Narratori Giun
Collana dire a da Benede a Centovalli
Il libro
Adua
Adua è oggi una donna matura e vive a Roma da quando ha diciasse e anni. È una Vecchia Lira, così
i nuovi immigra chiamano le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Se anta.
Ha da poco sposato un giovane richiedente asilo sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto
ambiguo, complicato. Non a caso lo chiama sempre Titanic, lo fa per rimarcare una differenza e forse
per ferirlo un po’. Adua è confusa e a un bivio della sua vita. Medita di tornare in Somalia, paese che
non ha più rivisto dallo scoppio della guerra civile. Ormai è sola a Roma, la sua amica Lul è già
rientrata in patria. Per questo confida i suoi tormen alla statua dell’elefan no del Bernini che regge
l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano racconta a questo amico di marmo la sua
storia: figlia di Zoppe, ul mo discendente di una famiglia di indovini, il padre lavorava come
interprete durante il regime fascista. Negli anni Trenta Zoppe bara erà involontariamente la sua
libertà con la libertà del suo popolo. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla di atura comunista,
approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema. Purtroppo l’unico film da lei interpretato, un
porno so dal tolo Femina Somala, sarà fonte solo di umiliazione e vergogna. E solo adesso che il
suo Titanic sta per par re, Adua si rende conto di essere pronta a riprendere in mano la sua vita.
Romanzo a due voci, quella di un padre e di una figlia, Adua indaga il loro rapporto impossibile e lo
fa seguendo tu e le loro luci e le loro ombre. Ma alla fine Adua è sopra u o il racconto di un sogno,
quello della libertà che ha consumato in modo diverso e in tempi diversi le vite di entrambi.
L’autrice
Igiaba Scego
Nata a Roma nel 1974, collabora con «Internazionale», «Lo straniero», «la Repubblica». Tra i suoi
libri: Pecore nere, scri o insieme a Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi (Laterza 2005);
Oltre Babilonia (Donzelli 2008); La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010, Premio Mondello 2011),
Roma negata (con Rino Bianchi, Ediesse 2014). Esperta di transculturalità, adora gli elefan , i ga , il
parmigiano, la cedrata e Caetano Veloso.
Per altre no zie sull’autore:
h p://www.giun .it/autori/igiaba-scego/
Dicono del libro:
h p://www.giun .it/libri/narra va/adua/
Altri toli in collana:
h p://www.giun .it/editori/giun /italiana/
A Dorothy Jean Dandridge, Anna May Wong, Nina Mae McKinney, Ha e McDaniel,
Marilyn Monroe e tante altre che hanno tentato di far cinema nonostante la gabbia
che il sistema ha costruito loro addosso.
She’s living the life just like a movie star.
Santana, Maria Maria
Ah sacré papa.
Dis-moi où es-tu caché?
Ça doit…
Faire au moins mille fois que j’ai
Compté mes doigts.
Où t’es? Papaoutai?
Stromae, Papaoutai
1
Adua
Stai composta, Adua. Togli quei gomi dal tavolo. E asciuga quella bocca
sudicia. La schiena dri a, per Dio. Perché te ne stai tu a floscia? Hai le
mani zozze, lavatele subito, se no bastono. È questo il modo di guardare
tuo padre, Zoppe, screanzata? Sei come tua madre, Asha la Temeraria,
quella poco di buono. Tua madre, quella troia, che è morta lasciandomi qui
solo con il mio amore. Come si è permessa di morire? Eh? Come si è
permessa? Malede a femmina! E tu? Morirai pure tu? Hai gli stessi occhi
suoi, non li sopporto! Ma vedi come aggiusto io. Con me non si scherza,
si riga dri o, ragazza. Ora la musica è cambiata, non è come nella
boscaglia, dove viziavano. E, se non ubbidisci, lo sai cosa succede, sì?
Ecco, allora stai dri a con quella schiena e per carità non piagnucolare. Mi
ur i mpani. Zi a. Ecco, stai zi a!
3
Zoppe
Quel giorno di febbraio del ’34, una polvere rosa ricopriva i palazzi di
Roma.
Erano in tre a picchiarlo. Uno lo teneva fermo, gli altri lo riempivano di
bo e.
Il più giovane strinse Zoppe con tu a la forza. I picchiatori ridevano di
quello zelo a buon mercato. «Bravo, Beppe! Tienilo, stritolalo per bene
questo bastardo di un negro.» E Beppe ubbidiva.
Zoppe sen va un fuoco divampare dalla sua pelle. E se l’era fa a addosso
come quando era bambino.
«Wa sku haare» disse biasimando se stesso. «Cagato… io… perché.»
Le parole gli uscivano fuori con lentezza. Si sen va umiliato, solo, un
fru o avvizzito su una pianta ancora acerba.
«Oh madre mia, quando finirà questo strazio?»
La bocca nel fra empo aveva cominciato a gocciolare sangue.
«Madre…» invocò.
Hooyooy ma’an…
«Parla da solo questo scemo di un negro.»
Hooyo…
«Camera , lo scemo con nua.»
Hooyooy ma’an…
«Vuole farci proprio arrabbiare.»
Hooyo…
«Bruciamogli i piedi, ragazzi.»
Hooyooy ma’an…
«Caviamogli gli occhi.»
Hooyo…
«Rompiamogli il naso.»
Il naso no, il suo bel naso no. Con un calcio nel culo Zoppe si ritrovò
disteso sul pavimento.
«Lo sai che fai schifo, negre o?» lo apostrofò Beppe. «E ora vuoi pure
che puliamo la tua merda, eh signorino?»
«Leccala» replicò il compare. «Ripulisci questa merda.»
«Qui la festa è finita per te, pidocchio» aggiunsero i tre in coro.
Zoppe vide le punte tonde degli s vali sulla sua testa e chiuse gli occhi.
E si ricordò della bambina bionda e del suo gigantesco papà.
*
Zoppe era ubriaco di paura. Ma a quella visione freme e di gioia.
Il gigante e la sua bambina bionda.
Ah, quanto gli mancavano.
Wallahi, gli mancavano da morire.
Vederli in quella strana bruma di sogno fu per lui una sorpresa
inaspe ata. Perché erano venu ? Avevano forse colto il suo grido di aiuto?
«Uauarei, uauarei, uauarei, uauarei» aveva gridato.
«Aiuto» aveva sussurrato mentre lo torturavano.
Il padre e la sua bambina…
Erano così belli insieme, allegri per le strade di Pra .
Da mesi li vedeva mano nella mano. Abitavano a pochi metri dalla casa
dove soggiornava. Era stato inevitabile guardarsi la prima volta. Lui
guardava loro e loro guardavano lui. Senza quella curiosità maligna dei
bianchi, quelle mani fameliche dentro i suoi capelli ricci, quei commen
velenosi sul colore della sua pelle. Il padre e la bambina lo guardavano con
occhi umani.
Fu così bello ritrovarli in quella nebbia fa a di rugiada. La visione era
piena di interferenze, ma loro due, il padre e la bambina, si stagliavano
ni di in quel cielo gravido di incertezze.
Avrebbe voluto dire loro: «Grazie di essere venu a trovarmi in quest’ora
così buia», ma si poteva dire grazie a una visione? La bocca poi era troppo
gonfia di sangue per poterla usare. Riusciva solo a biascicare bestemmie e
preghiere in ordine sparso.
In altre circostanze si sarebbe alzato e li avrebbe abbraccia . Quei due
rimanevano sagome, proiezioni, visioni. Non erano di carne, né tantomeno
di ossa. Erano lì in piedi, a preoccuparsi per lui. In ogni visione, questo
glielo aveva insegnato il padre indovino, c’è sempre un fondo di verità, di
carnalità. Il padre e la bambina non erano lì per davvero, ma forse stavano
pensando a lui. Avevano intuito, visto qualcosa nella foschia del pensiero.
Padre e figlia non sapevano che lui fosse in pericolo, ma le anime sensibili
fiutano l’aria come i facoceri. A loro non sfugge mai nulla, almeno questo
sosteneva il suo vecchio. Ah, come sarebbe stato bello abbracciarli per
davvero, stritolarli di affe o, fondersi insieme alle loro preoccupazioni così
dolci. Ma Zoppe non sapeva abbracciare le persone. Nel suo villaggio in
Somalia gli abbracci erano per l’in mità di un talamo, per la complicità
degli aman . Non era cosa da sprecare un abbraccio. Gli abbracci non
erano per gli amici o per chi si conosceva per caso.
Zoppe non sen più i calci ca vi. Esistevano solo il padre e la bambina,
mano nella mano, per le stradine scoscese del quar ere Pra .
E poi il pensiero corse a sua sorella Ayan…
“Mi manchi…”
“Magalo è così lontana, sorellina mia. Magalo è così distante da questa
Roma dove sono finito. Sarai cresciuta adesso, sarai una donna. Dimmi,
Ayan, che stai facendo? Ora, adesso, che stai facendo?”
Zoppe la cercava, ma lei non c’era. “Chissà se nostro padre ha insegnato
a leggere gli astri.”
Aveva sete.
Tanta, tanta sete.
*
«Sme amo, eh?» disse a un certo punto Beppe.
«Sì, se no così lo uccidiamo. Ci hanno de o di diver rci un po’. Mica di
ucciderlo. Dopotu o è uno che lavora per noi, e di ques interpre mica ce
ne abbiamo a mucchi, il mio superiore dice sempre che ques qui sono da
tra are con i guan , la guerra contro il lurido abissino è vicina, ci
serviranno…»
«Ma se è un negro, a chi può servire un negro? Dai, su, siamo seri.»
Zoppe quasi non ascoltava le parole. Potevano fare di lui quello che
volevano. Ormai il suo des no era già scri o. Era tu o maktub.
Si ricordò di quando il padre gli diceva: «Guarda le stelle e poi guarda il
loro riflesso nel ca no. In quella luce troverai». Da quanto non compiva i
ri ? Roma lo aveva così impigrito. Si scordava di fare le cinque preghiere
verso la Mecca, si scordava di benedire gli antena , si scordava delle du’a
più elementari.
Suo padre lo avrebbe rimproverato e anche sua sorella Ayan lo avrebbe
guardato storto. Non lo avrebbero ascoltato e forse non avrebbero creduto
alle sue lamentele. «Non ci sono stelle qui a Roma, non si vedono, si
confondono.»
«Gli astri,» avrebbe de o suo padre «non stanno in cielo. Non hai
provato nemmeno a cercarli.»
Era vero. C’era tu o quel lavoro che lo assorbiva. Ogni giorno doveva
tradurre, tradurre, tradurre e tradurre. Parole da decifrare ogni minuto,
sospiri da segnalare ogni secondo, e poi tu e quelle malede e virgole da
analizzare. Era un interprete, un mago quasi. Un lavoro serio il suo, mica
come quegli ascari costre a suonare la tromba e a rantolare nella sabbia,
carne da macello per il campo di ba aglia. Lui era sempre elegante nella
sua divisa color cachi. Mai una piega molesta a incasinargli la simmetria.
