
proprie responsabilità. Se fotografo solamente automobili, avrò
un’organizzazione talmente specializzata che non otterrò
facilmente incarichi di moda. Non ho interesse ad occuparmi di un
settore per cui non ho una struttura tecnica di supporto. Ma tutto
questo fa parte di un tipo di fotografia poco autoriale, più da
documentazione o da catalogo. Se faccio l’autore, fotografo
qualunque cosa, perché la foto è la mia lettura di quel “qualunque
cosa”. Ciò non toglie che per fare un buon lavoro occorrano
collaborazioni con professionisti validi e motivati quanto te, e non
sto parlando per forza di un team chiuso. Per fare questo ci vuole
anche un cliente lungimirante.
È proprio quello che volevo dire: non è il tuo “vero” occhio destro.
Io non conosco tutti i dettagli della teoria, ma so che le implicazioni
sono profonde. Anche mio figlio Alex – come me – aveva l’occhio
destro dominante, ed eravamo effettivamente sulla stessa
lunghezza d’onda, percepivamo le relazioni allo stesso modo,
emozionalmente più che coll’intelletto.
Forse perché vede attraverso la tua psiche d’origine: non “si sente”
destro, non è più connesso come lo era all’origine.
Non cerco mai col mirino, non lavoro in questo modo. Prima
qualcosa mi colpisce e solo dopo prendo la macchina fotografica.
Sì, alla fine degli anni ’70 ho scoperto che esisteva un Terzo Mondo
anche alle porte di Torino. Sono andata nel cuneese a fotografare il
Mondo dei Vinti, sulle tracce del libro di Nuto Revelli.
Poi la mostra dedicata al Mondo dei Vinti ha attraversato il mondo,
è arrivata in Sudamerica, dove la fotografa Sara Facio mi invitò per
una esposizione a Buenos Aires. Passò molta gente, tra cui molti
argentini di origine piemontese. Così, nella seconda metà degli
anni ’80, ho iniziato a lavorare sull’emigrazione piemontese in
Argentina. Intorno a Buenos Aires, Rosario, Santa Fe e Cordova ho
scoperto paesi con nomi particolari, come Cavour o Nueva Torino.
Il lavoro sui piemontesi d’Argentina mi ha dato tanto e mi fa piacere
che persone autorevoli della fotografia lo considerino come il mio
lavoro migliore. Anch’io lo sento come tale.
Sono nata in una famiglia di intellettuali, tra gli amici dei miei
genitori c’erano nomi importanti della letteratura, ma ero una
pessima scolara e non mi piaceva leggere, anche se amavo
scrivere. Solo più tardi, grazie al mio lavoro di fotografa, ho
scoperto il piacere della lettura. Per avvicinarmi al mondo degli
scrittori che fotografavo leggevo le loro opere. Nel 1984
l’Associazione Nazionale delle Cooperative Culturali mi
commissionò una mostra con cinquanta ritratti di scrittrici,
poetesse e saggiste italiane. E nel 1988, per il Primo Salone del
Libro di Torino, curai la mostra e il catalogo Volto d’Autore, ritratti di
scrittori realizzati da sei fotografi.
Il Mondo dei Vinti che, come ho detto, mi è stato ispirato dal libro di
Nuto Revelli. All’epoca, dal punto di vista iconografico, in Italia era
molto più presente il profondo Sud rispetto al profondo Nord. Pur
non avendo frequentazioni rurali, dato che ho sempre vissuto in
città, ho sempre amato le campagne, la natura e gli animali.
Avvicinarmi a questo mondo mi ha permesso di conoscere una
parte della mia regione che stava a pochi chilometri da me ma che
in quel momento mi era quasi del tutto sconosciuta. Ho potuto
lasciare una testimonianza visiva di quel mondo agonizzante, di
quei contadini che nessuno ha voluto accompagnare nella Storia
come protagonisti.
