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Marco

Balzano

Resto qui
A Riccardo
Resto qui

Una storia non dura che nella


cenere
MONTALE
Parte prima
Gli anni
Capitolo primo

Non sai niente di me, eppure sai


tanto perché sei mia figlia. L’odore
della pelle, il calore del fiato, i nervi
tesi, te li ho dati io. Dunque ti
parlerò come a chi mi ha visto
dentro.
Saprei descriverti nei minimi
particolari. Anzi, certe mattine che
la neve è alta e la casa è avvolta da
un silenzio che mozza il respiro mi
vengono in mente nuovi dettagli.
Qualche settimana fa mi sono
ricordata di un piccolo neo che avevi
sulla spalla e che quando ti facevo il
bagno nella tinozza mi indicavi
sempre. Ti ossessionava. O quel
boccolo dietro l’orecchio, l’unico in
quei capelli color miele.
Le poche fotografie che conservo
le tiro fuori con prudenza, col tempo
si diventa di lacrima facile. E io odio
piangere. Odio piangere perché è da
idioti, e perché non mi consola. Mi
fa solo sentire spossata, senza piú
voglia di mandare giú un boccone o
di infilarmi la camicia da notte
prima di andare a dormire. Invece
bisogna curarsi, stringere i pugni
anche quando la pelle delle mani si
copre di macchie. Lottare a
prescindere. Questo mi ha insegnato
tuo padre.

In tutti questi anni mi sono


sempre immaginata come una buona
madre. Sicura, brillante,
amichevole… aggettivi che non mi
calzano proprio. In paese mi
chiamano ancora signora maestra,
ma mi salutano da lontano. Sanno
che non sono un tipo affabile. A
volte mi torna in mente il gioco che
facevo fare ai bambini di prima
elementare. «Disegnate l’animale
che vi assomiglia di piú». Adesso
disegnerei una tartaruga con la testa
nel guscio.
Mi piace pensare che non sarei
stata una madre invadente. Non ti
avrei chiesto, come ha sempre fatto
la mia, chi era questo o quell’altro,
se gli davi retta o se ti ci volevi
fidanzare. Ma forse è un’altra delle
storie che mi racconto e se ti avessi
avuta qui ti avrei tempestata di
domande, guardandoti di
sghimbescio a ogni risposta evasiva.
Piú passano gli anni e meno ci si
sente migliori dei genitori. Se faccio
paragoni adesso, poi, sono in netto
svantaggio. Tua nonna era spigolosa
e severa, aveva le idee chiare su
tutto, distingueva facilmente il
bianco dal nero e non si faceva
problemi a tagliare con l’accetta. Io
invece mi sono persa in una scala di
grigi. Secondo lei era colpa dello
studio. Considerava chiunque fosse
istruito una persona inutilmente
difficile. Uno scioperato, un
saccente, uno che sta a spaccare il
capello in quattro. Io invece credevo
che il sapere piú grande, specie per
una donna, fossero le parole. Fatti,
storie, fantasie, ciò che contava era
averne fame e tenersele strette per
quando la vita si complicava o si
faceva spoglia. Credevo che mi
potessero salvare, le parole.
Capitolo secondo

Degli uomini me ne sono sempre


infischiata. L’idea che c’entrassero
con l’amore mi sembrava ridicola.
Per me erano individui troppo goffi
o troppo pelosi o troppo rozzi. A
volte le tre cose insieme. Da queste
parti tutti avevano un pezzo di terra
e qualche animale, e quello era
l’odore che gli restava addosso.
Stalla e sudore. Se dovevo
immaginare di fare l’amore, meglio
una donna. Meglio gli zigomi duri di
una ragazza che la pelle spinosa di
un uomo. Ma meglio ancora
restarmene da sola senza dar conto a
nessuno. Anzi, farmi monaca non mi
sarebbe dispiaciuto affatto. L’idea di
estraniarmi dal mondo mi
entusiasmava piú che mettere su
famiglia. Ma Dio è sempre stato un
pensiero troppo difficile, quando mi
veniva in mente mi ci smarrivo.

L’unico che ho guardato è stato


Erich. Lo vedevo passare all’alba,
col cappello abbassato sulla fronte e
la sigaretta al lato della bocca già a
quell’ora. Ogni volta volevo
affacciarmi alla finestra per
salutarlo, ma se l’avessi aperta Ma’
avrebbe sentito freddo e di sicuro mi
avrebbe gridato di chiudere subito.
«Trina sei impazzita?!» avrebbe
strillato.
Ma’ era una che strillava sempre.
E comunque, anche se avessi aperto
quella finestra, cosa gli avrei detto?
A diciassette anni ero talmente
imbranata che sarei riuscita al
massimo a balbettare. Cosí restavo a
guardarlo allontanarsi verso i boschi
mentre Grau, quel suo cane tutto a
chiazze, spingeva avanti il gregge.
Quando era con le mucche Erich si
trascinava cosí lentamente che
sembrava immobile. Allora
abbassavo la testa sui libri, sicura di
rivederlo nello stesso punto, e
quando la alzavo era diventato
minuscolo in fondo alla strada. Sotto
i larici che non ci sono piú.
Quella primavera mi sono
ritrovata sempre piú spesso coi libri
aperti e la matita in bocca a
immaginare Erich. Quando non
c’era Ma’ che trafficava a due passi
da me chiedevo a Pa’ se la vita dei
contadini non fosse un’esistenza da
sognatori. Dopo aver zappato l’orto
si può andare per prati con gli
animali, sedersi su una roccia e
restare in silenzio a guardare il
fiume che scende placido da chissà
quanti secoli, il cielo freddo che non
si sa dove finisce.
– Possono fare tutto questo i
contadini, vero Pa’?
Pa’ ridacchiava, con la pipa tra i
denti. – Vallo a chiedere a quel
ragazzo che sbirci il mattino dalla
finestra se fa un lavoro da
sognatore…

La prima volta che ci ho parlato è


stato nel cortile del maso. Pa’ faceva
il falegname a Resia, ma anche a
casa nostra sembrava di essere in
bottega. C’era sempre un viavai di
gente che veniva a chiedere
riparazioni. Quando gli ospiti se ne
andavano, Ma’ brontolava che non si
stava mai in pace. Allora lui,
incapace di tenersi mezzo
rimprovero, le rispondeva che non
c’era proprio niente da brontolare
perché un bottegaio lavora anche
quando offre un bicchiere o fa
quattro chiacchiere, anzi è cosí che
si guadagna clientela. Lei per
troncare la discussione gli tirava il
naso, quel naso spugnoso che aveva
Pa’.
– Ti è cresciuto ancora, – gli
diceva.
– A te invece è cresciuto il culo!
– ribatteva lui.
A quel punto Ma’ s’infuriava: –
Ecco chi ho sposato, un balordo! – e
gli lanciava lo strofinaccio. Pa’ se la
ghignava e le lanciava la matita, lei
un altro strofinaccio, lui un’altra
matita. Per loro lanciarsi le cose era
volersi bene.
Quel pomeriggio Erich e Pa’ se
ne stavano a fumare e guardavano
con gli occhi a lumaca le nuvole
accasciate sull’Ortles. Pa’ ci disse di
aspettarlo un momento che andava a
prendere un bicchierino di grappa.
Erich era uno che al posto di parlare
alzava il mento e accennava sorrisi
smorzati, con un fare sicuro che mi
faceva sentire piccola.
– Che farai dopo gli studi? La
maestra? – mi ha chiesto.
– Forse sí. O forse me ne andrò
lontano, – ho risposto tanto per dire
una frase da grande.
Quando ho detto cosí la sua
faccia si è fatta subito scura. Ha
tirato forte la sigaretta e la brace
quasi gli scottava le dita.
– Io non vorrei mai andarmene da
Curon, – ha detto indicando la valle.
Allora l’ho guardato come una
bambina che ha finito le parole e
Erich mi ha accarezzato la guancia
per salutarmi.
– Di’ a tuo padre che la grappa la
berrò un altro giorno.
Ho fatto sí con la testa, senza
sapere cos’altro dire. Mi sono messa
coi gomiti sul tavolo a seguirlo che
se ne andava. Ogni tanto tiravo
un’occhiata alla porta perché avevo
paura che all’improvviso spuntasse
Ma’. Ti fa sentire una ladra certe
volte l’amore.
Capitolo terzo

Nella primavera del ’23 mi


preparavo per l’esame di maturità.
Mussolini aveva aspettato proprio il
mio diploma per stravolgere la
scuola. L’anno prima c’era stata la
marcia su Bolzano, con i fascisti che
avevano messo a ferro e fuoco la
città. Hanno incendiato gli edifici
pubblici, pestato gente, cacciato con
la forza il borgomastro, e come al
solito i carabinieri sono rimasti a
guardare. Senza le loro braccia
conserte e senza quelle del re il
fascismo non ci sarebbe stato.
Ancora oggi camminare per Bolzano
mi scombussola. Tutto mi sembra
ostile. I segni del Ventennio sono
tanti e a rivederli mi viene in mente
Erich, quanto si consumerebbe dalla
rabbia.
Fino a quel momento, specie in
queste valli di confine, la vita era
scandita dai ritmi delle stagioni.
Sembrava che quassú la storia non
arrivasse. Era un’eco che si perdeva.
La lingua era il tedesco, la religione
quella cristiana, il lavoro quello nei
campi e nelle stalle. Non c’era da
aggiungere altro per capire questa
gente di montagna di cui fai parte
anche tu, se non altro perché ci sei
nata.
Mussolini ha fatto ribattezzare
strade, ruscelli, montagne… sono
andati a molestare anche i morti,
quegli assassini, cambiando le scritte
sulle lapidi. Hanno italianizzato i
nostri nomi, sostituito le insegne dei
negozi. Ci hanno proibito di
indossare i nostri vestiti. Da un
giorno all’altro in classe ci siamo
ritrovati insegnanti veneti, lombardi,
siciliani. Loro non ci capivano, noi
non capivamo loro. L’italiano qui in
Sudtirolo era una lingua esotica, che
si sentiva da qualche grammofono o
quando arrivava un venditore della
Vallarsa che risaliva il Trentino per
andare a commerciare in Austria.

Il tuo nome cosí particolare


rimaneva subito impresso, ma per
chi non se lo ricordava eri sempre la
figlia di Erich e Trina. Dicevano che
eravamo due gocce d’acqua.
– Se si perde te la portano a casa!
– bofonchiava il fornaio e ti salutava
facendo smorfie con la sua bocca
sdentata. Ti ricordi? Quando per
strada sentivi l’odore delle pagnotte
mi tiravi la mano per trascinarmi a
comprartene una. Non c’era cosa
che ti piacesse piú del pane caldo.
Conoscevo gli abitanti di Curon
uno per uno, ma amiche per me
erano solo Maja e Barbara. Adesso
non abitano piú qui. Sono partite
tanti anni fa e nemmeno so se sono
ancora vive. Eravamo cosí legate
che abbiamo fatto la stessa scuola.
L’istituto magistrale non lo
potevamo frequentare perché era
troppo lontano, ma quella volta
all’anno che andavamo a Bolzano a
dare gli esami per noi era come
un’avventura. Giravamo eccitate per
la città e finalmente oltre alle
malghe e alle montagne vedevamo il
mondo. Palazzi, negozi, strade
trafficate.
Io e Maja ce l’avevamo davvero
la vocazione a insegnare e non
vedevamo l’ora di entrare in classe.
A Barbara invece sarebbe piaciuto di
piú fare la sarta. Si era iscritta anche
lei perché «cosí staremo piú
insieme», diceva. In quegli anni era
la mia ombra. Passavamo il tempo
ad accompagnarci a casa a vicenda.
Davanti alla porta del maso una
diceva all’altra: – Dài, c’è ancora
luce, ti accompagno io.
Facevamo dei giri larghissimi,
costeggiando il fiume o l’inizio del
bosco e in quelle passeggiate mi
ricordo che Barbara mi ripeteva
sempre: – Se avessi il tuo
carattere…
– Ma perché, che carattere ho?
– Be’, hai le idee chiare, sai dove
vuoi arrivare. Io invece vado in
confusione su tutto e cerco sempre
qualcuno che mi prenda la mano.
– A me non sembra che essere
come sono mi porti poi tanto bene.
– Tu dici cosí perché sei un po’
incontentabile.
– E comunque, – dicevo
scrollando le spalle, – lo darei subito
via il mio carattere per essere bella
come te.
Allora lei sorrideva e se in giro
non c’era nessuno, o se il cielo si
stava scurendo, mi dava un bacio e
mi diceva delle parole dolci che non
mi ricordo piú.

Con l’arrivo del duce era chiaro


che rischiavamo di restare senza
lavoro perché non eravamo italiane,
e cosí ci siamo messe tutte e tre a
studiare la lingua nella speranza che
ci avrebbero assunto lo stesso. I
pomeriggi di quella primavera li
abbiamo passati coi libri di
grammatica in riva al lago. Ci
vedevamo dopo pranzo e
arrivavamo chi con la frutta in un
tovagliolo, chi col boccone ancora in
gola.
– Adesso basta parlare tedesco! –
dicevo io per richiamarle all’ordine.
– Io volevo diventare maestra,
ma non della lingua degli altri! –
protestava Maja schiaffeggiando
quel suo quaderno pieno di
scarabocchi.
– E io allora che volevo
disegnare vestiti? – se ne usciva
Barbara.
– Guarda che di fare la maestra
mica te l’ha ordinato il dottore, –
ribatteva Maja.
– Ma sentite questa vipera… Che
vuol dire non me l’ha ordinato il
dottore? – protestava facendosi la
coda a quella chioma di capelli rossi
che le finivano dappertutto. E poi
riattaccava con la storia che
dovevamo andare a vivere insieme,
senza sposarci.
– Date retta a me, se ci sposiamo
diventeremo delle serve! –
concludeva convinta.
Quando tornavo a casa me ne
andavo subito a dormire. Ero sempre
affamata di solitudine. Mi infilavo
nel letto e rimanevo nel buio umido
della stanza a pensare. Pensavo che
volente o nolente stavo diventando
grande e la cosa mi turbava. Non so
se anche tu hai avuto di queste paure
o se assomigli a tuo padre che la
vedeva come un fiume, la vita. Io
all’avvicinarsi di un cambiamento o
di un traguardo, fosse il diploma o il
matrimonio, sentivo puntualmente
voglia di scappare e mandare tutto
all’aria. Perché vivere vuol dire per
forza andare avanti? Anche quando
ti ho partorito pensavo: «Perché non
me la posso tenere qui dentro ancora
un po’?»

A maggio con Maja e Barbara


stavamo insieme anche in settimana,
non piú come negli anni passati una
volta ogni tanto o per la messa della
domenica. Ci esercitavamo in quella
lingua strana, sperando che ai
fascisti gliene importasse qualcosa
del nostro impegno e del nostro
diploma. Ma siccome fino in fondo
non ci credevamo neanche noi, piú
che studiare grammatica ci
mettevamo in cerchio ad ascoltare le
canzoni dei dischi italiani che aveva
Barbara.

Un bacio ti darò
Se qui ritornerai
Ma non ti bacerò
Se alla guerra partirai

Una settimana prima degli scritti


Pa’ mi ha dato il permesso di
dormire da Barbara. Ce n’è voluta
ma alla fine l’ho spuntata io.
– Va bene bimba, facciamo che
dalla tua amica ci vai ma mi porti
una pagella coi fiocchi.
– E cos’è per te una pagella coi
fiocchi? – ho chiesto dopo averlo
baciato sulla guancia.
– Be’, quella con la media del
dieci! – ha detto lui aprendo le mani.
E anche Ma’, che gli stava seduta di
fianco a cucire le calze, ha annuito.
Ma’ quando aveva un minuto cuciva
sempre calze perché il freddo ai
piedi è freddo in tutto il corpo,
diceva.
Il massimo dei voti però non l’ho
preso. A pagare da bere e a
preparare la crostata, come ci
eravamo promesse all’inizio della
scuola, è stata Maja. Anche se
secondo Barbara lei aveva preso
dieci perché il suo professore era un
porco che le guardava il petto.
– Io ho preso sette perché ho
queste due meline! – ha protestato
spingendo in fuori i seni e
pesandoseli nelle mani.
– Tu hai preso sette perché sei
somara! – le ha risposto Maja e
subito l’altra l’ha acciuffata e si
sono rotolate nell’erba. Io le
guardavo ridendo, con gli occhi
socchiusi per la luce del sole.
Capitolo quarto

Dopo che ci siamo diplomate ci


trovavamo ancora sulla riva del lago
e sotto i larici, ma di studiare
italiano non se ne parlava piú.
– Se a scuola ci assumono, bene,
se no vadano al diavolo! –
concludeva in fretta Maja.
– Il diploma qui non ce l’ha
nessuno, ci prenderanno per forza, –
diceva Barbara.
– Cosa vuoi che gliene importi ai
fascisti di quel pezzo di carta? A
quelli interessa far lavorare gli
italiani.
– Finiremo coll’aver studiato per
niente, – sbuffava Maja. – Mi
toccherà andare in bottega con mio
padre e non faremo che litigare.
– Sempre meglio che stare a casa
a rammendare le calze, – dicevo io,
che al solo pensiero di passare le
giornate con Ma’ mi mancava l’aria.
I fascisti intanto occupavano non
solo le scuole, ma i municipi, le
poste, i tribunali. Gli impiegati
tirolesi venivano licenziati in tronco
e gli italiani appendevano negli
uffici cartelli con scritto Vietato
parlare tedesco e Mussolini ha
sempre ragione. Imponevano
disposizioni di coprifuoco, le
adunate il sabato pomeriggio per il
passaggio del podestà, le loro feste
comandate.
Maja diceva: – Mi sembra di
camminare su un campo minato –.
Si stufava in fretta delle nostre
chiacchiere, che finivano sempre su
cose senza importanza. – Ma non lo
vedete che diavolo sta succedendo?
– sbottava seccata. – Curon, Resia,
San Valentino… da quando ci sono i
fascisti niente è piú nostro. Gli
uomini non vanno all’osteria, le
donne camminano rasenti ai muri, la
sera non gira un’anima! Come fate a
farvi scivolare tutto di dosso?
– Mio fratello dice che il
fascismo ha i giorni contati, – le
rispondeva Barbara cercando di
calmarla.
Maja invece non si calmava
affatto. Sbuffava come un cavallo e
si lasciava cadere di schiena
sull’erba dicendo che eravamo solo
delle vanitose.
Lei aveva ricevuto un’educazione
diversa dalla nostra. Suo padre era
un uomo istruito che passava le ore a
spiegare ai figli cosa succedeva in
Sudtirolo e nel mondo. Raccontava
chi era questo governatore, chi
quell’altro ministro, e se trovava in
casa anche me e Barbara attaccava
dei discorsi lunghissimi in cui ci
snocciolava una sfilza di nomi e di
luoghi che non avevamo mai sentito
nemmeno mezza volta. Alla fine ci
metteva in guardia con questa frase:
«Quando vi sposerete ditelo ai vostri
mariti, e ricordatevelo anche voi, se
non vi occupate di politica la
politica si occuperà di voi!» E si
ritirava nell’altra stanza. Maja
adorava suo padre e appena finiva di
parlare faceva sempre sí con la testa
in segno di obbedienza. Io e Barbara
guardavamo fuori dalla finestra
perché ci sentivamo delle capre.
– Di questo passo Maja diventerà
piú fanatica del padre, – diceva
quando ce ne tornavamo a casa.
Certe volte io e Barbara
uscivamo da sole. Inforcavamo le
biciclette e arrivavamo fino a San
Valentino, costeggiavamo il lago
sentendo il fresco dell’acqua che si
appiccicava alle facce sudate.
– Le montagne mi sembra che
crescano con noi, – diceva
pedalando col mento all’aria.
– Pensi che ci nascondano il
mondo? – le chiedevo io, che un
giorno volevo scappare e quello
dopo tapparmi in casa.
– Che t’importa del mondo? –
rispondeva ridendo.
Quando rientrava dalla bottega,
Pa’ ripeteva che in giro si respirava
ancora aria di guerra. I genitori di
Maja dicevano che era meglio
andarsene in Austria, lontano dai
fascisti. Quelli di Barbara volevano
raggiungere dei parenti in Germania.
Anche la popolazione del
Sudtirolo nel frattempo cambiava.
Passavano i mesi e continuavano ad
arrivare colonie di italiani mandate
dal duce. Persino qui a Curon ne è
arrivato qualcuno. Li riconoscevi
subito quei forestieri del Sud, con le
valigie in mano e il naso all’insú a
guardare pendii mai visti, nuvole
troppo vicine.
Dal primo momento è stato noi
contro loro. La lingua di uno contro
quella dell’altro. La prepotenza del
potere improvviso e chi rivendica
radici di secoli.

Erich passava spesso a casa, con


Pa’ era amico da sempre: gli voleva
bene perché Erich era senza genitori.
A Ma’ invece non piaceva
granché. – Quel ragazzo è superbo,
– diceva. – Sembra che parla per
farti un favore –. Dagli altri si
aspettava tutta l’espansività che lei
non aveva.
Pa’ lo faceva accomodare sullo
sgabello, poi girava al contrario la
sedia e appoggiava i gomiti sullo
schienale, prendendosi tra le mani le
guance barbute. Erich sembrava suo
figlio. Un figlio inquieto, che chiede
consigli su tutto. Io li spiavo da
dietro lo stipite della porta. Cercavo
di farmi sottile trattenendo il respiro,
incollando i palmi delle mani al
muro. Se spuntava mio fratello
Peppi me lo mettevo di fianco e gli
tappavo la bocca. Lui cercava di
divincolarsi ma a quei tempi ancora
riuscivo a immobilizzarlo. Aveva
sette anni meno di me il Peppi, e
oltre che cocco di mamma non
sapevo proprio cos’altro dirgli. Era
solo un moccioso con la faccia
sporca e le ginocchia sbucciate.
– Sembra che il governo italiano
voglia rimettere mano al progetto
della diga, – disse una sera Erich. –
Certi contadini che portano gli
animali verso San Valentino hanno
visto arrivare squadre di lavoro.
Pa’ si strinse nelle spalle. – Lo
dicono da anni, ma poi non
combinano niente, – rispose col suo
sorriso bonario.
– Se la costruiranno dovremo
trovare il modo di fermarli, –
continuò Erich guardando altrove. –
I fascisti hanno tutto l’interesse a
rovinarci e a sparpagliarci per
l’Italia.
– Sta’ tranquillo, ammesso che il
fascismo durerà, qui una diga non si
può costruire, il terreno è fangoso.
Ma gli occhi grigi di Erich
restavano inquieti come quelli di un
gatto.

La diga era stata annunciata per


la prima volta nel 1911. Imprenditori
della Montecatini volevano
espropriare Resia e Curon e sfruttare
la corrente del fiume per produrre
energia. Industriali e politici italiani
dicevano che l’Alto Adige era una
miniera d’oro bianco e sempre piú
spesso mandavano ingegneri a
ispezionare le valli e a sondare i
corsi dei fiumi. I nostri paesi
sarebbero scomparsi sotto una
tomba d’acqua. I masi, la chiesa, le
botteghe, i campi dove pascolavano
le bestie: tutto sommerso. Con la
diga avremmo perduto le case, gli
animali, il lavoro. Di noi, con la
diga, non sarebbe rimasto piú nulla.
Saremmo dovuti emigrare, diventare
altro. Un altro guadagnarsi il pane,
un altro posto, un altro popolo.
Saremmo morti lontano dalla Val
Venosta e dal Tirolo.
Nel 1911 il progetto non partí
perché il terreno era stato
considerato a rischio. Non aveva
consistenza, era fatto soltanto di
detriti di dolomia. Ma dopo che il
fascismo salí al potere tutti
sapevamo che presto il duce avrebbe
fatto costruire poli industriali a
Bolzano e Merano – quelle città
sarebbero diventate il doppio o il
triplo, sarebbero arrivati italiani a
frotte a caccia di lavoro – e la
richiesta di energia sarebbe
enormemente aumentata.
Giú all’osteria, sul sagrato della
chiesa, nella bottega di Pa’, Erich si
sgolava. – Guardate che torneranno.
State sicuri che verranno di nuovo –.
Ma i contadini, mentre lui si
affannava, continuavano a bere, a
fumare, a mescolare le carte.
Liquidavano il discorso stirando le
labbra o agitando in aria le mani
come per cacciare le mosche.
– Quello che non vedono non
esiste, – diceva Erich a Pa’. – Dagli
un bicchiere di vino e non pensano
piú a niente.
Capitolo quinto

Piuttosto che prendere noi


assunsero semianalfabeti siciliani e
delle campagne venete. Del resto
che i bambini tirolesi imparassero
qualcosa era l’ultimo dei problemi
del duce.
Noi tre passavamo le giornate
camminando mogie per la piazza
affollata, con i venditori ambulanti
che fino a sera non smettevano di
strillare e le donne che si
radunavano a grappolo intorno ai
carri.
Una mattina il prete ci venne
incontro. Ci spinse in una viuzza
vuota, con il muschio che macchiava
i muri. Disse che se davvero
volevamo insegnare dovevamo
andare nelle catacombe. Andare
nelle catacombe significava fare le
maestre clandestine. Era illegale e
voleva dire multe, botte, olio di
ricino. Si poteva finire al confino su
qualche isola sperduta. Barbara disse
subito di no, io e Maja ci
guardammo titubanti.
– Non c’è tempo di pensare! – ci
incalzò il prete.
Quando ne parlai a casa Ma’ si
mise a gridare che sarei finita in
Sicilia in mezzo ai negri. Pa’,
invece, disse che facevo bene. In
realtà io non volevo andare, non
sono mai stata coraggiosa. Ci sono
andata per farmi bella con Erich. Gli
avevo sentito raccontare che seguiva
le assemblee clandestine, si
procurava giornali tedeschi, faceva
parte di un circolo che sosteneva
l’annessione alla Germania.
Insegnare nelle catacombe mi
sembrava un buon modo per fare
colpo su di lui, oltre che per capire
se diventare maestra era davvero ciò
che avevo in testa.

Il prete mi assegnò una cantina a


San Valentino, a Maja una stalla a
Resia. Ci andavo verso le cinque del
pomeriggio ed era già buio. Oppure
la domenica prima della messa e
sempre era buio. Pedalavo a
perdifiato, prendevo sentieri sterrati
che non sapevo esistessero. Si
muoveva una foglia, friniva un grillo
e mi veniva da urlare. Lasciavo la
bicicletta dietro un cespuglio prima
che iniziasse il paese e camminavo
con la testa bassa per non incrociare
qualche carabiniere. Ormai mi
sembravano piú delle tarme, quei
maledetti carabinieri. Li vedevo
ovunque.
Nella cantina della signora Marta
accatastavamo damigiane e vecchi
mobili e ci sedevamo su mucchi di
paglia. Parlavamo a bassa voce
perché bisognava stare attenti ai
rumori che arrivavano da fuori.
Bastava qualche passo in cortile per
spaventarci. I bambini erano i piú
incoscienti, le bambine invece mi
guardavano con occhi tremuli. Erano
sette e gli ho insegnato a leggere e
scrivere. Prendevo le loro mani e le
chiudevo nella mia, che era una
corazza. Li guidavo a disegnare le
lettere dell’alfabeto, le parole, le
prime frasi. All’inizio sembrava
impossibile, invece poi, da una sera
all’altra, diventavano capaci di
sillabare piano, leggendo a voce alta,
uno alla volta, accompagnandosi col
dito per non sbagliare riga. Era
bellissimo insegnare tedesco. Mi
piaceva cosí tanto che a volte mi
dimenticavo di essere una maestra
clandestina. Pensavo a Erich,
sarebbe stato orgoglioso di vedermi
là sotto intenta a scrivere su un
pezzo di ardesia lettere e numeri che
i bambini copiavano e ripetevano in
coro a voce sommessa. Quando
m’incamminavo verso casa
scioglievo i capelli perché se no il
mal di testa non mi passava. Ma era
una buona compagnia anche il mal
di testa, mi distraeva dalla paura.

Una sera due carabinieri hanno


sfondato la porta della cantina,
neanche fossimo dei banditi. Una
bambina si è messa a gridare, gli
altri si sono sparpagliati negli angoli
voltandosi contro il muro per non
vedere. Solo Sepp è rimasto al suo
posto e poi, lentamente, si è
avvicinato a un carabiniere. L’ha
insultato con una rabbia calma che
non dimenticherò mai. Il carabiniere
non capiva il tedesco ma gli ha tirato
un ceffone in piena faccia. Il
bambino non si è mosso di un
centimetro. Non ha pianto. Non ha
smesso di fissarlo con odio.
Quando tutti sono usciti, i
carabinieri hanno spaccato la
lavagna contro il muro, preso a calci
le damigiane, ribaltato i mobili.
– Ti sbatteremo in prigione! –
urlavano trascinandomi al
municipio.
Mi hanno lasciata tutta la notte
chiusa a chiave in una stanza
spoglia. Appesa al muro c’era una
foto di Mussolini con le mani sui
fianchi e lo sguardo fiero. Dicevano
che fosse molto amato dalle donne e
io cercavo di capire cosa avesse di
tanto bello. Appena mi assopivo
entrava un carabiniere a sbattere un
bastone sul tavolo per farmi
svegliare. Mi puntava una lampada
in faccia e mi ripeteva «chi ti passa
il materiale?» «dove si nascondono
gli altri maestri clandestini?» «di chi
sono figli i bambini?»
Quando Pa’ è venuto a prendermi
gli hanno strappato i baffi, come
facevano sempre a chi non gli
andava a genio. Poi gli hanno
spillato un mucchio di soldi. Mi
sentivo uno straccio, avevo i crampi
allo stomaco e gli occhi rossi di
sangue. Pensavo che Pa’ mi avrebbe
ordinato di non andarci piú, invece
alla fontana, mentre mi passava una
pezza bagnata sul viso, disse: –
Adesso non ti resta che continuare.

Cambiammo posto. Ci
spostammo nella soffitta di un
cliente di Pa’. Vennero tutti, solo la
bambina che si era messa a strillare
non volle piú tornare. Gli studenti
avevano a malapena qualche foglio,
a volte nemmeno quello. Certi
avevano una pagina tirata via dal
quaderno che usavano nella scuola
italiana, dove erano obbligati ad
andare. A fine lezione li facevo
uscire dal retro. Una volta che
d’improvviso hanno bussato alla
porta siamo saliti di corsa sul tetto,
veloci come topi. Me li tenevo tutti
addosso per paura che ruzzolassero
giú, e invece la padrona venne a
dirci ridendo che era il fornaio che
doveva consegnare il pane.
Quando arrivò l’estate divenne
piú facile. Ce ne andavamo a fare
lezione nei campi e il sole e tutta
quella luce non facevano pensare a
niente di brutto. All’aperto
camuffare la scuola clandestina
diventava un gioco. Stavamo ore a
provare una recita che per Natale
volevo mettere in scena al maso di
Maja, leggevamo ad alta voce le
favole di Andersen e dei fratelli
Grimm, ma anche poesie vietate, che
ricordavo a memoria per averle
imparate quand’ero piccola e ancora
c’era la scuola austriaca. Ogni tanto
qualche rumore che veniva dalla
strada mi ammutoliva e allora Sepp
mi prendeva la mano e mi
rassicurava con i suoi occhi di
ghiaccio. Anni dopo ho saputo che
Sepp è diventato uno dei piú giovani
collaboratori nazisti. Smistava i
prigionieri nel campo di
concentramento di Bolzano.
Carabinieri e camicie nere me li
sognavo ogni notte. Mi svegliavo di
soprassalto tutta sudata e rimanevo
ore a guardare il soffitto. Prima di
riaddormentarmi perlustravo il maso
per controllare che davvero in casa
non ce ne fossero. Guardavo anche
sotto al letto, dentro l’armadio, e
Ma’ che aveva il sonno leggero mi
diceva dall’altra stanza: – Trina si
può sapere che fai in piedi a
quest’ora?
– Devo controllare se ci sono i
carabinieri! – rispondevo io.
– Sotto al letto?
– Eh…
Allora la sentivo che si girava sul
fianco e borbottava che ero mezza
matta.
Le scuole clandestine intanto
aumentavano. I contrabbandieri ci
portavano dalla Baviera e
dall’Austria quaderni, abachi,
lavagne. Lasciavano tutto ai preti
che poi smistavano il materiale. I
fascisti, nonostante piantassero
ovunque i cartelli Vietato parlare
tedesco, non riuscivano a
italianizzare niente di niente e
diventavano sempre piú violenti.
Quando tornò l’inverno, per
fregare i carabinieri, i bambini
iniziarono a travestirsi. Si
presentavano imbacuccati nei
cappotti come se avessero la febbre,
con tute da lavoro rabberciate alla
meglio, agghindati quasi dovessero
andare alla prima comunione…
Quando a sera pedalavo sulla
bicicletta e finalmente spuntava
casa, con la lampada a petrolio
accesa dietro i vetri affumicati,
ridevo come chi l’ha fatta franca
un’altra volta.

Un giorno siamo uscite io e


Barbara. Ci siamo baciate nell’erba
e quando ci siamo alzate avevamo i
vestiti sdruciti. Ci piaceva baciarci
ma non so dire perché lo facessimo.
Forse quando sei cosí giovane non
serve per forza un perché. Stavamo
sedute su un tronco tagliato e
Barbara aveva un involto di carta
con dentro dei biscotti al cioccolato.
– Insegnare in tedesco mi piace, –
le raccontai con la bocca piena, – e
sapere che quel che faccio è contro i
fascisti mi piace ancora di piú.
– Ma non hai paura?
– All’inizio ne avevo, ora ho
imparato a osservare le facce dei
bambini. Quando sono tranquilli
loro lo divento anch’io.
– Quei bastardi non ci hanno
fatto insegnare nemmeno un giorno,
– disse sconsolata.
– Perché non vieni anche tu?
– Trina, te l’ho detto, io non ho il
tuo carattere. Se fosse successo a me
quello che ti è capitato sarei morta
d’infarto.
– È stato solo un brutto spavento.
– Ormai in negozio do una mano,
mio padre ci conta, – continuò
schermendosi.
– Ma puoi insegnare senza
smettere di lavorare! Farai lezione
quando hai qualche ora libera, –
conclusi in fretta. – Vedrai, ti farà
bene stare coi bambini, sono molto
meglio degli adulti.
Ci pensò a lungo, mordendosi le
labbra, poi disse: – E va bene, ma
non lo dire a nessuno. Nemmeno ai
miei.
Quando ne parlai al prete lui
approvò subito. A Resia c’era un
altro gruppo pronto a cominciare.
Barbara fece appena in tempo a
dirmi che si divertiva e che le
piaceva. Era una sera di giovedí, a
Curon pioveva. La solita pioggia
obliqua che cade a novembre. Io ero
a casa col Peppi, stavamo
impastando le polpette.
Qualcuno fuori lasciò cadere la
bicicletta. Bussò alla porta coi
pugni, cercando di entrare.
– Sono scesi lí sotto, hanno
sgomberato la sagrestia, spaccato
tutto, cacciato a calci i bambini! –
gridò. – Quando è rimasta sola
l’hanno trascinata per i capelli e
caricata in macchina, – continuò
Maja, col fiatone e gli occhi torvi. –
La manderanno al confino a Lipari.
Non sono riuscita neanche a
chiederle se le avevano messo le
mani addosso. Sono rimasta cosí,
con la saliva aggrumata in bocca.
Sulla soglia di casa la pioggia
continuava a cadere e mi bagnava la
faccia.
Capitolo sesto

Pa’ e Erich ripetevano gli stessi


gesti. Le chiacchiere, la grappa, le
sigarette. Anche io ripetevo gli stessi
gesti. Mi appostavo dietro lo stipite,
facevo le mie fantasticherie e
scappavo in cucina appena lui si
alzava per tornarsene a casa. Tutte le
volte fingevo di piegare una tovaglia
o di bere l’acqua come una scampata
al deserto. Pensavo che sarei andata
avanti cosí all’infinito. E in fondo
non mi dispiaceva. A vederlo
sempre solo, sempre su quello
sgabello, non mi sentivo sola
neanch’io. Non può essere un modo
di amarsi pure questo? Restare a
guardarlo di nascosto, senza per
forza mettere su il solito teatrino di
matrimonio e figli?
Poi un giorno di novembre si è
presentato con uno sbrego enorme
sulla mandibola, una ferita che gli
attraversava il collo e scendeva sotto
la camicia. Sembrava che qualcuno
avesse tentato di dividergli la testa a
metà come un cocomero. Pa’ l’ha
afferrato d’istinto sotto le braccia e
l’ha portato sulla sedia di fronte alla
stufa.
– Con un gruppo di contadini
abbiamo passato queste notti
acquattati dietro il paese. Sono
arrivati ispettori italiani. «Qui ci
abitiamo da secoli, qui vivono i
nostri padri e i nostri figli: qui ci
sono i nostri morti!» ho gridato. A
quel punto uno di quei vigliacchi ha
tirato fuori il manganello ma un
ingegnere l’ha fermato
rispondendomi che avremmo trovato
un accordo. «Il progresso vale piú di
un mucchietto di case», mi ha detto.
Ero triste di vederlo sfregiato, ma
anche felice di stargli finalmente
vicino senza dovermi nascondere.
Volevo medicarlo con il cotone e
dirgli continua a parlare Erich, che a
curarti ci penserò io.
– Un altro dei nostri ha urlato che
non ce ne saremmo andati per
nessuna ragione, che tutto il paese
avrebbe fatto resistenza.
«Prenderemo i forconi, apriremo le
stalle, libereremo i cani!» gridava. È
stato cosí che ci sono arrivati
manganelli e frustate –. E si è
toccato la ferita come se senza quel
gesto non potessimo credergli.
Pa’ ascoltava a bocca aperta.
– Vuoi fermarti a mangiare? – gli
ho chiesto. E subito Ma’ mi ha
fulminato con gli occhi.
Erich invece ha detto che aveva
bisogno di rimanere solo.

