Sei sulla pagina 1di 151

ITALIANA

Narratori Giun
Collana dire a da Benede a Centovalli

1. Ermanno Rea, La comunista


2. Rosa Ma eucci, Le donne perdonano tu o tranne il silenzio
3. Simona Baldelli, Evelina e le fate
4. Marco Arche , Se e diavoli
5. Valerio Evangelis , Day Hospital
6. Laura Pariani, Il pia o dell’angelo
7. Flavio Pagano, Perdutamente
8. Massimiliano Governi, Come vivevano i felici
9. Diego Agos ni, La fabbrica dei ca vi
10. Marco Magini, Come fossi solo
11. Simona Baldelli, Il tempo bambino
12. Simone a Agnello Hornby, La mia Londra
13. Walter Fontana, Splendido visto da qui
14. Domi lla Melloni, Forte e so le è il mio canto. Storia di una donna
obesa
15. Grazia Verasani, Mare d’inverno
16. Simone a Agnello Hornby, Il pranzo di Mosè
17. Paolo Maurensig, Amori miei e altri animali
18. Clara Sereni, Via Ripe a 155
19. Carmen Pellegrino, Cade la terra
20. Pier Franco Brandimarte, L’Amalassunta
21. Flavio Pagano, Senza paura
22. Paola Capriolo, Mi ricordo
23. Claudio Calzana, Lux
24. Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna
25. Guia Soncini, Qualunque cosa significhi amore
26. Chiara Moscardelli, Quando meno te lo aspe
Il contesto storico che fa da sfondo alla narrazione è stato ricostruito grazie a fon documentarie. Personaggi, vicende e
situazioni sono invece fru o della fantasia dell’autrice.
Adua
di Igiaba Scego
«Italiana» Giun
Coper na di Rocío Isabel González
Foto di coper na: © Ve a/Ge y Images
© 2015 Igiaba Scego
Pubblicato in accordo con PNLA/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
h p://narra va.giun .it
© 2015 Giun Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
ISBN 9788809811980
Prima edizione digitale: se embre 2015
Presentazione

Il libro
Adua
Adua è oggi una donna matura e vive a Roma da quando ha diciasse e anni. È una Vecchia Lira, così
i nuovi immigra chiamano le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Se anta.
Ha da poco sposato un giovane richiedente asilo sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto
ambiguo, complicato. Non a caso lo chiama sempre Titanic, lo fa per rimarcare una differenza e forse
per ferirlo un po’. Adua è confusa e a un bivio della sua vita. Medita di tornare in Somalia, paese che
non ha più rivisto dallo scoppio della guerra civile. Ormai è sola a Roma, la sua amica Lul è già
rientrata in patria. Per questo confida i suoi tormen alla statua dell’elefan no del Bernini che regge
l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano racconta a questo amico di marmo la sua
storia: figlia di Zoppe, ul mo discendente di una famiglia di indovini, il padre lavorava come
interprete durante il regime fascista. Negli anni Trenta Zoppe bara erà involontariamente la sua
libertà con la libertà del suo popolo. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla di atura comunista,
approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema. Purtroppo l’unico film da lei interpretato, un
porno so dal tolo Femina Somala, sarà fonte solo di umiliazione e vergogna. E solo adesso che il
suo Titanic sta per par re, Adua si rende conto di essere pronta a riprendere in mano la sua vita.
Romanzo a due voci, quella di un padre e di una figlia, Adua indaga il loro rapporto impossibile e lo
fa seguendo tu e le loro luci e le loro ombre. Ma alla fine Adua è sopra u o il racconto di un sogno,
quello della libertà che ha consumato in modo diverso e in tempi diversi le vite di entrambi.
L’autrice
Igiaba Scego
Nata a Roma nel 1974, collabora con «Internazionale», «Lo straniero», «la Repubblica». Tra i suoi
libri: Pecore nere, scri o insieme a Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi (Laterza 2005);
Oltre Babilonia (Donzelli 2008); La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010, Premio Mondello 2011),
Roma negata (con Rino Bianchi, Ediesse 2014). Esperta di transculturalità, adora gli elefan , i ga , il
parmigiano, la cedrata e Caetano Veloso.
Per altre no zie sull’autore:
h p://www.giun .it/autori/igiaba-scego/
Dicono del libro:
h p://www.giun .it/libri/narra va/adua/
Altri toli in collana:
h p://www.giun .it/editori/giun /italiana/
A Dorothy Jean Dandridge, Anna May Wong, Nina Mae McKinney, Ha e McDaniel,
Marilyn Monroe e tante altre che hanno tentato di far cinema nonostante la gabbia
che il sistema ha costruito loro addosso.
She’s living the life just like a movie star.
Santana, Maria Maria

Ah sacré papa.
Dis-moi où es-tu caché?
Ça doit…
Faire au moins mille fois que j’ai
Compté mes doigts.
Où t’es? Papaoutai?
Stromae, Papaoutai
1
Adua

Sono Adua, figlia di Zoppe. Oggi ho ritrovato l’a o di proprietà di Laabo


dhegah, la nostra casa a Magalo, nella Somalia meridionale. Era nascosto in
una vecchia valigia di peltro che tenevo in magazzino, era in quel posto da
secoli e io non me ne ero mai accorta.
Ora sono in regola. Ora se voglio posso tornare anch’io in Somalia.
Ho una casa e sopra u o un documento ufficiale dove c’è scri o che è
appartenuta a mio padre Mohamed Ali Zoppe, quindi è mia.
Finalmente potrò sgomberare gli abusivi che l’hanno occupata in ques
tris anni di guerra.
Laabo dhegah, significa due pietre in italiano. Uno strano nome per una
casa, forse non tanto di buon auspicio. Ma non me la sen rei di cambiarlo
ora. Non avrebbe proprio senso cambiarlo. Con quel nome è nata e con
quel nome è des nata a esistere.
La leggenda vuole che mio padre, Mohamed Ali Zoppe, abbia de o:
«Queste sono le due pietre, i laabo dhegah, su cui costruirò il mio
avvenire».
Chissà se l’ha de a veramente quella frase. Suona un po’ biblica.
Sta di fa o che ormai la leggenda si è impiantata nei nostri cuori e, anche
se a scapito della verità, devo dire che le siamo affeziona in famiglia
ormai.
Ogni no e prima di addormentarmi mi chiedo se potrò pure io, come
mio padre, costruire nella nostra terra il poco di avvenire che mi è rimasto.
Ho de o a Lul se ci bu ava un occhio a Laabo dhegah visto che sarebbe
par ta subito da Roma.
Le ho de o: «Ti prego. Conto su di te, abaayo, per conoscere ogni
minimo de aglio della mia casa che fu».
Era una giornata ventosa, i nostri foulard ballavano sull’archite ura di
Roma Capitale.
Io l’ho abbracciata e le ho de o: «Non scordare di Laabo dhegah, non
scordare di me, sorella».
Non ha fa o promesse solenni.
Lul è stata la prima delle mie amiche a tornare. Mi ha chiamato dopo una
se mana che stava a Mogadiscio, e mi ha de o «l’aria odora di cipolla».
Non mi ha de o molto altro. Io le ho fa o domande su domande. Volevo
sapere se era davvero cambiato tanto il nostro paese e se noi che da più di
trent’anni viviamo fuori avremmo potuto legarci di nuovo alla nuova,
nuovissima Somalia della pace.
«Ci crollerà il sogno?» le chiedevo. «Ce la faremo a viverci?» la incalzavo.
Lul però non ha risposto. Al telefono ripeteva «business», «money».
Con nuava a dirmi che il tempo di fare affari era ora, non domani. Ora il
tempo dei denari. Ora il tempo dei guadagni.
«È la pace, bellezza,» ha sogghignato «se ci eni alle tue due pietre,
vieni.»
La pace. Prima di agosto credevo che la parola “pace” fosse una parola
bella.
Nessuno mi aveva de o che “pace” è, di fa o, una parola ambigua.
Nel 1991 è scoppiata la guerra civile nel mio paese. Nel 2013 sta
scoppiando la pace.
Hip hip hurrà!
Business è diventata l’idea fissa di tu i somali.
Di Lul…
Ma io sono ancora a Roma e da qui mi sembra tu o così strano. Mi piace
Roma d’estate, sopra u o la sua luce di sera, sul far del tramonto, è calda,
e anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli. Sono i
padroni delle piazze, ma qui ci sei tu, elefan no mio, e loro non si
azzardano. Via, state lontano da piazza Santa Maria sopra Minerva! Mi
sento prote a vicino a te. Qui sono a Magalo, a casa. Anche mio padre
aveva le orecchie grandi, ma lui non mi ha mai saputo ascoltare, né io sono
mai riuscita a parlarci. Con te è diverso. Per questo ringrazio Bernini di
aver creato. Un piccolo elefante di marmo che sos ene l’obelisco più
piccolo del mondo. Uno stuzzicaden . Non offender se dico questo. Lo
sai, io ho bisogno di te.
Lul è par ta e non so ancora se la ritroverò. Ma tu me la ricordi. Sai
ascoltare. Ho bisogno di essere ascoltata, altrimen le parole si sciolgono e
si perdono.
«Guarda la negra, parla da sola» dicono i passan e ci indicano. Ma noi
non badiamo a loro. Ci intendiamo a meraviglia io e te, dopotu o veniamo
dall’Oceano Indiano. Il nostro oceano di magia e profumi. Oceano di
separazioni e ricongiungimen . Sei un errabondo, come me.
Ora è Lul a respirare il tanfo di tonno del nostro oceano.
A bere shai addes. A dare ordini tra ando in malo modo le persone
pensando che tu siano i suoi adon.
La conosco Lul, è una brava ragazza e proprio per questo è la più perfida
delle streghe.
Lul è in cima ai miei pensieri. Che starà facendo ora la mia amica in
Somalia? In quale business si è ficcata alla fine?
E se la raggiungessi davvero? La valigia è pronta, non l’ho mai disfa a.
È pronta dal 1976. Dovrei prenderla e poi caricare il mio stanco corpo su
un aereo per Ankara e da lì volare dri a dri a verso Mogadiscio.
Ma sto sognando a occhi aper .
Ieri ho incontrato sul tram una ragazza. Era nera, rasata e con le cosce
grosse. Eravamo sul 14, allo svincolo per Porta Maggiore. Mi fissava fin
dalla stazione Termini. Ero infas dita dal suo sguardo puntuto. Avrei voluto
voltarmi e dirle «Basta». Mischiare la lingua madre all’italiano di Dante e
fare una di quelle belle scenate che vivacizzano il viaggiare sui mezzi
pubblici a Roma. Avrei voluto essere volgare e debordante. Mi andava una
bella scenata, così non avrei più pensato a Lul, a Laabo dhegah, alla strana
pace somala. Ma poi la ragazza è stata furba. Mi si è avvicinata lentamente
e senza quasi preavviso mi ha sparato la sua domanda: «Sei Adua, vero?
L’a rice? Io l’ho visto il tuo film». E poi dopo una pausa di quelle studiate
ha aggiunto: «Lo sai che fai impressione?».
Ero sgomenta.
Il mio film? C’era davvero qualcuno che si ricordava ancora di quel film?
2
Paternale

Stai composta, Adua. Togli quei gomi dal tavolo. E asciuga quella bocca
sudicia. La schiena dri a, per Dio. Perché te ne stai tu a floscia? Hai le
mani zozze, lavatele subito, se no bastono. È questo il modo di guardare
tuo padre, Zoppe, screanzata? Sei come tua madre, Asha la Temeraria,
quella poco di buono. Tua madre, quella troia, che è morta lasciandomi qui
solo con il mio amore. Come si è permessa di morire? Eh? Come si è
permessa? Malede a femmina! E tu? Morirai pure tu? Hai gli stessi occhi
suoi, non li sopporto! Ma vedi come aggiusto io. Con me non si scherza,
si riga dri o, ragazza. Ora la musica è cambiata, non è come nella
boscaglia, dove viziavano. E, se non ubbidisci, lo sai cosa succede, sì?
Ecco, allora stai dri a con quella schiena e per carità non piagnucolare. Mi
ur i mpani. Zi a. Ecco, stai zi a!
3
Zoppe

Quel giorno di febbraio del ’34, una polvere rosa ricopriva i palazzi di
Roma.
Erano in tre a picchiarlo. Uno lo teneva fermo, gli altri lo riempivano di
bo e.
Il più giovane strinse Zoppe con tu a la forza. I picchiatori ridevano di
quello zelo a buon mercato. «Bravo, Beppe! Tienilo, stritolalo per bene
questo bastardo di un negro.» E Beppe ubbidiva.
Zoppe sen va un fuoco divampare dalla sua pelle. E se l’era fa a addosso
come quando era bambino.
«Wa sku haare» disse biasimando se stesso. «Cagato… io… perché.»
Le parole gli uscivano fuori con lentezza. Si sen va umiliato, solo, un
fru o avvizzito su una pianta ancora acerba.
«Oh madre mia, quando finirà questo strazio?»
La bocca nel fra empo aveva cominciato a gocciolare sangue.
«Madre…» invocò.
Hooyooy ma’an…
«Parla da solo questo scemo di un negro.»
Hooyo…
«Camera , lo scemo con nua.»
Hooyooy ma’an…
«Vuole farci proprio arrabbiare.»
Hooyo…
«Bruciamogli i piedi, ragazzi.»
Hooyooy ma’an…
«Caviamogli gli occhi.»
Hooyo…
«Rompiamogli il naso.»
Il naso no, il suo bel naso no. Con un calcio nel culo Zoppe si ritrovò
disteso sul pavimento.
«Lo sai che fai schifo, negre o?» lo apostrofò Beppe. «E ora vuoi pure
che puliamo la tua merda, eh signorino?»
«Leccala» replicò il compare. «Ripulisci questa merda.»
«Qui la festa è finita per te, pidocchio» aggiunsero i tre in coro.
Zoppe vide le punte tonde degli s vali sulla sua testa e chiuse gli occhi.
E si ricordò della bambina bionda e del suo gigantesco papà.
*
Zoppe era ubriaco di paura. Ma a quella visione freme e di gioia.
Il gigante e la sua bambina bionda.
Ah, quanto gli mancavano.
Wallahi, gli mancavano da morire.
Vederli in quella strana bruma di sogno fu per lui una sorpresa
inaspe ata. Perché erano venu ? Avevano forse colto il suo grido di aiuto?
«Uauarei, uauarei, uauarei, uauarei» aveva gridato.
«Aiuto» aveva sussurrato mentre lo torturavano.
Il padre e la sua bambina…
Erano così belli insieme, allegri per le strade di Pra .
Da mesi li vedeva mano nella mano. Abitavano a pochi metri dalla casa
dove soggiornava. Era stato inevitabile guardarsi la prima volta. Lui
guardava loro e loro guardavano lui. Senza quella curiosità maligna dei
bianchi, quelle mani fameliche dentro i suoi capelli ricci, quei commen
velenosi sul colore della sua pelle. Il padre e la bambina lo guardavano con
occhi umani.
Fu così bello ritrovarli in quella nebbia fa a di rugiada. La visione era
piena di interferenze, ma loro due, il padre e la bambina, si stagliavano
ni di in quel cielo gravido di incertezze.
Avrebbe voluto dire loro: «Grazie di essere venu a trovarmi in quest’ora
così buia», ma si poteva dire grazie a una visione? La bocca poi era troppo
gonfia di sangue per poterla usare. Riusciva solo a biascicare bestemmie e
preghiere in ordine sparso.
In altre circostanze si sarebbe alzato e li avrebbe abbraccia . Quei due
rimanevano sagome, proiezioni, visioni. Non erano di carne, né tantomeno
di ossa. Erano lì in piedi, a preoccuparsi per lui. In ogni visione, questo
glielo aveva insegnato il padre indovino, c’è sempre un fondo di verità, di
carnalità. Il padre e la bambina non erano lì per davvero, ma forse stavano
pensando a lui. Avevano intuito, visto qualcosa nella foschia del pensiero.
Padre e figlia non sapevano che lui fosse in pericolo, ma le anime sensibili
fiutano l’aria come i facoceri. A loro non sfugge mai nulla, almeno questo
sosteneva il suo vecchio. Ah, come sarebbe stato bello abbracciarli per
davvero, stritolarli di affe o, fondersi insieme alle loro preoccupazioni così
dolci. Ma Zoppe non sapeva abbracciare le persone. Nel suo villaggio in
Somalia gli abbracci erano per l’in mità di un talamo, per la complicità
degli aman . Non era cosa da sprecare un abbraccio. Gli abbracci non
erano per gli amici o per chi si conosceva per caso.
Zoppe non sen più i calci ca vi. Esistevano solo il padre e la bambina,
mano nella mano, per le stradine scoscese del quar ere Pra .
E poi il pensiero corse a sua sorella Ayan…
“Mi manchi…”
“Magalo è così lontana, sorellina mia. Magalo è così distante da questa
Roma dove sono finito. Sarai cresciuta adesso, sarai una donna. Dimmi,
Ayan, che stai facendo? Ora, adesso, che stai facendo?”
Zoppe la cercava, ma lei non c’era. “Chissà se nostro padre ha insegnato
a leggere gli astri.”
Aveva sete.
Tanta, tanta sete.
*
«Sme amo, eh?» disse a un certo punto Beppe.
«Sì, se no così lo uccidiamo. Ci hanno de o di diver rci un po’. Mica di
ucciderlo. Dopotu o è uno che lavora per noi, e di ques interpre mica ce
ne abbiamo a mucchi, il mio superiore dice sempre che ques qui sono da
tra are con i guan , la guerra contro il lurido abissino è vicina, ci
serviranno…»
«Ma se è un negro, a chi può servire un negro? Dai, su, siamo seri.»
Zoppe quasi non ascoltava le parole. Potevano fare di lui quello che
volevano. Ormai il suo des no era già scri o. Era tu o maktub.
Si ricordò di quando il padre gli diceva: «Guarda le stelle e poi guarda il
loro riflesso nel ca no. In quella luce troverai». Da quanto non compiva i
ri ? Roma lo aveva così impigrito. Si scordava di fare le cinque preghiere
verso la Mecca, si scordava di benedire gli antena , si scordava delle du’a
più elementari.
Suo padre lo avrebbe rimproverato e anche sua sorella Ayan lo avrebbe
guardato storto. Non lo avrebbero ascoltato e forse non avrebbero creduto
alle sue lamentele. «Non ci sono stelle qui a Roma, non si vedono, si
confondono.»
«Gli astri,» avrebbe de o suo padre «non stanno in cielo. Non hai
provato nemmeno a cercarli.»
Era vero. C’era tu o quel lavoro che lo assorbiva. Ogni giorno doveva
tradurre, tradurre, tradurre e tradurre. Parole da decifrare ogni minuto,
sospiri da segnalare ogni secondo, e poi tu e quelle malede e virgole da
analizzare. Era un interprete, un mago quasi. Un lavoro serio il suo, mica
come quegli ascari costre a suonare la tromba e a rantolare nella sabbia,
carne da macello per il campo di ba aglia. Lui era sempre elegante nella
sua divisa color cachi. Mai una piega molesta a incasinargli la simmetria.
Era uno dei migliori sulla piazza. Era, a de a di tu , il migliore. Unico nel
suo genere. Persino qualche gerarca si era accorto di lui. Parlava l’arabo, il
somalo, il kiswahili, l’amarico, il grino e una montagna di lingue piccole
u li per la futura guerra. Questo dono lo aveva preso da suo padre
indovino. L’italiano, invece, gliel’avevano insegnato i gesui . Era stato un
a mo per Zoppe saltare in groppa a quella lingua e farla sua. Gli era
venuto in mente che lavorare per i nuovi padroni del paese gli avrebbe
fru ato un po’ di qua rini. «Io non lo farei, ragazzo mio,» aveva de o il
padre appena venuto a conoscenza delle sue intenzioni «le stelle dicono…»
Ma Zoppe l’aveva interro o subito: «Basta con queste stelle, la vita vera,
padre, è fa a di qua rini, io ne voglio abbastanza per vivere felice ed
essere invidiato dal mondo. Voglio che tu si inginocchino ai miei piedi». Il
padre l’aveva guardato come si guardano gli escremen . Ma non aveva
de o nulla. Ognuno ha il suo cammino da seguire, i baratri dove
precipitare. Si era ammutolito e aveva smesso di consigliare quello
sgangherato figlio che gli era toccato in des no. Zoppe fu contento di quel
silenzio. Suo padre e tu a la sua saggezza gli davano ai nervi. Era sempre
troppo giusto, troppo perfe o. «E fammi sbagliare in pace» urlava Zoppe
nei momen in cui se ne stava solo.
«Sarai mica morto, negre o?» disse Beppe, stra onandolo.
Prima di quei pugni e di quegli insul si era sen to per un a mo
appagato da tu o quel mondo variegato che lo lodava, da quella gente che
lo lusingava. E poi c’era stata Roma a soggiogarlo. Quando gli avevano
comunicato che avrebbe passato qualche mese in Italia, nella ci à eterna,
Zoppe pensò a un miracolo. Un negro a Roma? Proprio lui? Roma era il suo
sogno, la conosceva ancor prima di conoscerla. «Ti daremo da lavorare.
Documen da tradurre per lo più.» Aveva preso quel trasferimento come
un premio, un riconoscimento alla sua abnegazione, alla sua fedeltà. Il
lavoro era molto, ma sopra u o doloroso. Perché in quelle carte c’era
odore di tradimento. La guerra era vicina e qualcuno già si affre ava a
me ersi nelle accoglien braccia dei vincitori. Qualcuno avrebbe potuto
dire la stessa cosa di lui, chiamarlo persino collaborazionista. Ma lui non
stava tradendo nessuno. Non avrebbe levato mai un’arma contro un suo
vicino, un uomo con lo stesso suo colore di pelle. Lui traduceva e basta. Era
un ambasciatore della lingua, un mediatore, non portava pena. Lui lavorava
sul presente, sull’a mo che passa. Magari ci poteva scappare una bella
ricompensa. Un giorno sarebbe tornato nella sua terra e avrebbe costruito
una casa grandissima. Lì avrebbe portato Asha, la figlia del vecchio Said
l’orbo, lì l’avrebbe posseduta, lì lei sarebbe diventata sua moglie, lì lei
avrebbe cresciuto la loro prole.
*
La visione era ancora lì a confortarlo.
Il padre e sua figlia…
Il quar ere…
Gli alberi…
La cupola di San Pietro…
Poi il glicine in fiore…
L’odore delle donne…
I sorbe da passeggio…
Il passo marziale dei solda …
Il fruscio delle gonne arcobaleno…
Le urla dei neona in fasce…
Gli scarponi sui sampietrini sconnessi…
E di nuovo un padre…
E di nuovo una figlia…
Il conta o delle loro mani…
Il loro sorriso…
Le loro speranze dipinte di blu…
Zoppe fu confortato da quelle immagini opache e zigzagan .
Da quelle visioni più soffici del vento.
Si sorprese della sua memoria fotografica.
Aveva conservato ogni de aglio, ogni piccola sfumatura di quel suo
passato così recente.
Ricordava sopra u o la bambina.
Il suo ves no a fiori, il cappo no beige, i guan rossi e quel cappellino
di feltro a forma di campana.
Che bella testolina aveva. Una testolina ovale che affondava tu a quanta
in quel minuscolo cappellino an co.
Come gli ricordava sua sorella Ayan.
Anche Ayan aveva una bella testolina. Ma Ayan non aveva quel cappellino
così carino.
«Se esco vivo da qui,» balbe ò «gliene comprerò uno uguale.»
I calci avevano sos tuito i pugni. Colpivano forte, colpivano duro. Zoppe
si strinse alla visione per non cedere alla morte.
Aveva ombre davan a sé, ma era a loro che affidava la sua anima.
La bambina sorrise. Zoppe notò con tenerezza che stava perdendo i den
da la e.
“Se ques energumeni mi spaccano, il naso la bambina non mi
riconoscerà” il pensiero di cambiare faccia terrorizzava Zoppe.
“Spero che il papà la por lontano. Il più lontano possibile.”
“Sì… il più lontano possibile da qui.”
*
Zoppe si ricordava ancora di quando era andato a pranzo a casa dell’uomo
e della sua bambina tre mesi prima.
Era mercoledì e il quar ere viveva una strana atmosfera di a esa.
Nell’aria profumi di campagna si fondevano in un’intensa melodia alle
fragranze acri della ci à. Ed è così che il pelo del cavallo, la rosa selva ca, il
fieno lavorato si amalgamavano complici con i motori a scoppio delle
automobili e i gas di scarico delle motore e.
«Perché non vieni a pranzare a casa nostra?» gli chiese la bambina.
Zoppe, che era ves to con la sua solita divisa color cachi, fu colto alla
sprovvista da quella richiesta bizzarra.
Era fermo sul ciglio della strada, pronto ad a raversare e spiccare il volo
verso la sua vita di quel giorno, verso altre parole da tradurre. Era ferma
pure la bambina sullo stesso marciapiede. E il padre gigantesco a pochi
metri a proteggerla dal vento e dalla disperazione.
«Comunque io mi chiamo Emanuela con la E, mi raccomando. Non mi
piace quando mi chiamano Manuela con la M,» e poi riprendendo fiato
aggiunse «e questo è il mio papà. Si chiama Davide. Stringetevi la mano
adesso. Bene così, da amici.»
E si strinsero le mani. Tu e tre.
La bambina aveva un tono saputello. Quasi fas dioso.
Le piaceva dare ordini.
Si vedeva che era molto viziata dai genitori, l’unica cocca della casa.
Le mancava disciplina.
Ma c’era lo stesso qualcosa che a Zoppe piaceva da ma .
Il somalo allungò il suo braccio destro e allargò la palma della mano per
accogliere Davide.
Zoppe notò che aveva una stre a forte e poderosa. Una stre a che
me eva a tuo agio e dava fiducia.
«Allora vieni da noi?» lo incalzò la bambina con quel suo tono
martellante.
Li aveva osserva a lungo da lontano. Il padre e la sua bambina. La
bambina e suo padre.
Stesso sguardo a ento. Stessa fronte corrugata.
A occhio la bambina aveva o o, forse nove anni.
La stessa età di Ayan.
E anche lei aveva due occhi che brillavano al sole come smeraldi.
«Allora vieni?» chiese la bambina.
Cosa rispondere?
Lui era in quella terra straniera ormai da mesi e la bambina con il suo
grosso padre erano gli unici che accennassero con il capo un segno di
saluto. Solo loro in quei luridi e lunghissimi mesi. In questo Roma era stata
avara con lui. E pensare che aveva immaginato belle donne bionde a sua
disposizione e tan amici con cui giocare a biliardo. Ma aveva presto
scoperto che un negro a Roma doveva far bene a enzione. «Se possibile,»
gli aveva de o uno dei capi «dovres far di tu o per sparire.»
Lui Roma se l’era immaginata una reggia a cielo aperto, invece ci
pisciavano cani e umani. E a volte il puzzo di latrina gli faceva venire il
voltastomaco. Ma mai quanto la tristezza di vedere quanto poco era amato
dalla popolazione. A volte il disgusto nei suoi confron si palesava in spu
improvvisi che lui schivava con gran maestria.
Ecco perché doveva sparire, rendersi invisibile.
Per strada correva sempre. Voleva essere scambiato per un’illusione
o ca, non per un negro.
Era diventato una sae a ad a raversare Roma.
Nessuno ormai lo notava più. Era troppo veloce da acchiappare.
Gli mancava Magalo e la lentezza bovina di quella ci à oceanica. Lì era
importante, a tu e le ore del giorno e della no e. Nessuna donna lo
schifava o lo scansava. E poi di donne quante ne voleva.
«Se io mi chiamo Emanuela, tu come chiami, signore?» chiese la
bambina.
«Io mi chiamo Mohamed Ali, ma la gente mi chiama Zoppe.»
«Perché zoppichi?» chiese la bambina.
«Sì, perché zoppico. Da piccolo ho avuto una bru a mala a, ma poi mi
sono salvato.»
«È stato fortunato» intervenne Davide.
«Fortunato… be’ sì» replicò Zoppe.
«È da un po’ che vediamo io e papà, sai?» disse la bambina.
“Dopotu o anch’io vi guardo” avrebbe voluto rispondere Zoppe, ma non
disse nulla. Aspe ò che quella strana coppia a passeggio aggiungesse altri
de agli.
«Allora ci vieni da noi? Eh? Ci vieni?»
«Non so. Non ero preparato ad andare a pranzo fuori» rispose Zoppe
pieno di vergogna.
«Mica devi preparar , signore.»
«Non essere scortese, Emanuela» la ammonì il padre.
«Non si preoccupi,» intervenne Zoppe «è una bambina. Anch’io da
piccolo parlavo così. È il bello di quest’età, non le pare?»
«E da bambino eri così tanto marrone come sei adesso?» chiese lei.
Il padre divenne livido e rosso.
«Emanuela, non me ere in imbarazzo il signore.»
«Nessun imbarazzo, davvero,» replicò Zoppe diver to «e risponderò a
sua figlia. Sì, marrone anche da ragazzino. Come tu sei rosa io ero
marroncino e lo sono ancora, come vedi.»
«Nella tua ci à ci sono i feroci leoni? Li ho vis sul libro di scuola.»
«Sì, e anche le zebre» rispose Zoppe.
«E i rinoceron ? Li hai vis i rinoceron ?»
«Ti dirò di più. Ci sono le an lopi, le iene, le giraffe e un giorno ho visto
una mandria di gnu pron a inseguire un sogno.»
«Cosa sono gli gnu? Non ci sono nel mio libro. Com’è fa o uno gnu?»
«È una vacca, un po’ grossa, gobbosa e decisamente pelosa.»
«E si mangia?»
«Non l’ho mai assaggiata.»
La bambina lo guardava con meraviglia. E anche Davide, suo padre, aveva
gli occhi pieni di curiosità.
«È la prima volta che viene a pranzo da noi un uomo marrone. E poi sei
fortunato, oggi mamma ha fa o i carciofi nella pentola grande e la crostata
con le visciole.»
«Sembra buono. Ma ecco, io non ho niente da portarvi. Fatemi comprare
le pastarelle, almeno.»
«Sei nostro ospite oggi,» disse Davide «per noi oggi sei sacro. Domani se
vuoi compra pure le pastarelle.»
Zoppe sorrise, non era più abituato al calore.
«E poi anch’io sono curioso» aggiunse. «Io non sono mai stato in una
casa ca olica. Avete il crocefisso?»
La bambina guardò il padre.
Zoppe sen che qualcosa si era ro o nell’atmosfera gaia di un minuto
prima.
«Noi siamo diversi» sussurrò il padre.
«A scuola i compagni mi chiamano “assassina”. Dicono che ho
ammazzato Dio e che la mia famiglia va in giro a rubare i bambini. Ieri
Graziella, quella grassa che non sa ancora l’alfabeto, mi ha rato i capelli e
mi ha chiamata “mangiaoche”. Mi sono messa a piangere, perché ha rato
molto forte.»
Zoppe non capiva, confuso da parole troppo veloci.
«Emanuela,» intervenne il padre «sta tentando di dirle che noi siamo
ebrei. Per lei è un problema questo?»
4
Adua

Mio padre non ha mai visto il mio film.