Direi di sì. Certamente all’epoca mia il ruolo dei giornali nel mondo
dell’informazione era più importante e di conseguenza anche il
lavoro dei fotogiornalisti aveva un peso maggiore. Sicuramente nel
mio caso la passione mi spingeva a seguire degli argomenti a
prescindere dal mercato.
Direi di si. La rinuncia più importante per una donna della mia
generazione, al di là delle vicende personali che si intrecciano con
quelle professionali, è stata la maternità. Se volevi lavorare come
ho fatto io non potevi mettere al mondo un figlio e
contemporaneamente alla professione fare la mamma. Laura
Lepetit, fondatrice della case editrice esclusivamente femminile La
Tartaruga, che ha scritto recentemente un bel libro di memorie,
Una femminista distratta, tanti anni fa mi diede una risposta
importante. Le dissi che l’ammiravo molto per l’impegno che aveva
messo nella sua professione senza per questo rinunciare a mettere
al mondo due figli, mentre io non c’ero riuscita. Lei mi rispose: “I
tuoi figli sono le tue fotografie”.
È vero?
Penso che l’artista debba dare al pubblico ciò che il pubblico non
ha, e quindi il compito di un artista contemporaneo è quello di far
sognare le persone tramite un messaggio positivo e intimo. Scelgo
i soggetti che più mi interessano e do vita alle mie emozioni
attraverso di loro, nel tentativo di arrivare anche all’animo di chi
guarda le mie fotografie.
Il lavoro sugli alberi esprime più silenzio rispetto al lavoro sugli
edifici, non trova?
E l’espressività?
Ho aggiunto quella foto alla serie subito dopo gli attentati di Parigi.
Nei giorni seguenti gli attentati ho deciso di fare qualcosa a modo
mio e nell’arco di tre ore ho comprato il materiale che mi serviva,
ho ricostruito la canna del fucile e ho tagliato la stoffa per creare
una sorta di burqa. È l’unica foto della serie che non riguarda la
moda, è una mia interpretazione diretta di un fatto di attualità.
Per ora penso che la sia chiusa. Ma più avanti potrei allargare il
progetto a più soggetti, a fotografie che non parlino di moda, come
ho fatto per Parigi.
Hai detto che nella tua Palermo visiva, quella che osservavi
ogni giorno con la macchina fotografica, anche nei quartieri più
difficili c’era sempre una tavola apparecchiata.
Certo. Sono stato attratto dal Brasile perché è il luogo più distante,
sia a livello geografico che simbolico, da quella che è la mia terra
d’origine. Credo che uno dei problemi più grandi dell’epoca
contemporanea sia che abbiamo sostituito i principi universali, i
punti guida, con le sovrastrutture. Ad esempio, se chiedi ad una
persona che cos’è la giustizia, ti risponderà che è un sistema di
norme. Chiamiamo giustizia ciò in realtà che è un codice.
Continuiamo a parlarci tra addetti ai lavori, a cercare soluzioni
dentro i problemi stessi.
Padova e San Paolo sono due città che più diverse non potrebbero
essere. Una rappresenta il legame con la terra, con le tradizioni,
con le radici. L’altra rappresenta il salto nel mondo, il cemento,
l’incertezza, l’esplosione delle metropoli contemporanee. Uso
questi due poli come due pietre focaie, facendoli cozzare uno con
l’altro per generare scintille in grado di aprire possibili vie d’uscita.
Una cosa che avrei sempre voluto fare è insegnare, come modo di
comunicazione e di possibile contaminazione di quello che mi
stava intorno. Poi ho scoperto che la fotografia poteva veramente
sintetizzare, come dici tu, tutte queste cose, in quanto è un mezzo
di comunicazione molto efficace e forse anche più efficace della
parola. Però mi piacerebbe riuscire a generare, attraverso la
fotografia, delle ricadute che non si esauriscano nella dinamica
atelier-galleria oppure fiera-collezione privata. Per me questa è una
questione ancora apertissima, su questo aspetto sto vivendo un
momento di conflitto molto creativo.
