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alessandro apreda

È che poi
al destino non puoi mica
dare sempre del tu

edizioni antro atomico


docmanhattan.blogspot.com

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A Paola. Senza cui non ci sarebbe stato
e non ci sarebbe più nulla

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Non lo so... se abbiamo ognuno il suo destino
o se siamo tutti trasportati in giro per caso
come da una brezza... ma io credo, può darsi
le due cose, forse le due cose capitano
nello stesso momento
FORREST GUMP

I stay, I pray, I see you in heaven one day


MOONLIGHT SHADOW

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[1]
Raijin Rendez-vous

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I.

Perché, vede, il fatto è che io c’ero.


Quando lui è arrivato, quando tutto questo è
successo, io c’ero. E c’ero pure quando è finito.
Nessuno aveva all’inizio la benché minima idea del
perché avesse scelto proprio la nostra città e proprio
quel posto. Voglio dire: Cosenza? Con tutti i posti
del mondo? Ma... Come dice? Ah, è vero, le chiedo
scusa, che maleducato.
Mi chiamo Biagio Antonacci, come il cantante.
Solo che io faccio il giornalista, scrivo... voglio dire,
scrivevo per un quotidiano locale. Un giorno il capo
– 36 anni, laurea in economia e commercio, uomo
di un’intelligenza viva ma sfruttata poco e male, se
posso dirlo. Pace all’anima sua – mi chiama dal suo
gabbiotto e mi fa: «Antonacci, ce l’hai sempre il pass
auto per il centro storico, sì?»
Ora, io stavo finendo di scrivere un pezzo sullo
scandalo Scimmiuzzi e non avevo granché voglia
di arrivare fino al centro storico. Sa, era estate,
e d’estate a Cosenza faceva un caldo terrificante.
Così risposi senza sollevare la testa dal monitor:
«Sì, ce l’ho. Quello che mi manca è un’auto con il
climatizzatore. Devo andarci proprio io?»
Il mio capo fece sì con la testa tenendo gli occhi

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chiusi. Sorridendo.
«Dai, su! Non puoi mandarci qualcun altro?
Minetti! Minetti c’ha il pass e la Honda nuova»,
provai a insistere, sbuffando.
Il mio capo fece di nuovo sì con la testa, senza
aprire gli occhi, mentre da dietro il monitor di
Minetti – Giorgio, 28 anni, diplomato, raccomandato
dallo zio onorevole – sorgeva al rallentatore un dito
medio.
E insomma presi la giacca, il registratore digitale
e la moleskine e andai, senza nemmeno chiedere di
cosa si trattasse.
«È solo un tipo strano che si è arrampicato sulla
Prefettura», mi raggiunse la voce del capo quando
avevo già attaccato la prima rampa di scale. «Chiedi
in giro che vuole e, se proprio si butta, assicurati di
scattare almeno qualche foto con il cellulare. Prima
e dopo»
Arrivai a Piazza Prefettura zuppo di sudore. Sulla
camicia mi si andavano disegnando le macchie di
Rorschach, la cravatta penzolava senza troppa voglia
dal nodo allentato, la giacca stretta in mano era un
cencio di lino inservibile. C’erano almeno quaranta
gradi e l’aria era così ferma che tutte le persone
presenti, all’ombra del palazzo della Prefettura e con
il naso all’insù per guardare la scena, sembravano
immobili.
Poi mi avvicinai e vidi che erano davvero
immobili.
«Che succede?», chiesi a un poliziotto, ma quello
non scollò gli occhi dal tetto e si limitò a fare un
cenno con il volto in quella direzione, sollevando

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leggermente il mento.
La scena era in effetti surreale: sulle tegole
arancioni del tetto della Prefettura di Cosenza c’era
un vecchio a piedi nudi, con una casacca di tipo
orientale e il capo scoperto. Immobile anche lui. A
gambe divaricate. Le mani giunte come un monaco
tibetano, aveva dei grandi tamburi legati alla
schiena, a formare una sorta di raggiera tutt’intorno
alla sua figura. Ma quello non era il primo pazzo
che si arrampicava sulla Prefettura dopo aver perso
la moglie o il lavoro, e di certo non sarebbe stato
l’ultimo.
O almeno così pensavo.
E invece sarebbe stato decisamente l’ultimo.
«Cos’è», domandai ancora al poliziotto, «un
musicista di strada? Un altro agente di commercio
colpito dalla crisi?»
Sempre senza voltarsi, l’agente si limitò a un
«Guarda»
E proprio in quel momento il vecchio sfilò da
dietro la schiena un bastone e colpì con forza
uno dei tamburi. Nello stesso istante, un fulmine
squarciò il cielo bollente d’agosto alle sue spalle,
incendiando un grosso olmo nell’adiacente villa
comunale. Il fulmine non fu accompagnato da alcun
tuono, e tra i presenti si levò un oooooh che era
di timore ma anche e soprattutto d’ammirazione.
Una signora dall’aria distinta con il cagnolino
tascabile sottobraccio azzardò perfino un abbozzo
di applauso.
Ci fu allora un po’ di trambusto alle mie spalle,
si udirono delle sirene, una gazzella della polizia

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inchiodò a pochi metri da noi e ne scese il Vice
questore aggiunto Saverio Sturati. Alto, con i capelli
grigi ordinatissimi sotto il cappello d’ordinanza, una
figura militare d’altri tempi. Salutò i presenti con
un cenno della mano, si fece largo fino al poliziotto
al mio fianco e riversò sul povero agente e sui due
colleghi presenti sul posto una lavata di testa di
proporzioni epiche.
«Si può sapere cosa diavolo stiamo aspettando?»,
urlò loro, secco. «Un pazzo maneggia fuochi
d’artificio sul palazzo che rappresenta il Governo in
città e noi lo lasciamo fare indisturbato? Vogliamo
portagli anche un caffè, Verzi? Eh? EH?!?»
«Sarebbe Terzi, signore, Gianantonio Terzi»,
rispose quello con una vocina
«Terzi, Verzi... Cosa minchia vuole che mi importi?
Mi dia qua!» e gli sfilò di mano con fare teatrale il
megafono.
Con passo sicuro e aria marziale, il Vice questore
aggiunto Sturati si portò a ridosso della facciata
del vecchio edificio color sabbia, puntò il pugno
sinistro sul fianco, alzò il megafono verso l’alto e
ci urlò dentro: «Non so chi diavolo tu sia, amico,
e sinceramente non me ne frega un accidenti. Ma
non siamo a Carnevale né a Capodanno, e questa
comunque non è Rio. Perciò scendi immediatamente.
O se preferisci buttati di sotto, quel che ti pare.
Basta che non ci costringi a venirti a prendere
lassù, intesi?»
Ma il vecchio niente, immobile.
«Mi hai sentito, pezzente? Lo capisci l’italiano?>
Nulla.

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«Sei mica un extracomunitario? Êtes-vous un
marocain?»
Zero.
«Sei muto? Che problema hai?»
Neanche un battito di ciglia.
«Adesso mi hai proprio rotto i coglioni», tuonò
infine il Vice questore aggiunto. «Verzi! Chiama la
centrale e fai mandare i mezzi con le scale. Lo faccio
scendere io, questo stronzo!»
E guardi, ne sono sicuro, fu proprio nel sentire
quest’ultima parola che il vecchio si voltò a guardare
in direzione del Vice questore. Solo che gli occhi del
vecchio bruciavano.
No, non nel senso che lo fissavano con rabbia.
Bruciavano proprio: si vedevano fin da laggiù,
dov’eravamo ammassati io e tutti gli altri, quelle
fiamme. E il vecchio non si limitò a guardarlo con
quegli assurdi occhi infuocati: diede un altro colpo
secco a quel tamburo, bam!, e un fulmine si abbatté
su Saverio Sturati, incenerendolo sul posto.
A quel punto ci fu un fuggi-fuggi generale, tra
urla, spinte e borsettate, mentre dei nuvoloni
neri ricoprivano il cielo a una velocità da cartone
animato. Altri colpi di tamburo, altri fulmini, questa
volta accompagnati da dei tuoni pazzeschi. Bam!
Una vecchia Ritmo beige parcheggiata davanti alla
statua del filosofo Bernardino Telesio esplose e gli
alberi accanto al vecchio teatro Rendano presero
fuoco. Quindi la statua del filosofo finì in pezzi,
ponendo fine a oltre duecento anni di onorato
servizio e sopportazione stoica dei numeri da
circo messi in piedi dagli studenti dell’omonimo,

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attiguo liceo classico; il 21 sbarrato Prefettura-
Campagnano, fortunatamente privo di passeggeri,
venne sventrato; tutte le finestre del liceo andarono
in frantumi. Veniva giù una pioggia fitta e gelida
come non se n’erano mai viste.
Io mi ero nascosto sotto la pensilina dell’Atac,
e mentre pregavo che quella storia della gabbia di
Faraday studiata a scuola in fisica non fosse una
minchiata, il vecchio spalancò le braccia e urlò:

«ほっといてバカ!!! »
Allora io aprii la moleskine e appuntai in fretta,
mentre la pioggia sbavava tutto l’inchiostro: vecchio
pazzo giapponese scaglia fulmini. Ed è parecchio
incazzato.

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II.

Arrivò altra polizia, la zona fu transennata e si


cercò di recuperare i resti del povero Vice questore
Sturati, ma la pioggia, che continuava a venire giù
in modo pazzesco, aveva lavato via tutta la cenere,
e da consegnare alla sua vedova era rimasto solo il
cappello d’ordinanza mezzo bruciato.
I cecchini delle squadre speciali erano stati
piazzati sul tetto del Teatro, dall’altro lato della
piazza, ma la pioggia incessante e le folate di vento
rendevano impossibile prendere la mira. Il prefetto
aveva disposto che si cercasse subito un interprete
madrelingua giapponese, solo che il problema, vede,
è che Cosenza era una città piuttosto piccola.
Vita di provincia, meno di centomila abitanti,
giusto qualche emigrante italotedesco d’estate.
Dove lo trovavi ora, su due piedi, un interprete
madrelingua?
Passarono così almeno un paio d’ore, durante le
quali ricordo che provai e riprovai ad accendermi
una sigaretta, ma il pacchetto si era talmente
inzuppato che non ce n’era verso, finché trovarono
miracolosamente questa ragazza di Osaka che
studiava alla facoltà di Lingue dell’Università della
Calabria per uno di quei programmi di scambio,

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quelle robe lì in cui si buttano dentro gli universitari
che non c’hanno voglia di fare un cazzo, ha presente?
L’unica giapponese ufficialmente residente in città.
Beh, la infilarono in una gazzella e la portarono
lì. Ma appena arrivò sul posto e vide il vecchio, la
giovane Akiko Yamashita da Osaka aprì lo sportello
e corse via, urlando come un’invasata.
Non fecero a tempo a riprenderla, così ci si dovette
accontentare di Gianluca Bidelli, appassionato di
Giochi di Ruolo, master del locale circolo Dragon’s
Brutium Dungeon e padrone di una conoscenza
piuttosto basilare del giapponese maturata da
autodidatta giocando ai videogiochi giapponesi e
chattando su Facebook con una ragazza di Sapporo.
Dopo avergli piazzato in mano il megafono, e
avergli taciuto a tradimento la sorte toccata al Vice
questore Sturati, il prefetto ordinò al giovane Bidelli
di chiedere al giapponese pazzo chi fosse, che cosa
volesse, e soprattutto cosa diavolo se stesse facendo
sul tetto del suo ufficio.
Gianluca Bidelli chiese, e lo sciagurato rispose.

Potrei avere dell’acqua, per piacere? Grazie mille.


Dov’ero rimasto? Ah, sì: Bidelli, giusto.
Ci fu questo scambio di battute tra i due, in
giapponese stretto, poi il giovane appassionato di
Giochi di Ruolo ripassò il megafono, sorridendo
soddisfatto.
«Embè? Allora», chiese con impazienza il prefetto.
«Allora è come le dicevo», gli rispose il ragazzo.
«L’ho riconosciuto subito, anche prima di parlargli.
Quello è Raijin, il dio giapponese dei fulmini e delle

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tempeste»
Il prefetto dovette impiegare qualche minuto per
assimilare il concetto, perché rimase lì fermo, con
l’espressione assente e un lieve tremito nervoso
dell’occhio sinistro, fissato da tutti.
«Il... che cosa?», chiese poi dopo aver realizzato.
«E cosa minchia ci fa un dio giapponese a Cosenza?»
«Dice che c’è stato un errore: c’è finito per sbaglio.
Ma visto che si trova qui, è qui che avverrà l’incontro»
«Incontro? Quale incontro? Incontro con chi? Ma
vuoi parlare, benedetto ragazzo?!?»
«E che ne so io, scusi? Mica me l’ha detto!»
«E allora chiediglielo!!!», gridò il prefetto, ormai
paonazzo in volto.
«Fossi matto. Ha detto che chiunque oserà
disturbarlo, d’ora in avanti, subirà la sua ira. Non
so cosa sia quest’incontro di cui parla, ma io me ne
vado da mia zia ad Avellino. Arrivederci»
L’interprete se ne andò, il prefetto rimase di nuovo
senza parole, e il vecchio pazzo/dio giapponese con
il fuoco negli occhi riprese a fissare l’infinito. Giusto
al di là della valle del Crati.

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III.

Poi, per qualche giorno, non si mosse una foglia.


Cioè, a parte un intero stormo di Agusta-Bell AB-
212 dell’esercito levatosi in volo dalla base di
Sigonella, che venne incenerito dal vecchio con una
spaventosa serie di saette. Ogni colpo di tamburo un
fulmine, ogni fulmine un’esplosione, ogni esplosione
una palla di fuoco e una pioggia di rottami. Bam!
Bam! Bam!
Il ministro della difesa Santini, arrivato da Roma
in elicottero, aveva dato alla cittadinanza residente
nella fascia rossa ventiquattro ore per abbandonare
le proprie abitazioni, dopo di che tutte le vie di
accesso erano state chiuse. L’uscita dell’A3 alla
rotatoria dell’ex Clinica la Madonnina, la statale
da Rende, la vecchia strada che taglia la Villa
Comunale, Viale Parco, la sopraelevata, la via degli
zingari vicino al fiume. Tutte. Più di quattrocento
uomini della Folgore, del 1° Reggimento Bersaglieri
Brigata Garibaldi, della Polizia e sei vigili urbani della
Municipale stringevano d’assedio Piazza Prefettura
su tutti i lati, tenendo d’occhio la situazione e
aspettando dall’alto ordini sul da farsi.
Lui, il vecchio, era sempre lì: immobile, tutto il
giorno e tutta la notte. Sul lato più riparato della

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piazza, sotto i portici della libreria nazionale, si era
allestita nel frattempo una mini tendopoli per noi
giornalisti. Erano arrivati colleghi letteralmente da
ogni parte del mondo, e il più spaventato di tutti
era ovviamente un giapponese, il corrispondente
dell’Asahi Shinbun da Roma, Hiro Muratori.
Se ne stava lì accucciato dietro le colonne
del teatro, tremava e... no, “spaventato” non è
probabilmente il termine più adatto. Quell’uomo era
letteralmente terrorizzato. Sudava paura. E andava
biascicando in continuazione di un’antica profezia
tramandata sulle Alpi giapponesi da chissà quanto
tempo.
Allora ricordo che io e Jeanne Scapicchi, cronista
francese di Le Monde ma originaria di Caltanissetta,
cercammo di saperne di più e iniziammo a
tempestarlo di domande, ma quello teneva gli occhi
sbarrati dietro gli occhiali in tartaruga, si asciugava
i sudori freddi dalla fronte con un fazzoletto su
cui erano ricamati i personaggi di Yattaman e non
parlava. Solo alla fine del terzo giorno, mentre
accettavo un po’ di caffè fatto con il solubile
offertomi dalla troupe della CNN, Muratori mi disse,
nel suo italiano influenzato dalla forte impostazione
sillabica giapponese e da una conversione pressoché
automatica di tutte le L in R: «Biagio, gurande
inconturo orumai purossimo. Purofezia moruto
chiara. Quaruto giorno arriveranno anche artri»
«Sì, lo so», gli risposi, impegnato com’ero a bere
quella brodaglia amarissima e fingere al contempo
che non fosse una ciofeca, per una questione di
buona educazione. «Il vecchio ha parlato di questo

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incontro all’interprete, il primo giorno. Solo che...
ehi, aspetta un momento! Quali altri? Di quali altri
parla la vostra profezia?»
Ma Muratori era ormai solo il guscio vuoto della
sua paura, e non aprì più bocca.
A ogni modo, non abbiamo dovuto attendere
troppo per scoprirlo: all’alba del giorno seguente, un
boato pazzesco fece esplodere le finestre superstiti
degli edifici affacciati sulla piazza. Uscii dalla mia
monoposto cerata a igloo comprata da Decathlon
per una vacanza a Corfù con un ronzio incredibile
ancora a spasso nelle orecchie, ma dovetti coprirmi
subito gli occhi, perché fuori tutto era illuminato a
giorno da un bagliore al calor bianco.
Solo dopo qualche istante, gli occhi ridotti a
due fessure, riuscii a scorgere una sagoma nera al
centro di quella luce. Quella sagoma – e sì, lo so che
sembra incredibile, ma dopo che hai visto un dio
delle tempeste giapponese dal vivo ti abitui in fretta
un po’ a tutto, mi creda - era un uomo. Un uomo
che stava calando letteralmente dal cielo.
Era altissimo, possente e indossava una corazza
metallica tutta intarsiata e dei calzari di pelliccia.
Con una mascella talmente squadrata da annichilire
quel tizio di Beautiful. In un inquietante silenzio io,
Jeanne la cronista francese, i ragazzi della troupe
della CNN con il loro caffè terrificante, i colleghi
svizzeri, inglesi, tedeschi, australiani, e perfino
Hiro Muratori, guardammo questa figura nobile e
maestosa, con i suoi lunghi capelli biondi, poggiarsi
con la grazia di un falco su un lampione.
«Io sono Thor!!!», gridò all’improvviso, con

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il tuono nella voce. Il lampione fu avviluppato
dalle scariche elettriche, il suo faretto esplose in
una pioggia di scintille, tre quarti delle macchine
fotografiche dei reporter pure, e tutti tremarono per
la forza di quell’urlo.
«Ça alors!!», mi sussurrò Jeanne all’orecchio.
«Questo sì che è un dio delle tempeste! Minchia!»

Ora, chi fosse Thor lo sapevamo un po’ tutti,


senza bisogno di un interprete. Voglio dire: io ne
avevo letto le storie a fumetti sugli albi Corno e
guardato i cartoni in TV da ragazzino, e come me
molti altri colleghi. Thor il dio del Tuono, figlio di
Odino, fratellastro di Loki, il ponte dell’arcobaleno,
il martello di uru, eccetera eccetera. Solo che non ti
aspetti di incontrarlo davvero un giorno, così. Beh,
soprattutto non a Cosenza.
Ma va anche detto che quello non era il Thor
dei fumetti. Non era un super-eroe: era un essere
bellissimo ma in grado di farti perdere i capelli dalla
paura con uno sguardo. Anche senza.
Ma comunque era vero, era lì, anche lui immobile
dopo il suo trionfale ingresso in scena in stile film
di Michael Bay, ed emanava abbastanza scariche
elettriche da dare energia a una piccola città per
mesi. Questo, e la sua corazza era molto meno
ridicola di quella che si vede negli albi Marvel, me
lo lasci dire.
«Quello... quello è...» prese a dirmi un giornalista
norvegese.
«Lo so. Lo so chi è», gli risposi. «Grazie lo stesso».
Idiota.

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Poi cercai Jeanne, ma nessuno sapeva che fine
avesse fatto. Allora ho avuto paura che le fosse
successo qualcosa, sa, con tutte quelle piccole
esplosioni provocate dalle scariche elettriche. Presi
a setacciare la tendopoli dei giornalisti, le colonne
lì accanto, finché non trovai spalancato il portone
della biblioteca nazionale e provai a cercarla là.
«Jeanne? Ma che ci fai qui dentro? Come sei
riuscita ad entrare e, uh, cosa stai facendo?», le
chiesi, dopo averla trovata in un salone polveroso del
primo piano, con le finestre sventrate dalle esplosioni,
i vetri sparsi dappertutto a terra, in mezzo a libri
e cartacce. Jeanne era di spalle, di fronte a una
grossa pila di libri e registri.

Lei si girò, e si stava spazzolando con forza i capelli


castani con un grosso pettine, fissandosi assorta in
uno specchietto pieghevole.
«Ah, niente. Prova a starci te con i capelli in ordine
con tutta quell’elettricità nell’aria. Ma non sono qui
per questo. Vieni»
E mi trascinò su al secondo piano, stringendomi
delicatamente la mano con quelle dita lunghe e
bellissime e io chissà che mi pensai, ma in realtà
eravamo diretti solo al reparto “Storia e Civiltà”.
Frugò tra vecchi libri, buttando a terra tutti quelli
che non le servivano per fare prima, e mentre
io mi chinavo goffamente a raccoglierli, in una
grande nuvola di polvere, me ne mostrò uno tutta
soddisfatta:
«Eccolo! Questo dovrebbe fare al caso nostro»
Le chiesi a cosa le servisse un libro di mitologia,

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visto che conoscevamo già l’identità dei due tizi
là fuori, e lei mi accarezzò il volto in un modo
incredibilmente francese, estremamente dolce, così
dannatamente sensuale che dovetti far ricorso a
tutto il mio autocontrollo per restare concentrato
su quello che Jeanne diceva. E quello che Jeanne
diceva era:
«Sveglia, Antonacci. Il nostro giapponesino lì,
Muratori, citando la profezia dei nonni ha parlato
di altri. Plurale».
E di altro dio delle tempeste, fino a quel momento,
ne era arrivato in effetti soltanto uno.

Dopo altri due giorni di stallo – Thor fermo come


una nobile statua di marmo su quel lampione, il
vecchio di fronte a gambe divaricate sul tetto come
un cavallerizzo – il ministro Santini ordinò, di
concerto con il generale GianMaria Bastoni Zanti
un raid. Alcuni soldati vennero a svegliarci nella
tendopoli all’alba, chiedendoci di portarci all’interno
della libreria nazionale. “Chiedendoci” per modo di
dire, visto che io fui praticamente trascinato via di
peso prima ancora che riuscissi a uscire dal sacco a
pelo, ma vabbé. Qualcuno provò a opporsi, qualcuno
no, ma non ci fu comunque tempo per mettersi al
riparo, perché i bersaglieri della Brigata Garibaldi
irruppero nella piazza dalla discesa grande, dal
lato del Teatro, giù dai tetti del vicino liceo classico
Bernardino Telesio. Avanzarono e aprirono il fuoco
quasi subito sulle due figure appollaiate là in alto
con tutte le armi a loro disposizione. Sventagliate di
mitra ed esplosioni dei colpi di bazooka avvolgevano

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le due divinità in un inferno di fuoco e fumo, mentre
tutti noi ci coprivamo le orecchie e ci buttavamo
per terra. Solo che quei due rimasero lì impassibili,
come se niente fosse.
Quando tutto quell’enorme volume di fuoco si
placò, quando gli ultimi bossoli rimbalzarono sui
sampietrini della piazza, quelli erano assolutamente
illesi. Loro e quello che indossavano. Niente. Come
avessero bevuto un bicchiere d’acqua fresca.
Fu a quel punto che Thor sorrise.
Quell’essere nobile, alto, biondo e maestoso,
allungò gli angoli delle labbra in un sorriso. E lo
vedevi benissimo, perché i denti brillavano di un
bianco abbagliante. Sorrise, e poi scoppiò proprio
a ridere, di gusto. Occhi, telecamere e reflex digitali
superstiti dei presenti lo scrutavano un pelo
preoccupati, quando la risata si interruppe e Thor
tuonò: «Mittel unteran gaier?!?»
«Non ne sono sicuro», disse il giornalista
norvegese. «Ma credo abbia chiesto se hanno finito»
Il ministro Santini ordinò la ritirata e gli uomini
della Brigata Garibaldi ripiegarono alla bene e
meglio. Mentre una reporter della stampa cercava di
strappargli una dichiarazione a caldo sull’insuccesso
dell’attacco, il ministro si aggiustò gli occhiali, ravviò
i capelli radi sulla fronte, sorrise e prese a picchiare
la fronte contro un muro per la frustrazione.

Passarono le ore, e niente. Passò un giorno, e


niente. Ne passarono due. Poi l’intero Teatro alle
nostre spalle esplose.
Ma fu un’esplosione parecchio strana, vede.

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Perché non volarono detriti né calcinacci o polvere.
Niente di niente. Nessuno si fece un graffio, anche
se eravamo a due passi dalla scena. Fu una sorta di
implosione, come se la struttura del vecchio teatro
fosse crollata improvvisamente su se stessa in modo
ordinato. Ha presente quelle scene che si vedono in
tv dei palazzi fatti crollare con l’esplosivo? Quelle
robe cinesi? Solo che a tirar giù il Teatro di tradizione
Alfonso Rendano non erano state delle cariche di
tritolo piazzate con cognizione di causa ma un uomo
precipitato dall’alto. La struttura di stile neoclassico
che aveva superato due secoli di onorato servizio
resistendo stoicamente ai bombardamenti alleati
del ’43, venne distrutta da una figura infuocata
piombata al suolo come un meteorite.
Da sotto le macerie emerse poco dopo un ometto
piuttosto basso, una figura tarchiata che indossava
un elmo di metallo grezzo e una specie di tunica
bianca. In una mano impugnava una lunga lancia
dalla punta scintillante, nell’altra uno scudo dorato
senza incisioni. Venne fuori, aprendosi la strada tra
tonnellate di colonne abbattute ricoperte di scritte
a pennarello dagli studenti e blocchi di cemento,
spostandoli con lancia e scudo come fossero gli
imballaggi di polistirolo di un televisore LCD.
Avanzò quindi lentamente verso il centro della
piazza, scrollandosi di dosso la polvere con un
movimento di spalle, e a ogni passo l’asfalto sotto
i suoi piedi tremava, come scosso da un violento
terremoto. Quell’essere aveva una lunga barba
scura, ma accoppiata in qualche modo a dei baffi
biondi. Non fosse stato per gli abiti e le armi da

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guerriero, ti dava proprio l’idea di quel genere di
giostrai dell’Est che gestiscono gli autoscontri e i
calcinculo alle fiere di paese.
Il vecchio in cima alla prefettura sorrise.
Thor pure.
«Ed ecco l’ultimo invitato alla festa», disse Jeanne
con aria compiaciuta, reggendosi a me per non
cadere. «Come avevo previsto, si tratta di Perun,
il dio del tuono dei popoli slavi. Mi devi quaranta
sacchi, Rosenberg!»
Il collega norvegese, indispettito, pagò subito la
scommessa.
E fu proprio a quel punto, vede, che le cose si
fecero parecchio confuse.

23
IV.

Perché, si chiedeva il ministro Santini parlando


fitto con Bastoni Zanti, mentre i suoi uomini
cercavano di allontanare microfoni e telecamere -
ma ci chiedevamo in buona sostanza anche tutti
noi altri, giornalisti e soldati - cosa si incontreranno
mai a fare in un posto tre incazzosissimi dei della
tempesta come quelli?
L’idea della rimpatriata tra vecchi amici con
partitella era decisamente da scartare.
E che il vecchio Raijin, quel dio giapponese pazzo
fosse finito proprio lì per caso, avesse dato il via
a quell’enorme circo per sua stessa ammissione
nel posto sbagliato, non contava ormai più nulla:
il centro storico di Cosenza era destinato, che lo
volessimo o meno, a fare da sfondo a una battaglia
dalle conseguenze inimmaginabili. Anche se io, sa,
una qualche idea sui danni, a giudicare dal casino
che quei tre avevano piantato al loro arrivo, pur
nell’assenza totale di punti di riferimento storici al
riguardo me la stavo già facendo. Fatto sta che ci
aspettavamo tutti che le cose potessero precipitare
da un momento all’altro.
E invece per due giorni non successe nulla.
Ma niente. Proprio zero.

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Perun si era unito agli altri due nella loro ferrea
immobilità contemplativa: fermo al centro della
piazza, fissava intensamente il vecchio Raijin sul
tetto, il quale fissava intensamente a sua volta Thor
sul suo lampione, che fissava intensamente il primo,
chiudendo il triangolo.
La mattina del terzo giorno mi svegliai però di colpo,
perché qualcuno stava armeggiando dall’esterno
con la lampo della mia tenda. Pensai fossero di
nuovo i bersaglieri, ma invece era Jeanne. Le chiesi
che c’era ma lei mi mise un dito sulle labbra per
zittirmi, poi mi trascinò fuori così com’ero, scalzo,
a petto nudo e in boxer. E con, ecco, un’erezione
mattutina di un certo livello.
«Mi sono alzata presto per scattare delle foto a
Thor. Per quanto sia difficile crederlo, con la luce
dell’alba addosso quel gran manzo sembra ancora
più figo», mi sussurrò all’orecchio, fingendo di non
far caso alle mie condizioni. Fuori non c’era nessuno
dei nostri: tutti i colleghi dormivano ancora. «Ma
sono sicura che qualcosa stia per accadere. Tipo,
beh, ora»
«Come fai a dirlo?», le chiesi, con la bocca ancora
impastata nel cemento e gli occhi appiccicati.
«Guarda là, brutto méfiant»
E io guardai, e Thor stava di nuovo sorridendo.
Sorrideva, con quel bagliore dei denti che avrebbe
abbagliato un automobilista e costretto in un
angolo, in preda alla vergogna, tutti i testimonial
di qualsiasi marca di chewing-gum mai apparsi in
televisione. E in qualche modo ebbi anch’io la netta
sensazione che sì, c’eravamo.