Un pomeriggio sono andata a


casa di Barbara. Non potevo
accettare che abitassimo a cento
passi di distanza e da un giorno
all’altro non ci tenessimo piú per
mano, non passeggiassimo piú
assieme. Cosí dopo pranzo, appena
Ma’ è andata a stendersi sul letto, ho
preso dal tavolo una fetta di torta,
l’ho avvolta in un canovaccio e sono
uscita di casa senza dire niente a
nessuno.
Sono arrivata sudata davanti alla
porta del suo maso e lí di colpo mi
sono paralizzata. Non riuscivo a
bussare né a chiamare il suo nome.
Mi sono messa ad aspettare che
dalla finestra vicino alla stalla
Barbara si affacciasse come quando
i genitori non le davano il permesso
di uscire. Certi giorni d’estate la
lasciava aperta e quando passavo a
chiamarla le facevo un fischio. Lei
rispondeva con un altro fischio poi
in un balzo era giú e portava sempre
un cartoccio con qualche dolciume
che mangiavamo strada facendo.
Sua sorella Alexandra diceva che
eravamo piú rozze dei pastori
quando fischiavamo a quel modo.
Sono rimasta non so quanto
tempo davanti alla porta, con le
gambe steccate, senza riuscire
nemmeno a tornarmene indietro.
Finché è uscita proprio Alexandra.
Aveva delle borse in mano e quando
mi ha vista le ha lasciate cadere per
terra.
– Posso parlare con Barbara? – le
ho chiesto con un filo di voce.
Alexandra mi ha guardato con
tanto d’occhi, non so se piú piena di
disprezzo o di stupore. Poi ha alzato
il mento per dirmi di andarmene.
– Posso parlare con Barbara? –
ho chiesto di nuovo.
– Non è in casa.
– Dici cosí perché non vuoi che
ci parli.
– Sí, non voglio, – ha detto
serrando le labbra. – E nemmeno lei
vuole.
– Ti prego, – ho ripetuto. – Anche
da qui, basta che si affacci un
minuto.
– Per colpa tua la manderanno al
confino, lo sai?
Siamo rimaste in silenzio, come
duellanti. Dalla stalla si sentivano i
belati delle pecore.
– Levati! – le ho gridato
d’improvviso. – Levati! – ho
strillato ancora.
E le sono andata contro a testa
bassa, come un toro, e mentre la
strattonavo mi sembrava che non ero
io a decidere le mie azioni ma una
parte del corpo che non conoscevo.
Ci siamo azzuffate come cagne.
Alexandra mi ha tirato per i capelli e
mi ha spinto per terra con un calcio.
– Se non te ne vai chiamo mio
padre.
In un attimo mi sono resa conto
di quello che avevo combinato e
avrei voluto morire di vergogna. Le
lacrime mi cadevano sopra le guance
graffiate dalle sue unghie.
È rimasta a guardia della porta
finché non mi sono allontanata.
Mentre camminavo volevo girarmi
un’ultima volta, pregarla di dare a
Barbara almeno quella fetta di torta
che le avevo portato e che era caduta
per terra vicino alle sue borse. Ma la
voce non mi usciva piú.

Ho vagato da sola, senza


direzione. Era già sera quando sono
rientrata. Appena ho messo piede in
casa Pa’ mi è venuto incontro.
– Si può sapere dove sei stata? È
buio da un pezzo, disgraziata!
Io ero ancora rossa per il pianto
ma lui non si è accorto di niente,
nemmeno dei graffi, preso com’era a
farmi la predica.
– Ti va bene che tua madre si
sente la febbre ed è andata a dormire
con le galline.
Gli ho chiesto scusa, giurato che
non sarebbe mai piú successo, e me
ne stavo andando già a letto quando
lui mi ha detto che mi doveva dire
una cosa importante.
– Domani Pa’, ho avuto una
brutta giornata.
Ha appoggiato le mani sulle mie
braccia e mi ha obbligato a sedermi
sullo sgabello.
– Gli ho parlato, – ha detto.
– A chi?
– Ma come a chi?!
– Te l’ho detto Pa’, ho avuto una
brutta giornata. Lasciami andare a
dormire.
– Lui dice che non ci aveva
pensato, però gli sta bene. Anzi, è
contento!
Solo in quel momento ho capito
che si riferiva a Erich e allora mi
sono stropicciata il viso con le mani
e asciugata gli occhi col suo
fazzoletto.
– Ma perché non mi hai chiesto il
permesso?
– Oh insomma, bimba, io cerco
di aiutarti e tu mi tratti cosí? Non lo
vuoi sposare? Preferisci andare
avanti a piegar tovaglie tutta la vita?
Non mi sono mai sentita tanto
stordita, con le tempie che mi
pulsavano e i singhiozzi che non
riuscivo a fermarli.
– Ma gli piaccio sí o no? – Solo
questo sono riuscita a chiedergli tra
un singhiozzo e l’altro.
– E certo, sei cosí bella!
– Sono bella per te. Ma a lui gli
piaccio?
– Ma come fai a non piacergli, si
può sapere?
– E Ma’? Chi glielo dice adesso a
Ma’? – ho gridato arrabbiata,
schiacciata da tutta quella
confusione.
– Un problema alla volta, – ha
detto allungando le braccia,
guardandomi con gli occhi fuori
dalle orbite per come mi stavo
comportando.
– Posso andare a dormire adesso?
– Dimmi almeno se lo vuoi
sposare.
– A me va bene sposarmi con
Erich, – ho risposto alzandomi dallo
sgabello.
– Ma se te lo vuoi sposare perché
continui a frignare? – ha gridato
svuotando il braciere della pipa.
Io non riuscivo a spiccicare una
parola e lui allora è venuto vicino e
mi ha abbracciato piú forte di
quando sono tornata dall’esame di
maturità.
– Sono contento, Trina. È orfano,
è un poveraccio e ha il pezzo di terra
piú piccolo del paese. Insomma, ha
tutte le carte in regola per farti fare
la fame! – e ha riso sperando che
finalmente ridessi anch’io.

Ci avrò messo una settimana a


riprendermi da quella giornata.
Quando finalmente mi sono calmata
e ho realizzato un po’ meglio sono
andata da Ma’ e le ho chiesto: –
Allora posso sposarlo?
Ma’ ha continuato a spolverare e
senza nemmeno voltarsi mi ha
risposto: – Fa’ quello che vuoi,
Trina. Hai la lingua troppo lunga
perché mi metta a discutere con te.
Se ti interessava il mio parere mi
avresti interpellato a suo tempo.
Da lei non potevo aspettarmi di
piú.
Capitolo settimo

Quando Pa’ mi portò all’altare, in


quella chiesa tutta agghindata di
gerani che Maja aveva appeso
ovunque, a fatica trattenevo le
lacrime. Non per l’emozione ma
perché, proprio quello stesso giorno,
caricarono Barbara su una macchina
e la mandarono al confino. La
trattarono peggio di una puttana,
obbligandola a sfilare per le strade
con le manette ai polsi. Io avevo un
vestito bianco tutto inamidato, pieno
di frufru, con la treccia ai capelli e le
scarpe lucide, lei era spettinata e con
delle vecchie ciabatte ai piedi. La
gente in chiesa mi aspettava e tutti,
compreso il prete, pensavano che
tardassi per farmi bella. Io invece
ero sul sagrato che piangevo e
pregavo Pa’ di portarmi cosí
com’ero da Barbara per lasciarmi
parlare coi carabinieri e ammettere
che era tutta colpa mia e che anch’io
dovevo andare al confino.
– Bimba smettila, – mi ripeteva
paziente lui, allungandomi il suo
fazzoletto. E se a un certo punto non
fosse uscito il Peppi ad aiutarlo a
trascinarmi di peso all’altare forse
davvero avrei mandato all’aria la
cerimonia.

Andammo a vivere nel maso di


Erich, che era quello dei suoi
genitori. Si vedeva che era una casa
di morti. La sala era buia e sui
mobili c’erano le foto della madre
che mi finivano di continuo sotto gli
occhi. La madre da ragazza, la
madre coi figli, la madre con sua
madre. Mi diedi da fare per
cambiare aspetto alle stanze, pitturai
da sola i muri e mi misi a spostare
l’arredamento. Ogni tanto nel
trascinare i mobili qualche cornice
cascava e il vetro si frantumava.
Allora raccoglievo con la scopa i
vetri sbriciolati, baciavo la foto della
morta per chiedere scusa e la
sbattevo nell’ultimo cassetto tirando
un sospiro di liberazione. Nel giro di
un mese le avevo fatte fuori tutte.
In quel maso lo spazio non
mancava e attorno c’era un bel prato
dove Grau si divertiva a correre, ma
la vicinanza alle stalle faceva
aleggiare un odore di strame e
foraggio che penetrava la pelle e
certe sere mi veniva da vomitare.
Per non dire del freddo, che
d’inverno ci faceva girare con le
coperte sulle spalle come fantasmi.
Da sotto la porta, poi, passavano
degli spifferi che facevano sibili
spaventosi. Stavamo tutto il tempo
attaccati alla stufa di maiolica e ci
lavavamo quando capitava. Dopo
cena filavamo subito a letto e quasi
ogni sera Erich come un animale
mansueto si avvicinava per fare
l’amore. Per me era come un rito e
non posso dire né che mi piacesse né
che mi dispiacesse. Lo faceva stare
bene e questo mi bastava. Mentre mi
faceva l’amore certe volte pensavo a
Barbara, che chissà dov’era finita e
quanto mi odiava.
Mi alzavo con lui che ancora era
notte, gli preparavo la zuppa di latte
e se aveva bisogno gli davo una
mano a mungere le bestie e a
distribuire il fieno. Non mi costava
fatica alzarmi presto. Quando
restavo da sola mi preparavo
un’altra tazza d’orzo, poi andavo dai
bambini. Il prete mi aveva spedito in
un capanno per gli attrezzi dietro la
macelleria. Ormai mi erano rimasti
tre alunni. I fascisti avevano fatto
nuove perquisizioni in tutta la valle,
multato e arrestato altri maestri.
Solo i sacerdoti, con la scusa del
catechismo, riuscivano ancora a
insegnare il tedesco.
Dopo scuola passavo dai miei a
mangiare. Spesso restavo da loro, se
no me ne tornavo a casa e mi
mettevo a leggere. Ma’ non
sopportava che perdessi tempo cosí.
Se mi vedeva con un libro in mano
borbottava che i libri me li sarei
portati pure all’inferno e iniziava a
rifilarmi mestieri assillandomi con la
litania che dovevo imparare a cucire
per quando sarebbero arrivati i figli.

La domenica io e Erich
andavamo in bicicletta. Stavamo in
riva al fiume, riempivamo ceste di
funghi, prendevamo sentieri che
s’inerpicavano sulle cime. La valle
la conosco perché mi ci ha portato
lui, non perché ci sono nata. Quando
su in alto sentivo freddo mi sfregava
la schiena. Aveva mani lunghe e
nervose, che mi piaceva sentire
addosso. Lui anche nei giorni di
festa si svegliava all’alba e diceva: –
Dài, andiamo a camminare che il
cielo è pulito! – A me piaceva
poltrire ma Erich preparava il caffè
d’orzo, me lo portava a letto e poi
buttava all’aria le lenzuola.
Ai figli diceva di non pensarci e
quando gli rispondevo che invece li
volevo si stringeva nelle spalle.
– Verranno quando vogliono, –
tagliava corto.
Nemmeno il tempo di dire cosí
che sono rimasta incinta. Ero appena
uscita dal capanno. A un certo punto
mi viene una nausea fortissima,
come una fitta. Pedalo in fretta verso
casa, corro al catino, poi
l’indecisione come al solito mi frega
e mi dico che è meglio se resto fuori.
Il risultato è che vomito sulla porta.
– Te l’ho detto che vengono
quando vogliono loro! – ha riso
Erich appoggiandomi la testa sul
petto.
Durante la gravidanza mi sentivo
sempre assonnata, appena tornavo
dal capanno mangiavo qualcosa e mi
mettevo a letto. Paura dei fascisti
non ne avevo piú e anche se ero
incinta non volevo per nulla al
mondo smettere di fare la maestra
clandestina. Mi faceva sentire
protetta, la pancia, non impaurita.
Quando Erich rientrava dai campi
mi metteva la mano sul ventre e
diceva che secondo lui doveva
essere femmina e la voleva chiamare
Anna, come sua madre.
– Se è femmina invece la
chiameremo Marica, – rispondevo io
chiudendo la discussione.
Capitolo ottavo

Michael all’inizio mangiava e


dormiva beato nella culla che Pa’
aveva costruito e che Ma’ aveva
riempito di creste di cotone. Non
piangeva mai e in verità nemmeno
apriva bocca. Ha spiccicato le prime
parole a tre anni suonati. Tutto il
contrario di te. Erich era buono solo
a fargli due moine e a metterselo a
dormire sulla spalla, per il resto se
ne disinteressava. Quando gli
chiedevo perché non si sforzava di
stare un po’ con lui diceva che
finché non parlava non sapeva che
dirgli.
Io non facevo tanta fatica,
riuscivo ancora a insegnare e ad
andarmene in giro con Maja. Anche
perché potevo contare su Ma’, che
veniva tutte le mattine ad aiutarmi.
A me però non piaceva farmi aiutare
da lei. Appena entrava in casa mi
palpava il seno e mi rimproverava
della mia magrezza: – Ti fa montare
poco latte, – diceva. E poi voleva
tenere il bambino sempre in braccio,
qualsiasi ora per lei era ora di
popparlo.
Sono dovuti passare quattro anni
prima che tu nascessi. Per tutto quel
tempo sei stata il mio cruccio e
anche se Ma’ non mi faceva sentire
una buona madre io ti volevo. Il
giorno che ho scoperto di aspettarti è
stato il piú felice della mia vita. Me
lo sentivo che eri una femmina ed
ero sicura che ti avrei chiamato con
quel nome che avevo letto in un
romanzo e che secondo Ma’ era un
altro dei grilli che mi erano venuti
quando studiavo da maestra.

Sei nata una notte d’inverno.


C’era la neve alta e la levatrice è
arrivata tardi, quando avevi già la
testa di fuori. Ha fatto tutto Ma’.
Cambiare i secchi, tenere acceso il
fornetto per avere sempre acqua
calda, sostituirmi le bende, darmi il
tempo di spingere e rallentare per
non strapparmi tutta. Anche in quel
momento dava ordini come un
generale. Però era scrupolosa e
piena di cure. Non mi lasciava mai
la mano.
Quando sei nata la stanza si è
riempita degli odori del parto e io
non so dire di che ma mi
vergognavo. Ma’ ti ha lavata, pulita
e con tanto di cappellino in testa ti
ha appoggiato sul mio seno. Col
sudore alla fronte e le mani sui
fianchi ha detto: – È proprio uguale
a te, bisognerà stare attenti a tenerla
lontana dai libri! – e ha riso
soddisfatta perché non eri rossa e
grinzosa ma con la pelle bianca ed
elastica.
Erich era fuori da giorni a fare
legna. Era partito con la slitta
insieme a un gruppo di contadini.
Restavo sempre in agitazione
quando andava a fare legna. Era un
lavoro pericoloso ed era già capitato
che una slitta prendesse velocità e
andasse a schiantarsi contro un
albero o finisse in una forra. Quando
è rientrato gli ho detto che Pa’ ti
aveva già registrata al municipio e
non c’era piú modo di cambiare il
nome.
– Una madre piú testarda non
potevi averla, – ha detto prendendoti
in braccio e studiandoti il viso.
Tu non eri come Michael: sputavi
il latte, e darti il seno era ogni giorno
una fatica. Dovevo spremertelo in
bocca perché ti stancavi di
succhiare. Per farti prendere sonno
bisognava dondolarti in
continuazione e darti da stringere un
pompon che Ma’ con un filo ti aveva
legato al polso. Secondo lei avevi
paura di cadere e bisognava vegliarti
per non lasciarti sola coi tuoi
spaventi. Michael la sera restava a
guardarti finché non ti
addormentavi. Fissavi la lampada a
petrolio sgranando quei tuoi occhi
nocciola che d’improvviso si
chiudevano. Se agitavi le mani in
aria lui ti accarezzava la pancia per
non farti svegliare. Le parole ti sono
uscite in fretta. Forse è per questo
che ti ho sempre immaginata
loquace e capace di conversare con
tutti.
A tre anni già correvi come una
lepre. Avevi una forza nelle gambe
instancabile, tanto che presto Pa’
non riuscí piú a starti dietro.
Incominciò ad andarsene in giro
insieme a Erich, che ti acciuffava
per il collo se provavi a scappare. È
uno dei miei ricordi piú nitidi:
vederti camminare verso la chiesa in
mezzo a loro due.

Badare a te e tuo fratello mi


stancava subito. Soffrivo del tempo
che mi mancava. Pensavo che
mentre stavo con voi le cose belle
del mondo andavano avanti e
quando sareste cresciuti non le avrei
piú ritrovate. Se confidavo a Erich
questi pensieri lui non capiva e
diceva che mi facevo la vita amara.
Non se la prendeva se quando
rientrava dai campi la cena non era
pronta o la casa disordinata. Dopo
che s’infilava i pantaloni del
pigiama ti prendeva in braccio e con
una mano affettava la polenta o si
friggeva un paio di uova nel burro.
Mangiava in piedi, non gli
importava di stare a tavola.
Man mano che crescevi si
affezionava di piú. Eri il suo trofeo.
Ti metteva sulla spalla e se non gli
strillavi nell’orecchio si accendeva
la sigaretta e se ne andava in piazza
come un generale vittorioso.
Michael se lo portava a pescare
oppure all’osteria di Karl. Gli faceva
bere il latte nel boccale di birra per
farlo sentire grande.
La sera tu e tuo fratello vi
mettevate sulla porta ad aspettarlo e
quando lo vedevate arrivare gli
correvate incontro e non volevate
nemmeno farlo entrare. Lui si
schermiva perché aveva ancora
addosso il tanfo degli animali, ma
voi gli infilavate la testa sotto le
gambe per fargli capire che non vi
importava. Volevate correre fuori
con lui. Io dovevo sembrarvi noiosa.
Mi piaceva mettervi sul tappeto e
restarvi a guardare.
Quando vi veniva sonno volevate
me e in un attimo vi
addormentavate, tu su questa spalla,
Michael nella sua branda. Allora
Erich attaccava a fumare e mentre
fumava mi parlava con voce cupa.
Era ossessionato dai fascisti.
– Ci manderanno a lavorare in
Africa o a combattere in qualche
posto sperduto del loro ridicolo
impero, – protestava col fumo in
gola. – Adesso ci stanno togliendo il
lavoro e la lingua, poi, una volta che
ci avranno esasperato e ridotto in
miseria, ci cacceranno via di qui e
costruiranno la loro maledetta diga.
Io restavo ad ascoltarlo e non
sapevo che dire. Non riuscivo mai a
consolarlo.
– Allora prendiamo i bambini e
andiamocene via.
– No! – gridava.
– Perché vuoi stare qui se
rimarremo senza lavoro, se non
potremo piú parlare tedesco, se
distruggeranno il paese?
– Perché qui ci sono nato, Trina.
Ci sono nati mio padre e mia madre,
ci sei nata tu, ci sono nati i miei
figli. Se ce ne andremo avranno
vinto loro.
Capitolo nono

Nel 1936 è arrivata a Curon la


sorella di Erich. Viveva a Innsbruck
con suo marito, un uomo alto e
grosso, con lunghi baffi. Gente
ricca, di città, che avevo visto solo il
giorno del matrimonio. Anita e
Lorenz erano molto piú grandi di
noi. Comprarono dal banchiere uno
dei tanti masi vuoti del paese. Siamo
diventati intimi in fretta.
Mangiavamo insieme la domenica,
certe volte anche la sera in
settimana. A lei piaceva cucinare.
Spesso bussava alla porta e mi
lasciava una ciambella.
– Dalla ai bambini, – diceva.
Anita assomigliava a Erich,
aveva i suoi lineamenti, la stessa
fronte ampia. Era una donna piccola
e placida, sorrideva sempre. Quando
Lorenz tornava dall’Austria – era un
rappresentante di assicurazioni – vi
portava dei regali. A vedere certi
giocattoli non credevate ai vostri
occhi. Ripetevate cento volte
«Grazie zio Lorenz» ma non vi
veniva di abbracciarlo, forse perché
era cosí imponente e baffuto. Erich
era a suo agio con loro. Spesso
chiedeva a sua sorella: – Ma che
siete venuti a fare qui a Curon? –
sorridendo come uno che non
capisce.
– La città mi confondeva i
pensieri, – gli diceva Anita
guardandosi le mani.
Lorenz mi metteva soggezione.
Vestiva sempre con un gilè marrone
e anche quando stava in casa teneva
il farfallino. Nelle belle giornate ci
invitava a mangiare fuori. Io
accampavo scuse, dicevo che avevo
da rassettare, ma lui insisteva e alla
fine vi vestivo e uscivamo con loro.
Con Erich parlava di politica e
facevano discorsi che faticavo a
seguire. Capivo solo che per Lorenz
la Germania avrebbe salvato il
mondo. Io e Anita camminavamo
qualche passo indietro. Lei mi
parlava sempre di voi, studiava il
vostro carattere e mi chiedeva cosa
avevo in mente per il vostro futuro e
io non sapevo mai che risponderle.
Diceva che avevi la pelle liscia
come la porcellana. Anche io le
domandavo: – Che siete venuti a
fare a Curon? – e allora mi
raccontava che per tanti anni aveva
seguito il marito per l’Europa ma
adesso non ne aveva piú voglia.
Quando mi confidava queste cose le
scendeva un velo di malinconia e
restava zitta interi minuti. Oppure
diceva: – A vivere sempre in giro
non ho stretto amicizie con nessuno,
– e faceva una smorfia di fastidio.
Dei figli che non avevano non ho
mai avuto coraggio di chiederle.

Michael era un torello, cresceva a


vista d’occhio. A undici anni era
l’ombra di Erich. A scuola non ci
voleva piú andare e molte volte
invece di entrare in classe scappava
nei campi. Se lo sgridavo Lorenz si
metteva in mezzo e diceva che
Michael faceva bene.
– La scuola italiana è una
porcheria dove insegnano solo a
osannare il duce, molto meglio
imparare a lavorare la terra, –
borbottava con quella sua voce
grave.
Io dovevo mordermi la lingua per
non rispondergli male. Non ci
dormivo la notte al pensiero che
Michael non andasse a scuola. Mi
sembrava che vivesse come un
animale. Erich invece non si
crucciava. Se lo portava dietro, gli
spiegava come si piantano le patate,
come si seminano l’orzo e la segale,
come si tosano le pecore e si
mungono le mucche. Oppure se lo
prendeva Pa’, che non vedeva l’ora
di insegnare a qualcuno il suo
mestiere.
Tu invece a scuola ci andavi
volentieri, parlavi bene in italiano.
La sera ti mettevi a cavalcioni su
Erich, giocavi a bendargli gli occhi
con le mani e poi gli leggevi qualche
pensierino che lui ti chiedeva di
tradurre. Erich ti batteva quelle sue
mani nodose, ti faceva saltare in aria
e la stanza si riempiva di grida
allegre. Una volta che sei tornata a
casa con un bel voto, mentre mi
sventolavi il quaderno sotto il naso,
mi hai detto: – Mamma da grande
farò anch’io la maestra, sei
contenta?
L’altro giorno ho ritrovato una
vecchia foto color seppia,
appiccicata in malo modo su un
foglio che doveva appartenere a un
diario. È una foto sfocata, credo che
ce l’avesse scattata Lorenz. C’è
Michael che mi abbraccia con
irruenza. Tu invece abbracci Erich.

Pa’ mi disse che non se la sentiva


piú di andare in bottega, il cuore non
gli reggeva ad arrivare tutte le
mattine con la bicicletta fino a
Resia. Cosí iniziai ad andarci io, che
ero ancora senza lavoro e non
andavo piú nel capanno a fare la
maestra clandestina.
Pedalavo fino alla falegnameria e
seguivo l’amministrazione. Ho
imparato a scrivere ai fornitori, a
pagare gli operai, a tenere in ordine i
libri mastri. Tu, se a casa non
trovavi nessuno, andavi dalla zia
Anita. Anche con te era placida e
sorridente. Quando venivo a
prenderti mi raccontavi di aver
mangiato cose che noi non
potevamo permetterci. La
cioccolata, il prosciutto. I soldi in
casa erano sempre meno, certe sere
c’era ben poco da mettere a tavola.
Appena sposati, del resto,
contavamo anche sul mio stipendio
di maestra, pensavamo che
nonostante il fascismo in un modo o
nell’altro sarei riuscita a insegnare.
Nel ’38 poi le bestie si sono
ammalate e ne abbiamo dovute
abbattere la metà per evitare contagi.
Pecore non ne avevamo quasi piú.
Lorenz voleva prestarci dei soldi
ma eravamo troppo orgogliosi per
accettarli. Erich si era messo in testa
di andare a cercare lavoro a Merano.
Bolzano e Merano erano davvero
diventate quel che voleva il duce. Le
zone industriali e le periferie si
espandevano senza sosta. Si erano
trasferite la Lancia, le Acciaierie, la
Magnesio. Gli italiani arrivavano a
migliaia.
– Ma dove vuoi andare?
Mussolini non fa assumere i tirolesi,
– ripeteva Lorenz, – è inutile che vai
fin lí.
– Il lavoro c’è, non possono non
darcelo.
– Invece possono, – sospirava
grattandosi i baffi.
Erich allora picchiava pugni sul
muro gridando che i fascisti gli
stavano scorticando la pelle di
dosso.
– Hitler ha già annesso l’Austria.
Diamogli un altro po’ di tempo e
verrà a liberare anche noi, – gli
diceva Lorenz per rassicurarlo.
Capitolo decimo

Il fascismo sembrava esistere da


sempre. Da sempre c’era stato il
municipio col podestà e i suoi
tirapiedi, da sempre c’era la faccia
del duce appesa ai muri, da sempre
c’erano i carabinieri che venivano a
mettere il naso nei fatti nostri e ci
obbligavano ad andare in piazza per
ascoltare gli annunci. Ci eravamo
abituati a non essere piú noi stessi.
La nostra rabbia cresceva, ma i
giorni correvano veloci e il bisogno
di sopravvivere la trasformava in
qualcosa di debole e sfibrato. Simile
alla malinconia, diventava la nostra
rabbia, non esplodeva mai. Sperare
in Adolf Hitler era la ribellione piú
vera. Quella ribellione si faceva
palpabile ai tavoli dell’osteria, nei
ritrovi clandestini dove gli uomini si
davano appuntamento per leggere i
giornali tedeschi, ma svaporava
quando soli nelle stalle mungevano
le mucche e s’incamminavano verso
la fontana a dissetarle.
Sonnecchiammo cosí, indolenti e
repressi, fino all’estate del ’39,
quando i tedeschi di Hitler vennero
ad annunciare che, se lo volevamo,
potevamo entrare nel Reich e
lasciare l’Italia. La chiamarono la
«grande opzione».
In paese fu subito festa. La gente
per strada esultava, i bambini senza
capire saltavano in cerchio, i ragazzi
si abbracciavano pronti a partire, gli
uomini passavano di fianco ai
carabinieri offendendoli in tedesco. I
carabinieri adesso restavano zitti,
con le mani sui manganelli e il capo
chino. Mussolini aveva voluto cosí.
Quel giorno Erich restò in casa a
fumare e non mi rivolse parola.
Quando Lorenz bussò alla porta per
dire che andava all’osteria a
festeggiare non lo accompagnò.
Lorenz tornò ubriaco a notte fonda e
prima di rientrare volle parlare con
Erich, che dormiva da un pezzo. Io
ero in vestaglia e quando sentii
bussare mi appoggiai una coperta
sulle spalle prima di aprirgli la porta.
Mi scansò senza salutarmi, andò in
camera reggendosi ai muri, gli
sedette vicino e disse: – Io prima o
poi me ne andrò perché non ho
radici da nessuna parte. Ma se per te
questo posto ha un significato, se le
strade e le montagne ti
appartengono, non devi aver paura
di restare –. E gli abbracciò la testa.
Fino alla fine dell’anno in paese
ci fu il parapiglia. Tutti non
facevano che parlare di andar via,
immaginando i posti dove il führer li
avrebbe mandati e cosa gli avrebbe
dato per ciò che lasciavano qui.
Quali masi, quale zona del Reich,
quanti capi di bestiame, quanta terra.
Davvero erano esasperati dai fascisti
per credere a quelle balle. I pochi,
come noi, che decisero di restare
venivano insultati. Ci chiamavano
spie, traditori. Di colpo gente che
conoscevo da quando ero bambina
non mi salutava piú o sputava per
terra passandomi di fianco. Le
donne che andavano tutte insieme al
fiume adesso si erano divise in due
gruppi, quello delle optanti e quello
delle restanti, e a lavare i panni si
mettevano in punti diversi. Parlare
di guerra scaldava gli animi. Da
emarginati e sottomessi, nel giro di
qualche anno, potevamo diventare
anche noi padroni del mondo.
A Maja chiesi: – Partirai?
– Io voglio andarmene da Curon,
ma non cosí.
– Non capisco piú cosa è giusto,
– le confidai.
– La famiglia di Barbara partirà,
– disse guardando da un’altra parte.
– Vogliono andarsene in Germania.
Che strano effetto mi faceva
sentire il nome di Barbara. Mi
sembrava passato un secolo da
quando eravamo amiche e
andavamo a studiare italiano in riva
al lago e ridevamo insieme sull’erba.
Mi ero disabituata a sentire il suo
nome. Era il mio dolore segreto, di
cui non parlavo con nessuno.
Nemmeno con me stessa.

Piantarono i banchetti ai lati


opposti della piazza. Vicino al
campanile i nazisti e vicino alla
bottega del ciabattino gli italiani. A
chi si avvicinava distribuivano dei
fogli. I nazisti dicevano di stare
attenti: gli italiani ci avrebbero
spedito in Sicilia o in Africa a
morire come le mosche. Gli italiani
lo stesso: «I tedeschi vi manderanno
in Galizia, nei Sudeti o ancora piú a
est. Finirete a combattere nei
ghiacci», dicevano.
Qualcuno tirava sassi alle nostre
finestre, che ormai tenevamo chiuse
anche di giorno. Di quegli anni
ricordo il buio in casa e il mio naso
infilato tra gli scuri.
Un mattino alcuni ragazzi presero
Michael e lo riempirono di botte
perché era il figlio di un restante. Lo
trovai per terra in cortile, col sangue
cagliato in bocca, i vestiti e i capelli
imbrattati di merda. Il giorno dopo
non ti mandai piú a scuola. Ti
portavo in bottega sulla bicicletta e
non ti perdevo di vista un minuto.
– Ti farò scuola io, – dicevo per
rassicurarti.
Tu eri scontenta, mi rispondevi
che ero possessiva e che in classe
nessuno ti avrebbe picchiato perché
sapevi farti rispettare. In bottega mi
chiedevi in continuazione: – Perché
non partiamo anche noi?
– Perché tuo padre ha deciso cosí.
– Mamma io voglio andarmene
da questo posto. Qui non posso
nemmeno piú andare a scuola.
Capitolo undicesimo

C’era chi a fine anno aveva le


valigie pronte per andarsene in
Germania. I materassi gibbosi
arrotolati e caricati sui carri, i mobili
smontati, i sacchi di iuta pieni di
stoviglie e suppellettili. La sera dalle
case uscivano i maschi con le borse
piene di vestiti piegati con cura dalle
donne, che prima di chiudere
cucinavano tutto quello che avevano
per fare l’ultimo pasto sostanzioso.
Si sentivano i profumi di carne e di
patate, di polenta che sfrigolava nel
lardo. Si vedevano le famiglie dietro
i vetri delle finestre che cenavano
con la lampada a olio sul tavolo e
masticavano senza parlarsi. Noi che
restavamo li guardavamo dalle
soglie o sfilando davanti ai loro
campi e si capiva che pure quella
carne gli andava in veleno. Si
raccontavano di essere contenti, che
Hitler li avrebbe resi ricchi, dandogli
masi e terra e bestie, si confortavano
ripetendosi che qui a Curon il duce
avrebbe presto costruito la diga e se
ne sarebbero comunque dovuti
andare. Ma lo portavano scritto nelle
labbra strette, nei pugni chiusi, che
andarsene cosí era crudele. Crudele
per le ragazze, per i bambini, e
ancora di piú per i vecchi, a cui si
lasciava il posto migliore sul carro e
si diceva di provare a dormire.
Quando un carro partiva verso la
stazione di Bolzano o verso quella di
Innsbruck, dove li aspettavano i
treni del führer, sulla strada di Curon
calava il silenzio delle campane a
morto.
Gerhard, l’ubriacone del paese,
ogni sera faceva il giro dei masi –
erano un centinaio qui a Curon – per
controllare se qualcun altro se n’era
andato. Quando ne trovava uno
vuoto bussava alla porta fino a
ferirsi le nocche o fino a quando non
cadeva addormentato. Lo veniva a
svegliare il mattino dopo Karl che se
lo trascinava, sbronzo marcio
com’era, all’osteria e gli dava una
tazza di caffè per farlo svegliare.

Maja un pomeriggio mi disse: –


Monta sulla bicicletta, voglio andare
a salutare la sorella di Barbara.
Quando Alexandra mi vide sulla
porta insieme a Maja strabuzzò gli
occhi. Disse di entrare e tagliò una
fetta di pane per ciascuna. Ce la offrí
senza prendere né piatto né
tovagliolo, come si fa con chi è di
famiglia. Mangiammo il pane e si
sentivano i semi di cumino che si
rompevano sotto i denti tanto era il
silenzio. Salutammo sua madre, che
non ci rispose. Accarezzai il cane
che uggiolava vicino al tavolo.
– Te ne vai? – le chiese Maja.
– Sí, ma non so ancora dove.
– Hai notizie di Barbara? –
domandai con gli occhi bassi.
– Ha chiesto la grazia al duce e la
libereranno presto. Andrà
direttamente in Germania, senza
passare di qui.
– Ce l’hai carta e penna? – le
chiesi d’improvviso.
– Che ci devi fare? – disse
scontrosa.
– Voglio scriverle un biglietto.
Alexandra mi guardò con
diffidenza, poi si mise a frugare in
un cassetto e tirò fuori un piccolo
blocco da cui staccò con attenzione
un foglio. Restai in piedi, coi gomiti
sul tavolo. Mi sentivo i loro occhi
addosso mentre scrivevo ma non
m’importava.
– Daglielo quando la vedi, – le
dissi piegando in quattro il foglio.
Lei mi ordinò di lasciarlo sul
tavolo.
– Daglielo, – le ripetei
mettendoglielo in mano, – è molto
importante.
Restammo ancora a guardarci.
Nessuno parlava. Presto il silenzio
divenne insopportabile, allora
buttammo giú l’ultimo pezzo di pane
e ce ne andammo via.
Quando lo raccontai a Pa’ lui mi
disse: – Bimba, noi facciamo bene a
restare. Fa niente che abbiamo poco
da mettere in tavola, le cose
andranno meglio. Le case che
abitiamo sono nostre, per nessuna
ragione dobbiamo lasciarle.
– Sei sicuro Pa’? Hanno
incendiato la stalla di un altro che
non vuole partire, hanno picchiato
Michael, aspettano che mandi
Marica a scuola solo per fare lo
stesso. A Erich in tanti non
rivolgono piú la parola.
– Lo so Trina, ma è un momento.
Il fascismo passerà, questa gente
andrà via e noi ritorneremo a fare la
nostra vita.
Parlare con Pa’ mi rassicurava.
Volevo che ci parlasse anche Erich,
al posto che starsene sempre tappato
in casa come un esiliato. Quel
giorno, quando tornai al maso, lo
trovai come al solito che camminava
avanti e indietro, schiacciando
nervosamente i piedi per terra.
– Fuori dal paese sono tornati gli
ingegneri e i manovali, – disse senza
salutarmi. – Per tutta la notte sono
arrivati uomini e camion. Hanno
misurato Curon in lungo e in largo,
hanno prelevato campioni di terreno,
tracciato il perimetro della diga.
Presto inizieranno a costruirla. Non
so se in paese se n’è accorto
qualcuno, o se tutti se ne fregano
perché ormai hanno deciso di
andarsene via.
Capitolo dodicesimo

Quella sera ero tornata piú tardi.


