Balzano
Resto qui
A Riccardo
Resto qui
Un bacio ti darò
Se qui ritornerai
Ma non ti bacerò
Se alla guerra partirai
Cambiammo posto. Ci
spostammo nella soffitta di un
cliente di Pa’. Vennero tutti, solo la
bambina che si era messa a strillare
non volle piú tornare. Gli studenti
avevano a malapena qualche foglio,
a volte nemmeno quello. Certi
avevano una pagina tirata via dal
quaderno che usavano nella scuola
italiana, dove erano obbligati ad
andare. A fine lezione li facevo
uscire dal retro. Una volta che
d’improvviso hanno bussato alla
porta siamo saliti di corsa sul tetto,
veloci come topi. Me li tenevo tutti
addosso per paura che ruzzolassero
giú, e invece la padrona venne a
dirci ridendo che era il fornaio che
doveva consegnare il pane.
Quando arrivò l’estate divenne
piú facile. Ce ne andavamo a fare
lezione nei campi e il sole e tutta
quella luce non facevano pensare a
niente di brutto. All’aperto
camuffare la scuola clandestina
diventava un gioco. Stavamo ore a
provare una recita che per Natale
volevo mettere in scena al maso di
Maja, leggevamo ad alta voce le
favole di Andersen e dei fratelli
Grimm, ma anche poesie vietate, che
ricordavo a memoria per averle
imparate quand’ero piccola e ancora
c’era la scuola austriaca. Ogni tanto
qualche rumore che veniva dalla
strada mi ammutoliva e allora Sepp
mi prendeva la mano e mi
rassicurava con i suoi occhi di
ghiaccio. Anni dopo ho saputo che
Sepp è diventato uno dei piú giovani
collaboratori nazisti. Smistava i
prigionieri nel campo di
concentramento di Bolzano.
Carabinieri e camicie nere me li
sognavo ogni notte. Mi svegliavo di
soprassalto tutta sudata e rimanevo
ore a guardare il soffitto. Prima di
riaddormentarmi perlustravo il maso
per controllare che davvero in casa
non ce ne fossero. Guardavo anche
sotto al letto, dentro l’armadio, e
Ma’ che aveva il sonno leggero mi
diceva dall’altra stanza: – Trina si
può sapere che fai in piedi a
quest’ora?
– Devo controllare se ci sono i
carabinieri! – rispondevo io.
– Sotto al letto?
– Eh…
Allora la sentivo che si girava sul
fianco e borbottava che ero mezza
matta.
Le scuole clandestine intanto
aumentavano. I contrabbandieri ci
portavano dalla Baviera e
dall’Austria quaderni, abachi,
lavagne. Lasciavano tutto ai preti
che poi smistavano il materiale. I
fascisti, nonostante piantassero
ovunque i cartelli Vietato parlare
tedesco, non riuscivano a
italianizzare niente di niente e
diventavano sempre piú violenti.
Quando tornò l’inverno, per
fregare i carabinieri, i bambini
iniziarono a travestirsi. Si
presentavano imbacuccati nei
cappotti come se avessero la febbre,
con tute da lavoro rabberciate alla
meglio, agghindati quasi dovessero
andare alla prima comunione…
Quando a sera pedalavo sulla
bicicletta e finalmente spuntava
casa, con la lampada a petrolio
accesa dietro i vetri affumicati,
ridevo come chi l’ha fatta franca
un’altra volta.
La domenica io e Erich
andavamo in bicicletta. Stavamo in
riva al fiume, riempivamo ceste di
funghi, prendevamo sentieri che
s’inerpicavano sulle cime. La valle
la conosco perché mi ci ha portato
lui, non perché ci sono nata. Quando
su in alto sentivo freddo mi sfregava
la schiena. Aveva mani lunghe e
nervose, che mi piaceva sentire
addosso. Lui anche nei giorni di
festa si svegliava all’alba e diceva: –
Dài, andiamo a camminare che il
cielo è pulito! – A me piaceva
poltrire ma Erich preparava il caffè
d’orzo, me lo portava a letto e poi
buttava all’aria le lenzuola.
Ai figli diceva di non pensarci e
quando gli rispondevo che invece li
volevo si stringeva nelle spalle.
– Verranno quando vogliono, –
tagliava corto.