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Era arrivata davvero la fine.
«Dobbiamo andare subito via di qui», dissi a
Jeanne, netto, senza scollare gli occhi dal dio
norvegese.
«Sei pazzo, Antonacci? Proprio ora che ho
l’occasione per lo scoop della vita? Cosa pensi che
mmmmmhhhh?!?». Ma non riuscì a finire la frase
perché la stavo baciando con passione.
«Ti voglio, Jeanne, e soprattutto ti voglio viva»,
aggiunsi dopo un po’, prendendo a tirarla via di lì. E
lei un po’ non se l’aspettava, un po’ forse sì, ma fatto
sta che mi guardò per due interminabili secondi
con quegli occhi suoi dolcissimi che avrebbero fatto
venire giù il mondo, e proprio quando il nostro di
mondo stava per venire giù per davvero disse solo:
«Ok»
Il tempo di raggiungere di corsa la fine del colonnato,
e iniziò a montare un enorme bagliore alle nostre
spalle. Sembrava quella scena del film Akira in cui
tutta Neo-Tokyo va in pezzi, e l’immagine non era
particolarmente rassicurante.
«Guarda!», gridò Jeanne, ma non c’era tempo
per fermarsi. Mi ritrovai davanti Muratori, che era
appena uscito dalla sua tenda; lo afferrai per un
braccio, cercando di trascinare via anche lui, ma
quello non si muoveva, fissava la scena dietro di
noi ipnotizzato. Allora provai a far leva sul senso di
responsabilità tipico dei giapponesi, a tradimento, e
gli urlai in un orecchio: «Hiro, la tua famiglia!»
La mossa funzionò, e tutti e tre ci precipitammo
verso la discesa di Corso Telesio a rotta di collo.
Se fossimo riusciti a raggiungere in tempo l’angolo,

26
a svoltare nel Corso, a mettere abbastanza metri e
vecchi palazzi di inizio Ottocento in pietra tra noi
e quella piazza, a raggiungere la mia vecchia Seat
senza l’aria condizionata parcheggiata da qualche
parte all’altezza della piazzetta Toscano, a mettere
in moto e a schizzare via a folle velocità verso la
periferia est della città, forse, ma solo forse avremmo
avuto qualche probabilità di farcela. Dietro di noi,
intanto, iniziavano a risuonare le raffiche dei mitra
e i colpi di bazooka e le urla dei soldati, mentre il
bagliore cresceva ancora d’intensità. Correvo ormai
alla cieca, con una mano stretta sul polso di Jeanne
e l’altra davanti agli occhi, per ripararli da quella luce
accecante. Muratori urlava delle robe in giapponese
come un maestro di kendo. Raggiunto l’angolo, il
cielo fu scosso da un tuono pazzesco, e preso alla
sprovvista appoggiai male un piede sui sampietrini,
scivolai e finii gambe all’aria prendendo una botta
pazzesca sull’osso sacro. Hiro e Jeanne mi aiutarono
a tirarmi su afferrandomi per le braccia, e mentre
mi rialzavo, un istante prima di rimetterci a correre,
un istante prima che tutto finisse, mentre i tuoni
rendevano impossibile parlarsi, sentire, anche solo
pensare, non fui in grado di resistere alla tentazione
e lo feci. Mi voltai.
Il bagliore si era esteso a coprire tutta la zona.
Tutta la piazza, tutto quanto restava degli edifici
là attorno, tutte le macerie del Teatro di tradizione
Alfonso Rendano, tutto il campo bruciato che era
stato la villa comunale, tutte le pareti rivestite a
piastrelle color marroncino del liceo Telesio sulla
collina, tutti i soldati e le loro armi e i giornalisti

27
terrorizzati brillavano. Al centro, il cuore pulsante
di quella supernova erano tre figure ora vicine, tre
sagome scure immerse nella luce. Il vecchio orientale
con i tamburi, la stazza imponente del norvegese, il
dio slavo basso e tarchiato con lancia e scudo.
Solo che non stavano combattendo. Si davano
delle gran pacche sulle spalle, e ridevano. Mentre
i tuoni facevano tremare tutto e tutto veniva giù.
E allora, vede, ho avuto come l’impressione che
quella non fosse una battaglia tra dei, uno scontro
fra esponenti omologhi di tre diverse e antiche
mitologie. Ma più che altro, effettivamente, una
rimpatriata tra vecchi amici con partitella.

No, non sono più tornato a Cosenza. Neanche


dopo, negli anni della ricostruzione, quando le
piogge hanno finalmente abbandonato la città e
il comune ha rimesso in piedi tutto quanto grazie
ai soldi della comunità europea, con la piazza ora
dedicata al ministro Santini e al generale Bastoni
Zanti. Vivo a Parigi con Jeanne, in un trilocale
del sesto arrondissement. Non ci siamo ancora
sposati ma abbiamo tre bambini, e ci danno delle
belle soddisfazioni. Soprattutto il piccolo Vito. È
un nome molto calabrese, Vito: sa? Qualche volta,
quando viene giù un bell’acquazzone e le strade di
St-Germain-des-Prés sono rischiarate dai lampi,
guardando la pioggia dalla finestra del nostro quarto
piano pensiamo che potrebbe succedere ancora.
Che lì, o da qualche altra parte, potrebbe avvenire
un nuovo incontro.
Ma in genere è solo pioggia.

28
[2]
Italia: la Storia Futura

29
I.

Luca si guardò attorno piuttosto perplesso. Cazzo


di posto per un appuntamento. Il senso di vuoto
era davvero spiazzante. Quanti campi di calcetto
ci sarebbero venuti puliti-puliti là dentro? Otto?
Dieci? E poi tutte quelle colonne annerite, le scritte
con lo spray dappertutto.
“Porci”. “Maiali”. “Dovete morire”.
“Giovanna è una zoccola”. Anche se quest’ultima,
si disse Luca grattandosi il mento, non doveva avere
molto a che fare con le scritte precedenti. Oh, beh.
Che poi era proprio strano, pensò, perché l’unica
Giovanna che aveva conosciuto in vita sua era
decisamente anche lei una grandissima zoccola.
Hai visto la vita, alle volte.
Ma dove diavolo era Marta?
Una volta la ricerca, una volta le foto per la
ricerca... erano mesi che lo costringeva sempre a
raggiungerla in quei posti di merda, dove non c’era
MAI un’anima viva attorno. Che poi raggiungerla:
sì, ma dov’è che era finita? Non si era detto alle 7?
Luca Murazzi portò gli occhi sull’ora proiettata
sul polso dal suo iLive©, per la quindicesima volta
negli ultimi trenta secondi. Tutto quello spazio
vuoto gli metteva addosso un’ansia incredibile. Ma
non possono tirarci su qualcosa? Un multilivello?

30
Con i problemi di parcheggio che abbiamo in questa
città di merd...
«Ehilà!»
Marta era sbucata all’improvviso da dietro una
colonna, urlando a non più di sedici, diciassette
centimetri dal suo padiglione auricolare sinistro.
Cogliendolo TOTALMENTE alla sprovvista. Luca era
riuscito in qualche modo a non gridare, ma lo sforzo
di autocontrollo gli era costato carissimo: il sangue
gli scorreva sottopelle misto ad aghi di ghiaccio, e
un ragno enorme gli stava mangiando lo stomaco.
«Ma che diavolo di modi sono? Dov’eri finita?
Sono almeno dieci minuti che…»
«Sì, sì, lo so, lo so», l’aveva interrotto lei, tirandolo
per una mano. «Dai, vieni. Ché non ho ancora finito
con le foto»
Mezz’ora dopo, Marta stava ancora scattando con
il suo iLive© altre istantanee arricchite del posto.
Dettagli delle colonne. Di quelle scritte oscene. I
segni delle fiamme un po’ ovunque. Luca continuava
a sentirsi dannatamente fuori posto lì, e sperava
che la sua ragazza finisse presto questa storia della
ricerca per il dottorato. Ché lui di girare in mezzo
a quelle rovine devastate, fine settimana dopo fine
settimana, ne aveva piene le tasche. Aveva saltato
pure l’anticipo, l’atteso derby Lodigiani-Lazio, per
andarsene a prendere freddo in quel circolo per
fantasmi. E la Lodigiani si giocava quel sabato sera
un posto in Eurasia League, porca di quella vacca
puttana.
«Cos’è che mi volevi chiedere?», gli domandò
Marta, arrotolando lo schermo dell’iLive© all’interno

31
del dispositivo.
«Perché vai in giro ancora con un personal
life assistant del paleozoico?», le rispose Luca
abbracciandola da dietro. «Di quand’è quel modello?
Del 2030? ‘35?»
«Ah, ah. Spiritoso. Quando vuoi fai sempre a
tempo a regalarmelo, un 3.0. Dai, seriamente: cos’è
che volevi sapere?»
Luca si allontanò di qualche passo, le mani
sprofondate nelle tasche, il ciuffo di capelli castani
liscissimi che gli penzolava su un lato della testa
per il resto rasata, per fissare la curva interminabile
di colonne sfigurate.
«Ma no, niente. Mi chiedevo perché questo posto
sia stato ridotto così. Che cos’era, poi? Un mercato?
Un cinema sensoriale all’aperto?»
Marta rise forte, poi si coprì gli occhi con una mano
e scosse lentamente il capo da un lato all’altro.
«Ma davvero non lo sai?», gli chiese fissandolo con
occhi da maestrina, ma continuando a mostrare i
denti bianchissimi nel suo sorriso al pro-fluoro™.
Luca si limitò a stringersi nelle spalle.
«Cazzo ne so. Studio medicina, casomai te lo fossi
scordato. E al liceo abbiamo fatto fino alla terza
guerra del golfo. Poi alla professoressa è venuto un
ictus e ciao. Mai coperto»
«Qui c’era... diciamo il nucleo di un’immensa
istituzione», prese a spiegare lei, guardandosi
attorno. «Un’istituzione spirituale che raccoglieva
milioni... boh, miliardi di persone in tutto il mondo.
Era chiamata religione cattolica.
Possibile tu non ne abbia mai sentito parlare?»

32
Luca ripeté meccanicamente lo stesso gesto di
prima, invitandola a continuare.
«Questo posto ne rappresentava il simbolo,
il fulcro, praticamente tutto. I romani l’hanno
chiamata piazza San Pietro per centinaia di anni»
«Fino...?»
«Fino all’inverno del 2013. Quando successe
quello che successe, e la religione cattolica morì…»

33
II.

«Morì? Come sarebbe a dire? Come muore


un’istituzione?»
«Vieni, vieni che ti faccio vedere», gli rispose
Marta, tirando su la ciocca che le pendeva sulla
fronte per ravviarsi i capelli nerissimi ricchi di
riflessi Raven4™.
«Solo andiamo via di qui, che col buio questo
posto è effettivamente spettrale»
Lo prese per mano e si allontanarono a piccoli passi
dalla doppia fila di colonne, da quello spiazzo vuoto
e senza senso. Luca si girò per un attimo a guardare
da sopra la spalla quell’enorme cupola annerita.
Sventrata da un incendio? Da un’esplosione?
«Guarda», gli disse Marta non appena furono
tornati in mezzo alle luci della città viva. Srotolò
lo schermo del suo iLive© 2.0, tracciò delle linee
con le dita sottili sul display in tessuto flexylon™
e apparve una vecchia sequenza video di almeno
cinquant’anni prima.
Quella stessa cupola era divorata dalle fiamme.
Una folla inferocita lanciava sassi nella piazza,
contro le colonne, sulle facciate degli edifici
circostanti. Qua e là, in mezzo alla fitta sassaiola,
il bagliore di una bottiglia incendiaria. Poi un’altra,

34
e un’altra ancora. Su un lato un gruppo di uomini,
con degli assurdi, minuscoli copricapo color porpora
e degli altrettanto inquietanti abiti lunghi cercava
di mettersi in salvo da un’uscita laterale, protetto
da guardie con vestiti colorati, lunghe lance e armi
automatiche che sparavano ad altezza d’uomo. Ma
il gruppo veniva raggiunto dalla folla e...
VISIONE NON ADATTA A UN PUBBLICO
FACILMENTE IMPRESSIONABILE. CONTINUARE?
L’UTILIZZO REGOLARE DI SelfSecure© PUO’
AIUTARE A MIGLIORARE LA PROPRIA...
Luca si sporse verso il display per saltare il
messaggio infospot e far proseguire la riproduzione
del filmato, ma Marta lo fermò bloccandogli
delicatamente il polso, e riavvolse lo schermo
dell’iLive©.
«Non è necessario vedere il resto. E di sicuro
non voglio rovinarmi l’appetito», precisò sorridendo
mentre metteva via il suo personal life assistant.

Qualche minuto più tardi, la monorotaia


proseguiva la sua corsa silenziosa verso gli alveari
della periferia nord. La testa poggiata sulla spalla di
Luca, Marta fissava svogliatamente l’olonotiziario,
con le ultime decisioni del governo eurasiatico per
fermare i suicidi di massa nelle fabbriche intensive
nel sud di Italia, Spagna e NeoGrecia.
Luca stava ancora pensando a quella storia di
Piazza San Pietro.
«Ok, ma perché è successo? Per avere per
centinaia di anni il possesso di tutti quei beni,
in centro, immagino che questa istituzione fosse

35
potente. Molto potente. Perché si è scatenata quella
rivolta?», le chiese.
Marta si tirò su a sedere e si stiracchiò le braccia
trattenendo uno sbadiglio.
«Beh, quando successero quei fatti che hai visto,
la Chiesa veniva già da un periodo di forte crisi.
Pochi mesi prima si era scoperto che i suoi vertici
erano coinvolti anch’essi in brutte storie di pedofilia.
Malcontento e insofferenza andavano gonfiandosi
sempre più. Il Presidente, che fino a quel momento
aveva difeso le gerarchie cristiane, stava cavalcando
la campagna d’odio, varando una serie di leggi
fortemente restrittive dei loro privilegi e delle loro
libertà»
«Ho capito, ma immagino ci sia stato un qualche
evento scatenante, per passare dal malcontento al
lancio delle molotov»
«Esatto. Proprio mentre il capo della religione
cristiana era costretto a difendersi dalle accuse sui
primitivi mezzi di comunicazione dell’epoca, saltò
fuori, con un tempismo incredibile, questa storia
della ricerca inglese»
«Quale ricerca?», chiese Luca mentre l’aiutava ad
alzarsi. Le porte della monorotaia si erano aperte
davanti all’ingresso dell’Alveare “Sogno di Una Notte
di Mezza Estate con Fanta© 31”, il blocco abitativo
del nido assegnato a Marta. Luca viveva lì con lei
ormai da quasi un anno, e una volta era addirittura
riuscito a pagare un mese dell’affitto.
«Un professore inglese e la sua equipe avevano
fatto delle clamorose scoperte su quelli che erano gli
elementi fondanti della religione cristiana. Elementi

36
di cui la Chiesa sarebbe stata a conoscenza da
secoli, ma avrebbe nascosto per non perdere tutto.
La storia ne parla come della Crisi Milton. Dai,
almeno questo nome l’avrai sentito qualche volta...»
Ma lo sguardo perso nel vuoto del suo
ragazzo, mentre l’ascensore li sparava verso il
novantaseiesimo piano del blocco F dell’Alveare,
chiariva che no, non ne aveva mai sentito parlare,
perciò Marta proseguì:
«Milton e i suoi avevano concluso le loro
ricerche già da qualche tempo, ma annusando
puzza di bruciato qui a Roma scelsero con cura
quando far esplodere la bomba. Il risultato, beh, fu
semplicemente devastante»
«E che aveva scoperto Milton?»
«Vedi», rispose Marta, entrando per prima nel
suo nido e sfilandosi le ballerine dai piedi, «il
Cristianesimo si basava sulla storia di un essere
divino incarnatosi in quest’uomo, Gesù. Il figlio
di un carpentiere di quella che è oggi la Zona
Radioattiva Mediorientale. Condannato a morte,
ucciso su una croce di legno per redimere i peccati
di tutti gli uomini, e poi risorto per guidarci dall’alto.
O qualcosa del genere»
«Fammi indovinare», la interruppe Luca mentre
si toglieva i vestiti per entrare nella doccia a vapori.
«Si è scoperto che in realtà questo Gesù non è mai
morto su quella croce, non è così?»
«No», gli rispose Marta, togliendosi il poncho
cromomimetico per seguirlo sotto la doccia. «Si è
scoperto che non è mai esistito».

37
III.

Marta dormiva già da un po’. I capelli aperti a


ventaglio sul cuscino come un piccolo stagno nero.
Luca aveva sentito da qualche parte che gli uomini
trovano incredibilmente sexy le proprie compagne
quando indossano una loro camicia per dormire.
Cazzate. Marta non era mai stata più sexy di così,
ora, con addosso solo la sua maglia della Lodigiani.
Quella dell’anno prima, della trionfale cavalcata
verso lo scudetto. Sorrise per un attimo, ripensando
a quella vittoria in trasferta contro la Fiat-Mitsubishi
Torino, a quella clamorosa rimonta, sotto di due gol
a inizio secondo tempo e quattro a due al fischio
finale. Poi si ricordò di essersi perso l’anticipo con la
Lazio per raggiungere Marta, e tornò ad affacciarglisi
nella mente quella storia del Cristianesimo.
Gli sembrava tutto così assurdo.
Fece per prendere il vecchio iLive© di Marta,
allungandosi verso il comodino di lei, poi ebbe timore
di svegliarla e lasciò perdere. Si alzò lentamente,
cerco tentoni nell’oscurità artificiale perfetta del
nido lo zaino, ne sfilò l’iLive© 3.0 e alla flebile luce
dello stand-by del suo personal life assistant si fece
strada fino al bagno.
Seduto sulla tazza, Luca tracciò con le dita le

38
parole “Crisi” e “Milton” sul display e sfilò dal
dispositivo i tre sensori iFeel©. Applicò il primo nel
condotto uditivo dell’orecchio destro, gli altri due
nelle sacche congiuntivali e chiuse gli occhi.

La stanza era piena fino all’inverosimile.


Dietro un lungo tavolo, alla testa di un piccolo
drappello, c’era un uomo alto, con la pelle
bianchissima, radi capelli biondi tirati all’indietro,
gli occhi azzurri spiritati.
«Buonasera», disse l’uomo in un italiano senza
inflessioni, con voce bassa e calda, da speaker
radiofonico. «Mi chiamo Albert Milton. Sono qui per
dimostrarvi perché quello in cui molti di voi credono
è una gigantesca bufala»
Detto questo, tornò a sedersi, versandosi con fare
teatrale dell’acqua in un bicchiere mentre la sala
esplodeva. I tre uomini accomodati alla sua destra e
le due donne alla sua sinistra, il resto del suo team di
ricerca, avevano un’aria sicura, serena, nonostante
il caos in cui le parole di Milton avevano precipitato
in un battito di ciglia la conferenza stampa.
Dalla sua poltroncina in prima fila, Luca si voltò
a guardare i giornalisti che lo circondavano. Sapeva
coscientemente di non correre alcun pericolo, eppure
essere avvolto da quelle urla gli metteva addosso un
senso di disagio particolarmente vivo.
«Lei è un pagliaccio, Milton!», gridava un tizio con
un’oscena giacca grigia sulla destra, trattenuto a
stento da un paio di sottoposti.
«Possiamo sapere dove abbiamo sbagliato,
maestro? Vuole illuminarci?», chiedeva con le

39
braccia incrociate al petto e l’espressione fastidiosa
da ragazzino sarcastico un altro, la pancia contenuta
a stento da una maglietta viola su cui era cucito, vai
a capire il perché, un piccolo coccodrillo verde.
Ma erano solo le prime due frasi di senso
compiuto che Luca era riuscito a distinguere in
quella cacofonia di schiamazzi.
Poi Milton si alzò, tese i palmi delle mani davanti
a sé e invitò tutti alla calma.
«Gentile monsignore, esimio direttore», disse
ai due che avevano parlato. «Calmi, vi prego.
Non c’è motivo di scaldarsi. Se siamo qui, oggi, è
solo per mostrare al mondo il risultato del nostro
lavoro. Qualcuno lo troverà interessante, molti lo
considereranno blasfemo. Lo so io, lo sanno i miei
assistenti», e tese la mano verso le due giovani
donne accanto a lui.
Bona la bionda, pensò Luca.
«Ma prima di ogni altra cosa, vi prego di guardare
queste slide alle mie spalle».
Luca si aspettava che partisse un’olovisione, poi
si ricordò dove si trovava, e inarcò di disgusto un
sopracciglio nel vedere delle immagini proiettate
sulla parete alle spalle di Milton da una qualche
fonte di luce primitiva.
«Immagino voi tutti sappiate cosa sono questi
testi», chiese Milton sorridendo, mentre quella luce
gli disegnava parte dell’immagine sulla giacca.
Luca strizzò gli occhi per mettere a fuoco quelle
scritte minuscole piene di numerini, ma decise di
lasciar perdere non appena iniziarono a fioccare dal
pubblico le prime, sdegnate risposte.

40
«Sì, esatto. Sono pagine dei vangeli», proseguì il
professore, pronto ad affondare il colpo. «Ora chiedo
a voi tutti, signori: quanti dei quattro evangelisti
hanno conosciuto Gesù? Quanti tra gli apostoli di
cui ci parlano gli Atti del nuovo testamento lo hanno
mai incontrato?»
Solo qualche mormorio sommesso dalla platea.
«Proprio così. Come sapete, nessuno. Nessuno di
loro ha mai incontrato personalmente Gesù. Anni
dopo la sua morte, queste persone hanno raccolto
le testimonianze esistenti presso le loro comunità.
Testimonianze nate da quello che il figlio di Dio
ha fatto sulla Terra, abbiamo sempre pensato.
Oppure...», e Milton si fermò, indicando con un
cenno a uno dei suoi, un riccetto con grossi occhiali
da vista e una camicia che Luca non avrebbe mai
indossato neppure sotto tortura, di far partire
l’immagine successiva.
«Oppure questo»
Sulla parete erano proiettati ora dei... boh? Luca
non avrebbe saputo definirli. Rotoli? Rotoli di pelle
vecchia? Qualunque cosa fossero, erano coperti da
scritte incomprensibili.
«Oppure un uomo in punto di morte, un uomo
molto potente, Michele di Arimatea, confessa di
aver inventato tutto. Di aver costruito a tavolino la
vita di quest’uomo per le ragioni che vedremo, e di
averne iniziato a parlare presso tutte le comunità
della Giudea. Di aver mandato i suoi uomini nei
piccoli villaggi come nelle piazze di Gerusalemme.
Di aver pagato Paolo e altri personaggi che voi oggi
considerate padri fondatori della Chiesa perché

41
lo aiutassero. A diffondere il verbo, coltivare la
leggenda. Poi la leggenda è diventata culto, e il culto
si è dato una forma con i vangeli, i quattro che
conosciamo e tutti gli altri scartati dall’ortodossia
cristiana nel ricomporre il puzzle delle sue origini.
Poi il culto è diventato istituzione»
«Lei è pazzo! Pazzo!», riprese a gridare l’uomo con
la giacca grigia di prima. Aveva al collo uno strano
collare di cartoncino bianco, come alcuni degli
uomini braccati nella piazza nel video che Luca
aveva visto quel pomeriggio. Capì che doveva essere
coinvolto con l’istituzione, e questo ne spiegava la
rabbia, che ormai gli aveva deformato i tratti del
viso, tramutandolo in un grasso mascherone rosso.
Il resto dei presenti era precipitato invece in un
silenzio imbarazzante. Non volava una mosca. Anche
l’omino con il coccodrillo aveva perso l’espressione
sarcastica di prima, e fissava interessato le foto
di quei vecchi rotoli. Qualcuno parlava con tono
concitato dentro dei barbari mezzi di comunicazione
personale a forma di mattoncino, coprendosi l’altro
orecchio con una mano.
«No, signori, vi assicuro che non sono pazzo»,
proseguì imperturbabile il professore inglese. «Lei
più di ogni altro, monsignore, dovrebbe saperlo»,
disse seguendo con lo sguardo l’uomo con la giacca
grigia e il collare che si era alzato per lasciare la
sala, scortato dalla sua coda di secondi. «Alla ricerca
di nuovi documenti sulle origini del Cristianesimo,
con il mio team abbiamo cercato per anni i diari di
Michele di Arimatea, citati da altre fonti dell’epoca.
Abbiamo scoperto che una copia in copto era

42
custodita dal Vaticano, ma non ci è mai stato
concesso di accedere ad essa». Pausa scenica. «Beh,
poco male. Perché quelli che vedete alle mie spalle
sono i diari originali»
E l’uomo con la giacca grigia e il collare si fermò,
proprio davanti a Luca. Aveva gli occhi sbarrati e la
fronte imperlata dal sudore.
«Mi sa che mo so’ cazzi», disse Luca al giornalista
seduto accanto a lui, che non poteva sentirlo.

43
IV.

Luca si accomodò meglio sulla poltroncina,


convinto che il bello stesse per arrivare. Solo dopo
qualche istante notò la bionda procace che gli
sedeva davanti. Com’è che non l’aveva vista prima?
Aveva questo vestito rosso fuoco, una specie di
tuta che la fasciava dal collo ai piedi, ma con una
scollatura sul davanti aperta su un paio di bocce
enormi. Proprio come piacevano a lui. Anche quei
capelli biondi vaporosi erano esattamente come...
ah. Certo. La scena tutt’intorno a lui si era bloccata.
La bionda si girò verso Luca, si leccò le labbra e gli
strizzò l’occhio. Poi attaccò, con tono ipnotico: «Per
ascoltare la simulazione dei pensieri del monsignore,
scarica il pacchetto aggiuntivo Storiopatia™ per il
tuo iLive© sui...»
Infospot del cazzo.
Luca chiuse gli occhi, scrollò con forza il capo
e fece sparire la bionda. La scena tornò a vivergli
attorno. Milton aveva ripreso a parlare, sempre
rivolto all’uomo con la giacca grigia e il collare
bianco.
«Proprio così, monsignore: gli originali. Stavamo
seguendo una pista per trovare degli altri frammenti
di quel periodo, quando abbiamo avuto questo

44
ENORME colpo di fortuna e ci siamo imbattuti
proprio nei diari di Michele di Arimatea. Le assicuro,
non potevamo credere ai nostri occhi: anni ad
aspettare inutilmente dal Vaticano il permesso per
consultare quelle copie, e poi da una grotta saltano
fuori gli originali. Custoditi perfettamente, con tutta
la storia. Tenetevele pure quelle copie, monsignore:
ho idea che non ci serviranno più»
Luca allungò il collo per guardare il volto dell’uomo
con la giacca e il collare, e gli parve in procinto di
esplodere.
«Ciarlatano!», urlò un’ultima volta a Milton, prima
di lasciare la sala con buona parte del codazzo. Due
dei suoi però rimasero, tornarono a sedersi in prima
fila e presero a registrare quel che Milton diceva con
delle volgari scatolette color metallo.
Ci furono dei secondi grondanti silenzio, mentre
il professore inglese si versava altra acqua da un
contenitore di vetro inquietantemente privo di
marca.
«Come fa a esser sicuro dell’autenticità di questi
diari?», chiese quindi l’uomo con il coccodrillo sulla
maglia.
Milton finì di bere con calma. Poi sorrise e allargò
lentamente le braccia.
«Abbiamo eseguito tutti i test possibili per esser
certi della datazione dei diari. Quanto al loro
contenuto, come detto, sono molte le fonti dell’epoca
che li citano, sebbene voi non ne abbiate mai sentito
parlare». Poi aggiunse solo un «Naturalmente», e
tornò a sedersi, soddisfatto come un gatto che ha
appena scovato un’intera colonia di topolini.

45
«E perché questo Michele avrebbe dovuto farlo?
Perché inventarsi questa... questa storia?», domandò
un altro giornalista dal fondo.
«Come dicevo all’inizio», riprese Milton senza
perdere quel mezzo sorriso da rassicurante
predatore, «sappiamo anche quello. È lo stesso
Michele a spiegare nei diari le sue ragioni. A capo
di un movimento che, usando un’espressione
moderna, potremmo definire un movimento di
resistenza nei confronti dell’occupazione romana,
Michele era stato un seguace di Giuda il Galileo.
Poi però, a quanto ci dice, aveva avuto dei dissidi
con gli zeloti, non si riconosceva più nei loro metodi
di lotta. Aveva capito che l’unico modo per cacciare
veramente i romani era cambiare la mentalità dei
giudei. Far entrare nella loro mente questa idea
del dover rispondere solo a Dio e non più a Cesare.
Gli serviva solo una figura che incarnasse il nuovo
corso, un catalizzatore. E se n’è inventato uno.
Il resto è la storia che conoscete: il sentimento
antiromano si lega a filo doppio al primo
cristianesimo, anche se le cose non vanno come
Michele sperava e la prima guerra giudaica porta
solo la distruzione del tempio di Gerusalemme.
Beh, almeno il nostro amico di Arimatea è morto
di vecchiaia, anni dopo, e non è stato costretto a
suicidarsi come i suoi ex amici zeloti a Masada»
I giornalisti si guardavano l’un l’altro, tutti
pronti a chiedere qualcosa ma nessuno veramente
intenzionato a farlo. Luca incrociò le braccia
sullo schienale della poltroncina davanti a lui, ci
accomodò sopra il mento e pensò che doveva esser

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stata una bella botta. Credi che una cosa sia vera
per tutta la vita, poi arriva un tizio con i capelli radi
e gli occhi spirati e ti dice che no, è falsa. Tu vorresti
rispondergli oh, cazzo dici, ma più ci pensi e più ti
convinci che tutto quadra, e non riesci a dirgli più
un bel niente.
L’uomo con il coccodrillo si era lasciato andare
sullo schienale della sua poltrona. Fissava un
qualche punto indefinito sulla parete alle spalle
del gruppo di Milton, ora completamente bianca.
L’espressione da ragazzino sarcastico di poco prima
l’aveva abbandonato, come un cane clonato mollato
su un’iperstrada padana.
«Chiaramente capisco bene, signori», riprese
Milton per spezzare quel silenzio inquietante, «che
tutto ciò sia difficile da...»
Luca non riuscì a sentire il resto perché qualcuno
l’aveva afferrato da dietro per le spalle e lo stava
scuotendo con forza.
Si girò, e si trovò di fronte Marta con addosso
solo la maglia della Lodigiani, in piedi seminuda in
mezzo agli altri giornalisti.
«Luca! Luca! Staccati!», gli urlava, continuando a
scuoterlo come un pupazzo RealBaBee™.
Luca si portò le mani ai due sensori infilati nelle
sacche congiuntivali, li sfilò, e si ritrovò nel bagno di
Marta, seduto a cavalcioni sulla tazza del cesso.
«Tremavi tutto, sbattendo le palpebre. Sembravi
un neurotossico. È per questo che odio questi
dannati iLive© 3.0!», gli disse lei, meravigliosamente
sexy in quella sua aria un po’ preoccupata, parecchio
incazzata.

47
Si rimisero a letto, ma lui non aveva ancora voglia
di dormire.
«Caspita che storia, tesò, non puoi capire!», le
disse accarezzandole i capelli nerissimi, mentre lei
si rannicchiava su un lato per riprendere sonno.
«Certo che quel Milton ha preso a calci in culo le
convinzioni di milioni di persone come se niente
fosse. Arriva e sbam! Tutti zitti».
«Te l’ho detto», gli rispose lei, aggiustandosi il
cuscino. «La crisi Milton è un evento fondamentale
della storia recente. E quell’uomo, comunque, oltre
a essere uno stronzo sapeva il fatto suo»
«Ma te, tesò, com’è che conosci tutte queste cose
su quell’istituzione, su quel Cristianesimo?»
«Ma scusa, perché credi ti abbia trascinato
in quegli edifici decrepiti e bruciati in giro per la
città? Di cosa credi mi stia occupando per il mio
dottorato?»
«Vuoi dirmi che non era una ricerca sul
vandalismo?», le chiese il suo ragazzo cascando dal
peroDole©.

48
V.

Marcus si guardò ancora una volta indietro.