Era uno dei migliori sulla piazza. Era, a de a di tu , il migliore. Unico nel
suo genere. Persino qualche gerarca si era accorto di lui. Parlava l’arabo, il
somalo, il kiswahili, l’amarico, il grino e una montagna di lingue piccole
u li per la futura guerra. Questo dono lo aveva preso da suo padre
indovino. L’italiano, invece, gliel’avevano insegnato i gesui . Era stato un
a mo per Zoppe saltare in groppa a quella lingua e farla sua. Gli era
venuto in mente che lavorare per i nuovi padroni del paese gli avrebbe
fru ato un po’ di qua rini. «Io non lo farei, ragazzo mio,» aveva de o il
padre appena venuto a conoscenza delle sue intenzioni «le stelle dicono…»
Ma Zoppe l’aveva interro o subito: «Basta con queste stelle, la vita vera,
padre, è fa a di qua rini, io ne voglio abbastanza per vivere felice ed
essere invidiato dal mondo. Voglio che tu si inginocchino ai miei piedi». Il
padre l’aveva guardato come si guardano gli escremen . Ma non aveva
de o nulla. Ognuno ha il suo cammino da seguire, i baratri dove
precipitare. Si era ammutolito e aveva smesso di consigliare quello
sgangherato figlio che gli era toccato in des no. Zoppe fu contento di quel
silenzio. Suo padre e tu a la sua saggezza gli davano ai nervi. Era sempre
troppo giusto, troppo perfe o. «E fammi sbagliare in pace» urlava Zoppe
nei momen in cui se ne stava solo.
«Sarai mica morto, negre o?» disse Beppe, stra onandolo.
Prima di quei pugni e di quegli insul si era sen to per un a mo
appagato da tu o quel mondo variegato che lo lodava, da quella gente che
lo lusingava. E poi c’era stata Roma a soggiogarlo. Quando gli avevano
comunicato che avrebbe passato qualche mese in Italia, nella ci à eterna,
Zoppe pensò a un miracolo. Un negro a Roma? Proprio lui? Roma era il suo
sogno, la conosceva ancor prima di conoscerla. «Ti daremo da lavorare.
Documen da tradurre per lo più.» Aveva preso quel trasferimento come
un premio, un riconoscimento alla sua abnegazione, alla sua fedeltà. Il
lavoro era molto, ma sopra u o doloroso. Perché in quelle carte c’era
odore di tradimento. La guerra era vicina e qualcuno già si affre ava a
me ersi nelle accoglien braccia dei vincitori. Qualcuno avrebbe potuto
dire la stessa cosa di lui, chiamarlo persino collaborazionista. Ma lui non
stava tradendo nessuno. Non avrebbe levato mai un’arma contro un suo
vicino, un uomo con lo stesso suo colore di pelle. Lui traduceva e basta. Era
un ambasciatore della lingua, un mediatore, non portava pena. Lui lavorava
sul presente, sull’a mo che passa. Magari ci poteva scappare una bella
ricompensa. Un giorno sarebbe tornato nella sua terra e avrebbe costruito
una casa grandissima. Lì avrebbe portato Asha, la figlia del vecchio Said
l’orbo, lì l’avrebbe posseduta, lì lei sarebbe diventata sua moglie, lì lei
avrebbe cresciuto la loro prole.
*
La visione era ancora lì a confortarlo.
Il padre e sua figlia…
Il quar ere…
Gli alberi…
La cupola di San Pietro…
Poi il glicine in fiore…
L’odore delle donne…
I sorbe da passeggio…
Il passo marziale dei solda …
Il fruscio delle gonne arcobaleno…
Le urla dei neona in fasce…
Gli scarponi sui sampietrini sconnessi…
E di nuovo un padre…
E di nuovo una figlia…
Il conta o delle loro mani…
Il loro sorriso…
Le loro speranze dipinte di blu…
Zoppe fu confortato da quelle immagini opache e zigzagan .
Da quelle visioni più soffici del vento.
Si sorprese della sua memoria fotografica.
Aveva conservato ogni de aglio, ogni piccola sfumatura di quel suo
passato così recente.
Ricordava sopra u o la bambina.
Il suo ves no a fiori, il cappo no beige, i guan rossi e quel cappellino
di feltro a forma di campana.
Che bella testolina aveva. Una testolina ovale che affondava tu a quanta
in quel minuscolo cappellino an co.
Come gli ricordava sua sorella Ayan.
Anche Ayan aveva una bella testolina. Ma Ayan non aveva quel cappellino
così carino.
«Se esco vivo da qui,» balbe ò «gliene comprerò uno uguale.»
I calci avevano sos tuito i pugni. Colpivano forte, colpivano duro. Zoppe
si strinse alla visione per non cedere alla morte.
Aveva ombre davan a sé, ma era a loro che affidava la sua anima.
La bambina sorrise. Zoppe notò con tenerezza che stava perdendo i den
da la e.
“Se ques energumeni mi spaccano, il naso la bambina non mi
riconoscerà” il pensiero di cambiare faccia terrorizzava Zoppe.
“Spero che il papà la por lontano. Il più lontano possibile.”
“Sì… il più lontano possibile da qui.”
*
Zoppe si ricordava ancora di quando era andato a pranzo a casa dell’uomo
e della sua bambina tre mesi prima.
Era mercoledì e il quar ere viveva una strana atmosfera di a esa.
Nell’aria profumi di campagna si fondevano in un’intensa melodia alle
fragranze acri della ci à. Ed è così che il pelo del cavallo, la rosa selva ca, il
fieno lavorato si amalgamavano complici con i motori a scoppio delle
automobili e i gas di scarico delle motore e.
«Perché non vieni a pranzare a casa nostra?» gli chiese la bambina.
Zoppe, che era ves to con la sua solita divisa color cachi, fu colto alla
sprovvista da quella richiesta bizzarra.
Era fermo sul ciglio della strada, pronto ad a raversare e spiccare il volo
verso la sua vita di quel giorno, verso altre parole da tradurre. Era ferma
pure la bambina sullo stesso marciapiede. E il padre gigantesco a pochi
metri a proteggerla dal vento e dalla disperazione.
«Comunque io mi chiamo Emanuela con la E, mi raccomando. Non mi
piace quando mi chiamano Manuela con la M,» e poi riprendendo fiato
aggiunse «e questo è il mio papà. Si chiama Davide. Stringetevi la mano
adesso. Bene così, da amici.»
E si strinsero le mani. Tu e tre.
La bambina aveva un tono saputello. Quasi fas dioso.
Le piaceva dare ordini.
Si vedeva che era molto viziata dai genitori, l’unica cocca della casa.
Le mancava disciplina.
Ma c’era lo stesso qualcosa che a Zoppe piaceva da ma .
Il somalo allungò il suo braccio destro e allargò la palma della mano per
accogliere Davide.
Zoppe notò che aveva una stre a forte e poderosa. Una stre a che
me eva a tuo agio e dava fiducia.
«Allora vieni da noi?» lo incalzò la bambina con quel suo tono
martellante.
Li aveva osserva a lungo da lontano. Il padre e la sua bambina. La
bambina e suo padre.
Stesso sguardo a ento. Stessa fronte corrugata.
A occhio la bambina aveva o o, forse nove anni.
La stessa età di Ayan.
E anche lei aveva due occhi che brillavano al sole come smeraldi.
«Allora vieni?» chiese la bambina.
Cosa rispondere?
Lui era in quella terra straniera ormai da mesi e la bambina con il suo
grosso padre erano gli unici che accennassero con il capo un segno di
saluto. Solo loro in quei luridi e lunghissimi mesi. In questo Roma era stata
avara con lui. E pensare che aveva immaginato belle donne bionde a sua
disposizione e tan amici con cui giocare a biliardo. Ma aveva presto
scoperto che un negro a Roma doveva far bene a enzione. «Se possibile,»
gli aveva de o uno dei capi «dovres far di tu o per sparire.»
Lui Roma se l’era immaginata una reggia a cielo aperto, invece ci
pisciavano cani e umani. E a volte il puzzo di latrina gli faceva venire il
voltastomaco. Ma mai quanto la tristezza di vedere quanto poco era amato
dalla popolazione. A volte il disgusto nei suoi confron si palesava in spu
improvvisi che lui schivava con gran maestria.
Ecco perché doveva sparire, rendersi invisibile.
Per strada correva sempre. Voleva essere scambiato per un’illusione
o ca, non per un negro.
Era diventato una sae a ad a raversare Roma.
Nessuno ormai lo notava più. Era troppo veloce da acchiappare.
Gli mancava Magalo e la lentezza bovina di quella ci à oceanica. Lì era
importante, a tu e le ore del giorno e della no e. Nessuna donna lo
schifava o lo scansava. E poi di donne quante ne voleva.
«Se io mi chiamo Emanuela, tu come chiami, signore?» chiese la
bambina.
«Io mi chiamo Mohamed Ali, ma la gente mi chiama Zoppe.»
«Perché zoppichi?» chiese la bambina.
«Sì, perché zoppico. Da piccolo ho avuto una bru a mala a, ma poi mi
sono salvato.»
«È stato fortunato» intervenne Davide.
«Fortunato… be’ sì» replicò Zoppe.
«È da un po’ che vediamo io e papà, sai?» disse la bambina.
“Dopotu o anch’io vi guardo” avrebbe voluto rispondere Zoppe, ma non
disse nulla. Aspe ò che quella strana coppia a passeggio aggiungesse altri
de agli.
«Allora ci vieni da noi? Eh? Ci vieni?»
«Non so. Non ero preparato ad andare a pranzo fuori» rispose Zoppe
pieno di vergogna.
«Mica devi preparar , signore.»
«Non essere scortese, Emanuela» la ammonì il padre.
«Non si preoccupi,» intervenne Zoppe «è una bambina. Anch’io da
piccolo parlavo così. È il bello di quest’età, non le pare?»
«E da bambino eri così tanto marrone come sei adesso?» chiese lei.
Il padre divenne livido e rosso.
«Emanuela, non me ere in imbarazzo il signore.»
«Nessun imbarazzo, davvero,» replicò Zoppe diver to «e risponderò a
sua figlia. Sì, marrone anche da ragazzino. Come tu sei rosa io ero
marroncino e lo sono ancora, come vedi.»
«Nella tua ci à ci sono i feroci leoni? Li ho vis sul libro di scuola.»
«Sì, e anche le zebre» rispose Zoppe.
«E i rinoceron ? Li hai vis i rinoceron ?»
«Ti dirò di più. Ci sono le an lopi, le iene, le giraffe e un giorno ho visto
una mandria di gnu pron a inseguire un sogno.»
«Cosa sono gli gnu? Non ci sono nel mio libro. Com’è fa o uno gnu?»
«È una vacca, un po’ grossa, gobbosa e decisamente pelosa.»
«E si mangia?»
«Non l’ho mai assaggiata.»
La bambina lo guardava con meraviglia. E anche Davide, suo padre, aveva
gli occhi pieni di curiosità.
«È la prima volta che viene a pranzo da noi un uomo marrone. E poi sei
fortunato, oggi mamma ha fa o i carciofi nella pentola grande e la crostata
con le visciole.»
«Sembra buono. Ma ecco, io non ho niente da portarvi. Fatemi comprare
le pastarelle, almeno.»