Fuori era già buio e ai lati delle
strade la neve rifletteva il chiarore
della luna. In bottega avevamo avuto
una consegna di mobili per una
trattoria. Gli operai ci avevano
lavorato duro per mesi. Era arrivato
il padrone con i figli e ora che
avevano caricato la merce si era
fatta sera. Sulla bicicletta sentivo
freddo, non avevo né sciarpa né
scialle perché quel mattino era
uscito un sole forte. Sono passata da
Pa’ a dirgli che era andato tutto
bene. L’ho trovato appisolato che
buttava fuori rantoli di respiro. Gli
ho bussato alla spalla. Lui mi ha
sorriso coi suoi denti invecchiati e
mi ha raccontato che era venuto
Michael, avevano giocato a carte. Io
avevo fretta di tornare, ma Pa’ non
smetteva di farmi domande su come
era andato quell’affare, se avevo
ritirato i soldi, chi era venuto a
prendersi i mobili, come avevano
lavorato Theo e Gustav. Ma’ mi ha
messo sotto il naso gli spätzle e
siccome ero infreddolita mi sono
fermata a mangiarli. Tanto Erich
appena metteva piede in casa
addentava la prima cosa che trovava
e a cena si mangiava di rado tutti
insieme.
– La bambina è da tua cognata? –
mi ha chiesto Ma’, senza smettere di
cucire. Natale si avvicinava e come
ogni anno vi stava facendo nuovi
maglioni.
– Oggi sí.
– Allora mangia con calma.
È vero era tardi, ma non cosí
tanto. Saranno state le otto e mezza,
forse le nove. Fuori era pieno di
stelle. Anche l’indomani sarebbe
stata una giornata di sole e io,
distratta come al solito, sarei uscita
di nuovo senza scialle per poi avere
freddo al ritorno. Ma’ mi prestò il
suo, me lo appoggiò addosso prima
di chiudere la porta e dirmi
sbrigativamente buona notte.
Ho pedalato fino al maso di
Anita. La luce era accesa.
– Michael è con Erich, Marica si
è addormentata qui, – ha detto
sbadigliando. – Abbiamo provato a
svegliarla ma non ne ha voluto
sapere.
Non mi ha fatto entrare. Tutto è
avvenuto sulla soglia, sotto le stelle
che pulsavano.
– Ha mangiato? – ho chiesto.
– Sí, la polenta nel latte, ne aveva
una gran voglia, – e mi ha sorriso
col suo solito sorriso pieno di una
pace che io non trovavo. Ero
contenta quando mangiavi latte e
polenta perché mi sembrava che non
disprezzassi quello che avevamo
anche noi.
In lontananza abbiamo visto
qualcuno che trafficava e caricava
un carro. Un altro maso sarebbe
rimasto vuoto.
A casa, Erich e Michael
dormivano. Mi sono infilata nel
letto, pensando che forse avevo
sbagliato, il giorno dopo potevamo
fare colazione insieme, svegliarci
con calma. La domenica Erich
preparava latte caldo per tutti ed era
uno dei momenti piú belli della
settimana. Michael faceva sempre il
buffone parlando con la bocca piena
e tu ti divertivi a inzuppare la
polenta nella sua scodella.
– Marica è restata di là? – mi ha
chiesto Erich.
– Sí, Anita ha detto che avete
provato a svegliarla ma aveva troppo
sonno.
Si è voltato dall’altra parte. Un
minuto e russava di nuovo. Non so
se non ho chiuso occhio perché eri
da loro o perché ormai vivevo nella
paura che gli optanti ci
incendiassero la stalla o uccidessero
le bestie. Ho sentito il paese
lentamente svegliarsi, il primo tocco
delle campane. Ho visto il sole
affiorare dalle montagne. Mi
rigiravo nel letto. Pensavo, oggi lo
metto su io il latte, e cercavo di
escogitare un modo per venire a
chiamarti. Se aspettavo che tornassi
tu avrei dovuto attendere l’ora di
pranzo. Stavi bene con loro, ti
coccolavano, ti riempivano di regali.
Tutti quelli che non potevamo farti
noi.
Quando è entrata luce Erich si è
svegliato e si è messo a parlarmi
sottovoce. Fuori la neve era alta. Mi
ha detto di lasciarti dormire ancora
un po’ quando gli ho chiesto: – Vai
tu a chiamare Marica? – e poi ha
preparato la colazione. L’abbiamo
fatta noi tre. Forse abbiamo
aspettato perché era raro che
stessimo da soli con Michael e lui, a
suo modo, ci chiedeva attenzioni,
voleva godersi quel momento. Alle
nove mi sono vestita, ho messo
quella gonna marrone che ti piaceva,
ho raccolto i capelli alla meglio e
sono uscita. Ho lasciato loro due al
tavolo che mangiavano altra polenta.
Lí davanti ho capito, d’un colpo.
Le porte erano solo appoggiate. Le
finestre chiuse senza spranga. Per
terra c’era un cappello rovesciato,
dentro fiocchi di neve. Ho visto
davanti a me tutto il buio e il vuoto
che dovevano stagnare in quella casa
in cui non ho nemmeno avuto il
coraggio di entrare. Sono corsa da
Erich e l’ho trascinato a vedere. È
venuto anche Michael che si è
messo a gridare il tuo nome nelle
stanze deserte. Io stringevo i pugni,
cercavo di spingere fuori le lacrime
ma non mi uscivano. Ho iniziato a
picchiare contro i muri pugni da
farmi male. Graffi da spaccare le
unghie. Finché Erich mi ha
trascinato via.
Sono arrivati dagli altri masi. Io
ripetevo il nome di Michael, lo
volevo vicino per paura che
portassero via anche lui. Mi hanno
stesa sul letto, tolto le scarpe
inzaccherate. La luce bianca che
entrava nella stanza mi faceva
coprire il viso con le mani. Mi sono
ritrovata Ma’ seduta di fianco al
letto, come fossi una moribonda.
Erich ripeteva di stare tranquilla.
È arrivata la sera. Poi la notte.
Chi diceva che eravate ancora nei
paraggi non lo diceva piú. Chi
diceva che sareste tornati non lo
diceva piú. Una decina di uomini
sono partiti a cercarti. Erich con la
bicicletta è arrivato fino a Malles.
Ne ha parlato alla casa del fascio.
Quando è rientrato era di nuovo
giorno, aveva la faccia cadaverica e
mi sembrava solo contro il mondo.
Io stavo seduta a guardare il
vuoto. Avevo la gola arsa e
trattenevo la tosse. Strizzavo gli
occhi per non sentire quelle parole
che mi sono arrivate come parole già
sentite: – Dai registri risulta che
hanno scelto di andare nel Reich. Il
loro treno è già partito.
Parte seconda
Fuggire
Capitolo primo

Non ti racconterò la tua assenza.


Non ti dirò una sola parola degli
anni passati a cercarti, dei giorni
sulla soglia a fissare la strada. Non ti
dirò di tuo padre che senza salutarmi
esce di casa. Alla stazione di
Bolzano lo bloccano mentre cerca di
salire su un treno merci diretto a
Berlino. La polizia italiana prima lo
sbatte in cella, poi gli promette che
gliela riporteranno loro, la sua
Marica. Qualche giorno piú tardi
prova ad attraversare il confine a
piedi. La luce delle torce gli acceca
la faccia ma lui non si ferma
all’altolà. Una pallottola lo colpisce
di striscio. Il pomeriggio dei militari
bussano alla porta, avvolti in
cappotti grigio topo, con i gradi
cuciti sul petto. Prima di spingerlo
nel maso minacciano di internarlo
nel manicomio di Pergine, lo stesso
che Hitler svuoterà per deportare i
ricoverati nei campi e sopprimerli
col gas. Non ti dirò di Michael che
se ne va in giro con una tua foto –
una foto senza bordi dell’anno
prima, i capelli raccolti come non li
portavi piú – e insieme a una
squadra di mocciosi passa le
giornate nei paesi qui attorno a
mostrarla a chiunque. Non ti dirò dei
mesi in cui ciascuno di noi
d’improvviso scappava, senza
avvisare gli altri, e trovando la casa
vuota pensava che prima o poi i
boschi ci avrebbero inghiottito. Persi
per sempre nell’insensato tentativo
di riportarti qui. Dove non volevi piú
stare.

Una mattina il postino corre a


consegnarmi una lettera. Sulla busta
c’è solo il mio nome. Nessun
francobollo, nessun timbro. La
scrittura la riconosco, è la tua.
– Qualcuno l’ha lasciata sulla
porta dell’ufficio, – dice senza
guardarmi.
– Chi? – gli chiedo
strappandogliela di mano.
– Non lo so.
Cerco di controllare il tremore
alle mani. Non so perché mi viene in
mente Ma’, quando apriva col ferro
caldo le mie lettere per controllare
se erano di un’amica o di un uomo.

Cara mamma, ti scrivo mentre


sono sola nella mia camera. Sono
stata io a voler partire con gli zii.
Sapevamo che non ci avreste dato
il permesso, è per questo che siamo
fuggiti. Qui in città potrò studiare e
diventare migliore. Non soffrite per
me perché sto bene e perché un
giorno ritornerò a Curon. Se la
guerra durerà a lungo tu non
preoccuparti, qui sono al sicuro.
Quando busserò alla vostra porta
spero che tu, papà e Michael mi
amerete ancora. Gli zii non mi
fanno mancare niente. Perdonateli
se potete. E perdonate anche me.
Marica

Da quel giorno il dolore cambia.


Michael strappa la tua foto e ci
chiede di non parlargli piú di te. Di
non nominarti nemmeno. Erich
smette di correre avanti e indietro,
non cerca di espatriare, né piú di
ritrovarti. Rimane alla finestra a
fumare, senza scendere nemmeno a
dar da mangiare agli animali. La
apre il mattino e la richiude la sera.
Tra queste due azioni non succede
niente. Io resto a letto, le persiane
accostate, la porta chiusa a chiave.
Mi sento senza piú lacrime. Rileggo
per tutto il tempo quella lettera che
mi tengo sempre addosso.
Ripercorro senza pace quella notte.
Mi chiedo come posso non aver
sentito la tua voce, i passi di quei
bastardi, il rumore che fanno le cose
caricate sul carro, i cavalli che
sbuffano nell’attesa di partire o il
rombo di un’automobile che si
accende. Come sia possibile che a
Curon non vi abbia sentiti nessuno.
Eri sveglia o ti hanno caricata nel
sonno? Volevi partire o ti hanno
costretta? L’hai scritta tu quella
lettera o ti hanno obbligata?

Pa’ un giorno bussa alla porta e


mi dice di uscire a comprargli una
presa di tabacco. Si mette di fianco a
Erich senza parlare. Stanno cosí,
fermi alla finestra a guardare le
nuvole. Poi lo prende sottobraccio e
lo porta in stalla a dar da mangiare
alle bestie. Gliele fa accarezzare una
per una. Prima di andarsene viene da
me, mi ordina di mettere su la cena e
apparecchiare la tavola. Vicino
all’acquaio lascia una cesta con la
carne, una pagnotta, del vino.
Diventa una vertigine, il dolore.
Qualcosa di familiare e nello stesso
tempo di clandestino, di cui non si
parla mai. Tutti, quando ci capita di
dimenticare le parole di quella
lettera, proveremo ancora per anni a
cercarti, ma ormai lo sappiamo che
questo cercarti solitario è solo
obbedire a una speranza che non
sentiamo piú nemmeno di avere.
No, non meriti di conoscere quei
giorni di buio. Non meriti di sapere
quanto abbiamo gridato il tuo nome.
Quante volte ci siamo illusi di essere
sulla strada giusta. È una storia che
non ha ragione di riaccadere nelle
parole. Ti racconterò invece della
vita di noi, del nostro essere
sopravvissuti. Ti dirò di quello che è
successo qui a Curon. Nel paese che
non c’è piú.
Capitolo secondo

Era scoppiata la guerra. Tanti di


quelli che avevano deciso di partire
per la Germania alla fine restarono
qui. La paura dell’ignoto, le bugie
della propaganda, la furia di Hitler li
tennero a Curon.
Le giornate di gennaio avevano
una luce breve e opaca. Iniziavano
tutte con lunghe albe grigie.
Sull’Ortles si vedeva la vetta
imbiancata e piú in basso le cime
degli alberi soffiate dal vento gelido.
In paese la gente non sembrava
preoccupata, solo piú stanca. Stanca
dei fascisti, stanca di brancolare nel
buio.
Io cucivo con Ma’, che adesso
non mi lasciava mai sola. Mi
insegnò a lavorare coi ferri e
stavamo lunghe ore in silenzio,
gomito a gomito, su quelle sedie
della cucina che mi dimenticavo di
far impagliare. Di te non voleva che
parlassi. Quando non c’era niente da
cucire mi metteva una gerla in testa
e mi portava al fiume a lavare i
panni del banchiere. Se mi perdevo a
guardare il vuoto diceva che dovevo
torcere i panni piú forte, fino a far
sparire i pensieri sbagliati.
– Se Dio ci ha fatto gli occhi
davanti ci sarà un motivo! È in
quella direzione che bisogna
guardare, altrimenti li avremmo di
lato come i pesci! – ripeteva severa.
Per lei che a nove anni lavorava
nei campi e passava le sere a
inchiodare cassette per la frutta, tu
eri solo una persona egoista che
aveva scelto chi aveva piú soldi.
Una complice.

Tutti credevano che le cose


sarebbero andate come nel ’15, che
sul Carso italiani e austriaci si
ammazzavano ma qui a Curon si
continuava a raccogliere il fieno, a
tagliare l’erba e a metterla ad
asciugare sui muri, a portare in
malga le mucche, a riempire secchi
di latte e farci il burro, a sgozzare il
maiale e mangiare per giorni
salsicce e salami. I bambini dei
poveri hanno continuato a partire per
andare a fare i pastori oltre frontiera
in cambio di un paio di scarpe, un
pugno di spiccioli, qualche vestito.
Le madri li hanno attesi, contando i
giorni che mancavano a San
Martino, quando tutti rientravano e
in paese si faceva festa fino a sera.
Abbiamo aspettato che l’estate
sciogliesse la neve e che poi il vento
delle Alpi ce la riportasse, silenziosa
e pesante. Ci siamo pianti i nostri
morti in silenzio. Abbiamo
inghiottito il rospo di aver
combattuto con gli austriaci per
ritrovarci italiani. Siamo riusciti a
fare tutto questo perché eravamo
convinti che fosse l’ultima guerra.
La guerra per eliminare le guerre.
Cosí la notizia di un secondo
conflitto, con la Germania alla
riscossa che presto avrebbe invaso il
mondo, sul momento ci lasciò
attoniti, ma ci illudemmo che le
montagne sarebbero ancora state
pareti di solitudine, che questa Italia
di cui dovevamo sentirci parte
sarebbe rimasta neutrale fino alla
fine. Anzi, sulle prime la notizia
della guerra portò in paese un certo
sollievo: «almeno adesso la
pianteranno con questa storia della
diga», «ora avranno altro a cui
pensare», «le nostre bestie e i nostri
masi finalmente saranno al sicuro».
Cosí dicevano gli uomini all’osteria.
Cosí le donne davanti alla chiesa. A
Curon c’è stato chi l’ha festeggiato,
l’inizio della guerra. Gerhard girava
col fiasco e lo alzava in aria
gridando: «La guerra da loro, la pace
da noi!»
Chi era rimasto qui, adesso che
gli eserciti di Hitler erano in marcia,
si ringalluzziva di aver scelto bene.
Immaginava quei pochi che erano
emigrati in Germania a combattere
in prima fila sui confini orientali o
affondati nel fango di chissà quale
parte d’Europa.
E poi italiani, da quando era
scoppiata la guerra, finalmente non
ne arrivavano piú. Si vedevano
sempre le camionette dei carabinieri,
un andirivieni frenetico di mezzi
militari che faceva presagire quello
che piú temevamo, ma di quella
gente arrogante con le valigie in
mano non se n’è piú vista.

Il primo Natale senza di te


l’abbiamo passato con Ma’ e Pa’,
che hanno impastato gli gnocchi e
cucinato il brodo di gallina.
Abbiamo mangiato in silenzio e non
c’era mai stato tanto silenzio in un
pranzo di festa. Gli amici e i clienti
che passavano per fare gli auguri,
Pa’ li rimandava via in pochi minuti.
Abbiamo sentito i pifferai che
attraversavano i paesi della valle,
con quelle musiche che l’anno prima
tu e tuo fratello avevate ballato giú
in strada insieme agli altri bambini.
Ma’ cucinava, cuciva, faceva avanti
e indietro dal fiume senza fermarsi
un attimo. Non so dove trovasse
tutte quelle energie. D’improvviso
non mi sembrava piú vecchia. Ogni
tanto, quando eravamo sole,
scoppiavo a piangere e lei mi
prendeva la mano. Non mi sono mai
sentita cosí tanto figlia come dopo
che tu sei scappata.

Trascorse anche quell’inverno.


Ad aprile il sole sembrava una luce
di cristallo e lo spazzacamino passò
di maso in maso ad aggiustare le
grondaie. Adesso non tenevamo piú
il fuoco acceso, che era l’invidia del
paese. Gli altri per scaldarsi usavano
frasche e sterpaglie, noi la legna
degli alberi che Michael portava
dalla bottega di Pa’. Aveva imparato
il lavoro e a scuola non ci era piú
andato. Gli operai dicevano che per
avere quindici anni era un falegname
provetto.
I campi induriti dal gelo
tornarono a verdeggiare ma si faceva
sempre piú fatica a lavorare con le
bestie. Il latte munto rimaneva nei
secchi per giorni e non si riusciva
piú a venderne nemmeno un litro.
Erich dalla rabbia tirava calci ai
secchi e io restavo ammutolita a
guardare le macchie bianche bevute
dal fango schizzare sotto gli zoccoli
delle mucche.
Continuavo a dipanare la lana e
ne facevo mucchi per terra. Li
veniva a ritirare un vecchio con gli
occhi acquosi e le spalle ricurve. Ci
pagava una miseria, ma almeno
potevamo restare al caldo. Faceva,
con quella lana, uniformi ed
equipaggiamenti per i soldati.
– Quando entrerà in guerra
l’Italia ci sarà piú lavoro, – diceva
caricando la lana sul motocarro.
– E quando entrerà in guerra
l’Italia? – chiedeva Ma’, infervorata
come se fosse il vecchio a decidere.
Quello faceva una smorfia
storcendo la faccia sghemba e poi
ripartiva su quel suo motocarro che
spandeva per la strada un odore
muffoso che saturava l’aria.
E comunque, al di là di quel che
diceva il vecchio, molte strade
diventavano impraticabili, sbarrate
dai posti di blocco, e giorno dopo
giorno, ora dopo ora, lo sentivamo
anche noi che stava per scoppiare la
guerra. La sera gli aerei dietro le
montagne sembravano nugoli di
calabroni e Ma’ diceva che
dovevamo correre a rifugiarci nella
stalla dove aveva preparato una
cassa con la paglia e le coperte.
– Le bombe possono cadere per
sbaglio anche su Curon che è cosí
vicina all’Austria! – ripeteva in
preda al panico.
– Vacci tu nella stalla, io voglio
morire nel mio letto, non nella puzza
di merda! – le gridava Pa’ con la sua
voce sempre piú roca.

Una mattina aspettavo Ma’ e


invece non arrivò. All’ora di pranzo
andai al suo maso. La porta era
aperta e vicino alla stufa non c’era
nessuno. La chiamai ma non mi
venne incontro né mi rispose. La
chiamai ancora, piú forte, restando
imbambolata a guardare le pentole
di rame appese alle pareti. Quando
mi decisi a entrare in camera la
trovai sul letto, accucciata di fianco
a Pa’ che era già vestito col suo
abito blu, quello che aveva messo
quando mi ero sposata. Gli aveva
fatto la barba e pettinato i capelli.
Gli stava aggrappata alla spalla
piangendo piano e quando il pianto
si faceva piú forte gli prendeva la
testa tra le mani come fosse quella di
un passero.
– È morto nel sonno.
– Perché non sei venuta a
chiamarmi?
– È morto stanotte, – disse senza
ascoltarmi.
– Perché non sei venuta a
chiamarmi? – ripetei ancora.
Quando finalmente si girò mi
prese la mano e la appoggiò su
quella di Pa’, che ancora era calda.
Si strinse piú vicino a lui e non so
come mi ritrovai anch’io sdraiata su
un angolo del letto. Sentivo l’odore
dei vestiti di Ma’, che sapevano di
cenere della stufa. Ascoltavo il suo
pianto e ogni tanto mi facevo
coraggio, cercando di nuovo la
mano di Pa’ che diventava piú
fredda.
Al funerale la bara la portarono
Theo e Gustav insieme a Erich e al
Peppi. Michael era fiero di averla
costruita. Mi disse: – Il nonno lí
dentro dormirà il sonno dei giusti.
Capitolo terzo

Un mattino di primavera del 1940


attaccarono dei fogli ai muri del
municipio. Le solite parole italiane
che facevano storcere il naso alla
gente che si avvicinava. Qualcuno si
fermava a dare un’occhiata,
borbottava calciando un sasso e poi
ripartiva con il carro carico di fieno
o i secchi di latte tra le mani. In
pochi a Curon sapevano leggere, ma
nessuno capiva quella lingua che era
solo la lingua dell’odio.
Erich entrò in casa a passo svelto
e mi trascinò fuori. Camminavo
lenta perché il sole mi accecava e lui
mi tirava cosí forte che a momenti
cadevo. Davanti alla bacheca del
municipio mi ordinò di leggergli
cosa c’era scritto. Mi sentivo ingrata
a dar voce a quelle parole che non
voleva ascoltare e pensavo che era
ingrato anche lui a farmele tradurre.
C’era scritto che i fogli sarebbero
stati affissi ai muri per otto giorni,
poi li avrebbero tolti. C’era scritto
che avevano valore ufficiale e noi
dovevamo prenderne atto. E c’era
scritto che con un decreto approvato
dal governo italiano veniva concesso
il permesso di iniziare la costruzione
della diga.
Erich mi ascoltava rigido, gli
occhi stretti come punte di spilli.
Restai impalata a guardare lui che
guardava il foglio, pieno di quelle
parole incomprensibili.
– Curon e Resia non esisteranno
piú, – commentò ingoiando il fumo
della sigaretta.
Mi accompagnò a casa, poi lo
vidi allontanarsi verso la valle e
ancora mi sembrò cadaverico e solo
contro il mondo. Quando a sera
tornò si mise a sedere tutto
sciancato, senza sfilarsi le scarpe
sporche di fanghiglia. Bevve tanta
acqua, poi mangiò la polenta nel
latte. Io non sapevo entrare nel suo
silenzio, restavo impacciata ad
aspettare che parlasse e mi sentivo
di nuovo la stessa di quando cercavo
senza riuscirci di consolarlo.
– Tutti sono fiduciosi, dicono che
il progetto cambierà. Che è uno dei
soliti annunci. Karl all’osteria ripete
che con la guerra alle porte non è
possibile che ci si metta a costruire
dighe.
– Magari ha ragione, – risposi.
– Sono tutte bestie! – gridò. – Pur
di non alzare un dito se le
inventerebbero, le ragioni!
– Perché dici cosí?
– I fascisti e la Montecatini sanno
che c’è il rischio di una guerra, che
noi maschi presto partiremo a
combattere, che qui nessuno capisce
l’italiano, che siamo solo dei
contadini! È il momento migliore
per approfittarsene.

Dalla strada che porta a Merano


arrivarono tre camion. Erano color
ferro e avevano ruote enormi che
alzavano nuvole di polvere. Per tutto
il giorno si spostarono in un
frenetico avanti e indietro fino a
Resia. Quegli sconosciuti parlavano
tra di loro in italiano, aprivano le
braccia, puntavano il dito lontano
come se seguissero le rondini. Gli
uomini erano nei campi e noi donne
restammo sulle soglie a vederli
confabulare nella loro lingua. C’era
chi si agitava come se stessero
frugando nei cassetti perché il paese
era cosí piccolo e vecchio che era
come una casa. Ci guardammo per
darci coraggio, poi ordinammo a
qualche moccioso di correre a
chiamare gli uomini. I contadini
fischiarono ad altri contadini. A
metà pomeriggio non zappava piú
nessuno, le stalle erano già piene e
le bestie rinchiuse si pigiavano una
contro l’altra alzando versi rauchi.
Erich fu l’ultimo ad arrivare. Stava
con le braccia conserte ad ascoltare
un giovane che cercava di
domandare in italiano cosa erano
venuti a fare. Gli operai intanto
disegnavano per terra croci di calce
che si appiccicava al fango. Quando
ci passavano di fianco cercavano di
non sentire le nostre voci che gli
riuscivano fastidiose. I contadini si
tiravano occhiate sghembe e man
mano che passavano le ore
diventavano piú nervosi, si
sfregavano le mani, stringevano i
pugni. Le nostre case, la chiesa, le
strade, ogni cosa era dentro quei
confini che non sapevamo con
certezza cosa volessero dire. Oltre
non c’era che l’inizio della
montagna e i larici che crescevano
curvi per il soffio incessante del
vento.

Qualche sera piú tardi da


un’automobile nera scesero due tizi
in giacca e cravatta. Uno era smilzo,
l’altro grasso. Ci invitarono
all’osteria e noi dietro come pecore.
Appena si sedettero li circondammo
facendogli ressa attorno. Ordinarono
in tedesco un boccale di birra per
tutti. Bevemmo, chi timido chi d’un
fiato.
– Ci manda il governo, veniamo
da Roma, – continuarono nella
nostra lingua. – Hanno approvato un
vecchio decreto che prevede la
costruzione della diga.
– Sarà un sistema complesso di
dighe che riguarderà molti dei paesi
della valle.
Dicevano poche parole per volta,
in un tedesco innaturale e preciso,
poi tiravano un sorso di birra
pulendosi la schiuma col dorso delle
mani pelose. Io mi tenevo al braccio
di Erich, che mi ripeteva di non
andare via.
– Di quanti metri alzerete il
livello dell’acqua? – chiese un
contadino.
– Ancora non lo sappiamo.
– E se l’acqua ricoprirà le nostre
case? – domandò un altro.
– Ne costruiremo altre nelle
vicinanze, – disse lo smilzo.
– Piú grandi e moderne, –
aggiunse il grasso, che aveva baffi
sottili e un’aria indifferente alle sue
stesse parole. – Adesso però non
dovete allarmarvi. Questi lavori
durano anni, spesso decenni, –
aggiunse guardando nel boccale.
Subito le voci dei contadini si
accalcarono una sull’altra. Quelli
sorrisero dei nostri modi villani,
impassibili dentro i loro abiti di lana
fina. Aspettarono che il chiasso si
smorzasse, poi aggiunsero: – Chi
perderà il campo riceverà un
indennizzo.
Qualcuno gridò che le sue
mucche non mangiavano indennizzi.
Altri batterono pugni,
bestemmiarono dicendo che senza i
campi e le bestie sarebbero crepati
di fame.
– E se non accettiamo il vostro
indennizzo? – chiese Erich.
Alla voce di Erich tutti
ammutolirono. I due svuotarono
lentamente i boccali e scrollarono le
spalle. Ci guardarono con facce
inespressive. Il silenzio adesso era
teso e sarebbe bastata una parola
storta per trasformarlo in baruffa. Si
pulirono ancora col dorso delle mani
e finalmente si alzarono fendendo la
folla.
Qualcuno trovò il coraggio di
ripetere la domanda solo quando
erano già fuori dall’osteria e l’odore
della terra bagnata e del fieno era
penetrante. Quell’aria fece ingoiare
la saliva, la vista del campanile
tirare lunghi respiri. Si vedevano in
lontananza le donne con i figli
addormentati in braccio, le bocche
attaccate ai vetri delle finestre che si
appannavano col fiato.
Prima di salire in macchina lo
smilzo disse: – Se non accettate
l’indennizzo nasceranno problemi.
– Esiste una legge che si chiama
espropriazione forzata, – annunciò il
grasso prima di sbattere la portiera.
Quando l’automobile partí l’aria
non profumava piú di terra bagnata
né di fieno ma s’impregnò di nafta.
Restammo a tossire finché non sparí
dietro la curva.
Io e Erich tornammo a casa
costeggiando il sentiero in silenzio.
C’era una cascata di stelle e la luna
sembrava appesa nel cielo. I grilli
frinivano in coro.
– Arriva il giorno che se vuoi
mantenere la dignità devi
ammazzare qualcuno, – disse
lasciando cadere un fiammifero.
Capitolo quarto

In piazza a sentire il podestà che


leggeva la dichiarazione dell’entrata
in guerra non ci andai. Restai a casa
con Ma’ a fare i mucchi di lana.
Qualche settimana dopo il figlio del
panettiere – un altro dei pochi che
come noi e la famiglia di Maja
aveva scelto di restare – trovò nella
buca della posta la cartolina per il
fronte. Immediatamente la paura
divenne quella di ricevere la
cartolina del dannato Regio Esercito.
Le donne, al passaggio di un messo
comunale, di una moto o di una jeep
dei carabinieri, uscivano in strada
come sentinelle, con le mani sporche
di farina e i capelli ravviati alla
meglio. Altre chiudevano d’istinto
gli scuri e correvano a mettersi a
letto. Erich diceva che presto
sarebbero venuti a prendere anche
lui.
Cosí i blindati che attraversavano
la valle presero di colpo a
terrorizzarmi. Restavo sulla soglia a
guardare le facce dei soldati pigiati
nei vani dei camion, le loro mascelle
squadrate sotto gli elmi che
luccicavano al sole, le mani rigide
sulle mitraglie a tracolla. Erano
facce scure, indurite dai capelli corti
e dalla barba rasata, e io pensavo a
quando erano state solo facce
anonime di giovanotti coi capelli
arruffati e la barba di qualche giorno
che se ne andavano a ragazze senza
pensare alla guerra.
Erich non parlava, fumava come
una ciminiera e respirava piano.
Aveva paura di lasciarci soli piú che
di andare al fronte.
– Se mi arruoleranno tu baderai a
Michael, – mi ripeteva prima di
addormentarsi. – Senza pensare a
nient’altro.
Quel nient’altro eri tu.
Quei mesi passarono pigri e pieni
d’ansia. Ci sentivamo tutti impigliati
in un’attesa indefinita che ci
snervava e teneva nascosti nelle
nostre case. Mi mancava Pa’, il suo
sorriso bonario, la capacità che
aveva di farmi vedere le cose da
un’altra prospettiva. Erich non era
cosí. Per lui era tutto un corpo a
corpo e coraggioso era solo chi si
spendeva anche quando la sconfitta
era già stata decisa dal fato.

Michael intanto si faceva piú


uomo, con la voce bassa e le spalle
larghe. Verso di noi iniziava a
maturare una strana diffidenza.
Appena tornava dal lavoro si
cambiava e se ne andava in giro con
ragazzi che non avevo mai visto e
che non abitavano a Curon. Erich mi
diceva che erano tutti nazisti e
appena possibile si sarebbero
arruolati, gentaglia piú crudele e
sconsiderata dei semplici soldati.
– Cosa ti hanno fatto di male i
nazisti? Preferisci le camicie nere
del duce? – gli chiedevo.
Lui scrollava la testa,
schiacciandosi i palmi sulle tempie:
– Faranno il male di tutti, Trina.
Quando Michael usciva gli
chiedevo: – Dimmi almeno dove te
ne vai.
– Fuori, – rispondeva spavaldo e
mi guardava in un modo che mi
toglieva la forza di domandare di
piú.

I gazzettini che nell’autunno del


’40 arrivavano in paese parlavano di
vittorie italo-tedesche ma di un
cammino ancora lungo per
sconfiggere gli Alleati. Gli ufficiali
fascisti passarono a consegnare
cartoline coi nomi e cognomi dei
reclutati, se trovavano noi donne
chiarivano che non presentarsi
comportava la fucilazione del
disertore. I militari che si vedevano
in giro non avevano piú facce da
ragazzi né mascelle squadrate, ma
mani pesanti e occhi torvi che
costringevano ad abbassare lo
sguardo. La guerra li aveva
cambiati.
Vennero al maso un giorno di
ottobre. C’era il cielo terso e il
rombo lontano degli aerei sembrava
la minaccia di un temporale. Erano
in due e mentre mi facevano
domande drizzavano le orecchie per
cogliere qualche rumore dalle
stanze.
– Cerchiamo Erich Hauser.
– Non c’è, – risposi.
– Deve presentarsi al comando di
Malles.
La notte prima di partire Erich
volle fare l’amore, ma lo fece con
furia e senza abbandono. Poi stette
sveglio a fumare nella stanza buia.
– Sta’ attenta a Michael, –
ripeteva.
Lo mandarono nel Cadore e da lí
in Albania e poi in Grecia, dove quei
cialtroni dei fascisti non sono riusciti
a conquistare nemmeno un
fazzoletto di terra senza il soccorso
dei tedeschi. Dicevano che era un
fronte facile, invece moltissimi
morirono sul campo o tornarono a
casa mutilati.
Ogni tanto mi arrivava una
lettera. A volte la censura cancellava
tutto e di una pagina intera si
leggeva solo la riga finale.
«Abbraccia Michael per me. Il tuo
Erich Hauser».

Chiesi a Ma’ di venire a stare da


me. Lei mise delle suole negli
scarponi di Erich per adattarli alla
mia misura e la mattina mi
avvolgeva al collo uno sciarpone che
srotolato mi arrivava ai piedi.
Facevo uscire le mucche e le poche
pecore che ci erano rimaste e
trascinavo fuori la mandria. I prati
giú a valle erano ancora verdi e a
stare in giro non sembrava vero che
ci fosse la guerra e che avessero
arruolato Erich. Al pascolo
incontravo greggi guidate dai vecchi
rimasti a casa. Vecchi come Ma’,
che avevano dovuto farsi forza di
nuovo perché i figli maschi erano al
fronte e non c’erano altri uomini che
potevano badare a donne e nipoti.
Quando mi sedevo su una roccia
a mangiare pane e formaggio mi
sembrava di essere Erich e di avere i
suoi stessi pensieri. Certe volte
fissavo cosí tanto il cielo che mi
convincevo di essere sempre stata
una contadina. Mi voltavo e
guardavo il paese, piccolo su in alto,
e mi invadevano gli stessi sentimenti
di Erich: che era mia quella terra,
che nessuno mi poteva cacciare, che
non potevo rimanere inerte a
guardare. E sentivo che i fascisti
erano bastardi perché volevano
annegarci, ci avevano trascinato in
guerra e avevano portato via
Barbara. E i nazisti erano bastardi
uguale perché ci avevano messi gli
uni contro gli altri e volevano i
nostri uomini solo per farne carne da
cannone.
Quando andava via la luce
risalivo con il gregge e con Grau,
che ormai aveva il pelo floscio e non
correva piú come un tempo. Mi
fermavo a guardare da lontano i
manovali che allestivano il cantiere
della diga fuori dal paese, vicino al
fiume. La guerra non li aveva
fermati. Anzi, adesso lavoravano
anche col buio. Puntavano sulla terra
fari enormi che da lontano
spandevano la luce che fanno gli
incendi. I manovali erano centinaia e
vivevano nelle baracche tirate su
dalla Montecatini. Non avevano
nessun contatto con noi. Erano come
talpe. Scaricavano tubi, sacchi di
malta, pale ed era un continuo
andare e venire di camion, ruspe,
caterpillar che sembravano mostri.
Non era piú tintinnio di campanacci
e frusciare di foglie d’erba, la valle.
I rumori dei camion e dei trattori
cingolati avevano ucciso il silenzio.
A Curon della diga nessuno
parlava piú. Al fiume ci si arrivava
in mezz’ora di bicicletta e non
capitava mai che qualcuno pedalasse
fin là. I manovali per i contadini e i
pastori non esistevano. I vecchi
dicevano che non era vero che
laggiú c’erano uomini.
«La gente con un dito sulle
labbra lascia ogni giorno che
l’orrore proceda», mi aveva detto
non so quante volte Erich.

Da quando era partito mi sentivo


una randagia. Puzzavo anch’io di
stalla e sudore, avevo le mani
callose. I miei modi erano diventati
duri. Allo specchio non mi guardavo
piú e tenevo sempre addosso lo
stesso maglione slabbrato, la sciarpa
sul naso, i capelli raccolti con uno
stecco di legno.
Il sabato bussavano alla porta le
donne con le lettere dei mariti e io
mi mettevo al tavolo a leggergliele.
In verità non c’era granché da
leggere perché la censura cancellava
quasi tutto. Ma loro erano testarde,
mi strappavano il foglio e lo
mettevano in controluce dicendo che
si vedevano dei segni. Allora per
togliermele dai piedi inventavo.
Dicevo che i loro uomini stavano
bene, mangiavano tutti i giorni e non
erano molto impegnati nei
combattimenti. Oppure che non
sapevano dove si trovavano ma che
il rancio era decente e presto
sarebbero tornati. Chiudevo con
frasi d’amore melense cosí le mogli
se ne tornavano ringalluzzite. Una
che si chiamava Claudia faceva
tanto d’occhi ed esclamava «il fronte
me l’ha reso romantico» e se ne
andava via perplessa. Le donne per
ringraziarmi mi lasciavano spiccioli
che io prendevo e consegnavo a
Ma’. Non m’importava di fare del
bene.
Quando la casa era di nuovo
vuota aprivo le finestre e facevo
uscire l’aria viziata. Mi mettevo
sulla sedia e guardavo la stanza. Se
mi veniva voglia di scrivere non
scrivevo piú a te. Scrivendo a tuo
padre mi sembrava di cancellarti.
Capitolo quinto

Mio fratello Peppi riuscí a non


farsi arruolare. Dopo che gli arrivò
la cartolina per giorni mangiò solo
liquirizia. Si presentò alla visita
pisciando verde e con la febbre a
quaranta. Ancora un po’ e sarebbe
morto intossicato. Era finito a fare il
muratore dalle parti di Sondrio, il
Peppi, in una piccola azienda che
costruiva prefabbricati da mandare
nei quartier generali. Venne a
trovarci con la corriera un giorno
che pioveva. Arrivò con una ragazza
minuta, dagli occhi celesti. Era
elegante e si chiamava Irene, come
Ma’. Disse subito che si volevano
sposare, cosa che ormai non credevo
piú. Pensavo che il Peppi si volesse
solo perdere per il mondo.
Al matrimonio eravamo in dieci.
Quel giorno Ma’ mi chiese di farmi
bella e mi prestò la collana di perle
che aveva messo lei quando si era
sposata. In trattoria le sedetti vicino
perché la famiglia di Irene parlava
uno strano dialetto e io cercavo di
tradurle alla bell’e meglio quel poco
che capivo. Mangiai tutto, ma solo
per riempirmi la pancia. Mi sentivo
selvatica e sempre avida di
solitudine. Avevo il pensiero della
stalla e non vedevo l’ora di rientrare.
I gerani nella sala, poi, mi
mettevano malinconia. Mi veniva in
mente il viso di Maja e i baci di
Barbara. E mi veniva in mente
Erich, che il giorno del matrimonio
aveva un farfallino abbottonato
stretto che non vedevo l’ora di
togliergli. E mi venivi in mente
anche tu, che quando mi sono
sposata eri solo un desiderio che non
sapevo di avere.
Alla fine del pranzo mio fratello
disse che era contento di aver
sposato Irene e che davvero senza di
lei chissà che brutta vita avrebbe
fatto. Non so come sia successo che
gli anni sono volati e io e il Peppi
non ci siamo mai comportati come
fratelli. Ci siamo sempre voluti un
bene astratto. Il Peppi mi disse che
spesso pensava a quando la
domenica stavamo tutti insieme o a
quando faceva il solletico sui fianchi
larghi di Ma’ perché era stufo che
non ridesse alle sue buffonate. Disse
anche che a Sondrio stava bene e
Curon non gli mancava poi tanto. –
Fare il muratore mi piace, Pa’
sarebbe contento di me.
– Lui era già contento di te, eri il
suo cocco.
– Ti ricordi che caratteraccio che
aveva?
– Ma se era di burro! – protestai.
– Con te forse, con me era di
bronzo, altro che burro! – vociò
ridendo da solo.
L’indomani lo accompagnai a
portare i fiori al cimitero. Per strada
mi rassicurò, presto Erich sarebbe
tornato sano e salvo perché con
Hitler eravamo tutti al sicuro, anche
i soldati italiani.
– Io mi sono intossicato con la
liquirizia perché sono un vigliacco,
ma ho fiducia in Hitler, – disse
guardando la lapide di Pa’.
– Se ti fossi arruolato avrebbe
spedito anche te in Slesia o chissà
dove, come gli altri che sono partiti
nel ’39 per il Reich.
– Io ho fiducia che la guerra
finirà bene per noi, – ripeté senza
dare importanza alle mie parole.
– Lui invece non ne aveva
neanche un po’, – risposi indicando
la tomba di Pa’.
Quando il Peppi, Irene e la sua
famiglia ripresero la corriera andai
nella stalla a mungere le mucche ma
mi facevano male le mani. Ma’
venne ad aiutarmi e disse che cosí si
sarebbero prese la mastite e le avrei
trovate buttate in terra dal male e i
muggiti ci avrebbero svegliato nel
cuore della notte. Allora mi misi a
strizzare le mammelle
freneticamente, fino a non sentire
piú dolore nei palmi. Ma’ mi dava
pacche sulle spalle e mi rimbrottava:
– Forza ragazza, non perderti nei
tuoi pensieri –. Per lei erano il
nemico piú grande, i pensieri.