Continuava a ripetersi che le sue erano solo stupide
paranoie: nessuno lo stava seguendo, a nessuno
importava un bel niente di lui. Eppure non riusciva
a fare a meno di sentirsi nervoso.
Affrettò il passo in mezzo alle vetrine di Via
Tuscolana, per quel che gli veniva possibile. Una
bella donna dai capelli lunghi e neri e dai tratti
vagamente orientali, appoggiata con le spalle a una
vetrina di abiti da uomo, gli sorrise.
«Sconto del 30% solo per questa settimana per
tutti i possessori di carte Slave™, TransAmerican
Express©, EurasianCard©», attaccò la donna con
un tono completamente neutro appena Marcus fu
a meno di due metri. Marcus non la degnò di uno
sguardo e le passò in mezzo. «Dannati infospot»,
pensò, aggiustandosi il bavero del lungo giaccone
scuro che indossava.
Si fermò un attimo a prendere fiato, non resistette
alla tentazione di guardarsi un’altra volta alle spalle,
poi imboccò con passo incerto la traversa che saliva
verso il mercato del pesce sintetico. Era proprio in
momenti come quello che Marcus sentiva tutto il
peso dei suoi settantatre anni e di una vita vissuta

49
immerso fino al collo nelle menzogne.
Era arrivato a Roma più di cinquant’anni prima,
ma ancora non riusciva a sentirsi romano o italiano.
Tantomeno eurasiatico. Pensò alla nave di profughi
con cui era sbarcato a Napoli nel 2014, dopo la fuga
da Pittsburgh per la Grande Esplosione. Con lui
c’erano tanti altri americani colpiti in misura diversa
da quello che era successo in Pennsylvania. Orfani,
donne sole, storpi, gente comune senza più niente,
neanche un po’ di dignità. Furono tutti chiusi a lungo
in quarantena, poi smistati verso le zone bruciate
del sud o la Grecia. Lui no. A differenza degli altri
americani, Marcus era stato trattato bene. Per via
della sua condizione, del suo lavoro.
Svoltò l’angolo e si trovò davanti un vecchio
mendicante buttato in terra su un cartone. Aveva
subìto l’amputazione di una gamba, e quel vecchio
pantalone pieno di macchie era annodato poco sopra
il ginocchio come un fazzoletto. Il vecchio, il cui
capo era ricoperto da una lanuggine rada e unticcia,
reggeva in mano un cartello sporco come tutto il
resto. Sopra c’era scritto: Aiutatemi. Ho combattuto
le Guerre del Sud contro i rivoltosi negli anni 20. Ho
combattuto anche per voi.
Il vecchio tese una mano verso Marcus, che si
strinse nel bavero e passò oltre, nauseato da quella
vista e da quell’odore. Attraversò la grande piazza
del mercato del pesce sintetico, a quell’ora popolata
solo da qualche ratto, e passò davanti alla solita
Chiesa bruciata.
Quante volte aveva fatto quella strada? Quante
volte si era trovato davanti ai resti antichi, coperti di

50
rovi, di quell’edificio incenerito? Eppure quella vista
era capace ogni volta di turbarlo.
Perché lui c’era. Quando era scoppiata la fase più
feroce e crudele della Crisi Milton. Aveva assistito
alla feroce caccia all’uomo, alle devastazioni.
Vi aveva preso parte.
Il Presidente, allora, aveva disposto che nessuno
potesse più parlare della Chiesa, del Cristianesimo,
di tutto quello che era successo. Però aveva voluto
che gli edifici bruciati e distrutti restassero lì, così
com’erano, con le pareti nere e i portoni sfondati,
senza più arredi o vetrate. Così la gente smise di
parlarne, ma per molti anni continuò a serbare il
ricordo di quello che era successo. Il ricordo e il
terrore. Ma ora non aveva più importanza. La Crisi
Milton era solo una data sui libri di storia, e nessuno
ricordava più niente, a nessuno importava più. Più
o meno.
Era arrivato. Si voltò un’ultima volta, poi suonò
il campanello.
Il portoncino metallico si aprì, e Marcus discese
lentamente la scala a chiocciola verso l’interrato, le
ginocchia incerte, deformate dal conto presentato
da anni e radiazioni. Non riuscì a trattenere la
delusione quando scoprì che erano ancora meno
dell’ultima volta.
«Mi dispiace tanto», gli disse Jenna venendogli
incontro.
«Non hai nulla di cui dispiacerti, piccola
mia», le rispose Marcus, sfilandosi il giaccone e
accarezzandole i lunghi capelli rossi.
Jenna lo aiutò a indossare l’abito talare, poi

51
Marcus potè finalmente abbracciare i suoi fedeli.
Quando ebbe finito di salutarli uno per uno, li
invitò ad accomodarsi sulle panche.
Pensò a come i primi tempi molti fossero costretti
ad assistere in piedi alla funzione, perché non c’era
modo di portare laggiù abbastanza sedie per tutti
senza dare troppo nell’occhio. Oggi aveva di fronte
al massimo una ventina di persone.
La morte se n’era portati via un po’, agli altri aveva
pensato la loro natura umana. La speranza li aveva
abbandonati, ma come fargliene una colpa? Non
erano come lui. In lui la fede non aveva mai macillato.
Mai. Anche quando il Signore lo aveva chiamato a
prove molto difficili, aveva sempre saputo quello che
era giusto fare. Costretto a fingersi laico di fronte a
quelle bestie prive di ragione; ad assecondare la loro
furia distruttiva; quello che era successo al povero
padre Matteo. La cosa giusta. Aveva fatto sempre e
solo la cosa giusta.
Una volta terminata la funzione, il neurofarmacista
Manetti gli si avvicinò. Manetti era uno dei pochi
fedeli su cui Marcus aveva sempre potuto contare.
Un uomo retto, dal grande cuore. Ma dopo tanti
anni anche in lui era riuscito a scavarsi la strada
il dubbio.
«Padre?», gli chiese avvicinandosi.
«Dimmi, Giovanni», gli rispose padre Marcus
fissandolo negli occhi.
«Quando verrà il momento?»
Marcus emise un leggero sospiro, come chi è alle
prese con un bambino petulante che continua a
farti sempre e solo la stessa domanda.

52
«So che sono molti anni che noi tutti aspettiamo,
Giovanni», gli disse, con il tono più rassicurante
che riuscì a trovare. «Me ne rendo conto. Ma ormai
siamo vicini. I tempi sono maturi per la Parusia».
Poggiò una mano sulla spalla del neurofarmacista,
la scosse con dolcezza, e gli sorrise: «Il mondo affoga
nella sua sozzura e nel suo veleno, Giovanni, oggi
più che mai: la seconda venuta in gloria del Signore
è vicina».

53
VI.

Il tizio sfregiato strinse ancora un altro po’ la


presa per soffocarlo.
«Non lo capisci, vero?», lo provocò. «Non lo capisci
proprio? Questa storia non finirà mai. Tuo padre è
morto, la ragazza è morta, e ora anche tu...»
Luca zittì Lan Di con una ginocchiata nelle
palle. Si liberò dalla morsa del cinese, riprese fiato
e lo scaraventò a terra con una spazzata. Aveva
aspettato quel momento per tanto tempo, e ora
finalmente stava per finire il quinto e ultimo capitolo
di Shen...
«Luca? Ma che ci fai ancora con ‘ste robe da
drogato, alla tua età?» squittì una bionda con le
extension e gli occhi scolpiti dall’eye liner subito
dietro Lan Di. Quella bionda era Silvia Miriam.
Luca tirò un sospiro di quelli profondi, si sfilò
i sensori iFeel© dalle sacche congiuntivali e mise
via l’iLive© 3.0. Silvia lo fissava con la sua aria
provocatrice, saltellando da un piede d’appoggio
all’altro per far dondolare le bocce in RealTouch™
che si era fatta qualche mese prima. Silvia Miriam
B. Gutti, ex compagna di classe di Marta al liceo,
nonché la più grande zoccola di tutta Roma Nord.
Università La Sapienza TimVodafone, Roma, una

54
giornata di merda. Luca stava fissando dal basso
di una panchina uno dei suoi nemici più temibili e
spietati.
«E dimmi un po’», attaccò quella con la sua voce
fastidiosa, arricciandosi le ciocche bionde artificiali
attorno alle sue unghie finte da sei centimetri, «Che
ci fai da queste parti? Hai accompagnato Marta?»
Luca fece un minimo cenno con la testa, senza
sorridere.
«Aveva un altro appuntamento con il suo relatore
per la tesi, eh?»
Luca fece un altro cenno con la testa, senza
sorridere.
«Quel Mirko Sgabuzzini è davvero un figo totale.
Dicono ci provi con tutte le studentesse. Lo sai, no?»
Luca smise di fare cenni.
«Ma, ehi, tutte le studentesse se lo farebbero
senza pensarci su mezza volta. Lo sai, no? Tutte. Io,
per dirti, non mi accontenterei mica di un paio di
botte. Marta è fortunata a trascorrere tutto questo
tempo con lui. Da sola, dico»
Luca smise di fare cenni e provò a incenerirla con
il pensiero.
Silvia Miriam lesse l’ostilità del fidanzato di quella
che in un tempo più o meno remoto era stata la
sua compagna di banca al liceo e migliore amica.
Gli poggiò gli artigli smaltati di viola sulle spalle e
avvicinò la bocca al suo orecchio, come per rivelargli
un segreto.
Invece gli leccò il lobo e fece per andarsene.
«Qualche giorno, cocco. Tu e io», gli disse da
sopra una spalla, strizzandogli l’occhio mentre si

55
allontanava. «Grandi numeri»
Luca resto lì, a schiumare dalla rabbia.
Quella stronza. Quella zoccola. Quella tiracazzi.
Quella campionessa mondiale delle tiracazzi.
Ma la verità è che quella bastarda aveva colto nel
segno: Luca quello Sgabuzzini lì non l’aveva mai
potuto vedere. Con quell’aria da persona che ne
sa, perennemente con la puzza sotto il naso. Che
poi bello un cazzo, con tutta quella forfora e il naso
rifatto e...
Calmati.
Luca provò a far sbollire l’incazzatura, contando
le macchine bianche in transito in fondo al viale
dell’Università. Oh, quand’era ragazzino funzionava
sempre.
Calmati, dai.
Aprì l’iLive© per sentire le ultime novità del
calciomercato, ma sul fronte Lodigiani sembrava
non si muovesse una foglia. La punta argentina
di cui continuava a blaterare il loro presidente,
iniziava a sospettare, non l’avrebbero vista neanche
quest’anno.
Poi ripensò alle ultime parole di quella stronza,
si dimenticò delle macchine bianche e si ritrovò con
un’erezione possente nei pantaloni. Il che lo fece
incazzare ancora di più.
Ché lui lo sapeva benissimo che Silvia Miriam
B. Gutti era solo una maledetta stronza. La regina
delle stronze, la portavoce planetaria delle stronze.
Lo stava provocando. Smettila di pensarci. Lo stava
solo provocando. Smettila. Solo provocando. È
talmente sfatta di PornoJunk© da esser diventata

56
la più frigida dell’Unione Euroasiatica meridionale,
lo sanno tutti. Lo stava solo... quella stronza. Quella
maledettissima stronza.
Si alzò, e prese a scalciare le pigne sparse sui lati
del viale così forte che una centrò il finestrino di
un professore che stava parcheggiando. L’uomo alla
guida si affacciò per dirgli qualcosa, ma poi vide la
tigre idrofoba che si aggirava a passo lento e nervoso
attorno alla panchina e pensò che forse era meglio
lasciar correre.

Luca guardò l’ora proiettata sul polso dall’iLive©.


Due ore. Cosa avranno da dirsi per due ore?, si
chiese una vocina sepolta da qualche parte dentro
di lui. Quanto ci vuole per controllare quattro robe
scritte su quegli edifici decrepiti? Se lo domandava,
ed accelerava senza volerlo il ritmo della sua ronda.
Avanti e indietro, avanti e indietro. Fu all’incirca alla
duecentesima circumnavigazione della panchina che
Marta si decise finalmente a sbucare dal portoncino
dello stabile, quel palazzetto basso della facoltà che
Luca stava piantonando.
La vide uscire tutta felice, correre ad abbracciarlo
con quell’aria da gatta, e le sue preoccupazioni
svanirono all’istante. Gli bastava guardarla sorridere
per buttarsi tutto alle spalle. Aveva già dimenticato
tutto: la zoccola Silvia Miriam, quel viscido porco ma
segretamente ricchione di Sgabuzzini, il centravanti
argentino. La carogna gli era scesa in un lampo.
A fargliela rimontare sulle spalle, però, Marta
impiegò meno di cinque secondi.
«Amore!», gli disse tutta raggiante, «Non hai proprio

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idea! Mi hanno offerto di terminare la ricerca per la
tesi nella Zona Radioattiva Mediorientale! Partiamo
per le rovine di Gerusalemme! Sabato prossimo!»
A Luca fu necessario qualche secondo per
realizzare.
«Par... parTIAMO?»
«Beh, sì», gli rispose Marta. «Il professor Sgabuzzini
si è offerto di accompagnarmi!»

58
VII.

Luca sudava freddo. Quella stronza continuava a


fissare lo schermo, poi alzava gli occhi verso di lui,
gli rivolgeva giusto un accenno di sorriso, e tornava
a guardare quel monitor di merda. Sempre uguale,
da cinque minuti buoni.
«Allora?», la incalzò Luca, che non stava più nella
pelle.
«Allora...», iniziò a rispondere quella con tono
svogliato, «...allora ti posso dare al massimo 6.500
crediteuro»
Luca dovette reggersi al bancone per non svenire.
«Sei... mila... crediteuro?»
«Seimila e cinquecento», precisò la commessa,
tornando a fissarlo con quell’aria da ti sto prendendo
per il culo, povero stronzo.
«Ma... ma cazzo, mi scusi, si rende conto? Seimila
e cinquecento crediteuro? Cos’è, uno scherzo?»,
provò a insistere Luca, ma lo sapeva benissimo che
la tipa non stava scherzando affatto.
Senza abbandonare quel mezzo sorriso così
fastidioso, la commessa afferrò tra pollice e indice
i capelli color nero HawaiianDreamin’© che le
cadevano lisci sul petto, per portarseli dietro una
spalla. Tutta una mossa abbastanza telefonata, si

59
rese conto Luca, per fargli vedere le unghie decorate
con lo smalto fluo vivente, l’ultima moda delle
commesse buzzicone giù in centro.
«Sono spiacente, ma queste sono le nostre tariffe:
non le decido io. Io qui faccio solo la commessa. Se
li vuole, i 6.500 crediteuro sono suoi», la chiuse lì
la ragazza, portandosi la mano aperta sul collo per
rafforzare l’esposizione da coatta dei mille disegni
formati dai microorganismi in movimento perpetuo
sulle sue unghie color cobalto.
A Luca veniva da piangere.
6.500 crediteuro per il suo iLive©, un iLive© di
ultima generazione, uscito solo da sette mesi e due
giorni, acquistato solo sette mesi e due giorni prima
a 18.500 crediteuro, porca puttana.
Stando a quello che gli aveva detto la commessa,
l’ultimo aggiornamento di colore aveva fatto crollare
la domanda dell’usato per i modelli come il suo. Il
grigio di Payne era ora molto più alla moda del grigio
canna di fucile, e nessuno gliel’aveva detto!
Chiese tempo alla tizia e si allontanò per un
attimo, solo con i propri pensieri e la sua sofferenza
interiore.
6.500 crediteuro.
C’erano centinaia di livelli completati delle sue
esperienze di similvita preferite. Tutto Shenmue
V sbloccato con i sedici personaggi selezionabili,
incluso Fukuhara Masayuki. Decine e decine di
moduli aggiuntivi pay-to-play. Cazzo, aveva pure
sbloccato l’effetto real shock© per le partite della
Lodigiani e di tutto il campionato di Eurasia League,
porco due.

60
A venderlo a un privato ne avrebbe tirato fuori,
ne era sicuro, minimo-minimo 10.000 crediteuro.
Anche 11, tiè. Puliti. Ma la vendita ai privati dei
propri personal life assistant era vietata da almeno
sei mesi. C’era chi sosteneva che il governo centrale
eurasiatico avesse imposto quel divieto per evitare il
ripetersi di fattacci come quelli avvenuti in Svezia,
tutta quella gente strippata con un PLA di seconda
mano per un non corretto ripristino del sistema
dopo l’acquisto. Ma secondo Luca era tutta una
puttanata. Alle aziende giravano i coglioni per quel
mercato dell’usato da cui non guadagnavano nulla,
e avevano fatto pressione sui loro amici a Londra.
Ma in ogni caso, quali che fossero le ragioni del
divieto, non poteva rischiare. Molta gente continuava
a fottersene e a rivendere i propri PLA, ma ci voleva
del tempo per trovare un acquirente e accertarsi
che fosse sicuro, perché se invece era un agente
della Dig-off in incognito rischiavi fino a due anni
di carcere in Grecia o nelle regioni bruciate del Sud.
E Luca non aveva tempo da perdere: quei soldi gli
servivano subito. Possibilmente, anche prima.
Sentì la voce stridula della commessa che là in
fondo, dietro al bancone, parlava al telefono con
un’amica dei cazzi suoi. Su tutti gli schermi esposti
nel negozio c’era lo stesso presentatore che leggeva
i numeri dell’estrazione oraria del supermegalot
powerball con un sorriso innaturale.
Sentendosi osservato da tutte quelle trecento
versioni di varia grandezza dell’uomo in giacca e
cravatta, Luca si sfilò di tasca il suo iLive©, se lo

61
rigirò tra le mani, prese l’unica decisione che poteva
prendere. E si sentì morire dentro.

62
VIII.

Stava facendo molto più che tardi.


Così, per quanto gli dispiacesse, Luca non ebbe il
tempo di aiutare a rialzarsi la signora ottantenne
con la parrucca viola che aveva appena travolto
nella sua corsa forsennata. Si rimise in qualche
modo in piedi, in mezzo alle valigie trascinate al
suolo cadendo, e rivolse un gesto impacciato con
la mano all’anziana. Lasciandola là, ancora stesa a
pelle di leopardo sul pavimento dell’area partenze,
al Terminal 7 dello scalo internazionale Leonardo
Da Vinci con Coca-Cola di Roma Fiumicino. Le disse
«Scusisignò manonc’hopropriotempodevoandare», e
si rimise a correre.
Erano le 10,07, l’imbarco per il suo volo chiudeva
alle 10,10: Luca era perfettamente cosciente che a
separarlo dal gate C98 c’erano ancora due chilometri
abbondanti di tapis-roulant e corridoi pieni di gente.
Si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta.
E dire che quella mattina aveva fatto di tutto
per svegliarsi in tempo. Aveva puntato dal sistema
centrale dell’appartamento di Marta tre diversi livelli
di sveglia sul suo iLive©. In ordine crescente: ruscelli
di montagna, uno di quegli odiosi motivetti jazz con
le trombe e infine, per andare sul sicuro, barriti di

63
elefanti delle regioni del Sud. Si era ricordato di
impostare le tre sveglie a meno di due minuti l’una
dall’altra, per evitare di riprendere sonno come al
solito. Si era ricordato di settare per tutte e tre il
volume al massimo e, per l’ultima, anche di attivare
un pizzico di real shock©. Hai visto mai. L’unica
cosa che Luca si era dimenticato era che lui un
personal life assistant da una ventina di ore non ce
l’aveva più.
Si era svegliato alle 9 e dieci, e giusto perché
quel rompicoglioni del figlio dei Gabelli Stevens, nel
modulo abitativo accanto al loro, si stava sparando
come al solito un po’ di PornoJunk© tedesco a tutto
volume. Al terzo urlo di piacere di una qualche finta
tettona bionda della valle del Reno, Luca aveva
spalancato gli occhi, cercato l’iLive© alla cieca sul
comodino, realizzato la sua nuova, misera condizione
di tecnoprimitivo. Quindi aveva afferrato il vecchio
orologio da polso che sua madre gli aveva regalato
una cifra di anni prima e che lui teneva buttato lì
accanto al letto senza una precisa ragione da anni,
e urlato. Urlato forte.
Preso il borsone da palestra, nel quale la sera
prima aveva infilato un po’ di magliette e jeans che
non gli sarebbero serviti, visto dove stava andando,
si era precipitato giù in strada. Per convincere il
tassista a bruciare il limite di 270 sulla iperstrada
verso l’aeroporto aveva dovuto promettergli tutto
quanto gli restava in tasca dalla vendita del suo
personal life assistant dopo l’acquisto del biglietto
per la Zona Radioattiva Mediorientale, ma quel
diavolo era riuscito ad arrivare al Leonardo Da

64
Vinci con Coca-Cola in meno di venti minuti,
infrangendo ogni record di percorrenza della tratta,
rischiando più volte di andarsi a schiantare contro
un autoarticolato e divertendosi per tutto il tempo
come un pazzo.
Dodici minuti più tardi, Luca era lì che correva,
correva, correva, evitando trolley, saltando oltre
carrelli, spintonando proprio là dove era necessario
farlo, gridando le sue scuse al vento, senza fermarsi.
Alle 10,09 imboccò l’ultima rampa di scale, tre
gradini alla volta, il borsone appeso a una spalla,
il chip passaporto stretto tra indice e pollice della
mano destra, la lingua di fuori, la milza ormai un
ricordo lontano e dolorante. Ma mentre superava
con le poche energie che gli erano rimaste gli ultimi
scalini, sudato come un maratoneta all’ultimo
chilometro, non si era trovato davanti come aspettava
una hostess scoglionata che aspettava solo lui per
chiudere l’imbarco. Il gate C98 era ancora gremito
di persone e sul cartellone luminoso lampeggiava
una scritta che annunciava un ritardo di due ore e
venti minuti del volo per Gerusalemme.
Luca lesse l’annuncio, si guardò intorno al
rallentatore, sollevò l’indice della sinistra, come se
dovesse chiedere qualcosa a qualcuno, e stramazzò
in ginocchio sfinito.
Furono le due ore e venti più lunghe della sua
vita. Accasciato con le spalle a una colonna, non
aveva alcuna idea di come far passare il tempo
senza un PLA. Rimase lì a braccia conserte, a
guardare altri tecnoprimitivi come lui con l’aria
scocciata, che sbuffavano e guardavano l’orologio

65
ogni minuto. Si costrinse a non fissare una pattuglia
di ragazzini, tutti abbondantemente sotto i dieci
anni, che avevano organizzato al volo una partita
di elettrosoccer su intranet contro altri cinque
disperati, tutti con un iLive© color grigio di Payne di
ultimissima generazione, tutti con lo sguardo perso
verso l’infinito e oltre. I maledetti piccoli bastardi.
Luca si sentì nudo. E stupido. E inutile. Ma più che
altro nudo.
Gli ultimi trenta minuti prima dell’imbarco
li trascorse aggirandosi come una belva feroce
nell’area che circondava il gate, cinta sui lati da
una selva di piante sintetiche Flo-Rage© tutte verdi,
rosse e fucsia come i colori ufficiali della compagnia
di bandiera Alitime. Con una mano reggeva il polso
dell’altra dietro la schiena, mentre copriva ad ampie
falcate nervose il perimetro, tenendosi al largo
dagli altri passeggeri e ripetendo tra sé e sé «Dai,
cazzo, dai, dai, muoviamoci, i soliti ritardi di merda,
fanculo, dai, dai». Ma alla fine doveva aver ripetuto
un po’ troppo ad alta voce quella parte del fanculo,
perché avvertì una presenza alla sua destra, si girò,
e vide un uomo con la barba e l’aria dimessa che
lo fissava, dietro due folte sopracciglie. Ecco, ora ci
mancava pure il rimbrotto dell’addetto aeroportuale,
fece appena a tempo a pensare, prima che l’uomo gli
rivolgesse la parola.
«Devi avere coraggio», gli disse l’uomo, che oltre
alla barba aveva anche i capelli lunghi. E due
occhi azzurri come Luca non ne aveva mai visti.
Solo che quell’uomo non stava parlando del volo.
E non era un addetto aeroportuale.

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«Devi avere coraggio», gli disse sorridendo con
quei suoi occhi innaturali. «Io ho vinto il mondo».

67
IX.

«Io ho vinto il mondo», disse loro.


E all’inizio Marcus non capì. Chi era quell’uomo
con la tuta da meccanico? Come aveva trovato la
loro chiesa? Com’era entrato?
Poi Marcus sentì Jenna singhiozzare alla sua
destra. Si girò e vide la ragazza piangere con gli
occhi sbarrati. Per poi buttarsi a terra, con la fronte
poggiata sul pavimento. E lo stesso stavano facendo
gli altri due fedeli. Tutti tranne lui.
Solo allora Marcus capì di non aver capito nulla.
Si gettò in ginocchio, chinò la testa e si sentì il più
vile, il più meschino degli uomini.
«Signore, io non sono degno...» cercò di dire, solo
che aveva la voce rotta dal pianto, mentre le lacrime
gli rigavano il viso. Ma Lui gli poggiò una mano su una
spalla e invitò Marcus ad alzarsi. Poi con un gesto
estese l’invito a Jenna e agli altri fedeli, sorridendo.
Ed era un sorriso bellissimo, accompagnato da due
occhi di un azzurro ultraterreno.
«Padre Marcus. Da quanto tempo non ti facevi
chiamare così?», disse Lui.
Marcus non riuscì a rispondere. Piangeva a
dirotto, di felicità e vergogna.
«Marcus, sono qui per voi», aggiunse. E i loro

68
cuori si illuminarono. « Un giorno dissi a chi mi
seguiva che sarebbe giunta l’ora in cui si sarebbero
dispersi, ciascuno per conto suo, lasciandomi solo.
È successo. Ma io non ero solo, in questi anni in
cui il mondo ha dimenticato il mio nome. Perché il
Padre è sempre con me»
Si fermò un attimo, guardò tutti loro negli occhi,
poi riprese: «E lo siete stati anche voi. Voi avete
creduto. Quando nessuno lo faceva più, voi avete
creduto in me»
Jenna si strinse al braccio di Marcus. Tremava
come una foglia, ma lo sguardo le brillava
dall’emozione.
«Signore... Io non... Noi non siamo che...», farfugliò
Marcus. In quel momento c’era solo una cosa, tra le
mille che si accapigliavano nella sua testa, tra le
mille che avrebbe potuto chiedere, che desiderava
davvero sapere. Così prese fiato, si fece coraggio e la
chiese: «Perché, Signore? Perché proprio noi?»
L’uomo dagli occhi ultraterreni, con barba e capelli
lunghi, avvolto in una vecchia tuta da meccanico,
non rispose. Li guardò, e sorrise.

69
X.

«Non... non puoi essere tu».


Eppure, in qualche modo, Luca seppe che doveva
essere Lui. Erano quegli occhi, era l’aspetto, ma
soprattutto era il modo in cui lo guardava. Era
l’uomo del quale aveva visto decine di diverse
rappresentazioni quando aveva assistito sull’iLife©
alle registrazioni della conferenza di Milton.
Era l’uomo per cui la religione, l’istituzione
chiamata Cristianesimo era nata e aveva dominato
a lungo il mondo. E ora era lì, al gate del suo
volo Alitime in ritardo per la Zona Radioattiva
Mediorientale.
E gli stava parlando.
«Io... no, scusa... non ci credo. Non è possibile», e
Luca si rese conto di aver parlato ancora una volta
troppo forte. Ma poi vide che le persone che erano
attorno a loro non si erano girate. Nessuno stava
ascoltando la loro conversazione, e questo gli fece
correre un brivido lungo la schiena.
«Non devi credere a tutto quello che ti hanno detto,
Luca», disse Lui, e quella voce erano dodicimila
usignoli RealSound© che cantavano direttamente
nel suo cervello.
L’espressione di quell’uomo gli metteva dentro...

70
Luca non avrebbe saputo dirlo di preciso. Serenità?
Gioia?
Solo che... Non può essere. Non è possibile.
«Ho visto quello che è successo. So di Pietro di
Arimatea. Non puoi essere Lui, perché Lui non è mai
esistito», disse alla fine, e nell’istante stesso in cui
lo fece sentì quanto male gli aveva fatto pronunciare
quelle parole.
«Chi credi che abbia creato quei diari, Luca?»,
rispose Lui.
Senza sapere davvero il perché, Luca iniziò a
piangere.
«Chi credi li abbia fatti avere alla Chiesa che ha
fatto tanto male in mio nome?»
Luca si sentì travolgere da una forza che non
aveva mai avvertito prima.
«Credi davvero che Milton li abbia trovati per caso
in quella grotta? Dopo migliaia di anni?»
Qualcosa esplose nel petto di Luca, e la vista gli
offuscò. L’uomo si avvicinò a lui e gli poggiò una
mano su una spalla. Al ragazzo romano tutto il
mondo circostante, il gate, i passeggeri in attesa, gli
aerei allineati oltre la vetrata, sembrò sparire.
«Sono stato io, Luca. Ho fatto tutto questo affinché
voi dimenticaste per un po’ il mio nome»
Luca si asciugò le lacrime con il dorso della
mano.
«Ma perché?», chiese.
L’uomo dai capelli lunghi e dagli occhi di un
azzurro impossibile non rispose. Sorrise.
Ed era un sorriso bellissimo. Anche se Luca si
sentì gelare il sangue dalla paura.

71
XI.

Stava cercando di tenere quanto più possibile il


suo braccio destro lontano dal bracciolo centrale.
O, più che altro, dall’arto completamente ustionato
che c’era poggiato sopra.
Il braccio apparteneva a un vecchio tutto
ricoperto di ustioni. Entrambe le braccia, le mani,
metà faccia, una tempia. Erano alla seconda ora
di volo, e tutt’attorno gli altri passeggeri avevano
collegato i propri iLive© al pannello sopra al tavolino
reclinabile per guardarsi la solita selezione di film
in quadriD proposta dall’Alitime. Luca continuava
invece a fissare l’uomo di traverso. Era riuscito a
guardarlo bene in volto solo poco prima, quando
un’hostess svogliata aveva passato loro dei panini
con una pinza di plastica. Ora stava provando a
inquadrarlo con la coda dell’occhio. Cercando di
non farsi notare. Non riuscendoci.
«Ti stai chiedendo dov’è che mi sono ridotto così,
vero?», lo sorprese l’uomo, che guardava dritto
davanti a sé, oltre le teste dei passeggeri delle file
precedenti.
«No, io… mi scusi ma…», provò a difendersi Luca,
diventando paonazzo in volto un attimo prima di
capitolare: «Sì. In effetti, sì»

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Il vecchio chiuse gli occhi e sorrise, anche se
il labbro mezzo bruciato e metà faccia sfigurata
trasformarono quel sorriso in una smorfia
terrificante.
«Mi porto dietro questa faccia da mostro da un bel
po’ di tempo. È successo quando avevo più o meno
la tua età», disse, con un forte accento delle regioni
ghetto. Calabrie, o forse Apulicata.
«Le Guerre del Sud. Ero sulle barricate, quando
ci fu la grande rivolta per la centrale. Ne hai mai
sentito parlare?»
E almeno di quello Luca, pur nella sua ignoranza
endemica di qualsiasi cosa avesse più anni di
lui, aveva sentito parlare sì. In giro per la città si
vedevano spesso vecchi reduci delle Guerre del
Sud. Quasi sempre in ginocchio su un marciapiede,
con un piattino per l’elemosina in una mano e un
cartello pieno di errori nell’altra.
«Lei ha combattuto? Ha partecipato agli scontri?»,
chiese Luca.
«No, non ho partecipato», gli rispose il vecchio,
dietro il suo ghigno. «Sono stato io a farli scoppiare.
Ho iniziato tutto io»
Luca sgranò gli occhi. Il morso di panino al niente
che stava masticando gli cadde di bocca.
«E ora magari ti aspetterai che questo vecchio
malridotto inizi a raccontarti tutta la storia per filo
e per segno. La battaglia e tutto il resto, per tutto il
tempo del volo», la tagliò lì l’uomo ustionato, sfilando
di tasca un vecchio iLife© 2.0.
«Ma non ne ho decisamente voglia. Mi guardo un
po’ di cartoni, ok?».