Se l’ha visto non me l’ha mai de o.
Hagi Mohamed Ali de o Zoppe, mio padre.
È buffo sen re in bocca il suono di questa parola.
Finché è stato vivo l’ho chiamato poco papà. È stato semplicemente Hagi
Mohamed. Hagi perché, come ogni credente che si fregia di questo tolo,
anche lui aveva compiuto il pellegrinaggio nella ci à santa.
E poi la verità, elefan no, è che non sono mai andata d’accordo con lui.
Avevamo cara eri for , eravamo prime donne, mazzola dalla vita.
Nessuno dava spazio all’altro e tra noi erano inevitabili le scin lle.
Se alla fine il nostro rapporto era diventato quasi acce abile, all’inizio ci
fu una vera e propria guerra tra noi.
Per me, mio padre era “quello che mi ha messo al mondo” o “l’uomo che
ha ingravidato mia madre” o “l’essere che mi ha strappato alla vita vera”.
Mai papà.
Invece da quando mi sto tartassando di domande, elefan no, ho
recuperato questa parola. Ha un sapore agrodolce dire padre. La punta
della lingua è ferita dai suoi aculei. Ma il palato ne è in qualche modo
confortato.
Mi fa sen re scomoda questa parola. È come se non avessi un appoggio.
Come se delegassi a qualcuno la mia felicità. La parola padre mi terrorizza.
Ma è l’unica che sappia farmi ancora respirare.
Nel dirla sono bella arrugginita. Non sono abituata alle sue vibrazioni.
Non sono abituata a tu e quelle curve scoscese. E se alla fine il troppo
usarla mi facesse precipitare in un baratro senza scampo? Chi mi salverà
allora da me stessa?
Tu, elefan no, o cosa?
Padre…
Aabe…
Lo dico di nuovo. Ci ho preso gusto.
Padre…
Aabe…
Sono vecchia, flaccida. Forse ora questa inafferrabile verità me la posso
pure perme ere davan a te.
Con mio marito, il ragazzino che mi sono sposata, non parlo mai. Non so
nemmeno perché ci siamo sposa .
Era un Titanic, uno sbarcato a Lampedusa, un balordo. Gli serviva una
casa, una te a, una minestra, un cuscino, un po’ di qua rini, una speranza,
una parvenza qualsiasi di respiro. Gli serviva una mamma, una hooyo, una
pu ana, una donna, una shermu a, me. E anche se tu a rugosa, gli ho
dato quello che cercava. Mi dispiaceva che un bel ragazzo come lui soffrisse
la fame a via Gioli .
Gli ho fa o mollare la bo glia di gin scadente che comprava dal bangla,
quella che lo accompagnava nelle no fredde di Roma. Gliel’ho fa a
mollare e me lo sono portato a casa, qui in via Alberto da Giussano,
quar ere Pigneto.
Il matrimonio ha avuto pochi tes moni. Ho chiamato qualche amica,
abbiamo mangiato sanbusi. Qualcuno mi ha regalato degli shash, come se
fossi stata una verginella qualsiasi. Mi hanno profumata, massaggiata,
messo l’henné alle mani.
Ho indossato uno dei vecchi ves di scena di quella famosa a rice dagli
occhi grigi. L’avevo sgraffignato a Cineci à in quel fa dico 1977. La troupe
era a due passi da me, dal mio set, dal mio film. Non sono una ladra, ma
sen vo quel ves to così mio. Era un abito in tre pezzi: corpino, mantellina,
so ogonna. Uno di quegli abi an chi che potevano balzare fuori
dall’armadio di un personaggio di Jane Austen. La tela di lino ocra mi
regalava una certa aura di solennità, subito dissacrata dai mo ve floreali
viola perla di cui l’abito era disseminato. Ma era la so ogonna in taffetà a
darmi una reale consistenza. Quel taffetà celato al mondo mi faceva sen re
preziosa ai miei occhi. Ero una nuvola. Spumosa e libera come la schiuma
di una Guinness.
Le donne hanno intonato can propiziatori per questa nuova unione. Io
ridevo. Era bello ascoltarle. Nessuno aveva mai cantato per me. Nessuno
mi aveva mai festeggiata. È stata una gioia, una grande gioia.
Per questo ridevo, ero felice di tu a quella tradizione che finalmente mi
bagnava il viso.
Il matrimonio non ha fa o scandalo fra i somali di Roma.
«Hai fa o bene, sorella» mi hanno de o varie comari.
«Te lo sei scelto bene l’agnellino» hanno commentato le donne
strizzando gli occhi.
Dopotu o in questo non sono l’unica, non sono stata la prima.
Siamo in tante ormai ad aver riacquistato una seconda giovinezza con
ques ragazzini sbarca . Nessuno ci vede niente di male. La compravendita
è perfe a. Loro hanno il te o e noi un po’ di a enzioni. Loro ci baciano e
noi gli cuciamo i calzini buca .
Un giorno se ne andranno via, verso l’amore, verso altre terre. Ma per ora
sono accuccia ai nostri piedi, pron a soddisfare le nostre fantasie.
Ogni sera il mio piccolo uomo si addormenta sul mio seno flaccido come
un pupo voglioso di la e. Gli accarezzo la testa e tengo la mia mano dentro
la sua chioma. Così non pensa alle crudeli onde del Mar Mediterraneo che
stavano per travolgerlo. Non pensa ai tranquillan che gli hanno messo
nelle zuppe insipide del centro di accoglienza. Non pensa alla ragazza che
amava, stuprata e uccisa nel deserto dai libici.
Si addormenta sul mio seno di nonna e gli viene duro.
Mi sono chiesta tante volte: «Ma non gli faccio schifo?».
E lui: «Sei così bella. Nessuna donna è bella come te».
Solo quando si arrabbia mi chiama Vecchia Lira. È così che i giovani
Titanic chiamano le donne della diaspora. Usano nei nostri confron la
stessa violenza che noi usiamo nei loro. Non è bello chiamare un ragazzo
che ha rischiato la vita in mare con il nome di una nave che è affondata.
Una volta mio marito me l’ha pure de o: «Io lo so che Titanic è un film
dove tu muoiono. Ma ricorda sempre che io non sono morto». Vecchia
Lira in confronto è un nome innocuo. E forse è anche un nome azzeccato.
Quando molte di noi sono venute in questa strana penisola mica c’era
l’euro a rubare i sogni, c’era ancora la bella lira, quella che ubriacava di
ricchezza. Peccato che non riesce ad ascoltarmi, mio marito. Lui del passato
non vuole sapere nulla. Non gli interessa. Lo annoia. Lui vuole bere il
futuro. Per fortuna però ora ci sei tu, elefan no, e mi posso sfogare.
All’inizio tu ques ricordi mi hanno fa o paura. Temevo che le tue
grandi orecchie mi strappassero l’anima dal pe o.
Ma adesso mi sono tranquillizzata. Sento che andremo fino in fondo, io e
te.
Tu e le tue grandi orecchie siete rimas gli unici ad ascoltare la mia voce.
Il mondo ormai mi ha dimen cata.
Sei solo tu, elefan no, a ricordar di me, di Adua, la bella Adua.
Solo tu…
5
Paternale

È questo il modo di salutare i paren , Adua? Con quella faccia? Sorridi. Che
ce l’hai a fare i den se no? Sorridi. Allarga quella boccaccia che hai. E fallo
presto, se non vuoi che mi arrabbi.
6
Zoppe

Zoppe sapeva che la migliore via di fuga era dentro la sua testa.
Lì ritrovava tu gli odori perdu della sua infanzia.
Lì ano geela, shai addess, beer iyo muufo.
Lo zenzero candito.
La cannella prodigiosa.
La sua Somalia delle meraviglie.
Zoppe pensava a tu o questo rannicchiato sul pavimento gelido di Regina
Coeli. La testa ripiegata fra le ginocchia e il femore che baciava ansioso un
torace tumefa o. Ver gini e dolori lancinan a raversavano le sue vene
stanche. E gli ar doloran si sen vano sconfi . Sospe ava di avere due
costole ro e. Faceva fa ca a respirare e financo a piegarsi.
“Mi hanno maciullato per bene quei bastardi.”
E poi non conten lo avevano schiaffato senza tan riguardi in
isolamento.
«E così t’impari a prender gioco di noi.»
Beppe gli accarezzò la testa prima di consegnarlo alla penitenziaria. Lo
toccò come una madre con il suo cucciolo. Poi gli fece sorseggiare un
liquido giallo.
«Bevi, negro. Bevi.»
Zoppe trangugiò con fa ca. Fece una smorfia di orrore e sen qualcosa
bruciarlo vivo. Era forse quella la morte?
Beppe lo accarezzò ancora.
«Bevi, sen rai meglio.»
E Zoppe bevve e morì una, due, tre volte. Finché al quarto sorso il calore
cominciò ad a raversare i suoi zigomi spen .
«Il nocino di mia zia resuscita pure i mor . Vedrai che starai bene dopo»
disse il soldato Beppe sorridendo.
In quella misera cella dove era stato ficcato c’erano una branda e una
ciotola di sbobba.
Le patate mollicce galleggiavano insieme a vermi spinosi, Zoppe era
giovane, aveva tanta fame, ma non si azzardava a mangiare.
“Non voglio morire cagando in questa fetente cella.”
La stanza era quadrata, grigia, oscena. Parole vergate con dita sanguinan
riempivano quelle pare di dolore. Zoppe si mise a leggerle per capire
meglio cosa gli avrebbe riservato quel suo futuro sempre più incerto.
Da lì erano passa Mauro da Pisa, Alessandro da Bologna, Antonio da
Sassari, Lucio da Roma, Giulio da Pistoia, Simone da Rimini. La data più
vecchia risaliva al 1923. Le parole più belle al 1932. Zoppe le riconobbe
subito, amava molto il somma poeta:
Per me si va ne la ci à dolente,
per me si va ne l’e erno dolore,
per me si va tra la perduta gente…
«Non la puliscono mai. È evidente» disse rivolgendosi a un pubblico
immaginario.
La quiete di quell’isolamento non gli dispiaceva alla fine. Era una pausa
dalla tortura, da quelle bo e insensate che gli avevano insudiciato l’anima.
I suoi aguzzini si sarebbero presto fa vivi con il loro scoreggiare fe do e
le loro volgari pernacchie. Ma nel fra empo c’era a cullarlo quella strana
calma che odorava di topo.
Il dolore non passava. Era il basso ventre a fargli male da morire,
sopra u o i tes coli. Beppe aveva picchiato proprio duro. Zoppe si chiese
se dopo tu e quelle bo e il suo seme avrebbe ancora procreato. I tes coli
pulsavano e la punta del pene gocciolava un liquido giallastro. Si sen va
indolenzito. E gli occhi tumefa si aprivano a fa ca.
Aveva vent’anni ed era un vecchio.
Un odaay precoce, con la bava alla bocca e le ossa sofferen .
C’erano le sue visioni a confortarlo. Il pensiero lo catapultò di nuovo nella
casa di Davide l’ebreo e della sua bambina Emanuela.
Era stato loro ospite di recente, ma i de agli erano ancora così
spumeggian e freschi nella sua memoria che quasi non faceva sforzi a
ricordare.
Vide il rosso della marmellata di visciole che Rebecca, la moglie di Davide,
aveva preparato per finire il pranzo. Si era riempito lo stomaco con quella
crostata buonissima e aveva mangiato di gusto anche quello che era
venuto prima.
«Come si chiama questo cibo?» aveva chiesto stupito davan alla
scodella piena.
«Ques sono i rigatoni con la pajata» rispose Rebecca.
Zoppe notò in quel momento quanto madre e figlia si assomigliassero.
Avevano la stessa fronte ampia, le stesse orecchie grosse e quegli occhi di
smeraldo che illuminavano. Ma mentre Emanuela era esuberante come
tu i bambini, in Rebecca c’era qualcosa di misterioso e seducente.
Zoppe invidiò Davide.
E glielo disse: «Profuma. Ti invidio questo ricco pia o».
Davide incassò quell’invidia così dolce.
Guardandosi intorno c’era poco da invidiare. Era tu o così piccolo. Anche
i mobili erano in miniatura. La casa era composta da due spazi lega
insieme dalla luce rossiccia che filtrava da una piccola finestra. In bella vista
la cucina con il forno e gli sportelli di ghisa. Al centro un tavolo, delle sedie
sgarrupate e una poltroncina color carne. Lo spazio era affollato di
suppelle li. C’era in ogni de aglio un certo gusto per la simmetria che
faceva amare quell’ambiente così cao co. Zoppe fu a rato da un
mobile o in noce biondo con casse in finta pelle pergamena. Era un
ogge o delizioso che mal si accompagnava con la povertà dell’insieme. Era
un po’ come Rebecca quel mobile, troppo raffinato per stare al centro di
quella scena.
Rebecca…
Davide…
Emanuela…
Era stata tanta la meraviglia di vedere degli ebrei bianchi.
Zoppe aveva conosciuto solo gli ebrei falascia, i Beta Israel, del lago Tana,
anche se il padre gli aveva raccontato che in Occidente esistevano ebrei
«dalla pelle candida come la luna». Ques erano ebrei rosa, così cordiali, e
la loro casa romana così piccola e accogliente.
Zoppe fu abbagliato dalle pare ocra che si sposavano armoniosamente
con il viole o del pavimento. Lo impressionò la gran ressa di libri, erano
una ca edrale. E i ninnoli sparsi dappertu o: bambole di ceramica con i
capelli veri, pia decora alle pare , scatoline colorate e infiocche ate e
tante fotografie di gente an ca dentro lucide cornici di finto argento.
A Zoppe piaceva questo territorio di mezzo dove le visciole si mischiavano
al sapere.
Se avesse avuto il suo ca no avrebbe le o il des no di quelle tre
persone. Avrebbe visto il loro inizio e la loro fine. Le gioie tu e e i dolori
atroci. Visto i baci appassiona e i tradimen . Se solo avesse avuto il suo
ca no li avrebbe avver di tu i pericoli e di tu a la felicità del mondo.
*
«Acqua» chiese al secondino. «Ho sete.»
«Calma, negro» gli fu risposto. «Non stai al Grand Hotel. Impara le buone
maniere. Si dice: “Acqua, per favore”.»
«E che differenza fa? Tanto voi non le conoscete le buone maniere»
replicò Zoppe.
«Ah, abbiamo qui un ribelle» disse il secondino. «In altri tempi,»
aggiunse «te ne avrei fa e passare, stronzo di un negro. A Regina Coeli i
ribelli non ci piacciono. Siete zecche, inu li pidocchi dell’umanità. A Regina
Coeli è facile morire di fame e di sete, imparalo. È facile farvi abbassare
quella cresta da gallo cedrone che vi portate in testa. A Regina Coeli fai
presto a imboccare la via del camposanto. Ma tu sei un malede o
pidocchio fortunato. Mi hanno de o di non far morire. Ti porterò la tua
acqua, quindi. Ma bada bene, forse non posso uccidere, ma far passare
l’inferno questo sì.»
Zoppe non disse nulla. Avrebbe voluto spaccare il muso a quel grassone.
Ma era in catene. E con una debolezza che gli trapassava i visceri. Alla fine
aveva mangiato la sbobba di patate e vermi spinosi. Già dal primo boccone
si era reso conto che il suo stomaco si stava rifiutando di digerire quella
sbobba. Vomitare fu la conseguenza logica di un pasto mai voluto.
Zoppe era una latrina. I vermi uscivano dalla sua bocca interi. Vermi senza
pace, vivi e un po’ stordi . Li vedeva camminare len sul suo corpo
sba uto.
“Quando arriva l’acqua?”
Doveva cercare di dormire. Ma si poteva dormire in quello stato?
Si chiese se suo padre, Hagi Safar, ora sapesse della sua prigionia.
“Avrà avuto una visione.” E Zoppe pregò che il padre non soffrisse troppo
nel guardarla.
Le immagini felici della sua vita passata tapparono il dolore. Gli occhi
svegli di sua sorella Ayan, la mano dolce di suo padre, la disciplina dei
gesui che gli avevano insegnato l’italiano e le le ere acute del suo amico
e ope Dagmawi Mengiste. Erano intorno a lui e lo incitavano a non
mollare. Vedeva le loro preghiere a spirale avvolgerlo in un abbraccio di
coraggio. “Mi vogliono bene,” pensò Zoppe “e tu in questo momento
stanno pensando a me.” Anche la famiglia Limentani stava pensando a lui.
Sen va la bambina chiedere alla madre Rebecca: «Come si disegna uno
gnu, mamma? Secondo te ha la stessa gobba dei cammelli? Perché non
invi amo il signore marrone di nuovo a pranzo e non gli chiediamo se per
piacere lo disegna lui?».
Zoppe vide il viso di Rebecca chiuso in una maschera di paura. Forse
sapeva di lui. Forse la no zia del suo arresto si era sparsa.
Era finito nei guai per quel Francesco Bondi, il romagnolo dal naso a
patata e dai den gialli.
Zoppe non apprezzava nulla di quell’uomo. Era troppo alto, troppo
invadente, troppo chiacchierone. Detestava i suoi baffi mosci e quei capelli
rossi che il romagnolo si portava in testa come un trofeo. Bondi stava
sempre lì a far domande su domande, aspe andosi risposte meravigliose
che Zoppe non era in grado di dare.
E poi parlava solo di donne quello lì: dei sederi, dei seni, delle bocche, del
sesso.
Zoppe lo trovava volgare. Scontato.
«E tu ce l’hai la morosa?» gli chiedeva spesso il romagnolo.
Ma Zoppe non si sbo onava.
Certo che ce l’aveva la morosa, ma non aveva intenzione di dirlo a lui.
Asha la Temeraria era la sua donna. Ogni no e assaporava in sogno l’a mo
in cui l’avrebbe fa a sua. Ma quel pensiero così in mo non lo avrebbe
condiviso con nessuno, figurarsi con quello zo co di Francesco Bondi. Non
voleva sciupare quel nome bellissimo con un essere sudicio come lui. Il
romagnolo invece le donne le sciupava eccome. Ogni giorno era lì a
vantarsi delle sue conquiste. Mirella, Graziella, Elvira, Carlo a. Tu e dai
grandi seni e dai grandi sederi. Tu e possedute in gran fre a so o il naso
di mari distra . Lo annoiavano ques discorsi da Don Giovanni di
provincia. Non aveva troppo tempo da perdere. Doveva lavorare, lui, mica
bighellonare. Il più grande desiderio di Zoppe era fare bella figura con i suoi
superiori. Voleva onorificenze. Voleva qua rini. Per questo si doveva far
vedere a vo. Lavorare tanto non lo spaventava. Sopra u o quando
pensava ai bei regali che avrebbe potuto un giorno fare alla sua Asha la
Temeraria.
Ma poi arrivò quella strana ma na.
Francesco Bondi piombò su di lui con l’alito che ancora sapeva di sonno.
Zoppe non era solo. In quella misera e minuscola stanza, che si
vergognava a chiamare ufficio, c’era un uomo dai capelli gialli.
«Ehi negro,» urlò euforico Bondi «ieri per strada ho visto un altro negro
come te. Credevo fossi l’unico a Roma.»
Poi il romagnolo si accorse dell’uomo con i capelli gialli.
«Lei non è un militare,» disse un po’ seccato Bondi «che ci fa qui?»
«Non giudichi dall’aspe o. Sono qualcosa di più in un certo senso. Mi
chiamo Calamaro.»
I due uomini si strinsero la mano con diffidenza.
«E com’era questo negro che ha visto per strada, se mi posso
perme ere?»
«Era negro, come vuole che sia un negro…»
«Non sono mica tu uguali, sa?» fece l’uomo dai capelli gialli. «Ci sono
pi diversi, per ogni regione. I capelli e il naso divergono enormemente.
Dipende dal clima.»
«I capelli? E quella roba che ha in testa questo qua lei me li chiama
capelli?»
«Sì» disse Calamaro calmo.
«Mi prende in giro?»
Zoppe affondò il naso nelle scartoffie e con la mente vagò per la ci à di
Roma alla ricerca di quell’altro africano di cui parlava il Bondi.
Di certo doveva essere quel Menghistu Isahac Tewolde Medhin. La testa
calda eritrea. Lo aveva incontrato un giorno, per caso, nei pressi della
pensione Tedeschi, in via Flavia. L’eritreo camminava lento, non si
preoccupava come lui di farsi vedere troppo. Medhin non voleva
nascondersi, né tantomeno sparire. I suoi movimen erano pieni di
orgoglio. Camminava a testa alta. Aveva appena finito di frequentare il
collegio internazionale di Monte Mario, ges to dalla Chiesa metodista
episcopale, e stava giusto cercando di capire cosa gli avrebbe riservato il
futuro. A Zoppe quel po non piaceva. Parole troppo do e, complicate. E
poi quell’accanita ferocia an taliana lo a erriva. Quello lì si sarebbe presto
messo nei guai. “Non devo averci niente a che fare, se no mi rovina.”
Mentre era perso in ques pensieri vide la mano di Francesco Bondi
affondare dentro la sua chioma riccia.
«E ques li chiama capelli? Questa è lana e anche di pessima qualità!»
«Sono capelli,» replicò calmo Calamaro «non sono belli, ma sono capelli.
Il signore è negro, ma ha tra meno negroidi dei pi antropologici che ho
esaminato in Congo.»
E anche lui, per non essere da meno del Bondi, affondò la mano dentro il
cranio esausto di Zoppe.
Il somalo respirò con tu a la forza che aveva nei polmoni e se ne ste e
mogio ad ascoltare i due italiani.
Non seppe esa amente quando la discussione cominciò a farsi pesante.
Era stato Bondi a offendere Calamaro o forse il contrario? Zoppe era
confuso. Vide solo che, dai suoi capelli, i due erano passa alle mani, alle
loro mani. Bo e insomma.
«Per favore, signori» disse Zoppe sconsolato.
«Per favore» con nuò.
Poi gli venne la malaugurata idea di dividerli.
I gendarmi arrestarono solo lui per quella strana lite ma u na.
7
Adua

Un forte temporale si stava abba endo sull’accampamento quando


quell’uomo dalla barba rossa entrò nel nostro tuqul.
È così che è cominciata con mio padre. È così che l’ho conosciuto,
elefan no.
Quello sarebbe stato l’ul mo giorno felice della mia vita.
Avrò avuto se e o al massimo o o anni.
Ricordo che la paglia del te o era impregnata di acqua e all’interno la
nostra precaria abitazione gocciolava da tu e le par .
Erano gli anni ’60, ma io non lo sapevo ancora. Ero una pulce e
comba evo con la natura traballante e provvisoria del nostro vivere
quo diano. Ero una nomade, una piccola nomade con il naso a punta e
pensavo che la vita fosse racchiusa nel belato ilare di una capre a. La
pioggia quel giorno era stata violenta. Dovevamo resistere pochi minu e
poi sarebbe stato il paradiso.
Nella boscaglia la regola aurea durante una pioggia torrenziale è limitare i
danni, a qualsiasi costo. Sapevamo tu che, dopo quella piccola sofferenza
iniziale, sarebbe spuntato il sole anche nel nostro cuore. La speranza, che
aveva intrecciato i fili della nostra sopravvivenza, non ci avrebbe mai
abbandonato. Una muffa verdastra, nel fra empo, si stava spandendo
so o i nostri piedi. Avrebbe portato i peggiori microbi, le peggiori insidie.
Ma ci eravamo abitua . L’importante, lo ripeteva pure Howa la Storta, la
vecchia ma a dell’accampamento, era asciugarsi bene la pianta dei piedi
quando sarebbe cessato tu o. Si fian uu r r era il mo o. E già le pezze
erano pronte sui nostri ganbeer di legno. Howa avrebbe apprezzato e forse,
chissà, avrebbe sorriso felice per quella nostra febbricitante sollecitudine.
Perché eravamo davvero felici di quella pioggia crudele che si stava
abba endo sulle nostre teste. Wallahi! Felici da morire. Quella pioggia era
una vera manna dal cielo. Non a caso il pensiero di tu correva ai nostri
ca ni color ruggine colmi di buona acqua piovana per abbeverarci nei
giorni a seguire. I sogni fanno presto a lasciare il posto alle angosce della
siccità.
Alla pioggia ero abituata.
Ma quell’uomo dalla barba rossa stonava con l’insieme. Era così diverso
dai pastori del nostro accampamento.
Era ripulito e liscio come una fanciulla.
Il suo turbante poi era di un chiarore spe rale che quasi accecava. Tra il
bianco e l’azzurrognolo, mi faceva così paura.
Poi inaspe ato arrivò il fulmine.
Ma invece di scendere dal cielo uscì dalla bocca dell’uomo che fino a quel
momento era stato il centro della mia esistenza.
«Quest’uomo è vostro padre, bambine» disse papà.
Io e mia sorella Malika rimanemmo in piedi a fissare l’uomo dalla barba
rossa. Notai che aveva le gambe arcuate e un pizze o da satanasso.
E la schiena era tu a una curva come quella delle donne gravide. E poi
perché papà ce lo aveva presentato come nostro padre?
Avevo voglia di cagare tu a quella angoscia.
«Dovete stringergli le mani. È vostro padre. Non siete contente?»
Io e Malika avevamo una gran voglia di chiedere: “Ma non sei tu nostro
padre?”. Ma nessuna delle due aveva il coraggio. Forse è stato lo sguardo di
papà, di quello che fino a quel momento avevamo considerato nostro
padre, a dissuaderci. Forse è stata anche la foga con cui ci spingeva verso
quell’uomo sconosciuto e sbilenco che non ispirava nessuna fiducia. Sta di
fa o che rimanemmo mute. Come se un coccodrillo ci avesse mangiato la
lingua.
Non riuscivamo nemmeno a respirare.
Nemmeno a pensare.
Intorno la boscaglia ululava feroce come ogni no e.
Potevo sen re in lontananza le risate delle iene e la bramosia feroce dei
loro banche osceni.
I corvi gracchiavano. I gor gor russavano.
I leoni facevano l’amore con leonesse sfinite di stanchezza.
Una donna partoriva nel dolore.
Io e Malika eravamo lì in piedi, scalze, in mezzo a due padri.
Il nuovo non mi piaceva affa o. Era troppo vecchio. Troppo curvo. Aveva i
piedi stor , i den marci e un mento sfuggente come quello delle finte
vergini.
Guardai il mio papà e chiesi con gli occhi aiuto.
Distolse lo sguardo e capii in quel momento che mi stava rinnegando.
«Domani par rete con lui per la grande ci à, per Magalo» disse.
Par re? A Magalo? Noi?
Avevo sen to parlare della grande ci à. Qualcuno mi aveva de o che
addiri ura io e Malika ci eravamo nate.
Non ci volevo andare. Sen vo che la grande ci à si sarebbe mangiata
tu a la mia purezza, tu i miei sogni.
Io stavo bene lì con le mie capre, con i miei cammelli e poi quella terra
dorata era ormai parte del mio scheletro. Io e la terra vivevamo l’una per
l’altra. In armonia con il canto degli elefan .
Ero una nomade. Non mi volevo radicare.
Ero una nomade. Volevo essere libera di correre nel vento.
Malika era diversa da me. Non aveva mol desideri, lei. Desiderava solo
che gli altri le volessero bene. Era una che bastava darle un ordine e lo
eseguiva. Anche l’ordine più atroce era per lei la migliore soluzione
possibile. Si rifiutava di pensare, decidere. Non voleva esporsi. Facessero gli
altri. Tanto la vita non mi appar ene.
Quindi si inchinò al nuovo padre. Gli strinse la mano. Firmò il pa o.
Divenne sua schiava.
E così con quel gesto da so omessa acquistò il suo amore per sempre.
Io schiumavo rabbia.
«Non voglio,» gridai «voglio la mamma. Voglio rimanere con la mia
gente.»
Il mio papà mi disse: «Asha la Temeraria era la tua vera mamma e noi non
siamo la tua gente. Tuo padre, Zoppe, ci ha chiesto di tenervi. La donna che
ha svezzato è una delle mie mogli. Chiamala “zia acquisita”. Avete diverso
sangue nelle vene. Questo lo devi imparare, lo devi imparare presto. Noi
siamo sta i vostri custodi».
Non volevo impararlo. Volevo rivedere la donna che per me sarebbe
rimasta la mia mamma. Era bella la mia mamma. Odorava di gelsomino.
«Voglio la mia mamma.»
E fu allora che l’uomo dalle gambe arcuate intervenne in quella assurda
conversazione: «La tua mamma è morta quando ha messo al mondo».
«Sì,» disse il mio ex padre «è morta.»
Ma se l’avevo vista appena un paio di ore prima.
«Ma se l’ho vista…» mormorai.
«Quella non è tua madre» urlò il padre nuovo.
«Ma…»
«Niente “ma”, mocciosa. Impara a dare credito alle mie parole. Sono io
ad aver messo al mondo.»
Guardai mia sorella con disprezzo.
Lei si era già arresa al nuovo ordine.
Io non riuscivo a tollerare quell’orrore.
Vidi il vecchio, quello che non avrei mai chiamato padre, prendere un
arbusto spinoso.
Poi mi a rò a sé e mi diede due colpi. Due colpi for .
Fu il mio ba esimo.
Le spine mi si conficcarono nella carne.
Ero come il Gesù dei cris ani, mar re per colpe non commesse.
Sen i una profonda pena sgorgare dal mio fegato infelice.
«Mamma dove sei?» sussurrai in un lamento.
Nessuno rispose.
Il mio papà, quello che era stato il mio papà, uscì dal tuqul.
Sen vo i suoi passi allontanarsi velocemente. Mi sembrò di cogliere l’eco
di un singhiozzo.
«Mamma» chiamai.
Poi svenni.
Quando mi rialzai ero diventata un’a rice. Nessuno avrebbe mai più visto
il mio vero volto.
8
Paternale

Adua, perché hai de o alla maestra che chiami Habiba? Quante volte te
l’ho de o che chiami Adua? Habiba è il nome che avevi da nomade,
quello che ha dato la sciocca roman ca di tua madre quando è rimasta
incinta di te. Habiba è un nome sporco, unto. È un nome plebeo, da
pros tuta. Mia figlia mica poteva avere un nome così banale, pare?
Habiba significa amore in arabo… puah, io ci sputo sopra l’amore! L’amore
non esiste. Questo è un nome inu le, me telo in testa. Molto meglio
Adua. Dovres ringraziarmi, ho dato il nome della prima vi oria africana
contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi
mai credere il contrario. Io ho fa o solo cose giuste nella vita, unicamente
cose giuste. Non come quella debosciata di Asha la Temeraria. L’unica cosa
di veramente temerario che ha fa o tua madre è stato morire. Non ha
fa o altro, solo morire. Io invece comba evo con i gius . Dentro il tuo
nome c’è una ba aglia, la mia…
Non mi credi, forse? Osi dubitare di me?
9
Zoppe

Quella sera Zoppe aveva sognato la guerra di Benito Mussolini.