Il mercoledí veniva a trovarmi


Maja. Io scendevo dalle montagne
che ancora l’ombra non si era
arrampicata sul fianco dell’Ortles,
mi toglievo di dosso il sudore e
mettevo un vestito pulito. Ma’ era
contenta quando Maja veniva a
trovarmi. Preparava la panna e ne
metteva una cucchiaiata sopra il
latte.
– Finitela tutta che domani
diventa dura e bisogna tagliarla col
coltello, – diceva.
Io e Maja andavamo in bicicletta
fino al fiume. Sorvegliare il cantiere
era un modo per sentire piú vicino
Erich. I caterpillar avevano strappato
ogni cosa, buttato giú i larici e gli
abeti, scavato un alveo immenso. I
camion andavano avanti e indietro
da Vallelunga carichi di terra e pietre
di cava che poi ammonticchiavano
nelle buche. Adesso veniva piú
facile immaginare la diga. A San
Valentino avevano costruito uno
sbarramento enorme, creato un
serbatoio d’acqua con cui
alimentavano le centrali di Glorenza
e Castelbello. Io e Maja ci
guardavamo ammutolite.
Osservavamo i manovali muoversi,
operosi come api, segnare il terreno
su cui poi passavano le ruspe che
alzavano folate di polvere. Se
provavamo a fare qualche domanda i
carabinieri di guardia stiravano le
sopracciglia senza rispondere. Una
domenica di sole siamo state fuori
tutto il giorno e piano piano siamo
arrivate a Glorenza e anche lí
cantieri e macchine e manovali a
centinaia che compivano
meccanicamente gli stessi gesti.
Tutta la valle sembrava presa in
ostaggio. Sotto il nostro silenzio,
sotto i nostri occhi.
Quando tornammo indietro dissi
a Maja che quei manovali erano
senz’altro dei poveracci e per venire
quassú dal Veneto o dall’Abruzzo o
dalla Calabria chissà quanto saranno
stati morti di fame e che fortuna
rappresentava per loro costruire la
diga. Lavoro assicurato per mesi,
forse anni, e non partire per il fronte.
Allora Maja si fece pensierosa e
piegò in giú le sue labbra sottili.
– Qui non si sa piú con chi
prendersela, – disse sbuffando.

A vedere il cantiere ci siamo


andate finché non è tornato l’inverno
e le strade sono diventate impossibili
da fare con la bicicletta. Si scivolava
a ogni curva e le ruote slittavano
continuamente. Finiva che ci
tiravamo addosso la neve e
ridevamo sentendola entrare sotto i
vestiti. A ogni palla ne gridavamo
una: «fanculo la guerra!», «fanculo i
fascisti!», «fanculo la diga!» e
andavamo avanti fino a quando ci
facevano male le braccia e si
gelavano le dita.
Io ero pigra, Maja invece voleva
uscire anche d’inverno. Le piaceva
camminare sul lago ghiacciato. Ma’
non mi dava nemmeno tempo di
decidere che mi cacciava come un
topo dalla stalla.
– Andatevene, devo lavare per
terra e qui mi siete d’impiccio! –
diceva.
Allora per farla contenta uscivo
ma appena fuori pregavo Maja di
portarmi al suo maso perché il lago
ghiacciato non lo volevo nemmeno
vedere. Mi bastava guardarlo che la
notte sognavo di camminarci sopra
con te. Era un sogno bellissimo ma
avevo paura di rifarlo. Io e te lo
attraversiamo mano nella mano
finché mettiamo i piedi in una crepa.
Precipitiamo. Ma senza morire.
Restiamo avvolte da un’acqua
tiepida. Nuotiamo prive di peso.
Torniamo a essere l’una il mondo
intero dell’altra.

A casa di Maja restavamo davanti


alla stufa che ronzava. Lei buttava
qualche ramo nel fuoco e piano
piano sentivo il sangue circolare di
nuovo sulla punta delle dita. Quando
con l’attizzatoio andava a smuovere
la fiamma una luce macchiava le
pareti e le illuminava tutti i capelli
arruffati. Con Maja potevo parlare di
te. Le raccontavo com’eri e che
carattere avevi, che risposte affilate
sapevi tirare per essere una bambina
di dieci anni.
– Adesso non la riconoscerei per
strada, sarà diventata una donna e
dell’infanzia se ne sarà già scordata,
– le dicevo con una strana vergogna.
Maja ascoltava senza dir nulla,
sospirava con la testa reclinata
all’indietro. Quando non ne potevo
piú del suo silenzio le mettevo la tua
lettera in mano e allora lei mi diceva
di buttarla via una volta per tutte
quella dannata lettera. Se le
chiedevo di rimproverarmi le mie
colpe rispondeva che la vita è
un’accozzaglia di casualità e non ha
senso parlare di colpe. Poi si alzava
di scatto, mi pasticciava il viso con
le mani e mi chiedeva di aiutarla a
impastare i canederli o a preparare la
composta di mele.

Un giorno, invece, m’interruppe


bruscamente e disse che si era
stufata dei miei pianti e che non mi
sopportava piú.
– Con la sofferenza bisogna
arrivare fino in fondo, piú in fondo
di quello che fai tu! – gridò. –
Bisogna arrivare al punto di voler
dare la vita ai cani perché solo cosí
si può ritrovare la pace! Non lo sai
che fare un figlio vuol dire mettere
in conto i piú grandi dolori? Te lo
devo spiegare io che i figli sono
un’altra cosa da noi? E comunque
almeno tu ne hai avuti, per me
invece il tempo è passato e da
vecchia nessuno si ricorderà di
venirmi a trovare e rimarrò come
un’ebete a fissare la fiamma della
stufa!
Io restai a guardarla piangere di
rabbia e volevo scapparmene a casa.
Ma lei, quando mi alzai, fece muro
davanti alla porta e con la testa bassa
disse: – Scusa Trina, non volevo.
Però forse di tua figlia non me ne
devi piú parlare perché io non sono
buona a consolarti.
Capitolo sesto

All’inizio del ’42 non ricevevo


piú lettere. Certe notti sognavo di
veder tornare Erich insieme a te.
Arrivavate mano nella mano dalla
strada che porta in Svizzera.
Mi sembrava di aver vissuto
sempre cosí. Andarmene con le
bestie, zappare l’orto, dipanare la
lana e per tutto il resto lasciar
decidere Michael, che portava i soldi
a casa e gli piaceva fare la voce
grossa. In realtà era un povero cristo
anche lui, dalla mattina alla sera
chiuso in quella bottega con la
polvere del legno che gli entrava nei
polmoni. Nel portafoglio gli avevo
trovato l’immagine del führer.
Una volta al mese le donne che
avevano il marito o il figlio al fronte
si incontravano. Per fare contenta
Ma’ infilavo la giacca e trascinavo i
piedi come un orso. A casa di questa
o di quella non si faceva che pregare
oppure dovevo stare a leggere e
rileggere le lettere che mi mettevano
sotto il naso e su cui non c’era
scritto mai niente. Ne uscivo
stordita, non vedevo l’ora di tornare
a rigovernare la stalla e mungere le
mucche in pace. Iniziavo a
convincermi che fosse meglio
immaginarlo morto, Erich, cosí poi
avrei gioito se fosse tornato. Con o
senza di te.

Il vecchio che veniva a prendere i


mucchi di lana cominciò a mandare
il figlio. Era un ragazzo alto e
magro, con le scapole che gli
spuntavano dal maglione. Aveva gli
occhi dolci e mi chiamava sempre
per nome. Era piú piccolo di me e il
suo viso era ancora un po’ sporco di
giovinezza. Col passare del tempo
prese l’abitudine di salire in casa e
ogni volta cercava di tirare in lungo
la conversazione anche se non
sapeva mai cosa dire. Una volta Ma’
gli offrí qualcosa di caldo e il tempo
che andò in cucina a far bollire
l’acqua lui mi mise la mano sul
ginocchio e tutto serio disse che
voleva occuparsi di me. Io restai a
guardarlo e fissavo i suoi occhi
dolci.
– Che vuol dire occuparti di me?
– Che ti pagherò la lana di piú.
Due, tre, anche quattro volte tanto.
Scoppiai a ridere e gli dissi che se
voleva pagarmi la lana quattro volte
tanto non avevo niente in contrario e
poteva farlo anche a partire da quel
giorno. Lui ci rimase male e gli
occhi gli divennero languidi. Restò a
guardarmi con la bocca aperta e io
non sapevo se scusarmi o continuare
a ridere per quanto era buffo. Poi di
scatto si avvicinò alla mia sedia, mi
appoggiò di nuovo la mano sulla
gamba e disse che lui con le donne
non sapeva mai spiegarsi.
– Vuoi una mano a scaricare il
fieno? – mi chiese quando Ma’ ci
riprese le tazze.
Scaricare il fieno e distribuirlo
nelle mangiatoie era un lavoro che
odiavo, cosí dissi di sí. Appena lí
dentro sprangò la porta. Vicino al
mucchio di paglia mi prese le spalle
e mi baciò tutta la faccia. A me
pareva troppo giovane e magro per
farmi del male e cosí mi sono
lasciata baciare. Anche la sua bocca
aveva un sapore dolce e a sentire un
altro fiato, un’altra carne da quella
di Erich, avvertivo che il mio corpo
aveva una voglia avida di
abbandonarsi. Mi stese sulla paglia,
mi baciò il collo e mi strinse i seni
con quelle sue mani screpolate dal
freddo, poi in un attimo fu sopra e
mentre faceva l’amore mi diceva che
mi amava e che voleva occuparsi di
me. Io gli tappavo la bocca perché
volevo sentire solo il calore del suo
corpo, la sua foga di ragazzo senza
pensieri, il fieno appuntito che mi
entrava nei capelli e mi pizzicava il
maglione su cui per giorni sarebbe
rimasto incollato il suo odore.
– Non deve succedere piú, – gli
dissi alla fine.
– Nemmeno se tuo marito non
tornerà dalla guerra?
– Mio marito tornerà, – gli risposi
riaprendo la porta per cacciarlo
fuori.

Per non farlo piú salire mi


mettevo davanti alla porta e lo
aspettavo guardando la strada con
una faccia indispettita che non era la
mia. Quando arrivava il motocarro
facevo segno di aspettarmi lí, non
serviva che scendessero. Il vecchio,
vedendomi camminare ingobbita dai
mucchi di lana che ammassavo in un
telo e mi caricavo in spalla,
ridacchiava dando di gomito al figlio
e quel suo riso storpio mi metteva
voglia di ficcargli la lana in bocca. Il
ragazzo mi guardava crucciato, poi,
dopo qualche settimana, iniziò a
caricarsi in fretta e furia i mucchi e a
mettermi con disprezzo i soldi in
mano senza nemmeno incrociare il
mio sguardo. Anche Ma’ diceva che
in casa era meglio non fare entrare
piú nessun uomo perché le loro
intenzioni sotto la guerra si fanno
malvagie.
– Ci lasciano sole e poi si
lamentano se succedono certe cose,
– ripeteva mentre andava avanti a
rammendare. – Stanno lí pronti
come avvoltoi ad aspettare che
inciampi cosí possono trattarti come
una puttana per il resto della vita.
A sentirla dire cosí restavo
paralizzata e non capivo se parlasse
a quel modo perché sapeva cosa
avevo fatto nel fienile o se erano
solo le sue paure. Ogni tanto veniva
a trovarci Anna, la moglie del
fabbro. Era una donna alta, coi
fianchi stretti e il mento a punta. Di
solito veniva per imparare a cucire.
Invece una mattina si presentò
tenendo per mano un mocciosetto di
nemmeno dieci anni.
– È il mio figlio piú piccolo, –
disse senza entrare. – Ogni volta che
il maestro gli parla lui risponde in
tedesco e a furia di bacchettate sulle
mani gli sono venute le piaghe, –
concluse aprendo a forza quei palmi
tutti arrossati che il bimbo teneva
stretti come se nascondesse un soldo
rubato.
– Insegnagli un po’ di italiano, –
mi chiese. – Almeno quello
necessario per non prendere piú
bacchettate. Ho paura che mio
marito prima o poi faccia spropositi.
– Non posso fare la maestra
gratis, – le dissi.
Lei annuí. – Soldi non te ne
posso dare, ma ti porterò dei salami,
delle uova o quello che recupero in
giro.
Ma’ spuntò sulla porta e mise in
mano al bambino un pane di
zucchero che lui addentò all’istante.
– Ci darete quel che potete, non ti
preoccupare, – tagliò corto Ma’
facendola entrare.
Io la guardai allibita. Bambina o
donna che fossi, Ma’ sarebbe sempre
rimasta la stessa con me. Risoluta e
autoritaria. Sarebbe tutte le volte
spuntata alle mie spalle a togliermi
dagli impicci. E non perché le
piacesse farlo, ma perché secondo
lei non potevo permettermi il lusso
di essere cosí indecisa.
«Se volevi fare l’indecisa non
dovevi sposarti un contadino!» mi
sfotteva certe volte.

Insegnare italiano non mi piaceva


granché, ma a stare qualche ora al
tavolo con quel moccioso svogliato,
che si distraeva di continuo e agitava
i piedi come se avesse il fuoco nelle
scarpe, mi sentivo finalmente utile a
qualcuno.
Un giorno che cercavo di fargli
imparare una poesia pensai che se
non me l’avessero fatto odiare dal
profondo delle viscere era una bella
lingua, l’italiano. A leggerla mi
sembrava di cantare. Se non l’avessi
meccanicamente associata a quegli
sbruffoni dei fascisti forse avrei
continuato a canticchiare le canzoni
che avevo ascoltato dal grammofono
di Barbara – un bacio ti darò | se qui
ritornerai | ma non ti bacerò | se
alla guerra partirai – e forse anche
Maja avrebbe fatto cosí e anche i
contadini e tutta questa valle nel
tempo sarebbe diventata un crocevia
di gente che si sa intendere in piú
modi e non un punto incerto
d’Europa dove tutti si guardano di
traverso. Invece l’italiano e il
tedesco erano muri che
continuavano ad alzarsi. Le lingue
erano diventate marchi di razza. I
dittatori le avevano trasformate in
armi e dichiarazioni di guerra.
Capitolo settimo

Davanti al maso si fermò una


jeep dell’esercito. Due militari lo
aiutarono a scendere. Aveva una
gamba ingessata e nelle mani le
stampelle su cui faceva leva per
camminare. Dopo pochi passi lo
sollevarono da sotto le braccia e lo
lasciarono sulla soglia. Erich si
affrettò a dirmi che non era invalido,
si era solo ferito alla gamba e dopo
la guarigione sarebbe subito ripartito
per il fronte. I militari annuirono.
Quando la jeep riprese la strada
Erich mi chiese di te e vedendomi
scuotere la testa si affrettò a
cambiare discorso. Disse: – Non è
vero che tornerò a combattere,
Trina. Non combatterò mai piú. Se
mi verranno ancora a cercare
scapperò sulle montagne, – e tentò
maldestramente di alzarsi perché
voleva rivedere la casa. Aveva il
viso sfatto e sulla fronte una ruga
profonda come un taglio. Non
smettevo piú di guardarlo. Gli passai
una mano tra i capelli, che erano
diventati piú radi e di un biondo
sbiancato. I suoi modi, invece, erano
quelli di sempre. Le dita che si
agitavano picchiettando il tavolo,
quella sua fame da ragazzo che gli
fece divorare quattro tocchi di
formaggio in pochi bocconi. Ma’ si
mise subito a cucinare e senza dire
niente scese a comprare una gallina.
Al ritorno trovò Erich addormentato
sulla sedia, col mento sul petto.
Michael arrivò di corsa, qualcuno
doveva averlo avvertito. Rimase
fermo a guardarlo dormire e intanto
sorrideva ciondolando la testa.
Sembrava che lui fosse il padre e
Erich il figlio. Poi Michael andò a
lavarsi nella tinozza, si pettinò
davanti allo specchio e volle
indossare il maglione scuro, quello
delle feste. Anche io mi lavai e
pettinai, sfilandomi lo stecco di
legno dai capelli crespi. Ma’
apparecchiò con la tovaglia bianca
di cotone. Mandavamo indietro la
gente che arrivava dai masi vicini e
chiedeva di vedere il reduce.
– Domani, domani! – li
pregavamo facendo muro sulla
porta.
Mangiò tutto sbilenco reggendosi
la testa con la mano. Mi domandava
in continuazione di versargli il vino
e non l’avevo mai visto cosí
attaccato al bere. Michael non
smetteva un minuto di fargli
domande. Erich rispondeva seccato
che voleva mangiare in pace, parlare
della guerra gli chiudeva lo stomaco.
Mentre masticava faceva smorfie di
dolore e capii che beveva per sentire
meno il male alla gamba.
Quando scese in stalla, trovò le
bestie malmesse. Disse che una
mucca aveva gli occhi malati e le
pecore erano malnutrite.
– Non voglio piú fare la guerra
Trina, – mugugnò accarezzando il
muso di quella mucca. – Mai piú.
A letto mi fece vedere la ferita
alla gamba, da cui gli avevano
estratto un proiettile. Andammo
avanti a parlare fino a tardi.
Parlammo come se non ci
conoscessimo piú. Quella sera non
ho pensato a te neanche un
momento.

Quando il dolore si allentò, la


prima cosa che fece fu andare al
cantiere della diga a piedi.
– Sei impazzito? – dissi. – Vuoi
arrivare fin laggiú?
– Tu per oggi bada alle bestie, da
domani ci penserò io, – mi ordinò.
Si allontanò zoppicando.
Sembrava un pendolo e mi faceva
pena. Michael lo raggiunse e lo
trovò che guardava a bocca aperta i
fossati in cui i camion vomitavano
terra. Con le mani arpionava il fil di
ferro dei recinti. Le vene gli
uscivano dalle ossa e gli facevano
bluastra la pelle. Michael gli si mise
di fianco e stette con lui a osservare
gli operai, i caterpillar infuriati, i
carabinieri che fumavano appoggiati
al cofano delle jeep.
– Vieni papà, andiamo via.
Mentre Michael pedalava Erich,
stretto tra i suoi avambracci,
guardava gli abeti che ricoprivano i
fianchi delle montagne e respirava
l’odore del cielo.
– Se mi chiameranno ancora
scapperò sulle montagne, – disse a
Michael quando arrivarono
all’osteria.
– Nemmeno io voglio combattere
con gli italiani, papà.
– Né con gli italiani né con i
tedeschi. Io non voglio piú fare la
guerra, – disse scandendo le parole
con rabbia.
– Invece combattere per il führer
a me piacerebbe, –disse Michael.
– I tedeschi sono diventati
razzisti e sanguinari.
– Se il führer fa quello che fa
avrà le sue ragioni.
– Quali sono le ragioni per
annientare tutti? – lo aggredí Erich.
– Perché c’è questa guerra che dura
da anni? E noi cosa c’entriamo?
– Sotto di lui nascerà un mondo
migliore, papà.
– Un mondo di servi che
camminano col passo dell’oca, ecco
cosa nascerà!
– I nazisti non faranno la diga,
non sei contento? – continuò
imperterrito Michael.
Allora Erich urlò di nuovo, cosí
forte che i vecchi ai tavoli
dell’osteria si girarono a guardarlo.
– Non mi basta che non ci
anneghino per approvare quello che
fanno! – e cercò goffamente di
alzarsi. Michael tentò di trattenerlo
ma lui gli scansò il braccio e lo
afferrò per la maglia tirandolo a sé.
– Tu non sai niente. Tu sei solo un
teppistello, – ripeté disgustato. –
Vattene dal tuo Hitler, idiota.

Per giorni non si parlarono. La


sera, davanti a me, cercavano di
mantenere una cordialità artificiosa
che me li faceva apparire ancora piú
odiosi. Dopo aver messo in tavola la
cena mi sedevo al posto di Erich, in
mezzo a loro due, e mandando giú la
minestra mi chiedevo a cosa fosse
servita tutta quella fatica di crescere
i figli.
Certe sere che Michael usciva me
la prendevo con Erich, gli dicevo di
lasciarlo perdere, in fondo lavorava
sodo e ci lasciava tutti i soldi che
guadagnava senza battere ciglio.
– Hitler o no, Michael è un bravo
ragazzo. Dovresti essere meno duro
con lui, – e gli ricordavo quanto
tempo era rimasto a guardarlo
dormire quando i soldati italiani
l’avevano riportato dal fronte. – Non
ti basta il suo bene? – gli
domandavo arrabbiata.
Ma Erich quando gli dicevo cosí
mi assaliva, gridava che avere un
figlio nazista era il peggio che gli
potesse capitare. Il fatto che la gente
non lo capisse, il fatto che quasi tutti
fossero come lui, non spostava di un
soffio la situazione. Il nazismo era la
vergogna piú grande e presto o tardi
il mondo se ne sarebbe accorto.

Anche se quei rumori di aerei che


arrivavano da dietro il cielo non
smettevano mai, la guerra, con Erich
vicino, tornò a sembrarmi irreale.
Non avevo piú tempo di pensarci.
Me ne ricordavo solo quando in
paese arrivava il telegramma di
qualcuno che era morto. Allora si
sentivano i pianti dagli altri masi e si
vedeva gente vestita di nero
presentarsi in processione alla porta
senza saper cosa dire, specie se era
morto un ragazzo. In quelle giornate
le campane rintoccavano per lunghe
ore e Erich adesso non si perdeva
una sola messa.
Riprese in fretta la sua vita di
contadino e si dedicò a rimettere in
salute le bestie. Le portava in prati
nuovi dove potevano brucare a
sazietà. Rientrava presto e a metà
pomeriggio gli animali erano già
nella stalla. Ora non stavano piú
pigiati perché ne avevamo meno. Ne
fece abbattere altri, non avevamo i
soldi per curarli tutti. Se li era fatti
pagare bene perché carne se ne
trovava poca e secondo lui qualche
vecchia vacca adesso potevamo
venderla e far ingravidare le piú
giovani per allevare vitelli.
Dopo il lavoro usciva con la
sigaretta al lato della bocca. A volte
chiamava Grau e sulla porta mi
diceva: – Vieni con me.
– Aspetta che mi preparo, – gli
rispondevo.
– No, esci cosí come sei.
Allora litigavamo perché come
una zingara non volevo piú uscire.
Non volevo piú essere trasandata
adesso che mio marito era tornato
dalla guerra. Cosí mi preparavo di
corsa, ma quando mi presentavo coi
capelli pettinati e il vestito a quadri
lui era già uscito e io restavo
impalata a guardarmi allo specchio e
mi vedevo vecchia.
Per le strade di Curon Erich
diceva a chiunque incontrasse: –
Dobbiamo sabotare il cantiere prima
che ci sommergano.
Ma i vecchi rispondevano che
erano vecchi per fare queste cose e i
pochi uomini che non erano al fronte
dicevano che tanto non sarebbe
successo niente, Hitler presto
avrebbe occupato il Tirolo e della
diga non si sarebbe mai piú parlato.
Qualcuno invece gli intimava: –
Tieniti la lingua tra i denti se non
vuoi che le camicie nere vengano a
pestarti nel sonno.
Allora Erich andava dalle donne.
Ma anche le donne scuotevano la
testa e rispondevano che avevano i
mariti o i figli al fronte in qualche
parte del mondo, chissà se vivi o
crepati sotto i colpi delle mitraglie.
Non c’era spazio nella loro testa per
pensare alla diga in fondo al fiume,
dove i loro occhi non arrivavano.
– Dio non permetterà una cosa
simile.
– Curon è sede del vescovo.
– Sant’Anna ci proteggerà.
Erich mi rispondeva di chiudere
la bocca quando gli dicevo che Dio è
la speranza di quelli che non
vogliono muovere un dito.
Capitolo ottavo

Ne morirono tanti nell’Europa


dell’Est. Altri in Russia, sulle rive
del Don. Vennero a consegnare i
telegrammi tutti lo stesso giorno e
l’ufficiale li lasciò nelle mani delle
donne guardandosi gli scarponi e
toccandosi la visiera del cappello
prima di risalire sulla motoretta. Il
prete fece suonare le campane a
morto fino a sera. L’osteria si svuotò
e Erich disse che i corpi non
sarebbero tornati indietro e che
bisognava chiedere al podestà di fare
una lapide collettiva.
Sempre piú spesso in paese
arrivavano militari tedeschi dicendo
che presto il Sudtirolo sarebbe
diventato una regione del Reich.
Qualcuno li acclamava, altri ci
giravano alla larga.
Karl era riuscito a procurarsi una
radio. Gli uomini si radunavano per
ascoltarla e lui si lamentava che
nessuno ordinava piú da bere e che
presto l’avrebbe spaccata a
martellate. Anche Erich andava
all’osteria ad ascoltare la radio e mi
riferiva che il duce faceva sempre
piú proclami trionfalistici, segno che
le cose giravano male.
– Papà, tra poco Hitler verrà a
liberarci, – gli disse una sera
Michael.
Erich scansò il piatto, lo guardò
in faccia e rispose: – Se ti arruoli coi
tedeschi non mettere piú piede in
questa casa.

Quando arrivò la notizia


dell’armistizio la gente scese in
strada a esultare. All’arrivo dei
soldati del führer le donne si
sporgevano coi fazzoletti dalle
finestre e si sbracciavano dalle
soglie. Quegli uomini che non
avevamo mai visto li trattavamo
adesso come liberatori. Diventammo
la regione meridionale del Reich. La
zona di operazioni delle Prealpi.
Alcuni dicevano che erano sempre i
fascisti a comandare, altri che non
contavano piú nulla. Nelle settimane
a venire gli impiegati italiani furono
cacciati, ma senza che gli venisse
torto un capello. Uscirono bandi per
riassumere gli autoctoni e l’italiano
fu vietato in tutti gli uffici pubblici.
Chiunque di noi avesse un titolo di
studio o avesse occupato dei posti
che gli erano stati tolti da Mussolini
fu invitato a presentarsi per
riprenderseli.
Erich, da quando erano arrivati i
nazisti, non usciva piú di casa.
Camminava con le mani dietro la
schiena e se gli chiedevo «adesso
che facciamo?» non rispondeva.
Nemmeno quando Michael gli
venne a dire che i lavori della diga
erano stati interrotti – al führer
interessava costruire ferrovie –,
nemmeno allora Erich aprí bocca.

Solo quando i tedeschi presero il


controllo totale del territorio ed era
chiaro a tutti che Mussolini,
prigioniero o libero che fosse, non
contava piú niente; solo quando gli
ordini e i dispacci che arrivavano
uno via l’altro dai centri di comando
di Merano annunciarono a lettere di
fuoco l’arruolamento imminente
degli uomini; solo allora capii cosa
agitava Erich. Lui che al fronte
aveva visto i nazisti uccidere e
imprigionare, sapeva che aver deciso
ai tempi della grande opzione di
restare a Curon e di non partire per
la Germania era una colpa da
scontare. I tedeschi avrebbero preso
di mira prima di tutto chi nel ’39
non era partito. Chi non aveva
creduto ciecamente in Hitler fin
dall’inizio. Anche Michael lo
diceva: – Dobbiamo arruolarci
volontari. Dobbiamo rimediare alla
nostra colpa.
Una sera prese Erich da parte e
con voce pacata gli disse: – Ascolta
papà, Hitler conosce la nostra storia,
sa quello che abbiamo passato. Ci
arruolerà, è vero, ma non per
mandarci su qualche fronte lontano.
Ci manderà qui vicino oppure ci
darà compiti amministrativi. A
combattere in Europa spedirà chi
non si arruola spontaneamente, –
concluse cercandogli la mano.
– E tu che ne sai? – gli chiese
sprezzante.
– Ieri mi sono arruolato.
Erich alzò di scatto la testa e
Michael sostenne il suo sguardo.
– L’ho fatto anche per te, papà.

Finalmente una notte che non


riuscivamo a dormire Erich mi
raccontò di quando era al fronte.
– Abbiamo marciato per giorni,
senza fermarci. Ho visto le
montagne dell’Albania, basse e aride
ma ripide e piene di crepacci. Ci
siamo inerpicati per notti intere sulle
mulattiere e non potevamo
nemmeno chiedere se la strada era
ancora lunga. Ho sparato, non so
quanti uomini ho ucciso. Non piú di
altri, ma un numero sufficiente per
guadagnarmi l’inferno. Che sia vivo
tutto sommato è un’ingiustizia. I
militari tante volte a noi tirolesi ci
maltrattavano, ci facevano pulire le
loro scarpe e nessuno ci chiamava
mai per nome. Quando ci hanno
trasferito in Grecia ho trovato un
amico, uno di Rovereto, che appena
arrivati si è ammalato di difterite.
Prima dell’ispezione gli spalmavo in
faccia qualche goccia di sangue. Mi
bucavo il polpastrello e lo truccavo
per scacciargli il pallore. Gli ho dato
qualche giorno di vita in piú, poi una
sera mi hanno fatto fumare con lui e
me l’hanno ammazzato davanti agli
occhi. Due minuti dopo ho dovuto
mangiare il rancio.
Io trattenevo il respiro, col mento
appoggiato sulle ginocchia strette tra
le braccia e guardavo la luce della
luna che entrava dalla finestra.
– E i tedeschi sono ancora piú
belve degli italiani. Deportano,
torturano –. Mi girai a guardarlo e
lui me lo disse di nuovo: – Trina, se
mi vogliono arruolare scapperò sulle
montagne.
– Allora scapperemo insieme.

Qualche giorno dopo Michael si


presentò con l’uniforme militare.
Venne a farsi abbracciare e sorrideva
contento come se con quei vestiti
addosso fosse finalmente diventato
uomo.
– Presto diventerò un tenente o
un comandante della Wehrmacht,
mamma, avrò una buona paga e
stelle sull’uniforme, – disse
soddisfatto. Io annuivo senza
guardarlo e gli aggiustavo il bavero
del cappotto. – Nemmeno tu sei
contenta di me? – mi chiese
tendendo il mento in avanti.
– Non ci pensare, io non sono
mai contenta.
– Quest’uniforme è bella, vero?
– Sí, è molto bella.
Disse che gli avevano assegnato
un pattugliamento in Val Padana.
Era una missione contro i partigiani
che infestavano il Nord Italia.
Sulla porta afferrai le sue spalle e
gli dissi: – Adesso ti chiederò una
cosa e tu dovrai dirmi di sí.
Lui mi guardò perplesso e non
disse di sí. Dovetti ripeterglielo tre
volte. Solo allora annuí e con un
cenno mi invitò a parlare.
– Devi aiutarci a scappare.
Sbiancò. Poi strinse i pugni.
– È il nostro segreto, – gli dissi.
Non rispose.
– Ripetilo: è il nostro segreto.
Lo ripeté.
– Se per te conta piú il führer
potrai fare la spia e farci fucilare.
Potrai vendicarti su tua nonna o
incrudelirti su tuo padre, – continuai
con aria di sfida.
– Te l’ha chiesto lui?
– No, lui non sa niente.
Gli occhi gli divennero aguzzi, il
viso si fece rosso. Mi guardò come
si guarda un nemico ma a me in quel
momento non importava piú del suo
bene. Volevo solo proteggere Erich e
scappare con lui.
– Verrò a dirti dove è piú sicuro,
– disse con una voce non sua e se ne
andò senza baciarmi. Entrò in
camera di Ma’ e baciò lei. Poi mi
sfilò davanti nel suo cappotto grigio
e sbatté la porta con violenza. La
candela sulla credenza si spense.
Tirai fuori due borse. Misi dentro
i vestiti pesanti di Erich, i maglioni
di lana grezza, un pezzo di sapone,
le sciarpe, le calze, la coperta. Nel
poco spazio che rimaneva ci avrei
infilato un panetto di polenta,
barattoli di carne salata, gallette,
biscotti secchi. Nella mia borsa avrei
messo la borraccia, in quella di
Erich una fiaschetta di grappa.
Preparai tutto senza pensare, come
se di colpo mi fosse chiaro che non
avevamo altra possibilità. Nascosi le
borse dentro il baule e ci buttai sopra
dei vecchi stracci.
Andai nella stanza di Ma’. Le
scossi la spalla e mi misi seduta di
fianco a lei.
– Stai bene? – mi domandò.
– Sí, sto bene.
– Michael tornerà presto.
– Ascolta Ma’, io e Erich
scapperemo sulle montagne. Se vuoi
venire con noi puoi farlo, ma è
meglio che vai a stare dal Peppi.
– Se tuo marito si arruolasse
potresti iniziare a insegnare.
– Non mi interessa fare la
maestra nella scuola nazista. E poi
Erich non si arruolerà.
– Le mogli dei disertori le
uccidono.
– Uccideranno anche te se resti
qua. Devi andare dal Peppi.
Mi chiese di uscire dalla stanza,
poi a sera mi chiamò e senza
guardarmi mi disse: – Va bene, me
ne andrò dal Peppi.

Scaldai l’acqua nella tinozza.


Quando Erich rientrò lo aiutai a
lavarsi e misi in tavola la cena.
Cercavo di non incrociare il suo
sguardo. Ma’ volle restare in camera
sua e le portai una tazza di brodo.
– Ho preparato le borse, sono
dentro il baule.
Alzò la testa dal piatto e annuí.
– Michael è partito?
Dissi di sí e lui fece
un’espressione schifata, poi
continuò a masticare
svogliatamente. In quel momento si
era impadronito di me un desiderio
nuovo, che non ho piú provato.
Volevo svuotarmi di tutto ciò che
avevo. Delle mie cose, delle bestie,
dei pensieri. Volevo soltanto
chiudere le fibbie e partire.
Andarmene da qui.
Scrissi una lettera al Peppi, in cui
lo pregavo di venire al piú presto a
prendersi Ma’. Non pensai a
Michael che forse non avrei piú
rivisto. Non pensai alla guerra né
alle montagne che ci avrebbero
nascosto o su cui saremmo morti.
Non pensai a te. Per quattro anni,
ogni sera, ti avevo scritto su un
vecchio quaderno. Lo rilessi tutto
d’un fiato, poi lo appoggiai nel
camino. Le braci scarlatte venavano
la cenere. Il fuoco lentamente
s’infilava tra le pagine crepitando,
riprendeva vita. Non mi sono mai
sentita piú libera.
Capitolo nono

Un mattino vennero a chiedermi


perché non tornavo a insegnare. Mi
chiesero se ero contraria alla scuola
nazista.
– Assolutamente no, – dissi.
Appena riuscii a sbarazzarmi di
quegli uomini si fermò una
macchina davanti al maso. Due
ufficiali domandarono di Erich
Hauser. Avevo lasciato la porta
aperta e dalla porta aperta entrava il
sole. Avevo il golfino sbottonato e
uno dei due mi guardò la vestaglia
scendendo con gli occhi fino ai
polpacci.
– Lo manderò al comando, ora è
fuori con gli animali.
– Perché non si è arruolato
volontario?
– L’ha fatto per me, – risposi, –
sono malata. Abbiamo deciso che
nostro figlio si sarebbe arruolato e
che mio marito sarebbe rimasto qui.
Ha già combattuto due anni, è
tornato ferito dalla Grecia.
Controllarono su un elenco che
Michael si fosse davvero arruolato.
Quando trovarono il suo nome
usarono modi gentili.
Erich andò in stalla ad
ammazzare il vitello. Lo uccise con
una pistola che si era portato dal
fronte. Scuoiò l’animale e mise a
sgocciolare la carne. Le vacche
scalciavano e alzavano muggiti che
stordivano. Per tutto il giorno
rimasero spaventate. Erich portò in
casa la carne e io la tagliai a fette.
La infilai in barattoli di vetro. Una
fetta di carne, una manciata di sale.
Cosí fino alla fine della carne, fino
alla fine del sale. Lasciò le tre
vacche al maso del suo amico
Florian. Le pecore da un altro
contadino che si chiamava Ludwig.
Chiese con una scusa di tenergliele.
L’indomani avrebbero capito perché.
Quando a sera rientrò misi a friggere
la carne nel burro. Versai sulla
polenta il grasso e mangiammo.
Mangiammo fino alla nausea. Fuori
c’erano grappoli di stelle che a
guardarle mi facevano perdere nel
pensiero che niente fosse vero. Non
era vera la fuga sulle montagne, non
era vero che Ma’ se n’era andata a
Sondrio dal Peppi. Non era vero che
mio figlio era un nazista.
– Ho paura che se la prenderanno
con Michael, – dissi.
– Io ho paura che Michael mandi
i nazisti a cercarci.
– Smettila di dire cattiverie.
Questo non lo farà.
– E loro non gli faranno
nient’altro che qualche domanda.
Sparecchiai la tavola. Lavai le
stoviglie nell’acquaio e pulii la
credenza, i mobili, per ultimo il
pavimento.
– Perché ti stanchi cosí? – mi
chiese Erich. – Questo maso lo
metteranno a soqquadro, forse lo
bruceranno. Non serve lasciarlo
pulito.
– E invece lo lascerò pulito.
Erich si strinse nelle spalle, poi
infilò altra roba nelle borse e
preparò due sacchi impagliati in cui
avremmo dormito. Io giravo da una
stanza all’altra controllando che
tutto fosse in ordine. Avevo bisogno
di credere che saremmo ritornati. E
sarebbe ritornata anche Ma’ e di
nuovo avrebbe lavorato a maglia con
i ferri sotto le ascelle. Sarebbero
tornati tutti. Il Peppi con sua moglie
Irene, i giovanotti del paese reclutati
dai nazisti, Michael che avrebbe
subito fatto pace con Erich. E saresti
tornata anche tu. La guerra sarebbe
finita e ti avrebbero finalmente
riportata a Curon.