73
XII.

Il vecchio reduce dormiva sprofondato sulla sua


poltroncina, i sensori iFeel© ancora infilati nelle
sacche congiuntivali. Era scosso da un lieve tremito,
ma Luca non capiva se il vecchio fosse malato o
se si trattasse solo di un effetto collaterale delle
stimolazioni sensoriali in quadriD.
Quel che era certo è che Luca moriva dalla
curiosità. Voleva sapere chi diavolo fosse quel tizio
e, soprattutto, cosa diavolo avesse combinato. Così
ingoiò l’orgoglio e chiese alla hostess se c’era a bordo
un vecchio PLA che potesse usare per collegarsi. La
verde sentinella dell’Alitime lo squadrò dall’alto in
basso, come il peggiore dei pezzenti, e si allontanò
senza dire una parola. Tornò poco dopo, brandendo
un preistorico modello 1.1. Uno di quelli che neanche
più al Sud. Vergognandosi come un ladro, Luca
prese il PLA, ringraziò l’algida hostess stronza con
un cenno del capo e, appena questa venne ingoiata
nuovamente dal corridoio, entrò in azione. Scattò
due foto al vecchio che dormiva e lanciò una ricerca
per tratti somatici alle voci #Guerre del Sud #Capi
della rivolta.
Appena agganciati i sensori, notò con raccapriccio
la qualità veramente pessima del segnale video

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di quel maledetto rottame. Si trovava su un tetto,
ma provando a guardarsi attorno vide tutto scuro,
sgranato, le immagini piene di disturbi. Solo dopo
qualche istante realizzò che l’intera scena doveva
esser stata ripresa con una telecamera stereoscopica
preistorica. Se ne doveva fare una ragione.
Sotto di lui, giù in strada, c’erano dei poliziotti,
ed erano tanti. Centocinquanta? Duecento? Stavano
affrontando quella che aveva tutta l’aria di essere una
fronda di rivoltosi. Cinquanta, sessanta al massimo,
quasi tutti ragazzi. I poliziotti impugnavano degli
scudi trasparenti e picchiavano duro con... dei
bastoni di gomma? Uno scontro da cavernicoli,
pensò Luca. Poi però si accorse che non si trattava
affatto di uno scontro.
Ché quelli non reagivano. Stavano lì a prenderle.
La polizia avanzava, calando manganellate come se
non ci fosse un domani, e loro se le beccavano senza
alzare un dito. Sulla schiena, sulla testa, in piena
faccia.
Il vecchio ustionato era lì in mezzo, al centro
del suo gruppo di masochisti. Solo che non era né
vecchio né ustionato. Aveva non più di venticinque
anni, una fitta barba nera, il corpo asciutto, gli
occhi di una tigre.
«Non reagite!», gridava ai suoi, proteggendosi
la testa con le mani. «Che nessuno muova un
muscolo!». Ma ai poliziotti sai che gli fregava, e giù
manganellate.
La scena si interruppe improvvisamente e Luca
si ritrovò in una piazza. Una grande piazza, chiusa
sui lati da alte palazzine. Deserta, bruciata dal

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sole, i palazzi grandi edifici bianchi dalle facciate
scorticate. Sud, pensò Luca, un po’ disgustato.
Era una scena immediatamente successiva alla
precedente, solo che questa si vedeva per fortuna
molto meglio, perché ripresa con una telecamera
più decente. Sulla piazza si agitava un denso
fumo nero, come di qualcosa dato alle fiamme, e
quel qualcosa era un vecchio furgone che ancora
bruciava, addossato a una statua equestre annerita
al centro della piazza. Solo per un istante, Luca
pensò che quello era meglio viverlo con un personal
life assistant vecchio modello: con il suo avrebbe
respirato davvero quel fumo, ed era una di quelle
cose che non riusciva a sopportare.
I ragazzi arrivarono di corsa da una via d’accesso
della piazza. Di corsa si fa per dire: erano tutti
ridotti malissimo. C’era chi sputava sangue, chi
arrancava tenendosi lo stomaco, chi grondava
sangue da un sopracciglio spaccato, ritrovandosi
con metà faccia verniciata di rosso. Si fermarono
tutti attorno allo scheletro del furgone in fiamme,
sotto la statua. Il giovane vecchio montò sul plinto
dell’uomo a cavallo di gesso e da lì salto sul tetto del
furgone, fregandosene delle fiamme che ancora ne
avvolgevano il cofano.
I poliziotti spuntarono sulla piazza marciando
compatti, picchiando a tempo i manganelli sugli
scudi, seguiti da tre camionette ridicole a carburante
fossile. Un uomo in borghese con una maglietta
arancione guidava gli agenti. Il giovane vecchio era
immobile sul furgone, quando qualcuno dei suoi gli
passò un megafono. Sotto di lui, in quello stesso

76
istante, la sua banda di tizi malmenati armeggiavano
con degli zainetti.
Luca non riusciva a vedere cosa ci fosse dentro
perché era troppo lontano, e avvicinarsi poteva voler
dire perdersi qualcosa. Meglio restare dov’era.
Il giovane vecchio sollevò il megafono e urlò: «Se
fossi in voi mi fermerei esattamente lì dove siete»
Dopo qualche passo, l’uomo in borghese si
rese conto che qualcosa non andava. Disse ai
suoi di fermarsi per sicurezza a una cinquantina
di metri da quel furgone. Quelli assunsero uno
schieramento a testuggine, con gli scudi sollevati,
mentre le camionette arretrarono a presidiare la via
d’accesso.
Il giovane vecchio urlò ancora nel megafono:
«Duecento contro cinquanta. Disarmati. Ma questo
non è bastato a fermarvi». Si fermò a prender
fiato per qualche secondo, poi riprese. Il suo tono
era inquietantemente tranquillo per uno che ha
rimediato un sacco di legnate e sta per portarne a
casa delle altre.
«Vi sentite forti, vero Magri? Avessimo voluto, vi
avremmo fatto tutti a pezzi, figli di puttana. È solo
che non abbiamo voluto»

Il tizio in maglietta, questo Magri, a quel punto


era visibilmente innervosito dalla piega presa dagli
eventi. Si starà chiedendo, pensò Luca sedendosi su
un marciapiede, da dove diavolo tirano fuori quella
spavalderia questi tizi, ridotti da schifo come sono
ridotti. O forse è solo infastidito e vuole tornarsene
subito a casa. Vallo a sapere.

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«Tu e quale esercito, pezzente?», gridò, feroce e
sprezzante, usando anche lui un megafono.
Ma l’altro, il giovane vecchio, in tutta risposta
sputò un grumo di sangue, si pulì la bocca con la
manica della sua felpa verdina e rise. Da sopra il
furgone parzialmente ancora in fiamme, gli rise in
faccia.
L’uomo in borghese, Magri, ordinò qualcosa ai suoi
tutto incazzato, e quelli delle prime file misero giù
gli scudi per metter mano ai lacrimogeni. Iniziarono
a sparare ad altezza d’uomo verso il centro della
piazza: dozzine di colpi volarono in aria, riempiendo
tutto lo spiazzo di fumo bianco.
Ma i rivoltosi negli zainetti avevano delle maschere
antigas, e il tempo che gli uomini di Magri aprissero
il fuoco le avevano già indossate. Uno di loro venne
colpito in pieno petto da un lacrimogeno e barcollò, gli
altri restarono immobili. Con le braccia incrociate al
petto. In segno di sfida. Il giovane vecchio afferrò un
colpo al volo, lo tenne in mano per un po’, venendo
avvolto completamente dal fumo, poi lo buttò via.
«Io e QUESTO esercito», disse nel megafono.
Alzò un braccio e sul fondo della piazza, da
vicoli che si aprivano a sinistra e a destra della via
dalla quale erano arrivati, alle spalle dei poliziotti
la scena si mosse. L’inquadratura tremò, mentre
oltre duecento persone – ragazzi, ma anche qualche
adulto – avanzavano marciando come avevano fatto
gli agenti, tagliandoli fuori dalle loro camionette,
dalla loro via di fuga.
Così come i poliziotti, anche questi rivoltosi
avevano degli scudi al braccio, ma erano di ogni tipo,

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forma e materiale. Erano tutti armati di bastoni e
mazze di ferro, ma al sole brillava anche la canna di
qualche fucile. Luca si alzò in piedi, attentissimo.

79
XIII.

Magri si girò a guardare quanto succedeva alle


sue spalle con gesti nervosi, mentre i suoi presero ad
agitarsi. Questo non era previsto dal piano operativo,
e glielo leggevi in faccia.
«E anche questo», urlò ancora il giovane vecchio
nel suo megafono.
Chiuse a pugno le dita del braccio alzato e da
due stradine sui lati avanzarono altri due gruppi
compatti, armati allo stesso modo, ma con qualche
fucile in più. Almeno cento persone per lato.
Caschi da saldatore e da motociclista in testa.
I rapporti di forza stavano cambiando rapidamente.
L’uomo in borghese non aveva più un’aria
nervosa. Aveva l’aria di uno che stava per cagarsi
addosso. Portò la mano alla pistola nella fondina e
la estrasse.
Ma il giovane vecchio non aveva ancora finito:
urla nel megafono: «E questo», disse, agitando
il braccio con il pugno chiuso. Dai tetti attorno a
loro, su tutto il perimetro della piazza, spuntarono
centinaia e centinaia di persone. Difficile dire
quante, di preciso. Forse più di un migliaio. I tetti,
sia quelli piatti a uso del Sud che quelli spioventi
erano improvvisamente affollati di teste e braccia.

80
Solo che quasi tutte le braccia reggevano fucili
e pistole e le stavano puntando verso i duecento
agenti e il loro capo, la maglietta ormai ridotta a
uno straccio zuppo di sudore.
Luca aveva giocato abbastanza simulatori di
guerre del passato da sapere che erano armi militari.
Armi da guerra.
Adesso mi sa che se li mangiano, pensò.
Il giovane vecchio sollevò di nuovo il megafono:
aveva calato tutte le sue carte, ora poteva passare a
riscuotere il piatto: «Avete dieci secondi per buttare
a terra scudi, manganelli e armi. E cinquanta per
spogliarvi»
Magri gettò via il suo megafono e urlò comunque
così forte da farsi sentire da tutti, rosso il volto: «Ma
cosa diavolo credi di fare?!? Cosa ti sei messo in
testa? Vi faccio bruciare vivi, maledetti cani!!!»
Il giovane vecchio saltò giù dal furgone, e con
l’aria più serena di questo mondo gli rispose:
«No, non credo». Gli bastò alzare di nuovo il
braccio, e la faccia dell’uomo in borghese venne
illuminata per intero dal rosso dei puntatori laser.
«Non credo proprio. Perché se dici solo un’altra
parola ti faccio esplodere il cervello, vigliacco figlio
di puttana»
Meno di due minuti dopo, gli agenti erano tutti
nudi. Molti si coprivano gli attributi con le mani, uno
no, perché si stava pisciando sotto dalla paura.

I rivoltosi hanno formato un cordone per lasciarli


passare. «Nessuno tocchi loro un capello o se la
vedrà con me», disse il giovane vecchio ai suoi, e non

81
ebbe bisogno di ripeterlo. I poliziotti nudi sfilavano a
testa bassa. Qualcuno piangeva.
Il giovane vecchio li guardava passare, fiero come
un leone. «Dite al vostro capo che qui la loro fottuta
centrale non la costruiranno mai. Finché avremo
fiato. Finché saremo vivi. La terra è nostra. Mai.
MAI» disse a Magri mentre si avvicinava, a testa
bassa come gli altri. Ma quando l’uomo che prima
era in borghese e ora si trascinava nudo come un
verme fu davanti a lui, il giovane vecchio lo fermò,
piazzandogli un manganello, uno dei manganelli
gettati a terra dai poliziotti, davanti al petto.
«Tu aspetta un attimo», gli disse. Uno dei poliziotti
fece per fermarsi, ma gli altri lo spintonarono e
proseguirono sotto lo sguardo dei rivoltosi immobili.
Rimasto da solo, Magri pianse. Si mise in ginocchio
e iniziò a supplicare il giovane vecchio. Questi gli
sollevò il mento con la punta del manganello.
«Prima, quando mi hai sputato addosso, mentre
i tuoi mi pestavano: ricordi? Ricordi quello che hai
detto? Che ci avresti fatto bruciare vivi? Quanto ti
senti forte ora, figlio di puttana? Quanto?»
Ma quello tremava così forte da non riuscire a
rispondere. Biascicava solo una specie di ti prego, ti
prego incomprensibile, baciando i piedi del giovane
vecchio, lacrime che si mescolavano a muco.
Uno schifo incredibile, pensò Luca, che si era
avvicinato tanto da trovarsi a non più di un paio di
metri dalla scena.
«Potrei crocifiggerti all’ingresso della città», gli
disse il giovane vecchio, gli occhi che gli bruciavano
di furia controllata e potenza. «O anche solo pestarti

82
con questo manganello fino a quando non ti resterà
in corpo una sola goccia di sangue» e lo afferrò per i
capelli, tirandogli indietro la testa.
«Ma c’è che io non sono come te o come il tuo
padrone». Lo lasciò andare, buttò via il manganello
e si allontanò, mentre Magri si rimetteva in piedi
e correva verso gli altri, inciampando nei detriti,
rotolando, rimettendosi in qualche modo in piedi.
Il giovane vecchio era andato a raccogliere uno
scudo della polizia. Se lo portò al petto e iniziò a
colpirlo col pugno, a ritmo, gridando.
«Ua. Ua. Uh! Uh! Ua!»
Presto lo seguirono tutti gli altri. Mentre i poliziotti
si disperdevano sullo sfondo, chi a passo veloce, chi
correndo, l’urlo e il rombo degli scudi si alzò da tutti
i lati e sui tetti. E fece tremare l’intera piazza.
Minchia che tipo con i controcoglioni, pensò Luca,
sfilandosi i sensori.
Il vecchio si era svegliato e sorseggiava tranquillo
un RealSweetSymphony© alla fragola da un angolo
delle sue labbra distorte dalle ustioni.
«Sei andato a vedere, eh?», chiese a Luca, sempre
fissando sorridente un punto imprecisato in fondo
al corridoio davanti a sé.
«Sì», rispose Luca, non provando nemmeno a
negarlo. «Però... scusi, se glielo chiedo, ma alla fine
non ho capito come se l’è fatte quelle ferite. Cioè,
avete vinto. Cosa è accaduto dopo?»
«Beh», attaccò il vecchio, in pace col mondo, «È
accaduto che quel figlio di puttana ha mantenuto la
sua promessa. Ci hanno bruciati vivi».

83
XIV.

Sette ore dopo esser atterrato all’aeroporto Atarot


Telefonica di Gerusalemme, Luca mise finalmente
piede nella vecchia capitale della Zona Radioattiva
Mediorientale. Coperto, il piede come tutto il resto
del suo corpo, dalla gomma pesante di una tuta
bianca antiradiazioni. Durante il volo, Luca e gli
altri passeggeri del suo volo erano stati istruiti sulle
rigorose procedure da seguire all’arrivo secondo il
protocollo Martin. Il che voleva dire, per l’appunto,
sette ore di domande, controlli e indicazioni sulla
profilassi cui era obbligatorio attenersi per non
restare uccisi o generare un giorno figli con tre teste. Il
giovane soldato israeliano che l’aveva seguito durante
la procedura - un ragazzino magro e pallidissimo,
ma alto uno sproposito - aveva consigliato a Luca
di non indossare altro che le mutande sotto la
tuta, perché fuori facevano facile i quarantacinque,
quarantasei gradi all’ombra, e là dentro si sarebbe
cotto a puntino. Ma a Luca quella tuta già usata da
qualcun altro faceva un po’ schifo, le rassicurazioni
sul processo di sterilizzazione non l’avevano rassicurato
abbastanza, e perciò si era ostinato a tenersi anche
jeans, calzini e polo in piquet color lilla. E ora stava
sudando come un grizzly alle isole Haway-to-go.

84
Il vapore gli aveva appannato tutto il visore del
casco, le gocce di sudore gli colavano negli occhi,
e insomma non vedeva in pratica un benedetto
accidente. Nell’aria immobile e rovente della spianata
all’esterno dell’aeroporto, sotto un sole feroce,
riusciva a intravedere solo qualche tuta bianca come
la sua che entrava o usciva in lontananza. Sagome
quasi liquide. Fantasmi.
Da quando non era più la capitale della Zona
Radioattiva Mediorientale, Gerusalemme era diventata
una città fantasma, la popolazione ridotta a meno di
un decimo di un secolo prima. Cosa fosse successo,
chiaramente, Luca non se lo ricordava mica. Gli
pareva si fossero scannati quasi sessant’anni prima
per... boh? Non avrebbe saputo dirlo. Luca stava
pensando ad altro. Cercò in effetti fortissimamente
di non pensare a quello a cui stava pensando, per la
dodicesima volta nelle ultime dodici ore.
Non c’era una sola auto in movimento, ma sotto
una pensilina erano appostati dei taxi, degli enormi
van bianchi con le portiere verde acido. Si trascinò
verso la fiancata colorata del primo, ma arrivato a
coprire metà della distanza sentì un cigolio del casco.
Ebbe come l’impressione di sentire l’aria caldissima
del deserto infilarglisi sul collo da una fessura nella
protezione, all’altezza della mascella. Ma era davvero
solo un’impressione? Nel dubbio fu assalito da una
paranoia feroce e corse, più che altro caracollò fino
al taxi, il borsone a tracolla avvolto da una plastica
rigida scomodissima, sudando anche l’anima.
Non si tolse il casco neppure quando lo fece
l’autista, una volta terminata la procedura di

85
decontaminazione all’interno del veicolo.
«Dove ti porto?», gli chiese il tassinaro, in un
inglese discreto, infinitamente migliore del suo.
Luca non rispose. Aprì il palmo della mano, nel
quale aveva accartocciato l’indirizzo dell’albergo. Era
l’albergo nel quale alloggiavano Marta e quell’altro,
lo stronzo di merda. Il costosissimo Peninsula Major,
che potevano permettersi solo stimati uomini d’affari
coinvolti nel business della decontaminazione o degli
aiuti internazionali, e grandissimi figli di puttana
che si facevano gli splendidi con le loro studentesse
grazie ai soldi dell’Università. Quel pensiero gli si
affacciò un’altra volta da qualche parte nella testa,
trascinato da una coppia di tori da combattimento.
Lo respinse a fatica. Tredici.
La conta era arrivata più o meno a ventisei quando
il taxi si lasciò finalmente alle spalle il deserto per
entrare in città. Fuori dagli spessi finestrini a tenuta
stagna scorrevano vie polverose, negozi abbandonati
a non finire. In giro c’era pochissima gente, ma non
tutti indossavano tute e caschi protettivi. C’erano
dei bambini scalzi e a petto nudo accanto a una
bancarella con della frutta contaminata sopra che
nessuno avrebbe mai comprato. Altri giocavano
in un vicolo con un pallone, fregandosene della
temperatura assurda.
«Perché questa gente non usa il casco? Pensavo
che il protocollo Martin fosse obbligatorio per tutti»,
chiese al tassista, nel suo inglese di merda.
«Non per i residenti», gli rispose quello, continuando
a fissare la strada, un grosso gagliardetto con il rosso
e il nero dell’Hapoel Tel Aviv Amazon che ondeggiava

86
dallo specchietto retrovisore a ogni curva.
«Ma...», provò a ribattere Luca, non riuscendo a
trovare le parole.
Il tassista si girò a guardarlo, gli regalò un sorriso
amarissimo, prima di passarsi lo stecchino da un
lato all’altro della bocca con la lingua.
«Non hanno i soldi», concluse. «Moriranno
comunque tutti prima che diventi per loro un
problema»
A quota trentadue noncidevopensare, il taxi
inchiodò davanti a un elegante palazzo in stile liberty
circondato da palme, il cui ingresso era presidiato
da uscieri in tuta antiradiazioni scura, con caschi
abbinati dorati. Luca aprì il palmo dell’altro guanto,
nel quale erano accartocciati dei contanti. Li lasciò
cadere in mano al tassista, fece un cenno di saluto
con il casco, uscì.
I due uscieri inclinarono la testa per squadrarlo,
nel loro completo nero e dorato.
All’anima della tamarrata, pensò lui nel fissarli di
rimando. Ignorò chiunque gli venne incontro, varcò
due porte di sicurezza e puntò dritto verso il banco
della reception, tirandosi dietro il borsone ancora
avvolto nella plastica protettiva, quando venne
placcato da alcuni energumeni elegantissimi.
«Signore! Signore! Le sto dicendo che non può
proseguire oltre con la tuta! L’area è decontaminata,
perciò devo chiederle di tornare indietro e seguire la
profilassi del...» e «Lei sta mettendo a repentaglio
la sicurezza di...» gli urlava uno di quelli in inglese,
con la faccia a due centimetri dal casco. Ma Luca
non lo stava ascoltando. Gli si era chiusa la vena: al

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quarantesimo tentativo quel pensiero aveva vinto.
Si sentiva impazzire e voleva vedere molto prima di
subito Marta.
Venti minuti di decontaminazione, cambio d’abiti
e spiegazioni imbarazzate più tardi, un cameriere
gentile ma dall’aria severissima gli spiegò in perfetto
italiano che la signorina Marta Selvaggi e il Professor
Sgabuzzini si trovavano in quel momento a pranzo
nel ristorante dell’albergo, il rinomato, esclusivo
Phoenix, quattro stelle Michelin e...
«Dove?», chiese Luca, con un tono che non
ammetteva esitazioni. Il cameriere allungò il dito
indice verso una scalinata in marmo che scendeva
alla loro destra verso il piano inferiore. Luca cercò
di rendersi presentabile, si tirò indietro il ciuffo di
capelli castani che gli si era appiccicato sulla fronte
e scese quella rampa di scale. Tre gradini alla volta.
Il locale, una sala enorme dal soffitto basso, aveva
luci soffuse e un’atmosfera intima che già non gli
piaceva per nulla. Segaligni camerieri elegantissimi
si aggiravano come spettri nelle loro uniformi beige,
in mezzo a tavoli illuminati da piccole candele
profumate.
Non si vedeva una cippa.
Scartati un paio di camerieri, Luca girò a vuoto
per un minuto buono, poi finalmente li vide.
Stavano parlando a un tavolo d’angolo.
Vicini.
Troppo vicini.
Il caposala si accostò da dietro e chiese a Luca
qualcosa che lui non sentì. Lo stronzo stava versando
da bere a Marta, e sorrideva.

88
Il grandissimo pezzo di merda. Calmati.
Staranno parlando di lavoro, si disse.
Ma quello stronzo continuava a sorridere e ora,
non si vedeva bene, dannazione, le aveva forse preso
la mano? Stava cazzo facendo cosa?
Il caposala toccò Luca con grande garbo e delicatezza
sulla spalla, per invitarlo a voltarsi.
Devo controllarmi, si ripetè il ragazzo romano tre
volte, mentre si avvicinava lentamente a quel tavolo,
con il caposala incollato alle spalle come un’ombra.
Devo controllarmi, devo controllarmi, devo... «MA
VAFFANCULO, LEVATI UN PO’!»
E spintonò via il caposala e si tuffò in avanti verso
il professore, travolgendo nella sua furia piatti,
bicchieri, qualsiasi cosa.

89
XV.

Quel sorriso.
Padre Marcus non era riuscito più a chiudere gli
occhi senza esser abbagliato da quel sorriso. Aveva
atteso per anni un segno, finché non era avvenuto
quanto non aveva mai neanche solo osato sognare.
Non sapeva perché avesse scelto proprio lui, e di
certo non si sentiva degno del compito che gli era
stato affidato, ma era sicuro che non ci fosse tempo
da perdere.
Quel pomeriggio aveva riunito Jenna e alcuni altri
tra i fedeli più giovani della sua chiesa sotterranea.
«Dobbiamo muoverci», disse loro. «E dobbiamo
farlo subito. È giunto il momento di riattivare i
contatti con gli altri».
«Ci serve il loro aiuto», precisò dopo qualche
istante di silenzio, anche se nessuno aveva obiettato
nulla. Marcus non aveva mai visto i suoi fedeli così
determinati.
A Gianrico affidò un messaggio per la comunità
della Chiesa del Sacro Cuore, nascosta sotto via
Tiburteen. A Manlio e Paolo l’incarico di raggiungere
due nuclei fuori città, nell’Agro Pontino e sulla costa.
Era un compito difficile, perché spostandosi fuori

90
dal centro, in zone poco conosciute, si rischiava di
finire dritti in una trappola della polizia. O peggio,
molto peggio. Ma Paolo e Manlio erano due ragazzi
svegli, e poi comunque non era quello l’elemento
fondamentale del piano.
Perché era vero, avevano bisogno dei fedeli
delle altre criptocomunità, ma di alcuni avevano
bisogno molto più che di altri. E a parlare con il
nucleo più importante di tutti, nelle catacombe
del centro, Marcus ci sarebbe andato di persona.
Lì, tra quei fratelli nascosti, avrebbe trovato quello
che gli serviva. Parlare con quell’uomo non sarebbe
stato facile, lo sapeva. Costa era un uomo diffidente
e inavvicinabile quanto influente, ma una volta
ascoltato quello che era successo, anche quel
paranoico non avrebbe potuto voltar loro le spalle.
Se anche non avesse voluto credere a lui, si ripetè
Marcus, Padre Costa avrebbe creduto almeno a
Jenna. Non poteva non fidarsi di sua figlia.

91
XVI.

Da una ventina di minuti, Marta fissava la strada


dalla finestra della sua stanza. Sotto, un gruppo
di soldati in corazza integrale marciava compatto,
sollevando la polvere. Ragazzini vestiti di stracci li
indicavano, ridendo. Fissava la strada e non apriva
bocca, arrotolandosi una ciocca dei suoi capelli
nerissimi attorno all’indice.
Luca sapeva che quello, ancor più del silenzio,
era un bruttissimo segno.
Appena saliti in camera, dopo che era successo
tutto quello che era successo, lui aveva pure provato
a spiegare le sue ragioni, ma lei l’aveva incenerito con
lo sguardo. Restarono così, immobili, aggrappati
ciascuno alla propria incazzatura per un altro po’,
poi Marta si girò, e c’era la furia nei suoi occhi.
«Tu non ti rendi conto», gli disse. «Non ti rendi
proprio conto. Avrai fatto, quanto?, trecentomila
crediteuro di danni? E per cosa, poi? Le tue assurde
paranoie. Le solite gelosie»
Veramente..., stava per dire Luca, ma si guardò
bene dall’aprire bocca. Marta era ormai un fiume in
piena. Il grande torrente dell’ incazzatura.
«Per una volta, Luca. Una volta che sto facendo
qualcosa d’importante per il mio futuro e ti chiedo

92
di avere fiducia di me. Una volta. Una. Ma tu
no, dovevi venire a fare la sceneggiata da pupee
siciliani. Ringrazia che il professore sia stato così
gentile da voler saldare i danni con la sua carta. E
non denunciarti per aggressione»
La carta sua un cazzo e Son tutti bravi con i soldi
degli altri, pensò Luca, ma si morse nuovamente la
lingua. Forse ma forse, lasciandola parlare, riusciva
a venirne fuori.
«Stavamo parlando della ricerca, tutto qui. Mi
stava versando da bere, ok, e quindi? Un po’ di
galanteria mica vuol dire volersi infilare nelle mie
mutande, scemo. Abbiamo trovato dei reperti
importanti, testimonianze risalenti a prima della
guerra di sessant’anni fa. Il professore è certo che
l’Università finanzierà una seconda missione per...»
«Marta, io l’ho visto», la interruppe lui
all’improvviso.
«L’hai visto? Ma di chi stai parlando?»
Luca aveva sentito d’un tratto l’enorme, fortissimo
bisogno di raccontarle quello che gli era successo.
In un istante aveva dimenticato la brutta faccia
dello stronzo, resa ancora più brutta dal paio di
centre di un certo livello che era riuscito a piazzargli
sul grugno, tah, dirette, prima che lo tirassero via.
Doveva parlarle di quell’incontro, prima del volo, di
quelle parole. Di quel sorriso. E così lo fece, sperando
che la sua ragazza non lo prendesse per pazzo.
La sua ragazza lo prese per pazzo.
«È che stai attaccato tutto il santo giorno a quel
dannato coso, ecco cos’è!», sbottò lei, nuovamente
in carogna. «Ti sei talmente cotto il cervello che

93
basta un infospot malfunzionante per farti uscire
di melone. Sei andato, Luca, lo capisci? Devi finirla
di stare attaccato al tuo iLive© per tutto il santo
giorno. Te l’avevo detto, no? Te l’avevo detto che
avresti strippato!»
«Ma...»
«Ma cosa?»
«Ma io un PLA non ce l’ho più. Ho venduto l’iLive©
per pagarmi il biglietto per venire qui. E l’incontro è
avvenuto dopo»
Un po’ più tardi, erano seduti tutti e due su una
poltrona a pensarci. Luca, appollaiato sul bracciolo,
provò a prender la mano di Marta nella sua, lei lo
allontanò, lui ci riprovò, lei lo allontanò di nuovo,
e allora lui ci riprovò ancora un’altra volta, questa
volta Marta lasciò la mano lì.
«Sai a cosa mi stai chiedendo di credere, vero?»,
gli disse poi.
«Io non lo so, Ma’. Io non credo in niente, lo sai.
Ma era lì, e ho parlato con lui, te lo giuro. Era reale,
anche se nessun altro tranne me sembrava vederlo»
«Se anche fosse. Se, e dico se, fosse vero, perché
proprio te su tredici miliardi di esseri umani?»
La domanda era pertinente, ma Luca una risposta
non l’aveva. E allora, per spezzare la tensione che
quell’argomento aveva fatto montare nella stanza,
tirò fuori per l’ennesima volta quella battuta sulle
sue dimensioni artistiche. Marta gli tirò un cuscino,
lui la baciò e provò ad attirarla a sé. Forse ma forse.

XVII.