Nel sogno afoso la guerra cominciava in un posto come tan nel Corno
d’Africa, dove si portavano le bes e al pascolo. Una zona di confine dove
era facile perdere la testa e li gare con i vicini e opi.
Il casus belli che Benito Mussolini agognava per fare ufficialmente guerra
all’E opia.
Era un sogno o una visione del futuro?
Zoppe non aveva mai saputo dis nguere tra realtà e finzione. Non aveva
mai imparato a governare bene quel che vedeva. Hagi Safar gliel’aveva
insegnato, ma a lui mancava l’anima. La seconda anima che Hagi Safar
possedeva, quella che perme e di entrare in empa a con il tempo.
La seconda anima.
Era stufo di sen re da suo padre che a lui mancava questa stramalede a
seconda anima.
«Farò senza! Se hai i qua rini, poi, a che serve un’anima in più?»
Del sogno Zoppe ricordava la puzza di zolfo. Nient’altro.
Per lo spavento si svegliò. Addosso la sensazione di aver sognato
qualcosa di terribile che avrebbe forse travolto anche la sua piccola vita.
Qualcosa che persino senza la seconda anima si poteva intuire.
«Cos’è questa caciara?» chiese il secondino grasso al suo compare.
«È facce a nera che dà di ma o,» e poi in un moto di strana pietà «forse
gli dobbiamo fare un bagno a questo po. Se no capace che le pulci se lo
mangiano vivo.»
«Domani ci penseremo» disse il grassone.
Zoppe si gra ò la testa. Che ora era? Quanto aveva dormito? Era giorno o
era la no e più profonda?
Sospe ò che quel fargli perdere le coordinate fosse un piano preciso. Lo
volevano pazzo.
Zoppe si riaccucciò nella branda. Chiuse gli occhi e cominciò a invocare
una visione.
La prima immagine che venne a trovarlo fu la sorella Ayan, nel suq di
Warta Nabbada a Magalo, stava cercando dei peperoni rossi. “Allora oggi
qualcuno a casa preparerà lo spezza no e la buona fragrante injeera con i
buchi che gli e opi ci hanno insegnato a fare.” Zoppe preferiva l’injeera
e ope a quella somala. Eh sì, quella somala proprio non gli piaceva. Era
piccola, misera, secca. Quella e ope era acida e soffice. In quella e ope la
salsa, qualsiasi salsa, penetrava in profondità. Mentre in quella somala la
salsa scivolava via senza nemmeno opporre resistenza. Era dura per lui
amme ere che gli e opi fossero più bravi a fare l’injeera, però era la verità.
“Ma sul riso e carne” si consolava Zoppe “non ci ba ono mica. Il beeriis
skukaris che facciamo noi è il migliore di tu o il pianeta.” Il beeriis skukaris,
dove le carni, il riso e la fragranza del cardamomo si fondevano insieme per
soddisfare i pala pron ad annegare in un oceano di perdizione. Ah, il
beeriis skukaris, Zoppe si chiese se l’avrebbe mangiato ancora.
In quella cella solo sbobba, solo vermi.
Intanto sua sorella Ayan aveva cominciato a cercare pure le patate al
banco del mercato.
La cella si popolò d’aromi diversi e di visioni concentriche. Zoppe non
osava riaprire gli occhi per paura che lo lasciassero troppo presto. Doveva
tra enerli con sé in quella cella buia il più possibile. Aveva bisogno della
loro compagnia, del loro conforto.
Ed ecco allora che l’a er con cui si profumavano le donne somale
cominciò a miscelarsi con la mirra che Asha la Temeraria usava per
ingen lire gli ambien . E poi la cannella, gli incensi, il sandalo, l’ambra
dorata, la passiflora, i manghi maturi, le papaie benefiche, l’ananas
volu uoso.
La Somalia era lì a un passo.
Bastava agguantarla. Bastava sognarla.
A un tra o un odore più forte sovrastò gli altri.
E dalla Somalia venne catapultato in una via poco frequentata del
quar ere Pra a Roma.
*
Bastava guardarla in faccia per capire quanto soffriva.
Povera piccola, dolcissima Rebecca.
Anche lei era una visione. Visione più forte, più carnale. Quasi reale.
“Perché, donna, mi vieni a trovare? Perché proprio qui in questa cella?”
avrebbe voluto chiedere Zoppe alla visione, ma alla fine non chiese niente,
perché conosceva già la risposta.
«Sei un mago, vero?» chiese l’ombra di Rebecca.
A Zoppe non piaceva mai rispondere con un sì o con un no alle domande.
Le certezze erano figlie di Satana. E lui lo sapeva bene. Solo nel dubbio
stava la salvezza. In quella terra di mezzo dove le rotelle si ribellavano al
mastro orologiaio. Ma lei aveva bisogno di lui. Era così disperata.
«Sono un indovino, o meglio, mio padre lo è, e la mia dolce zia con lui. Io
vedo cose, ma non ho il dono. Vedo e non so che farmene delle mie visioni.
Sento le vibrazioni dell’universo. Leggo, ma non so decifrare il mondo.»
Negli occhi di Rebecca si accese un improvviso interesse. «Che vuoi
dire?»
«Quello che ho de o» replicò Zoppe.
«E ora io cosa sono? Perché sto qui?»
«Non lo so,» rispose Zoppe lento «affari tuoi.»
«Sono nel mio le o e sto sognando. E nel sogno mi trovo qui in questa
cella puzzolente. E nell’angolo sinistro ci sono cinque topi mor . Io ho
paura dei topi, anche da mor . Ma ora non mi viene voglia di gridare. Non
sento la paura qui.»
Zoppe non poteva dire nulla a quell’ombra. Dirle che era lui a volerla
vedere. Che forse era solo un suo sogno, una sua proiezione. Non poteva
dirle che la trovava bella, affascinante, incantevole, e che la desiderava
quanto e a volte più di Asha la Temeraria. Che la sognava nuda, bianca,
candida, quasi ogni no e da quando l’aveva vista nella sua piccola casa di
Pra . E che invidiava il marito, il gigante Davide, per tu gli orgasmi da e
ricevu , per tu i sospiri, per le frasi complici sussurrate all’alba.
Non poteva dirle nulla anche per un altro mo vo. Quella donna era in
pericolo, Zoppe lo sen va. Oltre al desiderio, provava un’infinita pena per
lei.
Ma stava cambiando, tu o stava cambiando. Zoppe lo percepiva nell’aria.
C’era un’os lità che si faceva di giorno in giorno più palese, più sfacciata,
più odiosa verso gli ebrei.
*
Era stata la zia Bibi, anni prima, a insegnargli a leggere le viscere delle
bes e.
Lui non la chiamava mai zia, semplicemente Bibi. In kiswahili bibi significa
signora. Era lei la signora della casa, dei cuori e della riscossa. Era la Bibi
che presiedeva con i suoi ordini agli hus per gli antena e agli zap per le
commemorazioni. Era lei a decidere quali capre comprare, in quale ordine
macellarle.
Zoppe si rivide bambino nel cor le della Bibi. Aveva qua ro o forse
cinque anni, giocava con una capre na gonfia di la e. La piccola aveva
succhiato famelica dalla te a materna solo un a mo prima e ora, volubile
come tu i cuccioli, voleva godersi la compagnia delle farfalline che
gironzolavano pigre tu e intorno alla sua coda. Era bella la capre na,
tenera. Zoppe bambino avrebbe voluto riempirla di baci. Accarezzare il suo
pelo soffice. E poi imparare la sua incerta lingua fa a di beeeh acu e gravi.
Quanto avrebbe dato per capirla, per chiacchierarci. Doveva essere troppo
simpa ca. Aveva un muse o sveglio, tu o tondo e morbido.
Però in quell’esplosione di affe o piombò, senza avvisare, la Bibi. La zia
con la sua stazza enorme e la sua crudeltà necessaria pose termine
all’idillio tra il bambino e la capre a.
«Leva da qui, baalayo che non sei altro» e con una spinta lo scaraventò
lontano.
«Ma stavamo giocando…» balbe ò Zoppe.
«Lei ha finito di giocare» e l’afferrò per il collo con le sue grassocce mani
capaci.
Zoppe ricordò i suoi occhi sbarra , la sua confusione, i suoi bela sempre
più aggroviglia . “Dove mi sta portando questa grossa donna?” chiedevano
quegli occhi teneri. E Zoppe non aveva il coraggio di rispondere a quella
capre na tu a miele. Come avrebbe fa o a confessarle che al di là di quel
cor le c’era solo la morte ad aspe arla?
Ebbe improvvisamente freddo. E cominciò a strofinarsi convulsamente il
corpo.
“Aiutala, Signore, quando la lama le entrerà dentro.”
Si accucciò su se stesso, in a esa.
E aspe ò di sen re l’ul mo grido della sua amica del cuore.
Il grido di morte non tardò ad arrivare.
Ore dopo, i visceri della capre a gli furono presenta a pranzo. Intorno a
sé bocche fameliche pronte a divorare.
Zoppe era un bambino buono. E lacrime grosse come covoni di fieno si
presentarono in quel viso liscio e ovale.
«Che c’è, tesoro?» disse la Bibi.
«È che…» e non riusciva a finire la frase.
«Non piace, tesoro? Guarda che questo è un pia o speciale. Il capre o
viene nutrito con il la e della madre fino all’ul mo. Poi, una volta
macellata la bes a, viene estra o l’intes no ancora gonfio di la e e amore
materno. L’intes no deve essere estra o piano piano, se no si rompe. Poi si
cuoce e si fa il baug, che ricorda il formaggio dei gaal. Degli infedeli. Una
pasta filamentosa che si scioglie in bocca.»
Zoppe bambino esitò davan al vassoio fumante. Poteva davvero
mangiare un’amica?
Poi la zia lo imboccò. E lui si perse nella bontà di quei visceri succulen .
Si sen va un assassino.
«È morta per una giusta causa, non essere triste per lei. Prima o poi si
muore tu .»
Prima o poi…
E fu allora che la Bibi gli disse: «Osserva le pieghe delle budella. Da qui
potrai leggere il mondo».
Una profonda cicatrice solcava quelle morbide montagne.
«Non vedo nulla. È tu o così confuso.»
«Guarda, figliolo, guarda meglio. Non vedi quel tra o di strada verso
Galcayo? Non vedi un uomo con un fago o? E non vedi l’orrido avvoltoio
che lo sovrasta? Non vedi il cielo carico di promesse? Non vedi la iena che
sta partorendo nel dolore? Non vedi i bambini al pascolo? Non vedi il dolce
bulbul che allieta il cielo? Osserva quella cicatrice, annusa il fresco baug.
Avvicina . Lascia andare. Lì c’è l’alif e c’è la ta. La mim e la ra. La sad e la
dad, la shin e la sin. C’è la scri ura del mondo e pian piano anche tu
imparerai a decifrarla.»
Zoppe avvicinò il suo naso al pia o. E sen uno strano odore di
formaggio stagionato.
Riguardò di nuovo la cicatrice. E vide lei, la capre a. Saltellava felice e le
farfalle accompagnavano liete quel sonno di morte.
«Sei grande ora, ragazzo mio. Noi siamo discenden di tribù perse nella
no e dei tempi. Poi la storia che a raversa tu ha portato altri saperi al
nostro bagaglio già colmo. E da oggi sei diventato un fallou, un indovino.
Tesoro, nessuno di noi può scappare al suo des no. Ora mangia il baug, se
no si fredda.»
“Com’è affilato questo des no” pensò Zoppe bambino e cominciò a
mangiare.
10
Adua

“Raccon le storie che hai come meglio puoi.”


Non l’ho de a io questa frase, ma uno scri ore famoso.
Io non lo conoscevo. Ma ieri ho sfogliato un suo romanzo al
supermercato. L’ho aperto a caso ed è uscita fuori questa frase. L’ho le a
un paio di volte. All’inizio non l’ho nemmeno capita tanto. Ma poi qualcosa
dentro il pancreas mi ha suggerito che forse quella frase casuale mi
riguardava più di quanto potessi immaginare. Ho cercato frene camente
qualche soldo nel mio borsello. In tempo di crisi sono cose a cui si deve
pensare. Ogni centesimo ha un peso. Sta di fa o che lo volevo da morire
quel libro. Lo volevo, lo volevo, lo volevo. Ho preso quella raccolta di
raccon con tu e e due le mani. Per darmi più slancio, per irrorare nelle
mie vene stanche un po’ di coraggio. Tremavo. Il libro alla fine mi è costato
19 euro. Questo ha significato la rinuncia alla pasta di semola di grano
duro, alla zucca in cube , alla cedrata e alle patate novelle.
Non ho comprato nulla di quello che dovevo comprare.
Niente liquido, niente solido.
Ho comprato pagine.
Gli scaffali pieni di leccornie mi guardavano sconsola e un po’ stupi . Li
stavo abbandonando. I pistacchi erano mogi, le creme spalmabili tris , la
senape in preda a un panico tu o nuovo. Possibile che li stessi
abbandonando?
Il libro intanto ballava una polca dentro il mio borsone verde. Felice di
avere una nuova padrona, una nuova casa, una nuova le rice.
Io intanto pensavo al mio mari no tu o pepe. Al pischello made in
Lampedusa che dopotu o mi sono comprata a saldo.
Cosa gli avrei cucinato quella sera?
“Gli darò da mangiare la zuppa di ieri con i porri.”
Il mio ragazzino è di bocca buona. Gli piace tu o quello che gli faccio.
È la fame, quella che ha sofferto a raversando il deserto del Sahara, a
renderlo docile come un cucciole o.
Non è uno di quei bru che pretendono una bistecca ogni giorno. Si
accontenta anche degli intrugli di verdure che preparo nei periodi di
magra. A fine mese la carne è troppo un lusso per noi. Ma a inizio mese
mezzo capre o al forno con le patate non ce lo toglie nessuno. E lì lo vedo
che succhia ogni osso come se fosse una te a piena di la e.
Solo allo shai, al nostro tè cardamomo, cannella, chiodi di garofano, non
sa rinunciare il mio piccole o. Lo vuole zucchera ssimo e caldissimo.
Quando lo beve suda come un porco, ma poi lo vedo che dentro brilla di
una luce tu a nuova. Quando è di buonumore ci versa pure un po’ di la e
e fa uno shai addes che lo riporta all’infanzia.
Io l’addes non lo bevo più.
Rovina la linea.
Ti fa venire la cellulite.
Ti ammazza con la ritenzione idrica.
Ma quando il mio mari no, il mio piccolo dolce Titanic, ne sorseggia una
tazza colma spaparanzato davan alla tele mi viene, lo confesso, invidia.
Parecchia nostalgia per il tempo che fu.
Anche a mio padre, Mohamed Ali Zoppe, piaceva l’addes. Sono sicura che
è stata la quan tà spropositata di zucchero che ci me eva dentro a
portarlo alla morte. Il diabete aveva fa o di lui un essere gonfio e
pes lenziale. Me l’hanno raccontato, io non c’ero quando è crepato tra
scoregge e rimpian . Mio padre all’addes ci aggiungeva però sempre un
pizzico di zenzero. Diceva che il sengibil «rinvigorisce la virilità e riscalda i
muscoli». Non so se come viagra lo zenzero funziona. Ma in quanto a
riscaldare, be’ riscalda. Nelle no fredde d’inverno è un toccasana. Te lo
consiglio, elefan no mio. Sì, un vero toccasana.
La prima volta che vidi mio padre, o Zoppe come lo chiamavo io all’epoca,
usare lo zenzero fu nella casa di Hagiedda Fardosa. Una delle sue mogli.
Mia madre Asha la Temeraria, l’ho scoperto dopo, è stata la prima. Ma
quando morì per me ermi al mondo fu subito sos tuita da una ragazzina
con le trecce alle sue prime mestruazioni. Anche questo mi è stato riferito.
Quella sera, quella prima sera quando lo vidi usare lo zenzero, non la
dimen cherò mai.
Ci aveva trascinato dalla boscaglia alla ci à sul mare, strappandoci a
quella che credevo la mia famiglia, la mia mamma.
Parlo per me naturalmente, perché Malika, quella venduta di mia sorella,
l’aveva seguito mansueta.
Quella sera, quella malede a sera, fu la prima della mia nuova vita.
Nella ci à sul mare viveva Hagiedda Fardosa.
Magalo era una ci à portuale, una delle tante della costa sudorientale
della Somalia.
«È qui la vostra radice,» ci disse «è qui che riporterete la vostra gloria.»
Magalo non era grande come Mogadiscio, ma non era certo uno sputo. A
Magalo c’erano scuole, uffici, un gran bel municipio, varie moschee, una
chiesa ca olica, una biblioteca, una succursale dell’università centrale, una
libreria, un pas ficio, due merca , una cartoleria, qua ro bar, tre ristoran ,
una ferramenta, due bou que, tre sartorie, una lavanderia e tanto altro
ancora. Era a Magalo che la vita vera scorreva. Per essere qualcuno si
doveva far parte di quella malede a terra delle origini. E poi a Magalo c’era
un mare che toglieva il fiato. Solo lì l’Oceano Indiano ruggiva di piacere.
Solo lì le balene venivano a fare l’amore al tramonto.
All’inizio Magalo non mi piacque. Per me era un’usurpatrice. Una che
voleva prendere il posto delle mie capre e adorate. Una che mi aveva
strappato ai miei genitori, le creature che più amavo al mondo.
È stato odio a prima vista tra me e Magalo.
Magalo era la fine di una vita, la sfumatura nefasta del des no.
E Magalo era anche la casa di Hagiedda Fardosa. Non ricordo un granché.
Tranne un par colare in quella fa dica prima sera. Sul pavimento vidi la
pelle di una leonessa. Sembrava viva e così fiera di essere la più bella. Il
pelo era inta o. E la doratura perfe a. Ebbi pietà per lei. Ne avevo viste
molte nella boscaglia. Erano crudeli e sanguinarie. Ma c’era nel loro vagare
qualcosa di magico. Niente a che vedere con le iene sporche e volgari con
cui avevamo sempre a che fare. Il passo delle leonesse era quello di una
nobiltà incerta che lo ava contro cares a e pallo ole. Il passo di una
regina a cui un maschio aveva rubato la corona.
Assomigliavo a quella leonessa scuoiata. Anch’io ero fiera e in trappola.
Fiera e rinchiusa nella casa barocca della reverenda moglie grassona.
Ricordo che quella sera, quella famigerata sera, l’ambiente era pervaso da
un penetrante odore di mirra bruciata. Mi fece starnu re e sen i lo strano
spe ro della paura, aleggiare come un avvoltoio sopra la mia carcassa viva.
«Le dovrai civilizzare,» disse mio padre ad Hagiedda Fardosa «sono delle
selvagge. Specie la più alta.»
E fu allora, dopo quelle parole dure come macigni, che lo vidi aggiungere
un pizzico di zenzero al suo shai addes.
11
Paternale

Adua chiedi subito scusa a tua sorella Malika. Chi ha insegnato ques
modi da selvaggia? È la tua compagna di banco a insegnar queste cose?
Da domani non le rivolgerai più la parola. Chissà cosa ha messo in testa.
Sei come tua madre Asha, ancora credi al prossimo. Il mondo è crudele,
Adua, non devi credere a nessuno. Ora fila via. Credo di essere stato chiaro.
12
Zoppe

Tu erano in a esa di Maria Uva.


Occhi fissi sulla scogliera. Animi in trepida a esa.
«Indosserà il nostro tricolore?» chiese Orazio Civa a Zoppe.
«Forse» disse il somalo senza troppo entusiasmo.
«Ah Maria Uva, dicono sia bella come una sirena.»
«Le sirene, signorino,» disse sprezzante Zoppe «sono creature pericolose,
specie qui a Port Said.»
«Ma io ho la forza di un Ulisse, caro Zoppe, non c’è sirena che mi resista e
Maria è bella e avver ta. E poi la voglio immortalare nel mio taccuino. Fino
ad ora ho disegnato solo uccelli e qualche pesciolino fuori ro a. Ci
starebbe bene una bella damina, non pare?»
Aveva un bel sorriso Civa e degli occhi che ricordavano le foreste
dell’estremo nord d’Europa. Un bel ragazzo, capelli castani, portamento
fine, un’altezza media e dei bicipi che nemmeno il Laocoonte dei musei
va cani poteva vantare.
La bellezza del Civa era qualcosa che si manifestava a poco a poco, con il
tempo e con una certa dose di perseveranza. Non era un divo da telefoni
bianchi, languido e vanesio. Non aveva quell’aura spumeggiante di un
Rodolfo Valen no. Piu osto era un Amedeo Nazzari, un uomo da scoprire
fotogramma dopo fotogramma. Ma le donne non hanno pazienza. E un bel
tocco di ragazzo come quello si ritrovava tu o solo a sospirare per un
miraggio che sarebbe spuntato da lì a poco su una scogliera egiziana.
Maria Uva…
Tu pazzi per Maria Uva, la Maria nazionale, l’italiana grassoccia e
matura per cui spasimavano i legionari. Colei che accoglieva con una voce
acuta i futuri solda della guerra che il fascismo stava preparando.
«Fra un po’ spunterà fuori, voglio tenermi pronto, il mio cuore già ba e
per lei.»
Zoppe osservò il giovane e lo trovò un misto di contraddizioni.
La sua tenerezza mal si combinava con quella fede cieca e assoluta al
Par to nazionale fascista che amava sfoderare nelle occasioni mondane.
A parole, Civa diceva che Benito Mussolini era un faro, la luce di ogni
conoscenza.
Sosteneva inoltre che sarebbe stato capace di ingoiare per il suo Duce
anche i bocconi più amari.
Ma poi c’era quella nota dissonante nella sua voce cristallina. Quella che
creava dei dubbi sulla sua fede al fascismo.
Fissavi i suoi occhi chiari per scorgere la verità, ma loro sapevano bene
come sfuggire agli sguardi.
Però a Zoppe non importava se quel ragazzo fosse fascista o no. Per lui
rappresentava uno strumento, la lama che il des no gli aveva offerto per
liberarlo dai suoi carcerieri. In fin dei con era grato a Civa. Senza il suo
intervento forse sarebbe rimasto a marcire in quel tugurio di sbarre che era
Regina Coeli.
Era successo tu o così in fre a quel giorno, il giorno della sua
liberazione, mesi prima.
Uno dei carcerieri, il più grasso, era venuto da lui e gli aveva de o:
«Negro dobbiamo lavare oggi». E il compare aveva aggiunto a mo’ di
scherno: «E chissà se a furia di sfregar con il sapone non diven bianco».
Quella ma na oltre all’annuncio del lavaggio ci fu anche un mido raggio
di sole che penetrò nella sua cella ad allietarlo.
Roma era immersa in una polvere rosa.
Forse arriverà la tramontana dicevano i vecchi.
*
«Non parla più?» chiese un sergente che Zoppe non aveva mai visto prima.
La sala era piena di luce e Zoppe era stato scaraventato lì senza tan
complimen dai suoi carcerieri.
Finalmente pulito, sbarbato, pe nato, sostenne lo sguardo del militare.
Il sergente ne fu infas dito.
«Fuori c’è una persona che è venuta a prelevarla. La sua pena la sconterà
entrando al servizio dell’esimio conte Anselmi, un padre della patria, un
illustrissimo fascista come ce ne sono pochi al mondo. Il conte vuole lei. Ha
insis to per averla, sapesse. In qua ro e qua r’o o ha mosso mari e
mon , sa come fanno ques con , e in un certo senso l’ha comprata. La
sua sorte è stata decisa nelle più alte sfere. Ringrazi i suoi san . Si rallegri. È
stato fortunato, pidocchio, lo tenga bene a mente questo. Lei si meritava
ben altro des no e lo sa. Ma un conte la vuole e a me tocca stare zi o.»
Quell’ul ma frase il sergente la pronunciò digrignando i den .
Zoppe si ricordò delle parole di Hagi Safar «Ko i amuso waa dhintay»,
colui che sceglie il silenzio è già morto.
E decise che anche se la ba aglia era perduta, doveva almeno tentare di
contrastare il futuro che lo a endeva.
Non voleva morire schiavo di un conte.
«È che…» le parole facevano fa ca ad uscire «è che, signore, io non posso
andare a servizio di nessun conte. Ho il mio lavoro da finire in caserma, a
Roma.»
Nella stanza una fragorosa risata sommerse le sue parole minute.
Nella stessa stanza c’erano anche i tre energumeni che lo avevano
picchiato giorni prima.
“Mica vorranno ricominciare?” si chiese.
Sen un dolore al pe o e un penoso scricchiolio tra le palle.
È lì che Beppe aveva colpito più duro.
«Ci sono i suoi amici. Non è contento forse di rivederli?»
I suoi occhi per distrarsi da quella miseria cominciarono a vagare. Un
ritra o di Benito Mussolini campeggiava solitario. Del re invece nessuna
traccia.
“Possibile” si chiese Zoppe “che si siano dimen ca del re?”
Era una stanza triste. Le pare grigiastre davano un tocco di claustrofobia,
che trasformava ogni sensazione in una palude stagnante. Niente fiori,
niente foto dei propri affe , nemmeno foglie di carta scarabocchia o
ma te mal temperate a tenere compagnia. Solo uno strato di polvere rosa
era rimasto come unico segno di vita.
«Per qualche tempo, ragazzo, lei ha chiuso con la caserma.»
«Ma… se… insomma, se sono qui solo per questo, per tradurre, mi hanno
mandato apposta. Qualcuno ha avver to i miei ama pre ?»
«Si dimen chi dei suoi gesui . Li cancelli. Solo loro potevano ficcare un
negro come te a Roma. A tradurre cosa poi? Ancora non c’è guerra. Ci
sares servito fra un po’. Ma ora sei solo d’intralcio. Li tolleriamo ques
pretacci di padre Evaristo perché il Va cano ci ha dato ordini tassa vi, guai
a torcere loro un capello. Ma li conosciamo bene, noi.»
Zoppe si accasciò al suolo come un cencio.
«Su, non faccia così. Mica vogliamo farle del male. La consideri una
chiacchierata tra amici.»
La mano di Zoppe is n vamente andò a coprire i genitali. Avrebbe difeso
la sua virilità anche a costo di morire. Non lo avrebbero reso sterile.
Piu osto la morte. E poi aveva promesso ad Asha la Temeraria, la bella
Asha, che sarebbe tornato a Magalo e l’avrebbe sposata.
Zoppe si morse la lingua.
E cominciò a recitare mentalmente una preghiera, una che sapeva fin da
bambino e aveva il potere ancestrale di scacciare gli spiri maligni che
sussurravano atrocità nel cuore del creato.
«Abbiamo trovato una foto interessante tra i suoi effe personali.»
Foto? Erano anda a perquisire la sua stanza.
«Bella questa ragazza. Quan anni avrà? Nove? Dieci? Il seno non è
ancora ben sviluppato vedo… mmm…»
Ayan, sua sorella.
E di quale seno parlava quel po? Era ancora una bambina.
Provò disgusto.
La foto risaliva a un anno prima. Ayan aveva uno sguardo ingenuo e in
a esa. Treccioline fi e come formiche incorniciavano una testa dall’ovale
perfe o. E la sua bocca carnosa era carica di storie e risate.
Era bella e dolce, sua sorella.
Un giorno, da buon fratello, l’avrebbe data in sposa al migliore degli
uomini.
Ma ora, si chiese Zoppe, avrebbe vissuto così a lungo da poter adempiere
alla sua promessa?
Cosa avrebbe fa o Ayan senza suo fratello?
Se quei tre fascis avessero finito l’opera con lui, non sarebbe rimasta in
vita.
«Sua sorella, vero? Lo sappiamo.»
Zoppe ebbe un brivido. “Ti prego, Ayan no. Signore, salvala da questa
pazzia.”
Nessun muscolo della sua faccia fece trasparire la sua preoccupazione.
Zoppe aveva spalancato i suoi occhioni scuri per mostrare di non avere
paura e che le loro minacce non lo scalfivano.
Ma la tempia pulsava e i succhi gastrici avevano cominciato a colpire duri
l’esofago.
Schiena dri a, mento in fuori, occhi in orbita, spalle aperte.
«Sarebbe un peccato che a questa bambina succedesse qualcosa, non
crede pure lei?» e poi schioccò le dita in uno snap che a Zoppe sembrò più
forte del suono delle campane di san Pietro.
Snap.
Snap.
Snap.
Si fece avan Beppe.
La scena fu così veloce che Zoppe non ebbe quasi il tempo di capire.
Beppe si era sbo onato la pa a, aveva rato fuori l’uccello, se lo era
smanacciato per un po’ e poi la sborra calda l’aveva sfogata tu a sulla foto
della piccola Ayan.
«Uh, che sbadato questo camerata» disse il sergente. «Sarebbe un
peccato se succedesse qualcosa del genere a sua sorella non trova?»
Zoppe era sconvolto, ma il viso rimase impassibile.
«Via cardinal Massaia, nel quar ere Li orio… quello che voi somali vi
os nate a chiamare Warta Nabbada.»
Via cardinal Massaia… nessuno chiamava la loro via così. Tu sapevano
che lì era la via di Hagi Safar, degli indovini e dei cantastorie. Era lì che si
cullavano le stelle e si intravedevano mondi nelle pupille dei neona .
Gli italiani gli avevano appiccicato il nome di uno sconosciuto cardinale.
Anche a Mogadiscio c’era una via cardinal Massaia, ad Hamarweyne, in
pieno mercato per giunta. E anche a Mogadiscio quel nome era un
sopruso.
13
Adua