«Sei nostro ospite oggi,» disse Davide «per noi oggi sei sacro. Domani se
vuoi compra pure le pastarelle.»
Zoppe sorrise, non era più abituato al calore.
«E poi anch’io sono curioso» aggiunse. «Io non sono mai stato in una
casa ca olica. Avete il crocefisso?»
La bambina guardò il padre.
Zoppe sen che qualcosa si era ro o nell’atmosfera gaia di un minuto
prima.
«Noi siamo diversi» sussurrò il padre.
«A scuola i compagni mi chiamano “assassina”. Dicono che ho
ammazzato Dio e che la mia famiglia va in giro a rubare i bambini. Ieri
Graziella, quella grassa che non sa ancora l’alfabeto, mi ha rato i capelli e
mi ha chiamata “mangiaoche”. Mi sono messa a piangere, perché ha rato
molto forte.»
Zoppe non capiva, confuso da parole troppo veloci.
«Emanuela,» intervenne il padre «sta tentando di dirle che noi siamo
ebrei. Per lei è un problema questo?»
4
Adua
È questo il modo di salutare i paren , Adua? Con quella faccia? Sorridi. Che
ce l’hai a fare i den se no? Sorridi. Allarga quella boccaccia che hai. E fallo
presto, se non vuoi che mi arrabbi.
6
Zoppe
Zoppe sapeva che la migliore via di fuga era dentro la sua testa.
Lì ritrovava tu gli odori perdu della sua infanzia.
Lì ano geela, shai addess, beer iyo muufo.
Lo zenzero candito.
La cannella prodigiosa.
La sua Somalia delle meraviglie.
Zoppe pensava a tu o questo rannicchiato sul pavimento gelido di Regina
Coeli. La testa ripiegata fra le ginocchia e il femore che baciava ansioso un
torace tumefa o. Ver gini e dolori lancinan a raversavano le sue vene
stanche. E gli ar doloran si sen vano sconfi . Sospe ava di avere due
costole ro e. Faceva fa ca a respirare e financo a piegarsi.
“Mi hanno maciullato per bene quei bastardi.”
E poi non conten lo avevano schiaffato senza tan riguardi in
isolamento.
«E così t’impari a prender gioco di noi.»
Beppe gli accarezzò la testa prima di consegnarlo alla penitenziaria. Lo
toccò come una madre con il suo cucciolo. Poi gli fece sorseggiare un
liquido giallo.
«Bevi, negro. Bevi.»
Zoppe trangugiò con fa ca. Fece una smorfia di orrore e sen qualcosa
bruciarlo vivo. Era forse quella la morte?
Beppe lo accarezzò ancora.
«Bevi, sen rai meglio.»
E Zoppe bevve e morì una, due, tre volte. Finché al quarto sorso il calore
cominciò ad a raversare i suoi zigomi spen .
«Il nocino di mia zia resuscita pure i mor . Vedrai che starai bene dopo»
disse il soldato Beppe sorridendo.
In quella misera cella dove era stato ficcato c’erano una branda e una
ciotola di sbobba.
Le patate mollicce galleggiavano insieme a vermi spinosi, Zoppe era
giovane, aveva tanta fame, ma non si azzardava a mangiare.
“Non voglio morire cagando in questa fetente cella.”
La stanza era quadrata, grigia, oscena. Parole vergate con dita sanguinan
riempivano quelle pare di dolore. Zoppe si mise a leggerle per capire
meglio cosa gli avrebbe riservato quel suo futuro sempre più incerto.
Da lì erano passa Mauro da Pisa, Alessandro da Bologna, Antonio da
Sassari, Lucio da Roma, Giulio da Pistoia, Simone da Rimini. La data più
vecchia risaliva al 1923. Le parole più belle al 1932. Zoppe le riconobbe
subito, amava molto il somma poeta:
Per me si va ne la ci à dolente,
per me si va ne l’e erno dolore,
per me si va tra la perduta gente…
«Non la puliscono mai. È evidente» disse rivolgendosi a un pubblico
immaginario.
La quiete di quell’isolamento non gli dispiaceva alla fine. Era una pausa
dalla tortura, da quelle bo e insensate che gli avevano insudiciato l’anima.
I suoi aguzzini si sarebbero presto fa vivi con il loro scoreggiare fe do e
le loro volgari pernacchie. Ma nel fra empo c’era a cullarlo quella strana
calma che odorava di topo.
Il dolore non passava. Era il basso ventre a fargli male da morire,
sopra u o i tes coli. Beppe aveva picchiato proprio duro. Zoppe si chiese
se dopo tu e quelle bo e il suo seme avrebbe ancora procreato. I tes coli
pulsavano e la punta del pene gocciolava un liquido giallastro. Si sen va
indolenzito. E gli occhi tumefa si aprivano a fa ca.
Aveva vent’anni ed era un vecchio.
Un odaay precoce, con la bava alla bocca e le ossa sofferen .
C’erano le sue visioni a confortarlo. Il pensiero lo catapultò di nuovo nella
casa di Davide l’ebreo e della sua bambina Emanuela.
Era stato loro ospite di recente, ma i de agli erano ancora così
spumeggian e freschi nella sua memoria che quasi non faceva sforzi a
ricordare.
Vide il rosso della marmellata di visciole che Rebecca, la moglie di Davide,
aveva preparato per finire il pranzo. Si era riempito lo stomaco con quella
crostata buonissima e aveva mangiato di gusto anche quello che era
venuto prima.
«Come si chiama questo cibo?» aveva chiesto stupito davan alla
scodella piena.
«Ques sono i rigatoni con la pajata» rispose Rebecca.
Zoppe notò in quel momento quanto madre e figlia si assomigliassero.
Avevano la stessa fronte ampia, le stesse orecchie grosse e quegli occhi di
smeraldo che illuminavano. Ma mentre Emanuela era esuberante come
tu i bambini, in Rebecca c’era qualcosa di misterioso e seducente.
Zoppe invidiò Davide.
E glielo disse: «Profuma. Ti invidio questo ricco pia o».
Davide incassò quell’invidia così dolce.
Guardandosi intorno c’era poco da invidiare. Era tu o così piccolo. Anche
i mobili erano in miniatura. La casa era composta da due spazi lega
insieme dalla luce rossiccia che filtrava da una piccola finestra. In bella vista
la cucina con il forno e gli sportelli di ghisa. Al centro un tavolo, delle sedie
sgarrupate e una poltroncina color carne. Lo spazio era affollato di
suppelle li. C’era in ogni de aglio un certo gusto per la simmetria che
faceva amare quell’ambiente così cao co. Zoppe fu a rato da un
mobile o in noce biondo con casse in finta pelle pergamena. Era un
ogge o delizioso che mal si accompagnava con la povertà dell’insieme. Era
un po’ come Rebecca quel mobile, troppo raffinato per stare al centro di
quella scena.
Rebecca…
Davide…
Emanuela…
Era stata tanta la meraviglia di vedere degli ebrei bianchi.
Zoppe aveva conosciuto solo gli ebrei falascia, i Beta Israel, del lago Tana,
anche se il padre gli aveva raccontato che in Occidente esistevano ebrei
«dalla pelle candida come la luna». Ques erano ebrei rosa, così cordiali, e
la loro casa romana così piccola e accogliente.
Zoppe fu abbagliato dalle pare ocra che si sposavano armoniosamente
con il viole o del pavimento. Lo impressionò la gran ressa di libri, erano
una ca edrale. E i ninnoli sparsi dappertu o: bambole di ceramica con i
capelli veri, pia decora alle pare , scatoline colorate e infiocche ate e
tante fotografie di gente an ca dentro lucide cornici di finto argento.
A Zoppe piaceva questo territorio di mezzo dove le visciole si mischiavano
al sapere.
Se avesse avuto il suo ca no avrebbe le o il des no di quelle tre
persone. Avrebbe visto il loro inizio e la loro fine. Le gioie tu e e i dolori
atroci. Visto i baci appassiona e i tradimen . Se solo avesse avuto il suo
ca no li avrebbe avver di tu i pericoli e di tu a la felicità del mondo.
*
«Acqua» chiese al secondino. «Ho sete.»
«Calma, negro» gli fu risposto. «Non stai al Grand Hotel. Impara le buone
maniere. Si dice: “Acqua, per favore”.»
«E che differenza fa? Tanto voi non le conoscete le buone maniere»
replicò Zoppe.
«Ah, abbiamo qui un ribelle» disse il secondino. «In altri tempi,»
aggiunse «te ne avrei fa e passare, stronzo di un negro. A Regina Coeli i
ribelli non ci piacciono. Siete zecche, inu li pidocchi dell’umanità. A Regina
Coeli è facile morire di fame e di sete, imparalo. È facile farvi abbassare
quella cresta da gallo cedrone che vi portate in testa. A Regina Coeli fai
presto a imboccare la via del camposanto. Ma tu sei un malede o
pidocchio fortunato. Mi hanno de o di non far morire. Ti porterò la tua
acqua, quindi. Ma bada bene, forse non posso uccidere, ma far passare
l’inferno questo sì.»
Zoppe non disse nulla. Avrebbe voluto spaccare il muso a quel grassone.
Ma era in catene. E con una debolezza che gli trapassava i visceri. Alla fine
aveva mangiato la sbobba di patate e vermi spinosi. Già dal primo boccone
si era reso conto che il suo stomaco si stava rifiutando di digerire quella
sbobba. Vomitare fu la conseguenza logica di un pasto mai voluto.
Zoppe era una latrina. I vermi uscivano dalla sua bocca interi. Vermi senza
pace, vivi e un po’ stordi . Li vedeva camminare len sul suo corpo
sba uto.
“Quando arriva l’acqua?”
Doveva cercare di dormire. Ma si poteva dormire in quello stato?
Si chiese se suo padre, Hagi Safar, ora sapesse della sua prigionia.
“Avrà avuto una visione.” E Zoppe pregò che il padre non soffrisse troppo
nel guardarla.
Le immagini felici della sua vita passata tapparono il dolore. Gli occhi
svegli di sua sorella Ayan, la mano dolce di suo padre, la disciplina dei
gesui che gli avevano insegnato l’italiano e le le ere acute del suo amico
e ope Dagmawi Mengiste. Erano intorno a lui e lo incitavano a non
mollare. Vedeva le loro preghiere a spirale avvolgerlo in un abbraccio di
coraggio. “Mi vogliono bene,” pensò Zoppe “e tu in questo momento
stanno pensando a me.” Anche la famiglia Limentani stava pensando a lui.
Sen va la bambina chiedere alla madre Rebecca: «Come si disegna uno
gnu, mamma? Secondo te ha la stessa gobba dei cammelli? Perché non
invi amo il signore marrone di nuovo a pranzo e non gli chiediamo se per
piacere lo disegna lui?».
Zoppe vide il viso di Rebecca chiuso in una maschera di paura. Forse
sapeva di lui. Forse la no zia del suo arresto si era sparsa.
Era finito nei guai per quel Francesco Bondi, il romagnolo dal naso a
patata e dai den gialli.
