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LETTERATURA LATINA

27/09/2022

LUCREZIO
Lucrezio è un autore che permette di avvicinare un’altra fase della poesia romana, completamente diversa rispetto a
quella di Catullo: la poesia filosofica, dalla quale deriva anche la complessità di quest’autore.

L’unica opera lucreziana rinvenutaci è il DE RERUM NATURA, “Riguardo alla natura delle cose”, un poema epico
didascalico d’argomento filosofico e unico componimento in esametri a noi integralmente giunto.

IL CONTESTO STORICO del I secolo d.C.


Il punto di partenza è cercare di capire come viene vissuta la filosofia nell’età di Catullo, Cesare, Cicerone e Sallustio.
Il I secolo d.C. è l’epoca della fine della res publica, dominata dalla fine delle guerre civili. Rispetto a Cesare, Cicerone
e Sallustio che si applicano in prima persona alla vita politica, Lucrezio e Catullo ne sono totalmente slegati.

 Catullo: la scelta di dedicarsi alla composizione di poesie è dettata dall’otium letterario e dall’amore come
scelta di vita
 Lucrezio: la scelta che compie è di perfezionamento filosofico e distacco dalla pratica politica come scelta di
vita

L’epoca che Lucrezio vive è un’epoca di crisi e cambiamento: le guerre civili tra Mario e Silla durante la dittatura
sillana portano come conseguenza l’ascesa di Cesare e Pompeo. Dopo essersi uniti nel Primo Triumvirato (accordo
privato) con anche Crasso, i primi due si fanno una guerra civile che culmina nella battaglia di Farsalo del 48 a.C.,
dove Pompeo muore e Cesare diventa console. Alle Idi di marzo del 44 a.C. Cesare viene ucciso, ponendo fine alla
dittatura. In questo modo, comincia una nuova fase di contrapposizioni con il Secondo Triumvirato (accordo
pubblico), stipulato tra Ottaviano Augusto, Marco Antonio e Marco Emilio Lepido. La tensione politica, però, portò
Antonio e Ottaviano allo scontro, avvenuto nel 31 a.C. ad Azio. Qui Ottaviano, dopo la vittoria, sbarcò in Egitto:
Antonio si uccise, lasciandosi cadere sulla spada fitta in terra dalla parte dell'elsa. Così l’ultimo regno ellenistico,
l’Egitto, entra nell’orbita romana, guidato da una dinastia in parte faraonica e in parte greca.

Mentre da una parte è un’età di crisi politica, dall’altra è un’età di prosperità economica e grande fermento: c’è da
una parte l’idea di ricchezza e potere, motore universale per i grandi uomini del tempo, ma dall’altra la caduta dei
valori del civis e del mos maiorum.

LA FILOSOFIA: L’EPICUREISMO
In quest’epoca si diffondono principalmente filosofie nate nell’ellenismo, poiché la religione antica è narrativa, cioè
risponde ai bisogni della narrazione e della spiegazione, ma non all’intimo bisogno di rassicurazione dell’uomo per
avere risposte alla crisi di valori che si sta verificando.

Ecco che allora le filosofie ellenistiche, pur essendo filosofie e non religioni, si occupano della crescita PERSONALE
attraverso codici di comportamento che insegnano a vivere, essere migliori e rapportarsi alla complessità del mondo
→ si occupano principalmente dell’etica piuttosto che della gnoseologia.

Le filosofie ellenistiche che si diffondono maggiormente sono STOICISMO ed EPICUREISMO:

 Stoicismo: è la filosofia che ha tratti più simili al mos maiorum, perché tutto è costruito sul senso di
responsabilità del saggio nei confronti della comunità umana, rispecchiando la responsabilità del civis nei
confronti della res publica.
 Epicureismo: si diffonde moltissimo influenzando poeti come Catullo, Ovidio e Orazio. Questa filosofia nasce
dall’insegnamento di Epicuro e ha alcune caratteristiche qui riassunte:

1
 L’insegnamento dell’epicureismo ha come centro la Campania felix, dove sono concentrate le scuole
private epicuree, destinate agli adulti.

L’AVVERSIONE DEL CETO ROMANO CONSERVATORE

È contrario al mos maiorum, quindi trova AVVERSIONE DA PARTE DEL CETO ROMANO IN GRAN PARTE
CONSERVATORE (tra cui Cicerone, che lo considerava una filosofia pericolosissima poiché distraeva i giovani
dall’apprendimento attivo e dall’impegnarsi attivamente nella politica); infatti, dice λάθη βιώσας, “vivi nascosto”,
precetto che, però, non piace a un civis conservatore, in quanto membro conservatore della classe dirigente attiva
politicamente e sempre alla ricerca del consolidamento della propria visibilità, potere e ricchezza. Coloro che
aderiscono all’epicureismo, invece, sono mossi da questo precetto, secondo il quale a loro non importa di potere e
ricchezze, ma solo di una vita dedicata a valori più tangibili, come amicizia, amore e poesia.

IL FINE DELL’EPICUREISMO

Si diffonde a macchia d’olio, poiché mette al centro l’INDIVIDUO e la sua ricerca personale in un percorso filosofico
di miglioramento di se stesso indipendentemente dai disturbi che lo legano al mondo circostante.

Ciò che permette all’epicureismo di diffondersi nonostante gli ostacoli posti dalla classe dirigente è la RICERCA DELLA
FELICITÀ attraverso la ricerca attiva del piacere (ἡδονή). In sé, però, ha il rischio di diventare una giustificazione per
la ricerca degli eccessi (cibo, soldi e sesso): questo è quello che fa una certa gioventù romana disillusa dalla
decadente politica (pervasa da omicidi, lotte, agguati, liste di proscrizione, etc.), stessa gioventù stigmatizzata da
Cicerone (che poi morirà in maniera violenta, con mani e testa esposte sui rostri). Dunque, in realtà è una filosofia
molto più costruita, organizzata e profonda, rispetto all’interpretazione semplicistica e banalizzata che si diffonde, la
quale vede semplicemente un filosofo alla ricerca del piacere.

È una vita giocata sul PRESENTE (non a caso, l’aggettivo epicureo oggigiorno è utilizzato per indicare qualcuno che
vuole vivere il presente senza preoccuparsi del resto).

L’ATOMISMO

È una filosofa basata sull’ATOMISMO: in natura (φύσις), i princìpi materiali, gli atomi, si aggregano e disgregano nel
vuoto, suscitando così la vita dei vegetali, degli animali, dell’uomo e del cosmo. La visione epicurea della realtà,
dunque, è di tipo MATERIALISTICO con una forte componente MECCANICISTICA, poiché la scienza è in grado di
cogliere le leggi e i meccanismi che regolano questi movimenti.

Viene, dunque, del tutto esclusa la presenza di un Dio creatore che teologicamente aspetti l’uomo alla fine della vita
per dargli premi o punizioni.

Dal momento che con la morte viene meno ogni capacità percettiva (data l’assenza della preesistenza e della post-
esistenza di una componente spirituale rispetto a quella corporale), quando essa giunge, noi non ci siamo più, ed
essa è dunque un fatto che non ci riguarda → la MORTE NON ESISTE nella filosofia epicurea.

Anche l’ANIMA, così come il corpo, è fatta da atomi → anch’essa, dunque, non sopravvive al corpo; quindi, se c’è la
morte, né corpo né anima sopravvivono, e non c’è dunque possibilità di sofferenza.

LE DIVINITÀ

Gli dèi, pur sempre costituiti da principi atomistici, hanno caratteri di maggiore STABILITÀ: così come le immagina
Epicuro e come le riprende anche Lucrezio, hanno sia tratti di somiglianza con mito, che tratti di differenza.

Sono esseri IMPERTURBABILI che vivono nell’intermundia, pienamente AUTOSUFFICIENTI:

 ἀταραξία, “mancanza di sofferenza”


 ἀπονία, “mancanza di fatica”
 αὐτάρκεια, “badare a se stessi”

Ciò che li contraddistingue dagli dèi del mito è questo, poiché essi (quelli del mito), invece, fanno tutte le cose degli
uomini ma al MASSIMO GRADO.
2
IL QUADRIFARMACO EPICUREO

In realtà è tutto molto più complesso, perché tutto


parte dal Τετραφάρμακος (QUADRIFARMACO),
secondo il quale la ricerca della felicità e la
possibilità di ascendere e compiere questo
percorso passa attraverso la sconfitta delle grandi e
bloccanti paure dell’uomo (→ per questo questa
filosofia ha facile presa sia su persone colte, dotte e
preparate che su persone semplici appartenenti
alla plebe).

1. La paura degli dèi: gli uomini non devono temere gli dèi, perché essi non sono vendicativi; anzi, se ci sono,
vivono nell’intermundia, dove gli uomini e le vicende loro riguardanti non li toccano minimamente
2. La paura della morte: è la paura più grande, dolorosa e paralizzante dell’uomo. Epicuro spiega l’inutilità di
questa paura attraverso la teoria atomistica: l’universo è formato da atomi che, aggregandosi e
disgregandosi in modo perenne, portano alla creazione di tutti gli enti fisici tangibili (la realtà della φύσις).
Dunque, sostanzialmente, la morte corrisponde con la disgregazione dei corpi, quindi non è un male
3. La mancanza del piacere: il piacere è uno dei fini dell’epicureismo, non solo nella sua accezione sensoriale,
ma anche in quella di αὐτάρκεια, ovvero la capacità di essere autosufficienti, senza dipendere dai
condizionamenti esterni. Si tratta di una condizione di assenza di dolore, dove si è consapevoli del fatto che
tutto ciò che riguarda la fisica è transeunte (cioè dinamico, di passaggio)
4. Il dolore fisico: gli epicurei credevano che, per natura, la malattia e il dolore non causano sofferenza per
molto tempo, poiché la sofferenza e il dolore sono "brevi o cronici ... o lievi o gravi”, ma il disagio che è sia
cronico che grave è molto raro; quindi, non c'è bisogno di preoccuparsi della sofferenza. Perché "la felicità è
facile da raggiungere", riconoscere i propri limiti fisici e mentali e la soglia del dolore e rimanere sicuri che il
piacere segue sempre il dolore (ed evita l'ansia per il dolore) è la cura contro la sofferenza prolungata.
Dunque, il dolore è una delle tappe verso il piacere

Il De rerum natura si occupa del quadrifarmaco, in particolare dei primi due punti, riguardanti la paura della divinità
e della morte.

LA PRESUNTA PAZZIA
Sulla biografia di Lucrezio abbiamo pochissime informazioni, tutte essenziali ma anche un po’ PROBLEMATICHE. In
particolare, il focus più interessante riguarda la notizia di una presunta pazzia dell’autore, definito folle. Molti studi
approfondiscono questo tema, consapevoli del fatto che quasi sempre, quando nell’antichità si parla di pazzia, si
tratta di forme di depressione patologica (catalogata come pazzia poiché innesca comportamenti fuori dalla norma,
non ubicabili in categorie conosciute). Ci sono tre plausibili teorie:

1. Lucrezio soffriva di una depressione patologica


2. Gli autori cristiani che lessero Lucrezio trovarono queste affermazioni così lontane e diverse dai dettami del
cristianesimo e dalla struttura della vita dell’uomo che hanno attribuito a Lucrezio una pazzia intellettuale,
ovvero il dare corpo a idee non in linea con il cristianesimo
3. La sua vita così ritirata che lo porta a non avere quasi nessuna informazione sulla sua stessa vita (anche da
parte di autori che lo conobbero e lessero sue cose, come Cicerone) potrebbe essere un altro motivo che ha
spinto gli autori successivi a definirlo pazzo

3
DE RERUM NATURA
UN POEMA EPICO DIDASCALICO ESAMETRICO

Il De rerum natura è un POEMA EPICO DIDASCALICO D’ARGOMENTO FILOSOFICO, avente come modello:

 la poesia epica greco-romana


 la poesia didascalica ellenistica, che ha come fine l’insegnamento

La differenza rispetto alla poesia epica tradizionale deve essere evidente: non può essere un’epica trionfale e
celebrativa, perché la matrice filosofica deve essere evidente. Dunque, prende come modello la poesia epica
tradizionale privata del suo tono più trionfale.

Anziché mettere in poesia argomenti d’amore o argomenti civili, mette in rima argomenti in grado di DESCRIVERE
COME FUNZIONANO LE COSE (racconto della natura, del funzionamento di un fenomeno fisico, di una materia
specifica legata a una professione o a un lavoro dell’uomo; in questo caso si tratta di un percorso filosofico e di tutto
il suo procedere logico-argomentativo). Questo è permesso perché l’abilità del poeta non stava solo nello scrivere
poesia, ma anche nella poesia didascalica, che rappresentava un livello altissimo sia del poeta che la compone che
del fruitore della poesia (poiché il contenuto non è di semplice intrattenimento).

La poesia didascalica, dunque, è un genere massimo perché unisce:

 la difficoltà del genere poetico


 la difficoltà di una disciplina tecnica da rendere in modo poetico

I maestri di questo genere sono i poeti ellenisti: è poesia in greco fruita, però, anche dai colti romani e in tutto il
Mediterraneo (lo stesso Cicerone ne aveva tradotta dal greco).

LO SCOPO DELL’OPERA

Lo scopo dell’opera è quello di liberare l’uomo dalla paura e diffondere il messaggio di Epicuro, che viene
rappresentato come un eroe della salvezza, eroe civilizzatore.

LA SCELTA DELLA POESIA: METODO LOGICO-ARGOMENTATIVO

Lucrezio ha proprio scelto la POESIA esposta tramite metodo logico-argomentativo, stigmatizzata invece
dall’epicureismo dicendo che è un’arte che non si addice al poeta, per far conoscere la filosofia epicurea. Per lui,
infatti, la poesia è come il miele spalmato sul bordo del bicchiere per indurre i bambini a sorbire l’amara medicina →
Lucrezio intuisce che la complessità della materia filosofica tramite la poesia può essere resa più attraente e gradita
a un pubblico romano colto diffidente nei suoi confronti. Era consapevole di fare qualcosa di nuovo, ma era
altrettanto consapevole del suo valore di poeta e conoscitore e fruitore della filosofia. La sua è una scelta
consapevole, che si deve inquadrare nella volontà di andare a convincere un lettore romano incuriosito ma scettico
in una Roma in cui l’epicureismo si sta diffondendo male, con equivoci e una banalizzazione del messaggio di
Epicuro.