94
La donna impugnava un coltellaccio affilato. Il
locale era sporco, dava un’idea di vecchio, moribondo.
Il poster della Lodigiani mostrava una formazione
vecchia di almeno quattro stagioni. Il sangue
rappreso incrostava il bancone, quanto restava di
un manzo appeso a frollare spuntava dalla cella
frigorifera, mentre la testa di quello stesso animale
li fissava da un ripiano con occhi spenti. «Cosa le
servo?», chiese la macellaia. Era una donna sulla
cinquantina completamente sformata, i capelli
raccolti in una crocchia sotto una retina, pancia e
braccia colossali che tendevano il camice macchiato
di sangue al punto da farlo esplodere.
Marcus sperò che il posto fosse quello giusto,
perché altrimenti quello che stava per dire li avrebbe
messi nei guai.
«L’Agnello. L’Agnello di Dio», disse, e quella non
cambiò espressione.
La macellaia posò il coltellaccio sul bancone e
fece segno a Marcus e Jenna di seguirla. Entrarono
direttamente nella cella frigorifera, che la donna si
chiuse alle spalle. Jenna ebbe come un sussulto,
ma la donna sollevò i palmi per tranquillizarla:
non sarebbero rimasti chiusi dentro. Sul fondo
della cella, spostate due carcasse appese ai ganci
del soffitto, c’era una botola. Avevano spostato il

95
punto d’accesso, notò Marcus, ora che il vecchio
studio di aracnopuntura terapeutica non c’era più,
ma la botola era rimasta praticamente identica. La
macellaia la spalancò con un calcio e premette un
interruttore per illuminare la scala di metallo che
scendeva nel buio sottostante.
«Ci sono altri punti d’accesso?», le chiese Marcus,
ma lei sollevò le spalle.
Prima che la donna richiudesse sopra le loro teste
la botola, fu Jenna a rivolgerle un’ultima domanda:
«Come sa che non siamo della polizia?»
La macellaia scoppiò a ridere.
«So chi siete, mi ricordo di voi. E la polizia qui non
è più un problema da molto tempo. È dei gruppi
di epurazione, di quei fottuti maniaci che abbiamo
paura, non di loro», e con un altro calcio richiuse
la botola, lasciandoli nell’oscurità smorzata solo dal
neon che attraversava le sbarre della scala.
Scesero per una decina di metri e si ritrovarono
in un piccolo antro buio, dal soffitto a pochi
centimetri dalle loro teste. Una porta automatica in
metallo ossidato sbarrava l’unica via d’accesso alla
struttura principale, e i led rossi di due telecamere
di sicurezza li stavano scrutando.
«Siamo noi, Costa», disse Marcus, e la porta si
aprì.
La grande sala sotterranea era rimasta come la
ricordavano, eppure camminare di nuovo in mezzo a
quel lusso a cui non erano più abituati, tra statue e
dipinti originali scampati alla distruzione della Crisi
Milton, diede loro un leggero senso di vertigine.
Quando, sei anni prima, Padre Costa lo aveva

96
cacciato dalla sua chiesa, Marcus si era portato
dietro Jenna e un gruppo consistente dei criptofedeli
di quella chiesa, promettendo a se stesso che non
avrebbe mai più rivolto la parola a quell’uomo.
Costa aveva fatto lo stesso.
Uno accusava l’altro di voler portare lontano dal
messaggio originale di Cristo loro comunità, di voler
creare solo una struttura di potere sotterranea per
controllare la città; l’altro di scoparsi sua figlia.
Avevano ragione entrambi.
Non c’erano che poche decine di fedeli a quella
messa, ma fortunatamente Marcus intravide tutti
quelli che contavano davvero. Jagger, Blasi, e
soprattutto il Generale. Il posto sembrava spettrale
nella sua austera magnificenza, illuminato a giorno
da archi di luce in ogni angolo, la volta istoriata
con riproduzioni in Paint4Life© di affreschi ormai
perduti.
Padre Costa venne loro incontro, i capelli più radi
e bianchi di un tempo, lo sguardo sempre severo.
Venne loro incontro tenendo le braccia incrociate al
petto. Certe ferite necessitano di molto tempo per
rimarginarsi. Altre non lo fanno mai.
Ignorò la mano tesagli da Marcus e abbracciò
forte sua figlia, che non vedeva da tanto, troppo
tempo. Ma dopo che Marcus gli disse quello che
era successo, Costa abbracciò anche lui. Marcus fu
sorpreso dal gesto e per un istante non seppe che
dire, ma poi capì. Dovevano mettere da parte le loro
divergenze, perché non contavano più nulla. Loro
non contavano più nulla.
Avevano atteso tutto questo per anni, pianificando

97
ogni cosa, ogni singolo passo. Si erano preparati
a lungo per quel momento, aspettando solo che
arrivasse loro un segno. E il segno era finalmente
arrivato. Dovevano farlo subito. Nulla contava più
nulla.

98
XVIII.

Luca aveva già indossato la tuta sterile. Il casco


sotto al braccio, era pronto ad uscire. A un paio di
metri di distanza, accanto alla sua pila di bagagli,
Marta si stava scusando ancora con il professore.
Per la partenza anticipata, l’occhio nero e tutto il
resto. Luca con lo stronzo si era dovuto già scusare
due volte, ingoiando bile e orgoglio, e ora ne faceva
volentieri a meno. Qualche minuto e si sarebbero
infilati finalmente in un taxi e avrebbero lasciato
quel posto inquietante e...
«Signor Murazzi?
Un cameriere dell’albergo si era materializzato
alle sue spalle.
«Sì?», chiese Luca, mentre chiedeva a se stesso
cosa diavolo volesse ora questo tipo. Il conto delle
bottigliette d’acqua l’aveva già saldato, mortacci
loro.
«Signor Murazzi, se vuole farmi la cortesia di
seguirmi: c’è una chiamata per lei».
Il cameriere condusse Luca in una lussuosa saletta
riunioni dietro il banco monolitico della reception.
Sul video era in attesa una ragazza. A giudicare
dal logo sulla camicetta, dai capelli neri liscissimi
HawaiianDreamin’© e dall’aria scoglionata, doveva

99
essere per forza una centralinista della Vodafone
Force.
Che due coglioni. Pure qui.
«Non ho più da giorni un iLive©: sta perdendo il
suo tempo», aveva messo subito le mani avanti Luca,
prima di rendersi conto che c’era qualcosa che non
andava. «Aspetti un momento. Come diavolo avete
fatto a trovarmi senza PLA?»
La centralinista conservò imperturbabile la sua
aria depressa. «Vede, è proprio per quello che la
chiamavamo, Signor Murazzi»
«Uh?»
«Durante uno dei nostri cicli di controllo
qualità, in Vofafone Force ci siamo accorti di un
malfunzionamento in alcuni modelli di Personal Life
Assistant. In particolare tutti quelli di penultima
generazione alfa45679000 fino al numero di serie
7569milaseicentov...»
«Le ho già detto che non ho più un iLive©, no? La
ringrazio per la gentilezza ma non me importa nulla,
sinceramente»
«Non ha capito, Signor Murazzi. Abbiamo provato
a contattarla, ma visto che il suo dispositivo ci
risultava spento, abbiamo sfruttato la clausola dello
sfruttamento totale dei dati personali per accedere
al suo passaporto elettronico, scoprire la sua
ubicazione e verificare in quale albergo alloggiasse.
Il fatto è, vede, che su quei modelli l’accesso a fonti
storiche ha sbloccato inavvertitamente la versione
full dell’applicazione sperimentale iVision™. Quello
che voglio dire è che questo potrebbe aver proiettato
secondo i nostri esperti alcune suggestioni nel

100
suo subconscio. Lasciato delle tracce oniriche, se
vogliamo metterla così. Mi sta ascoltando?»
Luca la stava ascoltando eccome.
«Un attimo solo», aveva chiesto alla ragazza dai
capelli nero hawaiano sullo schermo. «Mi sta forse
dicendo che sto facendo dei sogni ad occhi aperti
per colpa di un errore del software?»
«Le chiedo scusa?»
«Voglio solo sapere se questo problema può farmi
immaginare le cose, porca puttana, vedere delle
persone anche quando sono perfettamente sveglio»
«Potrebbe essere. Guardi, a me hanno dato da
leggerle queste tre righe per sollevare Vodafone
Force da qualsiasi responsabilità e io l’ho fatto. A
me sa cosa diavolo frega. Le auguro una buona
giornata», gli rispose la centralinista. E mise giù a
tradimento.
Luca, che si sentiva un vero coglione, non sapeva
come spiegare il tutto a Marta, ma non c’era bisogno
di farlo: quando si girò, Marta era dietro di lui.
«Hai per caso sentito quello che...?»
«Sì», gli disse lei. «Te l’avevo detto, no, che mi
sembrava una stronzata?».

101
XIX.

Sei giorni dopo, Luca si stava facendo la barba


nell’appartamento di Marta nell’Alveare “Sogno di
Una Notte di Mezza Estate con Fanta© 31”.
Lei era corsa all’Università per le lezioni, e il
fatto che lo stronzo fosse rimasto a Gerusalemme
lo tranquillizzava. Un po’ di culo, e il bastardo si
sarebbe beccato una dose letale di radiazioni.
Luca stava canticchiando davanti allo specchio un
vecchio pezzo degli Antrist: Spartacus Buffy LOL,
ma mentre si dava un’aggiustata alla basetta si
accorse di avere la pelle d’oca. Eppure faceva un
caldo assurdo in quel bagno, tanto che lo specchio
si stava velocemente appannando. Luca schioccò le
dita vicino al rubinetto per fermare l’acqua calda,
poi afferrò l’asciugamano e lo passò sullo specchio.
Per poco non morì di paura quando si accorse che
non era solo nel riflesso.
Dietro di lui c’era Lui.
Con la sua barba, i capelli lunghi, gli occhi di un
colore impossibile. Non aveva più addosso quella
tuta da meccanico, ma come un sacco, una veste
larga colorata d’azzurro.
«Ora capisci che quel tuo giocattolo non c’entra
nulla, vero Luca?», gli disse.

102
Luca sentì una morsa serrargli la gola e si sentì
impazzire.
Lui se ne accorse.
«Se non credi sia vero, prova a toccarmi. Non
saresti il primo, sai? Anche a te io dico: guarda le
mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio
costato», aggiunse sorridendo, con quel suo sorriso
che avrebbe potuto livellare le montagne.
Tremando, Luca allungò timoroso le dita fino
a toccare una mano di Gesù. La sentì vera, reale,
calda. La parte centrale del dorso era ruvida, così
abbassò lo sguardo e vide la piaga lasciata dal
chiodo.
«Mi avevano detto che...», farfugliò.
«Non devi credere a tutto quello che ti hanno
detto, Luca», gli ripetè Lui come quell’altra volta. «E
non essere più incredulo ma credente. Perché mi
hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro
e tuttavia credettero».

103
XX.

Dieci minuti prima, altrove.


Si trovavano al centro esatto della città.
Marcus si strinse nel cappotto: c’era un freddo
che ti entrava nelle ossa laggiù, anche se la sala
e il cunicolo d’accesso erano pieni. Non era
strettamente necessario che venissero tutti, tanto
non sarebbe cambiato comunque nulla, ma in tanti
avevano voluto esserci. Jagger, il neurofarmacista
Manetti, Finzi. Jenna era al suo fianco, Padre Costa
un po’ più avanti. In mezzo, gli uomini del Generale
spingevano il loro carrello.
Senza il loro aiuto non sarebbero mai potuti
arrivare fin lì. Quella zona era inaccessibile per un
raggio di un chilometro e non si poteva sorvolare.
Ma gli uomini del Generale avevano trovato molto
tempo prima un’altra strada. Venti metri sotto terra,
percorrendo le vecchie gallerie delle catacombe
scavate dai primi cristiani. Tutto aveva perfettamente
un senso. Il cerchio stava per chiudersi.
Ora si trovavano in una sala più ampia, quella
che doveva esser stata una delle prime criptochiese
della storia, duemila anni prima. Venti metri
sopra le loro teste c’era la sede italiana dell’Unione
Eurasiatica. Il carrello si fece largo tra i fedeli, e uno

104
degli uomini del Generale, un uomo grasso che tutti
chiamavano semplicemente il Calvo, aprì la cassa
di metallo che lui e gli altri avevano trascinato fin lì.
Dentro c’erano una cinquantina di pacchetti avvolti
in una carta dorata, grandi quanto saponette. Solo
che quelle non erano saponette.
Costa si avvicinò a Marcus e Jenna e li prese per
mano. Poi, con un cenno del capo, invitò tutti gli
altri a fare altrettanto. Quando i fedeli furono legati
l’un l’altro in una grande, tortuosa catena, Marcus
si inginocchiò sul freddo e sconnesso pavimento di
quella sala strappata alla roccia, presto seguito da
tutti.
«Fratelli miei», disse loro, sollevando il capo.
«Compagni fedeli, amici. Le nostre preghiere sono
state ascoltate. Il signore è tornato e ha scelto proprio
noi, i più umili tra i suoi servitori, per annunciarne
la venuta in gloria, la sua attesa parusia»
Si fermò per trovare le parole giuste, e vide che
molti dei fratelli in ginocchio piangevano. Jenna gli
strinse più forte la mano.
«Non è facile, ma dobbiamo avere forza», proseguì.
«Ci siamo preparati a lungo per questo momento.
Presto di noi non rimarrà nulla, ma la nostra carne
è solo carne, e non ha alcun valore.
Il nostro sacrificio riporterà il mondo sulla retta
via. Estirperemo il male che ha divorato il cuore degli
uomini in questa città un tempo santa, mostrando
loro la luce. Ricondurremo tutte queste anime
perdute tra le braccia del Signore, strappandole
all’oscena esistenza da pagani che si sono imposti.
Oggi ventotto milioni di anime perdute bruceranno

105
per rinascere a nuova vita con noi.
E allora io vi dico: gioite, fratelli, perché il Regno
dei Cieli ci aspetta».

106
XXI.

Casa di Luca.
«Perché proprio io? Che diavolo c’entro?», chiese
Luca, sentendosi nuovamente a un passo dalla follia.
Solo dopo un po’ si accorse che stava piangendo.
Si portò le mani al volto, incapace di trattenere le
lacrime e il tremore che gli scuoteva il corpo.
Lui allora si avvicinò, e la sua veste azzurra emise
un leggero fruscio. Allargò quel sorriso inumano e
allungò la mano a sfiorare con le dita il viso di Luca.
La sua mano emetteva come una lieve luminosità.
«Perché tu ora sai, Luca», gli rispose con quella
voce. «Perché tu ora sai e sarai testimone di quanto
sta per accadere»
Luca sollevò la testa di scatto. «Cosa... Cosa sta
per accadere?», domandò, in preda al terrore, ma Lui
non gli rispose.
«Che... che stai dicendo?», provò a insistere, senza
avere risposta.
La luce di quella figura divina aumentò,
avvolgendone i contorni. Poi quei contorni presero
leggermente a dilatarsi lungo il bordo. Alcuni tratti si
deformarono, altri cambiarono rapidamente colore.
L’immagine iniziò a sfarfallare, come oggetto visto
attraverso una palla di vetro. Come un quadro fissato

107
con gli occhi pieni di lacrime.
Come un infospot difettoso.
«Chi... sei?», chiese ancora Luca, singhiozzando.
«Non... non sei reale…»
«Ti importa davvero?», gli rispose Lui, sollevando
una mano, e un istante dopo non era più lì.
La stanza iniziò a tremare, sempre più forte. Una
statuina di cristallo poggiata sopra un mobile finì
a terra, esplodendo in mille frammenti, mentre si
sentiva salire il rumore come di un’onda.
Luca corse verso la finestra e si affacciò, ma tutto
ciò che vide fu solo un grande bagliore, poi tutto
divenne bian

108
[3]
Self Control

109
I.

No, all’inizio l’atmosfera non era stata decisamente


delle più accoglienti. Strizzata nel suo abitino di una
taglia più piccolo comprato ai saldi dell’Oviesse,
Carmela continuava a chiedersi come diavolo ci
fosse finita in quella fottuta topaia. Si sentiva come
chi torna da un lungo viaggio e in aeroporto non
trova nessuno ad aspettarlo. Così, per sentito dire,
ché lei lunghi viaggi non ne aveva mai fatti da
nessuna parte.

Carmela Dellanno a quella sera, la sera più


importante della sua vita, ci pensava praticamente
sempre. Le bastava chiudere gli occhi per ricordare
la lunga scalinata, i fiori, le luci abbaglianti, il
segaligno presentatore siciliano che la riempie di
complimenti per la sua bellezza. Anche perché allora
Carmela bella lo era per davvero. Sogno erotico
dell’intera popolazione maschile del suo paese, alta
e dai capelli neri lunghi e lisci, con un fisico da
paura, occhi verdi e labbra piene e sensuali, faceva
girare la testa a tutti i maschi che incontrava. Ma
anche a parecchie donne.
Con “Prendimi e Portami Via Con Te Forever, Ti
Prego”, si era classificata seconda tra le giovani

110
proposte – il primo premio era andato a un
neomelodico romano, mezzo calvo e dalla voce bassa
ma dal cognome famoso – e aveva cullato a ragione
sogni di gloria. Ma vent’anni più tardi, Carmela
Dellanno riusciva a stento a rimediare qualche
serata in locali senza troppe pretese, giusto di tanto
in tanto, grazie a qualcuno dei pochi amici che le
erano rimasti. Quando le andava bene, portava a
casa cinquanta euro e un panino. Gli altri giorni
sbarcava invece il lunario facendo le pulizie in un
centro commerciale e maledicendo il destino per
l’infame mano di carte che le aveva servito.
La sua carriera, dopo la kermesse nella città dei
fiori, rollava in pista di decollo. Bella, tosta e con una
voce in grado di far sbiancare perfino Tina Turner,
Carmela era pronta a mangiarsi il mondo. Aveva già
in mano il contratto con una major discografica di
primissimo piano, e al singolo “Prendimi e Portami
Via Con Te Forever, Ti Prego” avrebbe presto fatto
seguito l’album “Sarò la tua schiava solo se mi
aprirai il cuore”. Aveva persino studiato a lungo
con il visagista di grido Noah Macellazzi e con
il suo manager Nick – al secolo Niccolò Contini
– un nuovo look. Messi via quei capelli lisci da
santarellina, avrebbe sfoggiato un taglio vaporoso
e un atteggiamento aggressivo più in linea con le
mode del momento. Avrebbe inoltre assunto il
nome d’arte di Cammi: a Carmela il suo nome di
battesimo andava più che bene, ma Nick diceva che
ricordava troppo le sue origini siciliane. E pur con
tutta la buona volontà di questo mondo, diceva, una
popstar siciliana negli anni della musica elettronica

111
non se la sarebbero inculata di pezza.
Già, Nick.
Non era tanto il fatto che le mettesse sempre le
mani addosso, anche perché lui un po’ le piaceva. A
mandare Carmela in bestia erano le modifiche che
imponeva ai suoi testi. Aveva accettato di cambiare
look, aveva accettato di cambiare nome, ma le
canzoni, cazzo, quelle non gliele doveva toccare.
Un giorno Nick le aveva chiesto di sostituire
un’intera strofa di “Io e Te, Amore, Baciati Dal Sole
e Sferzati Dal Vento”, al fine di includere un po’ più
di pepe, qualche allusione sessuale più esplicita.
«Dovemo da dare al personaggio Cammi un taglio
più trasgressivo, a Carmè, porco due», l’aveva
tagliata corta lì Nick, con il suo spesso accento
trasteverino quando aveva incontrato le resistenze
della sua assistita, convinto di riuscire a convincerla
comunque, come le altre volte. Ma quella volta lì
Carmela non aveva mollato. Gli aveva detto che si
sarebbe trovata un altro manager. Paonazzo in volto
e con le vene del collo gonfie, Nick le aveva gridato
dietro che era finita. Che l’avrebbe fatta precipitare
nuovamente nell’anonimato molisano dal quale era
venuta fuori.
E quello stronzo, come Carmela avrebbe avuto
modo di capire nei mesi successivi, non bluffava.
Senza più un manager e con il contratto ridotto in
coriandoli dalla casa discografica, aveva iniziato a
cantare nei locali. E siccome i suoi tre brani non
erano in grado di coprire una serata, aveva preso a
interpretare anche canzoni in inglese, pezzi in voga
in quei fluorescenti anni 80: Samantha Fox, i Culture

112
Club, perfino qualcosa di Madonna. Non guadagnava
molto, ma all’epoca bastava ancora per tirare a
campare. Poi gli anni Ottanta erano finiti e, mentre
la bellezza di Carmela un po’ alla volta sbiadiva, lei
trovava sempre meno spazio in pub e night.
Andarono forte le boy band, quindi le girl band
e il girl power, poi ci fu un revival anni 70, infine
televisioni e palcoscenici avevano iniziato a brulicare
di bionde lolite senza tette. Ma di una molisana
che aveva incendiato il palco dell’Ariston e cantava
“Karma Kameleon” molto meglio di Boy George non
sembrava fregargliene più niente a nessuno.
Col passare degli anni le cose erano andate
progressivamente sempre peggio.
Per tirarla su dalla depressione nella quale era
precipitata negli ultimi tempi, da quelle serate in
cui si ammazzava solo di Nutella e pianti davanti al
televisore, suo cugino Luigi le aveva buttato lì l’idea
di fare una serata in questo locale molto fuori mano,
una baracca sperduta lungo la statale 224.
Luigi il Mambo lo aveva conosciuto molti anni
prima, quando, da gay timido e impacciato qual era,
aveva accolto con gioia l’idea di un posto riservato
dove poter conoscere altri ragazzi. Passando di lì
parecchio tempo dopo la sua chiusura, era rimasto
sorpreso nello scoprire riaperto il Mambo. Certo, ora
era soltanto un bar qualsiasi, ma alle sue panche
non era raro per Luigi incontrare alcune vecchie
amicizie, persone che aveva conosciuto in quella
baracca di mattoni quando non erano gli alcolici
a essere serviti sul bancone. Per la maggior parte
camionisti come lui, tanto che certe sere, con il

113
parcheggio pieno di rimorchi e furgoni, il Mambo si
tramutava nel luogo perfetto per una rimpatriata.
Il proprietario era un brutto rospo, ma non è che si
può sempre avere tutto dalla vita, senti.
Tra chilometri su chilometri da percorrere e strade
sbagliate, Carmela aveva impiegato un numero di
ore spropositato per raggiungere il Mambo, tanto
che, più o meno a metà del percorso, aveva iniziato
a chiedersi se con i soldi che le davano sarebbe
riuscita a coprire almeno la benzina bevuta dalla
sua vecchia Panda. Poi aveva risolto che, pur di
tornare a cantare, non le fregava niente di doverlo
fare praticamente gratis.
A ogni modo, proprio mentre il dubbio di essersi
persa nel fiume nero della 224 iniziava a prendere
peso, vide l’insegna variopinta del locale, con una
palmetta mossa dal vento, illuminata nel buio della
notte da due misere lampadine.
Fuori erano allineati diversi veicoli, tra cui, lo
riconobbe subito, l’Iveco All Blacks di Luigi, con
il nome da battaglia Squalo Tigre a neon rossi e
la sua personalissima trinità di immaginette sul
parabrezza: Gesù, Padre Pio e Marco Van Basten.
Si era fatta coraggio, aveva scaricato la cassa con
microfono, amplificatore e riproduttore delle basi, e
aveva varcato la porta del Mambo.

All’interno c’erano solo uomini, come si aspettava.


In un angolo, già completamente ubriachi, Luigi e
altri suoi amici ridevano e si davano di gomito come
matti. L’interno di quel locale era di uno spartano
allucinante. Sembrava il saloon di un film western.

114
Oppure, per quanto poteva saperne Carmela, un
ex negozio di esche da pesca riadattato giusto il
minimo. Pareti rivestite di assi di legno, qualche
mensola sbilenca su cui erano state abbandonate
due o tre bottiglie vuote, un paio di piatti appesi
di quelli che si usano nei ristoranti sul mare, un
quadretto rettangolare di legno su cui era raffigurato
il salto di un merlin tutto storto.
«Che bel posto di merda…», si lasciò sfuggire
Carmela a voce bassa, ma non abbastanza da
esser certa che il proprietario, un uomo grassoccio
con una somiglianza pazzesca con il Lino Banfi di
inizio carriera, non l’avesse sentita mentre le veniva
incontro.
«Lei deve essere Carmela… prego», fece lui, gelido,
prendendole i ferri del mestiere.
«Ueilà, cugì!», gridò Luigi dal fondo, sollevando il
boccale di birra per salutarla, prima di riprendere a
ridere sguaiatissimo.
Carmela sorrise al cugino, sistemò attrezzatura,
prese e alimentazione. Accettò la birra offerta dal
clone di Lino Banfi, ne bevve un sorso, abbassò la
testa e accese la base. Dopo un agghiacciante effetto
larsen che fece accapponare la pelle e stringere i
denti a tutti, Cammi si aggrappò al microfono,
cacciò indietro le lacrime e attaccò la sua migliore
interpretazione di “Nothing’s Gonna Stop Me Now”.

115
II.

Enrico si aggiustò il riporto sulla fronte, lisciandolo


tra indice e medio, e rimase lì a fissare quella
tizia che cantava per un po’, prima di rimettersi a
sciacquare i bicchieri. In fondo non era stata poi
un’idea cattiva. In fondo, cioè, che gli costava, una
volta tanto? In fondo... Oh, al diavolo. La verità è
che ad Enrico non gliene importava comunque un
cazzo.

Prima.
L’insegna del Mambo la riconosci subito. E non per
quell’audace abbinamento cromatico da bandiera
giamaicana – verde mela su giallo canarino, con
qualche tocco di nero – che ne incornicia il logo,
una scritta stile anni 60 scolorita dalle intemperie e
da un destino avverso. No. E neanche per la palma
in plastica e metallo che parte dal medesimo palo
che regge il cartello, una triste piantina sintetica
piegata dal peso degli anni e che alla prima folata
di vento – da queste parti praticamente un giorno
sì e l’altro pure – minaccia di collassare sulla testa
di qualcuno. Nemmeno. L’insegna del Mambo la
riconosci subito semplicemente perché è l’unica

116
insegna dell’unico bar che trovi per quasi TRENTA
chilometri. La statale 224 taglia paesi di una certa
importanza, costeggia centri urbani e arriva a
lambire località balneari di caratura internazionale.
Poi si prende una pausa dalla vita mondana e si
limita a seguire il mare in santa pace, per chilometri
e chilometri, in una terra dimenticata da Dio. O
quanto meno dai torvi dei dell’edilizia vacanziera per
tutte le tasche. Una terra di nessuno tutta spiagge
impraticabili, dove non trovi sabbia ma distese di
rocce appuntite, ciottoli di quelli che fanno male ai
piedi e tappeti di alghe e rifiuti mollati lì dal mare.
Tutta collinette macchiate di arbusti rachitici, spazi
vuoti e silenzio, interrotti solo da qualche casupola
abusiva dall’aria marziana. Un posto dove, da
sempre, il massimo della vita è imbattersi per caso
in qualcuno di passaggio: in estate naturalisti
e naturisti in cerca di una spiaggia isolata che si
sono persi, a primavera coppie illecite che si sono
perse, tutto il resto dell’anno camionisti, finiti fuori
percorso pure loro.
Nel cuore di questo deserto in miniatura,
tagliato in due dalla stretta lingua di asfalto della
statale 224, si erge da quasi vent’anni il Mambo.
Ma chiamarlo bar come abbiamo fatto poco fa è
in effetti alquanto riduttivo. Perché il Mambo, nei
quattro lustri trascorsi da quando fu tirata su alla
bene e meglio la sua prima incarnazione, è stato
tante cose. Nato come una baracca per i gelati, in
lamiera e paglia, con qualche asse di legno piazzata
nei punti strategici giusto per permettere a quella
improbabile struttura di prendere per il culo

117
Newton e i suoi studi, si era evoluto un giorno in
un vero e proprio ristorantino. All’epoca un’aragosta
altrettanto squallida campeggiava sul palo ora
occupato dalla palma, e il locale non aveva nome.
“Specialità di mare” si limitava a promettere un
cartello di legno verniciato di blu affisso accanto
all’entrata del tugurio, due-mattoni-due chiusi da
un bel tetto d’eternit grigio e agghindati su un fianco
con nasse e reti da pesca. Il proprietario di allora
ebbe appena il tempo per pentirsi amaramente
della sua scelta, quando si rese conto che 1) la
pescheria più vicina da cui acquistare la materia
prima per le sue “specialità di mare” era a quasi
ventisei chilometri di distanza, e lui aveva solo
una vecchia Citroen 2 cavalli con il motore in fin
di vita, e che 2) le “specialità di mare” non sono
esattamente la prima scelta in fatto di alimentazione
per camionisti fuori percorso, coppie clandestine
smarrite e finanche turisti che non hanno proprio
idea di dove cazzo siano finiti per cercare un po’
di natura incontaminata o un posto dove prendere
il sole senza le mutande. Morto di infarto prima
che potesse pagare come meritava per i sui suoi
errori, quell’uomo lasciò il locale in eredità al figlio,
che, decisamente più sveglio del suo vecchio, non
impiegò molto a capire che disfarsene, a qualunque
costo, fosse l’unico modo per provare a cavare
qualche soldo da quell’inno all’abusivismo edilizio.
Il locale cambiò così nel corso di pochi anni tanto
rapidamente nome e forma, tipo di esercizio e gestore
che è impossibile ricostruire oggi correttamente le
tappe di questa metamorfosi. Di una cosa, però,

118
possiamo dirci certi: nel suo passaggio da negozio di
esche per la pesca a centro per escursioni in mare
aperto, con la breve ma significativa parentesi da
locale per giovani single omosessuali, tre costanti
accompagnarono il Mambo nel corso di quegli anni
bui: l’assoluta, fisiologica, insanabile assenza di
clienti, quella insegna dai colori giamaicani e il
nome che campeggiava sulla stessa. A sceglierlo
era stato il figlio del primo proprietario perché, a
suo dire – e, considerata la velocità con la quale si
è liberato dell’eredità paterna, come dargli torto –,
un nome dal sapore sudamericano avrebbe reso
più appetibile quel cesso di posto per i potenziali
acquirenti.
Ed era stato sempre lui a far dipingere da un suo
vecchio compagno dell’ITIS l’insegna, fornendogli
personalmente i secchi di vernice necessari allo
scopo ma lasciando che fosse la sua “creatività da
artista” – tradotto: la sua mente ottenebrata da anni
di abuso di derivati dalla cannabis – a elaborare
tinte e scritta. I successivi titolari di quel fortino
eretto a presidio del nulla a cambiare l’insegna
ci avevano pure pensato: ché quel nome con un
posto per gli appuntamenti per single omosessuali
poteva pure andare bene, ok, ma con un negozio
di esche per la pesca non c’entrava davvero un fico
secco. Ma il pressoché immediato fallimento delle
rispettive imprese e l’urgenza di rifilare il bidone a
qualcun altro li avevano costretti a metter da parte
ambizioni, nomi suggestivi e idee geniali per loghi
ad effetto. L’ultimo e attuale proprietario del posto,
Enrico Saltamerenda, il Mambo lo ha acquistato

119
pochi mesi fa, barattandolo con un Fiorino blu
ammaccato su una fiancata. Chi glielo ha venduto
ha riso a lungo alle spalle di Enrico, di quella gioia
che ti prende dopo aver scaricato appena in tempo
nelle mani di un altro la patata bollente, la sola,
l’inculata. Ma ad Enrico, anche se lo avesse saputo,
sarebbe importato davvero poco delle risate di
scherno di quel tizio. Perché Enrico aveva appena
vinto SEI MILIONI DI EURO al SuperEnalotto, e del
suo vecchio Fiorino blu ammaccato su una fiancata
non poteva fregargliene di meno.