Uscimmo a notte fonda. Lanciai


un’occhiata alla cucina e al tinello. I
canovacci li avevo piegati e impilati
uno sull’altro, i bicchieri ancora
sgocciolavano. Aleggiava l’odore
della carne macellata.
Sull’Ortles si vedeva un falcetto
di luna. Tolsi la catena a Grau, che
alzò la testa dalle zampe e mi guardò
coi suoi occhi grinzosi. Gli
accarezzai il muso e la coda.
– Ci vediamo presto Grau, – disse
Erich massaggiandogli le orecchie.
Poi mi prese la mano e andammo.
Non ricordavo piú quando mi aveva
preso l’ultima volta la mano. Mi
sentivo molle e leggera.
Ci incamminammo verso i larici.
Nel bosco il buio s’infittí di colpo e
il freddo divenne tagliente. Erich
accese la torcia e si fermò a guardare
il mio viso rischiarato dalla luce. Le
nostre bocche sputavano nebbia.
– Hai paura? – mi chiese.
– No, – risposi.
Avevo voglia di baciarlo, lí in
mezzo al bosco.
– Conviene salire adesso che è
buio. Salire il piú possibile e andare
verso la Svizzera. Ci sono grotte e
fienili, piú in alto ancora troveremo i
rifugi. Dobbiamo arrivare piú su dei
tedeschi che controllano i confini e
fermarci prima di incontrare la
polizia svizzera.
Quando la salita divenne ripida
restammo muti. Bisognava ascoltare
i rumori. Erich teneva in mano la
pistola e a tracolla il fucile da
caccia. I rami frusciavano di
continuo e io non pensavo ai militari
ma ai serpenti e alle lucertole che
fanno trapestio sulle foglie, ai lupi
che si spaventano dei rumori, alle
civette dagli occhi gialli. Mi tirai sul
naso la sciarpa di Ma’, poi mi coprii
le orecchie, poi la testa.
Se inciampavo o il terreno si
faceva ripido Erich mi passava la
torcia e subito mi sgridava perché
gli illuminavo la faccia. Ci
fermammo un momento ad ascoltare
il rumore di un torrente.
Riempimmo la borraccia. L’acqua
era gelata e gli dissi di bere piano.
Volevo parlare ma Erich non mi
dava retta. C’era un silenzio fitto,
come quello che doveva stagnare
nella nostra casa vuota.
– Tieni le orecchie scoperte, da
qui possiamo trovare i lupi.
– Erich, quando farà giorno?
– Ormai manca poco.
Capitolo decimo

Una luce prima rosa poi azzurra


penetrò il buio pesto del cielo.
Spuntò il sole. Erich mi indicò
Curon, minuscola sotto di noi.
Mangiammo seduti sulle pietre le
gallette e il formaggio. Mi fece
buttare giú un sorso di grappa e io lo
bevvi tossendo. Un chiarore limpido
adesso illuminava il piano e dagli
strapiombi spuntavano rami e
cespugli. Mi sembrava di aver
scalato il mondo. Di esserne uscita e
non appartenergli piú.
– Possiamo sistemarci lí, – disse
Erich.
C’era una grotta nel costone della
montagna. Era stretta e per entrarci
bisognava camminare carponi. Erich
la ispezionò e disse che non era la
tana di nessun animale. Ci
mettemmo ad ammucchiare i rami e
a schiacciare coi piedi i rimasugli di
neve.
– Dovremo vivere accampati qui
dentro? – gli chiesi perplessa.
– Solo per qualche giorno, poi
andremo in un maso dove possono
ospitarci.
– E chi ci ospiterà?
– Padre Alfred mi ha lasciato un
biglietto che presenteremo alla
padrona del maso. Il figlio è un
giovane prete di Malles, – disse
passandomi il biglietto che teneva in
tasca.
– Dormiremo per terra? –
domandai guardandomi in giro.
– Scenderemo a procurarci le
foglie, faremo dei pagliericci, –
rispose paziente. – I sacchi che
abbiamo non ci faranno sentire
troppo il freddo.
Pretendevo che non si
allontanasse di un metro. Lo
minacciavo che mi sarei messa a
strillare o me ne sarei tornata giú a
valle. Non volevo per nessuna
ragione restare da sola. Erich allora
mi accarezzò la testa e mi spiegò che
presto avrebbe dovuto cacciare
qualche lepre o qualche uccello, o
chiedere ai contadini di vendergli
del formaggio. Non aveva senso
andare insieme. Mi lasciò la pistola.
Lui tenne il fucile. Non avevo mai
sparato né ci provai perché la pistola
aveva in canna solo sei colpi.
– Basta che quando premi il
grilletto la stringi con tutte le tue
forze, – diceva.
Io fissavo il ferro della canna e la
sentivo pesante tra le mani fredde.
Andammo a procurarci le foglie, poi
a perlustrare la zona. Non c’era
anima viva e quando rientrammo
Erich ripeteva convinto: – Quassú
non arriveranno.
– Arriverà altra neve però.
– Sí, ne verrà tanta.
– E cosa faremo quando arriverà
altra neve?
– Dobbiamo resistere solo
qualche giorno, Trina, assicurarci
che i tedeschi non stiano
attraversando questa strada. Poi
staremo in quel maso, pagheremo
l’ospitalità lavorando, gli lasceremo
i soldi che abbiamo.
– Nel frattempo la guerra finirà?
– Spero di sí.
Al sole di mezzogiorno
togliemmo le sciarpe e mangiammo
altro formaggio. Si riposò prima lui.
Io con la pistola uscii fuori dalla
grotta a guardare la luce brillante del
cielo. Le nuvole lunghe e strette che
s’inseguivano in quell’azzurro
immacolato. Vidi un’aquila roteare
in lontananza. Passai in rassegna gli
alberi. Calciai qualche sasso. L’aria
era immobile.
– Se vedi i tronchi graffiati
allontànati perché significa che da
quelle parti c’è un lupo, – aveva
detto Erich.
– E se me lo trovo davanti? –
avevo chiesto agitata.
– Devi sparargli negli occhi. E lo
stesso devi fare coi tedeschi. E
anche con gli italiani. Se vuoi
sopravvivere devi sempre sparare
negli occhi.
– Quassú non siamo fuori dalla
guerra, – dicevo a Erich la sera
davanti al fuoco. – Questa pistola è
la guerra.
Lui annuiva. – Però non siamo
diventati loro complici.

Quando il buio si arrampicava


sulle montagne restavo a guardare il
cielo cercando di trattenerne la luce,
come se quel rimasuglio fosse latte
da succhiare e io una bambina
famelica. Poi, in un momento, tutto
diventava nero e desolato e non si
vedevano piú nemmeno i contorni
degli alberi. Allora tornavo sconfitta
nella grotta, mettevo la testa tra le
mani e inghiottivo singhiozzi. Erich
mi lasciava fare. A volte si
avvicinava e cercava di
abbracciarmi ma io gli rispondevo
che non m’importava dei suoi
abbracci. Volevo solo che rifacesse
giorno.
Quando la luce tornava mi
smemoravo in un momento di quel
buio doloroso e guardandomi in giro
sognavo a occhi aperti. Ero una
giovane sposa salita sulle montagne
per amore del marito avventuriero.
Ero una guerrigliera che i tedeschi
temevano. Una maestra che aveva
messo in salvo i suoi bambini.
Nei pomeriggi quando le ore non
passavano, appoggiavamo la schiena
a un albero e parlavamo di cose di
cui non avevamo mai parlato.
– Chissà dov’è Marica, – mi disse
una volta soffiandosi nelle mani.
Mi bloccai come se avessi visto il
lupo e gli andai piú vicino. Non
aveva piú pronunciato il tuo nome.
Ripeté quella frase. Poi disse che
ormai era passato il tempo di non
parlarne piú.
– Io voglio solo che stia bene,
che sia al sicuro e che la guerra non
le abbia fatto niente.
– Non vorresti rivederla? – gli
chiesi.
– Non penso accadrà.
– E tua sorella?
– Lei sí, vorrei rivederla.
– Davvero vorresti rivederla?
– Sí, per chiederle perché.
– Solo questo vorresti chiederle?
– Sí, Trina. Solo questo.
Capitolo undicesimo

Avevo perso il conto dei giorni.


Chiedevo a Erich quando saremmo
partiti per raggiungere il maso. Lui
rispondeva che non era ancora il
momento giusto e io restavo di
malumore perché volevo andarmene
via. Quando gli chiedevo come
avremmo fatto a sapere a che punto
era la guerra rideva dicendo che non
erano passate nemmeno due
settimane.
La carne sotto sale finí. Finí la
polenta, finirono le gallette. Finí il
formaggio, finirono i biscotti. Erich
scendeva e spariva per ore. Io
restavo sola su quella cima a
guardare la valle e sentivo una
vertigine strana, una pausa del vento
che mi immobilizzava. Riusciva a
recuperare dai contadini un trancio
di speck o un pezzo di formaggio,
ma si mangiava sempre meno e il
suo viso era ancora piú cadaverico,
incavato sotto la barba ispida. Le
marmotte le beccava immobili come
statue, colpendole alle spalle col
bastone. Erano la nostra festa, le
marmotte. Accendevamo il fuoco
sotto la graticola e arrostivamo la
carne che poi mangiavamo fino a
sbiancare gli ossi. Mi sentivo ancora
selvatica, ma non abbrutita come
quando lui era al fronte.

Una mattina che Erich andò a


caccia mi misi a seguire il corso di
un greto. Pensavo come un’illusa di
trovare dei pesci e a malapena
riuscii a riempire la borraccia di
schegge di ghiaccio. Quando trovai
la casa di un contadino bussai. Mi
aprí una donna a cui raccontai che
eravamo disertori che cercavano di
arrivare in Svizzera. Rimediai una
latta di zuppa e un fiasco di vino. Le
giurai che sarei tornata a pagarglieli.
Mi avviai vittoriosa verso la grotta,
immaginando le labbra livide di
Erich sorridermi soddisfatte. Con la
bocca piena avrebbe detto «manca
un giorno in meno» e avremmo
bevuto il vino, godendo di sentirlo
scendere nello stomaco.
Risalivo lenta tra gli alberi. I
passi affondavano nella neve secca
come sale vecchio. Pensavo a Erich
che la stava spalando perché quella
era la nostra lotta quotidiana. Ho
sentito delle voci. Voci tedesche che
facevano domande incalzanti.
Aggressive, urlate. La grotta era a
dieci passi da me. Mi sono allungata
per vedere. I militari erano di spalle,
ripetevano ossessivamente
«partigiano?», «disertore?» Erich
non rispondeva. Mi sono acquattata.
Due uccelli mi fissavano da sopra i
rami. Ho adagiato la pancia nella
neve, il freddo m’intirizziva il seno.
Li vedevo bene adesso.
Continuavano a interrogarlo e Erich
muto. Ho tirato fuori la pistola.
C’erano solo sei colpi. L’ho stretta
con tutte le mie forze. Ho mirato la
schiena del primo, che è caduto con
un tonfo sordo. L’altro si è girato di
scatto e l’ho colpito al petto. Ha
buttato fuori un grido graffiato. Su
quei corpi stesi ho sparato ancora
finché proiettili nella pistola non ce
n’erano piú. Erich era paralizzato
con la schiena sulla roccia. Gli occhi
di pietra che fissavano il mio viso
senza riconoscerlo. L’ho scrollato
come fosse un ramo carico di neve e
gli ho ringhiato tra i denti di
muoversi. Allora mi ha aiutato ad
afferrare le armi dei tedeschi. Una
io, una lui. Ci siamo sporcati del
loro sangue. Abbiamo frugato nei
cappotti e ci siamo intascati le
banconote che abbiamo trovato. Uno
dei due portafogli era pieno di
marchi. Con quei soldi avremmo
comprato da mangiare nelle case dei
contadini e pagato l’ospitalità che ci
avrebbero dato al maso. Abbiamo
trascinato i cadaveri nella grotta.
Sopra quei corpi ho buttato la pistola
scarica e li abbiamo ricoperti di
neve. Quella che sarebbe caduta
nella notte e nei giorni seguenti li
avrebbe sepolti per sempre.
Ci siamo incamminati piú in alto.
Avevamo il passo rapido degli
assassini. La neve che
schiacciavamo e su cui lasciavamo
le impronte era pesante e grumosa.
Nelle mani stringevamo le pistole. Il
cuore ci prendeva a pugni il petto.
– Ci sono altre impronte, – disse
Erich. – Devono essere arrivati
quassú.
Cambiammo direzione.
Marciammo senza parlare. Quando
per terra trovavamo orme di animali
o di scarponi cambiavamo strada. I
geloni ci avevano crepato le mani.
– Dove siamo? – chiesi quando il
sole sparí dietro la montagna.
– Là c’è la frontiera svizzera, –
disse lui.
– E il maso? Dov’è questo maso?
– gridai esasperata.
– Non deve essere lontano, –
disse sperduto Erich.
Le gambe non ci reggevano piú.
Ero sicura che nel giro di qualche
ora saremmo morti. Quando mi
buttai per terra Erich mi ordinò di
alzarmi immediatamente e di non
smettere per nessuna ragione di
camminare.
– Se ci fermiamo moriremo
assiderati.
Non c’erano piú alberi. Non c’era
piú niente sui crinali in lontananza.
Solo neve.
– Guarda lí! – disse Erich, senza
la forza di gridare.
In mezzo al bianco c’era una
minuscola costruzione in pietra. Ci
avvicinammo. Era una cappella
circolare, sul tetto appuntito
spiccava una croce piazzata a mo’ di
pennacchio.
Non si sentivano voci arrivare da
dentro. Erich aprí la porta.
Scattarono in piedi tre uomini.
Gridarono in tedesco qualcosa. Partí
un colpo.
– Non sparate! – urlai.
Alzammo le mani, ma sempre le
mani stringevano le pistole. Erano
diventate un’estensione del nostro
corpo, quelle pistole.
– Non siamo soldati! Non siamo
nazisti né fascisti! –gridai.
Si scambiarono occhiate.
– Siete disertori? – chiese uno di
loro abbassando l’arma.
Facemmo sí con la testa. Ci
ordinarono di mettere via le pistole.
Chiedemmo di fare lo stesso. Il mio
viso, anche se era quello di una
randagia, li rassicurava.
Me li ricorderò per sempre quei
tre. Il padre con quell’espressione
ambigua, il viso da capra e il naso
schiacciato, delle lenti spesse che gli
rimpicciolivano la faccia. I figli
pallidi e stupiti. Mi facevano
pensare a Michael. Loro fuggivano i
tedeschi, Michael dava la caccia a
chi era contro i nazisti. Se fosse
entrato lí dentro li avrebbe uccisi. O
loro avrebbero ammazzato lui.
Mangiavano pane senza sale.
Stavano per accendere il fuoco e
Erich li aiutò. Quando la fiamma
crepitò il muro della cappella
sembrò prendere vita e io come una
vigliacca ringraziavo Dio solo
perché adesso ero al caldo.
Tirai fuori la latta di zuppa e il
fiasco di vino. – Avete visto soldati?
– chiesi mettendo tutto vicino al
fuoco.
– I tedeschi sanno che ci sono
disertori che si rifugiano da queste
parti prima della frontiera, – disse il
ragazzo biondo bevendo il vino.
– Dovete stare attenti a non
scollinare troppo. La polizia svizzera
arresta disertori ogni giorno, –
intervenne l’altro figlio.
Ci raccontarono che la guerra
iniziava ad andare male per Hitler.
La campagna di Russia si stava
rivelando un disastro. A Stalingrado
i morti si contavano a migliaia e le
cantine delle città erano piene di
feriti abbandonati a loro stessi.
Dissero che loro stavano cercando di
arrivare a Berna dove avevano
parenti che li avrebbero protetti.
Erano di Stelvio. I figli avevano
approfittato di una licenza per
scappare, il padre non si era
presentato all’arruolamento. Come
Erich anche lui aveva combattuto
nelle file italiane e poi della guerra
non ne aveva piú voluto sapere. La
madre era morta anni prima.
– Se fosse stata viva non se ne
sarebbe mai andata dal suo paese e i
nazisti l’avrebbero arrestata o forse
fucilata per causa nostra, – disse
quello piú piccolo.
Io non dicevo niente. Li guardavo
e mi veniva schifo di loro, dei
nazisti, di mio figlio. Uno schifo che
si mescolava al desiderio di averlo al
mio fianco e mettere insieme a lui le
mani vicino al caldo della fiamma.
– Qui sono arrivati i tedeschi, non
vi conviene restare, – disse ancora il
padre. – Per aspettare la fine della
guerra dovete salire piú su.
Troverete altri disertori. Ci sono
rifugi e capanni per il fieno.
– Non fa piú freddo di quanto ne
faccia qui, – disse il ragazzo biondo
per rassicurarci.
Ci offrirono un caffè di cicoria e
quella sbobba amarognola mi
sembrava cosí buona da buttarci la
faccia dentro. Diedero da fumare a
Erich, che non aveva piú tabacco ed
era cosí contento di quella sigaretta
sgualcita che si teneva il piú
possibile il fumo nel petto. Uno dei
figli svuotò la tazza e se ne andò
sulla soglia con la pistola.
– Fra tre ore ti do il cambio, –
disse il fratello che rimase seduto.

La mattina mi svegliai col


ragazzo biondo accoccolato sulla
spalla. Prima di andarsene ci
lasciarono un tozzo del loro pane
sciapo. Coi rami ricavammo dei
dischi da mettere sotto le scarpe per
camminare nella neve. Erich
rendeva elastici i rami lavorandoli
col coltello e io li legavo con la
corda, strappandola coi denti dal
gomitolo. Ne fabbricammo anche
per loro. Il padre ripeté di salire e di
non aver paura del freddo, poi si
avviò senza salutare nella direzione
opposta alla nostra. Li guardammo
diventare piccoli nel bianco.
Continuava a nevicare e ai piedi
ci eravamo infilati tutte le calze che
avevamo. Mi veniva in mente Ma’,
quando diceva che il freddo ai piedi
è freddo in tutto il corpo. Ci pensavo
spesso a Ma’. La ricordavo sulla
seggiola male impagliata a cucire e
mentre cuciva mai che capissi cosa
le ronzava in testa.
Quando mi girai a guardare la
cappella col crocifisso la neve si era
già ammucchiata sulla porta. Ora
non si poteva piú entrare. Pensai ai
corpi dei due tedeschi che avevo
ammazzato. Attorno a noi non c’era
altro che bianco e rumore di vento.
Capitolo dodicesimo

Camminammo per ore in quel


freddo assassino. Appena smise un
momento di nevicare, ci
imponemmo di mangiare il pane. La
neve ci entrava nelle scarpe
slabbrate. Mentre mangiavamo
Erich scattò in piedi, indicò in
lontananza due uomini. Intascò il
pane e iniziò a correre affannato.
Gridava a squarciagola «Ehi voi!» e
a ogni passo inciampava e ogni
grido moriva in quel deserto bianco.
Io provai a stargli dietro, con quella
maledetta borsa che mi piegava la
schiena. Volevo lasciarmi cadere.
Morire.
– Erich fermati! – gridavo.
Ma lui continuava a correre,
conficcava il bastone per terra e il
bastone s’incrinava facendolo
inciampare.
– Non li prenderemo, Erich,
fermati! – urlai ancora.
Allora mi venne vicino e mi
minacciò senza fiato: – Dobbiamo
seguire le orme, Trina, prima che la
neve le cancelli. Quegli uomini sono
contadini, sapranno indicarci la
strada.
Le orme infatti ci portarono al
maso. Ci fermammo appoggiati ai
bastoni a guardarlo. Aspettammo
piegati sulle ginocchia che il respiro
si placasse. Sentivo le lacrime
gelarsi.
Quando sulla porta uscí una
donna a spalare, Erich mi spinse
avanti. Tirai fuori il biglietto di
padre Alfred. Mi sembrava che le
gambe cedessero e che i piedi
congelati non li avrei piú mossi.
Salutai con la voce di una bambina
che deve farsi perdonare. La donna
era grassa, coi capelli arruffati che
sembravano spini. Le bastò
un’occhiata per capire che eravamo
disertori.
– Ci manda padre Alfred, il
parroco di Curon, – dissi. Lei non
rispose. – Siamo scappati dalla
guerra. Stiamo morendo di freddo, –
continuai consegnandole il biglietto,
che nemmeno guardò.
Gridò un nome, senza togliermi
gli occhi di dosso. Dalla porta uscí
un vecchio che imbracciava un
fucile. Spuntò un altro uomo e poi
un altro ancora con la tonaca da
prete. Uscí anche una donna che
teneva per mano una ragazza. Erich
allora si avvicinò con le mani in
alto, senza impugnare la pistola. La
neve continuava a caderci addosso.
Nulla è piú impietoso della neve che
ti cade addosso.
Dentro il maso avevano il camino
acceso. Appoggiati ai muri
dell’unica stanza c’erano materassi
sbrindellati su cui dormivano tutti
quanti. Il pavimento era pendente e a
camminarci mi venivano le vertigini.
Avevo la pelle tirata e quei cinque ci
osservavano in un modo che metteva
soggezione. La fiamma emanava un
calore che sembrava bruciarmi le
guance e anche se volevo trattenere
il pianto sentivo che non ne ero piú
capace.
– Siete nazisti? – chiese l’uomo
di mezza età.
– No.
– Siete fascisti?
– Non siamo fascisti.
– Non siamo nazisti né fascisti! –
dichiarò stizzito Erich. – Non siamo
niente, siamo solo contadini. Io non
voglio piú fare la guerra.
– Siamo amici di padre Alfred, il
parroco di Curon, – ripetei io e
finalmente il prete sorrise.
La donna grassa gli consegnò il
biglietto, il prete lo lesse e a quel
punto ci prese le mani, abbracciò
Erich e ci ripeté che eravamo i
benvenuti. Potevamo dare una mano
a procurare il cibo, ad aggiustare la
stalla, anche se di animali adesso
non ne avevano piú. La donna grassa
li aveva venduti a una fiera, convinta
che in guerra servissero i soldi.
– E invece in guerra i soldi non
valgono niente, – concluse
sospirando il prete.
– Siamo amici di paese, – disse la
figlia del vecchio. – Siamo scappati
da Malles qualche settimana fa.
– Daremo di affitto quello che
abbiamo, – intervenne Erich. –
Sappiamo che per voi è un
sacrificio.
La donna grassa annuí e ci invitò
ad avvicinarci. Il sonno mi
schiacciava e volevo restare sola. Il
freddo che stagnava lí dentro non mi
sembrava nemmeno piú freddo. Le
donne allargarono mezzo sorriso
quando dissi: – Se vi può servire
nella borsa ho una padella, sono
salita quassú col manico conficcato
nella schiena.
La donna grassa rise, poi ci
indicò la porta che dava sul retro. –
Se arrivano i soldati dovete scappare
di qua. Siamo l’ultimo maso, non
cercate altre abitazioni. A un paio di
chilometri da qui inizia la Svizzera.
– Dove dobbiamo scappare se
arrivano?
– A est. Ridiscendere il costone
fino a quando si incontra un filare di
pini. Lí c’è qualche fienile.
Tornammo davanti al fuoco. La
coppia di mezza età ci studiava da
capo a piedi. La figlia si chiamava
Maria. Era muta e per tutto il tempo
restò a fissarci con gli occhi di una
bambola di pezza.
– Per stanotte faremo i turni solo
noi. Domani che sarai riposato
toccherà anche a te, – disse a Erich il
vecchio.
Capitolo tredicesimo

Il mattino dopo pioveva. Il prete


pregava con le mani giunte, avvolto
nel suo abito nero che mi metteva
malinconia. La madre trafficava
dandoci le spalle. Ogni tanto diceva
al figlio: – Hai sbagliato a farti
prete, dovevi sposarti la Francesca.
– Ho sposato Dio, mamma, – le
rispondeva paziente.
Aveva spalle strette e capelli radi,
il prete. Un volto senza età. Occhi
neri come quell’abito che mi
metteva malinconia.
– Possono disertare anche i preti?
– gli chiesi.
Mi mostrò lo stesso sorriso di
compassione, poi disse che lui non
aveva disertato, si era soltanto
rifiutato di obbedire ai nazisti.
– Hitler è un pagano. I sacerdoti
che gli danno retta sono indegni di
Cristo, – disse con la sua voce
calma.
Mi raccontò che il padre di Maria
andava a caccia e passava da un
contadino che gli lasciava sempre
qualcosa. Un paio di salsicce, del
formaggio. Da quando la figlia era
diventata muta nemmeno i genitori
parlavano granché. Due cugini del
padre di Maria una volta ogni dieci
giorni riuscivano a portargli in un
punto segreto della montagna un
sacco di polenta e delle uova. Disse
anche che a Malles nessuno di loro
poteva piú tornare fino alla fine
della guerra.
– Finirà presto la guerra? – gli
chiesi e lui allargò le mani senza
dire parola.
Erich andò fuori e si mise a
parlare col vecchio. Poi si diede da
fare per pulire la stalla, aggiustare le
mangiatoie, sostituire le assi di
legno marcite sotto il peso della
neve. Io domandai alla donna grassa
come potevo rendermi utile. Allora
lei tirò fuori una voce mansueta e
disse che dovevo solo pensare a
riposarmi e che le raccontassi un po’
della mia vita prima che venisse la
guerra. Cosí le raccontai che avevo
studiato da maestra ma i fascisti non
mi avevano mai fatto insegnare e
che avevo fatto anche la contadina e
alla fine una notte ero scappata
quassú perché mio marito aveva
deciso di disertare.
– A furia di star dietro agli
uomini ci faremo ammazzare, –
commentò indicando con un’alzata
di mento il figlio che pregava di
nuovo.
Fuori il cielo era chiaro e una
luce opaca si rifletteva sulla neve. Il
bianco non lasciava spazio a
nient’altro. La donna grassa
rimestava la polenta e nella mia
padella faceva stufare una cipolla.
Ero contenta che usasse la mia
padella.
– La scorsa settimana sono
tornati con il camoscio, un’altra
volta con il fagiano. Abbiamo
mangiato carne anche il venerdí, –
disse soddisfatta. – Chissà se ne
troveranno ancora, a me piace tanto
la carne.
– Abbiamo dovuto mangiarla in
fretta perché le bestie sentono
l’odore, – aggiunse il prete. – La
guardia la notte la facciamo piú per
loro che per i tedeschi. Contro i
tedeschi non potremmo fare niente.
– Verranno quassú? – chiesi.
Lui aprí ancora le braccia e la
madre mi guardò per scusarsi: – È
inutile fare domande ai preti, aprono
solo le braccia, – borbottò. – Anche
da bambino apriva sempre le
braccia. Gli rubavano i giocattoli,
gliele suonavano di santa ragione e
lui al posto che reagire apriva le
braccia.
Si mangiava insieme attorno a un
vecchio tavolo che il prete
apparecchiava con cura. Non si
poteva nemmeno guardare il piatto
prima di aver pregato. «Signore
benedite il cibo che ora prendiamo e
datelo a tutte le famiglie del mondo»
era la sua preghiera. Dopo mangiato
il vecchio si ritirava a lucidare il
fucile e ripeteva che con quell’arma
aveva ucciso decine di italiani nella
prima guerra.
«Finché ho questo fucile vuol
dire che sono austriaco», diceva
sempre.
Erich e il padre di Maria
andavano fuori a fumare e
guardavano il cielo farsi carminio,
poi buio. Erich stava bene in silenzio
con lui. Noialtri restavamo a bere un
bicchiere d’acqua calda che la donna
grassa ci obbligava a mandar giú
perché secondo lei evitava le
congestioni. Immaginavamo la fine
della guerra. Io dicevo che non
vedevo l’ora di cominciare a
insegnare e la mamma di Maria mi
incoraggiava ripetendo che dovevo
essere una brava maestra. Il prete
non aveva sogni, gli bastava tornare
alla sua chiesa e servire di nuovo
messa. Quando parlavamo delle
nostre speranze sorrideva con quel
suo sorriso discreto e a me veniva
voglia di raccontargli di te. Anche la
donna grassa aveva il suo sogno.
Voleva diventare nonna e avere la
casa piena di nipoti.
Ci facevamo cosí prendere dalle
fantasticherie che la tazza nel
frattempo l’avevamo svuotata e ce la
tenevamo fredda tra le mani
fingendo che ci fosse ancora acqua.
Quando gli uomini rientravano
calava un silenzio che ci riportava
coi piedi per terra e ci guardavamo
imbarazzati, come se avessimo fatto
peccato a sognare tanto a lungo.
Erich e il padre di Maria
uscivano di mattino presto e
andavano a cercare le case dei
contadini per vedere se potevano
dare una mano. Aiutavano a
raccogliere il fieno nei teli, se lo
caricavano in spalla e lo
trasportavano nelle stalle.
Rimediavano tranci di speck, pezzi
di formaggio, qualche litro di latte,
che era la felicità mia e di Maria. Se
non cadeva neve andavano a caccia.
A volte incontravano dei malgari che
si trascinavano qualche mucca e che
la notte dormivano nel fieno, piú
spesso altri disertori. Se riuscivano a
superare la diffidenza si
scambiavano notizie che poi a tavola
ci riferivano. Appena loro partivano
il vecchio imbracciava il fucile e si
metteva dritto sulla soglia a fare la
sentinella. Gli veniva una faccia
cattiva. Il vecchio non si sedeva mai
a tavola con noi, rimaneva in piedi
col piatto di stagno stretto in mano.
Lui nemmeno pregava. Mangiava di
fretta e poi diceva che andava a
guardare il cielo per capire il tempo.
Ci stava ore a scrutare il cielo,
paziente come un astronomo.
Io aiutavo a cucinare solo quando
tornavano con la carne. Se no la
donna grassa preferiva che nessun
altro mettesse le mani in cucina.
Quando vedevamo gli uomini
arrivare con un pezzo di bestia uno
solo restava di guardia alle capanne
e anche il prete, dopo aver benedetto
la carne, si metteva a scuoiarla. Poi
fissavamo le assi a terra e la
lasciavamo sgocciolare per tutto il
giorno. A fare le bistecche ci
pensavamo noi donne. Mettendo
sotto sale la carne mi veniva in
mente casa e mi domandavo se i
tedeschi ce l’avessero bruciata o se
l’avessero data ad altri.
Maria ci guardava coi suoi occhi
assenti e non alzava mai un dito.
Aveva i capelli biondo cenere, mani
lunghe e sottili. Era identica alla
madre, che stava sempre in casa col
vecchio e mi guardava in un modo
che metteva soggezione.
Ogni giorno aprivo la porta e
speravo che la neve si fosse sciolta.
Volevo toccare l’erba verde, le rocce
d’argento, la terra pietrosa. Invece,
anche quando arrivò primavera,
trovavo solo quel bianco candido
che mi deludeva. Ascoltavo i tonfi di
neve che cadeva dagli abeti e poi me
ne tornavo dentro. Chiedevo al prete
che giorno era e lui mi rispondeva
paziente con un nome di santo.
Diceva che pregare era il modo
migliore per aspettare la fine della
guerra. Cosí mi mettevo in
ginocchio con lui e lo ascoltavo
ripetere decine di volte la stessa
preghiera.
Una sera, sotto la borsa che usavo
per cuscino, mi fece trovare un
diario e una matita. Credo che per
me sia stato quel diario la salvezza
dal tempo immobile della guerra.
Riempivo i fogli di lettere. All’inizio
le scrivevo a Maja ed erano lunghe
pagine di ricordi di quegli anni sulle
rive del Resia a preparare l’esame di
maturità, o di quando il mercoledí
mangiavamo a cucchiaiate la panna
di Ma’. Poi ho iniziato a scrivere a
Barbara e alla fine di ogni lettera le
domandavo se sua sorella le aveva
consegnato il mio biglietto e la
salutavo giurandole che non avevo
mai dimenticato di quando stavamo
sdraiate sull’erba o sedute tra i rami
come fossimo dei rondoni. Chiedevo
a Erich se mi aiutava a spedirle, ma
lui rideva e diceva che modi di
spedire lettere non ce n’erano perché
eravamo sul cucuzzolo di una
montagna.
Da quando stavamo nel maso
Erich non aveva piú la faccia
cadaverica e si era finalmente
tagliato tutta quella barba ispida
davanti a un pezzo di specchio
appeso al muro. Gli piaceva passare
il tempo col padre di Maria, andare
con lui a caccia e mettersi a tribolare
per sostituire le assi marce della
stalla. Il prete e la donna grassa
dicevano che con uno come Erich ci
avevano guadagnato e quando gli
davamo i soldi per l’affitto ce ne
restituivano una parte. Le volte in
cui Erich e il padre di Maria non
trovavano niente tornavano
masticando ciuffi di tabacco, e
anche se in quelle cene avremmo
bevuto solo la tazza d’acqua calda o
mangiato una poltiglia di erba cotta,
ero contenta che avesse un amico.
Quando arrivò l’estate
scendevano fino al greto e tornavano
con dei pescetti stupidi che poi io e
la donna grassa buttavamo sulla
graticola. Li mangiavo trattenendo il
respiro per non sentire il sapore
rancido che mi lasciavano in bocca.