Importante è l’argomentazione tratta dal sistema filosofico: il METODO LOGICO-ARGOMENTATIVO esprime il


concetto di necessità e inevitabilità (necesse est); in questo modo, si spiega anche l’uso del sillogismo al posto della
metafora e dell’analogia, che permette di istituire un confronto tra due concetti e renderli più semplici e
comprensibili.

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04/10/2022

LA STRUTTURA

Il De rerum natura è un’opera suddivisa in sei libri raggruppabili in tre diadi:

1. I primi due libri trattano la fisica


2. I secondi due libri trattano l’antropologia
3. I terzi due libri trattano la cosmologia

La parte finale di ogni diade è caratterizzata da immagini negative, angosciose, forse in contrapposizione con
l’ottimismo dei corrispondenti inizi.

L’opera è preceduta da un solenne proemio generale, il cosiddetto “Inno a Venere”.

 Elogi di Epicuro all’ inizio dei libri I, III, V e VI


 Elogio della sapienza all’inizio del libro II
 Dichiarazione poetica all’inizio del libro IV in cui Lucrezio esalta la novità della propria poesia

I libri III e IV trattano di tutto ciò che riguarda l’uomo, grande cuore della filosofia epicurea dal punto di vista
dell’antropologia

Il tema dell’amore, come anche quello della morte, è trattato con uno spirito completamente diverso rispetto a
quello a cui siamo abituati, perché lo affronta sotto il profilo del pericolo che esso stesso rappresenta per il filosofo
epicureo. Epicuro, infatti, sostiene che, dal punto di vista della fisica, esistono piaceri:
 naturali
 non naturali
 necessari
 non necessari

L’amore nella sua componente fisica è un piacere naturale ma non necessario (tranne che per la riproduzione, che è
naturale e necessaria): in sé è un legame che porta alla sofferenza e spezza l’αὐτάρκεια; il filosofo, infatti, sa di non
possedere nulla di fisico che sia perenne (→ tutto è di passaggio), quindi il fatto di essere troppo legato a qualcosa lo
priva della necessaria indipendenza per lavorare sul perfezionamento della sua anima.

LA LINGUA

Fino a Seneca non esistono filosofi originali ma solo divulgatori. Quando Lucrezio inizia a scrivere, la lingua ufficiale
della filosofia era il GRECO, e nessun filosofo aveva ancora iniziato a scrivere in LATINO. Questo ha delle significative
conseguenze, poiché manca una lingua tecnica della disciplina.

La scelta che opera Lucrezio è in una linea diversa rispetto a quella di Cicerone:

 Cicerone inizia a scrivere filosofia a partire dal 46 a.C. perché ci sono due eventi che lo allontanano dalla vita
attiva portandolo a scrivere e raccontare (in prosa, come divulgatore) filosofia: la vittoria di Cesare durante la
battaglia di Farsalo (48 a.C.) e la morte prematura della figlia Livia per parto → crea una lingua per la PROSA
filosofica
 Lucrezio inizia a scrivere filosofia con l’intento educativo-didascalico → crea una lingua per la POESIA
filosofica

La LINGUA DI LUCREZIO si attiene al registro sublime della poesia, scegliendo di adattare uno STILE ALTO anche
grazie all’abbondante uso di figure retoriche, ma che non esageri con i neologismi nel lessico. Spesso, per rendere
concetti troppo complessi, utilizza parole latine risemantizzate oppure perifrasi → un esempio è dato dal concetto
greco di ἡδονή, reso in latino con una serie di diverse parole (cupiditas, suavitas, voluptas, etc.).

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Vanno in questa direzione:

1. Arcaismi linguistici: di sapore enniano, come il genitivo femminile singolare della prima declinazione in -ai,
l’infinito passivo in -ier, il prefisso indu- per in- e molte altre forme
2. Termini composti: di tradizione omerica ed enniana, erano diventati elementi di stile propri dell’epica. Per
esempio, anche nell’Inno a Venere si vede la presenza di parole composte che servono per fare valore
semantico alla parola ma, allo stesso tempo, elevare lo stile
3. Aggancio al lettore/discepolo: colui che fruisce questo tipo di poema viene continuamente chiamato in
causa affinché non perda l’attenzione tramite l’uso del tu
4. Ampie perifrasi: di derivazione epica

La LINGUA DI CICERONE, invece, è completamente diversa, poiché punta alla comunicazione utilizzando un registro
medio-alto → invece di utilizzare perifrasi e arcaismi, punta a una lingua che sia chiara e completa; per farlo,
necessita della creazione di neologismi → essendo uno scrittore di prosa, la sua azione sulla lingua punta meno allo
stile sublime ma a uno stile che porti una comunicazione chiara e corretta.

LO STILE

Per quanto concerne lo STILE, invece, l’eredità epica si concretizza soprattutto nell’uso di:

1. Figure retoriche di suono (tra le quali primeggia l’allitterazione) che si intensificano in momenti di
particolare enfasi
2. Apostrofe: con uso frequente nelle invocazioni, è lo stile del tu che viene applicato per fare in modo che
colui che fruisce questo tipo di poema venga continuamente chiamato in causa affinché non perda
l’attenzione)
3. Anastrofe: inversione dell'ordine abituale di due parole di un gruppo

LA METRICA: L’ESAMETRO

Il metro utilizzato è l’ESAMETRO, metro dell’epica tradizionale importato a Roma da Ennio (l’epica tradizionale
comprende tutto il patrimonio epico greco di Iliade, Odissea e νόστοι, ma anche tutta l’epica latina arcaica di Nevio,
Ennio e Livio Andronico).

Fino a quel momento, nessun autore aveva “sgrossato” questo verso: con Lucrezio, che opera durante lo stesso
periodo dei poetae novi, ne avvengono il suo PERFEZIONAMENTO e MODERNIZZAZIONE tramite una trasformazione
dal punto di vista della qualità artistica, anche grazie alla variazione nel numero delle sillabe, che porta a un NON
perfetto equilibrio delle parti (mentre prima l’esametro enniano era molto arcaicizzante sia dal punto di vista del
ritmo che del lessico rigido). Così modificato, l’esametro lucreziano rappresenta una mediazione con l’esametro
virgiliano (nel quale c’è davvero fluidità e scorrevolezza).

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18-21/10/2022

IL PROEMIO: L’INVOCAZIONE A VENERE, De rerum natura, Lucrezio, testo T1 pag. 327


Il proemio ha al suo interno tutte le caratteristiche essenziali del linguaggio di Lucrezio:

1. È un testo poetico didascalico appartenente alla tradizione greca della poesia epica, dove l’opera letteraria
doveva aprirsi con un’invocazione alla divinità tramite un proemio che doveva contenere:
 L’invocazione alla Musa o alla divinità, come già detto, per chiedere l’assistenza nella composizione
 Una sommaria indicazione del contenuto dell’opera
 Una dedica, possibilmente; fra i tre elementi, è quello accessorio a scelta dell’autore (NON si troverà una
dedica nella letteratura libera di un letterato indipendente, ma la si troverà dove un letterato ha uno
stretto rapporto con un signore)
2. Ci sono una serie di elementi tipici che permettono di comprendere le scelte linguistiche di Lucrezio, che
fanno prevalentemente riferimento a:
 Arcaismi: servono per dare solennità e innalzare il tono del testo
 Parole composte: sono un rimando abbastanza significativo alla poesia latina tradizionale (ai grandi poeti
epici come Ennio e Pacuvio, fondatori di questo genere epico a Roma)

La prima cosa che stupisce è che un’opera che vuole essere un invito razionale a seguire una filosofia, sia invece
concepita immediatamente come dedicata a Venere, cioè una divinità del pantheon tradizionale. Apparentemente
questa è una contraddizione, ma in realtà è una scelta consapevole e molto lucida: la poesia serve sia per dare
dignità letteraria alla materia filosofica, che per dare dignità letteraria al testo attraverso non una Musa ma la dea
Venere.

Secondo il pensiero del maestro Epicuro, gli dèi risiedono beati negli intermundia, imperturbabili e insensibili alle
invocazioni umane; nello stesso tempo, però, Lucrezio sa di non potere rifiutare l’esigenza di continuità con il genere
letterario → supera questa contraddizione lasciando a Venere SOLO L’ASPETTO ESTERIORE DELLA DIVINITÀ
TRADIZIONALE, olimpica → Venus diventa la rappresentazione più immediatamente comprensibile di un concetto
che altrimenti sarebbe soltanto astratto e filosofico. Allo stesso tempo, Venere è definita:

1. Aenaedum genetrix: viene definita come capostipite dei Romani che Lucrezio voleva guarire in questo
patriai tempore iniquo con la dottrina filosofica di Epicuro
2. Hominum divumque voluptas: dove il termine latino voluptas (ma anche suavitas) viene aassociato da parte
dei maestri epicurei della Campania al termine greco di ἡδονή, inteso come beatitudine derivante da un
perfetto equilibrio
3. Alma: “che nutre, che dà la vita”; identifica Venere come forza vivificante della natura, quasi un’allusione
alle forze che producono l’aggregazione degli atomi. È un aggettivo che rimarrà poi nella liturgia cattolica
riferito alla Madonna, che indica sia il “nutrire” che il “rispetto” e il “candore” → è un aggettivo tipico della
matrona nei confronti della quale si deve particolare rispetto

L’ARETOLOGIA DI VENERE

Nell’esordio solenne di questo proemio, Venere viene definita come genitrice degli eneidi. Comincia, in seguito,
un’ARETOLOGIA della divinità (da ἀρεταί, “virtù): gli inni tradizionali iniziavano sempre con l’indicazione delle
prerogative delle divinità stesse, cioè i loro campi di azione e le loro caratteristiche. Le ἀρεταί di Venere, cioè le sue
virtù, fanno riferimento alla sua capacità di portare il ciclo continuo della primavera e della vita → diventa la
rappresentazione fisica concreta dello spirito che pervade la natura permettendo alla terra di rigenerare sia gli esseri
viventi che il mondo vegetale, soprattutto in primavera. C’è una visione del creato e del mondo in cui ogni elemento
si rigenera (e quindi non muove mai definitivamente) grazie allo spirito istillato da Venere, che diventa PRINCIPIO
COSMICO e PRINCIPIO STESSO DELLA PRIMAVERA (viene identificata nella brezza del Favonio, vento primaverile
corrispondente allo Zefiro, che porta sia gli animali che i vegetali a risvegliarsi).

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LE VICISSITUDINI

Mentre prima viene affrontato il mondo animale, si passa a quello vegetale, o comunque a una VISIONE COMPLETA
DEL MONDO, in cui non vengono citate nel dettaglio le creature fluviali o sottomarine ma comunque i mari e i fiumi
→ è come se Lucrezio comprendesse terra, cielo e corsi d’acqua.

Da notare è che l’uomo parla al Dio dandogli del tu → instaura un dialogo tramite il quale vuole iniziare un percorso
in cui la divinità protegga l’uomo stesso.

Nei 3 elementi fondamentali di un proemio, dopo l’invocazione alla Musa (con l’invocazione a Venere) e l’indicazione
del contenuto (non ancora trovata), c’è la DEDICA A MEMMIO (definito con il patronimico di discendente dei
Memmi), personaggio politico e protettore di arti e artisti (compreso Lucrezio) del tempo, uno di quei personaggi che
la storia ha cancellato perché quell’epoca è passata alla storia come epoca di Cesare, Cicerone e Catone. Nella sua
dedica, viene enfatizzato il suo ruolo, ma soprattutto le sue qualità, sulle quali si insiste.

La fine dell’invocazione si trova al verso 28, dove c’è una parola già trovata al verso 15 (LEPORE) ma qui utilizzata in
abbinamento a un altro concetto: il CONCETTO DELLA POESIA ETERNATRICE per il poeta, presente nel mondo greco-
romano a partire da Omero (è già nell’Iliade che, per la prima volta, Elena dice a Ettore e Paride che le loro vite e le
loro disgrazie saranno rese nel tempo immortali → è consapevole che la poesia riesce a rendere eterno ciò che non
lo è).

Qui questo concetto incontra quello di ἡδονή tipicamente epicureo. Dunque, il sintagma aeternum leporem (verso
28), “fascino eterno”, non serve per degradare la poesia rendendola un semplice veicolo di piacere immediato, ma
serve per unire due concetti ricercati come effetti da Lucrezio:

 Concetto di poesia eternatrice


 Concetto di fascino che, attraverso la protezione di Venere, incontra il concetto epicureo di ἡδονή

La parte che inizia dal verso 29 introduce un altro concetto, facendo riferimento al MITO DI MARTE E VENERE, nel
quale è molto presente il tema dell’amore (poiché Venere si innamora di Marte, dio della guerra). Venere diventa
sempre la personificazione di un concetto astratto, che in questo caso è la PACE → CONTRAPPOSIZIONE tra pace
(Venere) e guerra (Marte).
La scena va immaginata come tante rappresentazioni di Venere e Marte, con Marte sdraiato con la testa appoggiata
sulle gambe dell’amata seduta mentre i due si guardano negli occhi → scena realistica descrittiva di una coppia
innamorata. Lucrezio dice che i loro SGUARDI sono avidi; in particolare, è come se lui respirasse il respiro di Venere
mentre si fissano negli occhi.

Segue la spiegazione del perché VENERE DEVE INTERCEDERE PER LA PACE: è un accenno implicito ma non troppo
oscuro alle guerre civili a Roma → in genere l’attualità nel De rerum natura è bandita perché non è un’opera storica,
ma in alcuni punti è evidente come Lucrezio abbia in mente i tribulati tempi contemporanei.