120
III.

E che cosa diavolo ci fa uno che ha vinto sei milioni


al SuperEnalotto in una bicocca in mezzo al nulla?
A portare Enrico a trascorrere i suoi giorni – e le sue
notti: lui al Mambo ci dormiva pure, da quando si era
portato nel retro del locale una branda, un vecchio
sacco a pelo da campeggio di Snoopy e un armadio
di finto noce che aveva visto tempi migliori – a meno
di quattro metri dalla polverosa statale 224 erano
stati, in concorso di colpa, la sorte, la sua passione
per il mare e il suo profondo, irriducibile disprezzo
per gli altri esseri umani. A 46 anni suonati, Enrico
Saltamerenda conduceva una vita da miserabile,
scandita da rate da pagare e umiliazioni. Soprattutto
umiliazioni.
Madre natura l’aveva dotato, come unico elemento
di spicco in un quadro generale per il resto totalmente
anonimo, di un’incredibile somiglianza fisica con il
Lino Banfi prima maniera. Occhietti spiritati, riporto
laterale a coprire una calvizie ormai inarrestabile,
naso schiacciato, un fisico basso e tracagnotto. Una
somiglianza che si estendeva in qualche modo perfino
al timbro vocale, nonostante lui in Puglia giurasse
di non averci mai messo piede. Ma a trasformare

121
Enrico nel bersaglio preferito dei suoi colleghi, nella
grande agenzia di assicurazioni dove lavorava, aveva
contribuito senz’altro il carattere schivo e taciturno.
Per dire, Enrico non sopportava le chiacchiere dei
vicini di scrivania di prima mattina. Proprio non
riusciva a capire come non si stufassero di parlare
sempre, ogni santissimo giorno, delle solite tre
stronzate in croce: il calcio, i programmi televisivi
per massaie della sera precedente e la politica,
di quella spiegata ai bambini delle elementari.
Ma l’aggravante peggiore era la sua riluttanza a
prostrarsi davanti a una delle divinità sacre di
ogni impiegato: la pausa caffè con pettegolezzo
incorporato sulle colleghe bone. Tutto questo, e il
fatto che i suoi colleghi erano dei grandissimi figli di
puttana. Dei figli di puttana comandati a bacchetta
da una stronza senza cuore di cinquant’anni che si
conciava come Marilyn Monroe, neo finto a matita e
capello platinato inclusi.
Così quella sera, mentre realizzava davanti alla
TV che quel pezzo di carta bianca e arancione che
stringeva in mano gli dava diritto a prendere tutti
a calci in culo, da neo-milionario Enrico aveva
iniziato a cullare, sprofondato sulla poltrona del
suo tinello tre metri per quattro, fantozziani sogni
di rivalsa e vendetta. Il giorno dopo, però, non era
andato a buttare per terra nessuno schedario e a
fracassare alcun monitor. Non aveva preso a calci
in culo nessuno e anzi, a dirla tutta, in ufficio non
c’era nemmeno andato. Si era limitato a prendere la
cornetta e chiamare l’interno del suo capo.
«Pronto? Signora Pagliante? Sono io, Enrico…»,

122
aveva attaccato, con il tono calmo e sottomesso di
chi sta per chiedere un giorno di ferie pur sapendo
già in anticipo che gli verrà negato.
«Saltamerenda?», aveva risposto lei, con l’aria
altera, sbrigativa e un po’ infastidita di chi non
vuole rotture di palle di prima mattina, soprattutto
mentre sta leggendo l’oroscopo di Paolo Fox su
Internet. «Da dove chiama? Perché non è in ufficio
stamattina? Martini la sta cercando da almeno
mezz’ora per la pratica di…»
«Oggi non vengo, signora Pagliante», aveva
tagliato corto Enrico. «E nemmeno domani. Anzi,
volevo dirle che io in quell’ufficio non ci metto più
piede. Questo, e che tuo marito ti mette le corna,
vecchia puttana». E aveva messo giù.
Enrico il signor Pagliante l’aveva visto solo una
volta di sfuggita, a una cena aziendale al ristorante
cinese Primavera di Pechino: non era assolutamente
un uomo in grado di tradire la moglie. Mai. In nessun
caso. Enrico era sicuro che quel povero Cristo dovesse
chiederle pure il permesso per tirare lo sciacquone
del bagno. Ma infilare a tradimento un dubbio
nella mente geometrica e popolata solo da certezze
incrollabili della Pagliante era una concessione
minima e dovuta ai sogni di vendetta che gli avevano
scaldato il petto la sera prima. Che l’indifeso signor
Pagliante avrebbe patito ingiustamente per questo
dei supplizi indicibili nei due mesi a seguire, dopo
tutto, era un’eventualità che in quel momento non
sfiorava nemmeno la mente di Enrico. Ché lui in
quel momento lì pensava solo a Marcella.
E a Marcella, suo lontano ma mai dimenticato

123
amore, aveva telefonato alcune ore dopo. Aveva
composto il numero della vecchia casa di lei,
incrociato le dita e, quando lei aveva risposto,
era rimasto per alcuni interminabili secondi in
silenzio, indeciso se aprire o meno bocca. E, nel
caso, assolutamente incapace di trovare qualcosa
di indicato da dire.
Ma mentre Enrico chiamava a raccolta il suo
coraggio, Marcella aveva frainteso.
Dopo che i due «Pronto?» della donna erano
rimasti orfani di risposta, le prime dolci parole
uscite da quella che Enrico ricordava come una
bocca candida erano infatti state:
«BRUTTO PEZZO DI MERDA, credi di mettermi
paura? Tanto ti becco prima o poi, stronzo… Lo
so che sei Medda: ho già parlato con tua madre,
maledetto vigliacco, e se vengo su fino al quarto
piano ti faccio andare via quei brufoli a calci nel…»
«Marcella? Marcella sono io, Enrico», era riuscito
finalmente a dire il Nostro, il cuore una palla da
tennis impazzita.
Adesso era lei a esser rimasta senza parole. Enrico
la sentiva sospirare piano all’altro capo del telefono.
Sorpresa? Incazzata? Sconvolta?
«E… Enrico? (pausa). Enrico… (altra pausa, ma
un po’ più lunga). Come stai?»
«Le solite cose»
«Ma come le solite cose, scusa? Non ci sentiamo
da tre anni, mi chiami così all’improvviso e mi dici
le solite cose?»
«Marcella io… Lo so, sembra strano che ti chiami
ora così, dopo tutto questo tempo, ma… Ci sono

124
queste faccende importanti delle quali ti vorrei
parlare. Non è che possiamo vederci?»
Lei aveva indugiato a lungo prima di accettare
d’incontrarlo, la sera dopo, in un ristorante esclusivo
su una collina a pochi chilometri dal centro, un
celebre locale popolato da vip, riservatissimo, con
vista mozzafiato e prezzi mozzastipendi. Aveva
chiesto due volte ad Enrico se fosse sicuro che li
avrebbero fatti entrare e di potersi permettere una
cena in quel posto, ma alla fine aveva accettato.
Enrico sicuro lo era eccome. Quella mattina aveva
prelevato tutti i soldi del suo conto corrente alla
Popolare e provveduto a convincere il capo cameriere
che un tavolo per due libero, a ben guardare, in
effetti c’era ancora. Sì, nell’angolo. E sì, vicino al
separéé con le rose intrecciate, grazie.
Con Marcella – mora, riccia, trentasei anni,
bassina ma con una quarta dirompente, due
occhi grandi e nerissimi e anche lei nel ramo delle
assicurazioni – Enrico aveva avuto una storia
lunga e intensa, l’unica relazione importante nella
sua vita. Di più: l’unica e basta. Poi, in una fredda
mattina d’autunno che veniva giù a dirotto, lei se
n’era uscita di punto in bianco con questa storia,
dicendogli che sì lo amava, che a lui ci teneva e tutto
il resto. Ma anche che la vita di compromessi che
le poteva offrire non era esattamente il suo sogno.
Che certe scelte, per quanto dure, andavano prese
prima che fosse troppo tardi. Che sapeva di farlo
soffrire con questa decisione, e che l’avrebbe presa
per una stronza, ma era anche certa che lui avrebbe
capito. E lui aveva capito. Si era incazzato come una

125
bestia, ma aveva capito.
«Hai ragione», fu tutto quello che si era sentito
di risponderle mentre si prendeva tutta quell’acqua
sulla testa e c’era un freddo becco e si sentiva morire
dentro. «Sei proprio una stronza».
Solo giorni dopo, era riuscito a confessare a se
stesso che Marcella meritava davvero di meglio di
un piccoletto pelato e triste che ce l’aveva con il
mondo anche se non aveva ancora capito bene il
perché.
Quella sera, per il loro appuntamento da La
Grande Cucina di Fifì, lei indossava un tubino nero
che a Enrico sembrava lo stesso di un tristissimo
veglione di capodanno a casa di Maria Laura, la
sorella di Marcella, una tizia acidissima con il
viso rovinato dall’acne senile e inquietanti manie
di grandezza. Lui invece si era infilato in uno dei
suoi tre completi da ufficio, che erano praticamente
tutti uguali e tutti dello stesso colore, quello che
esprimeva meglio lo stato d’animo medio di Enrico.
Grigio antracite. Aveva comprato però un paio di
scarpe nuove da duecento euro, un orologio da sub
pazzesco con cassa in argento e si era concesso
perfino il lusso di farsi tagliare i capelli da Manuel
Coiffeur, il parrucchiere omosessuale più caro
d’Italia. Neo-milionario o meno, quarantotto euro
per un taglio di capelli gli erano sembrati una vera
ladrata, anche perché sulla sua testa da tagliare non
è che ci fosse rimasto molto. Ma, doveva ammetterlo,
quel taglio rasato alla Bruce Willis gli dava un’aria
molto virile. E per sembrare più virile quella sera,
quarantotto euro a quella checca di Manuel glieli

126
aveva dati volentieri. E vaffanculo.
Seduto davanti a Marcella – gli occhi che facevano
la spola tra il collo, impreziosito da una collana
di perle coltivate, la scollatura mostruosa appena
sotto e il volto troppo truccato di lei – e dopo aver
ordinato una bottiglia di champagne oscenamente
cara, Enrico aveva preso a tracciare grandi 8 con
il manico della forchetta sulla tovaglia-foulard che
copriva il tavolo, alla ricerca delle parole adatte per
farle capire che lui ora aveva un pozzo di soldi e vita
di compromessi un cazzo, cara la mia Marcella che
porti ancora il tubino nero che avevi al veglione di
quella butterata di tua sorella cinque anni fa.
Con suo grande stupore, però, era stata lei a
rompere il ghiaccio.
«Allora, mi spieghi in che cavolo di giro ti sei
cacciato? Mi chiami dopo tutto questo tempo e mi
porti in un locale così… Ti rendi conto che quello
seduto dietro di me è l’avvocato Anselmi di Amori
Perduti nel Tempo, la mia soap preferita?»
Frenata a stento l’eccitazione per il trovarsi lì, quasi
spalla a spalla con l’avvocato Gustavo Anselmi, e
dopo aver dato sfoggio per qualche minuto della sua
conoscenza ancora enciclopedica di Amori Perduti
nel Tempo, Marcella si era ricordata che Enrico
quella soap non aveva MAI potuto digerirla, così
aveva chiuso la parentesi ed era tornata al punto.
«Porti al polso un orologio da… duemila? Tremila
euro? Scarpe di vitello anziché quelle ridicole
polacchine consumate e sporche di sempre. Ti sei
perfino tagliato i capelli in maniera decente… Se
non fossi venuto a prendermi con il Fiorino avrei

127
quasi creduto che hai rapinato una banca, ti sei
messo a vendere la droga o che so io. Perché non è
così, vero?»
«No», le aveva risposto lui, con il più candido e
infantile dei sorrisi. «Ho solo giocato una schedina.
Una schedina che ho trovato lì sul bancone, già
compilata, dal tabaccaio vicino al forno. E ho vinto
sei milioni di euro con un 5+1»
Marcella non aveva spruzzato il Krug Clos du
Mesnil dal prezzo vergognoso che stava bevendo,
come fanno nelle situazioni del genere nei film
americani. Né spalancato gli occhi. O gridato. Niente.
Una volta finito di bere come se nulla fosse, aveva
posato il flute e, iniziando a giocherellare con le sue
perle coltivate, squadrato il signor Saltamerenda
con occhio freddo e inquisitore.
«Mi stai prendendo per il culo?»
«No. No, ho vinto davvero 6 milioni. Ho vinto 6
milioni che toccavano a qualche povero Cristo più
sfigato di me, che ha compilato la schedina ma l’ha
lasciata lì. Vai a sapere il perché. Pensa che io al
SuperEnalotto non c’avevo mai nemmeno giocato»
«6 mi-li-o-ni?», gli chiese scandendo ogni singola
sillaba e stringendo gli occhi, con un effetto da
cartone animato.
«Più o meno. Non so di preciso come funzioni il
discorso delle tasse. Ieri, intanto, ho mandato al
diavolo la Pagliante e mi sono licenziato. Poi, beh,
poi ho chiamato te. Io, ecco, pensavo che magari,
ora che i soldi non sono più un problema… noi due
si possa essere di nuovo felici»
Ed Enrico, chiamate a raccolta le forze, le aveva

128
aperto il cuore. Le aveva detto che l’aveva sempre
amata. Le aveva raccontato come ogni sera, spenta
la TV dopo l’ultimo telegiornale, aveva indirizzato
sguardi carichi di malinconia alla sua foto, ancora
appesa vicino al telefono all’ingresso del bilocale.
Le aveva svelato i sogni da adolescente che, dal
loro addio, erano tornati a intervalli regolari a far
capolino in un cuore che adolescente non lo era
più da almeno trent’anni. Ora che, finalmente,
tutti quei pensieri venivano rivolti direttamente alla
Marcella in carne, ossa e perle coltivate, anziché al
suo simulacro fotografico da parete, ora che pensieri
e parole gli uscivano direttamente dal petto senza
venir filtrati prima dalla mente, si sentiva ancor più
coraggioso di quando, la sera prima, era riuscito
a chiederle di uscire. Si sentiva il Maciste di quei
kolossal di Cinecittà che guardava da ragazzino, da
solo, all’oratorio. Un muscoloso eroe da peplum, con
il corpo abbronzato e cosparso d’olio per culturisti.
E non si era mica fermato lì. Aveva lasciato che
i suoi sogni galoppassero più veloci della ragione,
arrivando a proporle là, su due piedi, nell’intimità
di un tavolino infilato a forza accanto al separèe
con le rose intrecciate nella sala dell’esclusiva La
Grande Cucina di Fifì a un passo dall’avvocato
Gustavo Anselmi, di sposarla, di comprare una villa
bellissima e di fare con lei, se solo il cielo avesse
voluto, una nidiata di piccoli Saltamerenda.
Altro che Maciste di Cinecittà. Ora era un
supereroe hollywoodiano invulnerabile! Uno di quelli
con i controcoglioni d’acciaio inox diciotto-dieci!
Solo che poi si era accorto che lei non aveva sentito

129
una SOLA PAROLA di quello che le aveva detto.
Marcella era infatti troppo impegnata a costruire
castelli in aria sugli ulteriori soldi che avrebbero
potuto fare investendo quel denaro nel modo giusto,
ché potevano sempre chiedere a suo cugino Arturo
che lavorava alla Cassa di Risparmio. Sul fatto
che il Fiorino dovesse cedere all’istante il campo
a un paio di Mercedes. E magari pure a un SUV,
tié. Sugli interventi che lei avrebbe potuto/dovuto
affrontare finalmente per far tornare toniche le sue
tettone strepitose. E sui piccoli ritocchini estetici
ai quali anche LUI si sarebbe dovuto sottoporre,
chiaro. E ville in riviera, tende nuove, divani di pelle
lunghissimi, viaggi interminabili, cani giapponesi e
tante colf ucraine. Un esercito di colf ucraine.
«Hai sentito quello che ti ho detto?», le aveva
chiesto a bruciapelo, sapendo già che tipo di risposta
aspettarsi.
«Scusa ma ero così eccitata per quello che… e
non… Enrico? Ma dove stai andando?»
Il supereroe con gli attributi inossidabili era di
nuovo Calimero il pulcino nero. E di detersivo che
sbianca nei paraggi neanche l’ombra.
Tentando di aggiustarsi meccanicamente sulla fronte
il riportino che non c’era più, Enrico si era alzato
e diretto verso il capo-cameriere. Gli aveva mollato
in mano quattro biglietti da cento euro e chiesto
di chiamare un taxi per la signorina. Quindi aveva
messo in moto il Fiorino, che gli aveva borbottato
sommessamente la sua solidarietà a gasolio, ed era
andato via.
Quella stessa sera, piangendo lacrime amare

130
su una panchina del parco divisa a metà con un
barbone intento in qualche modo a dormire seduto,
Enrico aveva capito che i soldi, come gli ripeteva
sempre quella povera donna di sua madre, che il cielo
l’avesse in gloria, non fanno davvero la felicità.
«E che cazzo ne vuoi capire tu, mamma – le
rispondeva di solito lui – che di soldi non ne abbiamo
mai visti in questa famiglia?»
In quel momento di sconforto, Enrico voleva solo
andare via. Lontano, da qualche parte, ovunque.
Purché laggiù nessuno lo conoscesse. Meglio, dove
non ci fosse nessuno e basta. Solo. Il milionario
dall’animo più povero d’Italia voleva infilarsi in un
buco nero, dileguarsi, sparire dalla faccia della Terra.
Fu così che il destino, o qualche lacrima troppo carica,
aveva dirottato il suo sguardo su uno dei giornali che
spuntavano dall’interno del cappotto del barbone.
Una pagina stropicciata e unta sulla quale si leggeva
un’inserzione vecchia di almeno diverse settimane, a
giudicare dal colorito giallognolo della carta.

VENDESI ATTIVITÀ BENE AVVIATA


A POCHI PASSI DAL MARE, IN LOCALITÀ
PIETRAMARA. PREZZO DAVVERO RIDICOLO

Sarà stato il nome di quel posto – peraltro


utilizzato impropriamente dall’inserzionista, perché
al luogo dove sorge il Mambo nessuno si era mai
sognato di dare un nome, e località Pietramara
iniziava almeno quattro chilometri più a nord – così
simile al suo stato d’animo in quel momento, sarà
stata la forza della disperazione, Enrico aveva preso

131
il suo vecchio cellulare e composto immediatamente
il numero. Tre giorni dopo, era l’ultimo proprietario
del Mambo.
Nelle settimane che seguirono Enrico cambiò
parte dell’arredamento, riconvertì il locale in un
bar e fece riempire il bancone di bottiglie di super-
alcolici. Clienti neanche per sbaglio, ma lui era
contento così: poteva starsene lì a guardare il mare
in pace con se stesso. Un giorno, magari tra un po’
di tempo, avrebbe potuto godersi i suoi milioni. Ora
voleva solo vivere tranquilo.
Poi, dopo un paio di mesi, era successo. Così,
all’improvviso. Una sera erano entrati due camionisti
che, sì, si erano persi. Enrico aveva offerto loro da
bere, ascoltando poi per un paio d’ore i loro racconti
sui nuovi modelli di baracchini, un paio di surreali
leggende metropolitanautostradali sui metodi
sicuri per fottere gli autovelox, e pure le oscure
confessioni di uomini che ormai non era più l’età,
erano i chilometri, come Indiana Jones.
Qualche sera dopo Enrico se li era visti tornare,
accompagnati da alcuni colleghi tutti tatuati. E lì
per lì aveva avuto pure paura.
«Minchia», aveva pensato. «Vuoi vedere che si
sono accorti che le Peroni che gli ho venduto erano
scadute?»
E invece c’era che la forma più antica ed efficace
di marketing, il passaparola, stava sortendo
brutalmente i suoi effetti.
La presenza di motrici, rimorchi e furgoni nel
parcheggio iniziò quindi a destare l’attenzione
di qualche altro naufrago della 224 e così, senza

132
volerlo, il Mambo divenne, per la prima volta nella
sua storia fatta di pirotecnici fallimenti e spettacolari
buchi nell’acqua, un locale popolato da qualcosa di
diverso dalle frustrazioni dei suoi tanti proprietari.
Intendiamoci: il numero di avventori non superava
mai in un giorno le quindici/venti unità complessive,
ma c’erano delle sere in cui potevi trovare sulle
sue panche di legno addossate alla vetrata o sugli
sgabelli accanto al bancone anche quelle dieci,
dodici persone. Enrico, la cui misantropia in fondo
non gli permetteva di godersi il primo, vero successo
personale della sua vita, iniziava a sospettare che si
fosse sparsa la voce che quel posto fosse l’ideale per
derelitti in fuga da qualcosa o da qualcuno, sfigati
sui cui grigi orizzonti si fossero addensate le nubi
della tristezza.
Sia quel che sia, il Mambo cambiò pelle nell’arco
di un niente: da locale fantasma a vero e proprio bar
di frontiera. Certo, nessuno si era preso la briga di
trascinare via quanto restava delle sue vite precedenti,
e brandelli di reti e un vecchio contenitore Iper-Fish
di pastura per pesca da traino erano rimasti lì su un
fianco, ma ai suoi clienti cosa vuoi che importasse.
L’alcol costava poco, il cellulare non prendeva un
cazzo, non c’era nessun telefono pronto a squillare
e nessuna moglie incarognita all’altro capo che ti
cercava. E se, durante la lunga cavalcata del deserto
sulla statale 224, sentivi proprio il bisogno di berti
una birra senza che nessuno ti rompesse i coglioni,
non potevi trovare posto migliore. Anche perché di
altri bar, dicevamo, in quella zona proprio non ce
n’erano o ce ne sarebbero mai stati.

133
Insomma, le cose avevano preso una piega talmente
strana, che Enrico aveva perfino acconsentito così,
sia pure con l’entusiasmo sotto il minimo sindacale,
a far venire quella sera a cantare la cugina di uno
dei suoi clienti più affezionati, un autotrasportatore
barese di nome Luigi, Squalo Tigre sul baracchino.

134
IV.

Anche se nessuno la stava davvero ascoltando,


anche se Luigi e i suoi amici erano tutti presi a
inscenare, sotto l’effetto dell’alcol, una versione
al rallentatore del gioco dello schiaffo del soldato,
Carmela si era fatta coraggio e aveva deciso di
proseguire con il suo spettacolo.
Ormai sono qui, si disse, e continuo a cantare.
“You Came” di Kim Wilde. “Stay With Me” di Patsy
Kensit e gli Eighth Wonder.
Ma sulle note di “Wow” di Kate Bush, lo sconforto
aveva preso di nuovo il sopravvento.
«Luì, ma che è sta roba che sta a cantà tu cugina?
Perché non le famo cantà ‘a canzone nostra?»
Il suggerimento era stato urlato da uno degli amici
di Luigi, Gianmarco (nome in codice sul CB: Tuono),
un romano con folte sopracciglia scure, la coda di
cavallo e una felpa dei San Francisco 49ers. Urlato
talmente forte che Carmela per un attimo, ma solo
per un attimo, aveva sentito venirle meno la voce.
«Mhh?». Il sorriso stampigliato sul volto di Luigi
era da antologia. Il mondo sarebbe potuto finire in
quel preciso istante, e a Squalo Tigre non sarebbe
importato un fico secco.
«Famole cantà i Village! YMCA!!», continuava

135
quello.
«Sì, dai. YMCA!», lo incalzava un altro membro del
suo gruppo, Luca, aka Freccia del Meridione, prima
che anche gli altri iniziassero a percuotere a tempo
il tavolo al quale erano seduti, gridando in coro la
loro richiesta.
«UAI-EM-SI-EI!», «UAI-EM-SI-EI!», «UAI-EM...»
Su una spalla di Cammi, l’angioletto buono le
chiedeva di accontentarli. Sull’altra, il diavoletto
cattivo di fare altrettanto, così almeno quelli
l’avrebbero piantata con quel casino… Risoluta a far
di necessità virtù, la cantante sollevò il microfono
dall’asta e regalò ai presenti una sua interpretazione
piuttosto scolastica, da veglione di capodanno, del
brano dei Village People. La base non ce l’aveva,
ma ad accompagnare la sua voce pensava l’ormai
incontenibile banda di camionisti. Luigi in testa,
avevano fatto partire in qualche modo un trenino tra
gli angusti spazi del Mambo, intonando a cappella
le trombe e tutto il resto.
Al proprietario del locale quel casino dava
sinceramente fastidio. A fine serata, cascasse una
pannocchia, avrebbe detto a Luigi che il piacere
gliel’aveva fatto, la cugina l’aveva fatta cantare,
ma quell’esperimento avrebbe dovuto restare tale.
Dar da bere a quattro camionisti era un conto,
trasformare il posto in una balera tutto un altro
paio di maniche.
Cammi, accompagnata da uno struggente,
stonatissimo coro - tutti erano ormai abbracciati
come a un concerto - intonava “Gloria” di Tozzi, ed
Enrico la fissava di traverso, sciacquando nel lavello

136
boccali e bicchieri.
“Total Eclipse of the Heart” di Bonnie Tyler.
“Heaven is a Place on Earth” di Belinda Carlisle.
Poi, a grande richiesta, Cammi decise di regalare ai
presenti la sua personale interpretazione del tema
di “Flashdance”. Sognando di essere la Alex del film,
con il canto al posto della danza e il carrello delle
pulizie del supermercato al posto della saldatrice,
Carmela chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal
momento.
Chi se ne fregava se erano solo poche persone? E
a chi importava se erano tutti sbronzi da fare schifo?
Era un pubblico. No, era il SUO pubblico. Stavano
ascoltando lei…
E la sensazione, l’entusiasmo pre-adolescenziale
che l’alcol aveva saputo cavare da quella manciata
di cristiani, le diedero una grinta che non provava
da tempo. La grinta delle serate migliori, quando la
musica prendeva il sopravvento e tutto il resto, il
posto, le persone, i quattro soldi che le davano, la
sua vita di merda, sbiadivano sullo sfondo. Era di
nuovo lì, su quel palco, con il presentatore altissimo
e il pubblico che pendevano dalle sue labbra. Si
sentiva di nuovo sexy, si sentiva di nuovo se stessa,
la giovane promessa molisana, il volto nuovo per la
musica leggera italiana. Dopo una dolcissima “With
or Without you”, a sentire la quale Gianfranco,
alias ToroBianconero29, aveva estratto dal taschino
della camicia un accendino e preso ad agitarlo
pericolosamente sulla testa di chi gli stava accanto,
la signorina Dellanno sfoderò il suo pezzo migliore,
il colpo segreto del suo repertorio: “Self Control”,

137
nella versione della compianta Laura Branigan.
Strizzò l’occhio con fare lascivo, passò il palmo
della mano sotto il mento del ragazzo di colore,
quindi impostò la base e promise con aria solenne:
«E ora una canzone speciale. Una canzone che
amo molto, e che dedico a tutti voi per questa bella
serata»
Ma non appena iniziò a cantare, l’idillio si ruppe,
fraccassandosi al suolo esattamente come si fracassò
al suolo in quell’istante un boccale di birra.
Tutti si erano girati verso il bancone. A Carmela,
per lo spavento, erano morte in gola le note del
brano.
Enrico Saltamerenda, il proprietario, era immobile
dietro il bancone. Lo sguardo sbarrato, le mani stese
lungo i fianchi, non curante della schiuma che dai
guanti colava giù per i pantaloni e della pozza di
acqua saponata che si andava allargando tra i cocci
di vetro ai suoi piedi. Quella canzone.
Quella stramaledettissima canzone.

138
V.

1985, un bungalow alle porte di un paesino sulla


costa siciliana, a pochi chilometri da Taormina.
Lui lì in Sicilia non ci voleva venire. Mille volte
meglio la montagna, le salutari passeggiate ad alta
quota, le cene a base di cinghiale e capriolo, niente
casino, niente sabbia nel costume, niente ragazzini
che ti schizzano tuffandosi a bomba. Ma nulla aveva
potuto contro l’entusiasmo di suo cugino Michele,
stesso anno di nascita, tutt’altra pasta.
«Enrico, vuoi forse rimanere vergine per tutta la
vita?», gli aveva chiesto a tradimento un pomeriggio
di due mesi prima, troncando di netto la discussione
sulla meta delle loro vacanze estive.
«No… io… Scusa, ma che cavolo c’entra?», gli
aveva risposto lui, piuttosto indignato.
«C’entra, c’entra. Se andiamo in montagna ci
facciamo due maroni grossi quanto una casa, e il
massimo che possiamo cuccare è qualche nonnina
che vende il taleggio. Se invece ti lasci portare in
una bella località di mare, rimorchiamo un numero
consistente di pollastrelle. Fidati: con tuo cugino
Michele sei in una botte di ferro!».
Benzinaio dalla battuta sempre pronta, Michele
era solito riempire la testa del povero Enrico con

139
dettagliate cronache delle sue avventure erotiche.
Aveva agganciato questa, gli avevano dato il numero
di quest’altra, si era fatto presentare queste due
gemelle... Enrico non aveva mai nutrito dubbi sulla
veridicità di tali racconti. Era infatti assolutamente
certo che si trattasse di cazzate inventate su due
piedi o, nella migliore delle ipotesi, di certosini lavori
di ricamo operati attorno a incontri banalissimi.
Michele era fatto così. Tendeva ad ingigantire
qualsiasi cosa, si impegnava con caparbietà per far
sembrare ogni singolo, normalissimo avvenimento
della sua vita un fatto figo e indimenticabile, il
capitolo principale di un romanzo di Ian Fleming, la
scena clou di un film con James Dean.
O Lando Buzzanca.
I dieci giorni di vacanza già trascorsi in Sicilia,
ovviamente, erano stati scanditi da atteggiamenti
perfettamente in linea con il carattere dei due
consanguinei. Enrico restava a letto fino a tardi,
faceva due passi solo quando ormai il pomeriggio si
tingeva dei colori del tramonto, per comprare qualche
rivista all’emporio del paese, passava decine e decine
di minuti in fila alle cabine del telefono per poter
chiamare la madre, poi tornava a rinchiudersi nel
bungalow, trascorrendo le sue serate in compagnia
di squallidi programmi televisivi. Prima delle 23
dormiva già della grossa.
Michele, invece, si alzava piuttosto presto. Andava
a correre sulla battigia con indosso un completino
da jogging aderente che la sua pompa di benzina
regalava con i punti fedeltà. A suo dire era l’ideale
per mostrare il fisico a fanciulle e mamme con prole.