Zoppe non apprezzava nulla di quell’uomo. Era troppo alto, troppo
invadente, troppo chiacchierone. Detestava i suoi baffi mosci e quei capelli
rossi che il romagnolo si portava in testa come un trofeo. Bondi stava
sempre lì a far domande su domande, aspe andosi risposte meravigliose
che Zoppe non era in grado di dare.
E poi parlava solo di donne quello lì: dei sederi, dei seni, delle bocche, del
sesso.
Zoppe lo trovava volgare. Scontato.
«E tu ce l’hai la morosa?» gli chiedeva spesso il romagnolo.
Ma Zoppe non si sbo onava.
Certo che ce l’aveva la morosa, ma non aveva intenzione di dirlo a lui.
Asha la Temeraria era la sua donna. Ogni no e assaporava in sogno l’a mo
in cui l’avrebbe fa a sua. Ma quel pensiero così in mo non lo avrebbe
condiviso con nessuno, figurarsi con quello zo co di Francesco Bondi. Non
voleva sciupare quel nome bellissimo con un essere sudicio come lui. Il
romagnolo invece le donne le sciupava eccome. Ogni giorno era lì a
vantarsi delle sue conquiste. Mirella, Graziella, Elvira, Carlo a. Tu e dai
grandi seni e dai grandi sederi. Tu e possedute in gran fre a so o il naso
di mari distra . Lo annoiavano ques discorsi da Don Giovanni di
provincia. Non aveva troppo tempo da perdere. Doveva lavorare, lui, mica
bighellonare. Il più grande desiderio di Zoppe era fare bella figura con i suoi
superiori. Voleva onorificenze. Voleva qua rini. Per questo si doveva far
vedere a vo. Lavorare tanto non lo spaventava. Sopra u o quando
pensava ai bei regali che avrebbe potuto un giorno fare alla sua Asha la
Temeraria.
Ma poi arrivò quella strana ma na.
Francesco Bondi piombò su di lui con l’alito che ancora sapeva di sonno.
Zoppe non era solo. In quella misera e minuscola stanza, che si
vergognava a chiamare ufficio, c’era un uomo dai capelli gialli.
«Ehi negro,» urlò euforico Bondi «ieri per strada ho visto un altro negro
come te. Credevo fossi l’unico a Roma.»
Poi il romagnolo si accorse dell’uomo con i capelli gialli.
«Lei non è un militare,» disse un po’ seccato Bondi «che ci fa qui?»
«Non giudichi dall’aspe o. Sono qualcosa di più in un certo senso. Mi
chiamo Calamaro.»
I due uomini si strinsero la mano con diffidenza.
«E com’era questo negro che ha visto per strada, se mi posso
perme ere?»
«Era negro, come vuole che sia un negro…»
«Non sono mica tu uguali, sa?» fece l’uomo dai capelli gialli. «Ci sono
pi diversi, per ogni regione. I capelli e il naso divergono enormemente.
Dipende dal clima.»
«I capelli? E quella roba che ha in testa questo qua lei me li chiama
capelli?»
«Sì» disse Calamaro calmo.
«Mi prende in giro?»
Zoppe affondò il naso nelle scartoffie e con la mente vagò per la ci à di
Roma alla ricerca di quell’altro africano di cui parlava il Bondi.
Di certo doveva essere quel Menghistu Isahac Tewolde Medhin. La testa
calda eritrea. Lo aveva incontrato un giorno, per caso, nei pressi della
pensione Tedeschi, in via Flavia. L’eritreo camminava lento, non si
preoccupava come lui di farsi vedere troppo. Medhin non voleva
nascondersi, né tantomeno sparire. I suoi movimen erano pieni di
orgoglio. Camminava a testa alta. Aveva appena finito di frequentare il
collegio internazionale di Monte Mario, ges to dalla Chiesa metodista
episcopale, e stava giusto cercando di capire cosa gli avrebbe riservato il
futuro. A Zoppe quel po non piaceva. Parole troppo do e, complicate. E
poi quell’accanita ferocia an taliana lo a erriva. Quello lì si sarebbe presto
messo nei guai. “Non devo averci niente a che fare, se no mi rovina.”
Mentre era perso in ques pensieri vide la mano di Francesco Bondi
affondare dentro la sua chioma riccia.
«E ques li chiama capelli? Questa è lana e anche di pessima qualità!»
«Sono capelli,» replicò calmo Calamaro «non sono belli, ma sono capelli.
Il signore è negro, ma ha tra meno negroidi dei pi antropologici che ho
esaminato in Congo.»
E anche lui, per non essere da meno del Bondi, affondò la mano dentro il
cranio esausto di Zoppe.
Il somalo respirò con tu a la forza che aveva nei polmoni e se ne ste e
mogio ad ascoltare i due italiani.
Non seppe esa amente quando la discussione cominciò a farsi pesante.
Era stato Bondi a offendere Calamaro o forse il contrario? Zoppe era
confuso. Vide solo che, dai suoi capelli, i due erano passa alle mani, alle
loro mani. Bo e insomma.
«Per favore, signori» disse Zoppe sconsolato.
«Per favore» con nuò.
Poi gli venne la malaugurata idea di dividerli.
I gendarmi arrestarono solo lui per quella strana lite ma u na.
7
Adua
Adua, perché hai de o alla maestra che chiami Habiba? Quante volte te
l’ho de o che chiami Adua? Habiba è il nome che avevi da nomade,
quello che ha dato la sciocca roman ca di tua madre quando è rimasta
incinta di te. Habiba è un nome sporco, unto. È un nome plebeo, da
pros tuta. Mia figlia mica poteva avere un nome così banale, pare?
Habiba significa amore in arabo… puah, io ci sputo sopra l’amore! L’amore
non esiste. Questo è un nome inu le, me telo in testa. Molto meglio
Adua. Dovres ringraziarmi, ho dato il nome della prima vi oria africana
contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi
mai credere il contrario. Io ho fa o solo cose giuste nella vita, unicamente
cose giuste. Non come quella debosciata di Asha la Temeraria. L’unica cosa
di veramente temerario che ha fa o tua madre è stato morire. Non ha
fa o altro, solo morire. Io invece comba evo con i gius . Dentro il tuo
nome c’è una ba aglia, la mia…
Non mi credi, forse? Osi dubitare di me?
9
Zoppe
Adua chiedi subito scusa a tua sorella Malika. Chi ha insegnato ques
modi da selvaggia? È la tua compagna di banco a insegnar queste cose?
Da domani non le rivolgerai più la parola. Chissà cosa ha messo in testa.
Sei come tua madre Asha, ancora credi al prossimo. Il mondo è crudele,
Adua, non devi credere a nessuno. Ora fila via. Credo di essere stato chiaro.
12
Zoppe
Adua vieni qua, subito. Non mi fare spazien re. Che cosa significa questo?
Su, parla. Perché mando a scuola io, eh? Per leggere questa robaccia?
Cos’è questo? Su, rispondi! Te lo dico io cos’è: cacca! Hai capito? È un
fotoromanzo, un foglio pieno di sciocchezze. L’amore è una sciocchezza.
L’amore, Adua, non esiste, me telo subito in testa che è meglio. Non fare
come quella scema di tua madre Asha la Temeraria, lei nell’amore ci
credeva davvero. Chiamava i suoi bollori amore e ci ha disonorato tu
morendo. I vicini dicono che sono stato io a ucciderla, lasciandola da sola
durante la gravidanza. Dicono che è morta per amore, per amor mio. Hai
mai sen to una sciocchezza così colossale? Morire per amore, come se
fosse possibile. È morta perché era scema, tua madre, per fare un dispe o
a me. Non perme erò che tu, mia figlia, segua la stessa strada di
perdizione. Raccogli tu i tuoi fotoromanzi e portameli qui. Li bruceremo.
Ne faremo un bel falò. Così vedi che fine fa l’amore. L’amore, figlia mia, va
sempre in fumo.
15
Zoppe
Piangi, Adua? Mi disonori così? Le brave ragazze non piangono mai. Hai
visto tua sorella Malika? Non ha versato nemmeno una lacrima, e tu ora
che fai? Mi inondi? Che vuoi che sia un taglie o, Adua? Non fare tu e
queste storie, dai, che mi secca. Zia Fardosa ha chiamato la migliore
mammana per farvi il gudnisho. Ora sei liberata, Adua, pensa solo a
questo. Non hai più quel malede o clitoride che rende sporca ogni donna.
Zac, te l’hanno tagliato, finalmente! Sia resa grazia al Signore. Il male
passerà. Il male è momentaneo. La gioia di questa liberazione invece,
Adua, è duratura. Dopo ci sarà solo la felicità di essere pura, finalmente
chiusa come Dio comanda. Il tuo sesso non va più a penzoloni, Adua. È
bello essere pura. È bellissimo. Pensa che bella vita senza più
quell’immondo batacchio che pendeva osceno tra le cosce, come se fossi
un uomo. Io ne ho viste di donne con il batacchio e, dirò, non sono un
bello spe acolo. Fanno ribrezzo, sono carnivore, violente. Rumoreggiano.
Ti sei salvata, Adua, da questa vergogna. Ora tu sei chiusa, pulita, bella. Sei
come mia madre, come la madre di mia madre, e come tu e le donne
degne di s ma di questa nostra grande famiglia. Tua madre Asha la
Temeraria, quella scema, si opponeva alla pra ca, pensa. Diceva: «Nessuno
toccherà mia figlia, nessuno la infibulerà». Per fortuna è morta. E ora tu sei
salva, chiusa, senza quell’immondo clitoride a ricordar che sei una donna.
Ora niente distrarrà. Ti prenderai la tua bella laurea e poi darò in sposa
al migliore degli uomini. Quando sarai grande mi ringrazierai.
18
Zoppe
Non sopporto che mi guardi così, Adua, con rimprovero. Sono io il padre.
Tu sei solo la figlia. Io posso guardar in questo modo, tu no. Tu non sei
nessuno. Senza di me non sares nemmeno nata. Sono cose che fares
meglio a non dimen care. E mi hai stufato con questa domanda su tua
madre. Che vuoi sapere? Me la nomini spesso, bisbigliando. Credi che non
vedo quando parli da sola con l’ombra di quella donna? Nemmeno l’hai
mai conosciuta Asha la Temeraria. Non sai nemmeno che faccia aveva. E osi
parlarle? Adua, che le parli a fare? Sei pate ca certe volte. Non sono né
scemo né cieco. Vedo tu o quello che fai. Ma quella donna, anzi quella
troia, non la devi più nominare di fronte a me. Quella ha scelto di morire, ci
ha lasciato. Non la nominare mai. E anche se sei diventata grande sono
capace di ba er fino a far sanguinare l’anima. Non approfi are del
mio buon cuore. Sono anni che non ba o e non ho intenzione di
ricominciare ora. Ma ecco, sme la di nominarla. Quella donna non è
niente, è solo un errore.
21
Zoppe
I cedri non si spaccavano. Non erano deboli come le fragili papaie o i teneri
manghi. I cedri erano guerrieri, il loro cuore era fa o di metallo e l’intero
fru o sembrava rives to da un’armatura. Era una strana alchimia a tenere
in vita i cedri. La loro anima dolce era infa difesa da una buccia ruvida e
spessa. Era quella a garan re a ques fru del paradiso una vita serena e
senza scosse. I cedri erano più resisten dei limoni, più duri dei pompelmi.