La richiesta di Lucrezio va anche a intersecare il ruolo che Memmio aveva nelle guerre civili, in quanto membro di
una famiglia la cui generazione di discendenza importante poteva contribuire a superare questi conflitti → la
mediazione di Venere è importante e fortemente ricercata.

PAROLE CHIAVE

1. VOLUPTAS (verso 1): con essa Lucrezio indica il piacere, traducendo il termine greco ἡδονή. È, quindi, una
parola chiave in questo caos, utilizzata, però, non ancora in relazione all’epicureismo, ma con funzione
anticipatoria della descrizione, del racconto e dell’esposizione delle teorie epicuree
2. DAEDALA (verso 7): aggettivo che accompagna il sostantivo tellus, è una parola di origine greca che fa
riferimento a Dedalo, primo artigiano costruttore e ingegnere → la terra dedala è una terra costruttrice che
crea ed elabora
3. SUAVIS (verso 7): è un altro aggettivo interessante che, insieme a voluptas e dulcis, cerca di rendere nella
lingua latina la complessità di significati che ha il termine greco ἡδονή
4. LEPORE (verso 15 e 28): lepore, derivante da lepos, è un’altra delle parole che, come voluptas e suavitas,
indica i modi per tradurre il termine greco ἡδονή.
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5. CUPIDE (verso 16): è un’altra parola (forma avverbiale) della sfera del piacere che Lucrezio identifica con il
piacere filosofico epicureo
6. RERUM NATURAM (verso 21): in questa porzione di versi, sia naturam rerum al verso 21 sia de rerum natura
al verso 25, c’è la presentazione del titolo dell’opera, che quindi diventa anche l’indicazione del contenuto.
Mentre in Virgilio l’indicazione del contenuto è più ampia, qui è più sintetica, ma ripetuta due volte.
7. SOCIAM (verso 24): andando all’invocazione della Musa a cominciare da Omero, la Musa canta la materia, il
cantore coglie il canto e lo trasmette agli uomini; qui, invece, la parola non è questa: la parola è socius,
ovvero “collaboratore alla pari” → c’è una consapevolezza da parte dell’autore, che si rende conto che senza
la sua mediazione l’opera non può nascere, per cui deve averte la protezione della Musa, con cui collabora
alla pari. Questo indica già tempi nuovi

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ANALISI ANALISI FIGURE
TESTO IN LATINO TRADUZIONE ANALISI GRAMMATICALE
COMMENTATA RETORICHE
1 Aeneadum genetrix, hominum Generatrice degli eneadi, piacere • voluptas: è una delle
divumque voluptas, degli uomini e degli dèi, parole chiave che
traducono il termine
greco ἡδονή
alma Venus, caeli subter labentia chiara Venere, che sotto le stelle • alma: aggettivo in funzione • caeli: anastrofe con
signa trascorrenti del cielo alimenti il mare attributiva che accompagna subter
Venus
• subter: arcaismo che sta per
sub, il quale regge labentia
• labentia: participio presente, da
labor
quae mare navigerum, quae terras portatore di navi che le terre • quae: introduce una doppia
frugiferentis portatrici di frutti, proposizione relativa (il quae
viene ripetuto a metà verso):
- La prima volta è quae +
complemento oggetto (mare
navigerum)
- La seconda volta è quae +
complemento oggetto (terras
frugiferentis)
• navigerum e frugiferentis: sono
due aggettivi composti da navis +
gero e fructus + fero
concelebras, per te quoniam genus grazie a te ogni genere di essere • concelebras: verbo principale • quoniam: anastrofe
omne animantum vivente composto con con-, che serve per con per te (→ va
enfatizzarne il contenuto anticipato)
• quoniam: introduce una
proposizione causale
• per te: complemento di causa
da inserire nella proposizione
causale
• animantum: genitivo plurale
5 concipitur visitque exortum lumina è concepito e vede una volta nato la • concipitur e visit: forme verbali
solis: luce del sole: parallele
10
• exortum: participio passato da
exorior; concorda con genus,
quindi è un NAV neutro
te, dea, te fugiunt venti, te nubila oh dea, i venti fuggono te, le nubi del • venti e nubila: sono i due • c’è un’insistenza sul • caeli →
caeli cielo fuggono te soggetti pronome personale tu adventumque:
• fugiunt: predicato verbale (te, te, te, tibi, tuum), enjambement
• te: complemento oggetto che serve per dare • allitterazione della
ripetuto enfaticamente per tre enfasi al dialogo tra lettera t con la
volte autore e divinità ripetizione del
pronome personale di
seconda persona
singolare
adventumque tuum, tibi suavis e il tuo arrivo per la terra artefice fa • suavis: concorda con flores • suavis: è una delle • suavis: iperbato con
daedala tellus sbocciare • daedala: aggettivo che parole chiave che flores
accompagna tellus; a esso è traducono il termine
riferito anche il verbo greco greco ἡδονή
δαίδαλλειν, “costruire,
perfezionare”
summittit flores, tibi rident aequora dolci fiori per te e le distese del mare
ponti sorridono

placatumque nitet diffuso lumine e il cielo brilla rasserenato per la luce


caelum. diffusa.

1 Nam simul ac species patefactast Infatti non appena l’aspetto del


0 giorno primaverile si manifesta
verna diei

et reserata viget genitabilis aura e prende figure la brezza • raserata: participio passato
favoni, rinfrescante del Favonio, femminile singolare che concorda
con aura
• aura: soggetto
• genitabilis: aggettivo
tipicamente lucreziano in -bilis
aeriae primum volucres te, diva, gli uccelli del cielo per primi • volucres: soggetto • ripetizione di te, tuum
tuumque annunciano te, oh dea, e il tuo e tua

significant initum perculsae corda arrivo, colpiti nel cuore dalla tua • significant: predicato verbale • tuumque: iperbato
11
tua vi. forza. • initum: variazione di adventum con initum
(trovato al verso 7) → significa • tuumque →
“arrivo”, perché è un participio significant:
passato morfologicamente enjambement
costruito con in + eo
• perculsae: concorda con
volucres
• corda: accusativo di relazione
che corrisponde a un
complemento di limitazione
• tua vi: complemento di causa
efficiente costruito con l’ablativo
semplice
Inde ferae pecudes persultant pabula Quindi gli animali selvaggi gioiscono • allitterazione della
laeta lieti nei pascoli labiale p

1 et rapidos tranant amnis: ita capta e attraversano i fiumi rapidi: così, • amnis: sta per amnes • lepore: è una delle • rapidos: iperbato
5 presa dal fascino, • lepore: ablativo di causa parole chiave che con amnis
lepore
efficiente che dipende da capta traducono il termine
greco ἡδονή
te sequitur cupide quo quamque ognuno ti segue dovunque tu voglia • quo: pronome personale • cupide: parola che
inducere pergis. spingerlo relativo indica il piacere
• quamque: pronome relativo epicureo
indefinito di luogo
Denique per maria ac montis Infine, per i mari e per i monti e per i • soggetto sottinteso TU • maria-montis:
fluviosque rapaces fiumi impetuosi • per + accusativo: utilizzato per antitesi
maria, montis, fluvios e rapaces
frondiferasque domos avium e per le case frondifere degli uccelli e • frondiferas: composto di fero • frondiferas domos
camposque virentis per i campi verdeggianti avium: perifrasi per
indicare i nidi
omnibus incutiens blandum per suscitando in tutti un sottile amore • per pectora: complemento di • blandum amorem:
pectora amorem nei petti, limitazione iperbato sempre
ascrivibile al concetto
di ἡδονή
2 efficis ut cupide generatim saecla fa in modo che bramosamente • ut: proposizione completiva
0 generazione per generazione le stirpi dichiarativa che dipende da facio
propagent.

12
si propaghino/si succedano alle altre. • generatim: avverbio in -im
tipicamente lucreziano
• saecla: forma sincopata per via
della μετρική ἀνάγκη per secula
Quae quoniam rerum naturam sola Poiché tu sola governi la natura delle • quae: pronome relativo • rerum naturam: • quae: anastrofe
gubernas cose soggetto presentazione del titolo
• sola: predicativo del soggetto dell’opera
nec sine te quicquam dias in luminis e senza di te niente sulle luminose • nec…quicquam: modo di
oras spiagge esprimere la negazione

exoritur neque fit laetum neque del giorno né è lieto né niente • laetum e amabile:
amabile quicquam, avviene di amabile, aggettivi che fanno
riferimento alla sfera
del piacere

te sociam studeo scribendis versibus desidero che te sia mia socia per la • tu: soggetto • sociam: parola • allitterazione della
esse scrittura dei versi • sociam esse: predicato importante che indica la sibilante s
nominale dell’infinitiva presa di coscienza di
• scribendis versibus: dativo di Lucrezio
fine fatto con il gerundivo
2 quos ego de rerum natura pangere che io mi sforzo di comporre sulla • de rerum natura:
5 natura delle cose, presentazione del titolo
conor
dell’opera
Memmiadae nostro, quem tu, dea, per il nostro discendente dei Menni
tempore in omni che tu, oh dea, in ogni tempo

omnibus ornatum voluisti excellere hai voluto che eccellesse essendo • rebus: iperbato
rebus. ornato di tutte le qualità.

Quo magis aeternum da dictis, diva, Perciò ancora di più, oh dea, concedi • leporem: viene ripresa
leporem. eterno piacere alle nostre parole. la stessa parola del
verso 15
• aeternum leporem:
concetto della poesia
eternatrice
Effice ut interea fera moenera militiai Fai in modo che nel frattempo le • fera moenera militiai e belli
feroci imprese della guerra fera moenera (v.31): idee delle
13
imprese della guerra fera
(“feroce”) e cattiva → quello che
cambia è il genitivo di
specificazione
• militiai: genitivo singolare della
prima declinazione in -ai anziché
in -ae
3 per maria ac terras omnis sopita per tutti i mari e le terre riposino
0 sopite.
quiescant.

Nam tu sola potes tranquilla pace Infatti, tu sola puoi giovare con una
iuvare pace tranquilla

mortalis, quoniam belli fera moenera per i mortali, dal momento che le • Mavors: forma arcaicizzante del
Mavors imprese della guerra nome della divinità
• fera moenera militiai (v.29) e
belli fera moenera: idee delle
imprese della guerra fera
(“feroce”) e cattiva → quello che
cambia è il genitivo di
specificazione
armipotens regit, in gremium qui Marte reggitore delle armi governa, • armipotens: aggettivo • c’è la
saepe tuum se che sul grembo tuo spesso piega se composto contrapposizione tra le
stesso opere crudeli della
guerra e la pace
tranquilla
reicit aeterno devictus vulnere colpito dalla ferita eterna • vulnere amoris:
amoris, dell’amore, tradizionale indicazione
dell’amore come ferita
3 atque ita suspiciens tereti cervice e così, guardando con il collo tornito
5 ripiegato
reposta

pascit amore avidos inhians in te, si nutre di amore guardando verso • pascit: da pasco • pascit: è l’idea che ci
dea, visus, te, oh dea, con gli occhi avidi si possa nutrire
dell’amore
eque tuo pendet resupini spiritus ore. e dalla tua bocca pende il respiro di
quello straziato.
14
Hunc tu, diva, tuo recubantem Quando egli, oh dea, si ripiega sul
corpore sancto tuo corpo santo

circumfusa super, suavis ex ore abbracciandolo dall’alto, dalla bocca


loquelas diffondi dolci parole,

4 funde petens placidam Romanis, chiedendo una tranquilla pace per i • Romanis: complemento di • placidam pacem:
0 romani, oh gloriosa. vantaggio iperbato
incluta, pacem.

Nam neque nos agere hoc patriai Infatti, in questo tempo malvagio per
tempore iniquo la patria noi

possumus aequo animo nec Memmi non possiamo vivere con animo
clara propago sereno, né l’illustre stirpe di
Memmio
talibus in rebus communi desse Può mancare in questa situazione
saluti. alla salvezza/sopravvivenza comune.

15
25/10/2022

ELOGIO DI EPICURO, De rerum natura, Lucrezio, testo T2 pag. 332


Con questo brano entriamo nel secondo degli elogi di Epicuro, filosofo greco fondatore dell’epicureismo. Ogni elogio
di Epicuro presente nel De rerum natura ha delle caratteristiche salienti → questa è una cosa interessante che fa
parte delle qualità artistiche del testo che ricollegano Lucrezio ai seguaci stessi dell’epicureismo, all’interno del quale
Epicuro era diventata una figura mitica e leggendaria oggetto di culto e venerazione da parte dei filosofi.

1. Nel primo elogio Epicuro è rappresentato come un “eroe”, un nuovo Prometeo che ha liberato gli uomini dal
condizionamento della religione
2. Nel secondo elogio, il passo che segue, Lucrezio presenta in modo più dettagliato i capisaldi del pensiero
liberatore a cui si ispira. Epicuro viene associato a una serie di prerogative che fanno riferimento alla
metafora luce-buio, perché essa corrisponde a ignoranza-conoscenza. Epicuro, dunque, diventa cui che per
primo ha osato sollevare il lume della ragione nell’oscurantismo dell’ignoranza che avvolgeva gli uomini
prima del suo arrivo. Le prerogative del Maestro diventano una sorta di paternità e divinità, che lo
definiscono deus e pater: non solo ci sono il rispetto, il culto e l’ammirazione del filosofo, ma anche una sorta
di affetto da parte degli apprendisti filosofi (figli) nei confronti di Epicuro (padre)
3. Nel terzo elogio Epicuro diventa un deus che guarisce le più grandi paure degli uomini
4. Nel quarto elogio la lode di Epicuro e dei suoi meriti è invece intrecciata con quella di Atene, città dove ebbe
sede la sua scuola

Questa parte del testo è una di quelle che non sono spiegabili se non si riconduce Lucrezio a un clima non
propriamente romano: questo culto della personalità non è proprio del civis romano, ma dell’epoca ellenistica e
delle sue filosofie. Lucrezio stesso dice di essere consapevole di essere inferiore al Maestro; infatti, non vuole
gareggiare con lui, ma solo imitarlo → il suo scopo non è rielaborare la filosofia di Epicuro, ma trasmetterla a dei
nuovi cultori.