Il prete dopo le preghiere del


mattino cercava di far pregare anche
Maria. Una volta mi misi di fianco a
loro due e mentre lui pregava
pensavo che fortuna fosse credere
che il disastro della guerra, la
vicinanza continua della morte
rientrassero nelle intenzioni di Dio.
Per me dimostravano solo che per
Dio era meglio non esistere. Tante
volte sono stata sul punto di
confidargli di te, al prete, di com’eri
bella e superba, e raccontargli la
notte che sei scappata. Ma il
pensiero che mi avrebbe risposto
«Dio dà grandi dolori solo a chi li
può sopportare», come una volta gli
avevo sentito dire, mi tratteneva.
Dopo le preghiere chiedevo a
Maria se voleva sedersi con me
davanti al maso. Allora i suoi
genitori le andavano vicino e le
accarezzavano il viso ripetendole
supplichevoli «vai con Trina», come
se dovesse partire per un lungo
viaggio. Quando restavamo sole le
indicavo le pietraie bianche sparse di
pini, gli squarci di terra scura che si
aprivano man mano che la neve si
scioglieva, le gole solitarie, le
macchie di betulle, gli uccelli che
volteggiavano con le ali spalancate
fregandosene delle bombe e dei
soldati. Con me Maria non aveva
occhi assenti ma infantili e giocondi.
Mi indicava tutto quello che vedeva.
Un’aquila che attraversava una
nuvola, il greto coi sassi levigati. Le
piaceva sentir crepitare la neve sotto
le scarpe. Mi rispondeva sí e no con
la testa e si faceva passare le mani
tra i capelli biondo cenere che la
madre, adesso che il sole era tornato,
le lavava con cura. Trascorrevo con
lei quelle giornate infinite, a cui era
difficile dare un senso, e ogni tanto
mi veniva da chiamarla Marica.
Quando invece pioveva stavamo nel
maso e Maria disegnava sul mio
diario. Disegnava cavalli con folte
criniere, cani dal pelo lungo.
– Disegni perché non sai
scrivere? – le domandai.
Allora le presi la mano e la guidai
a comporre il suo nome. A Maria
veniva da ridere a vedere le lettere
che si formavano.
– Ti ricordi adesso?
Faceva sí con la testa, piena di
stupore, e mi prendeva eccitata la
mano pregandomi di scrivere
ancora. Le indicavo i pini, le nuvole,
il sole e poi le facevo scrivere su un
foglio quelle parole. Di fianco lei ci
faceva un disegno e in pochi giorni
creammo un piccolo abbecedario
che Maria mostrava fiera ai genitori
e al nonno.
Quando le dicevo che ero stanca
se ne andava sulla neve e si metteva
ginocchia a terra, poi si alzava in
piedi e soddisfatta osservava le sue
incisioni nel bianco. Io restavo a
guardarla da dentro la capanna e non
so perché ma mi veniva da piangere.
La sera, sdraiata sul letto di
foglie, non volevo addormentarmi
perché sentivo che ti avrei sognato.
Invece quasi sempre sognavo il
ragazzo biondo che mi si era
addormentato sulla spalla e che
veniva a svegliarmi gridando: «Trina
la guerra è finita!»
A volte dicevo a Erich: –
Vivremo qui tutta la vita, poi un
giorno che non ce lo aspettiamo un
tedesco o un italiano verranno e ci
spareranno alla schiena.
Erich allora tirava un respiro e
piú brusco del solito s’infilava i
pugni in fondo alle tasche
cambiando discorso: – Domani
andrò da un contadino a farmi dare
del formaggio, poi potremo
camminare noi due soli.
E invece non camminavamo mai
noi due soli, perché lui si metteva a
parlare col prete e a me piaceva
avere di fianco Maria. E mi sarebbe
piaciuto che venisse con noi anche
la donna grassa, che mi faceva
sempre animo. – Dài che neanche
oggi siamo morti! – vociava ridendo
quando mi assaliva la nostalgia.
Capitolo quattordicesimo

Le rappresaglie dei tedeschi alla


fine del ’44 si intensificarono. Le
poche notizie che ci arrivavano
erano di masi bruciati, disertori
deportati, familiari dei renitenti
sbattuti in carcere. Cosí gli uomini
decisero di fare turni di guardia due
alla volta. Erich e il prete, il vecchio
e il padre di Maria.
Furono loro due che li videro
arrivare. Un giorno di gennaio del
’45. Un gruppo di cinque soldati
intabarrati nei cappotti e con gli
stivali da neve. Il sole era sorto da
poco e noi eravamo già in piedi
perché la donna grassa diceva che
dovevamo sfruttare le poche ore di
luce e ci svegliava battendo le mani.
Il prete era l’unico che si alzava
prima di lei. Dormiva meno di tutti e
in piú di un anno non l’ho mai visto
una volta a letto. Si addormentava
per ultimo e quando aprivo gli occhi
aveva già addosso la tonaca.
La donna grassa stava scaldando
un rimasuglio di caffè d’orzo, il
prete era davanti al camino che
attizzava il fuoco. D’improvviso il
vecchio spalancò la porta: – I
tedeschi, i tedeschi! – urlò con voce
sguaiata. Alla donna grassa cadde il
pentolino.
– Ti hanno visto?
– Non mi hanno visto ma saranno
qui a minuti!
– Ci sono i biscotti e le gallette
nel sacco appeso alla porta! – gridò
lei spingendoci fuori dal retro. –
Uscite tutti, presto! Andate a est,
dopo i filari di pini ci sono i fienili.
– E tu? – le domandò il prete.
– Io vi raggiungerò.
Il vecchio camminava in quella
neve granulosa senza fatica e ordinò
di formare due gruppi. Spinse piú
avanti il suo – con Maria e i genitori
– e si raccomandò di non perderci di
vista e di stare pronti a sparare. Ogni
tanto Erich si girava a controllare
che i soldati non ci inseguissero e si
scambiava segni d’intesa col padre
di Maria. Dopo pochi passi sentivo
già le gambe pesanti. Pensavo che
quelle bestie stavano malmenando la
donna grassa o forse l’avevano già
uccisa. E a pensare cosí mi veniva
voglia di sparare ancora.
Il prete a un certo punto si bloccò
e chiese di fermarci a pregare. Il
vecchio gli rispose di non dire
idiozie. Allora il prete si avvicinò a
me e disse che lui quelle montagne
le conosceva palmo a palmo perché
da piccolo con suo padre e sua
sorella arrivavano fin lassú.
– Verrà tua madre?
– Se non le fanno niente verrà. È
diventata pesante ma ha ancora
gambe forti.
Quando arrivammo al fienile il
vecchio ci ordinò di scandire a voce
alta «pace» per farci sentire da chi
c’era dentro. Erich mi indicò orme
di scarponi per terra. I tedeschi
erano passati anche di là. Il fienile
infatti era vuoto, il tetto sfasciato in
un punto, la porta forzata. Per terra
c’erano dei giacigli di foglie fradicie
e steli di fieno sparpagliati.
– Hanno cominciato a rastrellare
dall’alto, – disse il padre di Maria. –
Se ci trovano ci ammazzano.
– Non ci troveranno, – gli rispose
il vecchio mettendolo a tacere, – a
quest’ora saranno già a valle.
Entrammo nel fienile uno alla
volta. Ci stringemmo come conigli e
il padre di Maria teneva le mani
della figlia dentro le sue. Restammo
in silenzio. Quando venne sera il
prete ci chiese di nuovo di pregare e
noi lo accontentammo. Ripetemmo
svogliatamente le sue parole. Maria
mi guardava coi suoi occhi vani.

La donna grassa arrivò la


mattina. Col passo lento e un sorriso
furbo sulle labbra crepate dal freddo.
I pensieri di morte che non ci
avevano fatto riposare nonostante
fossimo distrutti per un momento
sparirono.
– Dio ti ha fatto arrivare fin qui!
– esclamò il prete correndole
incontro.
– Macché Dio, sono state queste
vecchie gambe! – gridò ridendo.
Corremmo anche noi ad
abbracciarla e lei ci scaricò tra le
braccia le poche cose che era
riuscita a portarsi. Un fascio d’erba
da cuocere, un pezzo di lardo, un
sacchetto di polenta e un fiasco di
vino.
– Non vi illudete. Basteranno
solo per oggi, al massimo per
domani.
Entrò nel fienile e anche davanti
a tutto quello squallore non
sembrava abbattuta. Disse che di
freddo certamente non saremmo
morti. Io la guardavo e mi sforzavo
di sorriderle. Quella sua grinta la
invidiavo piú della fede del prete.
– Cercavano te, i tedeschi, – disse
al figlio in tono di rimprovero. – Se
ti sposavi la Francesca queste cose
non succedevano.
– Ho sposato Dio, mamma, – le
ripeté il prete.
– Hanno controllato che non
nascondessi disertori. Hanno frugato
nei cassetti e negli armadi, – disse
ancora e tirò un sorso di vino dal
fiasco che poi fece passare di mano
in mano. – Ma non mi hanno
creduto… – concluse sconsolata. –
Quando hanno visto quei materassi
appoggiati al muro mi hanno giurato
che sarebbero tornati.
Restammo a guardarci senza
parlare e lei, per scacciare quel
pensiero, tagliò a ciascuno un tocco
di lardo: – Prima di togliersi dai
piedi hanno rovistato nella credenza
e si sono intascati quel poco che
c’era. Per fortuna non si sono accorti
dei sacchi di polenta. Domani uno di
voi andrà a prenderli e ci dirà se
possiamo tornare, – concluse
masticando il lardo.
– Torneranno secondo te? – le
chiese Erich.
– Spero che crepino! – rispose.
Con la donna grassa pensavo
meno alla paura. Forse a furia di
starle vicino anch’io un giorno sarei
diventata cosí. Materna con gli
estranei, distaccata dalle mie cose,
fossero pure la casa, il cibo, il caldo
del camino.
Dopo aver mangiato il lardo
Erich e il padre di Maria andarono a
far legna e il vecchio si mise di
nuovo dritto sulla soglia. Strinse il
fucile e lo tenne puntato contro la
discesa da cui eravamo arrivati la
sera prima.
Il fuoco faceva fatica a rimanere
vivo perché i rami che riuscirono a
recuperare erano bagnati di brina.
Nel fienile si alzavano strisce di
fumo da far tossire.

Appena spuntò l’alba il vecchio


partí da solo per il maso.
– Vengo con te, – gli disse col
suo sguardo opaco il padre di Maria.
– Rimani qui. Non ha senso
morire due alla volta.
Tornò che già era sera. Nel buio
sentimmo ripetere «pace», poi la
porta scassata si aprí. Entrò lui col
suo passo pesante e senza parlare
andò a sedersi vicino alla nipote,
appoggiò il fucile per terra e si
strofinò le mani sulla fiamma.
– Il maso e la stalla non ci sono
piú. Quei bastardi ce li hanno
bruciati.
Capitolo quindicesimo

Vivemmo accampati nel fienile


per quasi tre mesi. Maria prendeva
continuamente la febbre e io
sognavo di trovarla morta sulla
paglia consumata. Smagriti, ossuti,
con le facce scavate. Cosí ci
eravamo ridotti. L’unico aspetto
positivo era che la prostrazione
toglieva spazio alla paura.
Mangiavamo qualche bacca di
ginepro, erba cotta, poco altro. Tanti
giorni siamo rimasti a digiuno. I
cugini riuscivano a lasciarci sempre
meno polenta. Ce ne usciva una
mestolata a testa a pranzo e cena,
poi di nuovo eravamo in balia di
quel che gli uomini riuscivano a
rimediare. Contadini disposti a
vendere un pezzo di carne o di
formaggio, del resto, non se ne
trovavano piú. Chi era scampato alle
rappresaglie non faceva avvicinare
nessuno, e anche a mettergli una
mazzetta di soldi sotto il naso ti
rispondeva che valeva di piú una
vecchia gallina.
A fine aprile il padre di Maria
andò con Erich a incontrare i cugini.
Morire per morire era meglio un
colpo di pistola in testa piuttosto che
farsi rodere dalla fame o sbranare
dai lupi. Non potevamo piú vivere
senza un conto alla rovescia, un
brandello di tempo a cui aggrapparci
per resistere ancora lassú. Giorno
dopo giorno il resto del mondo si
cancellava dalla nostra memoria.
Quella volta, oltre alla polenta,
gli lasciarono dello zucchero e una
fiaschetta di sidro. Ma soprattutto
dissero che la guerra era agli
sgoccioli.
– Gli americani stanno liberando
tutta Europa. Hitler sta per cadere, è
questione di poco, forse di
pochissimo! – annunciarono. –
Tenete duro, la prossima volta
potrete venire con noi!

Erich e il padre di Maria li


vedemmo arrivare passandosi la
fiaschetta. Ridevano sotto le barbe
ispide. In capanna ci abbracciammo
tutti e il vecchio sollevò in aria il
fucile. Poi la donna grassa mise a
bollire l’acqua e disse che voleva
fare la polenta dolce per festeggiare.
– Ce ne esce una bella
cucchiaiata a testa! – esclamò
entusiasta pesando il sacco tra le
mani.
– Ti aiuto? – le chiesi.
– Tu vai con Maria a fare due
passi che vi fa bene, – mi rispose.
La ragazza era sulla porta e mi
guardava come una cagna. Ci
avviammo verso i pini. Dietro di noi
camminavano Erich e il prete,
intenti anche loro a immaginare il
ritorno a casa. Maria era bella con al
collo la sciarpa che le avevo
regalato. Quando la guardavo
pensavo che forse le assomigliavi.
Non si poteva variare il percorso
delle passeggiate perché eravamo
d’accordo cosí. Almeno, in caso uno
di noi non rientrasse, sapevamo
dove andare a cercarlo. Quando
siamo arrivati al solito greto tutti e
quattro, come sempre abbiamo
raccolto foglie fresche per avere
nuovi pagliericci sotto la schiena.
Maria voleva sfidarmi ai cavalieri,
usando i rami come spade. Ero
diventata la sua compagna di giochi.
Quella mattina abbiamo fatto un giro
piú lungo del solito. Siamo rientrati
che il sole era alto. Avevamo come
sempre fame e Maria si premeva
l’indice sulla guancia al pensiero
della polenta con lo zucchero.
Nella capanna il corpo della
donna grassa sembrava quello di una
bambina senza pensieri. Adagiato
sulle assi del pavimento, che per il
tonfo del peso si erano spaccate. Il
sangue continuava a colare lento
dalla nuca. Formava strani disegni
per terra. Il vecchio crivellato di
colpi stringeva il suo fucile e la
mano della figlia gli stava sul petto.
Il padre di Maria l’avevano ucciso
nel sonno, disteso sulle foglie
vecchie che avremmo sostituito con
quelle appena raccolte. La sua
coperta era zuppa di sangue.
La sera il prete ha detto la messa
e io mi sono allontanata per non
ascoltarla. Mentre parlava ho fatto la
guardia con la pistola fuori dalla
porta. Ho sentito di nuovo l’odore
del sangue. La voglia di uccidere.
A turno abbiamo scavato la fossa.
Li abbiamo distesi uno sull’altro
perché ci mancavano le forze per
scavarne quattro.
Nelle notti che seguirono anche il
prete imbracciò il fucile e non
pregava piú inginocchiato. Credo
che pure lui sentisse l’odore del
sangue. Maria dormiva di fianco a
me. Le raccontavo fiabe sui gabbiani
e sul mare che non avevo mai visto.
La imploravo di mandare giú
qualche cucchiaio di polenta dolce
che aveva cucinato la donna grassa
ma lei rifiutava ostinata.
Siamo rimasti senza parlare.
Completamente senza parlare fino a
che Erich è tornato nel posto segreto
dove i cugini lasciavano le
provviste. Quel giorno di maggio gli
dissero che potevamo scendere. La
guerra era finita.
Parte terza
L’acqua
Capitolo primo

Con la mano stretta a Maria e i


piedi puntati a terra, quella terra che
diventava a ogni passo piú verde e
bionda di sole, discendemmo dalle
montagne. Ci lasciavamo alle spalle
il freddo, la neve che lassú ancora
cadeva, gli amici nella fossa. Erich
camminava davanti a noi e il prete
teneva a tracolla il fucile del
vecchio. Non ne aveva piú ribrezzo.
Una delle ultime notti l’avevo
sentito agitarsi nel sonno. La sua
pace era finita, come quella di tutti.
Arrivati al vallone da cui
cominciavano i sentieri il prete si
fermò e disse: – Noi andiamo di là.
Proseguiamo per Malles.
Maria liberò dalla mia mano le
sue dita sottili e mi guardò un’ultima
volta coi suoi occhi stupiti.
– Starà con me. Terrà in ordine la
chiesa, suonerà le campane. Avrò
cura di lei, – disse.
Li vedemmo sparire nel fitto
degli alberi. Una strana luce passava
tra le foglie.
Scendemmo in silenzio, io e
Erich, soli come quando eravamo
saliti. Gli tenni la mano fino a
quando spuntò Curon. Alla fine del
bosco ci guardammo intorno
circospetti, indecisi se infilare le
pistole in tasca o tenere ancora il
dito sul grilletto. Le nuvole si erano
dileguate e il cielo era una monotona
distesa di azzurro intenso e di luce
festosa. La gente era sparpagliata
per le strade, come se la guerra fosse
stata un incubo dissolto dal giorno.
Mi sembrava di sentire odore di
pane caldo.
Quando vidi casa le gambe
presero a correre. Volevo subito
spalancare le finestre per fare entrare
nelle stanze l’aria che non era piú
aria di guerra. Sulla porta mi girai a
guardare il paese. Le bestie erano in
mezzo alla valle e sul limitare del
bosco i carri di chi trasportava il
fieno novello gli stessi di sempre.
Erich mi fissava con occhi rossi di
stanchezza. La sua barba era bianca
e spinosa.

Tutto sciancato sulla sedia, la


sigaretta spenta tra le dita. Cosí
ritrovammo Michael. Sembrava che
fosse lí ad aspettare la morte. Sul
tavolo c’erano ciuffi di tabacco,
l’immaginetta del führer rovinata e
rugosa.
– Devo andarmene? – chiese
senza guardarci.
– Tira via quella foto, – gli ordinò
Erich.
Michael me la consegnò e
finalmente alzò la testa.
– È morto, – disse indicando
Hitler.
Aveva la pelle tirata e le spalle
flosce. I suoi abiti odoravano di
nafta.
– Non sono riuscito a venirti a
dire la strada, mi hanno fatto partire
di notte.
– Adesso vatti a cambiare, – gli
dissi.
Di là Erich già dormiva, non si
era nemmeno tolto i vestiti lerci.
Dormí per due giorni di fila. Io
spazzai le ragnatele lanose appese
agli angoli dei muri, le mosche
morte incollate ai vetri e uscii a
comprare a credito pane e latte.
Avevo tanta voglia di latte caldo.
Andai ai masi di Florian e Ludwig a
chiedere se erano vivi, se erano vive
le bestie che gli avevamo lasciato. E
tutto, miracolosamente, c’era.
Trascinai le mucche e le pecore
alla fontana, poi le portai in stalla.
Cacciai i topi a botte di scopa, andai
a procurarmi qualche sacco di fieno.
Per le strade camminavano gli
storpi. Senza una gamba, senza un
braccio, con un occhio ferito.
Avevano visi irriconoscibili. Si
appoggiavano alle stampelle e mi
facevano girare la testa dall’altra
parte per la vergogna di averla
scampata. Loro sotto le bombe,
dietro le mitraglie, io e Erich davanti
al camino della donna grassa. C’era
anche chi festeggiava bevendo birra
per strada. Chi parlava di pestare
quei pochi che nel ’39 se n’erano
andati nel Reich e che adesso, con
gli occhi bassi e senza cittadinanza,
erano rientrati a Curon. E c’era chi
all’osteria bestemmiava perché
saremmo rimasti italiani. L’impero
austriaco non esisteva piú. Il
nazismo non ci aveva salvato. E
anche se il fascismo era finito non
saremmo piú stati quelli di prima.
Avevo voglia di andare ad
abbracciare Maja e nello stesso
tempo di restare nascosta perché non
ero piú la Trina che conosceva.
Avevo mangiato il ghiaccio per
dissetarmi. Avevo sparato alla
schiena. Mi feci forza e presi quella
strada di ciottoli e ghiaia che si
snodava tra l’erba ispida. Bussai al
maso.
– Se n’è andata l’anno scorso, –
disse la madre senza riconoscere la
mia faccia. – Fa la maestra in
Baviera.
Volevo spedirle le lettere che le
avevo scritto in montagna, ma alla
fine me le sono tenute. Certe sere
me le rileggevo come avevo fatto
col tuo quaderno, poi una notte che
non riuscivo a prendere sonno le
strappai insieme a quelle per
Barbara. Le parole non potevano
niente contro i muri che aveva alzato
il silenzio. Parlavano solo di quello
che non c’era piú. Tanto valeva che
non ne rimanesse traccia.

Riprendemmo la nostra vita di


sempre, che era una vita dura.
Avevamo solo una mezza dozzina di
pecore e tre mucche. Ci manteneva
Michael, che riaprí la bottega di Pa’.
La nostra salvezza fu la distruzione
che aveva portato la guerra. Tutti
avevano bisogno di tavoli, sedie,
mobili, banchi. Erich passava a
dargli una mano, cosí a zappare
l’orto e a pascolare le bestie, in
quell’estate del ’45, ci andai di
nuovo io. Mi ritrovai un’altra volta
sola nei campi a mangiare pane e
formaggio. Guardavo le valli
smisurate, le mucche pigre che
brucavano l’erba pettinata dal vento.
Mi sentivo indolenzita, come se
avessi ancora la neve alle calcagna.
Come se dormissi ancora sulle foglie
fradicie. Al pascolo gironzolava un
vecchio cane dal pelo rosso, mi
leccava le mani e si accucciava di
fianco a me. Io gli accarezzavo la
coda, ogni tanto gli tiravo qualche
tocco del mio mangiare. Girava
attorno alle mucche e le mucche gli
obbedivano. Lo chiamai Fleck e
decisi di portarlo con me, mi
avrebbe fatto bene un po’ di
compagnia.
Una mattina ti ho vista tra gli
alberi. Eri ancora bambina. Ho
lasciato le bestie al cane e ti ho
inseguita. Ti chiamavo ma tu
continuavi a camminare a passo
lento, con la schiena dritta. Avevi
addosso solo una maglietta ed eri a
piedi nudi. Io acceleravo, ti
inseguivo, correvo a perdifiato
gridando il tuo nome. La mia voce
sgolata si perdeva tra il frusciare dei
larici. La distanza tra noi, anche se
tu camminavi lentamente, rimaneva
sempre la stessa. Ho corso finché
senza respiro e con le gambe
traballanti mi sono appoggiata a un
albero. L’ho colpito coi pugni,
gridando che era tua la colpa della
nostra miseria, del nazismo di
Michael, dei proiettili che avevo
sparato ai tedeschi. Tua e solo tua
era la colpa. La colpa di tutto. E me
ne sono andata giurando che a casa
avrei buttato i tuoi giochi. Quella
bambola di legno che ti aveva fatto
Pa’ l’avrei gettata nella stufa.
Capitolo secondo

La domenica Erich andava a


messa. Certe volte lo accompagnavo
e ci sedevamo sulla panca in fondo,
dove stavo tanti anni prima con
Maja e Barbara.
Un giorno mi disse: – Dài, monta
sulla bicicletta, – e pedalò fino al
cantiere.
Fleck ci seguiva e quando
arrivammo ci guardò con la lingua
di fuori. Si sentivano le poiane, il
ruscello, l’abbaiare dei cani. La luce
del sole impregnava ogni cosa
tranne l’ombra sottile degli alberi.
Erich si mise a fumare e con gli
occhi stretti osservava lo
sbarramento artificiale, le cave
abbandonate, qualche vecchia
baracca con le assi spezzate dove un
tempo stavano ammassati i
manovali.
– Forse avevano ragione gli altri,
non potevano farla, – gli dissi.
– Abbiamo avuto fortuna, Trina.
Ci guardammo tirando lunghi
respiri e Erich non sapeva se
abbracciarmi in mezzo a quello
sfasciume o restare chiuso nella sua
diffidenza.
– Quando porteranno via tutto, –
disse indicando le gru e i mucchi di
terra, – quando colmeranno i fossati
e vedrò ricrescere l’erba, allora
potremo davvero dimenticarcene.

Giorno dopo giorno alla bottega


di Michael arrivavano commissioni
di mobili e i prezzi bassi non
facevano ritardare troppo i
pagamenti. Io avevo finalmente
iniziato a insegnare – adesso in
Sudtirolo c’erano due scuole: una
italiana e una tedesca – e lo
stipendio da maestra, insieme al
guadagno della falegnameria, ci
faceva vivere piú decorosamente.
Erich diceva: – Appena
metteremo via qualche soldo
comprerò altre vacche, le farò
ingravidare e avremo le stalle piene
di vitelli. Manderemo gli animali di
nuovo in alpeggio e alle fiere li
venderemo a buon prezzo.
Anche noi, come tutti, eravamo
stremati dalla guerra e nello stesso
tempo pieni di voglia di rinascere.
Nelle giornate in cui ci sentivamo
piú forti ci piaceva immaginarci a
casa ad ascoltare la pioggia che
picchia sul tetto e noi al caldo a
raccontarci storie davanti alla stufa
di maiolica. Senza piú affanni.

Michael e Erich stavano attenti a


trattenere le parole. Michael
continuava a rimpiangere il führer e
in quegli anni ha aiutato diversi
gerarchi a procurarsi passaporti falsi
per espatriare in Sudamerica. Erich
l’aveva riaccolto in casa senza fare
storie, ci mangiava e lavorava
insieme, ma non ha mai ripreso a
volergli bene. La vita era una
questione di idee prima che di
affetti.
Una sera Michael portò a casa
una ragazza di Glorenza. L’aveva
conosciuta perché il padre era
venuto a far aggiustare delle sedie.
Dissero di volersi sposare. Lei
avrebbe dato una mano a gestire la
contabilità della falegnameria come
avevo fatto io quando ero giovane.
Era una ragazza dai modi compiti,
chiedeva sempre scusa prima di
parlare e tutte le frasi le iniziava
dicendo «secondo me». Si chiamava
Giovanna.
– Vorremmo vivere nel maso dei
nonni, – disse Michael.
– Devi chiedere a Ma’, – risposi
frettolosamente. Non ero ancora
riuscita a capire se stava bene e se
abitava sempre a Sondrio dal Peppi.
Michael fece sí con la testa e con
tono sicuro disse: – Andrò a
cercarla. Voglio che la nonna venga
al matrimonio.
Pensavo dicesse tanto per dire,
invece un giorno a Sondrio ci andò
davvero e mi portò con sé. Ci
fermammo in un’osteria a mangiare
e mi trattò come una regina. Mi
versava il vino e se gli rispondevo
che mi girava la testa rideva e me ne
versava ancora. Mi sembrava irreale
essere lí con Michael, a quel tavolo
attaccato al muro di un’osteria
sconosciuta, sotto la luce ombrosa di
una lampada che si smorzava sui
nostri corpi. Restavo a guardargli il
viso, gli occhi umidi e grandi che
sembravano quelli di un ragazzotto
imbronciato. Parlavamo di quanto
era buona la carne, di quanto era
bello il posto, ma oltre a questo non
sapevamo che dirci. Forse perché
dopo la guerra, insieme ai morti,
bisogna seppellire tutto quello che si
è visto e che si è fatto, scappare a
gambe levate prima di diventare noi
stessi macerie. Prima che gli spettri
diventino l’ultima battaglia. Ero
contenta di quel nostro parlare di
niente. Del resto, anche se Michael
fosse stato il piú nero assassino io
non avrei saputo fare altro che
restare al tavolo con lui e continuare
a mangiarci di fronte. Confessargli
che anch’io avevo ucciso.
– Non mi hai perdonato, vero? –
disse scansando il piatto. – Lo so
che non ci credi ma davvero sarei
venuto a dirti la strada, – e
sparpagliò imbarazzato la fetta di
torta nel piatto.
Non ero sicura che fosse sincero
ma non m’importava piú la verità.
Anzi, era l’ultima cosa di cui
m’importava. – Avevo paura che ti
facessero del male quando hanno
scoperto che eravamo fuggiti, – gli
dissi.
– Non me ne hanno fatto solo
perché ero un volontario.
Ce ne andammo che l’osteria era
ormai vuota. Mentre la macchina
correva veloce Michael mi chiese se
mi ricordavo di quando era piccolo e
mi raccoglieva le genziane facendo
dei mazzetti che io non sapevo mai
dove mettere. Intanto mi indicava
dov’erano i posti di blocco dei
tedeschi e quanti soldati con le
mitraglie fino a poco tempo prima
c’erano là in giro. Mi raccontò anche
dei partigiani che aveva catturato nei
boschi delle valli di Comacchio e
dei commilitoni che i partigiani gli
avevano ammazzato sotto gli occhi.
– Nemmeno ci hanno voluto
ridare i corpi degli amici, – disse
digrignando i denti.
In piazza Garibaldi a Sondrio
c’era viavai e anche lí la gente aveva
la faccia di chi non pensa piú alla
guerra. Se Pa’ fosse stato vivo
avrebbe finalmente sentito anche lui
aria di pace.
Girammo per le botteghe.
Michael apriva le porte di vetro, si
sporgeva e lasciava parlare me, che
in italiano domandavo: «Sapete
dove abita la famiglia Ponte?»
Ma di Ponte a Sondrio ce n’erano
un’infinità e cosí girammo ore.
– Forse non li troviamo perché
sono morti, – dissi prendendogli il
braccio.
– Sei diventata come papà, vedi
solo il nero delle cose, – mi rispose
seccato guardando avanti.
Quando smettemmo di cercare si
era fatto buio. Michael disse che non
avremmo fatto in tempo a rientrare a
Curon. Mi portò in un’altra trattoria
ma presi solo una tazza di latte.
Parlammo con l’oste e gli spiegai
che non era possibile che in tutte le
botteghe della città nessuno
conoscesse questi Ponte.
– Come si chiama la moglie di
vostro fratello? – mi chiese.
– Irene, – risposi.
Corrugò la fronte, ripeté tra sé e
sé quel nome, poi d’un tratto picchiò
la mano sul bancone e disse di aver
capito. – I Ponte che cercate voi
sono andati in Svizzera. Conosco
bene la famiglia, sono scappati a
Lugano nel ’44. Non credo che
torneranno.
L’oste ci diede una camera, io e
Michael non avevamo neanche un
pigiama. Ero imbarazzata a dover
dormire nel suo stesso letto. Quando
ci coricammo pensavo che mi
avrebbe parlato di questa Giovanna
che si voleva sposare e che avevo
visto di sfuggita una volta sola,
invece appena spense la luce si
addormentò di sasso.

Partimmo all’alba. Quando


arrivammo a Lugano il cielo bigio si
rifletteva sull’acqua piatta del lago.
Al municipio ci dissero dove
abitavano. Ma’, sua cugina Teresa,
Irene, il Peppi e un bambino
piccolissimo erano pigiati in una
casa di periferia. Una casa
minuscola, piena di crepe spioventi
sulla facciata. Ma’ abbracciò
Michael e gli disse ridacchiando: –
Pensavo ti avessero ammazzato –. A
me salutò come se ci fossimo viste il
giorno prima, accarezzandomi
appena il viso. Il Peppi era il padre
piú imbranato del mondo e quando
dava da mangiare al bambino quello
puntualmente gli sputava addosso la
pappa.
Bevemmo il caffè – un caffè
vero, non d’orzo, non di cicoria – e
dopo che Michael annunciò il suo
matrimonio Ma’ mi prese da parte e
mi disse: – Trina, io resterò qui. Tuo
fratello ha bisogno di una mano, mia
cugina è sola e qui c’è pace. Anche
voi fareste bene ad andarvene da
Curon.
Della vita nelle capanne, di Erich
che aveva disertato, di me che avevo
sparato ai tedeschi non mi chiese
niente. Era diventata vecchia Ma’,
aveva gli occhi scoloriti e la faccia
rugosa come una foglia secca.
Eppure ancora stringeva i pugni,
ancora lottava per non farsi derubare
i giorni dai troppi pensieri.
«Sono tenaglie i pensieri, lasciali
perdere», diceva quando lavavamo i
panni al fiume o certe sere che
andavamo avanti a rammendare fino
a tardi.
Curon e il maso erano sí la sua
vita, eppure dai ricordi, persino dalle
radici, Ma’ se ne sapeva staccare un
attimo prima che la rendessero
prigioniera. Non si perdeva mai
come fanno i vecchi in racconti
d’altri tempi, e anche quando
parlava di Pa’ piú che rievocare certi
momenti sembrava rimproverargli di
essersene andato alla chetichella,
lavandosene le mani di lei che da
sola aveva dovuto continuare a
vivere. Davvero era una donna
libera, Ma’.

Al matrimonio venne qualche


amico di Michael, le cugine di
Giovanna, un po’ di gente dagli altri
masi. Erich parlò per tutto il pranzo
col padre di Giovanna. Diceva di
Michael che era un testardo ma
aveva il cuore largo. Mangiammo da
Karl, che cucinò il castrato e
scaraffò delle vecchie bottiglie. Le
cugine di Giovanna ballarono e
fecero fare un giro di walzer anche a
Ma’, che aveva i lucciconi, felice
com’era di consegnare il suo maso
agli sposi.
– Se non ve lo prendevate voi se
lo prendevano i topi, – disse tenendo
le loro mani.
Dalle finestre dell’osteria si
vedeva Curon e mai mi era sembrata
cosí bella. Io e Erich eravamo di
nuovo al caldo, la guerra era finita e
non aveva ucciso nessuno dei pochi
che avevo. Era difficile da accettare,
ma tutto era alle spalle. Dovevo solo
non pensarti piú.
Capitolo terzo

Un giorno di gennaio del ’46.


Una nebbia gelida galleggiava
nell’aria. Per le strade le donne
tornavano dal mercato camminando
rasenti ai muri, con le sciarpe sul
naso. I contadini nei campi
lasciavano la zappa per alitarsi nelle
mani chiuse a coppa e contavano le
ore per rientrare e mettersi davanti
alla stufa. Portò la notizia un
venditore di frutta che prima di
andarsene si beveva un paio di
bicchieri all’osteria di Karl.
Infilammo gli scarponi e
corremmo a vedere. Erich
camminava trafelato, io guardavo la
neve. Avevano ripreso a scavare.
Erano arrivate decine di trattori, le
gru scucchiaiavano terra sui camion
carichi fino all’orlo per andarla a
depositare su un vallo che si
innalzava a vista d’occhio. Davanti a
noi si apriva una buca immensa. Il
fossato piú grande e profondo che
avessi mai visto. I livellatori
delineavano il letto del canale. Piú in
là altre centinaia di manovali sbucati
in un baleno da chissà dove
montavano i capannoni che
sarebbero diventati magazzini e
officina, mense e ricoveri, uffici e
laboratori. Dappertutto scuoteva
l’aria un rumore di ferri e rombi di
marmitte. Erich mi chiese di
domandare a quegli italiani chi li
aveva mandati, da quanto tempo
avevano ricominciato i lavori. Io,
appena uno di loro si avvicinava,
glielo chiedevo ma quelli alzavano
un momento la testa e riprendevano
a sgobbare senza rispondermi.
A lato del cantiere c’era una
capanna con la porta aperta. Si
vedeva un tavolo e sopra il tavolo
faldoni e pile di fogli.
– Non potete entrare, – disse in
tedesco un uomo col cappello sugli
occhi, i denti che mordevano il
sigaro.
– Sono ripresi i lavori?
– Pare proprio di sí, – rispose
sardonico.
La porta sbatté. Due carabinieri ci
ordinarono di stare alla larga e non
oltrepassare la linea di sbarramento.
Tornando verso casa tenevo gli
occhi ancora piú bassi. Se il governo
italiano aveva di nuovo mandato i
manovali a costruire la diga allora
un giorno sarebbe tornato anche il
duce e la guerra e Hitler e la vita da
disertori con la neve alle calcagna e
insomma era vano illudersi che il
passato prima o poi rimanesse alle
spalle. Era destino che restasse una
piaga che non si rimargina.
Erich andò subito a fare il giro
dei masi. Raccontava concitato
quello che aveva visto. La fossa
immensa, le centinaia di manovali, i
carabinieri davanti alla capanna, le
colonne di cemento che si alzavano.
Gli uomini gli dissero di piantarla,
era piú di trent’anni che non se n’era
fatto niente. Che gli abruzzesi
sgobbassero a togliere e mettere
tubi, che i veneti e i calabresi
continuassero a fissare e sradicare
recinti, se questa era la loro
passione. I vecchi gli risposero che
erano vecchi, che erano stanchi, che
toccava ai giovani rimboccarsi le
maniche. Ma i giovani, quei pochi
che c’erano, lo liquidarono dicendo
«una ragione in piú per andarsene di
qui». Allora Erich cercò le donne.
Ma anche le donne scrollarono il
capo, ripetendo che Dio non lo
avrebbe permesso, che padre Alfred
ci avrebbe protetto, che Curon era
sede del vescovo. Uno solo, un
reduce che in piazza non si vedeva
mai, gli diede retta.
– Se andranno avanti a costruire
la diga tireremo fuori le pistole che
ci siamo portati dal fronte,
metteremo le bombe che abbiamo
imparato a fabbricare, – disse. –
Stiano attenti, i signori della
Montecatini. Il paese adesso è pieno
di armi.
A cena Erich mangiò senza
parlare. Mentre buttava giú una
tazza di brodo gli chiesi un’altra
volta di andarcene via da questo
posto maledetto dove si
susseguivano solo dittature e anche
senza la guerra non si trovava piú
pace. Lui mi guardò in tralice, con
un’alzata di mento mi indicò fuori
dalla finestra, quasi a me, dopo tutti
questi anni, continuassero a sfuggire
le ragioni che lo tenevano qui,
aggrappato come l’edera.
Si gettò sul letto esausto, con le
mani dietro la nuca, e si mise a
fumare buttando fumo verso il
soffitto. Restai a guardarlo
appoggiata al muro.
– Insegnami l’italiano, Trina.
Non conosco le parole per farmi
ascoltare, – mi disse.

Da quel giorno, ogni sera, dopo


mangiato, ci mettevamo al tavolo,
scrivevamo pensieri e liste di parole,
gli leggevo storie proprio come le
leggevo a te, come le ho raccontate a
Maria. Parlavamo italiano per ore.
Quando rientrava dai campi e gli
strofinavo la schiena nella tinozza si
sforzava di confidarmi i suoi
pensieri in quella lingua. Le lezioni
le prendeva cosí sul serio che se mi
distraevo un momento mi ordinava
immediatamente di proseguire.
Compilavo liste di verbi e di nomi,
gli cantavo le canzoni che avevo
ascoltato da Barbara, gli insegnavo
delle frasi che poi al mattino si era
già dimenticato.
– Non so piú imparare, – diceva
tirandosi pugni sulle gambe,
adagiando sconfortato la testa sul
tavolo.
Sembrava un vecchio bambino
schiacciato dalle sue ossessioni.
Capitolo quarto

I manovali nel giro di poche


settimane, con le perforatrici sulle
ginocchia, avvolti in nuvole di
polvere, scavarono le gallerie e non
li vedevamo piú trafficare dentro il
recinto di fil di ferro. Dalle cave
continuavano ad arrivare camion
carichi di pietre. Altri scaricavano
sabbia. File di betoniere
impastavano il cemento armato che i
muratori avrebbero trasformato in
lastre per costruire gli argini, gli
speroni, le paratoie. L’uomo col
cappello ogni tanto si fermava a
scambiare due parole con Erich. Gli
andava di fianco, si accendeva il
sigaro e guardava verso le
montagne. Era italiano ma parlava il
tedesco con naturalezza.
– Amico, torna da tua moglie.
Qui ci rimarremo anni.
– Voglio che ve ne andiate, –
disse Erich.
Allora lui abbozzò un sorriso
sghembo e senza smettere di
contemplare i crinali buttò fuori
cerchi di fumo.
– Entra, se vuoi, – disse
avviandosi verso la capanna.
Dentro si sentiva odore di polvere
e inchiostro, di carta e caffè.
– Per fermare i lavori serve
l’appoggio delle persone che
contano.
– E chi sono? – chiese Erich
sporgendosi in avanti. – Chi sono le
persone che contano?
L’uomo col cappello guardò in
giro nella stanza vuota. Strofinò la
capocchia del sigaro contro un
portacenere di pietra e col fumo
ancora in gola rispose: – I sindaci
degli altri paesi, il governo di Roma,
il vescovo, il papa. Devi coinvolgere
tutti gli abitanti. Uno per uno, –
concluse scandendo le parole.
Erich allora ciondolò la testa: –
Pensano che ci avete provato già
tante volte senza concludere niente.
Si fidano del destino, tirano in
mezzo la protezione di Dio. Molti
non sanno nemmeno che siete
tornati.
L’uomo col cappello scosse le
spalle e annuí con compassione. La
conosceva bene la gente, lui che da
tutta la vita girava il mondo. Era
uguale ovunque, assetata solo di
tranquillità. Contenta di non vedere.
È stato cosí che aveva già sgombrato
altri paesi, sventrato quartieri,
abbattuto case per far passare binari
e autostrade, gettato colate di
cemento sulle campagne, fatto
costruire fabbriche lungo il corso dei
fiumi. E il suo lavoro non andava
mai in crisi perché cresceva dove
c’era la fiducia inerte nel destino, la
fede assolutoria in Dio, l’incuria
degli uomini assetati solo di
tranquillità. Tutto questo gli
permetteva di starsene a fumare il
sigaro nella sua baracca mentre i
cafoni reclutati in qualche città
lontana arrivavano sui treni della
fame a sgobbare come schiavi sotto
la pioggia, a morire di silicosi nelle
gallerie sotterranee. Aveva sempre
avuto gioco facile, nella sua lunga
carriera, a distruggere le piazze
vecchie di secoli, le case passate di
padre in figlio, i muri che ascoltano i
segreti di marito e moglie.
– Hai ancora tempo, – disse alla
fine. – Ma quando arriveremo a
ridosso delle case la diga sarà pronta
nel giro di pochi giorni. E sarà la
diga piú grande d’Europa.