Ideali per farsi colpire dalle pallo ole.
«Vedrai, fratello, sono proprio quelli che cercavamo per esercitarci.»
Semeon era entusiasta di quella trovata. E non la sme eva di tesserne le
lodi. Per lui quegli agrumi ruvidi avevano il vantaggio di non essere troppo
piccoli, ma nemmeno gigan . Avevano quelle che Semeon definiva «le
dimensioni ideali».
«Li ho vis al mercato, giù da Tessa. Fanno al caso nostro, fratello mio,
sono perfe . Sparare a loro sarà come sparare dri o alla tempia del
nemico italiano» gli aveva de o Semeon la prima volta.
E da allora Dagmawi aveva preso l’abitudine di andare fuori ci à, verso la
spessa radura, con la sua bella cesta piena di cedri.
Una cesta e un’arma nascosta so o l’ascella.
Quei fru erano diventa il centro della sua esistenza. All’orizzonte un
futuro da guerrigliero.
Di norma andava da solo alla radura. Ma quel giorno era diverso. Era
venuto a trovarlo Zoppe, il suo amico somalo. Che felicità! Aveva proprio
bisogno di confidargli i suoi tormen . Da quando aveva cominciato a
esercitarsi soffriva. Era come se qualcuno lo stesse mangiando da dentro.
Era bello per una volta avere compagnia, non percorrere quel lungo
sen ero irto di sterpi in solitudine.
Erano cinque anni che non si vedevano. In quei cinque anni erano
diventa uomini. In quei cinque anni le responsabilità erano cresciute sul
loro capo. Zoppe sfoggiava una bella barba da sufi, anche se le mani gli
erano rimaste morbide come quelle di una fanciulla. Erano mani che non
conoscevano il lavoro della terra o la dura fa ca del trames o quo diano.
Di quello Dagmawi, invece, ne sapeva eccome. Era impiegato da più di tre
anni nell’emporio degli indiani Mohamedally e la sua vita era ormai
scandita dai colli che doveva caricare e scaricare. Farina, riso, curry,
peperoncino, cumino, ma anche pellami, carni, legumi, uova.
Da Mohamedally si fa cava e per lo sforzo le sue mani, un tempo
leggiadre, si erano riempite di piccole rughe di sofferenza.
Però anche Zoppe soffriva. Si vedeva dalla fronte corrucciata e dalle
spalle che non la sme evano di tremare.
Dagmawi avrebbe voluto chiedere all’amico il perché di tu a quell’ansia,
però decise di aspe are. Una volta arriva alla radura si sarebbero
confida ogni cosa.
«Ti sembrerò pazzo, caro Zoppe,» disse, quasi ad an cipare la
confessione, «ma ques cedri sono la migliore cosa che mi sia capitata
negli ul mi sei mesi almeno… sì, proprio la migliore. Mi rimangono solo i
cedri per non impazzire. Zoppe, sarò capace di uccidere?»
Zoppe non fiatò. Si limitò a prendere un cedro in mano e a farlo
rimbalzare sul palmo destro.
«E del tuo matrimonio che mi dici? Da quanto mi hai scri o sei sposato
da cinque mesi appena… possibile che ques cedri siano meglio della tua
donna?»
«Sì» disse secco Dagmawi.
Lui amava Tezetà, la sua sposa, ma quei cedri… ah quei cedri… erano il
corollario di qualcosa di più grande, di più assoluto.
Quei cedri erano la prova tangibile dell’amore di un uomo verso la sua
terra.
*
Zoppe aveva già dimen cato i cedri. Il suo animo lo aveva riportato alla
visione che lo aveva colto all’alba, parecchie ore prima.
Quella no e non aveva quasi chiuso occhio. I lamen di un cane ferito in
lontananza lo avevano tenuto desto.
Aveva chiesto al conte Anselmi la giornata libera e stranamente il conte
non aveva posto nessun diniego.
«Tanto so che non scapperai. Non puoi. Allora godi pure una giornata di
completo ozio,» e poi, ammiccante, gli aveva fa o l’occhiolino «i bisogni
corporali vanno asseconda . Queste piccole e opi sono come il buon vino
delle colline, basta mezzo fiasche o per star bene per i dieci anni
successivi.»
Inu le spiegare a quel lascivo del conte che non andava a cercare una
donna. Non che non gli mancasse l’alito dolce di una femmina… Al paese,
appena fosse tornato, avrebbe trovato Asha la Temeraria ad aspe arlo. Lui
amava Asha. Aveva promesso a se stesso, all’ombra di un sicomoro, che
l’avrebbe fa a sua. E Zoppe era un uomo di parola.
Gli mancava quella sua sposa promessa. Donna dalle grandi na che e
dalla risata contagiosa. Asha la Temeraria, afar indo come la chiamava il
vicinato, per via di quegli occhiali dalla spessa montatura di tartaruga che
un medico turco le aveva raccomandato di indossare.
Ma quella ma na il pensiero di Asha era stato spazzato via da una
visione. Una bru a visione.
I dintorni del mondo avevano cominciato a farsi frastaglia e opachi. Gli
occhi lacrimavano. La bocca era diventata improvvisamente secca. E la
lingua si era fa a rigida, quasi morente.
La visione arrivò prima che lui uscisse dall’albergo.
Vide alcune casupole di legno bruciare. Riconobbe quel posto. C’era stato
con Hagi Safar in uno dei suoi viaggi. Il padre andava lì per guarire i
bambini dai loro demoni. Era così che aveva conosciuto Dagmawi e la sua
famiglia. Il padre aveva guarito il suo amico dal malocchio. E da allora i due
ragazzi erano diventa inseparabili. Hagi Safar amava quel paese, amava
quella gente. «Qui un tempo c’era il regno di Bilqis, quella che i gaal
chiamano la regina di Saba. Se siamo al mondo, figliolo, lo dobbiamo a lei.
Per questo vengo spesso in questa terra straniera. Mi ricongiungo con
l’anima dell’an ca regina.» Amava quella terra, Hagi Safar, e gioiva di poter
dare una speranza a quella gente senza futuro. Lì tra i poveri, l’Africa
orientale superava le sue differenze. Lì si annullavano tu e le divisioni.
Quel grande quar ere Zoppe l’avrebbe riconosciuto tra mille. Quanto
tempo ci aveva passato da bambino, scorrazzando nel fango con Dagmawi
e il piccolo Semeon. Il quar ere si trovava fra Sidiskilo e il vecchio mercato.
Lì suo padre era rispe ato e venerato. Vedere quelle capanne bruciare fu
un dolore immenso per Zoppe, che si accasciò come un cencio sulla soglia
del portone. Nella visione tu o veniva dato alle fiamme. Vide divise brune,
zigomi ra , occhi a cipolla, pelle rosa, cadaveri neri.
Poi la visione, com’era arrivata, sparì nel nulla.
Si sciolse al primo sole del ma no, senza lasciare nessuna traccia, tranne
che nel suo cuore di uomo.
*
«Ecco la radura, caro Zoppe. Siamo arriva » disse Dagmawi.
Fu proprio allora che un vento infido cominciò a soffiare da ovest.
In un a mo la pelle di Zoppe diventò dura e ciano ca.
Tu o era pia o e vuoto.Qualche arbusto qua e là. Qualche animale
solitario.
I cedri in quel panorama lunare sembravano veramente il paradiso.
Dagmawi ne prese uno in mano. Era giallo, ovale e con una leggera
protuberanza al peduncolo. Lo toccò. Ebbe quasi un brivido. Era così simile
al capezzolo di una donna.
L’uomo cominciò a giocherellare con il suo cedro passandolo da una
mano all’altra. Sul suo viso un’espressione sospesa. Parlava con il suo
cedro, lo blandiva. Voleva carpirne i segre più recondi , succhiarne la
saggezza prima di distruggerlo. Poi lo strinse con fare deciso e lo lanciò
lontano. «Bella curva» gridò Zoppe. Ma Dagmawi non sen va, Dagmawi
sparava.
Un silenzio asfissiante foderava i mpani come seta. C’erano solo i cedri e
la loro implacabile sete di vende a. Tu o arrivava a u to e soffice.
Soltanto lo sba ere d’ali degli orridi marabù strideva con le nuvole del
cielo. Il loro gracchiare era dovuto a qualche carogna odorata nelle
vicinanze.
Dagmawi non amava i marabù. Erano segno di sciagura. Ne aveva vis
mol nel suo lavoro. A volte capitava qualche par ta di carne avariata ed
era compito suo portarla il più lontano possibile dall’emporio. Quelle
bes acce aspe avano che le carni imputridissero e, quando dalle carcasse
fuoriuscivano i primi vermi, si lanciavano in volo su quello che un tempo
era stato vivo. Non si spaventavano di nulla, nemmeno della sua presenza,
nemmeno del suo forcone.
Dagmawi guardò Zoppe. «Quando avrò bombe vere in mano, riuscirò ad
avere altre anto coraggio?»
«Forse» rispose dubbioso Zoppe.
«Gli italiani ci annienteranno, vero?» lo incalzò Dagmawi.
«Hanno armi moderne» rispose senza sbilanciarsi.
Zoppe, per distrarsi, prese anche lui un cedro in mano. Era tondo,
luccicante, invitante come poche cose al mondo.
Il cedro gli ricordava le curve della sua Asha.
Cominciò a sbucciarlo. Lento. Poi lo mangiò.
22
Adua
Dove hai trovato quella fotografia? Frughi nei miei casse adesso, Adua? E
che cosa vuol dire che vuoi una spiegazione?
Io non darò nessuna spiegazione e nemmeno dirò chi sono quei
bianchi nella foto. Guarda che l’ho capito dove vuoi andare a parare.
L’ho capito che me in dubbio il mio essere stato un patriota e un
nazionalista. Pensi che s a recitando. Anche tua madre pensava la stessa
cosa. Sempre a me ermi in dubbio, a non voler darmi fiducia. Sembra
ancora di sen rla quell’oca di tua madre. «Caro, perché non mi dici la
verità? Tanto tu in quel periodo hanno lavorato con i bianchi.» Credeva
che fossi un traditore, un infame. Non mi amava, tua madre. Pensava di me
il peggio. E poi, piagnucolando, invocava una verità e mi dava così sui nervi
quando diceva che per lei era lo stesso. Come fa a essere lo stesso? C’è una
bella differenza fra tradire la patria e comba ere per la patria. Ma tua
madre diceva «Io amo» e per lei quella parola appianava tu o. Era
un’oca, una credulona, una scema. E pure una testarda. Sempre lì a
chiedermi del mio passato, dei bianchi, delle guerre che ho a raversato.
Era un’impicciona. E ora tu fai la stessa cosa? Voi donne siete impossibili.
Creature dell’inferno siete. Non vi sopporto.
24
Zoppe
L’uomo aveva gli occhi buoni, una lunga barba e delle grosse orecchie da
elefante.