A Magalo c’era un piccolo cinema, lo avevano costruito i fascis negli anni


Trenta, un veicolo eccellente, secondo loro, di propaganda coloniale. Ce
n’erano diversi, in Somalia. Il nostro era un cinema des nato alla
popolazione locale. Era così malmesso, le poltrone ro e e una te oia di
lamiera come te o, da far rimpiangere il cinema Hamar di Mogadiscio, con
la sua austera stru ura mussoliniana. Non aveva pretese il cinemino di
Magalo, sobrio, schivo, quasi nascosto. Il popolo lo amava, lo sen va suo,
come il pozzo nel cuore della ci à, il municipio, il mercato del bes ame, la
piazza degli orafi. Quando gli italiani se ne andarono, nel 1960, un magnate
nato nel vecchio quar ere di Hafad, un tale di nome Idris Shangani, decise
di restaurarlo. Idris Shangani era uno di quei somali che durante il
colonialismo avevano fa o i soldi vendendo carne da des nare al fronte
durante la guerra italiana contro l’E opia. Poi quando le Nazioni Unite
decretarono, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che proprio
l’Italia con l’Afis ci avrebbe traghe ato verso l’indipendenza, il signor
Shangani divenne ancora più ricco.
«È un farabu o quello!» andava ripetendo mio padre durante ogni
pranzo.
«È stato un collaborazionista, bru a razza.»
Pronunciava tremando questa parola, la voce ro a, spezzata. Un tremolio
che prendeva tu o il corpo, e lo faceva di gela na. Mio padre si agitava,
sputava per terra, la bocca si riempiva di scongiuri e di improperi verso la
figura che per lui incarnava il peccato più grande.
Ma queste sue esternazioni erano rare, perché mio padre del passato
preferiva non parlare.
Sì, preferiva stare zi o.
Certo, il signor Shangani era un farabu o, ma che fortuna avevamo avuto
noi di Magalo ad averlo per conci adino! Senza i suoi soldi non avremmo
mai saputo dell’esistenza di Ava Gardner o di Norma Jean. I film in
cartellone erano data , ma a Magalo, che non aveva visto nulla fino a quel
momento, quelle vecchie pellicole doppiate in un italiano da vocabolario
erano manna dal cielo. A Magalo, grazie al grande schermo, le donne
sognavano almeno un’ora al giorno. Si me evano in coda dopo la preghiera
del duhuur, e solo dopo aver rimpinzato di cibo i loro grassi mari . Non
riuscivano mai a vedere un film intero, non ne avevano il tempo. Nelle case
c’era da rammendare, s rare, lavare, cucinare, dare il seno ai bambini,
pulire il culo ai nonni. Andavano al cinemino giusto per acchiappare
qualche fotogramma, qualche de aglio fugace. In un quarto d’ora
decidevano chi amare o detestare. A molte di loro bastavano cinque
minu , il tempo minimo per perdersi negli occhi blu di un Paul Newman di
passaggio. Le vergini di Magalo invece erano per Gregory Peck. E tu e
rimasero molto male quando lasciò andar via, senza quasi comba ere,
quel dolce petalo di Audrey Hepburn… E poi c’erano loro, gli indiani, i
cowboy, gioia di ogni ragazzino. Bastava un a mo per trasformare il film in
un gioco colle vo da consumare sulla sabbia rovente di Magalo. La
maggior parte faceva il fo per gli indiani, si capisce, erano più scenografici.
E poi stentavano a iden ficarsi con John Wayne. «Ha i fianchi di un maiale»
urlavano i ragazzini. E sulla spiaggia rovente facevano spe acolo imitando
quell’andatura orsa che dava a Wayne l’aria da ragazza infibulata di fresco,
con la cucitura che incendiava ancora la vagina ferita. No, no, meglio gli
indiani. E poi avevano quelle piume fantas che, e un coraggio immenso.
W i Pellerossa, morte ai John Wayne!
Il cinemino di Magalo si chiamava il Faro, munar come si dice in lingua
somala.
Di fa o tu o era munar, a Magalo. Tu o ricordava la grande impresa del
nostro avo Torobow, che aveva ere o con le sue sole forze quella torre, poi
diventata il faro della nostra ci à. A Magalo, ovunque andavi, trovavi un
bel faro ad aspe ar . C’era il night-club Munar, la drogheria Munar, la
pas cceria italiana Munar, la piazza Munar.
Il nostro faro era considerato, al pari di quello di Capo Guardafui,
monumento storico della Somalia.
A mio padre il faro, così com’era stato rimaneggiato negli anni Trenta, non
piaceva.
«Ci hanno sfregiato» commentava.
Ma se poi gli chiedevi di aggiungere un commento a quella sua frase si
negava come una verginella al primo bacio.
Il de aglio aggiunto, e tanto detestato da papà, era una lama. Era lei,
l’onorata signora, a trasformare la torre arabeggiante di Torobow in un
enorme, grandioso fascio li orio.
“Per perpetua gloria di Roma” era stato scri o sul basamento.
E quel so o tolo campeggiava anche nell’insegna colorata del cinemino.
“Per perpetua gloria di Roma”. A me, a furia di leggere quella scri a, era
venuta una voglia pazza di quella Roma lontana, piena di dolce vita e
cabaret.
Il fascismo non lo capivo all’epoca.
La memoria era già persa. E trovavi sempre qualche Idris Shangani felice
di raccontar che so o gli italiani non si era vissu poi così male. Di solito
erano ex ascari o ex madame. Ma poteva uno scricciolo come me capire
quelle sfumature? Un padrone vale l’altro, questo era il succo. Magalo poi
non era Mogadiscio, la storia a Magalo ci passava di sbieco. Non c’era
nessun Abdullahi Ciise, anima dell’indipendenza somala, a indo rinarci. A
spiegare al popolino di Magalo che il valore della nostra terra eravamo noi,
ci adini africani, artefici del nostro des no. Nessuno ci aveva mai
raccontato che il colonialismo era il male. Anche chi conosceva la verità ha
taciuto. Mio padre, per esempio, ha taciuto.
Biascicava frasi, parole così vaghe che non spiegavano, non raccontavano.
Ero una ragazzina, non pensavo alle faccende della poli ca.
Io volevo essere come Norma Jean e basta. Del resto me ne fregavo.
Volevo le luci, il trucco, i premi, i tappe rossi, i baci appassiona .
Volevo sognare, ballare, volare.
Volevo scappare.
L’Italia era ovunque nella mia vita.
L’Italia erano i baci sulla bocca, la mano nella mano, l’abbraccio
appassionato. L’Italia era la libertà. E io speravo tanto che potesse
diventare il mio futuro. A Magalo, prima di Siad Barre, mol italiani
risiedevano in ci à. Li vedevi passeggiare al tramonto nei loro abi elegan
per il corso principale. Le crava e a posto e i gemelli ai polsini. Le donne
spesso sfoggiavano cappellini deliziosi che trasformavano le loro figure
minute in altere e bellissime Grace Kelly. Gli italiani aprivano ristoran e
gelaterie. E i più ricchi avevano piantagioni di banane appena fuori ci à. A
scuola, tra noi ragazze, ci raccontavamo delle loro belle case e delle schiere
di domes ci ad accudirle. Li invidiavamo, lo amme o. E più di una sognava
di sposare un italiano, da grande.
Fu papà a trascinare me e Malika al cinematografo Munar la prima volta.
Eravamo a Magalo da un mese quando successe. Il trauma della
separazione era ancora fresco. La ferita ancora aperta. La boscaglia era
ancora lì, fissa davan alle mie pupille scure.
Papà Zoppe odiava il signor Shangani, ma amava troppo il cinema per
privarsi di una gioia così grande.
Quel giorno, appena tornate da scuola, ci disse: «Stasera andremo tu al
cinematografo». Era allegro, lui. Io no. Ero sola, malede amente sola.
Mi mancavano le capre e e in sogno chiamavo la mia mamma, la donna
che avevo creduto fosse mia madre.
«Mamma, salvami» le dicevo. «Mamma, aiutami» la scongiuravo.
Ma le no passavano e da me non veniva nessuno.
In lontananza solo il gracchiare sconnesso dei gufi in amore allietava quei
miei sonni agita .
Sopra u o di no e non mi rassegnavo alla mia nuova condizione di
ragazza di ci à, anche se di giorno in giorno il mio corpo cominciava
lentamente a ada arsi alle seduzioni dolci di una vita troppo comoda. Mi
stavo abituando, quasi senza accorgermene, al silenzio, al materasso
morbido e alla colazione del ma no, l’injeera, il burro fuso e lo zucchero.
La mia vita era scandita dal richiamo del muezzin e dalla campanella della
scuola. Non mi dovevo più preoccupare delle iene e delle leonesse. E nel
cielo limpido di mezzogiorno, cingue avano teneri uccellini. Gli avvoltoi,
orride carcasse volan , erano solo un ricordo.
«Qui è bellissimo» mi disse una volta mia sorella Malika.
Le sputai in faccia. Il tradimento non giunse inaspe ato, però fece male.
Un dolore forte. Prepotente e rabbioso.
La sera del cinematografo il vecchio pensò di festeggiare i dieci anni di
Malika. Aveva appena diluviato e le rane coprivano il terreno con il loro
manto verdognolo. Le balorde erano uscite dalle loro tane per godere della
frescura improvvisa. La ginose e saltellan si crogiolavano nelle ul me
gocce della stagione delle piogge.
«Mi raccomando, rimanete sedute. E ferme» ci disse il genitore.
«Sopra u o quando si spegneranno le luci. Dareste disturbo agli altri.»
«Va bene, padre» disse mia sorella.
Io mossi appena il capo.
«Non c’è niente di cui avere paura, ma se disubbidite assaggerete il mio
curbash.»
Il curbash, ce ne avevano parlato. Forse era stata la stessa Hagiedda
Fardosa a me erci in guardia. Il curbash era un frus no che si usava per gli
asini.
Entrammo in quel cinema. E ci sedemmo, io e Malika, secondo le
istruzioni ricevute.
Poi all’improvviso mi sen i rare una treccia. Il cuore sobbalzò.
«Ahi» dissi. Dietro di me c’era Sultana Patel, la mia compagna di banco di
origine indiana.
Erano tan gli indiani a Magalo.
«Non lo sai che sono con mio padre? Se mi fai urlare, mi me nei guai. Si
è raccomandato il silenzio, acciden !»
«Non sono scema» mi rispose. «L’ho visto alzarsi. E poi cosa c’è di male se
chiacchieri con me? Il film non è ancora iniziato.»
Ero paralizzata. Mi chiesi se fosse il caso di spiegare alla mia nuova amica
che io non sapevo ancora cosa sarebbe successo nella sala. Cos’era un
film? E come si faceva a capire se era iniziato?
Mi vergognavo. Avrei voluto tanto fare delle domande a Sultana, così
bella e buona, la mia unica amica. Ma non volevo che ridesse di me. Che
scoprisse la mia ignoranza. «Hai mai visto i film di Maciste?»
«No, e tu?»
«Sì» mi rispose. «Mi annoiano. C’è un po, il protagonista, che pensa solo
a comba ere, dall’inizio alla fine. Mai una scena d’amore, un bacio,
qualche bel ves to… Figura , io vado ma a per Nadira. Lei balla molto. A
ogni suo film imparo un passo nuovo.»
«Ah» commentai come se mi fosse chiaro. Ero disperata. Dovevo uscire
da quella conversazione, il più presto possibile.
«Prome che mi insegnerai a ballare» il mio tono era perentorio.
«Sì» mormorò.
La guardai.
Era bellissima.
La mamma le aveva annodato i lunghi setosi capelli in una crocchia, che
aveva abbellito con una ghirlanda di fiori. Il bianco dei petali si specchiava
nella mol tudine colorata del sari che Sultana indossava con eleganza e
disinvoltura. Era la prima volta che la vedevo con il sari. A scuola avevamo
la divisa, pantaloni e camicia bianca. Ma ora eravamo al cinema e Sultana
era bellissima.
Mi sen i così bru a.
Mi guardai e con tristezza vidi l’opacità del mio essere. Treccine sfibrate,
un sacco di patate come abito buono, ciaba e mezze ro e che umiliavano
la vista. Ero spenta come una lampadina dife osa.
Nonostante tu o Sultana mi sorrideva, come se mi volesse bene davvero.
«Va bene, cominceremo con qualche passo.» Poi il sorriso si spense.
«A enta, sta arrivando tuo padre. Ne riparliamo a scuola, sorella.»
Eravamo complici, amiche vere. Ero felice, però il tremore non se ne
andava. Il film stava arrivando e io non avevo idea di cosa fosse un film.
Le luci in sala si spensero. Mio padre, la barba lunga e rossa di henné, si
voltò e mi disse: «Mi raccomando, non alzare per nessun mo vo. E guai a
te se te la fai addosso».
Buio. Poi in successione il mare, un tramonto, una musica così forte da
farmi male alle orecchie, scri e grandi più del libro di scuola e una
sensazione di a esa che mi stava spezzando l’animo. Era la prima volta che
vedevo il tramonto senza il muezzin che ci richiamava alla preghiera del
maghrib. Quel tramonto di plas ca mi sembrò quasi una blasfemia.
Partorito dal figlio di Satana. Ebbi paura. Guardai mio padre e Malika. Ma
loro sembravano immuni a quel terrore che mi stava invadendo le viscere,
affascina dalle scri e che scorrevano davan ai nostri occhi.
Poi arrivò la voce. Parlava italiano ma all’epoca avevo ancora poca
dimes chezza con la lingua. Però capii che un certo Ulisse aveva ingannato
tempo prima una maga di nome Circe, che bel nome! Anche a scuola
circolavano nomi strani. C’erano un Mario in classe nostra e anche una
Ginevra. La pelle rosa come polpa di un pompelmo succoso. Rossa come il
cocomero quando la maestra si rivolgeva a loro. Ginevra e Mario
cambiavano spesso colore. A volte erano verdi, sopra u o per il
raffreddore, o bianchi, quando si prendevano qualche bru o spavento.
Erano buffi, con il loro arcobaleno. E sfortuna . Al contrario di me, che
rimanevo sempre marroncina.
Anche Sultana era marrone, meno scura, però. A volte anche lei cambiava
colore. Mario e Ginevra, di più.
Mentre ero persa in ques pensieri apparve sullo schermo una donna
con un abito blu sopra una barca un po’ strana, molto diversa da quelle che
avevo visto a Magalo. La donna sembrava indossare una sorta di sari. Solo
che aveva le spalle coperte da un leggero velo, molto simile al garbasar
delle nostre donne somale. Ma quella figura in blu non aveva fa o in
tempo ad apparire che la scena cambiava. Niente più mare, ma un luogo
oscuro, tetro, buio come uno di quei miei incubi con gli avvoltoi che mi
divoravano le capre e. Chiusi gli occhi per un tempo che mi sembrò
un’eternità. Quando li riaprii c’era la donna in blu e accanto a lei due
uomini. Uno era nudo o quasi. Aveva una stoffa leopardata che gli copriva
le impudicizie e tan muscoli che mostrava con grande orgoglio. Alla sua
sinistra invece uno strano uomo bianco pieno di ferraglia in faccia e per
tu o il corpo.
Mi chiedevo se Maciste, quel biondo con il perizoma, alla fine di quella
cosa che tu chiamavano film, sarebbe uscito da quello schermo per
venirci a salutare.
A me, quella sera, tu a quella finzione sembrava realtà.
Una realtà più bella però del mio presente.
Non so quando accadde, ma mano a mano che la storia scorreva e
aumentavano i personaggi la mia paura cominciò a svanire.
A metà del film ero completamente conquistata.
Quella sera non sognai la mia boscaglia. Niente capre e, niente mamma,
niente piogge, niente avvoltoi. C’era solo Maciste a cullarmi. I suoi capelli
biondi come l’orizzonte.
Dormii bene.
E Magalo non mi sembrò più un posto orrendo.
14
Paternale

Adua vieni qua, subito. Non mi fare spazien re. Che cosa significa questo?
Su, parla. Perché mando a scuola io, eh? Per leggere questa robaccia?
Cos’è questo? Su, rispondi! Te lo dico io cos’è: cacca! Hai capito? È un
fotoromanzo, un foglio pieno di sciocchezze. L’amore è una sciocchezza.
L’amore, Adua, non esiste, me telo subito in testa che è meglio. Non fare
come quella scema di tua madre Asha la Temeraria, lei nell’amore ci
credeva davvero. Chiamava i suoi bollori amore e ci ha disonorato tu
morendo. I vicini dicono che sono stato io a ucciderla, lasciandola da sola
durante la gravidanza. Dicono che è morta per amore, per amor mio. Hai
mai sen to una sciocchezza così colossale? Morire per amore, come se
fosse possibile. È morta perché era scema, tua madre, per fare un dispe o
a me. Non perme erò che tu, mia figlia, segua la stessa strada di
perdizione. Raccogli tu i tuoi fotoromanzi e portameli qui. Li bruceremo.
Ne faremo un bel falò. Così vedi che fine fa l’amore. L’amore, figlia mia, va
sempre in fumo.
15
Zoppe

«Maria, esci fuori, amo!»


«Maria, adoro!»
«Maria, sei splendida!»
«Cantami qualcosa, Maria! Ti prego, cantami qualcosa. Ho lasciato la mia
morosa al paese e soffro di nostalgia.»
«Maria, ma questa guerra davvero ci sarà?»
«Maria, benedicimi nel caso dovessi morire, morirò contento pensando a
te!»
Zoppe stentava a capire i gaal. Erano tu ammassa sul ballatoio del
piroscafo per vedere quella donna bardata con il tricolore italiano che
salutava i legionari pron a par re per l’Africa orientale.
«Ci sarà presto una guerra» disse un soldato alla sua destra.
«E Maria Uva vuole darci coraggio per tu e le privazioni che verranno.»
Il desiderio di allontanarsi dal ballatoio era molto forte.
Che c’entrava lui con quella gente rosa e con la loro sporca guerra
coloniale?
Vendicare Adua, me ersi sul piano dell’impero, trovare spazi vitali per la
virilità di Roma…
Lui ci pisciava su quella propaganda.
Lui dagli italiani voleva solo i soldi per comprare una grandissima casa a
Skuraran per la sua Asha.
Il resto gli era indifferente.
“Che ci faccio qui?” si domandò Zoppe guardando la massa di italiani
crescere sul ballatoio precario del piroscafo. Gli italiani schiamazzavano,
agitavano le mani, inviavano alla nuda scogliera i loro sospiri innamora .
Ahi Maria, amami, prendimi, abbracciami, baciami, stringimi, soffocami.
Prega per noi peccatori, Maria, adesso e nell’ora della nostra morte.
Amen.
*
Zoppe era accaldato e la testa gli bolliva. Agitarsi per una pu ana, per di
più bru na e grassoccia. Quella Maria Uva avrà avuto di sicuro il suo
tornaconto. Forse avrebbe guadagnato sugli spe acoli per le truppe o
chissà, era la mantenuta di qualche alto papavero del regime.
Intanto lo schiamazzo con nuava.
I solda mischiavano le loro erezioni ad an che lezioni di catechismo
imparate a memoria da bambini.
E una qualsiasi Maria Uva veniva innalzata nei loro cuori come se fosse la
santa Maria Vergine in persona. Una sorella, una madre, una sposa, una
dea.
Maskin…
Pensò Zoppe.
Povera gioventù.
Era così che l’Italia tradiva i suoi ragazzi?
Zoppe sen il fiato venir meno sul ballatoio fi o di sospiri. L’odore
penetrante dell’acqua di Colonia da due soldi misto alla puzza delle ascelle
dei solda lo stordiva.
Maria, Maria, Maria…
Esci, amore, canta per noi, tu sei benede a fra le donne.
Bastava davvero sventolare una qualsiasi figa pelosa per convincerli che
la guerra che stava preparando Benito Mussolini era giusta e buona?
*
Quando Maria Uva spuntò dalla scogliera le urla in calore degli uomini
sovrastarono le onde del mare. Un’ondata di virilità inespressa si
impossessò delle para e e ogni superficie si bagnò di desiderio. La voce di
Maria Uva era stridula, acuta, quasi fas diosa. Ma a quei solda ni lo
spe acolo sembrò paradisiaco.
Fu in quel momento di distrazione generale che Rebecca apparve a
Zoppe.
La visione era limpida. Rebecca era lì, e aveva in mano un orse o di
peluche della bambina.
«Non pensavo avres a raversato il mare» disse Zoppe.
«Anch’io credevo di non sognar più.»
«Come stai?»
«Non lo so.»
La visione cominciò a farsi più flebile e il viso di Rebecca meno chiaro.
«Arrivano no zie atroci» disse solo. «Mio marito minimizza, quasi non si
accorge. Non sme e mai di parlare di suo padre morto a Vi orio Veneto,
della medaglia d’oro dello zio Nathan. È un nazionalista, il mio Davide.
Proprio l’altro giorno mi ha de o: “Se Mussolini farà la guerra agli abissini
sarebbe bello par re volontario per l’Africa orientale”.»
«C’è da far qua rini con questa guerra.»
«Ma non hai pietà per la tua gente? Non hai pietà per i mor che
verranno?»
«I qua rini sono l’unica cosa che davvero con in questa vita. Con la
pietà non puoi nemmeno pulir bene il sedere e poi io mi devo sposare. Mi
aspe a una donna laggiù nel mio paese.»
«Una donna? Davvero?»
«Se accumulerò il denaro che spero, allora sì, ci sarà anche una donna.»
«Davide mi ha de o che lì avremo un appezzamento di terra tu o nostro,
perfino la servitù.»
Rebecca si strinse le ginocchia al pe o. Fu un a mo per lei scomparire.
Non sarebbe tornata mai più.
*
Zoppe si toccò la testa e sen con la mano le pieghe del turbante che il
conte Anselmi lo aveva costre o a indossare.
«Ah, bravo Zoppe, guarda , sei un figurino. Il turbante blu dà classe. Mia
madre, buonanima, era inglese, mio padre, il conte Ludovico Anselmi,
l’aveva conosciuta durante un suo viaggio in India. Lei e la sua famiglia
erano al seguito dell’ambasciatore del più grande impero della terra. È lì
che i miei genitori hanno ammirato la classe dei solda indiani dal turbante
blu.»
L’impero britannico, non parlava di altro il conte Celes no Anselmi. Era la
sua magnifica ossessione.
«L’Italia ne meriterebbe uno uguale» andava dicendo in ogni salo o.
«Siamo noi, dopotu o, che abbiamo dato i natali ad Augusto. Civilizzare i
selvaggi toccherebbe a noi, siamo noi che dobbiamo portare sulle spalle
questo pesante fardello.» Nonostante la boria imperiale che lo rendeva a
tra indigesto, il conte Anselmi era il miglior datore di lavoro che Zoppe
avrebbe potuto avere in quelle circostanze.
Era un essere gracile, il conte Anselmi, di media statura, con il volto grigio
perla. Mani lunghe, dita so li, o me per il pianoforte. I capelli color fieno
mal si sposavano con la peluria scura delle braccia e con le folte
sopracciglia brune. Il sospe o di Zoppe era che il conte manipolasse più di
un aspe o del suo corpo. Era così femmineo, lucido, evanescente.
Fu a Tivoli, in un palazze o del Se ecento, che il conte lo riceve e per la
prima volta, due mesi prima.
Zoppe era rimasto frastornato da tanta abbondanza. Corni di rinoceronte
e vetri di Murano, stoffe di Goa e pelli del Kazakistan, kilim turchi e tappe
persiani, miniature che ritraevano imperatori in pose ero che e libri rilega
della santa accademia britannica.
Accanto ai corni di rinoceronte Zoppe aveva notato una testa di bufalo
imbalsamata. Sul muso quasi un ghigno di compiacimento.
La stanza aveva un odore penetrante, come di corpi suda .
Zoppe era nauseato. Nelle orecchie risuonavano an chi orgasmi e grida
di terrore. Cosa succedeva in quella casa? Se avesse potuto sarebbe
scappato via all’istante. Ma ormai non era più libero di fare nulla. Quel
conte dall’aria così bonaria lo aveva comprato. Ormai era roba sua. Se
voleva ritornare a Magalo, se voleva rivedere gli occhi belli di Asha la
Temeraria, doveva filare dri o.
«Sai danzare?» chiese il Conte accennando un pas de deux. «Ah, che
sciocco, pra cherai le danze selvagge dei tuoi luoghi.» C’era nelle sue
parole un misto di arroganza e lussuria. «Quei balli dove siete nudi e
agita . Come bisce, per intendersi.»
«Noi non balliamo» disse Zoppe. «Nella famiglia non ho mai visto
nessuno ballare.»
«Se gli affari di Stato non mi richiamassero a più al doveri, sarei sempre
qui a danzare le mie più estreme fantasie. Ma ora ho sete, ci vuole
l’acqua.»
Prese la campanella e chiamò.
«Teodoro, ecco finalmente qua. Portaci una caraffa d’acqua fresca, sto
morendo, sbriga .»
Il conte divenne pallido e due bicchieri d’acqua non bastarono a
res tuirgli il colore. Zoppe ebbe l’impressione che tremasse. Il conte rò
fuori dalla tasca dei pantaloni una bocce a blu, l’avvicinò al naso e respirò
forte.
«Mi ascol , Zoppe, l’ho rata fuori dai guai perché sono buono e perché
lei mi serve. Mi mostri la lingua.»
Zoppe ubbidì. Ormai non sapeva fare altro.
«Che bella lingua rossa, spessa. Mmm… mi piace. Mi sarà u le in Africa e,
se sarà all’altezza, sarà ben ricompensato. Il conte Anselmi è generoso.»
16
Adua

Mi sento stanchissima. La faccia a pezzi.


Mi sento stanchissima. Gli occhi gonfi.
Mi sento stanchissima. La schiena spezzata.
Vorrei una doccia, un cuscino, un sogno.
Ma a casa il mio piccolo Titanic mi ene il broncio. Non ho il coraggio di
tornare. Abbiamo li gato, elefan no mio.
Io e lui siamo sempre anda d’accordo. Sempre parole dolci tra noi.
Sempre carezze. Invece oggi il li gio, e non sono proprio abituata. Io sono
una tenera. A me piace da ma affondare le mani nella spumosa testa
riccia del mio uomo. Mi ci addormento sopra e mi sento più giovane, con
più energia.
Ma oggi non mi ha fa o avvicinare alla sua testa.
«Lasciami» mi ha de o.
Era scontroso, os le.
Quel ragazzino vigliacco che io ho salvato dalla strada ora mi si ribella
contro. Lo dovevo lasciare marcire a via Gioli con il suo gin scadente
comprato dal bangla a due lire. Un alcol tossico che gli avrebbe corroso le
arterie e il fiato. Lo dovevo lasciare lì alla stazione Termini in balia delle
intemperie e degli skinhead. Ora almeno non mi sarei sorbita il suo
broncio.
Ma il mio piccolo Titanic ha la mia protezione ormai. Io gli faccio da
corazza. Sono i miei soldi che lo difendono dalle intemperie e dagli
skinhead. Ha un te o sulla testa, la pancia sempre piena e ha anche il
tempo per cha are con le sue amiche e che sono rifugiate in Nord Europa.
So bene che sta lì tu o il giorno a dire «tesoro» o «amore mio». È incollato
a Facebook. Sta lì davan al computer a sbirciare la vita degli altri. E ques
altri sono sempre donne giovani. Si chiamano Howa, Halima, Habshiro,
Anisa. Vivono in pos dove i somali possono contare su un sussidio e un
te o a spese dallo Stato. Ed ecco che ogni giorno il mio mari no fa arrivare
le sue insulse dichiarazioni d’amore in Norvegia, Finlandia, Gran Bretagna,
Svezia… sì, quella malede a Svezia. Lì mi sa c’è una ragazza che davvero gli
piace. Una certa Zahra, mi pare di avere capito. Ogni volta gli chiedo: «Chi
sono queste?» e lui si affre a a dire: «Sono cugine».
Gli ho perdonato ques svaghi virtuali. Tanto lo so da me che prima o poi
mi lascia. So che la nostra unione è temporanea. Sono vecchia, dopotu o.
Ho la pelle a scacchi e non è che mi va tanto di fare l’amore alla mia età. Lui
vorrebbe che glielo prendessi in bocca… oddio mi sento così volgare a
dirtelo… ma è quello che mi chiede… e, sai, io mi sforzo pure. Ma poi ho
sempre delle tremende cervicali. Lo faccio per accontentarlo. D’altronde è
l’unica cosa di quel po che mi chiede. Per il resto è più lui ad accontentare
me. Ma ecco, oggi mi ha messo su il broncio e non lo sopporto.
Sai perché abbiamo li gato, elefan no mio?
Ha visto il mio film. Sì, l’unico film che ho fa o.
Lo passava un canale regionale di ques dal nome strano.
L’ha visto tu o. Dal primo all’ul mo fotogramma.
Ha visto le mie corse nuda sulla spiaggia dorata di Capoco a, ha visto
quando Aldo de Luigi mi me eva le mani sul culo, ha visto mentre
amoreggiavo con Nick Tonno sul sedile di una Chrysler del ’53 e ha visto
anche l’aspe o del mio pelo pubico di allora. Sì, ha visto tu o. Nella sua
testa ora sono stampa tu i miei baci, i miei sospiri e anche lui è
affondato dentro le mie incaute parole d’amore doppiate negli studi di via
Margu a. Mi avevano dato una voce tu a miele e languida in quel film.
«Perché la tua è troppo aspra» mi aveva de o il regista, e aveva anche
aggiunto: «doppiata, invece, il tuo corpo solenne riceverà la voce languida
che serve a far innamorare tu gli uomini della terra.» Io muovevo il capo
come una molla, un sì forzato che non capivo. Stare lì davan a una
macchina da presa come Rita Hayworth mi sembrava già meraviglioso.
Contava essere una dea, contava l’adrenalina, la volontà superiore di
essere immortale.
Avrei voluto spiegare al mio piccolo dolce Titanic, a quel mio mari no da
svezzare, che ero piccola, inesperta, persa nei miei sogni di celluloide e
parecchio sola. Avrei voluto spiegargli com’era la mia vita allora. Che certo
la sua era stata dura, e lo capivo che era stato difficile districarsi tra predoni
del deserto e carre e del mare, ma anche la mia, in quanto a durezza, non
scherzava.
Avrei voluto raccontargli com’ero. Come mi vedevo nel futuro. Le cose
che da giovane desideravo per me stessa.
Ma al solito non mi ha fa o parlare.
Mi ha tappato la bocca con le sue urla.
E poi se n’è uscito con quella parola: shermu a, pu ana.
Il cuore ha accelerato i ba . Ho avuto paura di crepare per il dolore lì
davan a quello sbarbatello.
Mi sono ripresa e gli ho lanciato una pentola.
Poi ho visto quel suo broncio.
Quel suo giudizio sulla mia persona.
Volevo strozzarlo con le mie mani.
17
Paternale

Piangi, Adua? Mi disonori così? Le brave ragazze non piangono mai. Hai
visto tua sorella Malika? Non ha versato nemmeno una lacrima, e tu ora
che fai? Mi inondi? Che vuoi che sia un taglie o, Adua? Non fare tu e
queste storie, dai, che mi secca. Zia Fardosa ha chiamato la migliore
mammana per farvi il gudnisho. Ora sei liberata, Adua, pensa solo a
questo. Non hai più quel malede o clitoride che rende sporca ogni donna.
Zac, te l’hanno tagliato, finalmente! Sia resa grazia al Signore. Il male
passerà. Il male è momentaneo. La gioia di questa liberazione invece,
Adua, è duratura. Dopo ci sarà solo la felicità di essere pura, finalmente
chiusa come Dio comanda. Il tuo sesso non va più a penzoloni, Adua. È
bello essere pura. È bellissimo. Pensa che bella vita senza più
quell’immondo batacchio che pendeva osceno tra le cosce, come se fossi
un uomo. Io ne ho viste di donne con il batacchio e, dirò, non sono un
bello spe acolo. Fanno ribrezzo, sono carnivore, violente. Rumoreggiano.
Ti sei salvata, Adua, da questa vergogna. Ora tu sei chiusa, pulita, bella. Sei
come mia madre, come la madre di mia madre, e come tu e le donne
degne di s ma di questa nostra grande famiglia. Tua madre Asha la
Temeraria, quella scema, si opponeva alla pra ca, pensa. Diceva: «Nessuno
toccherà mia figlia, nessuno la infibulerà». Per fortuna è morta. E ora tu sei
salva, chiusa, senza quell’immondo clitoride a ricordar che sei una donna.
Ora niente distrarrà. Ti prenderai la tua bella laurea e poi darò in sposa
al migliore degli uomini. Quando sarai grande mi ringrazierai.
18
Zoppe

Addis Abeba era un puzzle di mondi in un metro di stoffa.


Addis era un garofano in fiore, una ragazzina allegra, il fiero oromo dalla
schiena ere a.
Una pu ana come poche, Addis Abeba.
Da un lato si prostrava in ginocchio davan al suo imperatore e dall’altro
ne tramava la rovina.
La ci à pullulava di spie come mai prima d’allora. Dappertu o mercenari,
malavitosi e bru musi.
Dappertu o tracce di guerra e future catastrofi.
«Ce ne avete messo di tempo ad arrivare» disse un europeo che Zoppe
iden ficò con il proprietario francese dell’albergo dove il conte avrebbe
risieduto.
L’uomo aveva lunghi mustacchi neri e sopracciglia fol ssime. Il naso
adunco dominava su una faccia rosa gonfia di vino. Mentre gli occhi erano
vispi come quelli delle zitelle in cerca di marito. Aveva braccia lunghissime
e a Zoppe vennero in mente cer polipe che trovava mezzi mor in riva
al mare, nella sua Magalo.
«Scusi il ritardo. L’Africa è così lenta» rispose il conte Anselmi in francese
scoppiando in una fragorosa risata.
L’uomo apprezzò la ba uta e cominciò a ridere pure lui. «Ho portato due
calessi» disse poi interrompendosi. «Sul primo caricheremo i vostri bagagli
e sul secondo caricheremo voi. I miei asini e i miei arabi ci porteranno tu
a des nazione, à la Douce France.»
E così dicendo fischiò nella direzione di due uomini olivastri con barbe
lunghe e le jellaba candide. «Faruk, Karim, caricate le valige dei signori.»
E poi rivolgendosi ai suoi ospi : «Gli arabi costano poco e sono molto
efficien , non come quei pigri degli abissini».
A Zoppe non fu permesso di salire sul carro. Dove e seguirli a piedi,
caricandosi i suoi due fago sulle spalle.
A ogni passo sen va i piedi sprofondare. Aveva appena piovuto e la ci à
era un’infinita distesa di fango. Zoppe notò gran movimento nelle strade.
Una strana frenesia mista al sudore acre della paura. Ovunque trincee
improvvisate e solda dalle scarpe bucate.
«Ci sarà la guerra come dicono i giornali, sapete?» disse il francese con
un certo entusiasmo. «Ma gli italiani devono stare tranquilli. La Francia non
ostacolerà i piani imperiali di Benito Mussolini. A noi resta la Tunisia e a
loro andrà l’E opia. Mi sembra un pa o equo, non vi pare?»
Il conte Anselmi non rispose.
Non voleva tradirsi. Si limitò a dire «Oh, ma quanto freddo fa a Addis
Abeba di ma na, non me l’aspe avo» e spostò la conversazione su
ques oni meteorologiche.
Zoppe guardava la ci à. Era così cambiata Addis Abeba dall’ul ma volta
che l’aveva vista. Più moderna, a tra anche più arrabbiata.
Addis era così diversa da Magalo. Era diversa anche da Mogadiscio. Lì non
c’era il mare a coccolar e sembrava che il cielo fosse pronto a schiacciare
gli abitan con la sua furia devastatrice. La natura non era gen le a Addis
Abeba e anche l’aria era os le. Zoppe sen va il fiato freddo degli al piani
colpirlo in piena faccia. Tremava. E gli occhi lacrimavano. Addis Abeba
me eva sempre a dura prova. Ma come diceva suo padre, Hagi Safar,
anche quella ci à così apparentemente distaccata aveva un cuore che
cullava i sogni dei neona nelle sere di tempesta. Da ragazzo suo padre
l’aveva trascinato spesso a Addis Abeba. Lì Hagi Safar era rispe ato quasi
come a Magalo. La gente gli sorrideva per la via e le donne gli me evano
chicchi di caffè nelle ampie tasche della tunica. Hagi Safar prendeva quei
chicchi e li sgranocchiava con gusto. Era una bellezza vedere il volto di suo
padre in quei momen . Era un volto tondo, pieno, così diverso dal suo.
Zoppe invece era magro, lungo, quasi scheletrico. E poi non aveva
l’andatura fiera di suo padre, zoppicava malamente accanto a lui,
trascinando un piede dopo l’altro in quel pantano disgustoso.
«Bello il vostro servo,» disse il francese «è la prima volta che vedo un
negro, uno di ques somali, con un turbante blu.»
«I negri sono stravagan , non lo sapeva?» replicò il conte Anselmi
facendo un occhiolino d’intesa al francese.
I due europei risero. Zoppe ne fu umiliato.
*
La Douce France non era poi così dolce.
Si trovava in una via trafficata dove l’odore nauseabondo dei pellami e
delle carni del vicino mercato costringeva gli ospi per gran parte della
ma na a stare in camera con le finestre chiuse. Il conte Anselmi era stato
fortunato. La sua stanza dava su una stradina laterale, dove l’unico odore
che penetrava era quello del caffè preparato dalle donne del quar ere. Il
vero sfortunato della faccenda era stato Civa. Nella sua stanza solo puzza e
schiamazzi.
Zoppe stava sistemando, per l’ennesima volta in quei giorni, il bagaglio
del giovane in un baule rosso quando Civa lo chiamò con un «Ehi, ehi»
alquanto eccitato.
«Signorino» si limitò a rispondere Zoppe. Lo molestava chiamarlo così,
ma quello era stato un ordine tassa vo del conte Anselmi.
«La vedi quella finestra laggiù? Lì dicono che ci sia una di quelle
signorine. Sa quelle belle signorino e… quelle insomma… sa, quelle delle
cartoline.»
«Pu ane, sì lo so, signorino.»
«Ovvia, Zoppe, non essere così volgare.»
«Ma, signorino, è quello che sono. Non gliel’ho imposto io di fare quel
mes ere.»
«Sei un puritano, Zoppe. Un negro puritano, pensa te che bizzarria mi
tocca vedere.»
Zoppe non replicò.
Chissà cosa avrebbe commentato Hagi Safar al proposito.
Da un po’ di tempo non vedeva più il padre nelle sue visioni.
Nemmeno i Limentani comparivano più nei suoi sogni. Era come se Addis
Abeba con la sua ansia di vivere gli avesse risucchiato tu gli affe .
Zoppe si trovava in mezzo a degli estranei. Senza nessuno a cui aprire il
cuore.
E poi da quando era arrivato a Addis Abeba la sua lingua era stata colta
da un’infezione. Era gonfia, dolorante e con strane macchioline gialle sulla
punta. Quella ma na aveva anche sputato sangue.
Aveva provato a curarsi mas cando la radice di zenzero che portava
sempre in tasca. Ma l’infezione non cessava di tormentarlo.
Anche la testa gli doleva. Non sopportava l’angus a di quelle stanze
troppo cariche di ornamen . Quell’ostentazione di Art déco male si
accompagnava all’esercito di termi che a accava i mobili di foggia
europea.
Tu o era rosicchiato. Tu o in quello strano albergo era a metà.
Anche gli ospi .
Erano quasi tu giornalis in cerca di amenità su quella terra che presto
sarebbe stata travolta da una guerra coloniale. Mussolini, e non era un
segreto per nessuno, si era imposto che il confli o dovesse scoppiare
prima che il riarmo tedesco fosse completato. Se voleva a accare l’E opia,
il Duce lo doveva fare nell’arco di quell’anno.
Solo che quei giornalis una vera guerra non l’avevano mai raccontata.
Il conte Anselmi li definiva «il circo» e Zoppe non poteva non concordare
con la definizione del suo ambiguo padrone.
Arma di cannocchiali, baule di primo soccorso, sahariane beige,
maschere an gas, il circo cercava disperatamente di non apparire troppo
ridicolo agli occhi della propria coscienza.
Si andava dagli es matori comunis del Negus, fino ai ridicoli americani
con i calzoni cor e le bretelle. La ma na si incontravano a colazione con
le occhiaie causate dalla ca va diges one e dall’alcol scadente,
chiedendosi tu : «E oggi cosa raccon amo ai nostri le ori?». Si gra avano
la testa sorseggiando l’amaro caffè e ope con a eggiamen dispera .
«Non posso descrivere la solita parata dei guerrieri del Ras, con quella ci ho
marciato la se mana scorsa.» E qualcuno dal fondo della sala: «In
Germania per fortuna vanno ancora pazzi per le scene primi ve».
«Ehi,» sbo ava una delle rare donne a rimorchio di quel carrozzone «ma
nessuno ha mai provato a descrivere i pia di questa gente? Sono così
cavernicoli, mangiano ancora con le mani.»
Zoppe, nelle poche volte che aveva avuto accesso alla sala delle colazioni,
si era domandato come mai tu quei giornalis non raccontavano ai loro
le ori semplicemente i prepara vi della guerra. Addis Abeba era in
fermento. La ci à si preparava fatalmente alla difesa e ogni luogo, persino
la santa ca edrale di San Giorgio era una trincea. Hailé Selassié per tenere
alto lo spirito del suo popolo organizzava parate su parate. E, per far vedere
quanto l’E opia si dava da fare, faceva accompagnare gli stranieri nei suoi
ospedali, nelle sue prigioni, nelle sue scuole.
«Ehi Zoppe, guarda,» era il Civa che lo richiamava al presente,
indicandogli tu o contento la finestra della pros tuta «ha rato su la
tendina, forse è libera.»
«Io non andrei se fossi in lei.»
«Ma… è che muoio dalla voglia di giacere con una bella abissina. A Roma
ho trovato certe fo ne che proprio mi hanno invogliato. Dicono che la loro
figa sia grandissima e che ci puoi perdere dentro. Ah, sarà sicuramente
una sensazione meravigliosa» e cominciò a fischie are.
Poi a un tra o la signorina si affacciò alla finestra e alla vista del Civa
cominciò ad agitare le mani in segno di saluto. Era ves ta di bianco e con
uno strano velo scuro in testa.
«Ma… ma» balbe ò Civa.
«È quello di cui la volevo avver re. Non è quello che si aspe ava di
trovare, vero?»
«Ma… la sua faccia…» disse sgomento il giovane italiano.
«Ha avuto il vaiolo. Capita. Se ne faccia una ragione. Ora si tolga da lì.
Credo che per oggi la lezione le sia bastata.»
Zoppe abbassò bruscamente le tapparelle.
19
Adua

Durante la lezione di storia fui convocata nell’ufficio del preside.