PAROLE CHIAVE

1. PATER e INVENTOR (verso 9): sono due appellativi che si riferiscono a due aree di elogio diverse:
 PATER: è l’area maggiormente insistita, quella dell’affetto dei figli verso un padre → la figura di
Epicuro non è semplicemente quella di maestro, ma quella di padre (→ esiste un legame tra colui
che insegna e gli apprendisti filosofi)
 INVENTOR: fa meno riferimento all’area affettiva, ma più a quella razionale dell’intelligenza, perché
Epicuro è colui che apre all’intelligenza andando a scoprire nuove cose
Epicuro è stato pater e inventor per l’uomo proprio perché ha fatto scomparire le paure dell’animo (animi
terrores, verso 16)
2. CHARTIS (verso 10) e DICTA (verso 12): Lucrezio si riferisce all’opera di Epicuro per ben due volte,
definendola prima come opera che è stata scritta e poi come opera che è stata pronunciata. L’insegnamento,
dunque, viene resto attraverso due elementi che hanno due sfumature diverse: l’opera come insegnamento
ascoltato direttamente e come insegnamento letterario.
A questo ambito si possono riferire anche i precepta, “gli insegnamenti”, parola più generica che si può
riferire al patrimonio di conoscenze che Epicuro ha lasciato
3. APES (verso 11): le api sono insetti che nel mondo antico sono sempre catalogati con qualità positive per due
motivi:
 Motivo antropologico: il miele era alla base dell’alimentazione antica, quindi le api iniziarono a
essere allevate fin dal terzo millennio, quando gli uomini iniziarono a diventare stanziali
 Motivo culturale: le api sono considerate una perfetta manifestazione nel mondo animale della
migliore comunità umana, metafora della società ideale in cui non esiste rivolta sociale e ogni
componente è operosa → sono un sistema gerarchico in cui esiste un’ape regina e in cui ogni
elemento sa perfettamente quale sia la funzione che svolge, e la svolge sentendosi parte della

16
comunità → il risultato di tutto ciò è il miele, quindi qualcosa di eccezionale e buonissimo. Dunque,
tutto questo rende l’ape un insetto venerato e utilizzato in tante metafore del mondo antico.
Altro insetto famoso per questo è la formica, la cui metafora, però, arriverà solo in un periodo
successivo
4. MOENIA MUNDI DISCEDUNT (versi 16-17): in enjambement, fa riferimento alla chiusura dell’intelletto
umano. Le scoperte di Epicuro hanno permesso la conoscenza, quindi hanno permesso che si allargassero i
confini e gli orizzonti, e che le paure fossero sconfitte da questi livelli di conoscenza che andava aumentando
5. VOLUPTAS (verso 28) e HORROR (verso 29): queste due parole apparentemente antitetiche, in questa
conclusione non lo sono. Infatti, descrivono la sensazione dell’apprendista filosofo che, nel constatare
quanto gli insegnamenti di Epicuro siano chiari e illuminanti rispetto alla spiegazione della natura, viene colto
da una duplice sensazione:
 VOLUPTAS: in questo caso è la resa perfetta dell’ἡδονή greca
 HORROR: non indica la paura, ma l’orrore nella sua dimensione etimologica del “brivido”. Il brivido
accompagna nel nostro corpo prima di tutto la sensazione di stupore, ma non necessariamente uno
stupore legato alla paura o allo spavento. Horror, dunque, è l’indicazione del forte senso di stupore e
meraviglia che diventa anche la sensazione fisica del brivido che accompagna l’apprendista filosofo
quando si accorge di questo elemento.

LE VICISSITUDINI

Lucrezio, attraverso la parola poetica, riesce a esprimere i PRINCÌPI DELL’ATOMISMO, cioè l’idea del vuoto
all’interno del quale si muove l’atomo.

Per far capire cosa sono le sedi degli dèi ricorre a una descrizione poetica dell’ASSENZA DEI FENOMENI CLIMATICI
che talvolta rendono difficile la vita degli uomini: il cielo è perennemente in primavera → la metafora è data da
ridet (verso 22), un cielo che sorride senza nuvole (innubilus, aggettivo composto al verso 21), senza piogge, senza
venti che lo scuotono e senza nemmeno la neve.

In quanto inventor, Epicuro ha rivelato che GLI DÈI NON SI INTERESSANO DEGLI UOMINI. La più forte delle paure,
invece, è quella di vendetta da parte degli dèi. Segue quella della morte, rappresentata al verso 25 tramite i templi
dell’Acheronte. Questo perché all’inizio Epicuro si era accorto che la paura di morire non è soltanto paura della
dissoluzione, ma anche di ciò che c’è dopo la morte, cioè i castighi o i premi che ogni religione elabora a modo
proprio.

Dunque, la condizione di eterno limbo della vita viene sconfitta e allontanata da Epicuro, e per questo viene
ringraziato da Lucrezio: Epicuro ha dimostrato quanto descritto nei versi 26 e 27, cioè che sotto i piedi, dove secondo
l’immaginario collettivo dovrebbe esserci il mondo dei morti, in realtà non c’è nulla, ma solo un grande vuoto in cui
gli atomi girano, si incontrano, si scontrano e dal quale noi nasciamo (è il mondo della φύσις). Questo
insegnamento, dunque, secondo Lucrezio è duplice: elimina le paure dell’uomo ed è un insegnamento → per questo
Epicuro deve essere lodato.

17
ANALISI ANALISI FIGURE
TESTO IN LATINO TRADUZIONE ANALISI GRAMMATICALE
COMMENTATA RETORICHE
1 O tenebris tantis tam clarum Oh tu che per primo ha potuto • il brano inizia con • tam clarum
extollere lumen sollevare una luce tanto chiara in una serie di lumen: iperbato
tenebre tanto profonde, complementi di • allitterazione della
vocazione dentale t
qui primus potuisti inlustrans illuminando i vantaggi della vita, • qui: introduce una proposizione
commoda vitae, relativa
• soggetto sottinteso TU
• potuisti: funzione servile con
l’infinito extollere (v.1)
• inlustrans: participio congiunto
te sequor, o Graiae gentis decus, io seguo te, oh vanto del popolo • te: complemento oggetto che • tuis pressis signis:
inque tuis nunc greco, e sulle tue impronte premute esplicita il precedente soggetto iperbato
sottinteso tu • nunc → ficta:
• Graiae: poetismo enjambement
ficta pedum pono pressis vestigia io pongo le impronte poste dei piedi, • pono: predicato verbale • ficta pedum
signis, • vestigia ficta: complemento vestigia: iperbato
oggetto • allitterazione della
• pedum: complemento di labiale p
specificazione
5 non ita certandi cupidus, quam non desideroso di gareggiare
propter amorem
quod te imitari aveo; quid enim ma piuttosto per amore dal • aveo: variante di cupio • similitudine tra
contendat hirundo momento che desidero imitarti; in • quid: introduce una proposizione rondine, cigno,
che modo, infatti, potrebbe interrogativa retorica capretto e cavallo,
gareggiare con accenno al
mondo animale
cycnis, aut quidnam tremulis facere la rondine con i cigni o in che modo • quidnam: elemento interrogativo
artubus haedi mai i capretti dalle zampe tremanti • tremulis artubus: complemento di
potrebbero fare qualità in ablativo semplice

consimile in cursu possint et fortis qualcosa di simile nella corsa


equi vis? rispetto alla forza del vigoroso
cavallo?
Tu pater es, rerum inventor, tu patria Tu sei padre, rivelatore/scopritore • pater: appellativo anticipato dal tu
18
nobis delle cose, tu fornisci a noi • inventor: secondo sostantivo
attribuito a Epicuro
1 suppeditas praecepta, tuisque ex, insegnamenti paterni/tipici di un • tuisque chartis:
0 inclute, chartis, padre, e, oh illustre, dalle tue anastrofe
carte/dai tuoi scritti
floriferis ut apes in saltibus omnia come le api libano ogni cosa nei • ut: introduce una similitudine • similitudine
libant, pascoli fioriti,
omnia nos itidem depascimur aurea noi allo stesso modo ci nutriamo di
dicta, tutte le tue parole d’oro (cioè
preziose)
aurea, perpetua semper dignissima e sempre degnissime di una vita • POSSIBILE TRADUZIONE:
vita. perpetua. - dignissima: concorda con dicta
- perpetua: concorda con vita (NAV
neutro)
- vita: ablativo che dipende da
dignus
- dignus: superlativo
Nam simul ac ratio tua coepit Infatti, non appena la tua intelligenza • simul ac: introduce una
vociferari comincia a dire ad alta voce proposizione temporale
1 naturam rerum, divina mente coorta, la natura delle cose, sorta dalla
5 divina mente (cioè quella di Epicuro),
diffugiunt animi terrores, moenia scompaiono le paure dell’animo, si • moenia mundi →
mundi aprono i chiavistelli del mondo discedunt:
enjambement
discedunt, totum video per inane geri e vedo attraverso il vuoto ogni cosa
res. muoversi.
Apparet divum numen sedesque Appare la maestà degli dèi, e le sedi
quietae tranquille
quas neque concutiunt venti nec che né i venti scuotono né le nubi
nubila nimbis coprono
2 aspergunt neque nix acri concreta con la pioggia, né la neve, indurita
0 pruina d’aspro gelo,
cana cadens violat semperque cadendo bianca deturpa e sempre • innubilus: aggettivo composto • cana cadens: indica
innubilus aether un cielo senza nubi l’immagine elaborata
della neve bianca che
cade
19
integit, et large diffuso lumine ridet. ricopre, e di luce largamente diffusa
sorride
Omnia suppeditat porro La natura, inoltre, offre ogni cosa e
natura neque ulla nessuna cosa turba
res animi pacem delibat tempore in la pace dell’animo in nessuna • tempore in ullo:
ullo. occasione. anastrofe
2 At contra nusquam apparent Ma al contrario non appaiono mai i • l’immagine della
5 Acherusia templa templi dell’Acheronte morte è rappresentata
tramite i templi
dell’Acheronte
nec tellus obstat quin omnia nè la terra impedisce che si scorga
dispiciantur,
sub pedibus quaecumque infra per tutto ciò che sotto i nostri piedi si
inane geruntur. produce nello spazio vuoto.
His ibi me rebus quaedam divina Davanti a tali cose, un certo divino • voluptas: accompagnato da
voluptas piacere quaedam, che ne mitiga il valore
enfatico
percipit atque horror, quod sic e un brivido s’impadroniscono di me,
natura tua vi dal momento che, in questo modo,
la natura, grazie alla tua forza,
3 tam manifesta patens ex omni parte aprendosi così chiaramente viene
0 scoperta da ogni parte.
retecta est.

20
27/10/2022

IL SACRIFICIO DI IFIGENIA, De rerum natura, Lucrezio, testo T5 pag. 340


Attraverso questo brano, Lucrezio anticipa e prosegue l’argomento dell’OPPRESSIONE DELLA RELIGIONE, forza che
opprime uomo e non lo consola. Questo è uno dei concetti che costituiscono il quadrifarmaco, ovvero la ricerca della
felicità di Epicuro (che, attraverso l’epicureismo, libera l’uomo dai terrores).

Posto dopo l’elogio di Epicuro nel primo libro, Lucrezio ricorre ancora una volta al patrimonio letterario condiviso, a
un mito derivante dall’Iliade, nella quale non è ben descritto ma è ben presente a tutti coloro che conoscono la
mitologica greca.

Questa diventa una pagina bellissima dei componimenti di Lucrezio, utilizzata per indicare quale TERRIBILE
CONSIGLIERA di azioni da compiere sia, in realtà, la religione, perché è una superstizione a cui tutti gli uomini danno
credito, finanche a permettere che un padre sacrifichi una figlia e che un corpo di uomini scelti lo accetti.

È un brano con una fortissima carica di πάθος, di melodramma. In generale, nel De rerum natura prevale un
atteggiamento di presentazione del contenuto dell’epicureismo logico-argomentativo o descrittivo (ma sempre
funzionale al processo logico-argomentativo e filosofico), ma non mancano passaggi in cui il tono di Lucrezio si
arricchisce di sentimento, dando una taratura poetica e artistica alla filosofia stessa, che colpisce profondamente il
pubblico (→ in questo consiste la magia di questo poema: ancora nella lettura in traduzione si gusta l’alternanza di
questi due passaggi).

→ Un’altra di queste sequenze sarà la sequenza della peste di Atene: anche in quel caso ci sarà lo scopo di
dimostrare che l’uomo è sottoposto alle forze della natura (sempre e comunque più forti di lui) con una forte
carica di πάθος.

Questi sono 20 versi in cui viene narrato un episodio che ha tutta la forza argomentativa dell’attingere a un
patrimonio narrativo comune per il lettore, senza, però, che esso sia in contrasto con lo scopo di Lucrezio di costruire
un poema epico didascalico. Questi INSERTI NARRATIVI TRATTI DAL MITO servono per dare forza, veridicità e
vivacità al discorso.

L’EPISODIO MITOLOGICO DEL SACRIFICIO DI IFIGENIA

Il protagonista di questo episodio è Agamennone insieme alla figlia Ifigenia. Quando i Greci decidono di allestire la
flotta per partire in una spedizione punitiva contro Troia per il rapimento di Elena da parte di Paride, arrivano tutti i
drappelli e manipoli armati (ciascuno con il proprio comandante) e Agamennone viene individuato come

Il protagonista di questo episodio è AGAMENNONE insieme alla FIGLIA IFIGENIA. Quando i Greci decidono di
allestire la flotta per partire in una spedizione punitiva contro Troia per il rapimento da parte di Paride di Elena,
arrivano tutti i drappelli e manipoli armati (ciascuno con il proprio comandante) e Agamennone viene individuato
come primus inter pares, ovvero come leader e capo carismatico (e così già si comporta nella fase di organizzazione
della fase militare).