L’uomo se ne stava chino tu o il giorno su dei grossi fogli. Passava ore a
scarabocchiare il mondo. Disegnava alberi, farfalle, moscerini, ragazze. Il
suo regno era il cor le dell’albergo Douce France, non gli interessava girare
come gli altri ospi . Non c’era nessuna ansia nei suoi ges . Zoppe lo
invidiava. Anche a lui sarebbe piaciuto stare seduto lì a non far niente. E
invece doveva correre da un punto all’altro di Addis Abeba con il conte
Anselmi. In quei giorni la loro a vità era diventata frene ca. E a Zoppe, a
forza di tradurre, la lingua gli si era seccata in gola. Traduceva, ma perdeva
il senso delle parole. Era come se i pensieri gli sfuggissero via in una nuvola
di tempesta. Ma quel giorno il conte era ammalato. «Mi gira la testa,» gli
aveva de o quella ma na «non vorrei fosse febbre, mi vado a distendere
un pochino.» Zoppe ne fu felice. Non ce la faceva più a correre per la
fangosa Addis con le sue scarpe vecchie e si augurò che quella febbre
durasse il più a lungo possibile. Fu così che quella strana ma na si ritrovò
nel cor le con l’uomo con le orecchie da elefante.
Lo guardò come se fosse la prima volta.
C’era qualcosa di così familiare in quella figura china sui fogli da disegno.
Come se si fossero già conosciu . La sua pelle era giallognola. Una pelle
puntellata di strane gocce marroni e di uno strato so le di polvere rosa
che Zoppe non si sapeva ben spiegare. Non riusciva nemmeno a capire da
dove venisse quello strano uomo. Sembrava emerso dalle viscere di un
cratere. C’era in lui qualcosa di an co e allo stesso tempo conosciuto.
L’uomo lo guardò e poi gli disse in una lingua che sapeva bene: «Mi
piacerebbe far un ritra o».
Che fare?
Zoppe sapeva in cuor suo che doveva fuggire da quella richiesta. Doveva
dire: “No, grazie”. “No, non mi va.” “No, mi fai paura.” “No, non voglio.”
Invece disse sì.
Non seppe resistere alla bontà di quegli occhi così familiari.
*
Dopo tre ore il disegno era finito.
«Posso vederlo?» chiese Zoppe.
«Preferirei di no.»
«Ma… ma come? Sono rimasto immobile tre ore, per te.»
«Il disegno farà male.»
«Fai giudicare me, acciden » disse Zoppe con un tono arrogante che non
aveva ancora mai usato in vita sua.
L’uomo gli fece cenno di avvicinarsi.
Zoppe guardò. Poi svenne.
*
La no e sognò il disegno. Da una parte c’era un uomo con un turbante blu
e la faccia deformata da una cicatrice a forma di uovo che lo rendeva
stranamente feroce. Stava scagliando un giavello o. Le sue braccia erano
muscolose. I suoi ges coordina . Era quasi bello in quel movimento
atle co. Dall’altra parte c’era un elefante. Grandi orecchie, grande
proboscide. Anche l’elefante in un certo senso gli assomigliava. Sapeva che
quel giavello o stava per colpire proprio lui. Zoppe notò qualcosa negli
occhi della bes a. Qualcosa che conosceva bene, si chiamava terrore.
*
Non trovò nessuno seduto so o il baobab della Douce France. L’uomo
giallognolo era sparito. Chiese agli altri servi se lo avessero visto. Nessuno
ne sapeva nulla. Un ragazzo di nome Hamid, originario di Harar, gli disse:
«Nessun uomo si è mai seduto so o quel baobab. Ieri ci sei stato solo tu lì
so o e nessun altro. Quell’uomo te lo sarai sognato, amico mio».
*
Quella sera Zoppe si ricordò delle parole di sua zia Bibi, l’indovina. «La
nostra coscienza» diceva «ha un viso.»
*
Fu così che Zoppe si mise con le gambe conserte sopra il le o ad aspe are
che qualcosa succedesse.
L’uomo giallognolo non tardò ad arrivare.
Aveva sempre le orecchie da elefante. Ma la pelle era diventata più scura,
più pastosa.
«Non capisco,» disse subito Zoppe confuso «chi diavolo sei?»
«Sono te. Possibile che non mi riconosci? Possibile che tu confonda fino
a questo punto?»
Fu in quel momento che Zoppe si ricordò di avere le orecchie da elefante
e la pelle puntellata di macchie. Si ricordò anche che quando era
angosciato disegnava. Me ere linee e curve su un foglio lo aveva sempre
aiutato a placarsi. Quello che non capiva, Zoppe lo disegnava. Quell’uomo
giallognolo era la sua coscienza che prendeva corpo. La zia Bibi glielo aveva
sempre de o: «La nostra coscienza ha un viso».
25
Adua
Sono nuda…
Con la sabbia che mi ricopre come oro…
Issata su un albero in a esa di essere divorata…
La bocca carnosa resa ancor più desiderabile dal gloss…
Sopracciglia tese, da ga a, ben definite…
Una ma ta nera marca gli occhi e, chissà, forse il desiderio…
La frangia allisciata da una piastra carnivora…
Fasce mul colori per le scene in spiaggia…
Un tocco di lacca e mi sento più spumosa…
E poi perline, ovunque, sul corpo…
Sdraiata su una pelle di vacca mi mostro oscenamente a un mondo
ignaro. Lui intanto sbraita: «Stringi di più le gambe, baby, non far vedere la
peluria, non ancora, custodiscila». E poi dopo un a mo: «Ora spalancale,
come le finestre di prima ma na». Lui ha la voce roca, cavernosa. Lui mi fa
paura. Lui è il regista del mio film, però. È il mio padrone, mi ha comprato
per pochi spiccioli ai saldi laggiù in Africa orientale. Non posso
contraddirlo. Quindi annuisco, ubbidiente, passiva come si addice a quelle
senza protezione come me.
Le mie unghie sono affilate come gli ar gli di una fiera leonessa.
La manicure mi ha de o: «Con queste non spezza nessuno».
L’esperienza non le ha insegnato che le unghie delle a rice e si rompono
presto? Lei lo dovrebbe sapere meglio di chiunque altro.
Le mie unghie si spezzano, milady. E a volte anche il cuore si spezza.
Graffio, mordo, scalpito.
Tu o dura un a mo però. Il tempo di un ciak. Di un ripensamento.
«Ora sii più languida, baby» mi viene ordinato dal regista.
«Muovi quelle anche, su, fai la brava.»
E io faccio la brava. Perché quello è il mio compito di a rice. Sono una
professionista, penso. Mi beo dentro questa menzogna.
«E ora fai roteare i polsi… sì così, come un’odalisca nell’harem del pascià.
Fa prendere dalla danza, baby, e poi lenta avvicina a lui, sei una
pantera, baby, ricordatelo. E ora bacialo, sì, bacialo con passione.»
Armando puzza di aglio, ma io devo far finta di amarlo, far finta che sia
l’unico mo vo della mia esistenza.
Mi avvicino e sento la vodka. Ma so che da copione mi devo avvinghiare a
lui come una ga na. Eseguo come un caporale. Non ho altra scelta. Sta
scri o sul copione. Lui mi abbassa la testa, autoritario.
«Hai visto quanto sono brava? Nemmeno un lamento, boss» dico al
regista.
Ma non mi risponde più nessuno.
Il set è stato smontato forse?
Dove mi trovo?
E il mio film dov’è?
Chi sei tu, uomo che puzzi di vodka? E cosa sono ques mobili di mogano
a orno a noi?
Dov’è la spiaggia tropicale che abbiamo reinventato qui a Capoco a con
delle palme finte? Dov’è la troupe? E la mia truccatrice? Quella grassona
che ogni due secondi mi deterge e mi asciuga il sudore dalla fronte? E
quelle maniache delle costumiste che controllano ogni piega del mio
ves no smunto?
Dove diavolo sono anda tu ?
Io indosso ancora il mio ves to di scena. Sono ancora truccata come una
ba ona.
Ma poi mi ricordo, tu o mi ritorna alla mente in un lampo di dolore.
Non sono più sul mio set. Abbiamo staccato alle cinque. Mi hanno
portato invece in una casa di ricchi al centro di Roma, vicino a una piazza
famosa.
È stata Sissi, sempre lei, sempre quella rovina di donna, a dirmi con quel
suo tono da finta suorina: «C’è una cena a casa del distributore, sai quel
magnate che ci ha dato parecchia grana per realizzare il film… ecco sì, ci ha
invitato. Vuole vedere te», e io sprezzante: «Me?». Ricordo di aver avuto
sempre quel tono di voce acido con Sissi, in fondo non riuscivo a
perdonarla per quello che mi aveva fa o. «Allora c’è che ci devi andare e
devi fare la carina con lui.» «Carina?» ho chiesto io con un certo sgomento.
«Vuoi diventare una star o no? Allora devi fare la carina, cocca, se no le tue
stelline te le scordi», «Me le scordo?», «Sì cocca, e me un bello
stracce o addosso, è una cena elegante», «Tanto elegante?», «Elegante al
punto giusto, vedrai.»
Alla festa siamo quasi tu e donne, tu e con stracce inesisten a
coprire malamente i nostri sospiri. Tu e poi abbiamo un sorriso di plas ca
che ci deforma la faccia.
Siamo more, bionde, rosse, ce n’è una con i capelli viola, «È una
stravagante» mi dice qualcuno sussurrando. Hanno reclutato anche
un’orientale, forse una giapponese o una coreana, e poi naturalmente ci
sono anch’io, una goccia di cioccolato su un doppio strato di panna
montata.
Lui si è avvicinato a me e mi ha de o: «Allora sei tu la negre a di Arturo.
Non male. Hai la coscia lunga. Mi piacciono quelle con le cosce lunghe».
Ho guardato Sissi. Ero allarmata.
Mi sen vo così sporca. Così vuota.
Sissi mi ha spinto verso di lui e mi ha de o: «Ti darà ordini come Arturo
sul set, tu eseguili, sarà facile».
Ci inoltriamo in un lungo corridoio io e quell’uomo che a stento mi arriva
alle scapole. Il po mi ene la mano sul sedere, un po’ come faceva Arturo
i primi giorni di riprese.
«Quan anni hai?» mi chiede il magnate.
«Ven » mento.
«Cifra tonda, come tu e, maggiorenne quindi… anche le altre lo sono
sempre.» E poi dopo una risata sommessa aggiunge: «De o tra noi fai
bene a non dire diciasse e, porta male il diciasse e» e mi fa un occhiolino
complice.
Non so che dire. Annuisco tanto per fare qualcosa.
«Me questo, vai di là» ordina.
È un costume da infermiera. Non capisco a cosa serva. Ma lo indosso,
senza fiatare. Non mi va di contraddire quell’uomo calvo e con l’alitosi.
«So o però non me er niente, a me piace la carne libera.»
Eseguo.
E poi senza tan preamboli mi fa inginocchiare davan a lui.
«Dopo presenterò agli ospi come la cugina di qualche sceicco.»
E dicendo così mi ra i capelli, mi guarda, mi fa male e poi mi spinge
verso le sue par basse.
Non è vecchio. Quanto avrà. Cinquanta? Cinquantacinque anni?
Ma si comporta da vecchio. Non ha fantasia. È un prepotente. Non sa
maneggiare una donna. Forse non ne ha mai saputo corteggiare una.
