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LA FORESTA NELLA LETTERATURA/ DANTE

La foresta nella letteratura è un topos, ovvero una convenzione letteraria che si riproduce in vari testi e
rappresenta il luogo delle avventure dove confrontarsi con qualcosa di ignoto e imprevisto. È un topos infatti
anche il fatto che l’uomo debba affrontare delle prove. Si stabilisce allora una relazione tra protagonisti e luogo,
quest’ultimo quindi connaturato al testo. Tradizionalmente la foresta viene associata anche al mondo dei morti,
come accade nella Divina Commedia di Dante, in cui il protagonista, ovvero l’autore stesso, si ritrova
involontariamente a compiere un viaggio tra i 3 regni dell’al di là di cui, secondo il pensiero cristiano, 2 sono
eterni (l’inferno, regno dei dannati e il paradiso, regno dei beati) e uno è il purgatorio. Fin dall’inizio ci si pone il
problema di che carattere abbia questo viaggio: è un’esperienza reale o ha una dimensione immaginaria? Dal
momento che Dante utilizza la prima persona e quindi un carattere autobiografico, ciò dovrebbe essere la
garanzia della veridicità di questa avventura, di cui appunto Dante si fa il garante. Il realismo di Dante si crea
dall’insistenza dei dettagli nelle descrizioni; tanto più sono precise le descrizioni dei luoghi, tanto più è verosimile
ciò che racconta, dando quindi un senso di realtà.
Un predecessore di Dante fu Enea che, nel VI canto dell’Eneide scende nel mondo dei morti dove trova coloro
che lo avevano lasciato.
Dante recupera quindi tutte queste tradizioni e l’immagine della selva come luogo di transizione tra due
dimensioni, tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Predecessore di Enea, però, fu Ulisse, che per far parlare i morti deve dare loro da bere del sangue, elemento
che rappresenta la vita. Ma chi è che in realtà da di nuovo la voce alle anime? Lo scrittore.
Dante inizia il poema con un verso del profeta Isaia (a metà dei giorni della mia vita sono arrivato all’inferno).
Citando un profeta, anche Dante si propone come annunciatore di una grande verità che non è ancora stata
svelata e la Bibbia rappresenta infatti la rivelazione di una verità. Il problema della verità per Dante è centrale e
la letteratura diventa lo strumento. La Divina Commedia è infatti un poema didattico che vuole svelare la verità
anche attraverso la profezia e la poesia rappresenta lo strumento per trasmettere questa verità. Come diceva
Orazio, infatti, la poesia può mirare all’utile e al dilettevole e gli scopi devono essere entrambi: trasmettere la
verità in un modo piacevole, senza usare un linguaggio filosofico che può essere rivolto solo a pochi iniziati.
Dante è infatti attento al rapporto con il lettore, allo scopo di vincerlo a volt usa l’ironia e a volte si riferisce
direttamente ad esso. Trasforma la verità con le sue arti ma ha sempre funzione di realtà.
Uno scrittore argentino del ‘900, Jorje Luis Borges, riconducibile alla categoria dei racconti fantastici e autore di
vari saggi, tra cui troviamo “Finzioni” (J.L. Borges, Sette Notti, Milano, Feltrinelli, 1983), ci invita a riflettere su
cosa sia la finzione nella letteratura. Ci sono vie divergenti, alcuni vanno verso la realtà, che è comunque una
finzione, altri verso la fantasia. È una finzione reale, una realtà che è anche una finzione. Borges inizia “Finzioni”
dicendo che Paul Claudel (scrittore della fine dell’800) ha scritto una pagina indegna dicendo che gli spettacoli
che ci attendono dopo la morte non corrispondono a quelli di cui ha parlato Dante. Secondo Borges in questa
affermazione c’è una prova della forza del testo di Dante e la qualità del testo dice che Dante credeva in quel che
raccontava, credeva nei 3 regni e che esistessero nella forma in cui li descriveva. Non è quello che i lettori
pensano, ma quello che sentono, dice Borges rispondendo all’affermazione di Claudel in cui dice che il pensiero
di Dante non è lo stesso dei lettori. Entrano quindi in gioco e convergono tutte le sensazioni. Borges discute
l’affermazione di Paul Claudel dicendo inoltre che i figli di Dante (primi commentatori della Divina Commedia)
avevano un collegamento diretto con l’autore e in più l’epistola a Cangrande, che diventerà il protettore di
Dante, in cui quest’ultimo parlava del suo testo spiegandone il titolo, la struttura, gli obiettivi che si proponeva e
quali erano i livelli di significato, affermando che esistono 4 livelli di lettura e quello principale è quello letterale-
storico, il viaggio concreto di Dante. Partendo dalle parole dell’autore possiamo arrivare poi agli altri significati,
tra cui quello allegorico (Virgilio=ragione, Beatrice=fede), che è universale, e quello didattico. Dice anche che i
lettori nel tempo moltiplicano i sensi possibili della commedia portando così la letteratura a essere di tipo
polisemico. C’è verità letteraria, c’è verità storica. È una finzione storica, un paradosso, elementi
apparentemente in contrasto e così Dante ci porta a riflettere.