Tornarono anche i due ingegneri


in giacca e cravatta, quelli che prima
della guerra avevano pagato da bere
ai contadini. Vennero con degli
svizzeri. Girava voce che ci fossero
anche gli svizzeri dietro la diga. Che
imprenditori di Zurigo avessero
prestato decine di milioni alla
Montecatini per riprenderseli con gli
interessi in energia. In paese si
iniziava a borbottare che allora
bisognava stare attenti. Gli svizzeri
erano gente seria e pericolosa, mica
come quei cialtroni degli italiani.
Cosí finalmente qualcuno seguí
Erich al cantiere e vide i cumuli di
pietre e sabbia alti trenta metri su cui
facevano manovra i camion, i
demolitori che trapanavano la
roccia, le betoniere che miscelavano
il calcestruzzo, i manovali che
inserivano turbine vociando nel loro
dialetto incomprensibile, sbucando
dalle gallerie come scoiattoli dai
tronchi cavi. I contadini restarono
con gli occhi impietriti e le labbra
pendenti a guardare i fossati. Le
mani sulle orecchie per non sentire
quei rumori mai sentiti.

Giorno dopo giorno la voragine


continuava a espandersi come una
chiazza d’olio. I caterpillar e i
camion si arrampicavano sulle
montagne di terra e sembravano
sempre sul punto di rotolare. I
manovali erano formiche laboriose
che si confondevano con la luce
pallida del sole invernale. I campi
non c’erano piú. Le distese
verdeggianti erano scomparse. La
terra adesso vomitava solo polvere,
sfoggiava le sue pietre sfarinate e
bluastre e non sembrava la stessa su
cui crescevano i larici e i ciclamini,
su cui avevano brucato indisturbate
le mucche e le pecore. Il silenzio
fermo delle montagne era sepolto
sotto il rumore incessante delle
macchine che non si fermavano mai.
Nemmeno la sera. Nemmeno la
notte.
Una mattina Erich riuscí a
mettere insieme una decina di
uomini. Accerchiarono la capanna
dell’uomo col cappello, sbatterono i
piedi, gridarono. L’uomo col
cappello uscí, fiancheggiato dai
carabinieri. Incrociò lo sguardo di
Erich e alzò impercettibilmente il
labbro da un lato. Mostrò una mappa
di Resia e Curon e sulla mappa
c’erano croci rosse agli angoli. Era
un foglio ampio e per tenerlo aperto
bisognava distendere le braccia. Lo
passò a un contadino facendogli
capire con un gesto che poteva farlo
girare. Alcuni riconoscevano la
pianta del borgo, i boschi, i principi
dei sentieri montuosi. Altri facevano
smorfie di incomprensione e lo
passavano immediatamente al
vicino. Quando la mappa gli ritornò
in mano l’uomo col cappello spiegò
che la diga l’avrebbero costruita
all’interno di quelle croci rosse, ma
era un lavoro lungo, che necessitava
di continue verifiche, approvazioni,
finanziamenti e per molto tempo non
avrebbe riguardato il paese. Non era
nemmeno escluso che arrivasse
l’ordine di bloccare nuovamente i
lavori.
– Per raggiungere il centro
abitato bisogna scavare ancora a
lungo, – concluse.
– E quanto sarà alto il livello
dell’acqua? – chiese qualcuno.
– Cinque, forse dieci metri.
I contadini si scambiarono
occhiate furtive. Con quell’altezza
Resia e Curon sarebbero state
risparmiate.
– Allora non sommergerete il
paese?
– Nessuno ha mai detto che lo
sommergeremo.
Appena l’uomo col cappello
rientrò, i carabinieri ordinarono di
sgomberare. Quando la porta della
capanna si chiuse i contadini
ripresero la via di casa trascinando i
piedi nel fango. Sull’Ortles c’era un
rimasuglio di sole che non riusciva
ad asciugare la terra.
– «Serviranno anni per arrivare in
paese», ha detto il capocantiere.
– Chissà quante cose possono
succedere nel frattempo.
– Possono tornare Hitler e
Mussolini.
– Dicono che non sono morti ma
si sono solo nascosti per
riorganizzarsi a dovere.
– Potremo diventare non solo
tedeschi o italiani ma forse anche
russi, se continueranno a dilagare i
comunisti.
– O americani, se i comunisti non
dilagheranno.
– E magari con gli americani
parleremo l’americano, non piú il
tedesco e non piú l’italiano.
– Al posto della diga gli
americani costruiranno grattacieli.
– Ha detto che non
sommergeranno Curon.
– Ha detto che non lo sa.
– Io lo stesso ho paura.
– Non devi.
Cosí battibeccavano i contadini
trascinando i piedi nel fango.

Mentre arrivavano manovali a


migliaia – ragazzi con la pelle
olivastra, quasi sempre tozzi e coi
capelli corvini, uomini affamati che
lasciavano le famiglie a mille
chilometri, ex fascisti e sbandati di
tutta Italia – i nostri giovani se ne
andavano a nord. Durante la guerra
alcuni erano scappati in Germania,
altri si erano nascosti in Svizzera,
altri ancora erano rimasti prigionieri
nei gulag di Stalin, tanti avevano
preso strade che non li avrebbero piú
riportati in Val Venosta.
Il sabato le madri venivano
ancora a casa, una alla volta, a farmi
leggere le loro lettere ma io adesso
non potevo piú mentire. I figli
scrivevano che non volevano tornare
a Curon, dove c’erano solo le
mucche e i contadini, ma non la
possibilità di cambiare vita. Le
madri, a sentire quelle parole, si
coprivano la faccia con le mani ma
dicevano anche che era vero, Curon
era un paese ai margini del tempo.
La vita era immobile.
– Non avete uomini in paese.
Avete solo vecchi, – disse un giorno
a Erich l’uomo col cappello. – E
dalla vecchiaia non c’è da aspettarsi
mai niente di buono.
Capitolo quinto

Erich, con Fleck di fianco,


passava le giornate con la sigaretta
in bocca a osservare i camion che
andavano e venivano, carichi di terra
fino all’inverosimile. Guardava
esterrefatto i manovali che
costruivano scalini per creare gli
accessi sotterranei ed entrarci dentro
con strani macchinari.
– Quella diga non sarà certo in
grado di sommergere Curon.
– Il Carlino è un piccolo affluente
dell’Adige. Un fiumiciattolo.
– Se sperano di riempire dieci
metri di invaso con quel poco
d’acqua vuol dire che non sanno
nemmeno fare i conti.
Cosí dicevano a Erich quelli che
lo seguivano al cantiere. Altri invece
si presentavano alla porta e gli
chiedevano cosa si poteva fare per
fermare quei bastardi che si erano
messi in testa di rovinarci. In casa
c’era un viavai continuo. Erich
offriva bicchierini di grappa e
ripeteva le parole dell’uomo col
cappello: – Bisogna scrivere, non
bastano le barricate. Dobbiamo
chiedere aiuto alle persone che
contano.
– Ma noi non conosciamo
persone che contano.
– E non sappiamo nemmeno
scrivere, – dicevano i contadini
aprendo le mani.
– Scriverà padre Alfred, scriverà
Trina, – rispondeva lui.
I contadini allora si giravano a
guardarmi e poi abbassavano le
labbra facendo sí con la testa.
– Scriveremo ai sindaci dei paesi
qui attorno, ai giornali italiani, ai
politici di Roma!
– Bisogna scrivere a De Gasperi
che è nato in Trentino quando
ancora c’era l’impero! – intervenne
uno.
– Noi cosa facciamo? – chiesero
altri.
– Continuate ad andare al
cantiere. Devono sapere che li
teniamo d’occhio. Anche in Svizzera
e in Austria, a pochi chilometri da
qui, volevano costruire dighe, ma
dove hanno trovato l’opposizione
degli abitanti hanno lasciato perdere.
Quella concitazione lo placava.
Si scordava di mangiare, spegneva
la sigaretta prima di andare a
dormire e mi baciava la testa quando
lo guardavo storto perché rientrava
tardi.

Il municipio di Curon ingaggiò


un avvocato di Silandro. L’avvocato
disse che scrivere una lettera a De
Gasperi era una buona idea, ma
prima bisognava ottenere dal
ministero il riesame del progetto.
– Cosa posso fare? – chiedeva
Erich.
L’avvocato alzava le spalle. –
Non puoi fare niente, è una
questione politica.
Erich dagli incontri con
l’avvocato usciva di pessimo umore.
Per sbollire il fastidio se ne andava
da padre Alfred, e se in chiesa non
c’era nessuno si metteva a parlargli
seduto sulla panca. Gli confessava
dubbi che a me nemmeno
raccontava. Certi giorni lo invidiavo
per questa sua fede, certi altri avevo
paura che sarebbe rimasto deluso
anche da Dio.
– È strano vederti cosí spesso in
chiesa, – gli dissi, – prima non ci
andavi mai.
– Chi ha difeso la nostra lingua
quando i fascisti la calpestavano e ci
rifilavano la loro scuola? Chi è
rimasto a difendere il Sudtirolo? I
politici, l’Italia, l’Austria hanno
fatto a gara a lavarsene le mani. Solo
la chiesa si è occupata di noi.
Anche padre Alfred era
preoccupato della diga e disse che
appena il vescovo di Bressanone
fosse passato da queste parti gli
avrebbe parlato.
– Scriviamogli adesso! – lo
implorò Erich. – Non possiamo piú
aspettare!
Padre Alfred per farlo contento
gli scrisse. E il vescovo nel giro di
qualche settimana arrivò. Sembrava
in quei giorni che le parole potessero
smuovere le montagne. Che l’errore
piú grosso fosse stato non
interrogarle, non cercarle, non farle
parlare prima. Le parole.
Erich e qualcun altro si diedero
da fare assieme alle beghine per
spolverare le vetrate e lucidare gli
arredi della chiesa. Quella domenica
la gente era accalcata sul sagrato,
come sempre quando veniva il
vescovo. Io e Erich, invece,
sedevamo sulla prima fila di panche.
Ci aspettavamo tanti discorsi da
quell’uomo massiccio, col viso duro
che ti faceva abbassare lo sguardo.
Invece il vescovo celebrò la messa
come se in paese non avessimo il
prete o non ne sentissimo una da
anni. Ci fece pregare seduti e in
piedi, in tedesco e in latino, e
quando finalmente arrivò il
momento della predica parlò col
solito fervore dell’aldilà, di quanto
poteva essere orribile o
meraviglioso. Solo all’ultimo disse:
– Questo paese è minacciato da un
progetto pericoloso. Scriverò al papa
per metterlo al corrente. Il suo cuore
santo, se noi lo meriteremo,
senz’altro ci aiuterà.
Quella stessa sera l’uomo col
cappello disse a Erich che avevano
deciso di portare il livello dell’acqua
a quindici metri.

Rientrò che già ero a letto. Si


mise di fianco e mi appoggiò la
mano sul ventre. L’amore ormai non
lo facevamo piú. L’uomo col
cappello gli aveva fatto vedere il
cantiere fin dentro le gallerie dove
adesso i manovali entravano con i
vagoni a gasolio e ne uscivano con
una maschera nera sul viso, come se
si fossero strofinati il carbone sulla
pelle. Erich si mise a raccontarmi
che lí dentro mancava l’aria, che la
polvere faceva scatarrare in
continuazione quei poveri cristi che
a turno uscivano a riprendere fiato.
– È un lavoro da schiavi, –
commentò indignato e mi descrisse i
manovali paonazzi in viso che
picconavano la terra e incollavano
con la cementite le lastre che un
giorno sarebbero state attraversate
dalla forza dirompente dell’acqua.
Di operai ne continuavano ad
arrivare a frotte. Per le strade si
incontravano lunghe file di uomini
che salivano verso il paese con una
sacca a tracolla. Sembravano orde di
barbari. Vivevano accampati in
baracche lunghe venticinque metri,
dove c’erano solo letti a castello
coperti da un po’ di paglia e al
centro una stufa che riscaldava a
stento. Erano le stesse baracche
usate nei campi di prigionia. L’uomo
col cappello disse a Erich che ormai
erano qualche migliaia, sparpagliati
nei cantieri dei paesi qui attorno.
Paesi come il nostro affacciati sul
lago o sulla riva dell’Adige o di
qualche affluente, ma che a
differenza di Resia e Curon non
sarebbero stati sommersi.
– Ormai le industrie si sono
accorte che è arrivato il momento di
raccogliere l’oro bianco e farci
mucchi di soldi, – disse a denti
stretti Erich, tirandosi la coperta.
Io non sapevo piú che dirgli. Ero
stufa di parlare delle sue battaglie.
Non mi importava piú niente della
diga.
– Cos’hai? – mi chiese.
– Non ho niente, – risposi
girandomi di spalle.
– Perché non parli?
– Non ho nulla da dirti.
Lui restò immobile con le mani
sul petto.
– Pensi ancora a Marica? – gli
domandai d’improvviso.
– Ci penso senza pensarci, – disse
lui.
– Che vuol dire?
– Non te lo so spiegare in un altro
modo. Ci penso senza pensarci.
– Io quando mi distraggo dal suo
pensiero mi sento in colpa. Tu
invece sei cosí preso da tutto quello
che sta succedendo che l’hai
dimenticata.
– Bisogna andare avanti, Trina.
– Tu non ci soffri.
– Parli da stupida, – ribatté lui.
– Tu non ci soffri, – ripetei
ostinata.
Allora si girò di scatto, mi prese
il mento tra le mani e sbottò, cosí
vicino al mio viso che sentivo il suo
fiato: – Ormai è grande, se avesse
voluto tornare l’avrebbe già fatto!
Restai paralizzata sotto le
lenzuola. Sentii le sue parole fare
eco nel silenzio umido della camera.
Lui stette a guardarmi pieno di
rabbia, poi mi lasciò il mento come
fosse una cosa da buttare. Si
rannicchiò, dandomi di nuovo la
schiena. Per la prima volta ho avuto
il dubbio che mi voltasse le spalle
per non farmi vedere il suo pianto.
Quando mi stavo per addormentare
sentii che apriva il cassetto del
comodino. Tirò fuori un piccolo
quaderno, con in mezzo una matita
temperata col coltello, e si mise a
sfogliarlo nel buio. Accesi la
lampada e la luce rischiarò dei
disegni. Eri tu.
Provai a prendere quel quaderno
ma mi afferrò il polso. Non voleva
che lo toccassi. Disegnava bene,
aveva un tocco lieve, che si faceva
piú calcato sugli occhi e la bocca. Su
certi fogli c’erano solo le tue mani.
Su una pagina le scarpe col fiocco
che ti avevo comprato per la
comunione. Su un’altra eri al tavolo
di schiena che facevi i compiti. Su
un’altra ti pettinavo. I capelli li
portavi ancora lunghi come quando
avevi iniziato la scuola.
Non sapevo che disegnasse. Non
sapevo del quaderno nascosto dietro
le calze. Non sapevo bene cosa
facesse tutto il tempo che stava
fuori. Dopo tutti quegli anni di lui
sapevo poco piú di niente.
Capitolo sesto

Si sentí un boato, come quello


che fanno le valanghe. Ero a scuola
e per un attimo sia io che i bambini
guardammo paralizzati fuori dalla
finestra. Cercai di continuare la
lezione. Quando uscii capannelli di
gente per strada parlavano della diga
e concitati dicevano che c’era stato
un incidente. Tubi di cemento erano
rotolati nel fossato, avevano
distrutto le recinzioni, travolto una
ruspa, ucciso una persona.
M’incamminai a piedi verso il
cantiere. Correvo affannata, sudavo
sulla schiena. Se Erich fosse morto
sarei scappata di nuovo sulle
montagne e avrei aspettato i lupi.
Sarei corsa nella grotta dei soldati
tedeschi e poco o tanto che fosse il
tempo della sopravvivenza l’avrei
finalmente guardato dalla distanza di
una vetta questo paese che iniziavo a
detestare, con i contadini che a
malapena vedevano piú in là del loro
naso, con quella gentaglia che lo
aveva invaso e che ci imbrogliava
sfacciatamente. Se questa era la pace
stavo meglio con la neve alle
calcagna, la fame che mi
consumava. L’incubo dei nazisti che
sfondano la porta.
Ho corso per ore, col respiro
impazzito, il cuore che mi batteva a
precipizio. Ho gridato il suo nome
tra gli alberi fino a sgolarmi. Al
cantiere non c’era nessuno. Il
fossato era deserto. Si vedevano i
segni dei tubi che dovevano essere
caduti violentemente dopo aver
preso velocità. Nel fossato c’era
ancora la carcassa della ruspa, le
vasche rovesciate dove miscelavano
la terra con la polvere d’argilla.
Qualche manovale ci girava attorno
come un insetto su un pezzo di pane.
Aleggiava un silenzio di morte che
faceva sentire il soffio del vento
sulla terra arida. Sono tornata
indietro e poi ancora verso il
cantiere e poi un’altra volta indietro
e alla fine non sapevo piú dov’ero. A
pochi passi da me c’era l’inizio del
bosco. Il sole stava tramontando e io
non riconoscevo piú come prima i
sentieri. Le valli, il paese, le strade
non li sapevo piú a memoria. Mi
stavo inoltrando tra i filari di abeti
quando sentii gridare il mio nome.
Mi girai e lo vidi venirmi incontro.
Calciava le pietre che gli finivano
tra i piedi.
– Stai bene? – gli chiesi senza
fiato.
– Aspettami a casa la prossima
volta.
– Cos’è successo?
– Sono caduti dei tubi di cemento
da un camion e sono rotolati nel
fossato.
– È vero che è morto un
manovale?
– Piú d’uno. È morto anche un
carabiniere.
Siamo tornati verso il paese e in
lontananza si vedeva un gruppo di
contadini che veniva verso di noi.
Era già sera quando davanti
all’osteria di Karl si formò un
gruppo di ubriachi che beveva alla
faccia della diga, del governo
italiano, della Montecatini, dei
manovali morti, dei carabinieri.
– Adesso che ci hanno lasciato le
penne fermeranno i lavori, vero
Erich Hauser? – ha chiesto in tono
provocatorio il figlio del
fruttivendolo.
– Non lo so, – ha risposto lui.
– Sí che li fermeranno.
– Li hanno già fermati, – disse un
altro.
– Te l’avevo detto che non
l’avrebbero mai costruita, –disse un
altro ancora mentre tutti facevano sí
con la testa.
I lavori li fermarono davvero. I
manovali stavano nelle baracche di
fronte alla diga, seduti su casse di
legno a fumare e a cacciare le
mosche. Si passavano da bere e
mordevano pezzi di pane con le
bocche bovine. Anche a guardarli
con aria di sfida non si cavava
niente. Erano piú bestie dei nostri
contadini e lo vedevi dagli occhi
spenti quanta polvere era entrata nel
loro cervello e li aveva storditi per
sempre. Per loro costruire la diga o
le casse di legno su cui stavano
seduti a fumare era la stessa cosa.
Aspettavano la paga del sabato,
quando si mettevano in fila davanti
alla capanna dell’uomo col cappello
e uscivano con le banconote infilate
in tasca. A loro non importava di
noi, di Curon, della valle. Pensavano
solo a eseguire gli ordini e a
scatarrare la polvere che li stava
uccidendo. La notte senz’altro
sognavano i loro paesi assolati e le
mogli con cui fare l’amore appena
tornati a casa.
Venne una piccola banda per il
funerale del carabiniere. La bara,
dopo la messa, avvolta in una
bandiera italiana, partí su una
macchina lucida che prese la strada
per Merano. I manovali invece li
avrebbero stipati da qualche parte
fintanto che la Montecatini avesse
sbrigato tutte le indagini.
Gli ispettori arrivati da Roma
constatarono e verbalizzarono
l’accaduto, ma intanto l’uomo col
cappello trasferí i manovali vicino
alla strada di Vallelunga, una zona
piú pianeggiante che c’è prima di
Curon. Li mise a tirar su altre
baracche. Prefabbricati a forma di
minuscole case.
– Non vi fermate neanche davanti
ai morti? – disse Erich.
L’uomo col cappello aprí le mani
e stirò in giú le labbra.
– A cosa servono quelle
stamberghe? Volete chiuderci lí
dentro?
– Se il governo non fermerà i
lavori, quelli saranno gli alloggi
temporanei per chi vorrà restare
ancora qui, – rispose.
– Avete deciso di alzare ancora il
livello dell’acqua?
– Sarà di ventuno metri.
– Piú su del paese.
– Piú su del paese, – ripeté lui.
– Ma sul foglio appeso al
municipio c’era scritto che l’avreste
alzato di cinque! – protestò senza
voce Erich.
– «Con varianti al suddetto
progetto», c’era anche scritto.
Giorno dopo giorno sorgevano
agglomerati di prefabbricati che
sembravano scatole messe in fila
indiana. I contadini la sera andavano
a spiarle, ma presto i carabinieri
organizzarono turni di sorveglianza
e non lasciarono piú avvicinare
nessuno. Una notte il reduce che
voleva mettere le bombe riuscí,
insieme ad altri due, a entrare in una
delle baracche. Forse volevano farle
saltare in aria, forse soltanto
curiosare. Un colpo di vento fece
sbattere le porte e i carabinieri li
colsero in flagrante. Li tennero in
prigione a Glorenza per un paio di
giorni e li liberarono la domenica
mattina, davanti alla gente che
sfollava dalla chiesa. Quando Erich
si avvicinò per salutarli lo presero a
spintoni e gli intimarono di
andarsene via, come se ad arrestarli
fosse stato lui. Altri uomini fecero
coro.
– Vattene! – ripetevano. –
Smettila Erich Hauser! Lasciaci in
pace!
Raggiunsi Erich che senza dirmi
niente prese la via di casa. Mentre lo
inseguivo mi tornò in mente
Barbara, che non mi rivolse la parola
nemmeno prima di emigrare in
Germania. La nostra vita mi
sembrava tutta un errore.
Un giorno che me ne stavo alla
finestra a immaginare come
avremmo vissuto in quelle casupole
squallide mi venne d’improvviso
voglia di scrivere. Mi misi al tavolo
e fissai il foglio bianco. Scrissi che
le industrie stavano trattando Curon
e la valle come se fossero un posto
senza storia. Invece noi avevamo
agricoltura e allevamenti e prima
che arrivasse quell’esercito di cafoni
e quella marmaglia di ingegneri
regnava l’armonia tra i masi e il
bosco, tra i prati e i sentieri. Era una
terra ricca e piena di pace, la nostra.
Sacrificare tutto questo per una diga
era semplicemente selvaggio. Una
diga si può costruire altrove, un
paesaggio una volta devastato non
può rinascere piú, scrissi alla fine.
Non si può rimediare né replicare,
un paesaggio. La sera lessi quella
pagina a Erich e lui mi baciò la testa.
Disse che si era formato un comitato
d’azione per la difesa della valle e
che stavano discutendo del perché i
giornali se ne fregavano cosí tanto di
noi.
– I giornali italiani, che
dovrebbero occuparsi delle cose che
succedono in Italia, quell’Italia a cui
vogliono a tutti i costi che noi
apparteniamo! – gridava infervorato.
Gliela rilessi e Erich disse: –
Manderemo anche questa.
– Sí, ma non col mio nome.
Firmala tu.

Mi dimenticai presto di quelle


parole. Non chiesi a Erich dove
fossero andate a finire, né cosa
stesse succedendo al comitato. Lui
continuava a far notte discutendo
con padre Alfred, col sindaco e coi
pochi contadini che si interessavano
a questa storia, ma io non volevo piú
parlarne. Il caos era troppo, le carte
mescolate e rimescolate per farci
perdere il sonno. Quando qualcuno
si metteva davanti alla stufa di casa
a parlare con Erich di quel che
succedeva al cantiere mi chiudevo in
camera. Sentivo una rassegnazione e
un disinteresse uguale a quello dei
contadini e delle loro donne.
Avevano ragione. Non si poteva
trascorrere tutto il tempo a pensare
alla diga, si rischiava la pazzia.
Presidiare il cantiere era una fatica
di Ercole, che solo Erich Hauser
poteva caricarsi sulle spalle.
L’avvocato poi era lento e la lettera
a De Gasperi non la mandò mai. Del
resto a De Gasperi di essere nato
quando ancora c’era l’impero
austroungarico non gliene importava
nulla e forse nemmeno sapeva che
esisteva Curon. Magari la Val
Venosta era un nome a cui associava
le vacanze estive e niente di piú. Mi
appassionavo solo quando Erich mi
chiedeva di scrivere un articolo per i
giornali di lingua tedesca, visto che
quelli italiani non parlavano di noi o
sostenevano le ragioni della
Montecatini, appellandosi a un
progresso a cui dovevamo adeguarci
e di cui dovevamo sentirci parte
anche se implicava la nostra
distruzione. Non so come fosse
possibile, ma se mi metteva il foglio
davanti le parole mi uscivano da
sole. Davano corpo alla rabbia che
non sapevo di avere. Ai pensieri
disordinati che mi giravano in testa.
Non mi spaventava rivolgermi al
vescovo o al presidente della
Montecatini o al ministro
dell’Agricoltura, che con una mia
lettera il comitato aveva invitato in
paese per fargli vedere che
sacrilegio fosse annientare questa
valle.
Dopo qualche mese venne
davvero, il ministro Antonio Segni,
e tenne per tutto il tempo la lettera
nella tasca della giacca. Passò da
Sluderno e da altri paesi vicini. A
Curon si fermò a guardare i pascoli,
i campi, i contadini al lavoro e disse
sconcertato che quelli della
Montecatini gli avevano raccontato
un sacco di balle. Gli avevano
giurato che eravamo uno squallido
borgo mezzo spopolato, non un
paese fiorente. Padre Alfred gli
stava di fianco e non smetteva di
ripetergli nel suo italiano storpiato di
che crimine si stavano macchiando.
Improvvisamente il ministro si
allontanò di qualche metro e dandoci
le spalle si passò una mano sugli
occhi. Poi tornò da noi e cominciò a
parlare col tono di chi sta per fare
una promessa solenne. Il suo
consigliere, dopo che Segni
pronunciò un paio di frasi, si affrettò
a prenderlo per un braccio e
scrollando la testa lo invitò a tacere.
Parlò lui al suo posto, appoggiando
una mano sulla spalla di padre
Alfred.
– Il ministro si impegnerà per
voi, ma non possiamo garantire, al
punto in cui siamo, di riuscire a
fermare i lavori. Quello che
possiamo fare, nel caso sciagurato
che l’opera venga portata a termine,
è assicurarvi un indennizzo che vi
ripaghi adeguatamente delle vostre
perdite.
Capitolo settimo

Un giorno di marzo ci
convocarono uno per uno al
tribunale arbitrale per proporci di
scegliere: un risarcimento in denaro
o la ricostruzione della casa.
– Ma per la casa, – premettevano,
– ci sarà da avere pazienza.
– Che vuol dire pazienza?
– Pazienza vuol dire pazienza, –
rispondevano gli impiegati con la
stessa arroganza di quando c’era il
podestà. Il fascismo non era piú
legge ma era ancora tra noi, tale e
quale, con tutto il suo armamentario
di spocchia e prepotenza, con tutta la
stessa gente portata da Mussolini e
di cui la nuova repubblica italiana
aveva bisogno per mandare avanti la
burocrazia.
Fuori dall’ufficio del tribunale ci
guardammo esterrefatti. Ancora una
volta eravamo di fronte al dilemma
se restare o partire. Come nel ’39.
Chi avrebbe preso i soldi se ne
sarebbe andato altrove, magari da
parenti o da qualche altra parte in
valle. Chi sceglieva la casa era
deciso a rimanere anche con l’acqua
che sovrastava ogni cosa.
– E le bestie dove pascoleranno?
– E se le venderemo quanto ce le
pagherete?
– E in quelle gabbie quanto ci
dovremo restare?
– E perché valutate quattro lire il
nostro maso?
– È vero che la carta da bollo su
cui ci mandate l’esproprio costa piú
di un metro quadro dei nostri campi?
Cosí gridavamo agli impiegati
occhialuti del tribunale. Loro però
rispondevano seccati che niente era
stato deciso, dovevano solo farsi
un’idea di quante case avrebbero
dovuto costruire. Che non li
costringessimo a chiamare i
carabinieri e a farci sbattere fuori.

Quello stesso giorno padre Alfred


bussò alla porta.
– Il papa ci riceve! – annunciò
con la lettera del vescovo in mano. –
Verrai a Roma anche tu, – gli disse
sbrigativo e risoluto piú del solito.
Erich scoppiò a ridere. Lui, un
contadino della Val Venosta, a
Roma, da Pio XII! Ridemmo. Poi
padre Alfred tornò serio. – Verrai
anche tu, – disse di nuovo e lo lasciò
sulla porta dandogli appuntamento
per l’indomani di primo mattino.
Erich partí sulla macchina del
vescovo di Bressanone e poi da
Bolzano arrivarono in treno a Roma.
Il papa li ricevette in udienza
privata. Quante volte gli ho chiesto
«com’è il papa?» «cosa vi siete
detti?» «com’è il suo palazzo?» Ma
lui, anche se avevamo preparato
insieme un breve discorso, non gli
aveva detto niente. Pio XII non gli
rivolse parola. Erich mi raccontò
delle guardie svizzere che
piantonavano gli ingressi, delle sale
piene di affreschi, dei quadri, dei
tappeti, dei giardini immensi che
s’intravedevano dietro le tende
drappeggiate. Mi disse che il papa
era bello e mi mostrò una foto che
gli avevano regalato dove le lenti gli
cerchiavano il viso e aveva
un’espressione attonita e proprio
bello veramente a me non sembrava.
Avevano parlato in italiano durante
il colloquio e Erich non aveva fatto
molta fatica a seguire la
conversazione. Per tutto l’incontro
era rimasto sulla punta di un
divanetto a guardare il papa che
faceva sí con la testa. Anche il
vescovo di Bressanone era rimasto
zitto. Ad animare il dialogo ci aveva
pensato ancora una volta padre
Alfred, che pure davanti a Pio XII
parlava agitando le sue mani ossute
e scaldandosi in viso per quanto gli
bruciava l’ingiustizia che Curon
stava subendo.
– Un’ingiustizia che non può
lasciarla indifferente, Santo Padre, –
disse. – Un’ingiustizia che arriva
dopo il male del fascismo, di cui non
ci siamo veramente liberati. Una
violenza, – continuò con le labbra
rigide e il mento in avanti, – a cui si
aggiungono le morti che la nostra
popolazione ha subito durante il
conflitto e i tanti dispersi che ancora
non hanno fatto ritorno.
Il papa fece di nuovo sí con la
testa e chiese a tutti e tre di pregare.
Ma fu una questione di minuti, poi li
congedò ripetendo che sarebbe
intervenuto. Avrebbe fatto scrivere a
Roma per ottenere una risposta dal
ministero sulla possibilità di
rivedere il progetto.
– Ho a cuore la vostra comunità,
– fu l’ultima frase che disse prima di
salutarli.
E ancora corridoi e guardie e
Roma vista dai vetri dell’automobile
e Erich perso a guardare i palazzi e
le strade larghe, con in testa il volto
del papa che non gli aveva
nemmeno allungato la mano.
– Ci parla con Dio per fermare
quei figli di cane? – vennero a
chiedergli i contadini di Curon.
– Dice che la nostra comunità gli
sta a cuore, – rispondeva impacciato
Erich, senza sapere cos’altro
aggiungere.
Capitolo ottavo

Erich mi chiese di scrivere una


lettera ai sindaci dei paesi vicini.
«Non potete sentirvi estranei a
questa battaglia. Non potete
mostrarvi sordi di fronte al pericolo
della diga. Adesso che anche il papa
è dalla nostra parte, che ci
incoraggia e si raccomanda di
rimanere uniti, non potete farci
mancare il vostro sostegno. Dovete
scendere a protestare insieme a noi».
Cosí scrissi.
Tutte le domeniche padre Alfred
ripeteva di non andarsene.
– Il primo che se ne va dichiarerà
Curon e Resia perduti, – ammoniva
alla fine di ogni messa.
In paese la gente diceva che le
cose si stavano mettendo bene. Il
papa ci aveva preso a cuore e a tutto
pensavano il comitato, il parroco e il
sindaco insieme a Erich Hauser. Ora
non si poteva che aspettare la
risposta da Roma: attendere la
solidarietà degli altri paesi:
pazientare che il tribunale arbitrale
quantificasse gli indennizzi. E
chissà, magari nel frattempo
sarebbero successi nuovi incidenti o
qualcuno avrebbe fatto saltare in aria
le baracche di Vallelunga o almeno
l’ufficio di quel bastardo col sigaro
sempre in bocca e il cappello sugli
occhi. Altri invece dicevano che le
bombe bisognava piazzarle a Roma
e nelle sedi dei giornali italiani, che
ci ignoravano e facevano gli
interessi della Montecatini.
Minacciai Erich di non mischiarsi
con chi voleva usare le armi. Ma
siccome non mi fidavo di lui, andai
a parlare direttamente con padre
Alfred.
– Perderemmo l’aiuto del papa.
Perderemmo il sostegno di tutti,
oltre che quello di Dio. Se quel
pezzo d’asino ha delle armi digli di
non mettere piú piede in chiesa! –
gridò infervorato.
Quando Erich tornò a casa gli
riferii le parole di padre Alfred e lui
abbassò gli occhi come un bambino
beccato a rubare.

Anche la domenica i manovali


andavano avanti a lavorare fino a
mezzanotte. Adesso, da dietro il
negozio del ciabattino, si vedevano i
tubi di cemento armato che
spuntavano come denti dalla terra e
io sentivo nell’aria un odore di
acqua stantia che non avevo mai
sentito. In lontananza altre squadre
alzavano gli argini e costruivano gli
sfioratori e le paratoie che presto si
sarebbero aperte per lasciar passare
l’acqua che ci avrebbe allagato.
Facevamo finta di non vedere e ci
giravamo alla larga, ci affidavamo al
papa, al comitato, a padre Alfred,
ma in quella primavera del 1947 la
diga era dietro di noi e non smetteva
di inseguirci.
Erich si dava da fare giorno e
notte per organizzare presidi e
proteste. Tirava su piccoli gruppi
che non spaventavano nessuno. Gli
bastava un solo contadino per non
scoraggiarsi, per illudersi di contare
qualcosa. Io tutte le volte che potevo
andavo con lui. Avevo paura che si
ritrovasse da solo. Da solo con le
sue grida. Con la sua furia
impotente. Lo volevo proteggere
dall’abbandono degli altri.
Andai con lui anche quel giorno
di maggio, quando finalmente alcuni
contadini del Trentino vennero a
darci sostegno e Resia e Curon
divennero per una volta un solo
paese. Siamo usciti con le bestie e le
bestie gridavano con noi. Abbiamo
mostrato ai carabinieri, ai manovali,
agli ingegneri della Montecatini, a
Dio, tutto quello che avevamo.
Braccia, gole, animali. Dall’alto di
un palco il presidente degli
allevatori disse queste parole dentro
un megafono e le ricordo ancora
perché erano uguali a quelle che
scrivevo per Erich: «L’interesse di
una società industriale si rivolta
contro di noi, sui nostri campi e
sulle nostre case. Il novanta per
cento degli abitanti di Curon dovrà
lasciare la sua terra. Questa nostra
richiesta è un grido di aiuto.
Salvateci o finiremo in rovina».
Il sole arancione di quel
pomeriggio gli scaldava la faccia e
gli faceva tenere gli occhi sui fogli
stretti nella mano agitata. La sua
voce era rotta e quando
s’interrompeva applaudivamo e
fischiavamo e le mucche muggivano
come se anche loro capissero.
Finalmente la gente gridava, la gente
piangeva, la gente era uscita per
strada a guardarsi in faccia.
Finalmente la gente era degna di
questo nome e almeno per quel
giorno nessuno pensava per sé,
nessuno aveva fretta di rientrare,
nessuno aveva un altro posto dove
voleva essere perché con lui c’erano
le donne, i figli, gli animali, gli
uomini con cui era cresciuto anche
quando non gli avevano rivolto
parola, anche quando avevano fatto
scelte contrarie alle sue.
Erich mi indicò l’uomo col
cappello. In disparte, senza il sigaro
in bocca, abbozzava mezzo sorriso. I
carabinieri gli facevano scudo
intorno, ma lui li ignorava perché
aveva la faccia di chi non ha colpa.
Capitolo nono

Arrivò la risposta del ministero.