Ancora sulle coste della Grecia, gli dpi gli sembrano essere ostili alla spedizione; infatti, NON inizia a soffiare un vento
favorevole che permette alle navi di partire. Così, il fatto che non venga inviato vento diventa oggetto di una
cerimonia da parte dell’indovino Tiresia, che chiede agli dèi la motivazione del perché non spira il vento, e in che
modo gli uomini possano propiziarsi la benevolenza.

Ecco che la proposta che l’indovino dà è una risposta crudele: gli dèi vogliono un SACRIFICIO DI SANGUE di una
fanciulla vergine che sia discendenza dei capi; ecco che allora Agamennone, se vuole rinsaldare la sua leadership,
deve sacrificare una delle sue figlie.

Con un inganno convoca sua MOGLIE CLITEMNESTRA, sorella di Elena, e la FIGLIA IFIGENIA (in età da marito), con la
scusa che, per risaldare i legami prima della partenza, vuole far sposare Ifigenia al migliore dei giovani lì presenti:
Achille.
21
Ifigenia, quindi, compare sulla spiaggia vestita da vergine e in atto di sposarsi; però, quando improvvisamente si
accorge che tutti gli astanti sono cupi, che nessuno sorride, che Achille non c’è e che ad aspettarla c’è solo un
sacerdote con l’arma sacrificale, capisce che sta per essere immolata. Essa, infatti, vede:

1. Suo padre maestum, “triste, infelice” che è in piedi davanti all’altare


2. I ministrum, “sacerdoti”, che nascondono un’arma affilata
3. Tutti i cittadini che piangono

La fine di questa vicenda è raccontata nell’Orestea di Eschilo, dove la vendetta di Clitemnestra sarà consumata ben
12 anni dopo, al ritorno di Agamennone.

LE VICISSITUDINI

Già nel secondo e terzo verso Lucrezio DIALOGA con l’ipotetico nuovo cultore dell’epicureismo. Questa è una
caratteristica che torna in tutto il De rerum natura: Lucrezio dialoga con il lettore, colui che rappresenta anche
l’allievo che vuole iniziare il percorso filosofico, al fine di tenerne sempre sollecitata l’attenzione.

Segue una fase narrativa dedicata all’elaborazione dell’acconciatura della pettinatura virginale della sposa (con
anche l’utilizzo di termini tecnici dal verso 87 al verso 92).

La fortissima allitterazione della lettera m richiama non solo il suono del termine mamma, ma anche il verso del
bovino che viene portato al macello. Infatti, è come se Ifigenia diventasse una giumenta mandata al macello: il suo
silenzio diventa un non-suono straziante che, a livello poetico, ricorda il verso dell’animale portato al sacrificio.
Il gesto con cui viene sollevata Ifigenia dalle mani dei presenti è lo stesso gesto che in genere si fa con la vittima
sacrificale. In particolare, una parola rivela che in questo momento l’assimilazione di Ifigenia, una vittima sacrificale,
si sta compiendo: tremibunda, aggettivo che indica il tremare degli angeli davanti all’Altare.

Lucrezio sottolinea che tutta questa terribile menzogna di far credere alla ragazza che fosse prossima al matrimonio
per poi trasformare la cerimonia in un sacrificio aveva uno SCOPO MISERO, cioè far partire la flotta.

Il fatto di aver potuto chiamare Agamennone padre non fu per lei un vantaggio, ma l’esatto contrario (verso 94).

La conclusione, contenuta al verso 101, è lapidaria: appare come una SENTENTIA di condanna definitiva, senza
nessun appello né alcuna retorica (e, pertanto, ancora più significativa).

PAROLE CHIAVE

1. IMPIUS (impia al verso 83): pius è un aggettivo importantissimo dal forte significato etimologico che indica il
rispetto delle leggi umane e divine; qui è negato con in-
2. RELIGIO (verso 83): va tradotto come “superstizione” (o, altre volte, si lascia il termine religio stesso), perché
in Lucrezio questo termine ha una connotazione negativa: indica la fede acritica (un sistema religioso
complesso, negativo e superstizioso) che spinge l’uomo a fare del male
3. CIVIS (verso 91): è un arcaismo per cives. È una scelta poetica incoerente con il brano narrato, poiché non si
intendono i cittadini ma gli uomini che stanno per partire per la spedizione
4. TREMIBUNDA (verso 95): è un aggettivo che di per sé indica il tremare degli angeli davanti all’Altare, ma che,
in questo caso, rivela che il sacrificio di Ifigenia si sta per compiere

22
ANALISI ANALISI FIGURE
TESTO IN LATINO TRADUZIONE ANALISI GRAMMATICALE
COMMENTATA RETORICHE
80 Illud in his rebus vereor, ne forte Io temo ciò, in queste cose, che per • ne: introduce una completiva
rearis caso dipendente da un verbo di
timore
• rearis: 2° persona singolare
impia te rationis inire elementa tu creda di entrare in empi elementi • impia: aggettivo che
viamque della ragione indica il rispetto delle
leggi umane e divine, qui
negato da in-
indugredi sceleris. Quod contra e di introdurti in un percorso di • quod: quod di passaggio
saepius illa delitto. Che anzi, più spesso, è tipicamente poetico
proprio quella • illa: serve per dare forza al
termine religio
• indugredi: arcaismo di ingredi
(da ingradio)
religio peperit scelerosa atque impia religione/superstizione ad aver • scelerosa: deriva da scelus • religio: si traduce con
facta. determinato fatti criminali ed empi. • scelerosa e impia: specificano “superstizione” o
facta “religio”; il suo significato
ha connotazione negativa
Aulide quo pacto Triviai virginis aram Secondo questo accordo in Aulide • pacto: da pario, è il verbo della • aram →
l’altare della vergine Trivia generazione, del parto Iphianassai:
• quo pacto: nesso relativo enjambement
• aram: complemento oggetto
anticipato rispetto al verbo e al
soggetto
85 Iphianassai turparunt sanguine turpemente violarono con il sangue • Iphianassai: genitivo arcaico in • Iphianassai: è una • foede → ductores:
foede di Ifigenia -ai della prima declinazione variante del nome ai fini enjambement
• turparunt: forma sincopata per della μετρική ἀνάγκη
turpaverunt, indicativo perfetto
3° persona singolare
ductores Danaum delecti, prima gli scelti duci dei Danai, il fiore di • ductores: variante di dux • allitterazione della
virorum. tutti i guerrieri. dentale d
Cui simul infula virgineos circum Non appena la benda avvolta • cui: nesso relativo in dativo • inizia la fase narrativa • allitterazione della
data comptus intorno all’acconciatura virginale femminile • i versi dall’87 al 92 m in questi versi che
• simul: introduce una comprendono termini rimanda al verso del
23
proposizione temporale tecnici bovino sacrificale
ex utraque pari malarum parte le ricadde eguale sull’una e l’altra
profusast, guancia
et maestum simul ante aras adstare e non appena lei si accorge che il • simul: introduce una seconda
parentem genitore (suo padre) afflitto era in proposizione temporale
piedi davanti agli altari
90 sensit et hunc propter ferrum celare e (si accorge) che i ministri per • sensit: da lui dipendono gli • hunc propter:
ministros questo motivo nascondo il pugnale infiniti successivi: anastrofe
- adstare con parentem come
soggetto
- celare con ministros come
soggetto
- effundere con civis come
soggetto
aspectuque suo lacrimas effundere e che i cittadini versano • civis: arcaismo per cives →
civis, lacrime/piangono al suo apparire, scelta poetica incoerente
muta metu terram genibus muta per la paura si accasciava a • petebat: è il verbo della
summissa petebat. terra dopo aver piegato le ginocchia. proposizione principale
Nec miserae prodesse in tali tempore Nè all’infelice poté giovare in • quibat: forma verbale difettiva
quibat, quest’occasione di uso altamente poetico
quod patrio princeps donarat il fatto di donare per prima il nome • donarat: forma sincopata per
nomine regem. di padre al re. donaveract
95 Nam sublata virum manibus Infatti sollevata dalle mani dei • tremibunda: aggettivo
tremibundaque ad aras guerrieri e tremante fu condotta che indica il tremare degli
sull’altare, angeli davanti all’Altare
deductast, non ut sollemni more non affinché dopo il rito solenne • deductast: forma poetica
sacrorum sincopata per deducta est,
perfetto passivo 3° persona
singolare
• ut: introduce una proposizione
finale
perfecto posset claro comitari potesse essere accompagnata nel
Hymenaeo, luminoso Imeneo,
sed casta inceste nubendi tempore in ma senza colpa vergine nello stesso
ipso momento delle nozze
hostia concideret mactatu maesta cadesse come una vittima infelice
24
parentis, per l’assassinio del padre,
10 exitus ut classi felix faustusque affinché venisse concessa alla flotta • exitus: anastrofe
0 daretur. una partenza fortunata e propizia.
Tantum religio potuit suadere A tanto male poté spingere la • malorum: dipende da tantum • la conclusione appare
malorum. religione come una sententia
lapidaria
• religio: termine
particolare avente
accezione negativa in
Lucrezio

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08/11/2022

LA PESTE DI ATENE, De rerum natura, Lucrezio, testo T19 pag. 380


Questo è un brano che nel tempo ha suscitato sia da parte dei lettori che degli studiosi della letteratura una serie di
domande e perplessità.

Il brano racconta con dovizia di particolari e in maniera particolarmente drammatica grazie all’uso della poesia la
PESTE DI ATENE DEL 430 a.C., che, alla fine del primo anno di Guerra del Peloponneso, mietette una miriade di
vittime.

Questa stessa peste, raccontata sia da Lucrezio che da Tucidide, diventa non solo un elemento storico, ma anche
letterario, che sarà poi fondamentale nella narrazione medievale e moderna di altre epidemie.

LA PESTE DI ATENE DI TUCIDIDE

Tucidide è lo storico che racconta la peste poiché L’HA VISSUTA ad Atene in quel momento; egli è uno di coloro che,
pur avendo contratto la malattia, è sopravvissuto. Questo lo porta a essere un TESTIMONE ASSOLUTAMENTE
ATTENDIBILE, e la sua narrazione per certi tratti ha un’importanza e una QUALITÀ QUASI SCIENTIFICA.

Sicuramente era stato influenzato dagli studi di medicina come branca del sapere analizzata soprattutto da
Ippocrate, perché c’è una certa attenzione nell’oggettivizzare i sintomi, anziché descrivere la peste in chiave
moralistica come una disgrazia.

Quando Tucidide scrive, Atene sta superando la peste stessa. Dunque, le sue storie non sono state scritte nel
momento in cui sono accaduti gli avvenimenti, ma sono frutto della rielaborazione degli appunti che aveva preso in
quel tempo.

La peste che si sviluppa ad Atene è una peste che si collega strettamente alla SITUAZIONE DRAMMATICA della fine
del primo anno di guerra. Infatti, la strategia militare nella prima lega del Peloponneso fu quella di invadere l’Attica e
distruggere i raccolti. Allora, la popolazione rurale viene accolta nelle Lunga Mura ateniesi, facendo sì che ad Atene si
verifichi una sovrappopolazione civile e una conseguente scarsità di risorse alimentari. Unendo ciò a situazioni
igieniche precarie, ecco che le condizioni di diminuito benessere portarono all’inevitabile diffusione epidemica.

Un altro fattore che accelerò il contagio fu la rapidità di diffusione del virus, avente potere di contagiosità altissimo.

LA PESTE DI ATENE DI LUCREZIO

Lucrezio per questa volta racconta qualcosa che riguarda il mondo greco, non quello romano.

Il πάθος: un carattere epico

Leggendo il suo testo, infatti, ci si accorge che l’aspetto tecnico (ovvero come si manifesta la malattia, da dove viene,
come si sente il paziente, etc.) è solo UNO degli elementi che caratterizza il brano. Il brano, in sé, infatti, è
caratterizzato da un altissimo πάθος, che ne sottolinea il CARATTERE maggiormente EPICO che didascalico (→
l’intensità emotiva che suscita nel lettore è molto più forte della curiosità scientifica).

Lucrezio ci racconta la sensazione di smarrimento e di angoscia che prende non solo l’individuo malato, ma anche
l’intera comunità. Dunque, racconta la PERDITA TOTALE DELLA RATIO (cioè del λόγος) e l’avvento di un irrazionale
spirito che trasforma la città in una sorta di lazzaretto a cielo aperto, in cui ciascuno:

 O è malato e cerca sollievo alla propria sofferenza fisica


 O è talmente angosciato da cercare sollievo dall’affanno morale e psicologico

Il risultato di tutto ciò è una scena di fortissimo impatto patetico.

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Le teorie sulla scelta della posizione del brano

L'episodio, che conclude il poema lucreziano, ha sollevato numerosi interrogativi. Se infatti la sua coerenza con
quanto precede (cioè l'analisi di vari fenomeni come eruzioni, calamità, epidemie, pestilenze, etc.) è indubbia,
perché Lucrezio sceglie di terminare un poema che doveva trasmettere il messaggio salvifico di Epicuro con
immagini tanto pesantemente negative e pessimistiche? A questa domanda non esistono risposte certe, perché
non è a noi pervenuta nessuna testimonianza in cui Lucrezio giustifichi in modo apologetico questa scelta. Nel tempo
si sono alternate delle ipotesi completamente dedicate a questa questione:

1. Poema incompiuto: siccome da altre fonti si sa che Lucrezio muore prima della revisione finale della sua
opera, questa è stata una delle ipotesi più accreditate. Si pensa, dunque, che questo passo della peste
doveva risolvere in un passaggio definitivo che vedeva il trionfo della filosofia epicurea sul male
2. Incongruenza lucreziana rispetto all’epicureismo ortodosso
3. Squilibri mentali del poeta: c’è chi ha pensato fosse un ulteriore indizio della follia di Lucrezio
4. Sapiente architettura del poema: l'opera in generale, ma anche le sue singole diadi, si aprirebbe
volutamente con immagini positive e si chiuderebbe con immagini negative, al fine di dimostrare come la
vita dell’uomo sia un dibattersi sui due elementi di vita e di morte.