140
«Ottima preda», aveva spiegato al cugino uno dei
primi giorni, con il tono di uno che ne sa.
Enrico non aveva avuto il coraggio di rivelargli
quello che pensava.
Che quel completino corto e stretto di colore rosso
e blu lo faceva sembrare il cugino deforme dell’Uomo-
Ragno, e che il suo fisico, biancastro e asciutto ma
con maniglioni dell’amore piuttosto pronunciati, un
principio di scoliosi e gambette magre e storte, non
doveva farlo apparire esattamente questo modello di
bellezza agli occhi di ragazze e signore.
Terminata la corsa, Michele si sfilava dalla fronte
la fascia Elleesse gialla, faceva una doccia, si
cospargeva di deodorante dozzinale che consumava
al ritmo di una bomboletta al giorno, ingelatinava
i capelli neri e andava in spiaggia. Tornava per
pranzo, dormiva fino alle dieci di sera e poi usciva,
dopo aver tentato di trascinarsi dietro ogni volta il
reticente cugino. Rientrava a notte inoltrata. Enrico
si svegliava di soprassalto, destato puntualmente
dalla sgommata con la quale Michele inchiodava la
sua Duna rossa nello spiazzo davanti al bungalow.
Poi, in una sorta di perversa pantomima, Michele
aspettava in macchina fino a quando Enrico non si
affacciava sulla porta. A quel punto spalancava lo
sportello della Duna, con l’autoradio che sparava a
palla una delle sue cassette zingare, e sulle note di
pezzi come “I get around” dei Beach Boys avanzava
trionfante. Le braccia spalancate al cielo come un
pontefice che benedice la folla, un attore che riceve
l’Oscar alla carriera o l’alieno Klaatu di Ultimatum
alla Terra. I Ray Ban a goccia ancora sul naso,

141
nonostante l’ora e il buio pesto che avvolgeva la
zona, non raggiunta dalle illuminazioni comunali.
Un sorriso da predatore ostentato su quelle labbra
sottili.
La pantomima andava avanti: Michele, fossero le
due, le tre o le quattro del mattino, invitava Enrico
a raggiungerlo per un altro giro tra i locali.
«Vestiti, dai. Ci andiamo a spaccare la testa da
qualche parte a ritmo di musica e poi compriamo
dei cornetti caldi alla Nutella. ‘zzo fai ancora lì, vatti
a mettere qualcosa, nonnetto! Coraggio, ché l’estate
sta finendo.
Non ti piace la Nutella? Li compriamo alla crema…
La notte è ancora giovane, nonnetto!»
Enrico lo sapeva benissimo: Michele si sparava
quelle pose da nottambulo solo perché sicuro che
lui non avrebbe accettato. Così come sapeva che
chiedergli l’inevitabile resoconto della serata fosse
l’unico modo per accelerare il suo ritorno tra le
lenzuola. Perciò, anche lui ormai calato nel ruolo
che quella triste estate gli aveva affibbiato, recitava
le battute del suo copione.
«Allora, come è andata? Fatto conquiste?»
«’zzo, cugino. Che botta di serata: non puoi
proprio immaginare…»
Tutte le notti uguale. Per nove notti di fila, Enrico
aveva dovuto sorbirsi le fantasie del cugino, facendo
finta di credere a ogni singola parola.
Ma quella sera, beh, quella sera era diversa.
Là per là, quando qualche ora prima Michele gli
aveva parlato di queste due americane che aveva
agganciato in un bar sulla spiaggia, aveva pensato

142
alla solita puttanata in arrivo.
Ora mi racconta che se le è fatte tutte e due. Che
se l’è fatte tutte e due e che quelle a fine serata gli
hanno pure detto di volergli presentare delle altre
amiche per regalare loro un assaggio della sua
mascolinità.
«E così avresti rimorchiato due americane, eh?
Ma se non conosci una sola parola d’inglese! Mi hai
chiesto perfino cosa significasse quella scritta sulla
maglietta gialla che avevo ieri…»
«’zzo ne so io che in inglese “horse” significa
cavallo? Che lingua del cazzo questi britannici,
senti. E “orso” come fa, “cavall”?»
«Non cambiare discorso. Come hai fatto a
parlarci?», l’aveva incalzato Enrico.
«Una delle due, Patty, ha origini italiane. La
nonna era di Avellino. O di Caserta, mo’ non ricordo.
Comunque, le ha insegnato un po’ d’italiano. Ma
giusto un po’, ed è anche per questo che mi servi tu,
poliglotta di famiglia…»
«Oh, grazie tante! Ti porti dietro l’interprete»
«Dai, ora non farmi l’offeso. Sono due belle
ragazze, sono simpatiche e ti faccio perfino scegliere
quale ti piace di più. Coraggio, c’è perfino il rischio
che mi diventi uomo una buona volta. E poi, non
eravamo venuti qui per questo? Vuoi continuare a
guardare La Corrida come un nonnetto?»
«Sono sul serio carine?»
«Cos’è, non ti fidi? Ti ho mai raccontato balle?
Con tuo cugino Michele…»
«…sono in una botte di ferro, ok , ho capito»
Era in una botte di ferro. Come Attilio Regolo,

143
prima di rotolare giù per la collina. L’immagine
di due cozze inguardabili dell’Oklahoma, obese,
con i denti storti e la pelle grassa e sudaticcia,
trasformate dal famelico appetito del John Holmes
della senza piombo in deliziosi bocconcini, si era
fatta silenziosamente largo nella mente di Enrico.
Poi, con uno sforzo notevole, aveva deciso di
mettere da parte l’istinto e fidarsi. Tempo pochi giorni
e sarebbero tornati in città e, effettivamente, lui non
aveva neppure rivolto la parola a un singolo essere
femminile, tolta l’anziana proprietaria dell’emporio.
Quella vecchia rincoglionita che un giorno l’aveva
guardato con disprezzo quando le aveva chiesto una
copia di Mister No: era convinta fosse un giornaletto
porno solo perché sulla copertina c’era un’indigena
in bikini, la vecchia stronza.
Dopo tutto che aveva da perdere? Se si fossero
rivelate davvero due frutti di mare, avrebbe fatto
finto di niente e atteso semplicemente la fine della
serata.
Così, alcune ore dopo, Enrico contemplava la
propria immagine nello specchio ovale, di quelli
orientabili e con la luce dietro, del bagno.
Michele era stato categorico: niente magliettine
da ragazzino, niente polo attillate da tennista in
pensione (e niente camicie bianche da pensionato
con la passione per il tennis). Doveva indossare una
delle sue di camicie.
Ma a Enrico quella tovaglia hawaiana a fiori
gialli e blu, tenuta insieme da soli tre bottoni, tutto
sembrava tranne che una camicia. Gli lasciava
scoperto il petto, e tra il torace villoso in bella vista e

144
la catena d’oro che penzolava sullo sterno, lo faceva
sembrare un narcotrafficante di Miami.
Solo che i narcotrafficanti non hanno la panza,
guidano le Ferrari e hanno più capelli di me…
Sotto la camicia indossava un paio di pantaloni
bianchi e ai piedi portava dei mocassini beige. Il
sudore gli colava lungo la schiena: faceva un caldo
boia nel bungalow, ma lui continuava a fissarsi
nello specchio.
Doveva decidersi a farlo.
Aveva cercato a lungo, e invano, di sistemare i
capelli in testa in modo da coprire le stempiature e
la chierica. Si era stirato i capelli col phon, li aveva
bagnati e ingelatinati, li aveva asciugati di nuovo,
era tornato a impiastricciarli con la gommina. Alla
fine, stremato, aveva deciso di passare al piano B.
Presa di corsa la valigia dall’armadio, aveva frugato
al suo interno. L’aveva tirato fuori guardandolo con
sospetto ma, una volta indossato, si era guardato
allo specchio e tutte le sue riserve erano venute
meno. Aveva di nuovo i capelli.
Si sentiva una tigre, un giovane pieno di energie
pronto a rimorchiare tutte le donne del mondo.
Quella Betty e la sua amica americana avrebbero
avuto qualcosa da raccontare alle amiche per anni
a venire e…
«’zzarola, mi sembri Little Tony!»
Appoggiato alla porta d’ingresso del bungalow,
Michele lo guardava compiaciuto. Enrico si era
sfilato il parrucchino e lo aveva nascosto dietro la
schiena, arrossendo come un bambino beccato con
le mani nella marmellata.

145
«Ma dai, andiamo, era un complimento. Rimettiti
quel topo morto, su, che andiamo a insegnare a
quelle due un po’ di magia di famiglia!»
Trenta minuti più tardi, ai piedi dell’altissima
insegna di uno stabilimento balneare, luogo
prefissato per l’incontro, Enrico scrutava l’orizzonte
da sotto la sua montagna di capelli artificiali. Michele
sembrava un Tony Manero senza fisico: giacca e
pantaloni bianchi (stretti e attilatissimi sul pacco),
camicia nera con colletti a vela sparati. Almeno due
etti di quella gommina profumata imbrattati sui
capelli, tutti tirati all’indietro ma con un rigoglioso
boccolo lasciato a penzolare sulla fronte.
Betty e Dyan si erano fatte aspettare solo una
decina di minuti. Enrico, nel vederle arrivare a
piedi, aveva sentito d’improvviso quasi l’impulso di
afferrare il cugino e baciarlo. Una volta tanto non gli
aveva raccontato una delle sue cazzate: le due erano
davvero carine.
Betty era magra e alta, i capelli castani sulle
spalle, occhi neri grandi e dal taglio vagamente
orientale, un portamento elegante, da modella.
Indossava un vestitino di ciniglia chiaro e leggero,
con dei fiori ricamati su un fianco. Ai piedi portava
dei sandali, di quelli con i lacci legati attorno alle
caviglie, e grossi bracciali le coprivano i polsi.
Dyan era un po’ più bassa e rotonda, e incarnava
perfettamente l’immagine che Enrico si era fatto delle
ragazze americane: bionda, occhi chiari, mascella
pronunciata e naso delicato, forme abbondanti ma
armoniose. Quella sera indossava un top nero, una
gonna colorata e scarpe con i tacchi. Un’ampia

146
fascia nera le reggeva i capelli lunghi e ondulati.
«La bionda o la mora?»
«Mh?»
«Dai, muoviti cugino che sono quasi qui: prendi la
bionda o la mora?»
Enrico si era stretto nelle spalle: «È lo stesso»
Michele gli aveva tirato una pacca sulla spalla
così forte da fargli saltare via una scapola, poi, col
suo sorriso da predatore all’amatriciana e le braccia
spalancate, si era fatto incontro alle due ragazze.
«Ciaoooo belle!»
«Ci-ao!», avevano risposto le due yankee in coro.
«Lui è mio cugino Enrico. Tranquille, lui… spik
inglìsh!»
Le ragazze avevano riso divertite… e avevano
continuato a farlo per buona parte della serata.
Per la cena, ovviamente a base di pesce, era stato
scelto un ristorantino sulla spiaggia, con lunghe
tovaglie sui tavoli e un’atmosfera eccezionale, frutto
delle luci blu soffuse, delle note strimpellate con la
chitarra da una sorta di hippy spagnolo ingaggiato
dal locale, e di un delizioso vino bianco di Sicilia.
La ripartizione delle prede, vista l’incertezza
mostrata per una seconda volta da Enrico – appena
le ragazze erano andate in bagno per “rifarsi il
trucco”, Michele aveva riproposto immediatamente
la questione al cugino – era stata affidata a criteri
di mera praticità. Michele avrebbe cercato di far
colpo su Betty, l’unica delle due che, causa barriere
linguistiche, poteva intortare con le sue storie di
vita vissuta; Enrico si sarebbe giocato le sue carte
con Dyan.

147
Non che al futuro proprietario del Mambo la cosa
dispiacesse. Anzi. Oltre a essere una bella ragazza,
aveva scoperto con gioia, Dyan era anche molto colta
e ricca di interessi. Come lui aveva letto molti libri di
Asimov e l’opera omnia di Tolkien sin da ragazzina.
Come lui amava i film noir in bianco e nero ma aveva
visto almeno due volte E.T. e l’Esorcista. Come lui
amava la montagna, e si trovava sull’isola perché
trascinata dall’amica. La loro discussione era
proseguita quindi – dopo che i due cugini avevano
cercato in tutti i modi di non far trasparire sui loro
volti, con la freddezza di bari consumati, lo sgomento
per il conto agghiacciante – sul sedile posteriore
della Duna di Michele, lanciata a velocità smodata
verso il nightclub Disco Inferno, un locale esclusivo
e costosissimo scavato nella roccia e frequentato dai
VIP. Dyan adorava la voce bassa e timida di Enrico
e, mentre questi gli raccontava dei suoi studi e del
suo lavoro, della sua collezione di tappi di bottiglia e
– abbiate pietà di lui – perfino del suo pappagallo di
nome Peppino, lei sorrideva felice, pendendo dalle
sue labbra.
Arrivati al locale, Michele aveva finto di parlare
al buttafuori, vendendoselo come un suo vecchio
amico, per appianare eventuali problemi con la
selezione all’ingresso. Ma Enrico era convinto che,
con due tipe così, li avrebbero fatti entrare anche
vestiti da tonni e ricoperti di penne e melassa.
Una volta scesa la sottile passerella di roccia e
avvolti dalle luci rosse e verdi del night, Michele
aveva abilmente dirottato Betty verso il bancone,
dietro al quale un barman faceva volare per aria lo

148
shaker, dopo aver piantato una gomitata nel fianco
del cugino e avergli sussurrato, con nonchalance,
in un orecchio: «Buttati: è la tua serata. Non mi fare
il cazzone»
Enrico e Dyan si erano seduti su un divanetto e
avevano continuato, tra i sorrisi, a raccontarsi le
proprie vite. Dyan e Betty venivano dalla Grande
Mela e, sin da bambine, avevano sognato di fare
un viaggio in Europa. L’Italia era la seconda tappa
di una lunga vacanza che, iniziata a Barcellona la
settimana precedente, le avrebbe condotte a Parigi
e infine a Londra.
«Allora – le aveva chiesto lui con il suo inglese
scolastico – cosa ne pensi dell’Italia?»
Lei gli aveva risposto che di spiagge così belle non
ne aveva mai viste. E che un sole così nel Queens
lo potevano solo sognare. E poi il caldo, la cucina,
le canzoni…
«E degli italiani?»
Dyan, dopo averci pensato su un paio di secondi,
gli aveva detto ridendo che fino a poche ore prima
era convinta che tutti i maschi italiani fossero dei
pappagalli. Ma anche che ora, dopo aver conosciuto
lui, doveva riconsiderare tutto il discorso.
Per poco a Enrico non si erano arrossate pure le
sopracciglia.
«Come on, Enrico. Dance with me», gli aveva detto,
prendendolo per una mano e trascinandolo in pista
per ballare. Lei, lui e Madonna con Into the Groove.
Di Michele non c’era traccia, ma in quel momento
ad Enrico non gliene fregava assolutamente niente.
Dyan era bella, Dio quanto era bella. E, sebbene non

149
riuscisse ancora a spiegarsi come fosse possibile,
sembrava interessata a lui.
Le piaccio. Oporcaputtana: le piaccio!
E poi le luci erano calate, la musica si era fatta più
lenta e lei lo aveva abbracciato. Felice come lo era
stato solo il giorno in cui la sua squadra del cuore
aveva conquistato lo scudetto – e felice quel giorno,
mentre buttava giù dal balcone i piatti e correva come
un pazzo per tutto il suo appartamento/loculo, lo
era stato davvero tanto – l’aveva stretta, annusando
il profumo sul suo collo e l’odore di shampoo alla
mela verde dei suoi capelli.
Coraggio, giovane. Ora. Ora!
L’aveva stretta più forte, sentendola inarcare la
schiena per adagiarsi meglio tra le sue braccia.
L’aveva vista piegare il capo e sorridergli e allora,
vinta ogni paura, aveva avvicinato le labbra alle sue.
Il tutto mentre lei, chiudendo gli occhi, allungava la
mano verso la sua folta capigliatura e…
Noooooo, santo cielo, noooooooooo!!!
… e Dyan era rimasta con la mano tra i capelli di
Enrico. Anche se questi non si trovavano più sulla
testa del loro legittimo proprietario. Il parrucchino,
impigliatosi in un anello della newyorkese, era stato
trascinato via dalla testa di Enrico Saltamerenda.
Dyan, il feticcio nero stretto in una mano, lo
fissava con uno sguardo interrogativo. Lui aveva
messo in moto tutti i propri neuroni per trovare una
via d’uscita da quella situazione di merda.
“You take myself, you take my self control…”,
gridava Raf nelle casse del Disco Inferno.
Pensacacchiopensa! Pensa!!!

150
“I haven’t got the will to try and fight…”
E aveva pensato. La cosa sbagliata.
Si era portato la mano sulla testa e, percuotendosi
la pelata, imitato il rumore del tubo vuoto. Quando
lo faceva Banfi, nei film che Enrico andava a vedere
con i compagni di scuola, ridevano tutti.
Ma in quel momento non rideva proprio
nessuno.
Un attimo eterno di silenzio, poi negli occhi di
Dyan si potevano leggere solo delusione e disgusto.
«You’re… so fuckin’ old, Enrico!». Ed era andata
via, in cerca dell’amica.
Sulla pista lo stavano guardando tutti. Enrico non
poteva vederlo, visto che i suoi occhi erano ormai
incollati al pavimento da diversi secondi, ma tutti lo
stavano fissando. Sguardi carichi di derisione.
“You take myself, you take my self control…”
In silenzio e a capo basso aveva guadagnato
l’uscita. Michele e Betty limonavano felici avvinghiati
su un divanetto.
Gli aveva dato del vecchio. Per tutta la serata si
erano divertiti, avevano riso tanto e lei stava per
baciarlo. Ma alla fine gli aveva dato del vecchio. Del
fottuto vecchio.
La mattina dopo, senza neppure aspettare il
rientro del cugino, finito chissà dove con l’americana
magra, Enrico era saltato su un pullman per lo
Stretto. In compagnia di due vecchine vestite di
nero che parlavano un dialetto incomprensibile e
di tre ragazzi muniti di chitarra e maldestramente
impegnati a rollarsi una canna, si era lasciato alle
spalle la crudele vacanza siciliana con alcuni giorni

151
d’anticipo.
Negli anni seguenti il ricordo dell’umiliazione
subita quella sera, una ferita profonda che solo la sua
prima vera relazione, la storia con Marcella, avrebbe
sanato almeno in parte, tornava a far capolino nella
mente di Enrico ogni volta che ascoltava le note di
quella canzone. Quella cazzo di canzone.
Scattava qualcosa nella sua testa e tornava a quella
triste serata e al magone che l’aveva accompagnato,
il giorno dopo, per tutto il viaggio di ritorno. Doveva
ancora avere da qualche parte, a casa sua, tra le
copie del National Geographic, un vecchio numero
della Settimana Enigmistica comprato in un’edicola
al porto di Messina, mentre attendeva il traghetto
per la Calabria. La foto di copertina, l’immagine in
bianco e nero di un cantante italiano, un autore
bruno e magro il cui brano in inglese aveva scalato
rapidamente le classifiche, deturpata rabbiosamente
con una biro.

152
[4]
Pochissimi
i conigli

153
Pochissimi i conigli

Quale perversione mentale può spingere un uomo


adulto a disegnare cazzi negli ascensori? Marco
non saprebbe rispondere a questa domanda. Ma si
è votato comunque con grande dedizione a questa
attività per quasi trent’anni. Per ventinove anni e
undici mesi della sua vita ha inciso con le chiavi,
scarabocchiato a penna, abbozzato a pennarello
cazzi stilizzati di tutte le dimensioni nell’ascensore
del suo palazzo (ma non solo).
Poi ha conosciuto Claudia, la studentessa del
secondo piano. E ha deciso che non era una cosa
bella. Allora si è messo in testa di convertire quei
cazzi, tutti quei trent’anni di cazzi, in teste di
coniglio.
Saldo attuale: cazzi 86, conigli 32.

154
[5]
Libero (Pensiero)

155
Quando uscì dalla porta, la luce del sole si era
fatta rossa e stava morendo lentamente dietro le fila
di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò
la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece
una carezza e pensò. Mi resta ancora una sola cosa
da fare.
Poco meno di un mese prima la sua vita era
cambiata. Una vita votata per gli ultimi trentanove
dei suoi quarantuno anni al Sacro Impero e al
suo esercito. Alla persona del Divino e a ogni suo
desiderio. Tutto prima che...
Più tardi, in un altro settore di Beijing2.
Il vagone trasporto scorazzava lentamente sopra
il fitto reticolo delle strade, strapieno di pendolari,
e dal finestrino non si vedeva altro a perdita
d’occhio che l’agglomerato di vetri e cemento.
I blocchi abitativi addossati l’uno all’altro, con
milioni e milioni di persone racchiuse in loculi che
il regime aveva insegnato loro a chiamare nidi.
Le costruzioni blocco si estendevano per tutta
Beijing2, come un grottesco formicaio umano in cui
poveri esseri conducevano la loro vita da amebe.
Poi, all’improvviso, le costruzioni si aprivano, la
loro geometrica e triste teoria che accompagnava lo
sguardo per miglia e miglia si squarciava.

156
La casa del Divino svettava solitaria in mezzo al
nulla. Nessuna costruzione nel raggio di un miglio
per lato, e al centro quel colosso in nero marmo e
metallo, con l’enorme drago rosso sulla facciata. La
gente sul vagone guardava in giù verso quello che
a tutti gli effetti era da quasi un millennio il motore
del mondo.
Wu appoggiò le mani sul freddo vetro del
finestrino. L’indomani sarebbe stato ricevuto a
palazzo. Il giorno dopo si sarebbe compiuto il suo
destino e, forse, quello del mondo intero.
Ammiraglio della Sacra Flotta, ufficiale di rango
ma persona uguale agli altri per il volere del Divino
stesso, Wu non aveva mai messo in dubbio la sua
parola. Quello che il Divino chiedeva era legge,
giustizia, religione.
Poi... poi quella missione in Kenya, quella sacca di
resistenza, quell’ordine. Ingiusto, inutile. Inumano.
E la crisi, il tarlo del dubbio, del rimorso. Un perché?
che un sacrilego e imprevedibile rigurgito di libertà
di pensiero aveva tramutato in un perché no?.
E paura, lacrime e coraggio, e una determinazione
che gli era montata lungo la gola come un ruggito.
L’imperatore deve morire.
Ma prima doveva vedere lei.
Arrivato alla sua fermata, si fece largo tra la calca
e scese le rampe d’accesso incrostate di ruggine.
I blocchi, in quella zona, erano tanto fatiscenti
da trasudare epidemie. Le strade erano ricolme di
detriti in mezzo ai quali il traffico umano scorreva
lento. L’appuntamento era in una bicocca che
puzzava di povertà, di lacrime asciugate nello

157
sporco, di sangue rappreso su volti senza speranza.
Chun indossava un vitino combinato con stivali
neri alla coscia e una generosa scollatura. Lo salutò
con un «Ehi, baby!» che fece girare le teste di metà
dei presenti. Ma solo per un secondo o due, prima
che l’alcol e l’angoscia tornassero a impadronirsi dei
loro pensieri.
«Smettila. Ti caccerai nei guai», le disse lui con
un sorriso preoccupato. Un giorno, pensò, quella
sua ostinazione per la lingua proibita l’avrebbe fatta
uccidere. Ma poi un nuovo pensiero si accavallò
al precedente. Forse quel giorno non sarebbe mai
arrivato. Forse.
«Perché hai voluto incontrarmi proprio oggi, e in
questo cesso di posto?», chiese lei sorseggiando il
suo daiku.
«Speravo di non dare troppo nell’occhio. Dovrei
essere al Corpo, oggi. Ma dimenticavo che con te è
impossibile passare inosservati...»
«Comunque non mi hai risposto – ribatté lei
avvicinando le labbra al suo orecchio nel modo più
sensuale che conoscesse – Perché non hai potuto
aspettare domani per vedermi?»
Wu non disse nulla. Si limitò a tirarla a sé e a
baciarla il più forte possibile. Così forte da farle
quasi del male, così forte da portarsene via con sé
un po’ nell’anima. Il tutto sperando che lei non si
accorgesse delle sue lacrime.

Wu ebbe accesso alla sala dei ricevimenti solo


dopo i riti di abluzione e ringraziamento, che

158
duravano circa due ore. Il Divino era seduto sul
suo trono, in cime a due scaloni a trenta metri di
distanza da lui. A quindici iniziava la fascia rossa,
e nessuno poteva oltrepassarla. Le due giovani
guardie armate sostavano ai bordi della fascia. Wu
ne scrutò i lineamenti inespressivi, il viso di gomma,
gli occhi vuoti. Cloni. Da anni il Divino voleva per la
sua sicurezza personale solo dei cloni. E per evitare
qualsiasi rischio, voleva fossero a programmazione
breve. Due mesi al suo servizio e poi sarebbero stati
uccisi e soppiantati da altri due gemelli genetici
sempre uguali.
Wu alzò il capo dopo l’inchino di rito e rivolse il
suo sguardo verso l’imperatore.
Negli ultimi novecentocinquant’anni solo tre
imperatori si erano succeduti su quel trono. Il
Divino numero uno aprì la dinastia, aprendo al
contempo un carico di migliaia di chilotoni sul resto
del pianeta. In un tempo in cui la difesa non era
più un’esigenza vera e propria delle grandi potenze,
in cui il disarmo nucleare era finalmente divenuto
realtà su scala mondiale, un colpo di stato portò
al potere in quella che era la repubblica cinese un
uomo che si diceva discendente delle stirpi imperiali
antiche. Il giorno della grande esplosione arrivò nel
febbraio del 3049 del vecchio calendario, l’anno
zero di lì a poco. Laddove il poco è rappresentato
da un migliaio di testate nucleari sparse a grappolo
sui centri nevralgici del mondo. Intere popolazioni
e culture vennero annichilite in un istante. Il vento
nucleare soffiò forte per centinaia di anni su questo
povero pianeta dimenticato dal cielo, bruciando

159
le foreste, fondendo i vetri delle case, cancellando
la vita. I sopravvissuti avevano bisogno di viveri
e medicine, e chi era in grado di fornirglieli era
ovviamente destinato a dominare il pianeta. Alle
pecore un tozzo di pane e una cassa di analgesici.
Ai dissidenti una morte quasi mai rapida e pietosa.
L’impero emetteva così il suo primo, lugubre
vagito. Pare che il primo Divino sia vissuto più di
trecento anni. Merito di continui trapianti e cyber-
innesti e trattamenti medici che solo lui si poteva
permettere. Lui e i suoi discendenti, ovviamente.
Wu fissò l’imperatore, in attesa che questi gli
concedesse di parlare. Perché – si chiese – mai
nessuno ha pensato di farlo? Perché in quasi mille
anni nessuno ci ha provato?
Perché non si uccide un dio in terra, colui che,
da quando nasci, ti viene insegnato che è il volere
divino incarnato.
«Parla pure, ammiraglio. Perché hai richiesto
questa udienza?»
La voce dell’imperatore era stridente come unghie
su una lavagna. I suoi occhi, di un grigio innaturale
per gli appartenenti alla razza pura (innesti anche
quelli?) brillavano in modo quanto mai vivo. Ma il
resto del volto non tradiva la minima emozione. La
lunga chioma scura scorreva sui lati del petto, giù
fino a toccare la seduta del trono di avorio.
«Io...», attaccò Wu, ma la voce gli inizio a tremare
e le parole gli morirono in gola.
Devo essere forte. Non devo cedere. Non posso.
Non ora.
«Io, Divino – e nel dirlo piegò meccanicamente il

160
capo come gli era stato insegnato. Pur non avendo
alcuna intenzione cosciente di farlo – nutro delle
remore sull’operazione africana di un mese fa».
C’era riuscito: lo aveva detto. E il Divino non
permetteva di vivere a chi contraddiceva il suo
pensiero. Wu aveva rotto l’argine e superato il punto
di non ritorno.
«Cosa ti turba, ammiraglio?», chiese l’imperatore
sorridendo.
«Abbiamo sbagliato, Divino. È stato un errore»,
rispose Wu, avvicinandosi con passo lento alla
fascia rossa.
Il sorriso dell’imperatore si arrestò per un breve,
interminabile istante.
Il divino si sollevo dal trono e scese silenziosamente
il primo scalone.
«Vorresti dire che io ho sbagliato?». Il sorriso
questa volta assunse i tratti di un ghigno sinistro.
«Non dovevamo farlo. Non era necessario». Wu
avanzò ancora, fermandosi solo pochi metri prima
della fascia. I muscoli delle due guardie si tesero,
rispondendo alla programmazione d’allerta.
«Mi dispiace. Mi dispiace davvero, ammiraglio. Eri
un buon soldato». Il Divino sollevò la mano destra al
cielo, poi serrò le dita in un pugno. Le due guardie
si fiondarono addosso a Wu brandendo le loro lance
elettriche. L’uomo si preparò allo scontro, stringendo
i denti così forte da scheggiarsi un canino...

La ferita sulla gamba destra perdeva molto


sangue. Non posso pensarci ora. Quella sotto

161
le costole bruciava come l’inferno e produceva
uno strano rantolo nel suo respiro. Non importa.
La lancia elettrica era premuta contro il collo del
Divino. L’Impero stava per morire. Mille anni di
storia della razza umana sarebbero finiti in quello
stesso istante. Le guardie giacevano immerse
nel loro sangue, ma l’imperatore continuava a
sorridere. Anche ora, con l’esile braccio spezzato
che gli penzolava lungo un fianco, la morsa di Wu
sulla sua testa e la lancia che gli carezzava il collo,
il suo sorriso non lo abbandonava.
«Sono piacevolmente stupito, ammiraglio.
L’addestramento della nostra Sacra Flotta continua
ad essere il migliore, certo, ma non mi aspettavo
tanta forza. Non uscirai mai vivo da qui comunque.
Lo sai, vero?»
Wu non rispose nulla. Il sangue gli risaliva lungo
la gola, e parlare iniziava a diventare una faccenda
complicata.
«E poi cosa speri di ottenere? Il mondo non è
pronto a vivere senza la guida dell’Impero. Non lo
sarà mai più». Il sorriso si allargò in modo innaturale,
da zigomo a zigomo, e si tramutò in risata.
Wu affondò la lama e sentì la vita abbandonare
il corpo che stringeva. Lo lasciò cadere al suolo, ma
dopo pochi secondi fu anche lui a terra. Ormai non
aveva quasi più forze.
La vista gli si iniziava ad annebbiare e poi... poi la
risata riprese. Si aprì una porta e l’imperatore entrò
nella sala.
Si accovacciò accanto a Wu e gli sollevò la testa
per i capelli.

162
«Vuoi conoscere il segreto più grande e
gelosamente custodito del mondo, ammiraglio?», gli
sussurrò quasi con dolcezza.
«Sono morto duecento anni fa. Dopo soli vent’anni
dal mio insediamento. Da allora non ho più uno,
ma mille corpi. Mille corpi artificiali e perfetti e una
mente immortale, che non conoscerà mai il tramonto
e l’oblio. L’imperatore è morto, l’imperatore non
morirà mai»
Wu riuscì solo a spalancare gli occhi, e visse
nell’orrore il suo ultimo istante di vita.
Il Divino lasciò la presa, si alzò e voltò le spalle ai
tre cadaveri, parlando al suo computer.
«Archivio. Tentativo di omicidio numero 575.
Registra e chiudi il file dell’ammiraglio Wu Ling.
Individua prossimo neo nel sistema»
L’asettica voce del computer risuonò nella sala:
«Uno dei sommi sacerdoti della tua divina persona,
nel nucleo santuario di Neo-Roma, fa frequenti sogni
di dominio. Il tasso di testosterone è aumentato
negli ultimi sei mesi del 12,5%. La sua compagna
è un’esule dalle colonie delle Americhe. Probabile il
contatto con testi proibiti”
L’imperatore non ponderò a lungo la sua risposta.
Non ne aveva bisogno.
«Ordinagli un sacrificio votivo alla mia persona.
Cinquemila uomini. Del suo blocco abitativo».
E il suo sorriso tornò ad allargarsi implacabile sul
mondo intero.