Borges affronta quindi nel suo saggio la verità della letteratura, la verità della finzione. Si può definire questo un
ossimoro, un’espressione in cui vengono legate insieme due parole che si negano, due termini opposti che ci
invitano a riflettere su contraddizioni reali. La letteratura è infatti un mondo creato artificiosamente con la
fantasia, ma ha anche una sua verità ed è attraverso la sua esperienza di verità che la letteratura continua a
parlarci. Attraverso la Divina Commedia, Dante prende un impegno in prima persona dicendo in un certo senso:
“State attenti che se no finite così”, affrontando realtà accadute e personaggi reali. Borges afferma che Dante
non voleva certo rappresentare come sicuramente è la vita dopo la morte, ma bisogna partire dall’idea che il
racconto sia vero per potersi immergere completamente. Possiamo anche pensare quindi che lo stesso Dante
non ci credesse ma perché dobbiamo privarci dell’immedesimazione, che è il modo più diretto per entrare nel
testo? Per leggere Dante è necessario accettare la realtà della commedia, lasciando da parte l’apparato di
erudizione, la critica.
Alla radice della poesia narrativa c’è l’epica (poesia oggettiva che racconta dei fatti,a differenza di quella lirica
che rappresenta la soggettività dl poeta). Il racconto di Dante ha quindi, come quelli epici, una concatenazione
temporale, un inizio, uno svolgimento e una fine. Affermando ciò, Borges ci riporta allora, tanti elementi
costitutivi della Divina Commedia, tra cui anche le allusioni a parole e versi interi di Virgilio, in un certo senso
anche migliorandoli. Ne è un esempio il dialogo tra Dante e il conte Ugolino, in cui l’autore riprende un verso del
dialogo tra Didone ed Enea nel IV libro dell’Eneide. [“Infandum regina iubes renovare dolorem” che in Dante
diventa “Tu voi ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme”].
In verità però i dannati vogliono parlare con Dante, cosicchè il dolore trovi modo di esprimersi e possano in un
certo senso difendersi. Inoltre c’è ovviamente la curiosità del fatto che Dante è un vivo tra i morti e questo fa si
che i dannati vogliano parlare con lui.
Dice Borges che ci si ritrova nel racconto della Divina Commedia in un modo quasi magico, quasi come in una
fiaba. “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura…”. L’espressione “Mi ritrovai” indica
una percezione quasi improvvisa e l’espressione “Nel mezzo del cammin di nostra vita” indica un tempo preciso,
vale a dire a 35 anni, e quindi nell’anno 1300. Non parla in retorica ma indica un luogo preciso e la data esatta
della visione, che nella realtà dovrebbe durare poco tempo e ciò ci fa intuire che la percezione temporale è
diversa. La visione fu allora per Borges volontaria, perché ci sono molte descrizione precise in un lasso di tempo
molto corto, quale è quello della visione. In Finzioni il saggista introduce anche la battuta di Samuel Taylor
Coleridge, che condensa il tema del rapporto tra realtà e finzione poetica sostenendo che la fede poetica è una
sospensione volontaria dell’incredulità, cioè la fede in quello che noi leggiamo richiede che sospendiamo
volontariamente l’incapacità di credere, in quanto non serve a niente dire che non ci crediamo. Per Borges Dante
abbandona la realtà volontariamente. Se allora la visione è volontaria per entrare in contatto con questo mondo
dobbiamo accettarne le leggi; lo facciamo con il teatro, con il cinema e dobbiamo farlo anche con la letteratura.
Sappiamo che è finzione ma dobbiamo sospendere volontariamente la nostra incredulità.
La Divina Commedia è una storia oggettiva i cui fatti passano però per la visione di Dante, riportato appunto in
prima persona. Dante è uno dei personaggi del racconto, introduce sé stesso come personaggio. A questo
proposito Borges chiama in causa Sant’Agostino come antecedente dell’uso della prima persona ne Le
confessioni. Nel caso di Agostino però, la componente retorica invece di avvicinare i lettori, li allontana. Quando
ci si trova infatti davanti ad un testo che necessita di una lettura allegorica, questa non può annullare quella
letterale e in certo senso quella allegorica, che si concentra appunto più sulla parola che sul contenuto. La
retorica in sé infatti, per Borges non è un male, ma a volte diventa eccesso e interferisce troppo
frequentemente, come in Sant’Agostino. La retorica infatti dovrebbe essere un ponte secondo il saggista, un
cammino che consenta di superare gli ostacoli; le figure retoriche dovrebbero avere la funzione di stupire e
sorprendere: quanto più è nuova, tanto più ci colpisce.