Non era mai successo.
Non avevo fa o nulla di male, almeno non me lo ricordavo.
Era una calda giornata del 1976. Credo fossimo a novembre. A Magalo il
sole picchiava forte. Le piogge ormai un ricordo lontano. «Arriverà una
forte cares a» dicevano i vecchi. Mi tremavano le gambe. Gocce di paura
imperlavano il mio viso ovale. Guardai il preside dri o negli occhi. Nelle
mie pupille una supplica. “Faccia presto.” Ma il preside non parlava, si
limitava a guardarmi e a scuotere la testa. Poi cominciò a giocherellare con
una penna e un foglio. Fece un paio di scarabocchi. Io non distoglievo lo
sguardo, ero come bloccata. Dovevo guardare il pavimento, essere più
umile. Invece la mia pupilla si fissò alla sua. Aveva degli strani occhi verdi.
Non fiatai.
«Suo padre è stato arrestato» disse in tono solenne.
Abbassai lo sguardo. Ora davvero non aveva più senso fissare il preside.
Non volevo vedere la sua espressione di trionfo disegnata sul volto. Il
preside odiava mio padre. Lo odiavano tu gli uomini del nuovo regime di
Siad Barre. Mio padre non nascondeva la sua avversione per il di atore e
per il nuovo corso che aveva preso la poli ca somala: «Ci porteranno alla
rovina ques comunis » con nuava a dire. Hagiedda Fardosa lo pregava di
stare zi o. Ma lui con nuava a parlare male. «Porcheria» e sputava per
terra una saliva densa a dimostrazione di tu o il suo disprezzo. «E alle tue
figlie non pensi?» gli chiedeva Hagiedda Fardosa. «Non pensi al loro
futuro? Pagheranno le tue colpe se con nui a comportar così.»
«Se la caveranno. Sono grosse ormai. Non posso pensare a loro. C’è la
mia coscienza.»
Mi aspe avo quell’arresto. Ce lo aspe avamo tu .
Ero lì in piedi, muta, in a esa di essere congedata. Il preside però non mi
lasciava. Con nuava a giocare con la sua penna, con i suoi scarabocchi.
«Suo padre» disse rompendo di nuovo quel silenzio così amaro «è stato
accusato di insubordinazione. È un’accusa molto grave.» Annuii, stanca di
quella commedia mal scri a. «Non ha la lingua?» fui redarguita e mi
affre ai: «Sì, signor preside, è un’accusa molto grave». Cosa dovevo fare?
Scusarmi? Voleva che mi prostrassi ai suoi piedi? Voleva che mi strappassi i
capelli? Cosa voleva? Poi mi guardò con quella sua pupilla fissa, nera e
vuota. «La tengo d’occhio, sa come si dice? Tale padre, tale figlia.» Fui
lasciata andare e tornai in classe. Nessuno mi chiese perché il preside mi
avesse convocato. Nessuno parlò con me a fine lezione, nemmeno Muna la
Crespa, la mia amica del cuore in quel momento. Nemmeno tu, Muna, parli
più con me? Tu che sei scansata da tu perché sei una geerer testacrespa?
Tu che sei considerata di casta inferiore, una somala bantù dal grande naso
e dalle grosse na che? Anche tu, Muna, mi tradisci così? Ero diventata
improvvisamente una paria. Da evitare. Quando tornai a casa Hagiedda
Fardosa era lì con una faccia più lugubre del solito e delle guance gialle che
ben a estavano lo stato comatoso del suo fegato. «Possiamo vederlo
questo pomeriggio» mi disse. Malika non venne con noi. Stava male. Aveva
vomitato. Non aveva re o alla no zia. Non mi fece pietà. Su Malika non
potevi contare mai, nemmeno nel momento del bisogno. Il centro di
reclusione temporaneo si trovava nel quar ere di Affissione Est. Lontano
da casa nostra. Io e Hagiedda Fardosa camminammo per chilometri tra
sterpi e sabbia calda. Lì il mare non c’era. A dominare il paesaggio solo la
solitudine lunare di una periferia africana. Ti entrava negli occhi e
oltraggiava il cuore. Una volta arriva aspe ammo un’ora davan a un
cancello verde. Hagiedda Fardosa aveva i piedi pieni di sabbia e le unghie
sporche. Io mi misi in disparte a gambe conserte. Mi guardavo le mani. E
cullavo dentro di me il più grande dei segre . La se mana prima grazie a
Omar Genale avevo incontrato degli italiani. Omar Genale. Che po che
era! Era grasso quando nessuno lo era in Somalia. Ora sono tu grassi,
sopra u o quelli della diaspora come me. Affogano la nostalgia in chili di
mostarda e carne fri a. Ma nei giorni della mia adolescenza solo Omar era
grasso in ci à. Aveva baffe aguzzi, il mento schiacciato, gli occhi porcini e
delle tenere fosse e infan li da bambinello Gesù. Aveva sempre una
manciata di sorrisi a portata di mano sopra u o “per le belle ragazzo e
come te, Adua”. Mi faceva tanto ridere quel giovane precocemente
invecchiato. Sopra u o il suo modo di camminare, ricordo, era davvero
buffo. Zompe ava sulle dita come un coniglio. Ma era un salto pieno di
lardo il suo, un salto affa cato dalla mole notevole di ciccia che si portava
addosso.
Omar era dedito a ogni po di traffico. Volevi del burro e te lo faceva
arrivare dire amente da Nairobi. Sigare e francesi, ed eccole qua. Riviste
italiane, non c’era bisogno nemmeno di chiedere. Le massaie si rivolgevano
a lui per la farina. E le ragazzo e come me gli chiedevano musicasse e di
contrabbando. Gianni Morandi, Jackson 5, Stevie Wonder, Omar aveva
tu o. Sapeva come muoversi nella rete intricata dei traffici illeci . La sua
aria bonaria lo aiutava nell’a vità di contrabbando che aveva abbracciato.
Nessuno si immaginava che un uomo così grasso e pesante potesse essere
leggero come una libellula tra gli anfra stre di un regime dispo co. Era
bravo nel suo mes ere, Omar. Era poco raccomandabile, ma era quello che
ci voleva a una ci à stremata come Magalo. «Bravo Omar,» gli avevano
de o gli italiani «ci hai portato la ragazza giusta.» E un altro del gruppo:
«Ha delle belle cosce, la negre a». Naturalmente fu ricompensato. E fu
dato a lui il compito di portarmi all’aeroporto alla data stabilita. «Tu
portacela, al resto, ai documen di espatrio, ci pensiamo noi.» E così
l’accordo fu siglato. Altri soldi furono promessi a Omar Genale. E io mi
sen vo le eralmente al se mo cielo. Erano italiani, volevano fare il
cinema, mi avrebbero trasformata in Marilyn e avrei lasciato quella fogna
di Magalo per sempre. Ma ora stavo davan a un cancello verde a gambe
conserte in a esa di fare visita a un padre arrestato. L’Italia era ancora
troppo lontana. Un vento forte cominciò a scompigliarci le ves . La sabbia
entrava negli occhi, Hagiedda Fardosa lacrimava. Strinsi le palpebre più che
potevo. La mia mente intanto vagava. Una volta dentro cosa gli avrei de o?
Noi non parlavamo mai. Cosa si aspe ava che facessi? Non sapevo amarlo.
E lui non sapeva amare me. Il vento intanto non la sme eva di farci male.
Picchiava duro.
Io strinsi di nuovo gli occhi. Quando aprirono il cancello verde quasi non
me ne accorsi. Fu Hagiedda Fardosa a stra onarmi. Mi rizzai in piedi come
un fiore appena sbocciato. Davan a me c’era un signore in divisa però
senza cappello. Aveva gli occhiali. Non ci disse nulla. Fece un cenno con la
mano e noi lo seguimmo. Il signore era pelato. Aveva una faccia grande e
bu erata. Una faccia crudele di cui avrei fa o volen eri a meno. Mi mise le
mani sul sedere. Guardai Hagiedda Fardosa per avere conforto, ma lei
aveva distolto lo sguardo. Mi andò il sangue al cervello. Mi torturai le mani.
Per fortuna, pensavo, lascerò presto tu o questo. Fra tre giorni non sarò
più qui. Già mi vedevo a Roma, una ci à che conoscevo dai libri. Mi
ripetevo mentalmente i nomi delle sue vie e delle sue piazze: via Sis na,
via Giulia, piazza di Spagna, piazza Navona, via Veneto… Che meraviglia!
Già mi vedevo avvolta in un abito nero Givenchy come Audrey Hepburn,
pronta a spiccare il mio personale volo verso il successo. Ero piaciuta agli
italiani. Mi avrebbero fa o fare un film. Mi avrebbero resa immortale.
Niente più Magalo, niente più miserie, niente presidi che mi convocano o
amiche del cuore che mi tradiscono.
Io e Hagiedda Fardosa fummo introdo e in una stanza dalle pare color
cacca. Il polizio o che ci scortava ci disse: «Aspe ate qui» poi mi lanciò
uno sguardo sporco, ca vo. Non lo registrai nella mia mente. Con la
fantasia stavo altrove. Ero a Roma, a via Margu a, a via del Corso. Poi
arrivò un uomo con una divisa trapezoidale verde. Si presentò come il
dire ore della stru ura. Era più gen le del polizio o, meno volgare. Aveva
dei baffi traslucidi che me evano di buonumore il prossimo. «È una testa
dura suo marito,» disse il dire ore ad Hagiedda Fardosa «lo faccia
ragionare e uscirà presto di qui.» «Ci provo» disse Hagiedda Fardosa
mordendosi un labbro.
Poi fu portato papà.
Era sorridente, in contrasto con quella stanza color cacca. Il turbante blu
che portava sempre in testa era arrotolato senza grazia. Mio padre era più
magro. Gli occhi più intensi. Sembrava felice. Appagato. Guardai Hagiedda
Fardosa. Anche lei non si aspe ava quel sorriso. Avrei voluto baciarlo sulla
guancia. Non l’avevo mai fa o. Come si bacia il proprio padre? Non me lo
aveva insegnato nessuno. A casa nessuno si toccava. Figuriamoci baciare.
Feci un passo verso di lui. Allungai il braccio. Dovevo dargli almeno una
stre a di mano. Un gesto virile, che lui avrebbe capito. Feci un passo, due,
tre, poi inciampai in un mobile o che il mio campo visivo non aveva
registrato. Caddi bocconi. Una caduta ridicola. Da film muto, una roba da
Charlie Chaplin, da Buster Keaton.
Tu si misero a ridere e la tensione si sciolse.
«Ho una figlia maldestra» disse mio padre.
20
Paternale

Non sopporto che mi guardi così, Adua, con rimprovero. Sono io il padre.
Tu sei solo la figlia. Io posso guardar in questo modo, tu no. Tu non sei
nessuno. Senza di me non sares nemmeno nata. Sono cose che fares
meglio a non dimen care. E mi hai stufato con questa domanda su tua
madre. Che vuoi sapere? Me la nomini spesso, bisbigliando. Credi che non
vedo quando parli da sola con l’ombra di quella donna? Nemmeno l’hai
mai conosciuta Asha la Temeraria. Non sai nemmeno che faccia aveva. E osi
parlarle? Adua, che le parli a fare? Sei pate ca certe volte. Non sono né
scemo né cieco. Vedo tu o quello che fai. Ma quella donna, anzi quella
troia, non la devi più nominare di fronte a me. Quella ha scelto di morire, ci
ha lasciato. Non la nominare mai. E anche se sei diventata grande sono
capace di ba er fino a far sanguinare l’anima. Non approfi are del
mio buon cuore. Sono anni che non ba o e non ho intenzione di
ricominciare ora. Ma ecco, sme la di nominarla. Quella donna non è
niente, è solo un errore.
21
Zoppe

I cedri non si spaccavano. Non erano deboli come le fragili papaie o i teneri
manghi. I cedri erano guerrieri, il loro cuore era fa o di metallo e l’intero
fru o sembrava rives to da un’armatura. Era una strana alchimia a tenere
in vita i cedri. La loro anima dolce era infa difesa da una buccia ruvida e
spessa. Era quella a garan re a ques fru del paradiso una vita serena e
senza scosse. I cedri erano più resisten dei limoni, più duri dei pompelmi.
Ideali per farsi colpire dalle pallo ole.
«Vedrai, fratello, sono proprio quelli che cercavamo per esercitarci.»
Semeon era entusiasta di quella trovata. E non la sme eva di tesserne le
lodi. Per lui quegli agrumi ruvidi avevano il vantaggio di non essere troppo
piccoli, ma nemmeno gigan . Avevano quelle che Semeon definiva «le
dimensioni ideali».
«Li ho vis al mercato, giù da Tessa. Fanno al caso nostro, fratello mio,
sono perfe . Sparare a loro sarà come sparare dri o alla tempia del
nemico italiano» gli aveva de o Semeon la prima volta.
E da allora Dagmawi aveva preso l’abitudine di andare fuori ci à, verso la
spessa radura, con la sua bella cesta piena di cedri.
Una cesta e un’arma nascosta so o l’ascella.
Quei fru erano diventa il centro della sua esistenza. All’orizzonte un
futuro da guerrigliero.
Di norma andava da solo alla radura. Ma quel giorno era diverso. Era
venuto a trovarlo Zoppe, il suo amico somalo. Che felicità! Aveva proprio
bisogno di confidargli i suoi tormen . Da quando aveva cominciato a
esercitarsi soffriva. Era come se qualcuno lo stesse mangiando da dentro.
Era bello per una volta avere compagnia, non percorrere quel lungo
sen ero irto di sterpi in solitudine.
Erano cinque anni che non si vedevano. In quei cinque anni erano
diventa uomini. In quei cinque anni le responsabilità erano cresciute sul
loro capo. Zoppe sfoggiava una bella barba da sufi, anche se le mani gli
erano rimaste morbide come quelle di una fanciulla. Erano mani che non
conoscevano il lavoro della terra o la dura fa ca del trames o quo diano.
Di quello Dagmawi, invece, ne sapeva eccome. Era impiegato da più di tre
anni nell’emporio degli indiani Mohamedally e la sua vita era ormai
scandita dai colli che doveva caricare e scaricare. Farina, riso, curry,
peperoncino, cumino, ma anche pellami, carni, legumi, uova.
Da Mohamedally si fa cava e per lo sforzo le sue mani, un tempo
leggiadre, si erano riempite di piccole rughe di sofferenza.
Però anche Zoppe soffriva. Si vedeva dalla fronte corrucciata e dalle
spalle che non la sme evano di tremare.
Dagmawi avrebbe voluto chiedere all’amico il perché di tu a quell’ansia,
però decise di aspe are. Una volta arriva alla radura si sarebbero
confida ogni cosa.
«Ti sembrerò pazzo, caro Zoppe,» disse, quasi ad an cipare la
confessione, «ma ques cedri sono la migliore cosa che mi sia capitata
negli ul mi sei mesi almeno… sì, proprio la migliore. Mi rimangono solo i
cedri per non impazzire. Zoppe, sarò capace di uccidere?»
Zoppe non fiatò. Si limitò a prendere un cedro in mano e a farlo
rimbalzare sul palmo destro.
«E del tuo matrimonio che mi dici? Da quanto mi hai scri o sei sposato
da cinque mesi appena… possibile che ques cedri siano meglio della tua
donna?»
«Sì» disse secco Dagmawi.
Lui amava Tezetà, la sua sposa, ma quei cedri… ah quei cedri… erano il
corollario di qualcosa di più grande, di più assoluto.
Quei cedri erano la prova tangibile dell’amore di un uomo verso la sua
terra.
*
Zoppe aveva già dimen cato i cedri. Il suo animo lo aveva riportato alla
visione che lo aveva colto all’alba, parecchie ore prima.
Quella no e non aveva quasi chiuso occhio. I lamen di un cane ferito in
lontananza lo avevano tenuto desto.
Aveva chiesto al conte Anselmi la giornata libera e stranamente il conte
non aveva posto nessun diniego.
«Tanto so che non scapperai. Non puoi. Allora godi pure una giornata di
completo ozio,» e poi, ammiccante, gli aveva fa o l’occhiolino «i bisogni
corporali vanno asseconda . Queste piccole e opi sono come il buon vino
delle colline, basta mezzo fiasche o per star bene per i dieci anni
successivi.»
Inu le spiegare a quel lascivo del conte che non andava a cercare una
donna. Non che non gli mancasse l’alito dolce di una femmina… Al paese,
appena fosse tornato, avrebbe trovato Asha la Temeraria ad aspe arlo. Lui
amava Asha. Aveva promesso a se stesso, all’ombra di un sicomoro, che
l’avrebbe fa a sua. E Zoppe era un uomo di parola.
Gli mancava quella sua sposa promessa. Donna dalle grandi na che e
dalla risata contagiosa. Asha la Temeraria, afar indo come la chiamava il
vicinato, per via di quegli occhiali dalla spessa montatura di tartaruga che
un medico turco le aveva raccomandato di indossare.
Ma quella ma na il pensiero di Asha era stato spazzato via da una
visione. Una bru a visione.
I dintorni del mondo avevano cominciato a farsi frastaglia e opachi. Gli
occhi lacrimavano. La bocca era diventata improvvisamente secca. E la
lingua si era fa a rigida, quasi morente.
La visione arrivò prima che lui uscisse dall’albergo.
Vide alcune casupole di legno bruciare. Riconobbe quel posto. C’era stato
con Hagi Safar in uno dei suoi viaggi. Il padre andava lì per guarire i
bambini dai loro demoni. Era così che aveva conosciuto Dagmawi e la sua
famiglia. Il padre aveva guarito il suo amico dal malocchio. E da allora i due
ragazzi erano diventa inseparabili. Hagi Safar amava quel paese, amava
quella gente. «Qui un tempo c’era il regno di Bilqis, quella che i gaal
chiamano la regina di Saba. Se siamo al mondo, figliolo, lo dobbiamo a lei.
Per questo vengo spesso in questa terra straniera. Mi ricongiungo con
l’anima dell’an ca regina.» Amava quella terra, Hagi Safar, e gioiva di poter
dare una speranza a quella gente senza futuro. Lì tra i poveri, l’Africa
orientale superava le sue differenze. Lì si annullavano tu e le divisioni.
Quel grande quar ere Zoppe l’avrebbe riconosciuto tra mille. Quanto
tempo ci aveva passato da bambino, scorrazzando nel fango con Dagmawi
e il piccolo Semeon. Il quar ere si trovava fra Sidiskilo e il vecchio mercato.
Lì suo padre era rispe ato e venerato. Vedere quelle capanne bruciare fu
un dolore immenso per Zoppe, che si accasciò come un cencio sulla soglia
del portone. Nella visione tu o veniva dato alle fiamme. Vide divise brune,
zigomi ra , occhi a cipolla, pelle rosa, cadaveri neri.
Poi la visione, com’era arrivata, sparì nel nulla.
Si sciolse al primo sole del ma no, senza lasciare nessuna traccia, tranne
che nel suo cuore di uomo.
*
«Ecco la radura, caro Zoppe. Siamo arriva » disse Dagmawi.
Fu proprio allora che un vento infido cominciò a soffiare da ovest.
In un a mo la pelle di Zoppe diventò dura e ciano ca.
Tu o era pia o e vuoto.Qualche arbusto qua e là. Qualche animale
solitario.
I cedri in quel panorama lunare sembravano veramente il paradiso.
Dagmawi ne prese uno in mano. Era giallo, ovale e con una leggera
protuberanza al peduncolo. Lo toccò. Ebbe quasi un brivido. Era così simile
al capezzolo di una donna.
L’uomo cominciò a giocherellare con il suo cedro passandolo da una
mano all’altra. Sul suo viso un’espressione sospesa. Parlava con il suo
cedro, lo blandiva. Voleva carpirne i segre più recondi , succhiarne la
saggezza prima di distruggerlo. Poi lo strinse con fare deciso e lo lanciò
lontano. «Bella curva» gridò Zoppe. Ma Dagmawi non sen va, Dagmawi
sparava.
Un silenzio asfissiante foderava i mpani come seta. C’erano solo i cedri e
la loro implacabile sete di vende a. Tu o arrivava a u to e soffice.
Soltanto lo sba ere d’ali degli orridi marabù strideva con le nuvole del
cielo. Il loro gracchiare era dovuto a qualche carogna odorata nelle
vicinanze.
Dagmawi non amava i marabù. Erano segno di sciagura. Ne aveva vis
mol nel suo lavoro. A volte capitava qualche par ta di carne avariata ed
era compito suo portarla il più lontano possibile dall’emporio. Quelle
bes acce aspe avano che le carni imputridissero e, quando dalle carcasse
fuoriuscivano i primi vermi, si lanciavano in volo su quello che un tempo
era stato vivo. Non si spaventavano di nulla, nemmeno della sua presenza,
nemmeno del suo forcone.
Dagmawi guardò Zoppe. «Quando avrò bombe vere in mano, riuscirò ad
avere altre anto coraggio?»
«Forse» rispose dubbioso Zoppe.
«Gli italiani ci annienteranno, vero?» lo incalzò Dagmawi.
«Hanno armi moderne» rispose senza sbilanciarsi.
Zoppe, per distrarsi, prese anche lui un cedro in mano. Era tondo,
luccicante, invitante come poche cose al mondo.
Il cedro gli ricordava le curve della sua Asha.
Cominciò a sbucciarlo. Lento. Poi lo mangiò.
22
Adua

«Non ves bene.»