Nemmeno il tempo di dire cosí
che sono rimasta incinta. Ero appena
uscita dal capanno. A un certo punto
mi viene una nausea fortissima,
come una fitta. Pedalo in fretta verso
casa, corro al catino, poi
l’indecisione come al solito mi frega
e mi dico che è meglio se resto fuori.
Il risultato è che vomito sulla porta.
– Te l’ho detto che vengono
quando vogliono loro! – ha riso
Erich appoggiandomi la testa sul
petto.
Durante la gravidanza mi sentivo
sempre assonnata, appena tornavo
dal capanno mangiavo qualcosa e mi
mettevo a letto. Paura dei fascisti
non ne avevo piú e anche se ero
incinta non volevo per nulla al
mondo smettere di fare la maestra
clandestina. Mi faceva sentire
protetta, la pancia, non impaurita.
Quando Erich rientrava dai campi
mi metteva la mano sul ventre e
diceva che secondo lui doveva
essere femmina e la voleva chiamare
Anna, come sua madre.
– Se è femmina invece la
chiameremo Marica, – rispondevo io
chiudendo la discussione.
Capitolo ottavo
Un giorno di marzo ci
convocarono uno per uno al
tribunale arbitrale per proporci di
scegliere: un risarcimento in denaro
o la ricostruzione della casa.
– Ma per la casa, – premettevano,
– ci sarà da avere pazienza.
– Che vuol dire pazienza?
– Pazienza vuol dire pazienza, –
rispondevano gli impiegati con la
stessa arroganza di quando c’era il
podestà. Il fascismo non era piú
legge ma era ancora tra noi, tale e
quale, con tutto il suo armamentario
di spocchia e prepotenza, con tutta la
stessa gente portata da Mussolini e
di cui la nuova repubblica italiana
aveva bisogno per mandare avanti la
burocrazia.
Fuori dall’ufficio del tribunale ci
guardammo esterrefatti. Ancora una
volta eravamo di fronte al dilemma
se restare o partire. Come nel ’39.
Chi avrebbe preso i soldi se ne
sarebbe andato altrove, magari da
parenti o da qualche altra parte in
valle. Chi sceglieva la casa era
deciso a rimanere anche con l’acqua
che sovrastava ogni cosa.
– E le bestie dove pascoleranno?
– E se le venderemo quanto ce le
pagherete?
– E in quelle gabbie quanto ci
dovremo restare?
– E perché valutate quattro lire il
nostro maso?
– È vero che la carta da bollo su
cui ci mandate l’esproprio costa piú
di un metro quadro dei nostri campi?
Cosí gridavamo agli impiegati
occhialuti del tribunale. Loro però
rispondevano seccati che niente era
stato deciso, dovevano solo farsi
un’idea di quante case avrebbero
dovuto costruire. Che non li
costringessimo a chiamare i
carabinieri e a farci sbattere fuori.
Un mattino un contadino di
Curon trovò mezzo metro d’acqua
nella stalla. Le galline morte e il
fieno sfilacciato ci galleggiavano
sopra. Uscí per strada e si mise a
gridare. Tutti quelli che erano nei
masi e nelle botteghe si
precipitarono nelle stalle, nelle
cantine, e tutti trovarono l’acqua. In
piazza si formò in poco tempo una
folla inferocita. Erich corse a
chiamare padre Alfred. Anche nei
sotterranei della chiesa c’era acqua
fino alle ginocchia.
– Quei bastardi hanno chiuso le
paratoie senza avvisarci! – disse
Erich.
– Andiamo a Resia, – ordinò il
parroco. – A quest’ora gli ingegneri
sono negli uffici.
Appena padre Alfred arrivò ci
mettemmo in fila. Eravamo piú di
duecento. Giovani e vecchi. Uomini
e donne. Marciammo verso Resia.
Quel giorno venne anche Michael.
Era passato a trovarci, una delle sue
solite visite veloci e fatte di niente.
Da quando viveva a Glorenza e
Erich non andava piú in
falegnameria ci vedevamo di rado.
Loro due non avevano mai ripreso a
parlarsi.
Per strada qualcuno intonava
cori, qualcun altro piangeva, qualche
donna strillava. Arrivammo a Resia
nel pomeriggio e quando in
lontananza, fuori dalla capanna
adibita a laboratorio geotecnico,
scorgemmo due ingegneri della
Montecatini, quelli restarono prima
paralizzati, poi, vedendo che
eravamo un esercito, accelerarono il
passo e alla fine si misero a correre
come ladri di polli verso la casa di
un carabiniere di cui gridavano il
nome. I ragazzi delle ultime file
lasciarono il gruppo per inseguirli.