Venne a riferircela l’avvocato di
Silandro.
– Non riesamineranno nulla. I
lavori andranno avanti, – disse
sconsolato mostrandoci un foglio
che non leggemmo.
Erich andò a cercare l’uomo col
cappello. Era ancora in quella
baracca lontana. Erano rimasti solo
lui e i due carabinieri.
L’uomo col cappello lo scrutò,
severo e compassionevole. – Vi
hanno risposto solo perché gliel’ha
chiesto il papa.
– E adesso?
– Non vi rimangono che i gesti
estremi.
Erich aprí i suoi occhi grigi e
fumò avidamente mentre l’uomo col
cappello riordinava la scrivania. –
Uccidere un carabiniere o sparare a
un manovale cambierebbe le cose?
– Forse dovresti uccidere me, –
disse senza guardarlo.

A scuola avevo chiesto a ciascun


bambino di scrivere una lettera
perché non si costruisse la diga. A
fine giornata le raccolsi tutte quante
e andai a posarle davanti al suo
ufficio. Una pigna di storie, un
fascio di ingenuità contro i sotterfugi
della Montecatini. L’uomo col
cappello spalancò la porta come se
fosse stato dietro a spiare. Con le
sue mani grasse raccolse le lettere.
Mi disse di entrare, aveva del caffè.
Il tavolone ingombro di faldoni e
scartafacci ci divideva. Leggeva
qualche riga di ogni lettera con una
faccia inespressiva. Mi riempí la
tazza.
– Non basteranno le parole a
salvarvi, – disse restituendomi il
pacchetto di lettere. – Né queste, né
quelle che sono finite sui giornali
tedeschi col nome di tuo marito.
Per la prima volta gli vidi gli
occhi. Neri come l’inchiostro.
Chissà davanti a chi si toglieva il
cappello. Se aveva una donna con
cui apriva quegli occhi a fessura.
– Andatevene di qua, – continuò
con una voce piú calda, – portatevi
le bestie in un altro paese. Non siete
ancora vecchi, potete rifarvi una
vita.
– Mio marito non accetterà mai.

Fecero lo stesso altri maestri.


Lasciarono pacchetti di lettere.
Padre Alfred organizzò preghiere
collettive, processioni, veglie.
Qualche contadino, insieme a gente
arrivata dal Nord Italia, si presentò
al cantiere e cercò di tagliare le reti.
Arrivarono immediatamente i
carabinieri a farli sgomberare.
Qualche giorno piú tardi, alle prime
luci dell’alba, gli stessi contadini
riuscirono a scavalcare il posto di
blocco. Erano in quattro: si
buttarono oltre le recinzioni e
corsero a rotta di collo verso i
manovali al lavoro nel fossato. I
carabinieri spararono in aria, ma lo
stesso quei quattro correvano e si
lanciavano addosso ai manovali
come chi è disposto a morire.
L’uomo col cappello ordinò di non
sparare. Ci fu rissa, polvere a nugoli,
calci e pugni. I manovali erano tanti
e in un attimo gli balzarono addosso.
Li disarmarono, gli misero i piedi in
faccia e i contadini restarono
immobilizzati sotto gli scarponi.
Rossi di terra e di vergogna.
Da Glorenza mandarono altri
carabinieri. Per le strade c’era
tensione come ai tempi della guerra.
Piantonarono le vie e a camminare
per la piazza deserta sembrava che
dovesse da un momento all’altro
scoppiare un ordigno. L’unico a
girare era un ragazzo alto due metri,
allampanato, avvolto in un tabarro
marroncino, con grandi lenti da
miope. Aveva parcheggiato
l’automobile vicino al municipio e
se ne andava con le mani
sprofondate nel cappotto e il naso
all’aria. Arrivava fino alle paratoie,
guardava le gallerie su cui i
manovali spargevano terra di campo.
Sopra ci sarebbero passati i
livellatori e poi avrebbero piantato
l’erba per dare l’illusione che la
valle era tornata armoniosa come un
tempo. Che la diga non aveva
guastato l’equilibrio del territorio. A
volte si fermava, infilava le mani
nella terra e la lasciava cadere
setacciandola tra le dita. Nel
pomeriggio si presentò al comitato,
disse di essere un geologo svizzero.
Era venuto a Curon per condannare
la segretezza con cui erano stati
portati avanti i controlli e per
denunciare la presenza di
imprenditori zurighesi dietro il
progetto.
– Sono loro che hanno dato i
soldi alla Montecatini, – disse
animandosi. – La Svizzera
disapprova chi calpesta la volontà
degli individui. Questi metodi da noi
non potrebbero nemmeno essere
presi in considerazione. E
comunque, – continuò cambiando
voce, – questo terreno è fatto di
detriti di dolomia, non ha la
consistenza minima necessaria. Qui
sopra una diga non la possono fare.
Dovete assolutamente pretendere
che rivedano il progetto, – concluse
dietro le lenti appannate. – La
stampa di lingua tedesca è dalla
vostra parte. Chiedete aiuto
all’Austria e alla Svizzera, non al
governo italiano.
Quelli del comitato lo guardarono
prima con sospetto, poi lo portarono
al cantiere. Erich bussò alla capanna
ma quando vide il geologo l’uomo
col cappello fece un’espressione
canagliesca e non volle riceverli. Il
geologo emise un ghigno e raccolse
ancora terra. Disse che avrebbe fatto
altri rilievi e che ci avrebbe aiutato a
pubblicare nuovi articoli sui
giornali. Presto avrebbe comunicato
a Roma i dati che garantivano il
fallimento della diga e avrebbe
inchiodato chiunque all’evidenza
delle sue prove.
– Se la faranno crollerà, o ci
saranno esondazioni. Oppure non
funzionerà mai, – disse prima di
andarsene via.
Padre Alfred mi chiese di
scrivere al ministro degli Esteri
austriaco. Fu la mia ultima lettera.
«Questa diga è un pericolo anche
per voi. Ricordatevi che per secoli
questa valle era casa vostra», scrissi
alla fine.
Da Vienna non arrivò mai
nessuna risposta. Del geologo col
suo passo dinoccolato e i grandi
occhiali da miope, dopo quel giorno,
non se ne seppe piú nulla.
Capitolo decimo

I sindaci dei paesi attorno


risposero. Non avrebbero
sottoscritto nessuna domanda di
revisione del progetto, né firmato
petizioni di opposizione. Tutto
sommato la deviazione del fiume
faceva comodo perché evitava
straripamenti nei loro territori.
Erich mi disse: – A che serve
piantare una pallottola in fronte
all’uomo col cappello se anche ai
nostri vicini va bene che ci
affoghino? – e mi consegnò
finalmente le pistole dei soldati
tedeschi che avevo ammazzato. –
Tienile tu Trina, prima che faccia
spropositi.
– Dimmi la verità, qualcuno sta
preparando attentati?
– Non lo so.
– Ti prego, non andare piú al
cantiere. Torna in bottega con tuo
figlio, bada ai vitelli, – gli ripetevo
mentre lui mi abbracciava e mi
appoggiava le dita sulla bocca.
Era il suo modo di dirmi che non
era capace.
– Perché piú sento arrivare la fine
e piú mi prende questo attaccamento
disperato? – mi chiese Erich quel
pomeriggio che stavamo sull’argine
della diga a veder sgomberare gli
abitanti di Resia. Improvvisamente li
avevano espropriati e dai masi si
vedevano uscire gruppi di famiglie
con i sacchi, le borse, le valigie in
mano. Chi voleva traslocare i
mobili, per ragioni che non ci
spiegarono, doveva farlo fare agli
addetti della Montecatini pagando
non ricordo quante lire. Cosí le case,
svuotate delle famiglie, rimanevano
piene dei loro oggetti. Gli uomini
portavano in spalla i materassi, le
donne tenevano in braccio i bambini
e cercavano di guardare dritto, verso
l’orizzonte terso che c’era quel
giorno. Nuvole rosse galleggiavano
in cielo. Gli abitanti di Resia
camminavano in fila, col passo lento
dei condannati, sotto gli occhi
indecifrabili dei carabinieri schierati
in riga. Con lo stesso passo
camminavano quelli che davanti
all’esproprio si erano decisi ad
andarsene via. A Malles, a Glorenza,
a Prato allo Stelvio. In affitto o, se
erano fortunati, da fratelli, cugini,
lontani parenti. Padre Alfred non
distoglieva lo sguardo da chi
lasciava il paese.
– Ora siamo davvero perduti, –
ripeteva guardandoli allontanarsi.
Le famiglie che avevano scelto di
restare si dirigevano con le gambe
pesanti verso quelle casupole sparse
per Vallelunga. Sbilenche, strette,
oblunghe. Fatte con lo stampo.
Avevano costruito anche una chiesa,
quelli della Montecatini, che
sembrava una centrale elettrica
dismessa. Questo per loro era stato
provvedere ai nostri bisogni.

Un mattino un contadino di
Curon trovò mezzo metro d’acqua
nella stalla. Le galline morte e il
fieno sfilacciato ci galleggiavano
sopra. Uscí per strada e si mise a
gridare. Tutti quelli che erano nei
masi e nelle botteghe si
precipitarono nelle stalle, nelle
cantine, e tutti trovarono l’acqua. In
piazza si formò in poco tempo una
folla inferocita. Erich corse a
chiamare padre Alfred. Anche nei
sotterranei della chiesa c’era acqua
fino alle ginocchia.
– Quei bastardi hanno chiuso le
paratoie senza avvisarci! – disse
Erich.
– Andiamo a Resia, – ordinò il
parroco. – A quest’ora gli ingegneri
sono negli uffici.
Appena padre Alfred arrivò ci
mettemmo in fila. Eravamo piú di
duecento. Giovani e vecchi. Uomini
e donne. Marciammo verso Resia.
Quel giorno venne anche Michael.
Era passato a trovarci, una delle sue
solite visite veloci e fatte di niente.
Da quando viveva a Glorenza e
Erich non andava piú in
falegnameria ci vedevamo di rado.
Loro due non avevano mai ripreso a
parlarsi.
Per strada qualcuno intonava
cori, qualcun altro piangeva, qualche
donna strillava. Arrivammo a Resia
nel pomeriggio e quando in
lontananza, fuori dalla capanna
adibita a laboratorio geotecnico,
scorgemmo due ingegneri della
Montecatini, quelli restarono prima
paralizzati, poi, vedendo che
eravamo un esercito, accelerarono il
passo e alla fine si misero a correre
come ladri di polli verso la casa di
un carabiniere di cui gridavano il
nome. I ragazzi delle ultime file
lasciarono il gruppo per inseguirli.
Michael si uní a loro. Noialtri
urlavamo: «Miserabili!» I ragazzi
afferrarono gli ingegneri e li
spinsero verso la folla che in un
attimo li circondò. Padre Alfred
gridò che nessuno si azzardasse ad
alzare le mani.
– Avete chiuso le porte della
diga? – chiese in quel silenzio
pronto a esplodere.
– Non abbiamo potuto avvisarvi,
– dissero impacciati con il fiato in
gola.
Non fece in tempo a chiedere
altro che arrivarono ad alta velocità
due macchine dei carabinieri.
Inchiodarono a pochi passi da noi.
Scesero con le pistole in aria, si
fecero largo tra la folla. Gli
ingegneri immediatamente si
nascosero dietro di loro, che li
misero al sicuro dentro l’automobile
mentre molti di noi non smettevano
di insultarli. Poi si diressero a passi
decisi verso padre Alfred. Gli
bloccarono i polsi e lo spinsero
come si spingono i delinquenti sulla
seconda macchina, che partí
sgommando. Furono grida e sassi
contro le macchine. Corse inutili dei
ragazzi per bloccarle. Michael
gridava: «Carogne! Fascisti!» e si
riempí anche lui una mano di sassi.
Quando le auto scomparvero in
fondo alla strada restammo a
guardarci, immobili e attoniti. Erich
e Michael si strinsero per un
momento la mano per bloccarsi a
vicenda.
Padre Alfred lo rivedemmo due
giorni dopo. Lo avevano sbattuto in
prigione con l’accusa di sobillare il
popolo.

A Curon abbiamo trascorso gli


ultimi mesi come quei torturati
uccisi con lo stillicidio. Una goccia
alla volta, sempre sullo stesso punto
della fronte, fin quando la testa si
sfonda. Mi tornava in mente la
donna grassa sulle montagne quando
mi faceva coraggio: «Dài che
neanche oggi siamo morti!» e
nessuno poteva dire piú di cosí. E mi
veniva in mente quell’ingegnere che
aveva dato ordine ai carabinieri di
picchiare Erich. «Il progresso vale
piú di un mucchietto di case», gli
aveva detto. In effetti, parlando in
termini di progresso, questo
eravamo. Un mucchietto di case.
Dopo l’arresto di padre Alfred
s’impossessò di noi una
rassegnazione che aveva la forma di
una mano che ti chiude gli occhi.
Dicono che succeda cosí anche ai
malati terminali, ai condannati a
morte, ai suicidi. Prima di morire si
placano, come in un lampo di pace
che non si sa da dove scaturisce, ma
che li pervade. È un sentimento
lucido, che non ha bisogno di parole.
Non so se questa rassegnazione sia
la piú grande fierezza dell’uomo, il
suo gesto piú eroico, la massima
eternità a cui può aspirare o se è
invece la conferma della sua
naturale viltà, visto che è insensato
smettere di ribellarsi prima della
fine. So invece un’altra cosa, una
cosa che non c’entra con questa
storia: se tu fossi tornata, nemmeno
il pensiero dell’acqua che sommerge
ci avrebbe piú spaventato. Con te
avremmo trovato la forza di
andarcene altrove. Di ricominciare
daccapo.

Ad agosto sono venuti a mettere


le croci sulle case. Una croce di
vernice rossa su tutte quelle che
avrebbero fatto saltare col tritolo.
Del vecchio paese è rimasta fuori
solo la chiesetta di Sant’Anna, dove
poi è sorta Nuova Curon. Hanno
marchiato il nostro maso all’alba.
Qualche minuto dopo quello di Ma’
e di Anita e Lorenz, che i fascisti
dopo il ’39 avevano assegnato a
immigrati italiani. L’ultima ad
abbandonare il paese è stata una
vecchia che si chiamava come me.
Gridava dalla finestra che avrebbe
vissuto in piedi sul tavolo e poi sul
tetto. Hanno dovuto portarla fuori
con la forza.
La domenica siamo andati a
sederci sulle panche della chiesa per
l’ultima messa. Sono venuti a
tenerla decine di preti da tutto il
Trentino insieme al vescovo di
Bressanone. È stata una messa che
non ho ascoltato. Troppo presa a
conciliare l’inconciliabile: Dio con
l’incuria, Dio con l’indifferenza, Dio
con la miseria della gente di Curon,
che come diceva l’uomo col
cappello è uguale a tutta l’altra gente
del mondo. Nemmeno la croce di
Cristo si conciliava coi miei
pensieri, perché io continuo a
credere che non valga la pena morire
sulla croce, ma meglio è
nascondersi, farsi tartarughe e
ritirare la testa nel guscio per non
guardare l’orrore che c’è fuori.
Dopo la messa Erich mi ha preso
per mano e portato a passeggiare
lungo gli argini. C’era un sole caldo
che faceva grandi le ombre e
metteva voglia di andarsene per
campi. Sembrava, quella nostra
passeggiata, solo un costeggiare il
lago e invece non dovevo
dimenticare, non dovevo
dimenticare mai, che quella era una
diga e prima al suo posto c’era il
prato e io mi ci sdraiavo con Maja e
Barbara e Michael ci giocava a
pallone e tu ci correvi senza fermarti
ai richiami di Pa’.
Le campane suonavano in
lontananza e, chissà, forse quando
rintoccano per l’ultima volta fanno
un suono diverso, perché quella
mattina mi sembrava che
intonassero una musica in cui
ripercorrevo la mia vita a Curon, che
è stata una vita dura ma sopportabile
perché anche i dolori piú osceni
come la tua scomparsa li ho vissuti
insieme a tuo padre e non mi sono
mai sentita sconfitta fino a voler
dare la vita ai cani. Ci avessero
domandato quel giorno qual era il
nostro desiderio piú grande,
avremmo risposto che era continuare
a vivere a Curon, in quel paese
senza possibilità da dove i giovani
erano scappati e tanti soldati non
erano piú tornati. Senza voler sapere
niente del futuro e senza
nessun’altra certezza. Solo restare.
Capitolo undicesimo

Quando hanno messo il tritolo ai


masi eravamo già stipati nelle
baracche. Il rumore del tritolo non è
quello delle bombe. È un rumore
sordo, che in fretta viene sovrastato
da quello del crollo dei muri, delle
fondamenta che si squarciano, dello
sbriciolarsi dei tetti. Finché
rimangono solo colonne di polvere.
Abbiamo guardato dal nostro
pertugio l’esecuzione. Erich senza
respirare. Io con le braccia conserte.
Alla distruzione delle prime case mi
sono stretta al suo fianco, poi ho
guardato cadere le altre senza
nemmeno trattenere il respiro.
Finché è rimasta solo la torre del
campanile, che la Sovrintendenza da
Roma aveva dato ordine di
risparmiare. L’acqua ci ha messo
quasi un anno a ricoprire tutto. È
salita lentamente, incessantemente,
fino a metà della torre, che da allora
svetta come il busto di un naufrago
sull’acqua increspata. Quella notte,
prima di andare a dormire, Erich mi
ha detto che la quota di denaro che
ci spettava per il maso e il campo
dovevamo ritirarla alla banca di
Bolzano, ma le spese per arrivare in
città erano maggiori di quanto
avremmo incassato.
Molti se ne andarono. Da un
centinaio di famiglie restammo in
una trentina. Anche la falegnameria
di Michael è finita sott’acqua.
Per noi che restavamo la
Montecatini, oltre alle baracche,
aveva attrezzato una stalla collettiva
in cui gli animali si scalciavano in
continuazione. Siccome i campi
erano sommersi Erich decise di
portare le mucche e i vitelli al
macello. Lo accompagnai per la
strada in discesa verso San Valentino
e di fianco a noi ci seguiva l’argine
della diga. Fleck ci veniva dietro,
sfiancato e uggiolante. Era vecchio e
camminava come uno storpio.
Mugolava in continuazione per farsi
grattare e ci guardava con quei suoi
occhi invernali. I vitelli procedevano
legati uno all’altro in fila indiana e
fissavano inquieti l’acqua. Dietro
arrivavano col loro passo pesante e i
fianchi dondolanti le tre mucche. Per
ultime le pecore.
– Prendi anche lui, – disse Erich
al macellaio indicando Fleck.
Il macellaio lo guardò senza
parlare. Erich gli allungò due
banconote. – Per favore, prendi
anche lui, – ripeté.
Lo tirai per un braccio
ripetendogli di non farlo, ma lui
disse severo che era meglio cosí.
Siamo tornati indietro senza piú
niente. Il cielo era latteo, percorso
da nuvole annerite. Quelle che
portano i temporali estivi. Non so
come ma ci siamo abituati presto a
vivere in trentaquattro metri quadri.
Questo era lo spazio concesso a ogni
famiglia, indipendentemente dal
numero dei componenti. A me
quella mancanza di spazio non
dispiaceva. Inciampare una
nell’altro, doversi per forza guardare
in faccia quando si litiga, affacciarsi
alla stessa finestra era quello che
volevo. Ed era tutto quello che ci
rimaneva.
L’anno dopo ci siamo comprati
un televisore. Il sabato invitavamo i
vicini a vederlo per non restare
sempre soli. Quando Erich usciva
lasciavo accesa la radio, a un
volume cosí basso che sembrava un
lamento. Quel sottofondo mi
distraeva un po’ dai soliti pensieri a
cui non sapevo piú dare un nome.

Ho continuato ad andare a scuola,


a insegnare a scrivere, a leggere
storie, ad abbottonare grembiuli.
Ogni tanto m’incantavo su qualche
bambina, le guardavo gli occhi,
osservavo il suo modo di sorridere e
mi chiedevo di te. Ma ormai
succedeva di rado. La tua immagine
mi sfuggiva, non ricordavo piú bene
il suono della tua voce. Eri come il
volo di una farfalla, lento e sbilenco
eppure difficile da afferrare.
Quando fuori pioveva Erich stava
coi gomiti sulle ginocchia e la faccia
tra le mani a guardare il muro. Gli
ripetevo che era solo questione di
pazienza, presto ci avrebbero
costruito una casa vera, e a chi come
noi aveva perso il lavoro avrebbero
dato un indennizzo per tirare avanti.
Cosí dicevano al municipio, alla
Provincia, alla Regione. E invece è
passato molto tempo prima che
entrassi qui dentro, in questo
bilocale che mi hanno assegnato
d’ufficio. Indennizzi non ne
abbiamo mai ricevuti. Erich non l’ha
vista questa casa perché è morto tre
anni dopo, nell’autunno del ’53. È
morto nel sonno, come Pa’. Il
dottore ha detto che era malato di
cuore, ma io so che è stata la
stanchezza che ha preso il
sopravvento. Si muore solo per la
stanchezza. La stanchezza che ci
danno gli altri, che ci diamo noi
stessi, che ci danno le nostre idee.
Non aveva piú le sue bestie, il suo
campo era stato sommerso, non era
piú un contadino, non abitava piú il
suo paese. Non era piú niente di
quello che voleva essere e la vita,
quando non la riconosci, ti stanca in
fretta. Non ti basta nemmeno Dio.
Le parole che mi tornano piú
spesso in mente me le ha dette una
mattina di primavera, di ritorno da
una passeggiata. L’acqua
improvvisamente si era abbassata e
per qualche ora sono riemerse le
vecchie mura, i prati coperti di erba
e sabbia. Erich mi ha preso per
mano e portato alla finestra.
– Oggi mi sembra che da nessuna
parte ci sia piú acqua. Vedo ancora il
paese, la fontana con le mucche in
coda per dissetarsi, le distese d’orzo,
i campi di grano con Florian,
Ludwig e gli altri che li falciavano.
Me le ha dette con una voce
ingenua, quelle parole, e per un
momento mi è sembrato ancora lo
stesso di quando lo spiavo da dietro
lo stipite a casa di Pa’ e aveva i
capelli biondi che gli finivano
dispettosamente sugli occhi.
Dopo che è morto gli ho sfilato
dalla giacca il quaderno che mi
aveva mostrato quella notte. Da
quando non avevamo piú il
comodino delle calze se lo portava
sempre appresso. Ci ho trovato dei
nuovi disegni. Una bambina che va
sull’altalena, una che gli dorme in
braccio, una che pedala sulla
bicicletta coi capelli al vento. A
volte dubito che questa bambina sia
tu, mi dico che è la figlia di Michael,
che ogni tanto Erich aveva voglia di
vedere e di portarsi a passeggiare.
Gli piaceva sentirsi chiamare nonno
e andarsene con lei a tirare sassi
nell’acqua. Non so se quando era
con lei pensava a te visto che ormai,
come diceva lui, ti pensava senza
pensarti.
Oltre a questo quaderno, un
mazzetto di fotografie e una vecchia
scatola di fiammiferi, non ho piú
niente di lui. Non ho nemmeno piú
quel cappello con la visiera piegata
all’insú che da giovane si metteva
sempre. I suoi vestiti li ho lasciati a
un camioncino che passa ogni tanto
a ritirare abiti e scarpe da mandare ai
poveri dall’altra parte del mondo.
Forse l’unico modo di continuare a
vivere è farsi altro, non rassegnarsi a
stare fermi. Certi giorni me ne
pento, ma è tutta la vita che mi
succede cosí. D’improvviso devo
disfarmi delle cose. Bruciarle,
strapparle, allontanarle da me. Credo
sia la mia strada per non impazzire.
Qui dietro, sopra il paese
vecchio, c’è la sua tomba. È in un
piccolo cimitero che affaccia sul
lago artificiale. Pochi giorni prima
di mettere il tritolo alle case un
capomastro della Montecatini è
andato da padre Alfred a dirgli che
avrebbero ricoperto il camposanto
con una colata di bitume. Allora
padre Alfred lo ha preso per il collo,
l’ha fatto inginocchiare sotto l’altare
e l’ha obbligato a ripetere quello che
aveva detto davanti al crocifisso. Poi
l’ha cacciato a spintoni fuori dalla
chiesa ed è corso a chiamare Erich.
Per l’ultima volta Erich ha fatto il
giro di tutti i masi. Per l’ultima volta
la gente, anche quella che gli aveva
sempre sbattuto la porta in faccia e
sbuffato addosso, si è radunata
davanti alla chiesa a gridare che i
nostri morti non potevano venire
sommersi prima sotto il cemento e
poi sott’acqua.
Siamo rimasti in piazza fino a
tarda notte, finché dalla macchina
dei carabinieri è sceso l’uomo col
cappello. Con la sua voce gelata ha
promesso che avrebbe trovato una
soluzione. Il giorno dopo, con le
maschere sul viso, le tute
impermeabili, le pompe di
disinfettante a tracolla, un manipolo
di operai mandati dal Comune ha
dissotterrato le salme e le ha
trasportate qui sopra, a Nuova
Curon. I corpi, per occupare meno
spazio, li hanno trasferiti in piccoli
ossari e in bare da bambini. Quando
molti anni dopo padre Alfred è
morto, l’hanno sepolto vicino a
Erich. Sulla sua tomba c’è scritto
Dio gli conceda le gioie del cielo.
Su quella di tuo padre non ho fatto
scrivere niente.

D’estate scendo a fare due passi e


costeggio il lago artificiale. La diga
produce pochissima energia. Costa
molto meno comprarla dalle centrali
nucleari francesi. Nel giro di pochi
anni il campanile che svetta
sull’acqua morta è diventato
un’attrazione turistica. I villeggianti
ci passano all’inizio stupiti e dopo
poco distratti. Si scattano le foto con
il campanile della chiesa alle spalle
e fanno tutti lo stesso sorriso
deficiente. Come se sotto l’acqua
non ci fossero le radici dei vecchi
larici, le fondamenta delle nostre
case, la piazza dove ci radunavamo.
Come se la storia non fosse esistita.
Ogni cosa ha ripreso una strana
apparenza di normalità. Sui
davanzali e sui balconi sono tornati i
gerani, alle finestre abbiamo appeso
tendine di cotone. Le case che oggi
abitiamo somigliano a quelle di
qualsiasi altro borgo alpino. Per le
strade, quando finiscono le vacanze,
si sente un silenzio impalpabile, che
forse non nasconde piú niente.
Anche le ferite che non guariscono
prima o poi smettono di sanguinare.
La rabbia, persino quella della
violenza inflitta, è destinata come
tutto a slentarsi, ad arrendersi a
qualcosa di piú grande di cui non
conosco il nome. Bisognerebbe
saper interrogare le montagne per
sapere quello che è stato.
La vicenda della distruzione del
paese è riassunta sotto una pensilina
di legno, nel parcheggio degli
autobus delle agenzie viaggi. Ci
sono le fotografie della vecchia
Curon, dei masi, dei contadini con le
bestie, di padre Alfred che guida
l’ultima processione. In una si vede
anche Erich con i compagni del
comitato. Sono vecchie foto in
bianco e nero infilate sotto il vetro di
una bacheca, con qualche didascalia
in tedesco tradotta in un italiano
approssimativo. C’è anche un
piccolo museo che apre di tanto in
tanto per i pochi turisti curiosi. Di
quello che eravamo non rimane
altro.
Guardo le canoe che fendono
l’acqua, le barche che sfiorano il
campanile, i bagnanti che si
stendono a prendere il sole. Li
osservo e mi sforzo di comprendere.
Nessuno può capire cosa c’è sotto le
cose. Non c’è tempo per fermarsi a
dolersi di quello che è stato quando
non c’eravamo. Andare avanti, come
diceva Ma’, è l’unica direzione
concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe
messo gli occhi di lato. Come i
pesci.
Nota

La prima volta che sono stato a


Curon Venosta (Graun im
Vinschgau, in tedesco) è stato un
giorno d’estate del 2014. Nel
piazzale i pullman scaricavano
visitatori, di fianco arrivavano e
ripartivano frotte di motociclisti. C’è
un pontile che è il luogo ideale per
fotografarsi col campanile alle
spalle. Lí la coda per farsi un selfie è
sempre piuttosto lunga. Quella coda
di gente armata di smartphone è
stata l’unica immagine che sia
riuscita a distrarmi dallo spettacolo
del campanile sommerso e
dell’acqua che nasconde i vecchi
borghi di Resia e Curon. Non so
trovare nulla che dimostri piú
chiaramente la violenza della storia.
Da quell’estate a oggi sono
tornato diverse volte a Curon, e
quando ero lontano il pensiero e
l’immagine di quel paese di
montagna sull’orlo del confine
svizzero e austriaco mi hanno
accompagnato senza sosta. Per un
paio d’anni ho studiato tutto quello
che ho potuto, ogni testo e
documento che ho trovato. Mi sono
fatto aiutare da ingegneri, storici,
sociologi, insegnanti, bibliotecari. E
soprattutto ho ascoltato i testimoni,
oggi anziani, di quegli anni violenti.
Avrei voluto anche intervistare
qualcuno dell’Edison – l’ex
Montecatini, la grande azienda che
ha portato avanti la costruzione della
diga – ma nessuno ha mai ritenuto di
concedermi un incontro, né di
rispondere alle mie mail o alle mie
telefonate. Peccato, sarebbe stato di
grande interesse consultare i loro
archivi e porre qualche domanda.
(Per esempio: in che modo e perché
sono morti 26 manovali durante i
lavori? Con quanta attenzione sono
state valutate le conseguenze sociali,
economiche, psicologiche degli
espropriati? L’azienda riconosce
responsabilità etiche e morali nelle
comunicazioni fatte alla popolazione
visto che sono tutte avvenute in una
lingua che gli abitanti non
intendevano? È vero, come riporta il
quotidiano «Dolomiten» del 7
settembre 1950, che dieci giorni
dopo la sommersione di Resia e
Curon la Montecatini ha organizzato
una gara di vela sul lago?)
Alla storia di Curon ho spesso
sovrapposto la storia dell’Alto
Adige - Südtirol, pur sapendo che
quel paese, come tutte le realtà
piccole e di confine, ha avuto
dinamiche a volte piú particolari.
Del resto la storia di questa regione,
l’unico luogo in Europa in cui si
sono susseguiti senza soluzione di
continuità fascismo e nazismo,
benché ormai esistano diversi testi,
anche narrativi, che ne parlano, è a
mio giudizio una pagina della storia
d’Italia non solo dolorosa e
controversa, ma ancora da
raccontare.
Per la vicenda della diga ho
seguito le tappe fondamentali che
emergono dalla bibliografia e dalle
testimonianze, romanzandola e
raccontandone i soli passaggi
salienti. L’alterazione della
toponomastica dei luoghi, della
scansione degli eventi, l’inserimento
di pagine di fantasia sono
evidentemente dovuti a esigenze
narrative. Il romanzo, del resto, non
può fare a meno di falsificare e di
trasfigurare. Dunque, come è prassi
dichiarare, i personaggi sono
inventati e ogni riferimento a
persone e cose è puramente casuale.
Sono voluti i riferimenti ai
personaggi storici menzionati
(compreso padre Alfred, ispirato al
pastore Alfred Rieper, parroco di
Curon per circa cinquant’anni), cosí
come ai fatti narrati, che non mi
sembrano intaccati nella loro
sostanza anche quando filtrati dalla
mia libera creazione.
A me, ma forse accade lo stesso a
molti scrittori, non interessava la
cronaca della storia altoatesina né
quella delle vicende di uno dei tanti
paesi schiacciati da interessi
politico-economici incontrastabili
dalla gente comune (che andrebbero,
per altro, analizzati in una
prospettiva ben piú ampia e
imparziale di quanto si possa fare in
un romanzo). O meglio, questi fatti
mi interessavano, ma come punto di
partenza. Se la storia di quella terra
e della diga non mi fossero parse da
subito capaci di ospitare una storia
piú intima e personale, attraverso cui
filtrare la Storia con la s maiuscola,
se non mi fossero immediatamente
sembrate di valore piú generale per
parlare di incuria, di confini, di
violenza del potere, dell’importanza
e dell’impotenza della parola, non
avrei, nonostante il fascino che
questa realtà esercita su di me,
trovato interesse sufficiente per
studiare quelle vicende e scrivere un
romanzo. Sarei rimasto anch’io a
bocca aperta a guardare il campanile
che sembra galleggiare sull’acqua,
mi sarei affacciato dal pontile per
cercare di intravedere i resti di quel
mondo sotto lo specchio del lago e
poi, come tutti, sarei andato via.
M. B.
Ringraziamenti.

Mi limito ai ringraziamenti
imprescindibili perché mai come per
questo libro la lista sarebbe lunga. Prima
di tutto Alexandra Stecher per il suo
preziosissimo testo Eingegrenzt und
Ausgegrenzt: Heimatverlust und
Erinnerungskultur e per la sua
disponibilità; Elisa Vinco per avermi piú
volte aiutato a tradurre dal tedesco;
l’onorevole Albrecht Plangger per
avermi organizzato un tour a Resia e
Curon per incontrare numerosi esperti e
testimoni; Carlo Romeo per le
consulenze storiche e i preziosi
suggerimenti bibliografici; la
professoressa Letizia Flaim per avermi
fatto conoscere, tramite il suo libro
Scuole clandestine in Bassa Atesina:
1923-1939 (scritto con Milena
Cossetto), una considerevole bibliografia
sulle scuole clandestine. Un grazie
particolare va a Florian Eller e, piú di
tutti, a Ludwig Schöpf, maestro e
miniera di informazioni su questa
vicenda, oltre che interprete
straordinario che mi ha permesso di
entrare in contatto con i testimoni e la
loro lingua. Grazie al mio agente,
Piergiorgio Nicolazzini, per la
discrezione e l’attenzione con cui ha
seguito il progetto e lo ha sostenuto.
Grazie infine agli amici che hanno letto
il romanzo prima della pubblicazione
senza risparmiarmi critiche e
osservazioni. In particolare a Irene
Barichello, Alberto Cipelli, Francesco
Pasquale e Stefano Raimondi, che hanno
seguito la stesura del romanzo passo
passo.
E grazie come sempre ad Anna, che
sa tirarmi fuori le parole che non penso
di riuscire a trovare.
Il libro

Q
UANDO ARRIVA LA GUERRA
o l’inondazione, la gente
scappa. La gente, non
Trina. Caparbia come il paese di
confine in cui è cresciuta, sa
opporsi ai fascisti che le
impediscono di farela maestra.
Non ha paura di fuggire sulle
montagne col marito disertore. E
quando le acque della diga stanno
per sommergere i campi e le case,
si difende con ciò che nessuno le
potrà mai togliere: le parole.
Marco Balzano ha la sapienza dei
grandi narratori: accorda la
scrittura al respiro dei suoi
personaggi. Con una voce intima
che restituisce vita alla Storia,
ritrae la forza di una comunità
nell’attimo in cui, aggrappandosi
alla rabbia, sceglie di resistere.

«Se per te questo posto ha un


significato, se le strade e le
montagne ti appartengono, non
devi aver paura di restare».

L’acqua ha sommerso ogni


cosa: solo la punta del campanile
emerge dal lago. Sul fondale si
trovano i resti del paese di Curon.
Siamo in Sudtirolo, terra di
confini e di lacerazioni: un posto
in cui nemmeno la lingua materna
è qualcosa che ti appartiene fino
in fondo. Quando Mussolini mette
al bando il tedesco e perfino i
nomi sulle lapidi vengono
cambiati, allora, per non perdere
la propria identità, non resta che
provare a raccontare.
Trina è una giovane madre che
alla ferita della collettività somma
la propria: invoca di continuo il
nome della figlia, scomparsa
senza lasciare traccia. Da allora
non ha mai smesso di aspettarla,
di scriverle, nella speranza che le
parole gliela possano restituire.
Finché la guerra viene a bussare
alla porta di casa, e Trina segue il
marito disertore sulle montagne,
dove entrambi imparano a
convivere con la morte. Poi il
lungo dopoguerra, che non porta
nessuna pace.
E cosí, mentre il lettore segue
la storia di questa famiglia e
vorrebbe tendere la mano a Trina,
all’improvviso si ritrova
precipitato a osservare, un giorno
dopo l’altro, la costruzione della
diga che inonderà le case e le
strade, i dolori e le illusioni, la
ribellione e la solitudine.
Una storia civile e attualissima,
che cattura fin dalla prima pagina.
Il nuovo grande romanzo del
vincitore del Premio Campiello
2015, già venduto in diversi Paesi
prima della pubblicazione.
L’autore

MARCO BALZANO è nato a


Milano nel 1978, dove vive e
lavora come insegnante. Oltre a
raccolte di poesie e saggi ha
pubblicato tre romanzi: Il figlio
del figlio (Avagliano 2010;
Sellerio 2016, Premio Corrado
Alvaro Opera prima), Pronti a
tutte le partenze (Sellerio 2013,
Premio Flaiano) e L’ultimo
arrivato (Sellerio 2014, Premio
Volponi, Premio Biblioteche di
Roma, Premio Fenice Europa e
Premio Campiello 2015). I suoi
libri sono tradotti in diversi Paesi.
© 2018 Giulio Einaudi editore
s.p.a., Torino
Edizione pubblicata in accordo con
Piergiorgio Nicolazzini Literary
Agency (PNLA), Milano
In copertina: foto © Anirut
Thailand / Shutterstock.
Elaborazione grafica.

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Ebook ISBN 9788858427880

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