Sì, è così. Sono sempre stato molto interessato alla pittura anche
se non ho mai preso il pennello in mano. Fin da piccolo sono
sempre stato affascinato dall’arte figurativa e dagli impressionisti.
Sicuramente, questo è il background del lavoro Impressions of the
World, um progettonche ho iniziato quasi dieci anni fa. Mi interessa
una fotografia che rappresenti il sogno con strumenti, diciamolo
pure, pittorici. Sono stato fortemente influenzato anche dai pittori
viaggiatori della seconda metà dell’800, in particolare da chi
viaggiava in Oriente.
È una tecnica per cui deve fare molti scatti per ottenere il
risultato. Non può fare previsioni. Quando decide che ha la
fotografia buona, quando si ferma?
Sì, ho fatto le prime foto nel 1962 al Festival di Sanremo del Jazz,
mio padre lo ha organizzato per sette edizioni. Erano foto in bianco
e nero per un fatto molto pratico, oltre che estetico. Il fatto pratico è
che allora non esistevano pellicole a colori sufficientemente
sensibili per la luce artificiale e in teatro c’era poca luce. Il fatto
stilistico è che mio papà mi chiedeva soprattutto ritratti, e i ritratti in
teatro, soprattutto di musicisti quasi sempre di colore, avevano
senso in bianco e nero, perché i volti vengono drammatizzati e le
espressioni contrastate.
Tu dici che le tue prime foto erano più aneddotiche. Era proprio
questo che allora gli rimproveravo. Bisogna dire che io ero
diventato un seguace fanatico di Cartier-Bresson. Al mio primo
incontro con lui, avevo avuto la faccia tosta di mostrargli i miei
primi reportage, fatti con una Rolleiflex. Ha esclamto che se il
Buon Dio avesse voluto che si fotografasse con una 6×6, ci
avrebbe messo gli occhi sulla pancia. Dunque mi sono
comprato una Leica e ho cercato di seguire i suoi consigli,
nella misura in cui potevo intenderli. Ma tutto questo mi
rendeva intollerante. Per esempio, trovavo che nelle tue foto ci
fosse troppa aneddotica e troppo poca composizione. Gli
rimproveravo i difetti del 6×6: la costruzione in rapporto al
centro dell’immagine, l’imprecisione di quello che succede ai
lati. È solo molto più tardi che ho capito meglio, ed è stato
come una rivelazione istantanea, come certe conversioni sotto
l’effetto di uno choc. Da quel momento, i tuoi personaggi hanno
cominciato a vivere per me, sapevo quello che pensavano o
quello che stavano per fare. Da ciascuno di loro partiva una
linea di forza, e la composizione della foto era nel rapporto tra
queste linee. Avrei dovuto rendermene conto molto prima.
D’altra parte non sono solo i personaggi umani delle tue foto
che io sento vivere in questo modo, ma anche il coniglio, la
scimmia…
… le case…
Lo si sente un po’…
L’avevo fatto per restare in uno stile di amabilità, per mostrare delle
piccole scene parigine, come in uno di quegli spettacoli di rivista
del tipo Parigi sarà sempre Parigi. Forse oggi sembrano un po’
sdolcinate, ma allora si vendevano. La foto degli innamorati
dell’Hôtel de Ville faceva parte di una serie sulla quale avevo già
lavorato una settimana, bisognava completarla con due o tre foto
dello stesso tipo. Ma io non le trovo fastidiose. In fondo, non c’è
niente di più soggettivo dell’obiettivo, noi non mostriamo il mondo
com’è veramente. Quello che io cercavo di mostrare era un mondo
dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili,
dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto
erano come una prova che questo mondo può esistere.