163
[6]
Attimi

164
Attimi

Ti ho cercata, senza mai trovarti.


Per giorni ti ho inseguita, rincorsa, sognata. 
Eri lì un attimo, e quello dopo non c’eri già più.
Aggrappato a una lucida follia, ho fatto di tutto
per raggiungerti, ma continuavi a sfuggirmi.
Mi guardavi, provocante e nervosa, ma restavi
sempre a un passo.
Inafferrabile, eterea, lontana. Troppo. Sempre.
Eri lì e... bafangule, stronza dimmerda, ti ho
preso.
Ciavatta uno, mosca zero.

165
[7]
La maschera

166
La maschera

Il suo nome è Johnny o Jimmy o Mickey.


Avrà un’età compresa tra i trenta e i quarant’anni.
Un lavoro di quelli che ti vestono d’insoddisfazione
e ti imbottiscono il cuore di rabbia. Di pensieri
cattivi. Ira, accidia: peccati capitali.
Scruta con attenzione l’elenco di brani sulla
custodia del CD che regge stretto in mano, poi
solleva lo sguardo, perplesso, verso le luci al neon
sul soffitto. Ha pochi capelli e troppe rughe. Non
puoi sentirlo, ma il posto sarà saturo di musica di
merda, per annebbiarti il cervello e spingerti verso
le casse.
Johnny o Jimmy o Mickey avrà una moglie troppo
vecchia o una fidanzata troppo giovane per lui. La
notte, quando a fargli compagnia nel letto sono il
suo fallimento e gli acciacchi guadagnati con una
vita dissoluta, penserà che forse ha ancora una
possibilità. Che c’è ancora una via d’uscita.
Il suo sogno, nella vita, è di sbancare il bingo
e fuggire a Los Angeles. O trovare finalmente una
donna che lo capisca. O diventare una persona
importante, uno di quelli che contano. Soldi. Potere.
Rispetto.
Punto il binocolo verso un altro piano, il sesto. Tra
i riflessi delle vetrate a specchio vedo una donna.

167
Meg o Jenny o Carol è alta e magra, con lunghi
capelli biondi tenuti su da una fascia nera. Moda
revival anni 60. Indossa una maglietta attillata di
colore viola e un pantacollant altrettanto disegnato
addosso. Che vogliono dire perdizione, che vogliono
dire peccato. Fornicazione.
Fa la spesa e riempie il suo carrello di cibi
ipocalorici e con percentuali di grassi idrogenati
inferiori allo 0,1%. Fibre e cereali, latte di soia e
yogurt magro. Sogna di sfondare come attrice o
modella. Di diventare una donna manager. Che
qualcuno la noti, che i soldi spesi per il corso di
portamento o per la dietologa non siano stati buttati
via. Quelli per le tette finte, nemmeno.
Due piani più in basso, sulla sinistra, giusto sotto
la grande insegna luminosa verde mela. Qualcuno
l’accompagna per mano, mentre attraversa il reparto
di giocattoli. È felice di trovarsi qui, e un sorriso
raggiante le incornicia il faccino quando prende
dallo scaffale la bambola bionda che va tanto tra
le sue compagne di classe. Le famiglie benestanti
spendono sempre volentieri trentanove dollari e
novantanove per un pupazzo di plastica assemblato
a Singapore: li aiuta a tenere buona la coscienza, il
viziare i figli dei loro peccati.
La piccola Mary Ann o Kitty o Vicky avrà sette o
otto o dieci anni.
Ha una salopette e una felpa rossa, treccine
castane, scarpe sportive da cento dollari cucite
all’altro capo del mondo da uno schiavo della sua
età. Il suo, di sogno, è quello di diventare una
ballerina o una cantante o una soubrette televisiva.

168
Abbasso il binocolo e do un’occhiata al mio
orologio da polso proprio mentre il countdown
raggiunge lo zero.
Non sempre i sogni si avverano. Osservo il palazzo
di fronte, l’alta torre dello shopping mall Keaton,
sputare fiamme e pezzi di vetro e ferro su entrambi
i lati della sua struttura del colore dell’ossidiana.
I piani dal quarto al nono non esistono più. Al
loro posto fiamme e fumo, e urla e sirene e paura
che riempiono la prima sera della metropoli.
La paura di chi ha peccato, di chi si è allontanato
dalla retta via. Di chi ha venduto la propria
spiritualità a uno spot televisivo, la propria fede
ai falsi dei del cinema, dello sport, dell’immagine
e dell’apparenza. All’avidità, alla cupidigia. Anche
questa è simonia. È peccato.
E solo il fuoco può mondare le anime di questi
peccatori. Solo il fuoco.

Trascorro otto-virgola-cinque ore al giorno in un


ufficio. Faccio l’agente assicurativo. Sbrigo pratiche,
registro richieste di rimborsi sinistri e approvo
polizze vita. Le vite di migliaia di persone che ogni
giorno mi passano davanti agli occhi, sotto forma di
numeri e tabelle. Moduli. Questionari da riempire.
Quanti figli ha a carico? È un fumatore? Quando
ha fatto l’ultimo check-up completo?
Uomini e donne che barattano la propria
aspettativa di vita con una percentuale di rimborso.
Che giocano la loro esistenza alla roulette della vita.
Una vita che, però, non appartiene a loro: gli è stata

169
affidata solo in prestito. E gli verrà tolta presto.
Soffre di un qualche disturbo psichico acclarato?
Ha subito interventi chirurgici particolarmente
significativi negli ultimi cinque anni?
Inserisco dati e controllo autocertificazioni. Faccio
percorrere a un piccolo mouse ottico milioni di
chilometri alla settimana, esponendomi ai rischi
della sindrome del tunnel carpale e della tendinite
da polso. Ma non sono assicurato.
Richter mi viene a chiedere il fascicolo della
Emics. Richter è un idiota che crede di essere furbo.
Un semi-analfabeta funzionale convinto di essere
mediamente colto. Compra abiti firmati e profumi
costosi, ma non bastano a coprire l’odore di aglio
del suo fiato e la puzza di sudore che gli impregna
camicia italiana e pantaloni eleganti con la piega.
Guida un auto sportiva europea di colore blu
metallizzato, ma nessuna donna è disposta ad
accettare i suoi passaggi.
Ha i denti ingialliti dal fumo e dal caffè, lo sguardo
annacquato in pari misura dall’ignoranza e dalla
cupidigia.
«Della Emics si occupa Leah», gli rispondo, senza
scollare gli occhi dal monitor, senza sollevare la
mano destra dal mouse.
Nel frattempo penso che se le errate consuetudini
posturali sul luogo di lavoro, assieme allo stress
e alle reazioni allo stress, dovessero procurarmi
disturbi osteomuscolari quali tendinite, tenosinoviti
e, soprattutto, sindrome del tunnel carpale, non
verrò ricompensato in alcun modo.
«Sì, lo so, -------, certo», mi fa, sedendosi sullo

170
spigolo della mia scrivania e allungando un braccio
per poggiare la mano sul monitor. «Solo pensavo che
tu potessi passarmi lo stesso il fascicolo. Tu sei una
persona comprensiva, -------, sai quanto può essere
importante per me la Emics», continua, sorridente.
Io, nel frattempo, combatto con l’acida offensiva
che il suo sudore porta alle mie narici.
«È che Leah ha già tanti clienti importanti. Uno
più, uno meno… Che vuoi che gli cambi?»
«Vuoi rubargli il cliente», gli rispondo. Il furto è
peccato. Un peccato grave.
«Ma no, dai, rubare…», dice allargando il sorriso
da idiota. Un canino incapsulato nella sua bocca
richiama, sinistramente, la mia attenzione. «Non
voglio rubare niente a nessuno, ci mancherebbe.
Senti, a te lo posso confessare, -------: Leah è un
coglione. Non capisce un cazzo di niente. Inculare
un fesso così, nel nostro campo, a un certo punto
diventa quasi un obbligo»
Sodomia, atti contro natura.
«Mi capisci, no?», chiede, e il suo tono da spavaldo
è diventato quasi supplicante.
«Ne parliamo domani: ora ho un sacco di lavoro
da fare, scusami», gli dico, e torno a occuparmi dei
miei moduli precompilati e con le clausole vessatorie
scritte piccolissime, in corpo 6, in basso sul retro.
Nella sua famiglia ci sono stati, che lei sappia,
problemi cardiovascolari nelle ultime tre generazioni?
Ha ricevuto contravvenzioni per eccesso di velocità
negli ultimi sei mesi? Che rapporto ha con l’alcol?
No, non ti capisco, maledetto idiota. E presto ti
staccherò quella testa di cazzo dal collo.

171
«Grazie mille, -------, sei un amico», mi fa. E solleva
il pollice per dirmi okay. E mi strizza l’occhio chiaro
per dirmi okay. E i denti gialli gli brillano famelici.
Ti staccherò quella testa di cazzo e farò a pezzi il
tuo cadavere e non sorriderai più.
Allora potrai ringraziarmi.

Entro nella sala relax per prendere un caffè dalla


macchinetta. Due donne che non conosco, parte
evidentemente dell’ondata di neo-assunti che ha
accompagnato negli ultimi mesi l’espansione della
società, mi fissano da dietro i loro bicchierini di
plastica.
Parlano delle cicatrici che ho sul volto.
Ridono di me.
Sono vestite con abiti scollati e truccate in
modo volgare. Hanno gioielli vistosi e acconciature
ricercate.
«Guarda, è quel ------- del secondo piano. Ma
cos’ha in faccia?», bisbiglia una. Troppo forte perché
non possa sentirla.
Puttane. Anche voi morirete presto.
Accanto alla macchinetta, Johns e Rubia parlano
dell’esplosione del Keaton di due giorni fa. E,
appena mi vedono, vogliono coinvolgermi subito nel
loro dialogo.
«Ehi, ------, ciao come va da quanto tempo non ti
si vede non vieni mai qua a prendere un caffè lavori
sempre mamma che stakanovista fossero tutti
come te a proposito tu cosa hai sentito del fatto del
Keaton?», mi fa Johns tutto d’un fiato. Ha il profilo

172
allungato e gli occhi piccoli dello squalo. Ma non ne
ha la forza o l’aggressività. Caratterialmente è solo
una piccola iena, un mangia-carogne che campa
sperando nella malasorte degli altri.
Ho sentito più di quello che hai sentito tu. Ho
visto più di quello che hai visto tu. Ho fatto più di
quel che hai fatto tu.
«Ho sentito che c’è stata un’esplosione», gli dico.
«Cazzo che sagoma che sei! Ma come fai?», mi
dice lui. «Viene giù mezzo grattacielo, muoiono
cinquantasette persone e tu hai “sentito che c’è
stata un’esplosione”?»
«È stata una bomba – aggiunge Rubia – hanno
trovato tracce di plastico in uno degli ascensori»
Semtex. L’esplosivo migliore.
«Certo che ce ne sono pazzi fottuti in giro roba da
non credere dovrebbero essere tutti come te, ------,
lavoratori inappuntabili senza grilli per la testa altro
che questi sciroccati magari arabi che di quelli mi
fido poco che vanno girando a fare di queste gran
porcate. Sì già sai che ti dico dovrebbero essere
tutti come te e il mondo sarebbe un posto davvero
migliore ma guarda proprio un casino»
Non ne hai idea. Non ne hai proprio idea.

Faccio l’agente assicurativo. Compilo moduli e


interrogo le persone sulle loro abitudini quotidiane.
Sono prigioniero per un’intera giornata di un
sistema retto da idioti e portato avanti da idioti,
schiavo incatenato a una scrivania, operaio da
tastiera al soldo di danarose persone senza Dio.

173
Ma è solo una maschera, è solo un modo per poter
tirare la fine del mese. Una convenzione sociale.
Poi stacco, tolgo la cravatta, sfilo la maschera e
mi dedico alla mia missione.
Punire il male.
Portare il fuoco.
Oggi siamo al Marx Bros Plaza.
Io e una valigetta con mezzo chilo di plastico.
Hanno aumentato la sorveglianza in tutti i posti
come questo dopo l’esplosione al Keaton. Hanno
dato ordine alla vigilanza di fermare i tipi strani.
Di tenere d’occhio i tipi sospetti. Di lasciare fuori la
teppa.
Ma nessuno ha detto loro niente degli agenti
assicurativi.
La maschera regge, mentre mi faccio largo
nell’ampio ingresso dello shopping mall, mentre mi
dirigo verso gli ascensori, mentre trovo spazio nel
primo che apre le sue porte.
Accanto a me due ragazzine, meno di trentacinque
anni in due e con ampie porzioni di pelle lasciate
scoperte da magliette troppo corte e jeans dalla
vita troppo bassa, raccontano delle loro esperienze
sessuali.
Parlano in codice, convinte che non possa capirle.
Ma se lavori in un ufficio di ultra-trentenni in piena
crisi da seconda maturità, certe cose le impari.
Capisci cosa vuol dire “aumento di pressione”.
Capisci cosa vuol dire “gli ho dato un aiuto”.
Vuol dire fornicazione, vuol dire peccato, vuol
dire dannazione eterna.
Le ragazze scendono al dodicesimo piano: reparti

174
biancheria intima e giardinaggio. Ma non credo
siano interessate a fertilizzanti e cesoie.
Premo il tasto per far fermare l’ascensore. Ho
una manciata di minuti prima che scatti l’allarme e
venga chiamato un tecnico.
Me li farò bastare.
Apro la ventiquattrore e ne tiro fuori i panetti di
Semtex. Con cura li attacco con il nastro isolante
all’angolo formato tra il soffitto e una delle pareti
dell’ascensore. Imposto il timer: venticinque minuti.
Sono un agente assicurativo, e sto per far venire
giù un intero palazzo.
La maschera regge bene.

Meno ventuno minuti all’esplosione.


L’ascensore corre rapido verso il piano terra,
verso l’uscita, verso un posto diverso dall’inferno di
cemento e vetro e ferro che quest’edificio diventerà
tra un migliaio di secondi.
Poi, tutto d’un tratto, mi ritrovo al buio.
L’ascensore arresta la sua corsa.
Una lucina rossa si accende in alto sul soffitto.
Un blackout.
Non lasciarti prendere dal panico, mi ripeto:
pensa. Il timer. Devo bloccare il timer.
Armeggio sul suo display, ma rammento presto
che è inutile: il dispositivo d’innesco è di quelli che
non possono essere arrestati. Una volta azionato, il
timer farà il suo dovere fino in fondo.
Sono bloccato in un ascensore con mezzo chilo
di plastico in procinto di saltare. Mi lascio prendere

175
dal panico e prendo a pugni la parete fino a quando
le nocche mi si riempiono di sangue.
Mancano diciassette minuti all’esplosione.
Quando ha fatto l’ultimo check-up completo?

Benché la depravazione abbia per lui dolce


sapore, il cielo rivelerà la sua nefandezza… E la
terra sorgerà contro di lui. Questo è il destino che
Dio riserva ai malvagi. Giobbe.
In genere non mi piace citare le Scritture. Non
sono quel tipo di fanatico religioso.
Punisco il peccato perché è l’unica cosa che mi
spinge ad andare avanti. L’unica ragione di vita.
L’unico vero motivo per non credere di aver buttato
via venti anni della mia vita, spesi a pregare e a
subire punizioni per i miei errori.
La carne è debole.
Mancano undici minuti all’esplosione.

Sono seduto per terra, con la schiena poggiata a


una parete della mia trappola di ferro.
Dicono che prima di morire ti passi davanti, come
in un film, tutta la vita. Che rivedi in fila, uno dopo
l’altro, i momenti più belli della tua storia personale.
Non so, a questo punto, se sia solo una balla
o se sono io a essere sbagliato, perché non vedo
assolutamente niente.
Mancano dieci minuti all’esplosione, e la
maschera sta definitivamente venendo giù. È allora
che, impossibile per com’è impossibile, la vedo…

176
«Sai cos’è tutto questo, vero -------?», mi dice.
È esattamente come la ricordavo. Il suo volto
magro e scavato, con gli zigomi sporgenti e gli occhi
infossati nelle orbite.
«Sapevi che saresti arrivato a questo punto, no?»
Il corpo esile e rigido nei movimenti, le dita nodose
allungate verso di me.
«Ti stai chiedendo perché ti è successo. Perché
il blackout, perché ora, proprio quando la tua
“missione” aveva preso corpo. Devi morire, -------,
perché è quello che meriti»
Avessi il tempo di fermarmi a riflettere per un
attimo, immagino mi chiederei cosa ci faccia il
fantasma di mia madre in un ascensore bloccato e
imbottito di Semtex.
È bianca e spettrale, ma non è questo a farmi
correre brividi di raccapriccio lungo la spina dorsale.
È che lei mi ha sempre fatto questo effetto.
È solo uno scherzo del mio cervello, mi dico.
Un ponticello chimico che si è chiuso nel modo
sbagliato. Un errore.
Distolgo lo sguardo. Non voglio vederla.
Non lei, non mia madre, non ora.
Poi sento un dito gelido come la morte poggiarsi
sotto il mio mento. Mi fa girare il volto verso di lei,
quindi mi fissa con occhi vuoti, inespressivi.
«Non hai voluto ascoltarmi, non hai voluto seguire
i miei consigli, non hai mantenuto la retta via. Hai
ucciso, hai fatto tanto male, hai peccato. E ora
pagherai quel che devi»

177
Sono un agente assicurativo. Ma anche l’uomo
senza volto che la stampa ha definito un folle
dinamitardo, un assassino seriale, un vigliacco.
Sto per morire, e il fantasma di mia madre è venuto
a tirarmi le orecchie. Certe cose non cambiano mai.
Mancano otto minuti all’esplosione.

«Non capisci che è tutta colpa tua?», dico a quello


che credo essere il fantasma di mia madre.
«Delle tue fissazioni, delle tue regole per diventare
una persona rispettabile, delle tre ore di preghiera
al giorno, delle tue punizioni», aggiungo portandomi
le dita di una mano sotto gli occhi. Dove le cicatrici
mi ricordano le mie disobbedienze.
«Per te è troppo tardi, -------, ma puoi ancora fare
qualcosa per gli altri», dice il frutto di una sinapsi
sbagliata del mio cervello
«Cosa?», le grido
«Chiama la polizia. Di’ loro di far sgombrare il
palazzo. Puoi ancora salvare delle vite»
E poi scompare. O la sinapsi torna al suo posto:
non che cambi molto.
Mancano sei minuti all’esplosione.

Prendo il telefono dal taschino interno della mia


giacca. Mancano cinque minuti e trentaquattro
secondi all’esplosione.
Compongo il numero sul touch screen, poi lo porto
alla bocca e dico: «Sgomberate immediatamente il
Marx Bros Plaza. C’è una bomba. Tra cinque minuti

178
dell’intera struttura non sarà rimasto niente»
Lo dico alla segreteria telefonica di casa mia.
Poggio il telefono a terra.
Sorrido.
La maschera scivola via.

179
[8]
La Lega Oreisti
Anonimi

180
La Lega Oreisti Anonimi

La sala, un vecchio magazzino con qualche sedia


di plastica e un tavolino da bar Algida ammaccato,
è poco illuminata. Forse di proposito. O forse perché
siete in un fottuto sottoscala decrepito che è tutto
quello che la parrocchia si sente di concedere per
queste serate. Una delle due. Ti guardi attorno e
ti senti dannatamente fuori posto. Sei arrivato che
erano già tutti seduti, ma il moderatore è venuto ad
abbracciarti e ti ha indicato una sedia.
«Vieni fratello», ti ha detto. «Vieni»
Da allora nessuno ha ancora aperto bocca.
In un angolo c’è un cartellone rosa shocking.
Sopra c’è scritto a pennarello: “Non sei solo”.
Continui a ripeterti che venire è stato un errore,
ma pure che forse fai ancora a tempo ad andartene,
quando un omone in giacca e cravatta alla tua
destra prende la parola. Si alza in piedi, paonazzo
in volto, e si asciuga il sudore dalla fronte con un
fazzoletto Gucci dei marocchini, senza scollare gli
occhi dalle punte delle sue Hogan.
«Mi chiamo Marco», dice. «Mi chiamo Marco, faccio
il commercialista, e da due anni sono un Oreista».
Poi scoppia a piangere, nascondendosi il volto tra
le mani.

181
Bzzz---
L’americana Nabisco lancia gli Oreo nel 1912.
Due anni più tardi, problemi di approvvigionamento a
Sarajevo sono tra le cause scatenanti della Grande Guerra
Bzzz---

Allora anche gli altri si alzano e cercano di


sostenerlo. Chi una pacca sulla spalla, chi un
buffetto sulla guancia, chi gli scompiglia i capelli
con fare scherzoso. Un tipo magrolino con il ciuffo
emo gli porge un pacchetto di Tempo al mentolo.
«Tenga», gli dice. «Tenga: ché questi non fanno
arrossare il naso»
Resti seduto, con le mani nei tasconi della felpa.
Sotto il cartello rosa shocking ce n’è un altro, color
limone. Sopra c’è scritto: “Davvero”.
Poi il moderatore dell’incontro, Michel, spalanca le
braccia come un santone e rivolge a tutti un sorriso
benevolo, invitandoli a rimettersi a sedere.
Michel è uno che ce l’ha fatta. Chi ti ha dato
l’indirizzo di questo posto ti ha assicurato che
ne è fuori da oltre nove mesi. Qualcuno azzarda
addirittura che i mesi siano dieci. Senza mai una
ricaduta, un solo morso, una sola pucciatina nel
latte. Niente.
Uno tosto.
Quando tutti sono di nuovo ai loro posti, Michel
vi parla della forza di volontà, della determinazione,
della voglia di vivere. Tutti pendono dalle sue labbra
e lui sorride; ti guarda e sorride, ti sorride con
quell’aura da santo, ti sorride con quello sguardo
vivo, ti sorride con quegli occhi che a un certo punto

182
inizi a pensare sia un po’ ricchione, Michel.

Bzzz---
Saiwa, controllata come Nabisco dalla Kraft, importa
ufficialmente gli Oreo in Italia solo a partire dal 2008, in
seguito a violenti tumulti di piazza scatenati nelle maggiori
città italiane dal Nucleo Oreisti Armati
Bzzz---

La dottoressa Maria Dolores Pinzi, proprietaria


della Parafarmacia Pinzi: Tutto per l’Omeopatia,
racconta con il cuore in mano del suo matrimonio
naufragato.
«Non poteva capirmi», ricorda fissando un qualche
punto indefinito del soffitto parrocchiale. «Una volta
ero a casa e stavo male, accucciata in un angolo
della camera da letto. E lo stomaco urlava e cercavo
di cacciar via le lacrime e niente, non ci riuscivo,
quando mio marito rientra con le buste dell’Auchan
e mi sorride e allora io ci dico me li hai presi? Dimmi
che me li hai presi, ti scongiuro. Ma lui tira fuori una
confezione famiglia di Ringo alla Vaniglia e mi dice:
c’erano solo questi. Vanno bene lo stesso, vero?»
Un brivido corre veloce lungo la schiena di tutti i
presenti, mentre sulle loro facce si vanno dipingendo
espressioni di disgusto.
Sotto il cartello color limone ce n’è un altro ancora,
verde acido. Sopra c’è scritto: “Te lo giuro”.
La parafarmacista riprende il suo drammatico
racconto, ma viene colta all’improvviso da violenti
conati di vomito.
«Ce la puoi fare, Maria! Non mollare!», continua a
ripeterle Michel mentre la donna viene portata via a

183
braccia da Marco il commercialista e dal tizio emo,
quest’ultimo particolarmente attento a non farsi
inzaccherare la camicia nera.
«Tu sei più forte della dipendenza!», le dice Michel.
«Tu sei più forte!»
E quella, con i piedi trascinati sul linoleum come
un pupazzo, fa un gesto con la mano che forse vuol
dire “Ok”, forse vuol dire “Sì, ciao”. Una delle due.

Michel non si scompone e ti passa la parola.


Allora ti alzi in piedi, ti schiarisci la voce e prendi a
spiegare che a te la dipendenza in sé dagli Oreo non
è che crei tutti questi problemi, francamente.
Gli altri ti fissano sbigottiti.
Prosegui dicendo che, cioè, c’è di peggio degli
Oreo. Che c’è gente là fuori che fa uso di droghe più
pesanti, come l’eroina e il gelato Häagen-Dazs.
Gli altri continuano a fissarti sbigottiti.
Sotto il cartello verde acido ce n’è un quarto,
azzurro. Sopra c’è scritto: “Cioé, non è che ti stiamo
prendendo per il culo”.

Dici che a te non sarebbe mai passato neanche


per l’ingressosoggiorno del cervello di venire lì, a una
riunione di Oreisti Anonimi. Per di più in una serata
in cui c’era la Champions. Solo che ti è successa
questa cosa strana e hai avuto paura.
Michel allora ti interrompe, viene a poggiarti una
mano sulla spalla e ti dice: «Ci siamo passati tutti,
fratello. Conosciamo bene la natura del male. Stai
parlando della coazione a ripetere, dell’ossessione
di mangiarne ancora uno, e poi ancora un altro.

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Del continuare a mandar giù biscottini finché non
finiscono, vero?»
«No», rispondi tu. «Veramente stavo parlando del
fatto che gli Oreo mi fanno cagare verde»
Maria, in un angolo, ha smesso di vomitare e ha
preso pure lei a fissarti. Di lato, come Ratman.

Bzzz---
Tra il 1912 e il 1999 sono stati venduti 420 miliardi di
Oreo, il che lo rende il biscotto più venduto del XX secolo.
Dal computo sono ovviamente esclusi gli oltre 900 milioni
di biscotti inviati in Africa, nel 1985, grazie alla grande
iniziativa umanitaria “Oreo for Africa”, fortemente voluta
da Michael Jackson e Lionel Richie
Bzzz---

Allora spieghi che da quando sei entrato nel


tunnel degli Oreo hai questo problema delle feci
di colore verde. Verde intenso. E che sì, hai letto
su Wired che negli Oreo ci sono tante cose strane,
come il colore scuro che neanche chi li produce sa
da dove viene, o come dei micro tubuli superficiali
invisibili a occhio nudo che servono ad assorbire
il latte grazie al fenomeno della capillarità, ed è
probabilmente quello che provoca il tutto, solo che…
Ma vieni interrotto, e non ti permettono più di
parlare. Marco, Michel, il tizio magrolino, Maria e
altri due Oreisti Anonimi ti sono addosso e cercano
di bloccarti braccia e gambe.
«Tenetelo!,» urla Michel, mentre tu scalci come
un puledro. «Quest’uomo è all’ultimo stadio della
dipendenza e non se ne rende neanche conto!
Dobbiamo salvarlo! Tenetelo! Ahia! Cazzo, attenti!

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Commercialista, stringa più forte lei che c’ha il
fisico, porca miseria! Ahia! Tenetelo!»
Braccia e mani ti afferrano e ti tirano e ti manca
il fiato e ti prende l’ansia visto che sei pure un po’
claustrofobico. Allora rifili un calcio alla nuca al
tizio magrolino, che collassa al suolo privo di sensi,
e con il ginocchio assesti un colpo poderoso nel
fianco del commercialista, riuscendo così a liberare
il braccio destro. A quel punto prendi a mulinare
il pugno, assestando cazzotti a tutti, tah, diretti.
Quelli continuano a tenerti, e il pugno continua
a viaggiare e bam, centri la parafarmacista dritta
nel naso, costringendola a mollare la presa. Una
volta che anche il sinistro è libero, è un attimo darti
l’ultima spinta verso la libertà.

Bzzz---
100 grammi di Oreo, grazie alla saggezza dei grassi
idrogenati, ti regalano 470 chilocalorie d’amore. Come
un bello spaghetto alle vongole, ma senza il rischio di
schizzarti la camicia
Bzzz---

Cinque minuti dopo stai ancora correndo.


Sei sicuro di aver seminato i tuoi inseguitori
almeno all’altezza delle fontane di Piazza Europa,
ma non te la senti di girarti a controllare. Hai perso
una Vans nella fuga e il tallone sinistro ora ti fa un
male cane. Sei stanco. Hai un nervoso addosso che
guarda. Ma soprattutto hai di nuovo fame.
Ti fermi a riprendere fiato e ti accorgi troppo tardi
di averlo fatto giusto davanti alle porte automatiche
di un supermercato Iperspar. Porte che si spalancano

186
leggiadre per te con un fffftt.
Cerchi di non guardare all’interno, ti sforzi di non
farlo, ma poi lo fai e li vedi, i biscottini Oreo nelle
loro confezioni tutte blu e celeste, sullo scaffale dei
biscottini subito dopo il tornello per non far passare
le vecchie con i carrelli.
Li guardi, e sai che dovresti smettere, anche
perché quella gente nonostante tutto ti ha fatto
riflettere, e va a finire che quella roba, con tutti quei
micro tubuli superficiali, ti ucciderà veramente.
E allora ci pensi, ci pensi davvero: di darci un
taglio, di disintossicarti, di tornare pulito, di tornare
a essere padrone della tua vita.
Ci pensi. Per tipo tre secondi. Poi entri, te ne
compri sei pacchi di quelli grandi, e vaffanculo.

187
Alessandro Apreda è nato sulla costa di Cosenza
affacciata sul Pacifico, esattamente a metà degli anni
70. Responsabile editoriale dell’area videogame ed
entertainment di Edizioni Master (PlayGeneration,
Videogame.it, FilmReview.it), è stato editor di un
numero ragguardevole di riviste e ha progettato e
lanciato testate di culto quali Horror Mania, Thriller
Mania e Digital Japan. Scrittore di fantascienza
fallito a tempo perso, ha pubblicato con Fanucci
un racconto - vincitore del premio Spacewave -
nel volume omonimo, e con GG Studio la graphic
novel “Ethan?”, disegnata da Fabrizio Fiorentino e
distribuita anche negli USA.
Cura ad orari improponibili il blog più cool degli
ultimi seicentoncinquant’anni, l’Antro Atomico del
Dr. Manhattan (docmanhattan.blogspot.com), su
cui scrive di anni 80, fumetti, cose nerd, videogiochi,
cazzate. Crede fermamente negli Oreo, nelle Vans
slip on, nella Red Bull e nel secondo avvento della
Grande Inter. Questa biografia si concludeva fino
a un paio di anni fa con “Quando il lavoro non lo
spedisce in giro per il pianeta, a mangiare cose
improbabili, vive su al sud”, ma ultimamente si è
scocciato e viaggia pochissimo. Parlare di sé in terza
persona fa sempre molto calciatore fin de siècle.

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Foto di copertina: Pixmac

Finito di stampare il ventordici


di quaglio del nemilaerverci.

Elvis ha lasciato l’edificio.


Ma tipo da un sacco.

edizioni antro atomico


docmanhattan.blogspot.com

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