Michael si uní a loro. Noialtri
urlavamo: «Miserabili!» I ragazzi
afferrarono gli ingegneri e li
spinsero verso la folla che in un
attimo li circondò. Padre Alfred
gridò che nessuno si azzardasse ad
alzare le mani.
– Avete chiuso le porte della
diga? – chiese in quel silenzio
pronto a esplodere.
– Non abbiamo potuto avvisarvi,
– dissero impacciati con il fiato in
gola.
Non fece in tempo a chiedere
altro che arrivarono ad alta velocità
due macchine dei carabinieri.
Inchiodarono a pochi passi da noi.
Scesero con le pistole in aria, si
fecero largo tra la folla. Gli
ingegneri immediatamente si
nascosero dietro di loro, che li
misero al sicuro dentro l’automobile
mentre molti di noi non smettevano
di insultarli. Poi si diressero a passi
decisi verso padre Alfred. Gli
bloccarono i polsi e lo spinsero
come si spingono i delinquenti sulla
seconda macchina, che partí
sgommando. Furono grida e sassi
contro le macchine. Corse inutili dei
ragazzi per bloccarle. Michael
gridava: «Carogne! Fascisti!» e si
riempí anche lui una mano di sassi.
Quando le auto scomparvero in
fondo alla strada restammo a
guardarci, immobili e attoniti. Erich
e Michael si strinsero per un
momento la mano per bloccarsi a
vicenda.
Padre Alfred lo rivedemmo due
giorni dopo. Lo avevano sbattuto in
prigione con l’accusa di sobillare il
popolo.
Mi limito ai ringraziamenti
imprescindibili perché mai come per
questo libro la lista sarebbe lunga. Prima
di tutto Alexandra Stecher per il suo
preziosissimo testo Eingegrenzt und
Ausgegrenzt: Heimatverlust und
Erinnerungskultur e per la sua
disponibilità; Elisa Vinco per avermi piú
volte aiutato a tradurre dal tedesco;
l’onorevole Albrecht Plangger per
avermi organizzato un tour a Resia e
Curon per incontrare numerosi esperti e
testimoni; Carlo Romeo per le
consulenze storiche e i preziosi
suggerimenti bibliografici; la
professoressa Letizia Flaim per avermi
fatto conoscere, tramite il suo libro
Scuole clandestine in Bassa Atesina:
1923-1939 (scritto con Milena
Cossetto), una considerevole bibliografia
sulle scuole clandestine. Un grazie
particolare va a Florian Eller e, piú di
tutti, a Ludwig Schöpf, maestro e
miniera di informazioni su questa
vicenda, oltre che interprete
straordinario che mi ha permesso di
entrare in contatto con i testimoni e la
loro lingua. Grazie al mio agente,
Piergiorgio Nicolazzini, per la
discrezione e l’attenzione con cui ha
seguito il progetto e lo ha sostenuto.
Grazie infine agli amici che hanno letto
il romanzo prima della pubblicazione
senza risparmiarmi critiche e
osservazioni. In particolare a Irene
Barichello, Alberto Cipelli, Francesco
Pasquale e Stefano Raimondi, che hanno
seguito la stesura del romanzo passo
passo.
E grazie come sempre ad Anna, che
sa tirarmi fuori le parole che non penso
di riuscire a trovare.
Il libro
Q
UANDO ARRIVA LA GUERRA
o l’inondazione, la gente
scappa. La gente, non
Trina. Caparbia come il paese di
confine in cui è cresciuta, sa
opporsi ai fascisti che le
impediscono di farela maestra.
Non ha paura di fuggire sulle
montagne col marito disertore. E
quando le acque della diga stanno
per sommergere i campi e le case,
si difende con ciò che nessuno le
potrà mai togliere: le parole.
Marco Balzano ha la sapienza dei
grandi narratori: accorda la
scrittura al respiro dei suoi
personaggi. Con una voce intima
che restituisce vita alla Storia,
ritrae la forza di una comunità
nell’attimo in cui, aggrappandosi
alla rabbia, sceglie di resistere.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858427880