Che si accetti una qualsiasi di queste, è impossibile avere una risposta sicura. Ultimamente, però, gli studiosi
accettano che l’opera sia così costruita, e cercano di capire quale sia il motivo per cui a passi in cui l’ottimismo e la
fiducia nella filosofia sono consolidati e contagiosi per il lettore, si alternino, invece, passaggi in cui la visione è
decisamente più cupa e pessimista. Questo dualismo, un’alternanza tra vita e morte, tra fiducia nel valore della
filosofia e constatazione nel dramma di vivere, sembra la CIFRA DISTINTIVA DELL’OPERA INTERA.

L’uomo rispetto alla natura

La narrazione dell’epidemia vuole dimostrare che L’UOMO NON HA NESSUNA POSSIBILITÀ DI CONTROLLARE LA
NATURA: la natura, nel suo dimostrarsi, infatti, è una forza superiore che lo sconfigge, e, se l’uomo non può
dominare la natura, può dominare se stesso attraverso l’esercizio del λόγος, ovvero l’esercizio della ratio, cioè, della
filosofia.

Dunque, la posizione finale del racconto di questa vicenda, se così vista, è giustificabile: la natura vince sempre
l’uomo, che non ha speranza di vittoria contro essa.

La narrazione scientifica: inizio e diffusione

L’elemento scientifico presente in questo passaggio è legato al dilagare del contagio, poiché ad Atene non ci sono le
cerimonie religiose che nella Milano del 1630, invece favorivano la diffusione del virus.

All’inizio, al verso 1141, fornisce anche il punto da cui arriva: le navi che attraccano al Pireo (estreme regioni
dell’Egitto) → LA DIFFUSIONE HA INIZIO PER CONTATTO CON L’ESTERNO.

Dopo la descrizione drammatica dei mucchi di corpi con famiglie morte tutte vicine (→ idea della famiglia come
luogo di morte e non di vita), ritorna a un elemento storico oggettivo: descrive, riprendendo quello che aveva fatto
all’inizio della scena, l’ORIGINE DEL MALE, cioè la sovrappopolazione dovuta all’arrivo delle masse di contadini
all’interno della città.

La conclusione della scena narra del contagio in maniera terribile, però ha anche un certo valore scientifico: siccome
questa malattia dà la sensazione di un bruciore proveniente dall’interno, le persone cercano refrigerio nelle fonti
d’acqua. Così facendo, però, buttandosi con il corpo intero, contaminano l’acqua stessa → aumenta la drammatica
visione della città: è come se Lucrezio con una telecamera stesse salendo e, dopo aver raccontato quello che succede
nella singola persona (nel fisico e nella psiche) e nelle famiglie, ora parla della città, che è una desolazione, una sorta
di cimitero all’aria aperta.

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La narrazione scientifica in CHIAVE PATETICA

Il testo di Lucrezio ha alle spalle la narrazione della peste dello storico Tucidide e gli studi di medicina che erano
cominciati in Grecia e progrediti nel periodo successivo. Dunque, è abbastanza probabile che egli conosca la
letteratura medica specialistica (→ ha letto trattati dedicati alla peste).

A partire dal verso 1145, infatti, si comincia a vedere la SINTOMATOLOGIA, che può essere descritta in maniere
molto diverse. Qui Lucrezio fornisce informazioni in maniera patetica e non scientifica; a ogni sintomo, infatti, è
abbinato un aggettivo qualificativo che ne intensifica il portato drammatico, non scientifico.

A un certo punto, poi, l’autore dice che alla sensazione di fuoco che brucia e a questo corpo che è tutto dolore, si
aggiunge anche un’ANGOSCIA che non abbandona il malato → il fatto di abbinare la sensazione fisica all’angoscia
morale e psicologica, non fa che portare alle estreme conseguenze la drammaticità di questo passo.

Le tipologie di persone ad Atene

La porzione di testo a partire dal verso 1230, ha sicuramente influenzato moltissimo Manzoni, perché Lucrezio
descrive le due diverse tipologie di persone che vivono in questo momento ad Atene:

1. Chi, preso dell’immagine di morte di se stesso se è malato o di chi gli è intorno, o cerca di fuggire oppure è
preso da una disperazione tale che si concentra solo su se stesso (→ istinto di sopravvivenza)
2. Chi, invece, preso dall’immagine di morte, si dedica alle persone malate

L’immagine qui costruita da Lucrezio è caratterizzata da una DISPERAZIONE DELICATA, dove gli aggettivi sono meno
drammatici e fanno riferimento a lamenti sottili e flebili.

Nel descrivere lo spirito di solidarietà che solo alcuni cittadini hanno nei confronti dei malati, cambia
improvvisamente il registro della narrazione.

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09/11/2022

L’AMORE, UNA FOLLIA, De rerum natura, Lucrezio, testo T12 pag. 359
Questo testo si inserisce nel dibattito letterario sull’amore. In questo momento, infatti, la poesia latina sta scoprendo
o riscoprendo i modi per raccontare l’amore. Questo tema entra anche all’interno del De rerum natura, perché
Lucrezio cerca di dimostrare, in linea con l’epicureismo, quali siano i piaceri naturali necessari, quali i piaceri
naturali non necessari e, infine, quali i piaceri non naturali non necessari; questa suddivisione dei piaceri era tipica
dell’epicureismo, che portava il discepolo a discernere dall’amore e a scegliere le attività).

Secondo Lucrezio, il SESSO è un’attività naturale ma non necessaria (se non ai fini della riproduzione). Lo stesso per
il cibo, che è necessario solo per cibarsi, mentre è un vizio nei banchetti. Da qui, la scelta di molti saggi di diventare
casti in segno di purificazione.

Partendo da questa considerazione, l’autore smitizza l’AMORE nella sua componente romantica e passionale,
considerandolo come un’esperienza ingannevole e dolorosa, fonte assoluta di un turbamento che devasta l’animo e
distoglie l’apprendista filosofo dal suo percorso sapienziale. L’amore, infatti, è un’infatuazione per il simulacrum,
ovvero l’immagine, della persona amata, che colpisce i sensi e obbliga a desiderarla. Le particelle di questi simulacra
sono, però, leggere e instabili e per l’uomo risulta impossibile catturarle del tutto: ne derivano non solo una costante
delusione, un’insaziabile sofferenza, ma una vera e propria FOLLIA, che porta l’innamorato ad annullare la sua
personalità e a idealizzare eccessivamente l’immagine della donna amata.

Quando il SESSO SI ABBINA ALL’AMORE, per Lucrezio non necessariamente diventa migliore: anzi, alla componente
erotica si unisce quella emotiva, che lo rende ancora più destabilizzante.

LA SUDDIVIDIONE IN DUE PARTI del passo letto

Il passo in questione si può dividere in due sezioni, intervallate da alcuni versi di passaggio con considerazioni di
ordine generale (versi 1141-1148):

1. Prima sezione: è una lunga “tirata” moralistica che denuncia la vita scioperata, dissoluta e sperperata nel
lusso. Rientra negli stilemi tipici dell’amore, poiché si trovano due metafore importanti:
o Metafora del laccio: è la metafora per cui la persona innamorata è presa dal laccio, cioè catturata.
Questa metafora viene dalla caccia, dove chi insegue è colui che esercita l’attrazione amorosa e chi è
preso dal laccio è colui che si innamora
o Metafora del fuoco: è la metafora tradizionale che si lega a quella della ferita, per la quale l’amore è
qualcosa che ferisce e fa soffrire
2. Seconda sezione: è un catalogo ironico delle forme di sudditanza dell’innamorato, che trasforma
incredibilmente i difetti fisici della donna amata in pregi

L’IRONIA

Nel testo sono anche presenti elementi di ironia che dimostrano che Lucrezio ha un bagaglio culturale molto ampio:
un filosofo che pratica e conosce abbastanza anche l’altra letteratura, tanto da poterla anche prendere un po’ in giro.

La parte più ironica è la parte dal verso 1160, dove elenca una serie di difetti spiegando come la follia gli innamorati
(sulla quale fa sarcasmo) li porti a farli sembrare ai loro occhi dei pregi:

- Se la ragazza è molto scura di carnagione, si dice che è del colore del miele;
- Se una ragazza puzza, si dice che non si cura troppo;
- Se una ragazza ha le iridi sbiadite (cioè se ha gli occhi azzurri, che non piacevano ai romani), si dice che era
Pallade Atena (che era rappresentata con gli occhi azzurri) in terra;
- Se una ragazza ha un fisico asciutto senza forme, si dice che è sottile come una gazzella;
- Se una ragazza è bassa di statura e di carattere brioso (“tutta un granello di sale”), si dice che è sorella delle
Cariti (che hanno bellezza ben proporzionata, a differenza della donna di bassa statura);

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- Se una ragazza è robusta, si dice che è uno splendore di grazie;
- Se una ragazza balbetta, si dice che baldezza per vezzo;
- Se una ragazza non parla (o perché è timida, è perché non ha nulla da dire), si dice che è pudica;
- Se una ragazza è molesta/fastidiosa/parla troppo, si dice che è una donna tutta fuoco;
- Se una ragazza è troppo magra, si dice che sembra malata;
- Se una ragazza è in carne e ha un seno prosperoso, si dice che è Cerere (la dea delle messi);
- Se una ragazza ha il naso piccolo come quello dei satiri, si dice che è una satira (figlia di Sileno);
- Se una ragazza ha le labbra carnose, si dice che ha le labbra così piene per baciare.

Questo catalogo è divenuto esso stesso oggetto di emulazione da parte di Orazio, Ovidio e Giovenale, ovvero autori
che parlando dell’amore in modo scettico, beffardo e sarcastico. Il caso di Ovidio, però, è leggermente diverso: è il
poeta per antonomasia dell’amore, ma ne parla smitizzandone l’aura di mito e passione assoluta e trasformandolo in
un gioco galante (senza, però, farsene beffa).

IL CONVITATO SAZIO SI ALLONTANA DAL BANCHETTO DELLA VITA, De rerum natura,


Lucrezio, testo T10 pag. 356
Qui la NATURA parla mediante l’espediente retorico delle PROSOPOPEA. Essa esorta l’uomo a non mostrare un
irrazionale attaccamento alla vita: è bene che da essa ci si allontani serenamente, come un convitato sazio si
allontana da un banchetto → questa similitudine sarà ritrovata anche in Orazio e soprattutto Seneca, autori d’epoca
successiva.

Lucrezio riempie questo concetto di profonde valente filosofiche epicuree:

1. Lo innesta perfettamente sul concetto che “la morte non è un male”


2. L’intervento della Natura a evitare gli eccessi e a ricercare il piacere evoca le idee di moderazione e
autosufficienza professate da Epicuro

Terminato il discorso, lascia spazio a considerazioni di carattere materialistico e meccanicistico.

LA SENTENTIA FINALE

Il passo si chiude con la sententia “la vita non è data in possesso a ciascuno, ma in uso a tutti”, concetto topico della
letteratura antica divenuto poi proverbiale. Importante è la differenza tra possesso e uso (che verrà anche ripresa da
Seneca):

 Un bene in possesso vuol dire che è un bene proprio, del quale si può disporre come si vuole e di cui si ha la
responsabilità
 Un bene in uso è un bene in prestito che si può usare finché non viene tolto (per cui, non sempre se ne sa la
durata)

Il termine sententia indica un’affermazione che vale in sé e per sé, avente quasi valore di un proverbio sapienziale (e
non di un proverbio popolare). Si tratta di un tipico modo di parlare e di esprimersi dei filosofi e degli scrittori
moralistici del mondo romano, che alla fine di un ragionamento rilasciavano una sententia che sarebbe diventata
una massima.

Il maestro della sententia sarà Seneca (filosofo più vicino allo stoicismo, non all’epicureismo), che riuscirà a
riassumere in un conetto facile e semplice un intero ragionamento filosofico complesso e articolato. Nonostante sia
stoico, produrrà testi che avranno come elemento di stile proprio la modalità di costruzione di sententiae.

LA VITA: UN DONO A TEMPO LIMITATO

Data la distinzione bene in possesso-bene in uso, facile è l’ANALOGIA CON LA VITA, un dono a tempo limitato.
Nell’ambito dell’epicureismo, questo ragionamento si lega al clinamen (deviazione spontanea degli atomi nel loro
vagare nel vuoto), alla genesi del corpo, alla teoria atomistica, al determinismo, etc., ovvero a tutte le parti di quella
visione che Epicuro costruisce sulla base della filosofia democritea, per la quale per cui tutto ciò che è fenomenico (e
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che, quindi, è tangibile con i sensi) ha un inizio e una fine. Il principio (l’atomo), che è indivisibile, è l’elemento di
perenne mutamento che provoca la trasformazione continua di ciò che è fenomenico.

LA VISIONE ATOMISTA ANTIRELIGIOSA LUCREZIANA

Sulla base di questa considerazione, Lucrezio cerca di riprendere il quadrifarmaco, cioè l’assoluta certezza che NON
esistano dei motivi per temere la morte (cosa che, in realtà, costituisce una delle più grandi paure dell’uomo
quando è in vita), perché nel momento in cui c’è la morte, l’uomo non c’è. Non esiste, quindi, un sistema di punizioni
o premi nell’Aldilà.

In questo modo, viene eliminata qualsiasi teologia, qualsiasi affermazione della vita terrena messa in relazione con
quella ultraterrena. La visione di Lucrezio, dunque, è una VISIONE ATOMISTA ANTIRELIGIOSA, poiché elimina
qualsiasi responsabilità della divinità dalla vita dell’uomo e dall’attribuzione di pene e castighi → per questo motivo
(come anche poiché San Girolamo lo definì pazzo), sarà un autore immediatamente superato e rifiutato dai pensatori
cristiani. La sua riscoperta avverrà molto più tardi, attraverso i due codici (l’ Oblongus e il Quadratus) ritrovati in
Alsazia in Età rinascimentale.