Così mi ha de o stama na il ragazze o che sfamo.
Dovrei dire “così ha de o mio marito”, ma passano i giorni e lo sento
sempre meno un marito, sempre più un peso.
Non riesco più a volergli bene e a rispe arlo come prima.
D’altronde anche lui non mi ama più. Non mi amava nemmeno quando ci
siamo sposa , a dir la verità, ma almeno era gen le, premuroso. Il
manigoldo ci ha sempre saputo fare con l’allocca che sono. Ha recitato alla
perfezione la parte del prove o cavaliere e io mi sono le eralmente sciolta
davan a queste sue finte profferte d’amore. Sapevo – anche perché non
sono scema – che non è mai stato animato da sen men auten ci per me.
Era chiaro che fosse a rato più dal giaciglio, dalla zuppa calda che gli
offrivo che dalle mie grazie ormai spente. Ma nonostante tu o ho
acce ato quella finzione, perché era l’unica cosa al mondo che ancora
riusciva a darmi un po’ di calore, un sussulto di vita. Con lui ho afferrato
almeno in parte quei miei ridicoli sogni di ragazza. Per questo ho finto di
credergli – l’ho fa o per quella ragazzina del passato – e così senza difese
mi sono ge ata tra le sue braccia come una bes olina infreddolita. C’è da
dire che quel bastardino ci ha sempre saputo fare con me, in questo è stato
sempre pieno di talento. Non a caso fingeva come nessuno di essere il più
innamorato tra gli innamora , il più devoto tra i devo . I suoi occhi erano
così buffi e falsi. Così allegri e menzogneri. Io ridevo di ques suoi sforzi,
ma so o so o ne ero anche un pochino lusingata. Mi piaceva, da buona
schiavista, vederlo prostrarsi ai miei piedi e chiedermi in cambio solo poche
briciole d’amore. Da padrona magnanima gli ge avo quel po’ che gli
bastava per adorarmi. Non un’oncia di più né una di meno. Sapevo dosare
il mio potere o quel che, povera stupida, credevo tale. E lui sapeva essermi
falsamente devoto. C’erano giornate, sopra u o in quelle striate di linee
grigie e minacce, in cui lui mi accoglieva con un sorriso meraviglioso e se mi
vedeva par colarmente stanca mi massaggiava solerte i piedi sofferen .
A volte mi cantava delle canzoni piene di amore.
«Per la mia bella, per il mio tesoro» diceva lui.
Improvvisava bouquet di carta con cui mi dovevo ornare il bel vise o.
Io di queste mollezze sen mentali ridevo. Trovavo così ridicole tu e
quelle roman cherie adolescenziali, quei pensieri dipin di rosa che non
mi erano mai appartenu . E che, a ben vedere, non appartenevano
nemmeno a lui. Da quando in qua due somali, per di più con un passato
nomade come il nostro, si regalavano dei fiori color melassa?
Noi che avevamo conosciuto la fame, le separazioni, le sofferenze che
cosa diavolo ci avremmo fa o con un fiore?
Glielo dissi.
I fiori non erano della nostra cultura, che la sme esse con quelle
smancerie occidentali copiate da chissà dove.
Ero dura, affinché lui diventasse ancora più dolce con me. Volevo che
smussasse tu e le mie asperità, coccolasse il mio io ferito, colmasse i miei
dissidi culturali.
Di solito lo faceva. Ma accadeva anche di sen rmi dire, da quella sua
boccuccia da vipera, verità che non ero disposta ancora ad ascoltare.
Una volta, non ricordo più se fosse di ma na o di pomeriggio, mi chiese:
«Da giovane non hai amato mai, vero Adua?». Aveva messo su una faccia
seria seria. Ne ebbi paura.
Ricordo che lo guardai un po’ storta, un po’ offesa. Come osava
giudicarmi, il pivello? Come osava ferirmi con quelle parole appun te? Si
era forse dimen cato che ero stata io ad averlo raccolto per strada e
nutrito?
Che ne sapeva quel fanciullino imberbe della mia adolescenza? Che ne
sapeva di quanta sofferenza avevo rinchiuso dentro il pe o?
Mi chiusi in una cupola di silenzio. S zzita. Furiosa.
Ma durò poco. Non riesco mai veramente ad arrabbiarmi con lui. Di solito
basta una sua piccola stravaganza per far riapparire sul mio viso un grande
sorriso splendente.
Ed era allora che lui, da perfe o Lancillo o, si me eva in ginocchio
davan a me e con le mani giunte sul pe o cominciava a salmodiarmi le
poesie d’amore che la sua povera madre parali ca gli aveva insegnato una
no e, per distrarlo dalle bombe che cadevano come grandine sul loro capo
scoperto. Era jidaal, la stagione che nulla porta e nulla risparmia, ma quel
piccolo pe o di bambino fece presto a riempirsi come un otre delle
chimere di sua madre.
Ah, quanto mi piacevano quelle poesie dove prodi cammellieri salvavano
fanciulle al pascolo dalla ferocia insaziabile delle iene. Mi rivedevo in ogni
fanciulla e il mio cuore palpitava in ogni cuore.
«Recita, recita ancora, piccolo mio» gli in mavo. E lui con la sua voce
limpida e chiara dei giorni migliori mi trasportava in un tempo prima di
ogni tempo, dove nemmeno i sogni avevano ancora una casa.
Ora, invece, nulla di tu o questo accade più tra noi. Quel debosciato di
un Titanic se ne sta spaparanzato davan alla tele quasi tu o il giorno.
Mi chiedo quando mi lascerà.
Ormai non mi chiedo più “se”, ma più realis camente “quando”.
Quasi non ci sfioriamo più.
Credo si sia stufato del mio ventre sterile.
Ogni sua cellula, lo sento, lo spinge a gran voce a farsi una discendenza.
Oggi mi sono chiesta se quel «Non ves bene» che mi ha urlato
ferocemente in faccia non sia altro che l’inizio della nostra fine.
Che paradosso! Io, la splendida, oggi mi vesto come una sgua era.
Mi ricordo come da giovane portai il sole in Italia, in questo cratere di
illusioni che mi avrebbe mangiato.
Eravamo nel Ventesimo secolo ed io ero la più bella del reame.
Arturo Spose – il regista del film di cui sono stata la protagonista, quel
Femina Somala che fu campione di incassi nell’anno di grazia 1977 – me lo
diceva sempre che ero la più bella. Arturo aveva una grossa pancia che mal
si accompagnava alle esili braccine da bambino rachi co che si portava
dietro. Sulla faccia nessuna peluria. Era liscio come una ragazze a.
Sembrava un ippopotamo con quell’aria da addormentato. Fumava la pipa.
Ricordo che mi piaceva tanto quell’odore pungente di tabacco che
percepivo quando stavo accanto a lui. Rideva poco. Stringeva gli occhi
come i bradipi. E per ogni cosa mi dava pacche da marinaio sul sedere. Lo
faceva però svogliatamente. Si piegava al ruolo di maschio che il des no gli
aveva cucito addosso. Ma tu o nei suoi ges era poco convinto.
Non sembrava che la vita lo interessasse poi così tanto.
Però si entusiasmava per le mie stoffe somale. Andava pazzo per le mie
tuniche.
«Questo ves to che indossi è splendido. Lo voglio nel manifesto del film»
mi disse con quel suo sorriso vacuo.
E infa ho una tunica somala nel manifesto, ma tagliuzzata ad arte per
lasciare scoperte le gambe, quasi fino al pube.
E per rendere ancora più selvaggio il tu o Arturo mi fece fare la foto
appollaiata come Jane di Tarzan sopra un grande baobab di plas ca.
L’idea dell’albero era venuta a Sissi.
Tu e le idee stravagan erano le sue.
E fu di fa o Sissi, la moglie di Arturo, a scegliermi per quel film.
«È stata lei a voler . E, in generale, è stata lei a insistere per volere una
somala.»
Avevano sganciato un bel po’ di biglie oni per farmi o enere un
passaporto, un visto, un biglie o aereo. E la dogana somala non fiatò. Sissi
mi voleva a tu i cos . Ma in fondo costavo ancora molto poco a quella
produzione. Io li ringraziai scappando di casa con le mie stoffe migliori.
Non salutai nessuno, nemmeno Muna la Crespa, la mia ex amica. Avevo
troppa paura di tradimen dell’ul mo minuto. Non volevo essere
riacchiappata da un padre furente e da una comunità solidale. Nel silenzio
quindi mi feci ingoiare da un boeing Alitalia che faceva scalo a Addis Abeba.
«Ci farà ricchi, la negre a» e per festeggiare a bordo dell’aereo mi
cantarono cento volte Facce a nera, scuotendomi le lunghe braccia
indolenzite dal peso del mio sacco di fuggi va.
«Mio padre durante la campagna d’Africa aveva comprato una moglie
delle tue par » mi disse Sissi quella prima sera in aereo. Mi limitai ad
annuire aspe ando il seguito di quella storia che non arrivò mai.
Sissi quel padre non lo nominò più.
In generale gli Spose non parlavano molto.
Non mi dissero nemmeno molto del film, a dir la verità.
Sapevo solo che la protagonista si chiamava Elo e faceva la fotografa.
«E il copione quando lo leggerò?» chiedevo.
Non ero analfabeta e quel copione non vedevo l’ora di leggerlo.
Ma niente, loro non si sbo onavano.
E fu così che per mol giorni, addiri ura se mane, vissi nell’ignoranza.
Elo… chi sei, Elo?
Yaa tahay?
Mi chiedevo che viso le avrei dato. Che tonalità di voce. Che postura, che
ges .
Nessuno mi aveva ancora de o che Elo si spogliava nuda e si donava agli
uomini come una cagna.
Poi una sera Arturo e Sissi mi dissero tu o. E me lo dissero brutalmente.
Era maggio. Sì, maggio.
Era una sera gelida, una strana sera gelida per essere la no e di una
primavera italiana. Io ero troppo leggera per l’occasione. Avevo addosso
una tunica perché Sissi aveva tanto insis to, perché mi aveva de o:
«Stasera devi essere bellissima per noi». Un delicato velo, per l’occasione,
mi copriva con levità le spalle scoperte. Tremavo dal freddo, ma cercavo di
non darlo a vedere troppo. Eravamo in una ci adina di mare vicino Roma,
non ricordo più quale, la banchina era vuota e la pizzeria dalla quale
eravamo usci stava chiudendo. Un vento insidioso faceva sussultare le
nostre anime scoperte e una strana luce scin llava da una finestra lontana.
«Guarda che luna stasera» disse Arturo rivolto a sua moglie.
Lei non gli rispose. Disse solo: «Perché non ci por alla nostra casa al
mare? Così la facciamo vedere a Adua».
Io ero stanca. Avrei voluto bu armi a le o a dormire, chiudere gli occhi e
addormentarmi per qualche secolo. Ma Sissi mi ghiacciava il sangue e così
finsi un entusiasmo che quella sera proprio non avevo.
Sissi, lo capisco ora a distanza di tempo, era di una bellezza perfida che
poteva fermare il ba to di un cuore troppo fragile come il mio. Non
perché fosse bella, ma perché c’era in lei un’ansia di controllo difficile da
evitare. Quella sera aveva i capelli a casche o tu arruffa , una camice a
casual, un paio di jeans e ai piedi un tripudio di perline e lacce di cuoio
che le fasciavano i grossi piedi. Il viso era acceso da una luce intensa e il
sale e pepe dei capelli faceva da contraltare al verde intenso dei suoi occhi
ovali.
Il naso era regolare, il fisico robusto, i seni debordan , ma nonostante
questa mole non era una persona grassa. Le mani erano grandi, anche se le
spalle stranamente minuscole. Notai con occhio esperto che rinforzava
quel suo dife o con delle spalline dimesse, che davano una certa
omogeneità a quelle sue contraddizioni corporee.
Fu lei a chiedermi: «Ti stai annoiando?».
«No, cara» dissi con la mia vocina fioca di allora.
«Bene» disse lei sollevata. «Ci sarà una bella sorpresa.»
Arturo invece non parlava. Non era un uomo di molte parole. Di solito
bofonchiava e quando non era impegnato a bofonchiare fumava la sua
pipa.
Quando arrivammo alla casa al mare, mi offrirono uno scotch.
«Non bevo» dissi. Era vero.
«Un goccino non può far niente di male, è una festa.»
Fui colpita di nuovo da quella paura. La voce di Sissi mi gelava l’anima.
Non avevo la forza per dirle no.
Bevvi.
E loro, furbi, mi diedero di tu o. Vodka, whisky, vino, gin. Mischiando in
quan tà esagerate.
Mi ubriacai subito.
E io, che non sapevo dire no a quelli che consideravo i miei benefa ori,
tracannavo e tracannavo, con un sorriso ebete stampato in faccia.
“Mi hanno tolto da quel buco di Magalo, mi fanno fare un film come
Marilyn, mi vogliono bene.” Pensavo allora.
E più avevo voglia di dire no, più tracannavo quei bibitoni osceni perché
la mia testa si rifiutava di mollare quella Elo che mi avrebbe reso famosa
come Marilyn.
«Se te ne vai, la parte la daranno a un’altra» mi diceva la mia testa che
calcolava ogni sacrificio tollerabile per essere Marilyn.
Sapevo che miravano al mio corpo.
Non ero così ingenua.
Sapevo che prima o poi avrei dovuto pagare quella tassa.
Un’amica mi aveva preavver to.
«Ti chiederanno il tuo corpo. Gli italiani con mia nonna hanno fa o così.
Non credo che ques siano così diversi, sai? Devi solo capire se vuoi pagare
questo prezzo o no.»
Per diventare Marilyn avrei pagato qualsiasi prezzo.
O almeno così pensavo allora.
Non sapevo che mi avrebbero preso tu o. Anche la dignità.
Mi feci toccare, palpare, odorare.
Le loro mani erano furen , i loro ali pesan .
Lei ordinava e lui eseguiva.
Poi lei lo baciava e lui mi strizzava le te e.
Andò per le lunghe. Mi sen vo tu a un livido.
«Ti s amo insegnando, Adua» mi disse ad un certo punto Sissi, quando
spossatezza e alcol rischiavano di farmi svenire.
«Insegnando?» dissi.
«Lo dovrai ripetere nel film.»
«Nel film?»
«Sei goffa. Impacciata. Ti abbiamo osservato. Nessun uomo hai mai
toccata, vero Adua?»
Ero ciucca. Non riuscivo nemmeno a rispondere.
Volevo gridare. Ma ero troppo debole. Troppo.
Chissà se è successo anche a Marilyn questo.
Marilyn, così dolce e così cinica. La leggenda metropolitana racconta che
una volta o enuta la targa movie star sul camerino abbia de o ridendo
sguaiatamente: «Adesso lo farò solo con chi mi piace». Niente più fella o
per o enere un provino, niente più svel ne nell’ascensore per arrivare a
quel regista.
Marilyn il suo posto nello star system se lo era guadagnato.
E io?
Avrei avuto il coraggio di andare di fella o in fella o per afferrare il mio
sogno?
Non sapevo darmi una risposta. Ero troppo ciucca.
E fu allora, mentre ero persa nei miei pensieri, che lei gli ordinò: «Adesso
spogliala, Arturo!». Lui mi guardò con uno sguardo obliquo, vacuamente
imbarazzato e sciolse con un gesto il nodo della mia tunica.
E per la prima volta fui nuda davan al mio regista.
«Arturo, è tua, fanne quello che vuoi» disse Sissi con quella sua voce dura
da generale che mi gelava il sangue.
E fu allora che Arturo si accorse della cucitura.
«Questa è tu a chiusa so o» disse alla moglie.
«Chiusa?»
«Sì, è come se fosse a raversata da un filo spinato.»
«Ma che dici, Arturo?» E anche lei, che prima si era limitata a dare ordini
da un divano di piume, saltò sul le o, tu a scarmigliata, per vedere quello
strano filo spinato che aveva la loro somala in quel punto così delicato.
«Ehi Adua, che hanno fa o qui so o?»
Non rispondevo. Ero piena di sonno.
«Rispondi, gallina. Che hanno fa o qui so o?»
Non rispondevo. Non ne avevo la forza.
Quasi non sen vo le loro parole.
Fu allora che Sissi mi schiaffeggiò una, due, tre volte.
«Allora, te lo ripeto, cosa hanno fa o qui so o, scema?»
E fu allora che le dissi: «Lo fanno a tu e al mio paese. Ci tagliano il sil,
quello che penzola. Ci tagliano anche altra roba lì so o. Certo fa male, ma
poi ricevi un sacco di regali e quello è bellissimo. Io ho ricevuto una
conchiglia. Ci cuciono poi. Così siamo pure, siamo vergini e lo saremo fino
al giorno del matrimonio, fino a quando qualcuno non ci amerà e ci aprirà
con il proprio amore» risposi piagnucolando.
«Amore?» mi apostrofò lei. «Che parola inu le.»
«Non serve l’amore, stupida. Bastano un paio di forbici per aprir . E poi
finalmente Arturo potrà assaggiare.»
Forbici?
Aveva de o forbici?
Provai a divincolarmi… a pregarli. Ma erano in due, erano più for di me,
anche più lucidi.
E fu così che in quella strana no e di maggio fui sverginata da un paio di
forbici.
Chissà se a Marilyn è successa la stessa cosa.
Chissà…
23
Paternale

Dove hai trovato quella fotografia? Frughi nei miei casse adesso, Adua? E
che cosa vuol dire che vuoi una spiegazione?
Io non darò nessuna spiegazione e nemmeno dirò chi sono quei
bianchi nella foto. Guarda che l’ho capito dove vuoi andare a parare.
L’ho capito che me in dubbio il mio essere stato un patriota e un
nazionalista. Pensi che s a recitando. Anche tua madre pensava la stessa
cosa. Sempre a me ermi in dubbio, a non voler darmi fiducia. Sembra
ancora di sen rla quell’oca di tua madre. «Caro, perché non mi dici la
verità? Tanto tu in quel periodo hanno lavorato con i bianchi.» Credeva
che fossi un traditore, un infame. Non mi amava, tua madre. Pensava di me
il peggio. E poi, piagnucolando, invocava una verità e mi dava così sui nervi
quando diceva che per lei era lo stesso. Come fa a essere lo stesso? C’è una
bella differenza fra tradire la patria e comba ere per la patria. Ma tua
madre diceva «Io amo» e per lei quella parola appianava tu o. Era
un’oca, una credulona, una scema. E pure una testarda. Sempre lì a
chiedermi del mio passato, dei bianchi, delle guerre che ho a raversato.
Era un’impicciona. E ora tu fai la stessa cosa? Voi donne siete impossibili.
Creature dell’inferno siete. Non vi sopporto.
24
Zoppe

L’uomo aveva gli occhi buoni, una lunga barba e delle grosse orecchie da
elefante.
L’uomo se ne stava chino tu o il giorno su dei grossi fogli. Passava ore a
scarabocchiare il mondo. Disegnava alberi, farfalle, moscerini, ragazze. Il
suo regno era il cor le dell’albergo Douce France, non gli interessava girare
come gli altri ospi . Non c’era nessuna ansia nei suoi ges . Zoppe lo
invidiava. Anche a lui sarebbe piaciuto stare seduto lì a non far niente. E
invece doveva correre da un punto all’altro di Addis Abeba con il conte
Anselmi. In quei giorni la loro a vità era diventata frene ca. E a Zoppe, a
forza di tradurre, la lingua gli si era seccata in gola. Traduceva, ma perdeva
il senso delle parole. Era come se i pensieri gli sfuggissero via in una nuvola
di tempesta. Ma quel giorno il conte era ammalato. «Mi gira la testa,» gli
aveva de o quella ma na «non vorrei fosse febbre, mi vado a distendere
un pochino.» Zoppe ne fu felice. Non ce la faceva più a correre per la
fangosa Addis con le sue scarpe vecchie e si augurò che quella febbre
durasse il più a lungo possibile. Fu così che quella strana ma na si ritrovò
nel cor le con l’uomo con le orecchie da elefante.
Lo guardò come se fosse la prima volta.
C’era qualcosa di così familiare in quella figura china sui fogli da disegno.
Come se si fossero già conosciu . La sua pelle era giallognola. Una pelle
puntellata di strane gocce marroni e di uno strato so le di polvere rosa
che Zoppe non si sapeva ben spiegare. Non riusciva nemmeno a capire da
dove venisse quello strano uomo. Sembrava emerso dalle viscere di un
cratere. C’era in lui qualcosa di an co e allo stesso tempo conosciuto.
L’uomo lo guardò e poi gli disse in una lingua che sapeva bene: «Mi
piacerebbe far un ritra o».
Che fare?
Zoppe sapeva in cuor suo che doveva fuggire da quella richiesta. Doveva
dire: “No, grazie”. “No, non mi va.” “No, mi fai paura.” “No, non voglio.”
Invece disse sì.
Non seppe resistere alla bontà di quegli occhi così familiari.
*
Dopo tre ore il disegno era finito.
«Posso vederlo?» chiese Zoppe.
«Preferirei di no.»
«Ma… ma come? Sono rimasto immobile tre ore, per te.»
«Il disegno farà male.»
«Fai giudicare me, acciden » disse Zoppe con un tono arrogante che non
aveva ancora mai usato in vita sua.
L’uomo gli fece cenno di avvicinarsi.
Zoppe guardò. Poi svenne.
*
La no e sognò il disegno. Da una parte c’era un uomo con un turbante blu
e la faccia deformata da una cicatrice a forma di uovo che lo rendeva
stranamente feroce. Stava scagliando un giavello o. Le sue braccia erano
muscolose. I suoi ges coordina . Era quasi bello in quel movimento
atle co. Dall’altra parte c’era un elefante. Grandi orecchie, grande
proboscide. Anche l’elefante in un certo senso gli assomigliava. Sapeva che
quel giavello o stava per colpire proprio lui. Zoppe notò qualcosa negli
occhi della bes a. Qualcosa che conosceva bene, si chiamava terrore.
*
Non trovò nessuno seduto so o il baobab della Douce France. L’uomo
giallognolo era sparito. Chiese agli altri servi se lo avessero visto. Nessuno
ne sapeva nulla. Un ragazzo di nome Hamid, originario di Harar, gli disse:
«Nessun uomo si è mai seduto so o quel baobab. Ieri ci sei stato solo tu lì
so o e nessun altro. Quell’uomo te lo sarai sognato, amico mio».
*
Quella sera Zoppe si ricordò delle parole di sua zia Bibi, l’indovina. «La
nostra coscienza» diceva «ha un viso.»
*
Fu così che Zoppe si mise con le gambe conserte sopra il le o ad aspe are
che qualcosa succedesse.
L’uomo giallognolo non tardò ad arrivare.
Aveva sempre le orecchie da elefante. Ma la pelle era diventata più scura,
più pastosa.
«Non capisco,» disse subito Zoppe confuso «chi diavolo sei?»
«Sono te. Possibile che non mi riconosci? Possibile che tu confonda fino
a questo punto?»
Fu in quel momento che Zoppe si ricordò di avere le orecchie da elefante
e la pelle puntellata di macchie. Si ricordò anche che quando era
angosciato disegnava. Me ere linee e curve su un foglio lo aveva sempre
aiutato a placarsi. Quello che non capiva, Zoppe lo disegnava. Quell’uomo
giallognolo era la sua coscienza che prendeva corpo. La zia Bibi glielo aveva
sempre de o: «La nostra coscienza ha un viso».
25
Adua

Sono nuda…
Con la sabbia che mi ricopre come oro…
Issata su un albero in a esa di essere divorata…
La bocca carnosa resa ancor più desiderabile dal gloss…
Sopracciglia tese, da ga a, ben definite…
Una ma ta nera marca gli occhi e, chissà, forse il desiderio…
La frangia allisciata da una piastra carnivora…
Fasce mul colori per le scene in spiaggia…
Un tocco di lacca e mi sento più spumosa…
E poi perline, ovunque, sul corpo…
Sdraiata su una pelle di vacca mi mostro oscenamente a un mondo
ignaro. Lui intanto sbraita: «Stringi di più le gambe, baby, non far vedere la
peluria, non ancora, custodiscila». E poi dopo un a mo: «Ora spalancale,
come le finestre di prima ma na». Lui ha la voce roca, cavernosa. Lui mi fa
paura. Lui è il regista del mio film, però. È il mio padrone, mi ha comprato
per pochi spiccioli ai saldi laggiù in Africa orientale. Non posso
contraddirlo. Quindi annuisco, ubbidiente, passiva come si addice a quelle
senza protezione come me.
Le mie unghie sono affilate come gli ar gli di una fiera leonessa.
La manicure mi ha de o: «Con queste non spezza nessuno».
L’esperienza non le ha insegnato che le unghie delle a rice e si rompono
presto? Lei lo dovrebbe sapere meglio di chiunque altro.
Le mie unghie si spezzano, milady. E a volte anche il cuore si spezza.
Graffio, mordo, scalpito.
Tu o dura un a mo però. Il tempo di un ciak. Di un ripensamento.
«Ora sii più languida, baby» mi viene ordinato dal regista.
«Muovi quelle anche, su, fai la brava.»
E io faccio la brava. Perché quello è il mio compito di a rice. Sono una
professionista, penso. Mi beo dentro questa menzogna.
«E ora fai roteare i polsi… sì così, come un’odalisca nell’harem del pascià.
Fa prendere dalla danza, baby, e poi lenta avvicina a lui, sei una
pantera, baby, ricordatelo. E ora bacialo, sì, bacialo con passione.»
Armando puzza di aglio, ma io devo far finta di amarlo, far finta che sia
l’unico mo vo della mia esistenza.
Mi avvicino e sento la vodka. Ma so che da copione mi devo avvinghiare a
lui come una ga na. Eseguo come un caporale. Non ho altra scelta. Sta
scri o sul copione. Lui mi abbassa la testa, autoritario.
«Hai visto quanto sono brava? Nemmeno un lamento, boss» dico al
regista.
Ma non mi risponde più nessuno.
Il set è stato smontato forse?
Dove mi trovo?
E il mio film dov’è?
Chi sei tu, uomo che puzzi di vodka? E cosa sono ques mobili di mogano
a orno a noi?
Dov’è la spiaggia tropicale che abbiamo reinventato qui a Capoco a con
delle palme finte? Dov’è la troupe? E la mia truccatrice? Quella grassona
che ogni due secondi mi deterge e mi asciuga il sudore dalla fronte? E
quelle maniache delle costumiste che controllano ogni piega del mio
ves no smunto?
Dove diavolo sono anda tu ?
Io indosso ancora il mio ves to di scena. Sono ancora truccata come una
ba ona.
Ma poi mi ricordo, tu o mi ritorna alla mente in un lampo di dolore.
Non sono più sul mio set. Abbiamo staccato alle cinque. Mi hanno
portato invece in una casa di ricchi al centro di Roma, vicino a una piazza
famosa.
È stata Sissi, sempre lei, sempre quella rovina di donna, a dirmi con quel
suo tono da finta suorina: «C’è una cena a casa del distributore, sai quel
magnate che ci ha dato parecchia grana per realizzare il film… ecco sì, ci ha
invitato. Vuole vedere te», e io sprezzante: «Me?». Ricordo di aver avuto
sempre quel tono di voce acido con Sissi, in fondo non riuscivo a
perdonarla per quello che mi aveva fa o. «Allora c’è che ci devi andare e
devi fare la carina con lui.» «Carina?» ho chiesto io con un certo sgomento.
«Vuoi diventare una star o no? Allora devi fare la carina, cocca, se no le tue
stelline te le scordi», «Me le scordo?», «Sì cocca, e me un bello
stracce o addosso, è una cena elegante», «Tanto elegante?», «Elegante al
punto giusto, vedrai.»
Alla festa siamo quasi tu e donne, tu e con stracce inesisten a
coprire malamente i nostri sospiri. Tu e poi abbiamo un sorriso di plas ca
che ci deforma la faccia.
Siamo more, bionde, rosse, ce n’è una con i capelli viola, «È una
stravagante» mi dice qualcuno sussurrando. Hanno reclutato anche
un’orientale, forse una giapponese o una coreana, e poi naturalmente ci
sono anch’io, una goccia di cioccolato su un doppio strato di panna
montata.
Lui si è avvicinato a me e mi ha de o: «Allora sei tu la negre a di Arturo.
Non male. Hai la coscia lunga. Mi piacciono quelle con le cosce lunghe».
Ho guardato Sissi. Ero allarmata.
Mi sen vo così sporca. Così vuota.
Sissi mi ha spinto verso di lui e mi ha de o: «Ti darà ordini come Arturo
sul set, tu eseguili, sarà facile».
Ci inoltriamo in un lungo corridoio io e quell’uomo che a stento mi arriva
alle scapole. Il po mi ene la mano sul sedere, un po’ come faceva Arturo
i primi giorni di riprese.
«Quan anni hai?» mi chiede il magnate.
«Ven » mento.
«Cifra tonda, come tu e, maggiorenne quindi… anche le altre lo sono
sempre.» E poi dopo una risata sommessa aggiunge: «De o tra noi fai
bene a non dire diciasse e, porta male il diciasse e» e mi fa un occhiolino
complice.
Non so che dire. Annuisco tanto per fare qualcosa.
«Me questo, vai di là» ordina.
È un costume da infermiera. Non capisco a cosa serva. Ma lo indosso,
senza fiatare. Non mi va di contraddire quell’uomo calvo e con l’alitosi.
«So o però non me er niente, a me piace la carne libera.»
Eseguo.
E poi senza tan preamboli mi fa inginocchiare davan a lui.
«Dopo presenterò agli ospi come la cugina di qualche sceicco.»
E dicendo così mi ra i capelli, mi guarda, mi fa male e poi mi spinge
verso le sue par basse.
Non è vecchio. Quanto avrà. Cinquanta? Cinquantacinque anni?
Ma si comporta da vecchio. Non ha fantasia. È un prepotente. Non sa
maneggiare una donna. Forse non ne ha mai saputo corteggiare una.
Trema. Ha il fiatone. Ansima.
Il suo sudore mi gocciola in capo.
Anch’io tremo.
Dal disgusto che ho di me.
Vale la pena, Adua, tu o questo schifo per una stella, per un camerino,
per dei film di cui non importa niente?
Vorrei chiederlo a Marilyn, ma lei è morta, crepata male, come tante,
troppe a rice e con più te e che talento.
Vorrei chiederlo a Muna la Crespa che è rimasta in Somalia. Lo so già cosa
mi direbbe: «Non fare la santerella, Adua,» e poi avrebbe aggiunto «devi
capire se vuoi pagare questo prezzo o no».
Volevo pagarlo o no? Non lo sapevo. Il prezzo mi sembrava troppo alto e
la merce del tu o scadente.
Ero confusa.
So solo che Marilyn è crepata male. Ma almeno Marilyn un briciolo di
talento ce l’aveva.
E io? Io ce l’ho?
Ma il talento mica l’ha salvata a Marilyn. È morta sola. È morta male.
E io? Morirò male?
Chi salverà me, mi chiedo. Vorrei gridare questa domanda. Mi manca il
coraggio.
Il magnate è già in posizione come un corridore ai blocchi di partenza.
«Vieni» mi ordina.
Per la seconda volta in un giorno sono inginocchiata davan a un uomo.
La prima volta è stato di ma na, davan a Nick. Ma quella era una scena
del film. Una finzione.
Nick… Nick Tonno, il mio partner, il coprotagonista, un omosessuale o,
come lo apostrofava di tanto in tanto il regista, «un dannato finocchio». Io
lo amavo quel mio partner sgangherato, quel dannato finocchio che il cielo
benede o mi aveva fa o incontrare. Fare le cose con Nick è… era
bellissimo. Lui mi rispe a. Mi guida. Mi dice: «Finirà presto questo strazio,
io e te meri amo di girare film migliori», io sognante: «Io vorrei essere
Judy Garland nel Mago di Oz, cantare e sal cchiare di qua e di là come una
farfallina appena nata», e lui: «Che incanto sares con le scarpe e rosse di
Dorothy». Ci sistemiamo dentro una macchina. Dobbiamo fingere di fare
l’amore. Nel film non faccio altro, corro nuda sulla spiaggia e faccio l’amore
nei pos più assurdi. «Fai vedere di più lo stacco di coscia», e io con l’aiuto
di Nick mi alzo ancora di più la so anina striminzita. Nick mi accarezza la
testa e mi rassicura: «Finirà presto, resis e pensiamo a Judy Garland».
Ciak, scena prima, siamo dentro una decappo abile. Lui mi bacia. È bravo a
baciare Nick. È così dolce. Lui non mi vuole divorare. «Ci sposiamo?» gli
domando in un sussurro. Sembra la ba uta del nostro copione, ma invece
è uscita dal mio cuore. In quella scena le nostre voci non servono. Ci ha
de o Arturo che i gemi verranno aggiun in sala di doppiaggio.
Dobbiamo solo fare finta di conversare d’amore e d’orgasmo. Io gli ripeto la
domanda: «Mi sposi Nick?», e lui: «Lo sai che non posso, Adua, sono
omosessuale», e io: «È per questo che voglio sposar . Tu non mi
toccheres come ques altri bru , come fa Arturo quando gli viene a noia
la moglie. Tu mi rispe eres . Ti presenterei mio padre e la zia Fardosa»,
«Sono simpa ci?» mi chiede Nick. Io non so rispondere, so solo che mi
mancano. Mi viene da piangere, ma non voglio rovinare la scena. Mi
avvinghio a lui con disperazione. Lui me e su una di quelle sue facce da
assassino e finge di mordermi sul collo come un vampiro. Invece mi fa il
solle co, io rido e per non rovinare la scena mimo qualcosa che non ho mai
provato, questo orgasmo di cui parlano tu .
Nick ha sempre un buon odore.
Invece il distributore, quel magnate calvo, che devo “accontentare”,
l’uomo che Sissi chiama enigma camente “il marchese”, puzza di aglio.
Sto per aprirgli la zip dei pantaloni. Voglio che tu o finisca presto. “Lo
prendo in bocca, ingoio e poi tan salu e a mai più rivederci” penso. Il mio
piano non fa una piega, mi dico.
Gli apro la zip. Evito di guardare quella biscia. Mi fa ancora senso. Non la
guardo, distolgo lo sguardo. Mi fa paura. Ma non posso avere paura
proprio adesso. È solo ques one di secondi. Chiudo gli occhi. Lo afferro
saldamente. Lo prendo in bocca. È fa a, mi dico.
Invece il po, questo marchese, non ha un’erezione. Il suo aggeggio mi
muore in bocca e un rivolo melmoso cola misero sul pavimento.
«Scansa , pu ana» mi apostrofa.
Non mi sono offesa per la parola. È quello che sono ormai. Una pu ana,
una shermu a. Mi ci hanno fa o diventare. In Somalia ero una ragazzina
piena di sogni e voglia di vedere il mondo. Loro in pochi mesi mi hanno
manipolata, seviziata, usata, trasformata. Mi sembrano passa anni, non
mesi. Mi sento tanto vecchia, quasi decrepita.
Vorrei un po’ d’acqua. Per levare quel sapore acre dalla bocca. Ma in
quella stanza è tanto buio. Non vedo niente. Solo quel mogano legnoso in
trasparenza.
Lo vedo ga onare come un cieco per la stanza. Poi accende l’interru ore.
Si sistema. Lo faccio anch’io. Siamo in silenzio.
«Sei stata brava» mi dice. E mi dà una mascolina pacca sulla spalla.
“Brava?” mi chiedo tra me e me “ma se non abbiamo fa o niente.”
Ma non parlo, con quell’uomo è meglio tacere. È un prepotente, si vede
che vuole sempre avere ragione lui.
«Sai ballare?» mi chiede.
«No» rispondo secca, infas dita da quella domanda troppo personale.
«Allora imparerai stasera. Le altre ragazze insegneranno.»
«Andiamo già di là?»
«Sì cucciola» mi dice tu o tenero.
Sono confusa. Non capisco.
«Ah, di là non dire del nostro incontro, non capirebbero.»
«Sarò muta, signore.»
Gli piace essere chiamato signore.
«Devi dire a Sissi che il film lo distribuiremo bene, faremo di te una
piccola stella negra, hai delle belle cosce, meri il successo.»
Siamo quasi al confine della porta. La sto per aprire. Lui mi ferma.
«Aspe a» mi dice.
«Cosa?» chiedo un po’ imbambolata.
«Ho un regalo.»
E mi regala un bracciale o d’oro e diaman .
Sono in imbarazzo.
«Io sono un uomo generoso, non te l’ha de o Sissi?»
Sto zi a. Meglio tacere in cer casi.
Lo ringrazio.
Torniamo in sala.
La sua mano sul mio sedere. Come all’andata.
Nella sala distribuisce grandi sorrisi. Le altre guardano me e il mio
bracciale o con invidia.
«Brava la nostra Adua,» mi dice Sissi, e accarezzando il bracciale o
aggiunge: «vedo che hai compiuto il tuo dovere.»
Vorrei dirle la verità. Ma se la dicessi quel po mi rovinerebbe. Ha il
potere di farlo. È molto ricco. Ha molte conoscenze. Anche dove una
persona onesta non dovrebbe averne.
Sto zi a.
Tremo.
«Voglio andare via.»
«Ma adesso viene il bello, si balla.»
«Ma non mi piace ballare» urlo.
La gente mi guarda. Un po’ a onita, facendo n nnare le coppe piene di
champagne.
«Non urlare, è una cena elegante» mi dice Sissi.
E io non urlo. Chino il capo. Mi piego.
Oggi non lo chinerei il capo. Oggi urlerei.
Oggi però sono vecchia davvero. Sono passa minu , giorni, anni da
quella cena.
Ho avuto un aborto, uomini sbaglia , delusioni a non finire.
Oggi però non chinerei il capo. Non mi svenderei per una stella su un
camerino come ha fa o quella ragazzina che ero.
Il ricordo mi fa urlare.
Ora non sto più zi a. Ieri sera, per esempio, ho urlato così forte che mio
marito, il mio piccolo tenero Titanic, si è spaventato a morte. Ho de o nel
sonno: «No, non vale la pena ingoiare lo schifo per una stella». E poi ho
aggiunto: «Non mi potete uccidere senza pensare che io non resista». Ho
avuto anche delle convulsioni.
Poi le mani grandi, for , capaci di mio marito mi hanno bloccato.
«Adua, che c’è? Adua calma ! Sei a casa, con me. Adua…»
L’ho guardato con gli occhi sbarra . All’inizio non l’ho nemmeno
riconosciuto. Ero ancora persa nelle brume del lontano passato.
«Hai avuto un incubo?» mi ha chiesto lui, sollecito.
Come dirgli la verità?
Come dirgli che quello purtroppo non era un bru o sogno, ma solo uno
sgradevole ricordo che viene a tormentarmi ogni sera? Quel bracciale o
l’ho poi venduto. Ma il ricordo non mi ha mai voluto lasciare andare via.
Ogni tanto viene ad alitarmi in faccia il suo sconcerto.
«Scusa» ho sussurrato a quel mio marito ignaro.
«Scusa di cosa, Adua, stai vaneggiando, hai urlato, lo sai? Hai urlato forte,
mi hai spaventato. Vado a prender un bicchiere d’acqua.»
«No, non prendermi niente, abbracciami piu osto.»
E lo ha fa o anche se – a dir la verità – era un po’ scocciato.
26
Paternale

Che strano non aver più intorno, Adua.