Trema. Ha il fiatone. Ansima.
Il suo sudore mi gocciola in capo.
Anch’io tremo.
Dal disgusto che ho di me.
Vale la pena, Adua, tu o questo schifo per una stella, per un camerino,
per dei film di cui non importa niente?
Vorrei chiederlo a Marilyn, ma lei è morta, crepata male, come tante,
troppe a rice e con più te e che talento.
Vorrei chiederlo a Muna la Crespa che è rimasta in Somalia. Lo so già cosa
mi direbbe: «Non fare la santerella, Adua,» e poi avrebbe aggiunto «devi
capire se vuoi pagare questo prezzo o no».
Volevo pagarlo o no? Non lo sapevo. Il prezzo mi sembrava troppo alto e
la merce del tu o scadente.
Ero confusa.
So solo che Marilyn è crepata male. Ma almeno Marilyn un briciolo di
talento ce l’aveva.
E io? Io ce l’ho?
Ma il talento mica l’ha salvata a Marilyn. È morta sola. È morta male.
E io? Morirò male?
Chi salverà me, mi chiedo. Vorrei gridare questa domanda. Mi manca il
coraggio.
Il magnate è già in posizione come un corridore ai blocchi di partenza.
«Vieni» mi ordina.
Per la seconda volta in un giorno sono inginocchiata davan a un uomo.
La prima volta è stato di ma na, davan a Nick. Ma quella era una scena
del film. Una finzione.
Nick… Nick Tonno, il mio partner, il coprotagonista, un omosessuale o,
come lo apostrofava di tanto in tanto il regista, «un dannato finocchio». Io
lo amavo quel mio partner sgangherato, quel dannato finocchio che il cielo
benede o mi aveva fa o incontrare. Fare le cose con Nick è… era
bellissimo. Lui mi rispe a. Mi guida. Mi dice: «Finirà presto questo strazio,
io e te meri amo di girare film migliori», io sognante: «Io vorrei essere
Judy Garland nel Mago di Oz, cantare e sal cchiare di qua e di là come una
farfallina appena nata», e lui: «Che incanto sares con le scarpe e rosse di
Dorothy». Ci sistemiamo dentro una macchina. Dobbiamo fingere di fare
l’amore. Nel film non faccio altro, corro nuda sulla spiaggia e faccio l’amore
nei pos più assurdi. «Fai vedere di più lo stacco di coscia», e io con l’aiuto
di Nick mi alzo ancora di più la so anina striminzita. Nick mi accarezza la
testa e mi rassicura: «Finirà presto, resis e pensiamo a Judy Garland».
Ciak, scena prima, siamo dentro una decappo abile. Lui mi bacia. È bravo a
baciare Nick. È così dolce. Lui non mi vuole divorare. «Ci sposiamo?» gli
domando in un sussurro. Sembra la ba uta del nostro copione, ma invece
è uscita dal mio cuore. In quella scena le nostre voci non servono. Ci ha
de o Arturo che i gemi verranno aggiun in sala di doppiaggio.
Dobbiamo solo fare finta di conversare d’amore e d’orgasmo. Io gli ripeto la
domanda: «Mi sposi Nick?», e lui: «Lo sai che non posso, Adua, sono
omosessuale», e io: «È per questo che voglio sposar . Tu non mi
toccheres come ques altri bru , come fa Arturo quando gli viene a noia
la moglie. Tu mi rispe eres . Ti presenterei mio padre e la zia Fardosa»,
«Sono simpa ci?» mi chiede Nick. Io non so rispondere, so solo che mi
mancano. Mi viene da piangere, ma non voglio rovinare la scena. Mi
avvinghio a lui con disperazione. Lui me e su una di quelle sue facce da
assassino e finge di mordermi sul collo come un vampiro. Invece mi fa il
solle co, io rido e per non rovinare la scena mimo qualcosa che non ho mai
provato, questo orgasmo di cui parlano tu .
Nick ha sempre un buon odore.
Invece il distributore, quel magnate calvo, che devo “accontentare”,
l’uomo che Sissi chiama enigma camente “il marchese”, puzza di aglio.
Sto per aprirgli la zip dei pantaloni. Voglio che tu o finisca presto. “Lo
prendo in bocca, ingoio e poi tan salu e a mai più rivederci” penso. Il mio
piano non fa una piega, mi dico.
Gli apro la zip. Evito di guardare quella biscia. Mi fa ancora senso. Non la
guardo, distolgo lo sguardo. Mi fa paura. Ma non posso avere paura
proprio adesso. È solo ques one di secondi. Chiudo gli occhi. Lo afferro
saldamente. Lo prendo in bocca. È fa a, mi dico.
Invece il po, questo marchese, non ha un’erezione. Il suo aggeggio mi
muore in bocca e un rivolo melmoso cola misero sul pavimento.
«Scansa , pu ana» mi apostrofa.
Non mi sono offesa per la parola. È quello che sono ormai. Una pu ana,
una shermu a. Mi ci hanno fa o diventare. In Somalia ero una ragazzina
piena di sogni e voglia di vedere il mondo. Loro in pochi mesi mi hanno
manipolata, seviziata, usata, trasformata. Mi sembrano passa anni, non
mesi. Mi sento tanto vecchia, quasi decrepita.
Vorrei un po’ d’acqua. Per levare quel sapore acre dalla bocca. Ma in
quella stanza è tanto buio. Non vedo niente. Solo quel mogano legnoso in
trasparenza.
Lo vedo ga onare come un cieco per la stanza. Poi accende l’interru ore.
Si sistema. Lo faccio anch’io. Siamo in silenzio.
«Sei stata brava» mi dice. E mi dà una mascolina pacca sulla spalla.
“Brava?” mi chiedo tra me e me “ma se non abbiamo fa o niente.”
Ma non parlo, con quell’uomo è meglio tacere. È un prepotente, si vede
che vuole sempre avere ragione lui.
«Sai ballare?» mi chiede.
«No» rispondo secca, infas dita da quella domanda troppo personale.
«Allora imparerai stasera. Le altre ragazze insegneranno.»
«Andiamo già di là?»
«Sì cucciola» mi dice tu o tenero.
Sono confusa. Non capisco.
«Ah, di là non dire del nostro incontro, non capirebbero.»
«Sarò muta, signore.»
Gli piace essere chiamato signore.
«Devi dire a Sissi che il film lo distribuiremo bene, faremo di te una
piccola stella negra, hai delle belle cosce, meri il successo.»
Siamo quasi al confine della porta. La sto per aprire. Lui mi ferma.
«Aspe a» mi dice.
«Cosa?» chiedo un po’ imbambolata.
«Ho un regalo.»
E mi regala un bracciale o d’oro e diaman .
Sono in imbarazzo.
«Io sono un uomo generoso, non te l’ha de o Sissi?»
Sto zi a. Meglio tacere in cer casi.
Lo ringrazio.
Torniamo in sala.
La sua mano sul mio sedere. Come all’andata.
Nella sala distribuisce grandi sorrisi. Le altre guardano me e il mio
bracciale o con invidia.
«Brava la nostra Adua,» mi dice Sissi, e accarezzando il bracciale o
aggiunge: «vedo che hai compiuto il tuo dovere.»
Vorrei dirle la verità. Ma se la dicessi quel po mi rovinerebbe. Ha il
potere di farlo. È molto ricco. Ha molte conoscenze. Anche dove una
persona onesta non dovrebbe averne.
Sto zi a.
Tremo.
«Voglio andare via.»
«Ma adesso viene il bello, si balla.»
«Ma non mi piace ballare» urlo.
La gente mi guarda. Un po’ a onita, facendo n nnare le coppe piene di
champagne.
«Non urlare, è una cena elegante» mi dice Sissi.
E io non urlo. Chino il capo. Mi piego.
Oggi non lo chinerei il capo. Oggi urlerei.
Oggi però sono vecchia davvero. Sono passa minu , giorni, anni da
quella cena.
Ho avuto un aborto, uomini sbaglia , delusioni a non finire.
Oggi però non chinerei il capo. Non mi svenderei per una stella su un
camerino come ha fa o quella ragazzina che ero.
Il ricordo mi fa urlare.
Ora non sto più zi a. Ieri sera, per esempio, ho urlato così forte che mio
marito, il mio piccolo tenero Titanic, si è spaventato a morte. Ho de o nel
sonno: «No, non vale la pena ingoiare lo schifo per una stella». E poi ho
aggiunto: «Non mi potete uccidere senza pensare che io non resista». Ho
avuto anche delle convulsioni.
Poi le mani grandi, for , capaci di mio marito mi hanno bloccato.
«Adua, che c’è? Adua calma ! Sei a casa, con me. Adua…»
L’ho guardato con gli occhi sbarra . All’inizio non l’ho nemmeno
riconosciuto. Ero ancora persa nelle brume del lontano passato.
«Hai avuto un incubo?» mi ha chiesto lui, sollecito.
Come dirgli la verità?
Come dirgli che quello purtroppo non era un bru o sogno, ma solo uno
sgradevole ricordo che viene a tormentarmi ogni sera? Quel bracciale o
l’ho poi venduto. Ma il ricordo non mi ha mai voluto lasciare andare via.
Ogni tanto viene ad alitarmi in faccia il suo sconcerto.
«Scusa» ho sussurrato a quel mio marito ignaro.
«Scusa di cosa, Adua, stai vaneggiando, hai urlato, lo sai? Hai urlato forte,
mi hai spaventato. Vado a prender un bicchiere d’acqua.»
«No, non prendermi niente, abbracciami piu osto.»
E lo ha fa o anche se – a dir la verità – era un po’ scocciato.
26
Paternale
Mi ha de o Lul che Laabo dhegah, la mia casa di Magalo, vale tanto oro
quanto pesa.
«L’ho fa a valutare per te, cocca.»
«E allora?» ho chiesto con un certo groppo in gola che mi rendeva più
avida di quanto in realtà io sia.
«Be’ il guadagno si aggirerebbe intorno al milione di dollari, spicciolo più
spicciolo meno, un guadagno al ne o sia chiaro.»
E io: «Al ne o, sorella?».
«Sì cara, me eres in tasca sano sano un milione di dollarucci
americani, non sei contenta?»
Mi sono accasciata sul pavimento, lo amme o. Ero semisvenuta, come se
qualcuno mi avesse annunciato una disgrazia. Ho cercato di respirare
profondamente. Ho cercato di far ripar re un qualche ba to in quel mio
cuore devastato dagli anni.
«Un milione di dollari?» ho ripetuto come una scema. Era una cifra da
telefilm americano, da transazione mafiosa, da riciclaggio di denaro sporco,
non qualcosa che potessi afferrare nella mia piccola realtà di signora
a empata.
«Ma tu così sono i prezzi delle case e dei terreni in Somalia?» ho
chiesto meravigliata.
«La bolla immobiliare è impazzita e le case valgono oro, sorella. E poi lo
sai c’è il petrolio qui. Stanno tu a vendere, comprare, quotare, valutare.
Sembra la borsa di Wall Street. Certo, a Mogadiscio è tu o più caro, tu o
più gonfiato, ma anche a Magalo – posso assicurare – si possono fare dei
colpi a sei cifre niente male.»