Lucrezio piacerà molto a Leopardi (sia filosofo che letterato → non viene considerato filosofo perché non è
sistematico, ma in realtà le sue opere sono fortemente intrise di filosofia e di un pensiero del tutto originale) che,
nella fase centrale del suo pensiero, costruisce il mito della NATURA MATRIGNA: l’uomo è stato creato da una
Natura che NON è una madre amorevole, ma è una matrigna. Essa, infatti, ha creato la sua creatura (l’uomo) in un
mondo pieno di sofferenza, dove non c’è nulla che possa salvarla dal male di vivere. L’uomo, quindi, non ha alcun Dio
che lo protegga e lo sostenga → anche la visione di Leopardi è completamente contraria a qualsiasi elemento
religioso e teologico (proprio come quella di Lucrezio; per questo molti studi li metteranno in relazione).

IL MONDO NON È OPERA DEGLI DÈI, De rerum natura, Lucrezio, testo T6 pag. 346
Lucrezio afferma che, mentre l’uomo è immerso in una realtà fenomenica percepibile con i sensi (la realtà della
φύσις), gli dèi sfuggono al controllo e alla reazione dei sensi. Per questo, se esistono, esistono in altri mondi, non in
quello della natura percepibile con i sensi (→ il discorso prosegue in modo logico-argomentativo).

La seconda parte del discorso chiama in causa non un ipotetico lettore, ma il dedicatario dell’opera, Gaio Memmio
(uomo politico, mecenate ante litteram e importante riferimento che permise a Lucrezio di realizzare la sua opera
con la tranquillità di avere un patronus). Qui sviluppa un ragionamento attraverso il sistema della domanda retorica
(non più in modo logico-argomentativo), la quale sviluppa le tappe del ragionamento.

Nella seconda parte del testo, Lucrezio spiega che, dal momento che gli dèi non appartengono alla realtà
fenomenica della natura, essi NON sono creatori del mondo (prende quest’idea dal sistema complesso di miti
teogonici e cosmogonici che vede come primo poeta Esiodo) → questa idea, invece, cozzerà tantissimo con il
cristianesimo, che si costruirà su questo principio.

Quindi, anche nella tradizione olimpica tipicamente pagana, all’origine del mondo degli uomini c’era un’azione
congiunta di princìpi naturali divinizzati e un’azione preordinata da parte di dèi e di divinità (basti pensare a
Prometeo, responsabile nel mito tradizionale di una serie di talenti e capacità umane a partire dalla scoperta del
fuoco).

Lucrezio in questo procedere non ha bisogno di citare nel dettaglio i miti singoli, ma gli basta riferirsi a una visione
del mondo, del cosmo e della realtà umana largamente diffusa.

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Per sviluppare bene questo concetto e togliere qualsiasi dubbio, procede nello sviluppo attraverso delle domande
retoriche:

1. Se gli dèi esistono, sono immortali e beati (perché nulla li può toccare) e vivono in un’altra realtà, il fatto che
noi abbiamo verso di loro gratitudine e utilizziamo riti per placarli e invocarli, a loro cosa serve?
2. Se gli dèi sono eterni, immotali e il corso del loro pensiero e comportamento è tale da così tanti anni, in che
modo pregandoli e relazionandoci con loro possiamo convincerli nel fare qualcosa che muti la storia
dell’uomo? Non c’è nessuna possibilità che gli dèi si lascino persuadere o colpire da qualcosa che noi
facciamo o diciamo, perché la loro è una condizione di estraneità e lontananza
3. In conclusione, si fa una terza domanda costruita con un primo assunto che riprende le due precedenti, e
che è dato dal doppio predicato nominale (è infatti evidente e necessario): che desiderio di curiosità pensate
che spinga queste creature così perfette a preoccuparsi di noi? Se questi esseri sono così perfetti, eterni,
vivono dall’antico e sono immutabili, in loro non c’è sicuramente nessun elemento di curiosità nei confronti
della nostra esistenza.
Interessante sono i due aggettivi utilizzati
a. Evidente: balza allo sguardo, è sotto gli occhi di tutti. Ciò che dice è talmente chiaro che sia
conseguenza di ciò che pensa, che è evidente, un dato oggettivo
b. Necessario: come sinonimo si può utilizzare il termine “inevitabile”. È una conseguenza stringente:
non c’è bisogno dell’azione di nessuno e della prova di niente, perché è qualcosa che si trascina
inevitabilmente come seconda conseguenza

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15/11/2022

L’ETÀ AUGUSTEA
GLI EVENTI STORICI FINO ALL’AFFERMAZIONE DI OTTAVIANO
I capisaldi sono:

- 44 a.C.: l’assassinio di Cesare non poteva certo porre rimedio all’inarrestabile crisi nella quale versavano le
istituzioni della repubblica. Roma aveva da tempo ampliato i suoi domini ed era oramai la potenza egemone del
Mediterraneo; aveva profondamente cambiato il suo tessuto sociale, poiché si erano venuti a creare vasti strati
intermedi.
Nella prima metà del I secolo a.C., c’erano stati conflitti politico-sociali (le lotte tra Mario e Silla, tra Cesare e
Pompeo, ma anche la congiura di Catilina), conseguenza di una società che diventava più articolata e complessa.
La dittatura di Cesare, dunque, era stata una risposta all’inadeguatezza istituzionale della vecchia gestione
collegiale del potere repubblicano: morto il dictator, non potevano che sorgere nuovi conflitti che sfociarono in
un sanguinoso periodo di GUERRE CIVILI.
Nel 44 a.C. Cesare è stato ucciso da un gruppo di congiurati guidato da Bruto e Cassio, sostenuti da una parte
consistente del Senato che, ora, si trova in una situazione di anarchia e difficoltà a tenere insieme i pezzi della
res publica. Il popolo, invece, era dalla parte di Cesare.
Si nota, dunque, che il Senato romano da una parte espone in pubblico una faccia con la quale mostra cordoglio
per la morte di Cesare, ma dall’altra si sente sollevato.
In questo contesto emerge un giovane: GAIO GIULIO CESARE OTTAVIANO, nipote di Cesare che, quando torna a
Roma da una campagna militare, trova come uomo più potente che cerca di raccogliere l’eredità cesariana
Antonio (detestato, però, dalla parte più conservatrice del Senato romano).
- 43 a.C.: in quest’anno ha luogo la GUERRA DI MODENA, che vide lo scontro tra le legioni cesariane di Marco
Antonio e i repubblicani guidati dai consoli Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, in alleanza con l'altra fazione cesariana
guidata dal giovane Cesare Ottaviano.
La sua risoluzione vede la stipulazione del SECONDO TRIUMVIRATO tra Antonio, Ottaviano e Lepido, un patto
pubblico (e non più privato).
- 42 a.C.: con il Secondo Triumvirato cambia l’aspetto della politica. Antonio e Ottaviano si alleano, allestendo una
campagna militare contro Bruto e Cassio (che avevano già allestito un loro esercito formato da molti colti
romani), i quali, sconfitti, si suicidarono.
- 41-40 a.C.: c’è uno status quo del Triumvirato fino a quando l’assetto politico porta una rivalità crescente tra i
due triumviri Antonio e Ottaviano, anche per l’avvicinamento di Antonio alla regina d’Egitto Cleopatra, della
quale era divenuto prima amante, poi marito e padre di tre figli.
- 32 a.C.: rotto formalmente il patto, Ottaviano muove guerra ad Antonio, cercando di dipingerlo come un
degenerato, pronto a trasformare Roma in una sorta di monarchia orientalizzante.
- 31 a.C.: Ottaviano sconfigge nella BATTAGLIA DI AZIO Antonio e Cleopatra, entrambi morti poi suicidi. Il figlio di
Cleopatra e Cesare, Cesarione, viene raggiunto da un sicario probabilmente invitato da Ottaviano e ucciso,
poiché aveva nelle mani sia l’eredità di Cesare che quella di Cleopatra; dunque, avrebbe potuto essere un rivale
molto pericoloso.
Con questa data si suole far iniziare l’età di Augusto, l’età imperiale, anche se questo titolo venne assegnato a
Ottaviano solo nel 27 a.C.
- 27 a.C.: Ottaviano riceve il titolo di AUGUSTUS, un’espressione intraducibile che allo stesso tempo richiama le
potenzialità di far accrescere le sorti di Roma, allude alla sfera religiosa e afferma le eccezionali doti della
persona. Roma, dopo la cacciata dei Tarquini in epoca arcaica, aveva maturato un’avversione ideologica
fortissima di istituzioni di tipo monarchico, considerate indegne di un popolo libero. Pertanto, Augusto si sforzò
sempre di dare rassicurazioni al popolo e al senato sul rispetto della tradizione della patria e delle istituzioni
repubblicane, insistendo su un generico ruolo di PRINCEPS (e non di IMPERATOR, che viene utilizzato solo con
valenza militare) che ne faceva primus inter pares, eminente solo per la sua autorità morale. Non può però
sfuggire l’assoluto accumulo di potere, prerogative e funzioni sulle spalle di un unico uomo.
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- 16 a.C.: comincia un periodo di espansione geografica di consolidamento dell’Impero Romano. Norico, Rezia,
Pannonia e Mesia diventano province romane, come anche l’Egitto, che smette di essere uno Stato
indipendente, anche se confederato/alleato di Roma (→ l’ultimo regno ellenistico perde la libertà ed entra
nell’imperium romano).
- 14 d.C.: l’impero di Augusto è molto lungo e dura fino alla sua morte, nel 14 d.C. Poiché non lasciare nessun
erede biologico maschio (ha solo una figlia femmina, Giulia), la sua successione sarà difficile: viene disegnato
come uomo princeps e poi imperator Tiberio, figlio di primo letto della moglie di Ottaviano, Livia Drusilla.

GLI AUTORI DELL’ETÀ AUGUSTEA


- VIRGILIO (70-19 a.C.): lo tratteremo per le Bucoliche
- ORAZIO (65-8 a.C.): lo tratteremo per la satira e le Odi
- LIVIO (59-17 a.C.): è l’unico storico, perché tutti gli altri sono poeti
- PROPERZIO (50-16 a.C. circa): è un autore elegiaco
- TIBULLO (50-18 a.C. circa): è un autore elegiaco
- OVIDIO (43 a.C.-17/18 d.C.): lo tratteremo per la trasformazione della poesia epica ed elegiaca

Tra questi autori c’è un divario generazionale:

 OVIDIO: è un autore molto più giovane rispetto a Virgilio e Orazio, la cui vita si concentra nel momento in cui
il potere di Ottaviano Augusto è più consolidati → non vive sulla sua pelle le guerre civili (durante la battaglia
di Azio ha dieci anni)
 VIRIGLIO e ORAZIO: sono uomini che vivono la fase più acuta e drammatica delle guerre civili, che
sicuramente influenzano la loro esperienza biografica e poetica
 PROPERZIO e TIBULLO: quando il potere di Ottaviano si consolida dopo la battaglia di Azio, sono
decisamente adulti

TRA ORIENTE E OCCIDENTE


Negli anni ’30 del primo secolo a.C., i due triumviri, prima collaborativi tra loro, si vedono sfidanti. Ognuno si è
spartito la propria area di interesse:

 Ottaviano l’OCCIDENTE
 Antonio l’ORIENTE, dove ha fatto di Alessandria d’Egitto, sotto il potere di Cleopatra, la sua base

Questa spartizione diventa una dicotomia elemento di propaganda politica (per esempio, Ottaviano fa leva sulla
paura dei cittadini dicendo che Antonio vuole trasformare la res publica romana in una periferia dell’Egitto. Uno dei
punti chiave della propaganda augustea, infatti, sarà preservare l’identità occidentale, ovvero la romanità, e
contemporaneamente le sue origini italiche).

LA PROPAGANDA AUGUSTEA
La propaganda augustea di serve di due importantissimi collaboratori, bracci destri di Ottaviano in ambiti diversi:

1. VIPSANIO AGRIPPA

Vipsanio Agrippa è il braccio armato, generale più importante di Ottaviano.

Quest’ultimo, pur essendo un abilissimo stratega, in realtà non era particolarmente forte: a scendere fisicamente in
battaglia c’era il suo generale Agrippa, che diventerà marito della figlia Giulia, al fine di garantire al princeps una
discendenza sicura.

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2. GAIO CILNIO MECENATE

Gaio Cilnio Mecenate è il braccio culturale di Ottaviano.

L’impegno propagandistico della letteratura

Ottaviano Augusto comprende la necessità di recuperare e indirizzare a proprio vantaggio la letteratura romana.
Insieme con la maestosità dei monumenti pubblici e con la potenza comunicativa delle immagini di un princeps
onnipresente, la letteratura e soprattutto la POESIA dovevano servire alla legittimazione del potere augusteo e alla
sua celebrazione → doveva diventare uno strumento di propaganda.

Dunque, almeno per la prima parte del suo principato (fino alla morte di Mecenate), questa azione di sostegno e
direzionamento della cultura è fondamentale per la costruzione del CONSENSO, ovvero il fare in modo che
l’opinione pubblica non sia oppressa ma in linea con le decisioni, linee di indirizzo e azioni di governo del potere del
princeps.

IL CIRCOLO DI MECENATE

Da qui nasce il CIRCOLO DI MECENATE, un punto di riferimento ideale per i poeti, non un “luogo” fisico di periodiche
riunioni. Questi artisti raggruppati attorno alla figura di Mecenate come mentore e benefattore, costruiscono tassello
dopo tassello la cultura e comunicazione letteratura attraverso un filtro che mira sempre ad AMPLIFICARE E
SOSTENERE LE LINEE GUIDA DEL GOVERNO DEL PRINCEPS, sostenendolo (e non contrastando), celebrando le fonti
italiche, la romanità, i valori del passato incarnati nel mos maiorum ma ampliati dal concetto acquisito di humanitas,
la figura stessa del princeps, i grandi uomini del presente e del passato e, infine, la grandezza del populus romanus.