Perchè sei andata via? Dopotu o non ho mai tra ato male. Un te o
sulla testa ce l’avevi, del cibo pure. Ti ho dato delle primizie… ricordi
quella papaia dolce quel giorno? Quella di Afgoi. Ti era tanto piaciuta. Mi
avevi sorriso. E pure io ho sorriso. A mio modo, ho sorriso. Certo, i baffi
mi nascondono la bocca, ma anch’io so sorridere come tu . Mi avete
sempre descri o come un burbero. Quando stavi so o il mio te o eri in
carne, bella, robusta come una donna deve essere. E poi ho educata. Ti
ho educata bene. In tu o questo lurido paese non c’è ragazza educata
meglio. Ci ho messo tu o il mio impegno a fare di te una donna tu a di un
pezzo. Non sopportavo l’idea che diventassi come tua madre. Una zombie
era tua madre. Inabile al lavoro, lo sguardo perso, la camminata
strascicante. Era lenta, tua madre. Estremamente lenta. Io ero l’unico
pensiero della sua vita. Il suo cervello, oltre me, non conteneva niente.
27
Zoppe

Zoppe detestava Mogadiscio. Non ne sopportava l’odore dolciastro.


Mogadiscio gli dava il voltastomaco con la sua aria così perbene e i suoi
palazzi bianchi. A Mogadiscio si sen va straniero. Uno laggiù del Sud, un
provinciale di Magalo, che gli abitan guardavano con sufficienza e anche
con una certa pietà. Quando era piccolo, il padre lo trascinava spesso in
quella ci à «A cui dobbiamo tanto, figliolo mio». Lui si inventava mille
scuse per non andare. Una volta era lo stomaco in subbuglio, un’altra la
febbre alta. Non voleva me erci piede nella capitale. E non gli importava
che a lei, proprio a lei, dovesse la vita. Ma Hagi Safar, che sapeva leggere
bene il cuore del suo ragazzo, lo stra onava con affe o dicendogli: «Su, su
pelandrone. A me non la fai. Prepara il tuo fago o che si parte». Ed ecco
che ogni volta il ragazzo piegava il capo e ubbidiva al padre.
Ma quel giorno era tu o diverso. Non c’era Hagi Safar al suo fianco. Era
arrivato lì con gli italiani. Un ritorno da servo. Uno strumento in mani
rapaci.
Durante il viaggio da Massawa a Mogadiscio Zoppe non riusciva a
pensare ad altro che alla sua sventura.
Sulla nave l’uomo aveva lo ato con le torbide visioni che si presentavano
sfacciate.
Teste di gallo mozzate, lingue impiccate ad alberi di melograno, un mare
rosso di sangue e lui pieno di cicatrici lungo la schiena. E mano a mano che
il viaggio andava avan e Mogadiscio si avvicinava alla sua pelle anche le
visioni si facevano più insensate. Un uomo in groppa a un leopardo rideva
sguaiatamente, mentre un corvo nidificava sulla testa serpentosa di un
mostro dalle labbra tumide. Zoppe non riconosceva niente. In quelle sue
visioni mostruose niente aveva forma umana. Ragazzi con tre fila di den
conversavano con buoi dalle orecchie di coniglio e, accovacciato accanto a
loro, un essere dalla testa di giraffa cagava farfalle su un mucchio di
cadaveri.
Massawa…
Malede a ci à! Il suo ricordo lo stava facendo impazzire.
«Signore, signore… sta bene?»
Fu la voce di Uarda, una delle cameriere della casa coloniale dove
soggiornavano, a ridestarlo al presente.
«Sì, bene» rispose Zoppe. «L’aria di Mogadiscio stordisce.»
«Stava parlando da solo, sa?» rise la ragazza.
Zoppe fu infas dito da quell’osservazione imper nente, ma non rispose
per non sen rsi ancora più stupido. La osservò. Era bella Uarda, molto
bella. Alta, seni a punta, deretano a forma di cuore.
«Ho mal di testa» disse Zoppe.
Avrebbe voluto dirle di più. Per esempio “Scappa, vai lontano da qui”.
Invece si limitò a guardarla. Forse era un’orfana. Se no nessuno l’avrebbe
mandata a servizio da un italiano. Tu sapevano a Mogadiscio che fine
facevano le Uarda nelle case degli italiani. Zoppe si sen improvvisamente
senza forze. Debole. «Malede o conte» borbo ò tra sé.
Era una bella casa quella che era stata fornita dal governatorato italiano
di Mogadiscio a Celes no Anselmi. Tipica stru ura coloniale con una scala
moresca che perme eva l’accesso ai piani al . Il candore dell’edificio si
accompagnava con una certa armonia al lussureggiante giardine o
tropicale che la circondava. «Qui stasera farò una bella festa. Me lo
merito.»
«Sì, signore» si limitò a rispondere Zoppe.
«In questa ci à i sensi ballano, caro ragazzo.»
Zoppe guardò il cielo. Non ci sarebbe stata nessuna festa. Il monsone di
sud ovest, quello che faceva tremare anche i ginni, stava arrivando. “Si
abba erà presto sulla ci à e sul capo del malede o conte” pensò Zoppe. E
questo lo consolò.
*
Lui e il padre non avevano un appuntamento con data, ora, luogo. Non
c’era nessun “Allora ci vedremo” in mezzo a loro. A padre e figlio bastava
pensarsi per vedersi.
Facr-ed-Din poi era l’unico posto in cui il padre lo avrebbe incontrato a
Mogadiscio. Era il suo luogo del cuore in quella ci à che sen va straniera.
Da piccolino Zoppe rimirava per ore i verse coranici della Sura della
Vacca scolpi maestosamente in cara eri cufici sul portale. Era pura gioia
per lui sostare al confine dove la luce inseguiva l’ombra a raverso smilze
colonnine di marmo.
«C’è stato un tempo,» gli aveva raccontato Hagi Safar «il tempo dei nostri
antena , in cui questa moschea era grande quanto la porzione di cielo
contenuta negli occhi di un angelo.»
In quella moschea i ginni pen chiedevano perdono al cielo un a mo
prima di esalare l’ul mo respiro e le anime colmate dall’amore del creato
cercavano rifugio dai mali del mondo.
«Se non riuscissi a morire nella nostra ci à santa,» diceva Hagi Safar
«davan a me, emaciato e prossimo alla morte, tu, figliolo adorato, mi
prenderai sulle tue spalle e mi porterai qui.» A Facr-ed-Din tu o era
possibile. Zoppe lo aveva provato sulla propria pelle.
Fu lì che aveva visto per la prima volta un uomo rosa. Zoppe era più
piccolo dei suoi coetanei e molto più ossuto. Tanto che le comari
insistevano perché Hagi Safar gli desse da mangiare brodo di pollo e
da eri, per non vederlo morire.
«Questo bimbo non ha madre?»
«È morta me endolo al mondo. Ma ha le mie mogli che si prendono cura
di lui. Fawzia, Alia, Halima lo coccolano come se fosse il loro pargolo, fru o
del loro stesso ventre. Non potrebbe stare in mani migliori.»
«Ma perché ques due bastoni lo sorreggono, come se fosse un vecchio
parali co?»
Era in quei momen che Hagi Safar aveva pena delle anime umane.
Uomini di polvere che condannavano ogni dife o del proprio prossimo.
E lui, l’Hagi, a questa brutalità non voleva so ostare.
Certo suo figlio aveva sofferto, una ca va febbre reuma ca lo aveva
colto nel sonno un anno prima e aveva rischiato di ucciderlo. Ma non era
giunta la sua ora ed era stato risparmiato. Questo solo contava. Alla fine
solo questo.
«Ti supererai, figliolo» gli diceva. «Non accorgerai della differenza tra te
e i tuoi simili. E giuro sul mio nome e sul mio onore che vedrò presto
correre come uno struzzo nella Savana infinita.»
Zoppe guardava il padre con fiducia. Sperava davvero di poter correre e
giocare come gli altri bambini.
Poi una no e, una di quelle agitate dai sogni e dalle chimere,
un’immagine si tatuò nella mente dell’Hagi. «Quello» disse sorpreso il
vecchio saggio «è il portale della moschea di Facr-ed-Din. Allora è lì a
Mogadiscio che devo portare mio figlio, lì che lo vedrò finalmente correre.»
E il giorno dopo preparò il viaggio.
Passò due no e due giorni a miscelare gli unguen con cui avrebbe
massaggiato le malandate gambe del figlio.
«Questa erba, sposo, la chiamano ar glio del diavolo, ma in realtà è fa a
dalle unghie degli angeli. Se i muscoli del piccolo saranno in fiamme
allevierà il dolore» disse Fawzia, la prima delle sue mogli.
«Questo invece è il ribes nero» disse la sua seconda moglie, Halima, «me
l’ha portato in dono mio fratello il mercante. Viene dalle montagne
rocciose dell’Asia. La sua corteccia è liscia. Se la paura verrà a tormentare la
gamba del piccolo Zoppe questa pianta saprà cosa fare.»
«Qui, caro, tra le mie mani ho la piccola e dispe osa aloe,» disse ridendo
Alia, l’ul ma delle sue spose, «vi farà fare dei bei sogni ed è o ma per le
diges oni.»
Hagi Safar ringraziò le sue tre mogli per quei regali così dolci. E disse loro
“Grazie” perché era l’unica parola giusta da dire.
Dopo la preghiera del ma no, padre e figlio, si incamminarono verso
Mogadiscio allontanandosi dal loro bel mare azzurro.
Si inoltrarono subito dentro la spoglia boscaglia. Nessun vivente incrociò
il loro passo il primo giorno. Solo un avvoltoio li seguiva dall’alto con la
speranza di vederli cadere in fallo. Ma Hagi Safar aveva percorso quei
sen eri per anni. Conosceva il segreto di quella terra all’apparenza os le.
Zoppe per distrarsi guardava le formiche, intente nel loro lavoro senza fine.
Soler si caricavano sulle piccole spalle lembi di carne, forse il residuo del
pasto di una iena. La prima no e gufi irrequie innervosirono il piccolo.
«Sono gorgheggi d’amore» gli spiegò Hagi Safar e Zoppe, disinteressandosi
alla spiegazione: «Padre quando rivedremo di nuovo il mare?». Il secondo
giorno incrociarono dei pastori. Dormirono con loro in spogli tuqul e si
dissetarono con il la e di capra che era stato loro offerto. Passarono anche
il terzo giorno con i pastori. Il quarto Hagi Safar disse: «Vi dobbiamo
lasciare. Dobbiamo incrociare il mare».
Il loro somaro era stanco. Hagi Safar lo accarezzò
sul collo con affe o. «Manca poco, vecchio mio. Ancora un piccolo sforzo e
arriveremo dove dobbiamo arrivare.»
Fu dopo queste parole che l’odore secco della boscaglia venne
soppiantato da uno strano profumo di cannella.
«Lo sen , figliolo?» chiese Hagi Safar tu o eccitato. «Questo è l’odore di
Mogadiscio.»
Zoppe fu stordito da quel caos di suoni e odori tu diversi.
Poi vide i colori. Vide il giallo dei sorrisi, il viola della violenza, il verde
della rassegnazione, il rosa del pianto. La gente ululava a Mogadiscio.
Ululava come un licaone prossimo alla morte. Si urlava per i con che non
tornavano, per gli amori fini male, per una libbra di carne che non
sarebbe bastata a sfamare una famiglia. Passarono per un mercato coperto
e Zoppe fu affascinato dalla precisione meccanica dei movimen degli
orafi.
Un lampo di cupidigia a raversò gli occhi del piccolo.
Avrebbe voluto fermarsi lì per sempre, ricoprirsi di tu o quell’oro
meraviglioso.
Ma l’asino non si fermò. Non era quella la loro meta.
Camminarono un’altra ora. Poi videro in mezzo a una distesa ocra una gru
così regale nella sua compostezza.
«È un segno» si disse Hagi Safar che fermò il somaro e il suo passo. «È qui
che succederà quello che deve succedere.»
La moschea era in vista, ma ancora distante.
«Torno subito. Aspe ami qui» disse Hagi Safar al figlio. E lo lasciò solo.
E fu allora che all’improvviso apparve l’uomo rosa.
La faccia aveva grandi baffi gialli e sulla testa pochi riccioli color nebbia.
Era ves to di una stoffa nera lunghissima, i piedi non si vedevano, le mani
appena, ed erano rosa anche loro.
“E se mi mangia?” pensò Zoppe.
«Padre,» cominciò a gridare «padre dove sei?»
«Sono qui, mi vedi? Davan a questa grande porta.»
Zoppe si chiese come raggiungerlo. E fu così che cominciò lentamente a
strisciare su per la colline a che portava all’ingresso della moschea
randosi dietro le stampelle.
L’uomo rosa, davan al bambino che strisciava, pensò nella sua
misericordia di aiutarlo. «Aniga sahibka waye», io sono tuo amico. Quelle
parole pronunciate male furono per il piccolo Zoppe l’inizio della fine.
Bu ò via le stampelle e cominciò a correre come un dannato. Correre
verso il padre, verso la salvezza.
«Miracolo» gridò Hagi Safar.
E corse anche lui verso il figlio a piedi scalzi. Sollevò il bambino, lo strinse
a sé, tornò padre, e lo riempì di baci.
La parola miracolo scatenò il delirio. Si sparse la voce all’interno della
moschea e addiri ura l’imam, con la scia di fedeli al suo seguito, volle
andare a vedere. L’emozione travolse il vecchio indovino come mai gli era
successo prima. E cominciò a raccontare come il buon Dio era stato
caritatevole con lui e il suo piccolo Zoppe. «Ora potrà, se vorrà, volare con i
falchi al tramonto.»
Zoppe pensava a questo loro legame che non era mai venuto meno,
mentre aspe ava che suo padre comparisse. “Sono sicuro che lo vedrò qui.
È il nostro luogo dell’anima.”
*
«Padre, non mi abbandonare» mormoravano le sue labbra seccate dal
furore.
Lacrime acide rigavano il suo viso pasciuto e lui cercava di asciugarle in
fre a con le maniche della sua jellaba.
Sopra la sua testa un falco puntava dei pulcini senza casa, mentre un
ga o cercava un antro nascosto dove esalare in solitudine il suo ul mo
respiro.
Poi apparve il babbuino.
Lo guardava a raverso la sua maschera maculata e sembrava ridere della
sua disperazione.
Fu grande in quel momento la voglia di Zoppe di scagliare un sasso al
babbuino dispe oso.
Ma qualcosa, o qualcuno, fermò la sua mano.
Il babbuino si sede e su due zampe, la testa rivolta verso est a salutare il
sole. Sollevò le zampe e libere mostrando un ogge o a forma di luna, lo
stringeva nella zampe a destra e lo esibiva come un trofeo.
Poi senza preavviso il babbuino gli saltò addosso. Puntando dri o al
turbante.
«Che fai, stupida bes accia?» gridò.
Il babbuino aveva preso un certo slancio e non aveva nessuna intenzione
di mollare la sua preda.
Zoppe rinunciò a recuperarla.
«Ah, che arie a» commentò. Fu grato a quella furia per averlo reso libero
da quella schiavitù.
«Come sai che odio questo turbante?»
Il babbuino indicò il sole, agitando frene camente le zampe e.
«Sei una strana bes a, tu» ridacchiò Zoppe giocando con i rame secchi
che gli stavano intorno.
Erano sta giorni frene ci e dolorosi per lui.
«Ah babbuino, se tu potessi dare sollievo alla mia anima affli a.»
Il babbuino cominciò a danzare. Mostrò con fare irriverente il suo sedere
rosso e Zoppe rise di gusto.
«Voi scimmie siete imprevedibili.»
Il babbuino scosse la testa e fece un gran chiasso.
«Che ne sai tu? Eh? Tu che scuo la testa così per gioco. Non sai cosa ho
visto ieri sera. Ero sveglio e non sognavo. Se avessi visto quello che ho visto
io dares fine al tuo riso e piangeres con me.»
E Zoppe cominciò a vomitare parole e visioni.
«Intorno a me ieri no e c’era solo morte. Ho visto corpi neri maciulla .
Impicca , case incendiate, mani tagliate, teste decapitate infilzate sulle
lance, donne pugnalate, cadaveri oltraggia , ragazzini lega e trascina
ancora vivi, diaconi fucila , bambine stuprate. Ho visto sangue, pus,
materia cerebrale. E ho visto teste staccate dai loro corpi, poggiate su
vassoi d’argento a orniate da gente che rideva. Le teste erano e opi e le
fauci sorriden erano degli italiani. Li ho vis prendersi gioco dei cadaveri e
fotografarli. Poi li ho vis impacche are le foto dell’orrore e mandarle in
dono alle loro fidanzate in Italia.»
Zoppe si prese il viso tra le mani e pianse come un bambino.
«Mi sono venduto come il Giuda dei cris ani per trenta denari. Se quella
gente morirà sarà anche per colpa mia. Come farò a guardare il mio amico
Dagmawi negli occhi? Era meglio se non fossi mai nato e il seme di mio
padre si fosse inaridito.»
Zoppe si ripiegò come una zebra ferita.
Il babbuino gli andò vicino e cominciò a fare le fusa, come un ga o.
«Sei dolce, babbuino. Ma non mi puoi capire. Nessuno mi può capire. Io
vedo le cose prima degli altri uomini, ma non mi è stato concesso di
cambiare il futuro, né il loro né il mio.»
Il babbuino scosse la testa.
«Ma… ma… tu capisci, allora?»
Zoppe guardò la mezzaluna che l’animale teneva tra le zampe e. Fu
allora che capì. Quel babbuino non era altro che suo padre, Hagi Safar. Il
vecchio aveva rispe ato l’appuntamento.
28
Adua

Mi ha de o Lul che Laabo dhegah, la mia casa di Magalo, vale tanto oro
quanto pesa.
«L’ho fa a valutare per te, cocca.»
«E allora?» ho chiesto con un certo groppo in gola che mi rendeva più
avida di quanto in realtà io sia.
«Be’ il guadagno si aggirerebbe intorno al milione di dollari, spicciolo più
spicciolo meno, un guadagno al ne o sia chiaro.»
E io: «Al ne o, sorella?».
«Sì cara, me eres in tasca sano sano un milione di dollarucci
americani, non sei contenta?»
Mi sono accasciata sul pavimento, lo amme o. Ero semisvenuta, come se
qualcuno mi avesse annunciato una disgrazia. Ho cercato di respirare
profondamente. Ho cercato di far ripar re un qualche ba to in quel mio
cuore devastato dagli anni.
«Un milione di dollari?» ho ripetuto come una scema. Era una cifra da
telefilm americano, da transazione mafiosa, da riciclaggio di denaro sporco,
non qualcosa che potessi afferrare nella mia piccola realtà di signora
a empata.
«Ma tu così sono i prezzi delle case e dei terreni in Somalia?» ho
chiesto meravigliata.
«La bolla immobiliare è impazzita e le case valgono oro, sorella. E poi lo
sai c’è il petrolio qui. Stanno tu a vendere, comprare, quotare, valutare.
Sembra la borsa di Wall Street. Certo, a Mogadiscio è tu o più caro, tu o
più gonfiato, ma anche a Magalo – posso assicurare – si possono fare dei
colpi a sei cifre niente male.»
«Un milione di dollari? Possibile? Per la mia casa sgangherata?»
«Il tempo degli affari non durerà per sempre, sorella mia. Ne dobbiamo
approfi are ora, prima che sia troppo tardi. Ora sentono odore di petrolio,
di soldi facili, ma poi si accorgeranno che la Somalia è una truffa e questa
bolla si scioglierà al sole. E le case torneranno a essere la spazzatura che
sono sempre state.»
Mi piaceva quando Lul si ergeva a nume tutelare della mia vita. Era
confortante sapere che lei era sempre al mio fianco a curare i miei
interessi.
Nel fra empo quella cifra esorbitante mi frullava in testa: un milione di
dollari.
Così tan soldi non li ho vis mai in vita mia.
In generale io e i soldi non siamo sta mai buoni amici.
I soldi li ho sempre spesi male e poi in quella parentesi in cui li ho avu
mi sono fa a fregare come un’allocca.
«Prendi un aereo e vieni quaggiù. Qui ci sta la felicità» mi ha de o la mia
Lul.
Una voce meccanica si intrufolò in quella conversazione concitata tra noi
e fece cadere la linea.
«Lul» gridai.
Lul…
Ah, quanto bene mi avrebbe fa o una Lul nel 1977. Certo allora non mi
avevano offerto un milione di dollari, ma delle belle lirucce italiane quelle
sì. E poi c’era quella faccenda degli studios americani, di quel piccolo ruolo
in uno 007 che mi volevano offrire e che io smaniavo di interpretare.
Ma…
Ma nel 1977 non c’era Lul ad aiutarmi. Ero sola come un cane e in balia
completa di Sissi e Arturo. Ecco perché tu o è andato storto da un certo
punto in poi.
Se lei fosse stata accanto a me non sarei finita squa rinata, spolpata e
fregata come una polla da quelle canaglie. Lul mi avrebbe de o: «Devi far
un agente, cocca», e poi: «leggi bene tu e le clausole del contra o che hai
firmato». Se ci fosse stata Lul non sarei morta di freddo in una camere a
striminzita di una pensione a via Cavour. Avrebbe preteso per me una vasca
da bagno, il servizio in camera, un cuscino morbido, un guardaroba
dignitoso, delle scarpe comode, lenzuola pulite e ben s rate.
Avrebbe preso a schiaffi Sissi e l’avrebbe chiamata «Approfi atrice». E
Sissi non si sarebbe più permessa di dirmi: «Ma che richieste esose che hai,
Adua» o «Che negra viziata sei». Lul di certo non mi avrebbe mandato in
giro con stracce indecorosi e con la carne volgarmente in vista. Se ci fosse
stata Lul, Arturo non mi avrebbe più toccata e nemmeno il marchese
avrebbe allungato le mani sul mio sedere. Lul mi avrebbe allontanato dalla
droga, dall’alcol, dalle sigare e scaden , dal cibo fri o, dagli uomini che
volevano solo il mio corpo.
Lul mi avrebbe fa o riavvicinare alle nostre tradizioni.
E poi mi avrebbe messo a dieta e mi avrebbe concesso il dolce solo la
domenica ma na per rallegrarmi.
Se ci fosse stata Lul non avrei passato così tanto tempo sola a piangere.
Mi avrebbe portato a fare una passeggiata in via del Corso o a prendere il
gelato da Gioli . Se ci fosse stata Lul mi avrebbe chiamata almeno due
volte al giorno, anche solo per dirmi: «Che bello che sei al mondo». E poi
Lul me lo avrebbe de o chiaro e tondo di lasciar perdere Nick Tonno: «È
omosessuale, non può amar . Ficcatelo bene in testa, abaayo».
Naturalmente mi avrebbe suggerito di sme erla di ossessionarlo, di stare
so o casa sua tu e le sere, di comprargli dei fiori che non mi potevo
perme ere. «Lui può dar solo amicizia, nulla di più, acce alo e falla
finita.»
Se ci fosse stata Lul mi avrebbe fa o finire la scuola. Mi avrebbe rato
per l’orecchio sinistro e mi avrebbe costre o ad affondare il naso dentro le
pagine di un vocabolario. «Senza le lingue non sei nessuno,» mi avrebbe
de o e dopo una pausa di un certo peso avrebbe aggiunto: «ma senza la
tua sei perduta.» Se ci fosse stata Lul non mi avrebbero fa o firmare
contra capestro dove cedevo l’intero usufru o del mio nome e di tu o il
merchandising sul mio personaggio. Se ci fosse stata Lul non avrei perso
milioni di vecchie lire per essermi scordata l’iscrizione all’Inps e quella del
domicilio in questura. Se ci fosse stata Lul avrei avuto documen regolari
dal primo istante e la possibilità di diventare ci adina italiana dopo soli
cinque anni. Se ci fosse stata Lul non mi sarei esibita in squallide serate
promozionali dove uomini ubriachi mi infilavano banconote nella
giarre era verde ru andomi addosso oscenità indicibili. Lul avrebbe
preteso rispe o per la mia persona e credo che sarebbe intervenuta anche
sulla sceneggiatura del film. Non mi avrebbe fa o fare tu e quelle corse
nuda e si sarebbe opposta a delle riprese in spiaggia con quel freddo.
Avrebbe de o qualcosa come: «Se volete farla correre come Dio l’ha fa a
allora affi ate un set ai Caraibi e non a Capoco a». Se ci fosse stata Lul
avrebbe controllato la stampa tu i giorni per vedere cosa usciva sul film e
su di me. Mi avrebbe evitato la pena di toli come La bollente fighe a nera
o Bacio rovente dalla chiappa abissina. Avrebbe preteso per me un tolo
certamente più dignitoso di Venere nera e si sarebbe infuriata se qualcuno
mi avesse de o per strada: «Ah coscia negra, te ce monterei sopra anche
subito». Se ci fosse stata Lul mi avrebbe trascinato in piazza tra le donne
che stavano manifestando per il diri o all’aborto e mi avrebbe fa o capire
che quelle donne comba evano anche per i miei diri , per liberare il mio
corpo dai desideri bavosi di una società al collasso. Se ci fosse stata Lul mi
avrebbe impedito di depilarmi come una bianca: «Ma se non abbiamo peli
noi somale, che depili a fare?». E poi Lul mi avrebbe proibito l’uso delle
creme sbiancan dicendomi: «Ma che sei ma a? Fanno venire il cancro
alla pelle! E poi, scema di una ragazza, è così bella la tua melanina!». E poi
Lul, ne sono certa, si sarebbe opposta come una fiera all’allisciamento dei
miei capelli. «Sei ridicola con ques spaghe , non sei credibile, Adua» e mi
avrebbe fa o sen re quanto è più bella la libertà di portare la propria
criniera riccia in testa. E poi se ci fosse stata Lul mi avrebbe insegnato a
essere orgogliosa di me stessa. Mi avrebbe salmodiato il mio albero
genealogico, come se fosse una poesia in endecasillabi e mi avrebbe poi
de o: «Tu sei nata dalle ossa di ques antena , non dimen care le loro
ossa, la tua radice». Se ci fosse stata Lul mi avrebbe obbligato a chiamare
mio padre. «I genitori vanno ama .» E mi avrebbe sussurrato in un
orecchio: «Perché non sai quando Dio poi li richiamerà a sé». Se ci fosse
stata Lul non avrei fa o quel film con Arturo, quel film così bru o e
osceno.
29
Paternale

Ti ho vista. Eri lì, ves ta da vecchia, in mezzo ai questuan . Ti ho visto,


Adua. Non avevi il coraggio di entrare, di guardarmi in faccia, di
affrontarmi. Davvero, figlia, faccio così paura?
Ho visto il tuo film.
Ho pianto.
Io non ho mai pianto. Ma vedendo il tuo film ho pianto. Ho fallito in
questa vita. Se ho permesso la mia stessa umiliazione significa solo che
ho fallito. Io non so tra are il prossimo, Adua. Quella scema di tua madre
non l’ho saputa tra are. Mi amava troppo, la scema. La chiamavano Asha
la Temeraria perché in fondo era incosciente e sposava le cause perse. Io
ero la causa più persa di tu e. Si era innamorata dei miei occhi bisognosi. E
io invece di accogliere il suo amore, mi ci scagliavo contro. Cercavo di
distruggerla e insieme a lei di distruggere il suo amore. Nessuno mi ha mai
amato tanto in questa vita. Nessuno mi ha mai dato così ragione e così
torto. Asha, tua madre, voleva raddrizzarmi. Mi diceva: «Che vuoi che sia il
passato? Ora puoi rimediare. Ora puoi riaggiustare tu o. Puoi migliorar ».
Era sempre entusiasta, sempre o mista. Ci è morta con il suo o mismo.
Quando ha messo al mondo ha fa o in tempo a veder . Ha posato gli
occhi su di te e poi è spirata in un sorriso. Quando ho visto che la vita
l’abbandonava ho urlato come un pazzo, per poco non cadevi per terra. Le
donne sono accorse soler a strappar dalle mie mani fragili. E da quel
momento non sono più riuscito a stare solo con te. Ho frapposto tra noi
l’indifferenza, poi un odio inventato, un terrore telecomandato come certe
macchinine con cui giocano i bambini oggi. Non so, non ci ho saputo fare
come padre. Forse dovrei chiedere scusa. Ma non ci riesco. Certe parole
non le so usare. Però una cosa te la posso dire, ho capito, guardando il film,
quanto hai sofferto in questa vita. Alla fine io e te non siamo diversi,
qualcuno ci ha umiliato, schiacciato. Io sono rimasto so o. Sono stato
sconfi o. Forse tu sarai più fortunata. Forse.
30
Zoppe

«Sheko sheko, sheko hariir.»