«Un milione di dollari? Possibile? Per la mia casa sgangherata?»
«Il tempo degli affari non durerà per sempre, sorella mia. Ne dobbiamo
approfi are ora, prima che sia troppo tardi. Ora sentono odore di petrolio,
di soldi facili, ma poi si accorgeranno che la Somalia è una truffa e questa
bolla si scioglierà al sole. E le case torneranno a essere la spazzatura che
sono sempre state.»
Mi piaceva quando Lul si ergeva a nume tutelare della mia vita. Era
confortante sapere che lei era sempre al mio fianco a curare i miei
interessi.
Nel fra empo quella cifra esorbitante mi frullava in testa: un milione di
dollari.
Così tan soldi non li ho vis mai in vita mia.
In generale io e i soldi non siamo sta mai buoni amici.
I soldi li ho sempre spesi male e poi in quella parentesi in cui li ho avu
mi sono fa a fregare come un’allocca.
«Prendi un aereo e vieni quaggiù. Qui ci sta la felicità» mi ha de o la mia
Lul.
Una voce meccanica si intrufolò in quella conversazione concitata tra noi
e fece cadere la linea.
«Lul» gridai.
Lul…
Ah, quanto bene mi avrebbe fa o una Lul nel 1977. Certo allora non mi
avevano offerto un milione di dollari, ma delle belle lirucce italiane quelle
sì. E poi c’era quella faccenda degli studios americani, di quel piccolo ruolo
in uno 007 che mi volevano offrire e che io smaniavo di interpretare.
Ma…
Ma nel 1977 non c’era Lul ad aiutarmi. Ero sola come un cane e in balia
completa di Sissi e Arturo. Ecco perché tu o è andato storto da un certo
punto in poi.
Se lei fosse stata accanto a me non sarei finita squa rinata, spolpata e
fregata come una polla da quelle canaglie. Lul mi avrebbe de o: «Devi far
un agente, cocca», e poi: «leggi bene tu e le clausole del contra o che hai
firmato». Se ci fosse stata Lul non sarei morta di freddo in una camere a
striminzita di una pensione a via Cavour. Avrebbe preteso per me una vasca
da bagno, il servizio in camera, un cuscino morbido, un guardaroba
dignitoso, delle scarpe comode, lenzuola pulite e ben s rate.
Avrebbe preso a schiaffi Sissi e l’avrebbe chiamata «Approfi atrice». E
Sissi non si sarebbe più permessa di dirmi: «Ma che richieste esose che hai,
Adua» o «Che negra viziata sei». Lul di certo non mi avrebbe mandato in
giro con stracce indecorosi e con la carne volgarmente in vista. Se ci fosse
stata Lul, Arturo non mi avrebbe più toccata e nemmeno il marchese
avrebbe allungato le mani sul mio sedere. Lul mi avrebbe allontanato dalla
droga, dall’alcol, dalle sigare e scaden , dal cibo fri o, dagli uomini che
volevano solo il mio corpo.
Lul mi avrebbe fa o riavvicinare alle nostre tradizioni.
E poi mi avrebbe messo a dieta e mi avrebbe concesso il dolce solo la
domenica ma na per rallegrarmi.
Se ci fosse stata Lul non avrei passato così tanto tempo sola a piangere.
Mi avrebbe portato a fare una passeggiata in via del Corso o a prendere il
gelato da Gioli . Se ci fosse stata Lul mi avrebbe chiamata almeno due
volte al giorno, anche solo per dirmi: «Che bello che sei al mondo». E poi
Lul me lo avrebbe de o chiaro e tondo di lasciar perdere Nick Tonno: «È
omosessuale, non può amar . Ficcatelo bene in testa, abaayo».
Naturalmente mi avrebbe suggerito di sme erla di ossessionarlo, di stare
so o casa sua tu e le sere, di comprargli dei fiori che non mi potevo
perme ere. «Lui può dar solo amicizia, nulla di più, acce alo e falla
finita.»
Se ci fosse stata Lul mi avrebbe fa o finire la scuola. Mi avrebbe rato
per l’orecchio sinistro e mi avrebbe costre o ad affondare il naso dentro le
pagine di un vocabolario. «Senza le lingue non sei nessuno,» mi avrebbe
de o e dopo una pausa di un certo peso avrebbe aggiunto: «ma senza la
tua sei perduta.» Se ci fosse stata Lul non mi avrebbero fa o firmare
contra capestro dove cedevo l’intero usufru o del mio nome e di tu o il
merchandising sul mio personaggio. Se ci fosse stata Lul non avrei perso
milioni di vecchie lire per essermi scordata l’iscrizione all’Inps e quella del
domicilio in questura. Se ci fosse stata Lul avrei avuto documen regolari
dal primo istante e la possibilità di diventare ci adina italiana dopo soli
cinque anni. Se ci fosse stata Lul non mi sarei esibita in squallide serate
promozionali dove uomini ubriachi mi infilavano banconote nella
giarre era verde ru andomi addosso oscenità indicibili. Lul avrebbe
preteso rispe o per la mia persona e credo che sarebbe intervenuta anche
sulla sceneggiatura del film. Non mi avrebbe fa o fare tu e quelle corse
nuda e si sarebbe opposta a delle riprese in spiaggia con quel freddo.
Avrebbe de o qualcosa come: «Se volete farla correre come Dio l’ha fa a
allora affi ate un set ai Caraibi e non a Capoco a». Se ci fosse stata Lul
avrebbe controllato la stampa tu i giorni per vedere cosa usciva sul film e
su di me. Mi avrebbe evitato la pena di toli come La bollente fighe a nera
o Bacio rovente dalla chiappa abissina. Avrebbe preteso per me un tolo
certamente più dignitoso di Venere nera e si sarebbe infuriata se qualcuno
mi avesse de o per strada: «Ah coscia negra, te ce monterei sopra anche
subito». Se ci fosse stata Lul mi avrebbe trascinato in piazza tra le donne
che stavano manifestando per il diri o all’aborto e mi avrebbe fa o capire
che quelle donne comba evano anche per i miei diri , per liberare il mio
corpo dai desideri bavosi di una società al collasso. Se ci fosse stata Lul mi
avrebbe impedito di depilarmi come una bianca: «Ma se non abbiamo peli
noi somale, che depili a fare?». E poi Lul mi avrebbe proibito l’uso delle
creme sbiancan dicendomi: «Ma che sei ma a? Fanno venire il cancro
alla pelle! E poi, scema di una ragazza, è così bella la tua melanina!». E poi
Lul, ne sono certa, si sarebbe opposta come una fiera all’allisciamento dei
miei capelli. «Sei ridicola con ques spaghe , non sei credibile, Adua» e mi
avrebbe fa o sen re quanto è più bella la libertà di portare la propria
criniera riccia in testa. E poi se ci fosse stata Lul mi avrebbe insegnato a
essere orgogliosa di me stessa. Mi avrebbe salmodiato il mio albero
genealogico, come se fosse una poesia in endecasillabi e mi avrebbe poi
de o: «Tu sei nata dalle ossa di ques antena , non dimen care le loro
ossa, la tua radice». Se ci fosse stata Lul mi avrebbe obbligato a chiamare
mio padre. «I genitori vanno ama .» E mi avrebbe sussurrato in un
orecchio: «Perché non sai quando Dio poi li richiamerà a sé». Se ci fosse
stata Lul non avrei fa o quel film con Arturo, quel film così bru o e
osceno.
29
Paternale
Il colonialismo italiano è stato uno dei grandi rimossi della storiografia del
nostro paese. Solo grazie all’opera monumentale Gli Italiani in Africa
Orientale di Angelo Del Boca (Laterza 1976, ora riedita da Mondadori) si è
affrontato per la prima volta un tema che per tanto tempo è stato nascosto
so o un tappeto di omertà. Oggi per fortuna disponiamo di una vasta
scelta di tes storiografici e non. Segnalo in par colare: Nicola Labanca,
Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino, 2002);
Giulie a Stefani, Colonia per maschi (Ombre Corte Editore, 2007); David
Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi (Laterza,
2015); Ruth Ben-Ghiat, Italian Fascism’s Empire Cinema (Indiana University
Press, 2015), e il romanzo di Ennio Flaiano Tempo di Uccidere.
Spesso si crede, erroneamente, che il colonialismo sia stato solo opera
del Fascismo, quando invece ha cara erizzato da subito la poli ca del
Regno d’Italia. Il suo primo a o, quasi a ridosso dell’Unità d’Italia, è stato
l’acquisto, nel 1869, della Baia di Assab da parte della società Ruba no.
La vicenda di Zoppe copre l’arco di tempo che precede l’incidente di Ual
Ual (1934), servito all’Italia come casus belli per muovere guerra all’E opia.
Nelle visioni di Zoppe si fa accenno anche ad alcuni even successivi, come
l’uso di gas velenosi (proibi dal Protocollo di Ginevra del 1925) durante la
guerra e ope e le rappresaglie seguite al fallito a entato a Rodolfo
Graziani (1937). Dopo questo episodio Addis Abeba fu messa a ferro e
fuoco e, con l’accusa di aver aizzato la popolazione contro i colonizzatori
italiani, indovini e cantastorie furono vi me di persecuzione. Tra queste
rappresaglie si registra anche la sanguinosa carneficina dei diaconi nel
monastero di Debra Libanos.
Titanic invece si nutre del mio lavoro con i ragazzi rifugia . Il corpo
migrante deve affrontare non solo il razzismo e la diffidenza degli
autoctoni, ma sempre più spesso anche una presa di distanza (se non
addiri ura un’aperta os lità) da parte della stessa “comunità” di
appartenenza. Nel rapporto Adua-Titanic c’è questa forte ambiguità.
Per un approfondimento vi consiglio di leggere La negazione del sogge o
migrante di Flore Murard-Yovanovitch, edizione Stampa Alterna va:
h p://www.stampalterna va.it/libri/spec034/flore/la-negazione-del-
sogge o.html.
Sul tema migran e rifugia sono numerosi i libri che vi potrei suggerire,
tra ques due sono sta fondamentali per la mia formazione Yesterday,
Tomorrow: Voices from the Somali Diaspora di Nuruddin Farah (in Italia era
stato pubblicato nel 2003 dall’editore Meltemi con il tolo di Rifugia ed
era stato o mamente trado o da Alessandra Di Maio) e Borderlands/La
Frontera: The New Mes za di Gloria Anzaldúa (che in Italia è stato edito nel
2000 da Palomar con il tolo Terre di Confine/La Frontera).
1 - Adua
2 - Paternale
3 - Zoppe
4 - Adua
5 - Paternale
6 - Zoppe
7 - Adua
8 - Paternale
9 - Zoppe
10 - Adua
11 - Paternale
12 - Zoppe
13 - Adua
14 - Paternale
15 - Zoppe
16 - Adua
17 - Paternale
18 - Zoppe
19 - Adua
20 - Paternale
21 - Zoppe
22 - Adua
23 - Paternale
24 - Zoppe
25 - Adua
26 - Paternale
27 - Zoppe
28 - Adua
29 - Paternale
30 - Zoppe
Epilogo - Piazza dei Cinquecento
Nota storica
Glossario
Ringraziamen