Parlando dei personaggi della Divina Commedia, Borges descrive Virgilio come colui che si incarica a
corrispondere a tutte le ansie di Dante, il quale è pieno di paura durante il suo viaggio. Vi è quindi un rapporto
intimo tra Virgilio e Dante, del quale Borges non parla come autore, ma come personaggio. Tutto è visto
attraverso di lui, attraverso ciò che vede e ciò che descrive trasformando la percezione attraverso il senso della
vista, in testo scritto.
Nel racconto Dante deve discendere all’inferno non per mancanza di paura, ma per poterci far credere in ciò che
dice. Possiamo arrivare a dire quindi che la verità sta dentro le parole, è la retorica che permette di cogliere la
verità e questa retorica non comprende solamente le figure che compongono il testo, ma è qualcosa di più che
costruisce tutto questo mondo.
Dante rappresenta i personaggi in un’altra dimensione, in cui questi sono bloccati per sempre. Si stabilisce un
rapporto singolare tra il passato e un presente che è eterno, causando la mancanza effettiva di un futuro.
Quando si parla di eternità, però, non ci riferisce ad un’eternità divina, ma all’eternità della parola, è infatti
attraverso il racconto di questi personaggi che loro stessi prendono vita nel testo, spiegandoci la loro esperienza
e continuando allora a vivere e a rinnovarsi nella memoria dell’uomo. Borges ci ricorda nel suo saggio due
esempi, il primo è quello del canto V, dove si parla di Francesca e Paolo.
Dante e Virgilio arrivano al II cerchio dell’inferno e lì vedono un campanello di anime, sentendone il lezzo del
peccato. Ci sono condizioni fisiche disgustose e ciò si rispecchia nello stile e nella forma del testo dantesco. Tra i
peccatori lussuriosi più illustri, tra cui Cleopatra, ce ne sono due meno famosi, Paolo e Francesca, che
appartengono al mondo contemporaneo di Dante (all’inferno i tempi si soprappongono: accanto a personaggi
del mondo più antico ce ne sono altri di tempi più vicini). Dante paragona i due a colombe desiderose. Le
colombe infatti sono animali peccaminosi e sensuali secondo la tradizione. A Dante si avvicina Francesca, che è
l’unica a parlare, e lo ringrazia per averli chiamati, dicendo: “se fosse amico il re dell’universo (dio), noi
pregheremo lui della tua pace perché sei l’unico che ha pietà del nostro male”. Francesca racconta due volte la
sua storia e nella prima dichiara di amare ancora Paolo, ma questo amore li condusse alla morte, di cui non però
non si pente. L’amore infatti è il momento in cui il peccato avviene, poi vi è la morte, il castigo ultraterreno. A
Dante però non interessa l’adulterio, ma qualcosa di più intimo, gli interessa come sono arrivati ad innamorarsi,
come giunse il tempo dei dolci sospiri. Francesca gli racconta allora la causa scatenante che ha messo in moto il
tutto. Un giorno, leggendo per diletto i romanzi cavallereschi insieme, erano soli e senza alcun sospetto di essere
innamorati. Fu questa storia di cicli bretoni a rivelar loro l’amore che li legava e a farli arrossire. Erano senza
sospetto ma possiamo dire che comunque questo amore era già tenuto in un certo senso sotto controllo. Nel
momento in cui, procedendo nella storia, si era arrivati al bacio, momento in cui l’amore si compie, lo stesso
gesto era stato compiuto da Paolo. Vi è qui una sorta di proiezione della loro storia dentro un universo
leggendario delle storie cavalleresche.
C’è dell’altro però che Dante non dice. Dante ci rivela il destino dei due amanti e si può percepire che egli
invidiava questa sorte, secondo Borges, di essere condannati a vita eterna, ma essendo sempre insieme, in un
destino condiviso. Alla morte insieme (tema tipico dei miti come in Tristano e Isotta), Dante aggiunge il destino
ultraterreno insieme. Colpito dalla storia perché anche lui deve fare i conti il proprio peccato d’amore, Dante
viene toccato dalla retorica efficace delle parole di Francesca, la quale dice “noi” parlando anche per il suo
amato, un altro modo per stare insieme e secondo Borges, per Dante è quasi meglio questa visione dell’inferno,
questa unione, che il paradiso. L’emozione, infatti, sovrasta Dante, il quale non riesce a controllare le sue facoltà
e cede come un corpo morto. È qui che allora Borges fa un pensiero generale sull’uomo, il quale, secondo il suo
pensiero, si definisce in un attimo solo, quello in cui si abbandona a sé stesso, affermando infine che bisogna
leggere la Divina commedia con le sensazione di un bambino, confrontandosi in seguito con le conoscenze dei
riferimenti letterari con cui Dante si confrontava. Occorre abbandonarsi ad essa e poi questa ci accompagnerà
per tutta la vita.

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