Storia storia, oh storia di seta.
Così cominciavano tu e le favole che Zoppe aveva ascoltato da bambino.
Dopo la preghiera della sera il padre lo chiamava presso di sé e lui si
rannicchiava mansueto ai suoi piedi. Erano l’unico posto in cui si sen sse
davvero al sicuro. L’unico posto dove si sen va vivo. Il padre aveva una
voce robusta e sincera. Una voce che dava spazio a tu e le magie. Le
parole si rincorrevano e creavano mondi dove anche un pulcino poteva
all’occorrenza diventare il più coraggioso dei guerrieri. Hagi Safar sapeva
far ridere, ma poi senza preavviso ge ava il figliole o in abissi inaccessibili.
Tu quei demoni che affollavano la scena spaventavano da morire Zoppe
bambino. Ma poi c’era sempre qualche pastorella furba a rincuorarlo.
Howa, Araweelo, Wil Wal, aveva imparato presto i nomi di quei personaggi
straordinari che popolavano i raccon paterni. Poi un giorno divenne
troppo grande per rannicchiarsi ai piedi del padre e, così com’era
cominciato, quel flusso di storie finì. Ma non finirono le parole. Subirono
un mutamento. Zoppe era un uomo ormai e Hagi Safar si rivolgeva a lui per
gli affari della casa. Di tanto in tanto nelle loro conversazioni faceva
capolino anche la poli ca. Ma erano le storie degli antena che legavano
quel vecchio padre a quell’ama ssimo figlio. Storie an che che odoravano
di cannella e cardamomo. Era sempre il padre a parlare. Zoppe si limitava
ad annuire o a piegare la testa di lato in segno di compiacimento. Non
voleva distruggere quei momen con la sua voce acuta e la sua rabbia
balbuziente. Preferiva stare zi o. Ma quel giorno, davan alla spianata
della moschea di Facr-ed-Din, i ruoli erano inver . Era il padre che voleva
ascoltare il racconto del figlio. Era Hagi Safar che tendeva le orecchie per
incamerare ogni suono che sarebbe emerso dalla bocca di Zoppe.
«Massawa… è in quella ci à che mi sono perso, padre.»
Massawa…
Era successo una manciata di giorni prima. Zoppe non riusciva a levarsi
dalla testa quel posto malede o. Era un porto, un’insenatura, una tra le
ci à più importan dell’Eritrea, quel paese che gli italiani si os navano a
chiamare colonia primigenia e che i fascis più convin consideravano già
avamposto dell’impero. Il conte quella ma na aveva un appuntamento e a
giudicare dai suoi passi non voleva fare tardi. Avevano a raversato di corsa
un mercato. E l’anima di Zoppe, nonostante tu a quella fre a, era stata
rapita dallo spe acolo sgargiante che l’Africa orientale offriva di sé. Le
lingue si mescolavano in alchimie magiche impastate dal gusto secco dei
da eri di Egias. Le bambine difendevano con i ventagli la mercanzia dalle
voraci mosche che tentavano di insozzare i pane di tamarindo. Nei
banchi più ricchi facevano la loro figura i meloni provenien dall’entroterra
e i cocomeri che si col vavano lungo il confine. Le patate dolci erano
ovunque, anche fra i piedi, con il rischio di inciampare. Ma quello che
faceva scoppiare le eralmente il cuore di Zoppe dalla gioia erano cer
pesce che si friggevano in grandi recipien pieni di olio. Il pesce vi
rimaneva immerso per pochi secondi, giusto il tempo di provare un brivido,
e poi si mangiavano caldi accompagna dalle focacce co e su vasi di
coccio. Se fosse stato da solo si sarebbe fa o una bella scorpacciata di quei
pesce fri . I passi del conte Anselmi però erano troppo veloci e lo
strapparono dai pesci. Il conte si muoveva come una iena che aveva
individuato la sua preda. Procedeva sicuro nell’intreccio di vicoli del
quar ere adiacente al porto. Massawa era una ci à che conosceva bene.
Sfrecciavano nel buio. In quella corsa oscura non erano previste fermate
intermedie.
«Manca molto, conte?»
Nessuna risposta. Solo un grugnito. E Zoppe capì di essere nei guai.
*
Muffa e buio. Zoppe fu accolto da un odore di topo che conosceva bene. Si
sen in trappola senza capirne il senso. Lentamente gli occhi si adeguarono
all’oscurità. Ebbe la percezione che la stanza fosse piccola e molto affollata.
Spuntavano ombre dappertu o, e a mano a mano prendevano forma.
«Zoppe, ascolta bene, traduci ogni parola e non tralasciare nemmeno un
sospiro.» Il conte era stato chiaro. Nemmeno un sospiro.
Al centro di quella oscurità c’erano due signori circonda dai loro servi.
Un vecchio rugoso con gli occhi da polipo e un giovane ricciuto dalle labbra
deboli. Il vecchio era adagiato su una carriola. Indossava una tunica bianca
ricamata d’oro. Anche le babbucce che gli fasciavano i piccolissimi piedi
erano d’oro. Un servo, notò Zoppe con sgomento, riparava il suo padrone
so o un ombrellino bianco. Zoppe si chiese da cosa. Il servo ansimava e
Zoppe si preoccupò.
Erano dignitari e opi, lo intuì dalle ricche ves decorate. Cosa ci facevano
a Massawa? In territorio nemico?
La sua a enzione si spostò verso il giovane dalle labbra deboli, nipote o
figlio tardivo del vecchio. I capelli erano una massa insensata di riccioli e
vapori che lui teneva a bada con difficoltà. Profumava di cocco e
gelsomino. Il mento era sfuggente e sfuggen erano anche i suoi occhi
scuri. Il naso aquilino sve ava imperioso su una faccia smunta che aveva
poco di regale. Niente in quel giovane sembrava solido. Lo dimostrava
l’a eggiamento della servitù, nei suoi confron poco a enta. Indossava un
frac, souvenir dell’Occidente, stre o fino a scoppiare, le maniche più corte
delle sue lunghe braccia. E le punte che penzolavano flaccide sulle sue
gambe e di pollo. Zoppe trovò quella situazione così strana. Ma non disse
nemmeno una parola a proposito. Non fece domande. Si preparò invece a
tradurre. Doveva fare il lavoro bene, solo così poteva guadagnarsi la sua
libertà. E forse, perché no, qualche spicciolo. Doveva essere puntuale e
preciso. Tradurre parola per parola. Non doveva giudicare. Aprire e
chiudere la bocca era il suo compito. Nient’altro. Non doveva pensare. Non
doveva introme ersi. Non doveva migliorare. Doveva solo aprire e
chiudere la bocca.
Aprire e chiudere la bocca…
Guardò il vecchio sulla carriola. C’era qualcosa nella sua postura che lo
turbava. La colonna vertebrale era a orcigliata su se stessa e ne faceva un
cumulo di stracci. Ma erano le mani che il vecchio teneva in bella vista a
preoccuparlo. Erano mani nervose, treman , dalle unghie pallide. Mani che
a tra gli sembrarono gli ar gli di un uccello rapace. Mani esigen , feroci.
Mani che forse si erano macchiate di sangue innocente. Da dove venivano
quelle mani? Da quale parte dell’E opia? Zoppe si chiese se sarebbe stato
in grado di tradurre tu a la ca veria contenuta in quelle mani. Sopra u o
nelle dita grassocce. Sembravano sul punto di scoppiare. “E se non ce la
faccio? E se non lo capisco? Chissà quale diale o dell’amarico parla questo
qui.” Cominciò a tremare. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Lui che
conosceva tu e le lingue dell’Africa orientale ora aveva paura di rimanere
senza le parole. Un terrore puzzolente lo agguantò per il bacino. Era come
se nella sua testa si fosse improvvisamente aperta una voragine. E ogni suo
sapere fosse stato inghio to da una crepa. Per un a mo Zoppe non riuscì
a ricordare nemmeno il suo nome.
*
A Zoppe cominciò a girare la testa. C’era qualcosa di diverso quel giorno, in
quell’odore, in quelle facce, in quella stanza. Guardò il vecchio e suo figlio.
E poi gli occhi si posarono sui servi. Avevano tu la stessa espressione, lo
stesso naso, la stessa aria assente. Erano stanchi, stufi, arrabbia o forse
solo rassegna . Avevano tu i capelli ricci e la pelle ambrata. Tu una
cintura n nnante e grosse orecchie. Insieme formavano una distesa piana
di pelle nera e sen men soffoca . C’era in quel quadro qualcosa di
familiare e di perverso. Ma Zoppe non riusciva a cogliere cosa. Poi quasi
inaspe ate arrivarono le prime parole del vecchio e lo scossero da quei
suoi pensieri nocivi.
«Tenastellen» esordì.
Zoppe dove e sintonizzarsi subito su quella voce opaca e traslucida. Era
bella la voce del vecchio. Una can lena aspra che sapeva ridestare un
animo sopito dal sonno a una nuova vita. Ma le parole erano dure, affilate,
terribili. Non doveva fermarsi sul loro significato, perché allora non avrebbe
trado o nulla. Sarebbe stato perduto. Una carcassa che anche un avvoltoio
avrebbe scansato. Gli occhi del vecchio dominavano il buio. Sve avano
imperiosi in quella stanza che puzzava di topo. Ma era lo sguardo cannibale
del conte Anselmi a confondere Zoppe. In lui non c’era più grazia
aristocra ca. L’italiano del conte, un tempo leggiadro, si era trasformato in
un urlo primordiale. Anche le sue mani, un tempo elegan , erano le zampe
di un facocero in calore. Zoppe in mezzo a loro si sen solo. A raversato
dalle frecce avvelenate del tradimento. Ogni parola lo feriva. Ogni gesto lo
oltraggiava. Il vecchio stava offrendo all’Italia il suo appoggio per la guerra
futura. Avrebbe fornito armi, uomini, ristoro, approvvigionamen .
Prome eva di uccidere l’imperatore Hailé Selassié in persona, se
necessario. Il vecchio stava firmando con l’Italia un pa o di sangue, di non
ritorno. E lui, Zoppe, lo stava traducendo. No, non doveva pensarci. Lui
doveva aprire e chiudere la bocca. Solo questo. Aprire e chiudere la bocca.
Non tralasciare niente. Nemmeno i sospiri.
Il conte acce ò di buon grado e promise a quel pate co vecchio una
carriera sicura per quel figlio in frac: «Non avrà nulla da temere con noi». E
così dicendo fece volare per la stanza una manciata di talleri che il vecchio
tentò goffamente di afferrare. «Naturalmente sarete ricompensa per la
vostra lealtà all’Italia.» Un’altra pioggia di talleri inondò la stanza. Il conte
rise soddisfa o. Era stato così facile corrompere quei negri. Un gioco da
ragazzi portarli a tradire la propria gente. Fu in quel momento che il
vecchio gridò al figlio: «Ringrazia il signor conte che è stato così buono con
noi». Il giovane che per tu o quel colloquio non aveva mosso un muscolo
cominciò a ridestarsi come un grosso Golem annientato dal tempo. Fu un
a mo ge arsi ai piedi del conte e baciargli le punte infangate degli
scarponi.
Epilogo.
Piazza dei Cinquecento

Je demande qu’on me considère à par r de mon Désir.


Domando che mi si consideri a par re dal mio desiderio.
Frantz Fanon

È par to. Due ore fa ormai.


L’ho messo su un treno Frecciarossa direzione Milano. Poi da lì si
arrangia. Ha altri biglie . Il grassone da cui siamo anda ci ha de o che ci
pensa lui. Che ha traghe ato cen naia di persone in tu a Europa. E che
con lui non rischi di essere beccato dalla polizia di fron era. «È una
passeggiata» ci ha de o. E poi ha aggiunto: «Però servono buoni ves ,
roba di marca, una buona giacca magari, deve sembrare rispe abile». Così
due giorni prima della partenza abbiamo comprato in un negozio del
centro due paia di pantaloni di quelli che indossano i manager per
rimorchiare nel weekend. Anche le camicie, una bianca e una blu come da
tradizione, e le scarpe non erano niente male. Il mio piccolo Titanic così
rives to sembrava proprio un damerino. Era bello fasciato in quegli abi
così lontani dal suo vissuto.
«Fai lo sguardo intelligente durante il viaggio» gli ha de o il passeur.
«Non devono scambiar per un rifugiato morto di fame, un somalo
puzzolente, uno troppo in ansia. Devi emanare sicurezza da ogni poro. Far
credere al mondo che tu lo domini e te lo fo .» Il passeur grasso, che poi
si chiamava Omar come tu , si era raccomandato con me e con il mio
piccolo Titanic di entrare nel personaggio. «Devi sembrare uno studente o
uno che si sta facendo delle ferie. Uno fico insomma.» Fino al confine di
Ven miglia il viaggio sarebbe stato tranquillo, poi tu o sarebbe stato nelle
mani di Dio e dei passeur. Ho pagato caro il viaggio. Mi è costato tanto.
Non immaginavo che ques viaggi costassero così tanto.
Malede !
«Non si lamen ,» mi ha de o Omar con un ghigno «io ho prezzi
concorrenziali e poi con me sta sicura che il suo amiche o arriverà sano e
salvo alla meta.»
«Però, madame,» mi ha avver to «vi dovete togliere dalla testa la Svezia.
Lui al massimo può ambire alla Germania. Almeno se gli beccano le
impronte lì c’è una buona percentuale che se lo tengano e non lo
rispediscano al mi ente. Basta dire che in Italia tra ano male e
lasciano in Germania. Ci tengono ai diri umani i tedeschi, dopo
l’Olocausto fanno i buoni.»
Omar mi faceva vomitare.
«Vada per la Germania,» ha de o mio marito «basta che mi faccia andar
via da qui.»
Anch’io volevo che se ne andasse via.
«Non accompagno al treno» gli ho de o mentre a raversavamo a piedi
piazza dei Cinquecento. «Da qui in avan te la caverai da solo. E poi non mi
sono mai piaciu gli addii.»
Mi sono guardata intorno. La piazza era un caos avvolta dai gas degli
autobus che come balene spiaggiate occupavano i vani dei capilinea. La
gente zigzagava frene ca e anche i più anziani erano possedu da un’ansia
delirante di velocità. Si correva trasversalmente verso un futuro incerto e
spesso del tu o casuale. Piazza dei Cinquecento più che una piazza
sembrava un’autostrada. Non era un posto in cui fermarsi a fare due
chiacchiere. Le parole si perdevano in un gorgoglio sconnesso che a tra
inquietava. Piazza dei Cinquecento legata alla mia storia come nessuna.
Piazza dei migran , dei primi arrivi, di tu e le partenze, dei miei tan
rimpian . In quella piazza così sconnessa da sé, io mi sono ritrovata e persa
mille volte. Mi ricordo di quando, in quei primi anni di follia, mi a eggiavo
ad a rice, l’a raversavo mezza nuda, con ves striminzi addosso, perché
Sissi, sempre lei, mi aveva ordinato di mostrare la mia bellezza a Roma. E
ubbidivo. È lì che ho conosciuto l’infamia. Ma è lì che grazie alla mia amica
Lul, anni dopo, mi sono rifa a un’altra vita. Ves più seri, più lunghi, più
sensa . Lì, in anni troppo bui, ho ritrovato il sorriso della mia gente. Dietro
la stazione si vendeva l’halua dolce per cui andavo ma a. Dovevo
a raversare piazza dei Cinquecento per raggiungere quella strana Somalia
che era cresciuta nelle retrovie di quel quar ere ferroviario. Anche il mio
Titanic l’ho incontrato a piazza dei Cinquecento. Bazzicava ubriaco molte
zone di Roma: corso Italia, piazza Vi orio, ponte Lungo. Ma è a piazza dei
Cinquecento che l’ho visto belare bestemmie con il gin che gli scorreva
malefico nelle vene. È lì, in quella piazza che l’Italia aveva dedicato a dei
solda mor in Africa orientale, che io mi sono fabbricata un amore di
cartapesta.
Improvvisamente ho visto qualcosa sovrastare la mia testa. Qualcosa di
bianco e luccicante.
«Stai giù, bu a giù» ha de o mio marito urlando.
Io non riuscivo a muovermi.
Quel bianco mi accecava. Era la cosa più bella che avessi mai visto in vita
mia.
Poi ho notato il giallo. Il colore era tu o increspato. Non so quando mi
sono accorta che quel giallo ricopriva gli ar gli di un uccello. È volato sopra
di me. E senza che lo vedessi mi ha preso il turbante. Me lo ha strappato
con violenza.
«Copri il viso, se no graffia, Adua.»
Non capivo perché quel gabbiano mi aveva preso di mira.
«Ci mangeranno,» ha de o un signore «come in quel film di Hitchcock.»
Una signora mi ha chiesto se mi serviva aiuto.
Gridavo a mio marito: «Lo vedo quell’uccellaccio, sta lì, ci guarda, vedi
come ci guarda?».
Ed era vero. Mi fissava. Nei suoi occhi ho le o un’oncia di pietà. Mi
sembravano occhi così umani. Era a poca distanza da me.
«Prendi la stoffa, salva la stoffa» ho de o al mio Titanic.
Ma mio marito non si muoveva.
Il gabbiano mi ha fissato nuovamente. Era come se mi volesse dire
qualcosa. Come se si volesse scusare. Poi ha cominciato a beccare la stoffa.
«Fermalo» ho gridato al mio Titanic.
Ma mio marito non si muoveva.
Il gabbiano ha fa o scempio della stoffa con il suo becco adunco.
«Fermalo, prego» ho implorato.
«No, Adua,» mi ha risposto «non lo farò, quel gabbiano ci ha fa o un
favore. Avessi avuto io il suo coraggio.»
«Cosa dici, imper nente?»
«Eri così bru a con quella stoffa opaca in testa. Qui dietro, da Habshiro,
vendono i foulard degli Emira , roba all’ul ma moda. Ora anche mia
moglie sarà bella e all’ul ma moda. Un velo rosso, uno verde, uno per ogni
giorno della se mana.»
Era il turbante di mio padre, quello.
L’avevo sgraffignato un pomeriggio in Somalia, secoli prima.
Esa amente il giorno che sono andata a Magalo per la prima del mio
film. Prima che non ci fu mai. Mio padre aveva pagato al gestore del
Cinema Munar l’equivalente di tre incassi purché non lo proie assero.
Tre incassi…
Era quello il mio prezzo sul cartellino?
Tre incassi, valevo per mio padre, tre incassi.
Tre incassi per non farlo sfigurare, per non insozzare il nome della
famiglia, per poter ancora fingere di avere una figlia.
Il mio prezzo.
Tre incassi per non vedermi, per cancellarmi, per non vergognarsi. Mio
padre mi aveva di nuovo spezzato il cuore. Quel giorno passo dopo passo i
miei piedi mi avevano portato davan alla mia casa di un tempo.
Io volevo essere Marilyn, volevo essere Audrey, volevo essere Katharine o
al limite una Kim Novak qualunque.
Volevo ballare il p tap come Ginger Rogers e fare le spaccate come Cyd
Charisse.
Volevo fiori da Gene Kelly e sguardi pieni di rispe o da un James Stewart
di passaggio.
Volevo gli abi bianchi, le crinoline, gli sbuffi sulle maniche.
Volevo che Billy Wilder facesse di me un’icona e che un Errol Flynn mi
venisse a salvare.
Ma più di tu o avrei voluto essere Ruby Dee. Ruby era nera come me. E
non si è dovuta vendere. Ruby ha lo ato per i diri civili. Io non ho lo ato
mai per nulla.
Io sono stata fasciata di pelli di leopardo e ho corso nuda come Eva
peccatrice. Ero sempre inseguita da un serpente. Sempre braccata dalla
vergogna.
Ero stanca io, stanchissima.
Fu allora, quasi per caso, che l’occhio destro si posò sui panni stesi ad
asciugare.
Uno sguardo svogliato, privo di nervi.
Ma tanto bastava a riempire il mio campo visivo di lenzuola, maglie, fute,
garees e gun ino. E nel bianco spiccava il blu.
Lo avrei riconosciuto tra mille blu quel blu. Quella stoffa la conoscevo
bene. Mio padre se l’arrotolava in testa e non se la levava mai.
«Allora ogni tanto se la toglie» dissi tra me.
In un a mo mi avvicinai e rubai il blu.
Non vidi mio padre quel giorno.
Non vidi mio padre in nessun altro giorno.
Non lo vidi mai più, a dir la verità.
Di lui mi era rimasta solo quella stoffa blu, quello strano turbante, che
fino a poche ore fa non mi sarei levata dalla testa per niente al mondo.
E poi quel gabbiano con un gesto, in mezzo a piazza dei Cinquecento, me
lo ha strappato via.
Ti rendi conto, elefan no mio, di quel che ha fa o?
Era il segno della mia schiavitù e delle mie an che vergogne, quel
turbante.
Era il giogo che avevo scelto per redimermi.
Come fare ora senza la mia schiavitù in testa? Come fare a espiare ora
tu e le mie colpe?
«Ahmed,» chiesi chiamando finalmente mio marito per nome «perché
non mi hai aiutata?»
«Certo che ho aiutata,» mi disse Ahmed con un’aria diver ta «quel
gabbiano ce l’ha mandato il cielo.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Ahmed… ahi Ahmed, mi mancherai.
Non avevo mai capito fino a quel momento quanto mi amasse quel
ragazzino raccolto alla stazione. Sono stata stronza ad averlo chiamato
tu o questo tempo Titanic.
Elefan no, ahi quan errori faccio. Mi mancano mio padre e mio marito.
Ahmed mi ha fa o pure un regalo, pensa.
«Questo l’ho preso per te,» ha de o «non volevo andarmene senza dar
un regalo.»
Il pacco era grande.
Ho strappato la carta gialla.
È stato meraviglioso vedere che mio marito, perché ancora lo era, mi
aveva comprato una telecamera.
«Dove li hai trova i soldi?»
«Ho fa o qualche debito, poca cosa, e poi gli amici mi hanno dato una
mano.»
«Davvero?»
«Non ho mai fa o regali. E mi dispiaceva andarmene senza un pensiero
per te. Sei stata carina. Mi hai salvato. Mi hai amato. Ti ringrazio per
questo.»
«Grazie» ho sussurrato.
Ahmed mi ha abbracciato in mezzo a quel caos capitolino.
E poi mi ha de o: «Ora potrai filmare quello che vuoi, ora potrai narrar
come pare e piace».
«Dici sul serio?»
«Sì, sul serio. E potrai finalmente scoprire cosa c’è al di là del mare.»
Intorno, piazza dei Cinquecento sorrideva.
Nota storica

Nel romanzo si intrecciano tre momen storici: il colonialismo italiano, la


Somalia degli anni ’70, e la nostra a ualità che vede il Mediterraneo
trasformato in una tomba a cielo aperto per i migran .
I personaggi di Adua ballano sull’archite ura di questa storia al plurale e
la fanno in un certo senso propria. Nel corso della narrazione non ho
analizzato queste epoche nel de aglio perché volevo trasformare gli even
storici in emozioni, visioni, vissu .
Ora però vi vorrei dare qualche elemento in più per inquadrare il
contesto che fa da sfondo ai miei personaggi.

Il colonialismo italiano è stato uno dei grandi rimossi della storiografia del
nostro paese. Solo grazie all’opera monumentale Gli Italiani in Africa
Orientale di Angelo Del Boca (Laterza 1976, ora riedita da Mondadori) si è
affrontato per la prima volta un tema che per tanto tempo è stato nascosto
so o un tappeto di omertà. Oggi per fortuna disponiamo di una vasta
scelta di tes storiografici e non. Segnalo in par colare: Nicola Labanca,
Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino, 2002);
Giulie a Stefani, Colonia per maschi (Ombre Corte Editore, 2007); David
Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi (Laterza,
2015); Ruth Ben-Ghiat, Italian Fascism’s Empire Cinema (Indiana University
Press, 2015), e il romanzo di Ennio Flaiano Tempo di Uccidere.
Spesso si crede, erroneamente, che il colonialismo sia stato solo opera
del Fascismo, quando invece ha cara erizzato da subito la poli ca del
Regno d’Italia. Il suo primo a o, quasi a ridosso dell’Unità d’Italia, è stato
l’acquisto, nel 1869, della Baia di Assab da parte della società Ruba no.
La vicenda di Zoppe copre l’arco di tempo che precede l’incidente di Ual
Ual (1934), servito all’Italia come casus belli per muovere guerra all’E opia.
Nelle visioni di Zoppe si fa accenno anche ad alcuni even successivi, come
l’uso di gas velenosi (proibi dal Protocollo di Ginevra del 1925) durante la
guerra e ope e le rappresaglie seguite al fallito a entato a Rodolfo
Graziani (1937). Dopo questo episodio Addis Abeba fu messa a ferro e
fuoco e, con l’accusa di aver aizzato la popolazione contro i colonizzatori
italiani, indovini e cantastorie furono vi me di persecuzione. Tra queste
rappresaglie si registra anche la sanguinosa carneficina dei diaconi nel
monastero di Debra Libanos.

Per Adua lo studio è stato condo o sia esaminando film, fotografie,


biografie di a rici più o meno famose (come Dorothy Dandridge, Anna May
Wong, Nina Mae McKinney e sopra u o Marilyn Monroe), sia studiando il
cinema italiano (in par colare il filone ero co degli anni ’70-’80) e la Tv
commerciale degli anni ’80-’90.

Titanic invece si nutre del mio lavoro con i ragazzi rifugia . Il corpo
migrante deve affrontare non solo il razzismo e la diffidenza degli
autoctoni, ma sempre più spesso anche una presa di distanza (se non
addiri ura un’aperta os lità) da parte della stessa “comunità” di
appartenenza. Nel rapporto Adua-Titanic c’è questa forte ambiguità.
Per un approfondimento vi consiglio di leggere La negazione del sogge o
migrante di Flore Murard-Yovanovitch, edizione Stampa Alterna va:
h p://www.stampalterna va.it/libri/spec034/flore/la-negazione-del-
sogge o.html.
Sul tema migran e rifugia sono numerosi i libri che vi potrei suggerire,
tra ques due sono sta fondamentali per la mia formazione Yesterday,
Tomorrow: Voices from the Somali Diaspora di Nuruddin Farah (in Italia era
stato pubblicato nel 2003 dall’editore Meltemi con il tolo di Rifugia ed
era stato o mamente trado o da Alessandra Di Maio) e Borderlands/La
Frontera: The New Mes za di Gloria Anzaldúa (che in Italia è stato edito nel
2000 da Palomar con il tolo Terre di Confine/La Frontera).

Un ul mo avver mento. Per esigenze di narrazione ho dato origine a


piccoli anacronismi. Ho an cipato di un anno la presenza di Maria Uva a
Port Said (a estata a par re dal 1935) perché per me questa donna ha
un’importan ssima valenza simbolica. Inoltre non ho prove della presenza
di interpre neri a Roma nel 1934, so invece, da fon documentarie e
familiari, della loro presenza durante la guerra d’E opia (1935-1936). Mio
nonno è stato interprete durante il colonialismo, lavorando anche per
Rodolfo Graziani. Per ques mo vi mi sono sempre interrogata sul
processo di traduzione e, sopra u o, sulla sofferenza provata
dall’interprete quando è anche un suddito coloniale. Mi sono a accata più
che potevo alle poche e fugaci no zie in mio possesso e ho aggiunto il
resto con il cuore e la scri ura.
Glossario

Il somalo è una lingua molto complessa, il suo alfabeto ufficiale è stato


codificato solo nel 1972. Durante la stesura di Adua è nato in me il
desiderio di res tuire la sonorità di questa lingua presentando i termini
somali come trascrizioni fone che pensate per i le ori italiani. Per
completezza, nel glossario ho riportato tra parentesi la loro corre a grafia.

Aabe (Aabe): padre


Abaayo (Abaayo): sorella
Adon (Adon): servo, schiavo
Afar indo (Affar indhood): qua rocchi
Alif, ta, mim, ra, sad, dad, shin, sin (Aliif-taa, miim, ra, saad, daad, shiin, siin): le ere dell’alfabeto
arabo
Aniga sahibka waye (Aniga waxan ahay saxibka): io sono tuo amico
Ano geela (Caano geel): la e di cammella
A er (Ca er): profumo
Baalayo (Balaayo): impiastro
Beer iyo muufo (Beer iyo mufo): fegato e focaccia
Beeriis skukaris (Beriis skukariis): riso cucinato assieme allo spezza no
Curbash (Karbash): frus no
Du’a (Duuco): benedizione
Duhuur: preghiera canonica islamica da compiersi all’ora di pranzo
Fallou (Faaloow): stregone
Gaal (Gaal): infedele, straniero, bianco
Ganbeer (Ganbeer): sgabello
Garbasar (Garbasar): foulard
Garees (Garees): ves to da donna
Geerer (Jeerer): testacrespa, epiteto dispregia vo per i somali bantù
Gor gor (Gor gor): avvoltoio
Gudnisho (Gudnisho): infibulazione
Gun ino (Gun ino): ves to da donna
Halua (Haalwo): dolce pico del Corno d’Africa
Hooyo (Hooyo): mamma
Hus (Huus): celebrazione
Injeera (Canjeero): pane pico del Corno d’Africa
Jellaba (Jellabib): tunica araba
Jidaal: stagione secca
Ko i amuso waa dhintay (Ko i amuso waa dhintay): chi tace muore
Laabo dhegah (Laabo dhegax): due pietre
Ma’an (Macaan): dolce, dolcezza
Maghrib: preghiera canonica islamica da compiersi al tramonto
Maktub (Maktoub): già scri o
Maskin (Maskin): povero
Munar (Muunarada): faro
Odaay (Odaay): vecchio
Sanbusi (Sanbuusi): fago no ripieno di carne e cipolle
Sengibil (Sengibiil): zenzero
Shai (Shahi): tè
Shai addes (Shah Cadees): tè con la e
Shash (Shash): foulard
Sheko sheko, sheko hariir (Sheko sheko, sheko hariir): storia storia, oh storia di seta (incipit di molte
fiabe somale)
Shermu a (Sharmuto): pros tuta
Si fian uu r r (Si fiacan uu r r): asciuga bene
Sil (Siil): vagina
Suq (Suuq): mercato
Tenastellen: saluto amarico
Tuqul (Tuqul): capanna
Uauarei (Wawareey): aiuto
Waa sku haare (Waa sku haare): mi sono cagato addosso
Wallahi (Wallahi): formula di giuramento
Yaa tahay? (Yaa tahay?): chi sei?
Zap (Zaab): pranzo fes vo
Ringraziamen

Ho molte persone da ringraziare.


Ringrazio prima di tu o Leonardo De Franceschi. È stato lui a chiedermi
una pos azione per il suo volume L’Africa in Italia. Per una controstoria
postcoloniale del cinema italiano (Aracne, 2013). Quella pos azione mi ha
spinto a ragionare sui temi che poi ho sviluppato in questo romanzo. Senza
quella pos azione forse Adua non esisterebbe. Grazie Leonardo, grazie di
cuore.
Il romanzo però ha avuto anche un’altra sugges one. La scri rice romana
Giacome a Limentani un giorno mi ha fa o vedere una sua foto di
infanzia: lei bambina e tre ascari probabilmente somali nel quar ere Pra .
Era l’anno del primo anniversario della conquista dell’E opia e Mussolini
fece fare una grande parata a via dei Fori Imperiali. Era una foto incredibile
quella. La guardavo e il mio cuore si riempiva di sensazioni contraddi orie.
Quanto era bella Giacome a bambina e quanto fieri quei tre somali in
trasferta. Ho anche pensato che quelle qua ro persone che si erano
incontrate per caso avevano (anche se non lo sapevano al momento della
foto) un des no comune. Giacome a, una bambina ebrea, e gli ascari,
suddi di una colonia africana, avrebbero a raversato il 1938 con le sue
atroci leggi razziali. Quella foto era in un certo senso la quiete “prima” della
tempesta. Per questo ho introdo o la bambina ebrea e i suoi genitori nella
storia. La bambina non è Giacome a, ma rappresenta il des no comune di
chi ha sofferto so o il Fascismo.
Poi naturalmente voglio ringraziare la mia famiglia che mi ha sopportato.
Mamma, papà prima di tu o. Due genitori fantas ci che mi appoggiano
sempre. Sono fortunata ad avere due genitori così meravigliosi. Poi i miei
due fratelli Abdul e Mohamed, le mie cugine-sorelle-più che sorelle Zahra e
Sofia, Ambra, Andrea, Mohamed Deq e mia cognata Nura. Sono stata un
po’ presa e li ho un po’ trascura . Ma senza il loro sostegno questo libro
non avrebbe potuto nascere.
Vorrei anche ringraziare Rino Bianchi perché in qualche modo Adua è
cresciuta dopo che io e lui abbiamo lavorato al libro Roma negata. Percorsi
postcoloniali nella ci à (Ediesse, 2014). Vedere le sue fotografie mi ha dato
la spinta a rendere Adua quasi un simbolo.
Ringrazio le mie amiche a rici Esther Elisha e Gamey Guilavogui. Loro,
anche se sono a rici moderne, devono spesso affrontare uno star system
che è ancorato a vecchi stereo pi. Però sono donne for e non
soccombono. In un certo senso Adua è dedicato a loro che sono riuscite ad
avere un des no diverso rispe o a quello della protagonista di questo
libro. Esther e Gamey sono lo atrici e se il cinema (ma anche il teatro) in
Italia cambierà dipenderà da persone come loro.
Voglio inoltre ringraziare Chiara Belli che mi ha seguito nel lavoro di
edi ng e mi ha insegnato a togliere il superfluo. Quello che ho imparato
con lei non lo dimen cherò facilmente. Ringrazio la Giun e Benede a
Centovalli per aver creduto in questo proge o.
Poi un grazie enorme a Shaul Bassi, Ruth Ben-Ghiat e Jama Musse Jama.
Questo libro è stato i nerante. L’ho scri o a Roma, ma anche in altre ci à.
Sono state fondamentali Venezia (dov’ero ospite di Shaul), New York (Ruth)
e Hargheisa (Jama).
Poi vorrei ringraziare in ordine sparso tan amici che mi hanno
consigliata e ascoltata: Daniele Timpano, Elvira Frosini, Erika Manoni, Maria
Cris na Ola , Il gruppo dei libri in testa (Elvio Cipollone, Michele
Governatori, Nadia Terranova, Giuseppe Ierolli), Amin Nour, Amir Issa,
Maaza Mengiste, Francesca Melandri, Ka a Ippaso, Annalisa Bo ani,
Gabriella Kuruvilla, Viviana Gravano, Giulia Grechi, Tahar Lamri, Piergiorgio
Nicolazzini, Tomaso Montanari, Tiziana Giansante, Chiara Nielsen,
Frederika Randall, Clarissa Botsford, Valeria Brigida, la rivista
Internazionale.
Un grazie enorme alla mia Roma, musa e fonte costante di ispirazione.
Poi sì, vorrei ringraziare Bernini. Senza di lui Adua non avrebbe trovato un
elefante dalle grandi orecchie a cui raccontare la sua storia. Il nostro
patrimonio culturale è anche un patrimonio sen mentale. E comunque,
lunga vita agli elefan !
Indice

1 - Adua
2 - Paternale
3 - Zoppe
4 - Adua
5 - Paternale
6 - Zoppe
7 - Adua
8 - Paternale
9 - Zoppe
10 - Adua
11 - Paternale
12 - Zoppe
13 - Adua
14 - Paternale
15 - Zoppe
16 - Adua
17 - Paternale
18 - Zoppe
19 - Adua
20 - Paternale
21 - Zoppe
22 - Adua
23 - Paternale
24 - Zoppe
25 - Adua
26 - Paternale
27 - Zoppe
28 - Adua
29 - Paternale
30 - Zoppe
Epilogo - Piazza dei Cinquecento
Nota storica
Glossario
Ringraziamen

Potrebbero piacerti anche