Sì, forse. Si vede un tipo che guarda, un altro che si ferma. Non è
male così, la foto non è troppo costruita. Lascio la sua parte al
caso, è come la parte del povero. Ai pranzi di festa si lasciava una
sedia vuota perché, se dovesse arrivare un visitatore inatteso, resti
un posto per lui.
Non lo so. C’è questa parola: Già. Già la vita è passato, così in
fretta, malgrado tutte le grane, tutti i momenti che non si
vorrebbero assolutamente rivivere. È comunque passata – già. C’è
un momento in cui si accetta di scomparire. Non tocca a me
immaginare, tocca a loro, che se la sbrighino, accidenti! Forse c’è
ancora modo di fare altre immagini, diversamente. Le mie foto
attuali di Saint-Denis sono piuttosto diverse da quelle fatte per
Cendrars: ho voluto suggerire più che descrivere. In futuro,
potrebbero essere ancora più suggerite, per degli spettatori
ancora più evoluti, ma senza cadere nell’inquinamento della
pubblicità, che è il maggior pericolo, né nello stridore della
televisione. Prima dell’agricoltura c’era stata la raccolta, ciò che io
ho fatto in fotografia era raccolta. Dopo la raccolta c’è stato
l’allevamento, le foto in studio sono allevamento. Forse nel futuro si
faranno immagini ben confezionate, con tutta una scienza della
sensibilità del pubblico, si potranno calcolare i costi, un computer
darà un po’ più luce qui, un po’ meno là, e si avrà un prodotto
immediatamente digeribile. Ma non è una cosa che fa per me. Io
ho dato quello che avevo da dare.
Bettina Rheims:
il racconto di una storia
universale
Bettina Rheims, I.N.R.I. viene esposto per la prima volta in
Italia. È stata una sua scelta?
Non bisogna essere per forza credenti per essere affascinati dalla
storia della Bibbia. La Bibbia è sempre stata un soggetto per gli
artisti perché è la più bella storia del mondo. È una storia con cui
tutti noi possiamo entrare in relazione ed empatia.
Durante il lavoro siamo stati aiutati da due preti che quasi ogni
giorno venivano sul set per seguire lo shooting. Naturalmente
qualche prete non ha gradito il lavoro, lo hanno considerato inutile.
La cosa più strana è che a distanza di quindici anni, ogni
settimana ricevo una richiesta per esporre queste fotografie a
scopo educativo. In qualche modo, oggi abbiamo tutti un po’
perso la capacità di capire la Bibbia e la trasposizione in un
linguaggio contemporaneo, probabilmente, ha reso questi simboli
più accessibili.
Michele Neri:
l’origine di questo
linguaggio fotografico
nuovo, vago, analfabeta,
ricco, strano
Michele, vorrei iniziare dai lettori di Maledetti Fotografi. Questo
magazine funziona in modo molto semplice: se pubblichiamo
un’intervista a Josef Koudelka facciamo qualche migliaio di
visite, se pubblichiamo un trentenne contemporaneo che fa
esperimenti con la macchina fotografica, ne facciamo qualche
decina. Nel tuo ultimo libro, Photo Generation, spieghi che tutta
l’attenzione che vediamo oggi verso i grandi autori classici non
è un atteggiamento conservatore, ma è la ricerca di punti di
riferimento che aiutino a comprendere il proprio percorso.
Può essere.
È possibile, ma credo che ci siano delle ragioni per cui l’immagine
è entrata nel primo Nokia e poi in tutti i telefoni successivi.
L’immagine faceva già parte del nostro dizionario universale, molto
più della parola, era una necessità pregressa di relazione con
l’altro che cercava uno sfogo. Il tema centrale di questi anni
riguarda lo spazio tra noi stessi e l’altro e le immagini sono il mezzo
più universale per occuparlo. Il fotogiornalista ha sempre cercato
di utilizzare la fotocamera per occupare questo spazio, e ha quasi
sempre tentato di farlo in modo rispettoso, per testimoniare una
verità, per quanto si sappia che al massimo si può arrivare a
un’approssimazione.