Il Circolo di Mecenate, dunque, esercita un controllo sulla cultura, anche se i suoi aderenti (in particolare Orazio,
Virgilio e Quintilio Varo, un intellettuale che però non scrive) sono sinceramente favorevoli alla propaganda e
all’azione di Ottaviano, perché una generazione come la loro, che ha vissuto sulla sua pelle il dramma delle guerre
civili, non può che apprezzare la pax universale all’insegna della quale si aprirà l’età augustea.

Succede, però, che comincia a diventare problematico il concetto di LIBERTÀ: è vero che c’è sincera adesione, ma il
progetto politico, ideologico e culturale augusteo NON ammetteva alcuna forma sostanziale di dissenso o critica.
L’abilità di Augusto fu quella di camuffare l’assenza di libertà con parole d’ordine rassicuranti e largamente
condivisibili. A lungo andare, però, questo indebolirà il concetto da parte degli artisti, non ancora per questa
generazione ma per quelle successive.

→ In realtà, in Ovidio c’è già per la prima volta questa dicotomia: nel 9 a.C. sarà relegato (ovvero allontanato
forzatamente da Roma e i suoi beni verranno congelati) a Tomi, sul Mar Nero, poiché il suo rapporto con la
propaganda e con il controllo della cultura del princeps si rompe.

Il rapporto armonioso della propaganda

Questo rapporto armonioso che si crea non riuscirà a essere replicato, e durerà almeno fino alla morte di Mecenate
(nell’8 a.C.). Infatti, fu caratterizzato da una straordinaria armonia tra le linee di governo del princeps e l’adesione
sincera dei poeti, senza adulazioni né forzature.

Nell’8 a.C. morirà Mecenate, qualche mese dopo Orazio mentre qualche anno prima Virgilio. Questi ultimi due,
infatti, sono legati alla figura di Mecenate e alla fase migliore tra i letterati e il potere. I poeti più giovani, invece, la
cui vita continua, cominciano a vedere l’avvio del DETERIORAMENTO di questa connessione, che sarà il punto focale
del rapporto spesso difficile e talvolta conflittuale tra intellettuale e potere.

→ HAUD MOLLIA IUSSA, “per i comandi non leggeri”: talvolta nei poeti si trovano comandi non dolci come
questo. Questa espressione indica l'ordine urgente di adesione al programma politico-culturale impartito da
Mecenate (che a sua volta è portavoce di Ottaviano) al suo cortigiano; questi comandi, però, dal momento
che c’è un’adesione sincera, sono accettabili e facili da aderire.

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Gli spazi personali degli artisti

L’atteggiamento di questi poeti è un atteggiamento diverso: se è vero che il rapporto tra intellettuale e potere
funziona, è anche vero che ciascun intellettuale, nel rispetto dell’equilibrio e della fedeltà, ha un suo SPAZIO DI
AUTONOMIA E CREATIVITÀ, altrimenti nessuno sarebbe così bravo:

 OVIDIO: il suo tratto distintivo è l’umorismo, che a volte rischia di essere dissacrante
 VIRGILIO: è la poetica dei vinti, in cui si riscopre una sensibilità nei confronti della sofferenza e del dolore
dell’uomo, in particolare nell’empatia provata verso colui che perde → il suo narrare nell’epica non risulta
mai di un trionfalismo vuoto e retorico, perché c’è sempre uno sguardo che scende allo stesso livello dei vinti
per vedere il loro dolore
 ORAZIO e TIBULLO: c’è profondo lo spirito della medietas, ovvero la lode della vita semplice di campagna.
Infatti, ci sono testi di Orazio finalizzati alla pubblicazione nei quali egli risponde a Mecenate affermando di
non aver voglia di venire a Roma poiché è in campagna che si gode la vita semplice → ecco la libertà da parte
degli artisti di rifiutare un ordine di Mecenate
 PROPERZIO: è la passionalità, poiché riprende la vita come amore e passione, che talvolta brucia e consuma

LA STORIOGRAFIA di Livio: rapporto tra letteratura e potere


Se tutto questo funziona per la poesia, funziona molto meno per la STORIOGRAFIA, genere letterario in prosa che
dovrebbe raccontare oggettivamente la storia (dunque, dell’ascesa al potere di Ottaviano, e di come ciò abbia
comportato il passaggio dalla res publica a una dittatura, in cui tutti i poteri vengono concentrati nelle mani di un
console per 40 anni e dove le istituzioni, sempre presenti, vengono però svuotate di significato e potere).

In realtà, è il genere più pericoloso che non riesce a riscontrare consenso, perché, dovendo esprimere un giudizio
con oggettività, quest’ultimo non sarebbe positivo né nei confronti di Cesare, né in quelli di Ottaviano. Dunque,
anziché svilupparsi, sopravvive con il suo più importante esponente: LIVIO.

Livio fa un’operazione fondamentalmente di amarcord: più che raccontare le vicende presenti contemporanee, che
potrebbero avere contorni problematici, racconta il passato più lontano della fase arcaica (età delle conquiste e
grandi uomini che hanno fatto Roma). In questo modo, diventa un cantore della romanità, cioè di come il popolo
romano, grazie al mos maiorum, al suo valore bellico e all’abnegazione, sia riuscito ad arrivare dove è. La storiografia
di Livio sopravvissuta è quella legata all’età delle conquiste, soprattutto tramite riassunti dei Ab urbe condita
(chiamati periochae).

Tra le parti sopravvissute del testo di Livio spicca l’Epopea della guerra punica (Bellum Poenicum), nella quale viene
articolata la figura di Annibale (che diventerà una figura archetipica del grande nemico). I cartaginesi, infatti, non
godevano di buona stampa nel mondo romano: erano infidi, traditori e portatori di una cultura diversa. Annibale, in
particolare, viene rappresentato da Livio come un grande nemico, sia per onorarlo e rispettarlo, che per far
indirettamente brillare la figura di chi lo affronta e, quindi, dare lustro e importanza a esso in caso di vittoria.
Dunque, in questo senso Livio rientra nella versione storiografica che già aveva avuto nei commentari di Cesare
(dove nelle res gestae rappresenta i Galli nella loro alterità rispetto al popolo romano come grandissimi avversari)
una prima importante affermazione.

Livio viene definito un AUTORE EPICO IN PROSA: questo serve per spiegare quella sua isolata affermazione da
storico in un’epoca che di storici non ne ha. Lui, infatti, è un cantore della grandezza Roma, e, in quanto tale, il suo
modo di affrontare la grandezza storica è molto più simile a un autore epico che a uno storico vero e proprio → la
storiografia di Livio è prodotta in un periodo in cui NON C’È SPAZIO PER LA STORIOGRAFIA OGGETTIVA E
SCIENTIFICA. Dunque, il suo si tratta di un racconto che dovrebbe essere storico, ma che, in realtà, pienamente
celebrativo e curato da Augusto stesso, racconta gli esordi di Ottaviano e parte con un’affermazione di carattere
apologetico, nella quale difende il princeps dalle accuse di aver usurpato il potere. Si tratta, allora, di una
CELEBRAZIONE DEL REGIME SOTTINTESA DALLO STESSO AUGUSTO.

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Dunque, nel rispetto del nemico, come già detto, Livio è anche DEBITORE A CESARE: le res gestae, infatti, riprendono
anch’esse delle virtutes espresse da Cesare stesso con grande forza. Una su tutte, la clementia, ovvero la capacità
del perdono politico (è una virtù politica e non etica) al momento giusto di un avversario che è stato sconfitto, ma
che, nonostante ciò, resta degno di rispetto (per esempio, Cicerone subisce la clementia).

→ Al contrario, il periodo della dittatura sillana non gode di buona stampa nelle epoche successive, ma
piuttosto di un racconto cupo, poiché Silla non ebbe avuto la lungimiranza di utilizzare la clementia come
strumento di governo (a differenza di Cesare); anzi, al contrario utilizzò le liste di proscrizione, che vedono in
Silla l’anticipatore di alcune brutalità poi commesse dagli imperatori.

Svetonio ci narra dice che Augusto chiamava affettuosamente Livio “il mio pompeiano” → il tono era chiaramente
ironico, perché lo prendeva in giro, anche se chiaramente come gioco/scherzo: era come dire il mio avversario,
perché Pompeo era l’avversario di Cesare.

Livio, pur essendo nell’alveo della propaganda augustea (che non ammetteva forme di dissenso), è riuscito a
mantenere una certa neutralità nella critica; infatti, scrivere storiografia era talmente pericoloso che, anche se si era
fedeli al princeps, il fatto stesso di scrivere questo genere letterario rendeva una persona fautrice della res publica (e
tutti coloro giudicati tali, hanno fatto una brutta fine, non riuscendo a non varcare la sottile soglia del dissenso).

Proprio come conseguenza di tutto questo, la maggior parte delle opere storiografiche vengono criticate,
dimenticate, sottoposte a censura o bruciate. Addirittura, da Tiberio in poi le opere storiografiche porteranno alla
condanna a morte dello storico stesso.

Riassumendo, la storiografia da questo momento in poi e fino a Tacito sarà un GENERE LETTERARIO
ASSOLUTAMENTE IN DIFFICOLTÀ.

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21/11/2022

L’ORATORIA: un genere sempre più in decadenza


L’altro genere insieme alla storiografia a non avere personalità di spicco è l’ORATORIA, arte sempre praticata nella
storia dai giovani rampolli del Senato. È, però, chiaro che l’arte del bel parlare abbia bisogno di un clima politico di
maggiore competizione (il cui apice era stato raggiunto nella fase finale della res publica, ovviamente tramontata).

I discorsi che si continuano a pronunciare in Senato sono principalmente discorsi che risultano essere:

 Discorsi celebratici nei confronti di Ottaviano e di alcune feste


 Discorsi tecnici relativi alle varie leggi che dovevano essere promosse, alle iniziative, etc.
 Discorsi giudiziari, di cui, però, non ci sono oratori di spicco come nella fase precedente

Tra gli oratori celebrati prima di Ottaviano, oltre che Cicerone, spiccano Catone Uticense e Cesare; tra gli avvocati
c’era Quinto Ortensio Ortalo.

GLI ALTRI CIRCOLI CULTURALI


Mecenate non fu l’unico “organizzatore culturale” dell’età augustea, durante la quale si distinsero nel medesimo
ruolo due altre figure: quella di ASINIO POLLIONE e quella di MESSALLA CORVINO. I loro circoli, rispetto a quello di
mecenate, mantennero nei confronti del potere augusteo un atteggiamento di maggiore distacco e indipendenza,
anche se non certo di opposizione.

IL CIRCOLO DI ASINIO POLLIONE

Asinio Pollione era stato un uomo politico legato a Cesare e poi ad Antonio nell’alveo dei populares. Durante la
guerra di quest’ultimo contro Ottaviano, assunse un atteggiamento di neutralità: dal 39 a.C., infatti, dopo aver
ricoperto il consolato nell’anno precedente, si era ritirato dalla vita politica per dedicarsi completamente alla cultura,
raggruppando attorno a sé un circolo culturale alternativo a quello di Mecenate.

Ad Asinio Pollione, poeta tragico, oratore di tendenza atticista e critico letterario, e al suo circolo culturale si
attribuisce l’introduzione a Roma dell’uso, poi divenuto consueto, delle RECITATIONES, cioè delle pubbliche letture
delle proprie novità poetico-letterarie. Si tratta di una nuova forma di fruizione della cultura, che non comporta più
la lettura in prosa davanti a un pubblico o l’intrattenimento dello spettacolo teatrale, ma una comunicazione e uno
scambio diretto tra autore e pubblico.

Sempre nel 39 a.C., fondò a Roma la prima biblioteca pubblica, notevole segno di una lungimiranza e mecenatismo.
La seconda sarà fatta aprire da Ottaviano stesso, che, qualche tempo dopo, ne fece aprire una sul Palatino, al fine di
offuscare e superare la fama e la gratitudine che era stata suscitata dall’azione di Pollione.

IL CIRCOLO DI MESSALLA CORVINO

Valerio Messalla Corvino si accostò a Ottaviano in un secondo momento, dopo aver parteggiato per Bruto e Antonio,
attraverso un tortuoso percorso politico proprio di molti della sua generazione. In età augustea ebbe diverse cariche
e funzioni, nonostante ostentasse (come anche il suo circolo e gli artisti sotto la sua protezione) un nostalgico
atteggiamento filo repubblicano verso il quale principe si mostrò tollerante, giudicandolo politicamente innocuo,
anche in coerenza con l’ostentato rispetto per le istituzioni repubblicane, magistrature e modalità operative che,
seppur svuotate di senso e delegittimate, venivano rispettate.

Oratore di tendenza atticista, poeta di gusto neoterico, Messalla raccolse intorno a sé poeti inclini a una POESIA
“LEGGERA”, ripiegata su temi che non disturbano la politica di ispirazione soggettiva (amore, amicizia,
contemplazione della natura, etc.) e dalle forme eleganti, nel solco della tradizione alessandrina. Infatti, questo è
dimostrazione del fatto che la nostalgia per il passato non venne a contrastare.

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Tra i più importanti ci sono gli elegiaci Tibullo e Ovidio, nonché il giovanissimo Properzio, prima che si avvicinasse a
Mecenate.

CLASSICO E CLASSICISMO
All’idea di CLASSICO si associa un senso di perfezione, equilibrio, armonia universalmente riconoscibile; inoltre, è
considerato “classico” qualcosa che fa parte del patrimonio collettivo di una civiltà, qualcosa che “non si può non
conoscere”.

Dunque, il classico, così come è stato definito anche dai filosofi novecenteschi, è la PERFETTA SINTESI tra tradizione
e innovazione.

Il CLASSICISMO, invece, può essere considerato un irrigidimento del classico; si tratta, infatti, di un atteggiamento
tendente a rifarsi nei contenuti e, soprattutto, negli aspetti formali a ciò che è considerato classico. A esso segue il
manierismo, un ulteriore irrigidimento.

LO SGUARDO AL PASSATO
Entriamo nel campo della poesia. Fatto salvo Livio e tenendo da parte gli elegiaci Properzio e Tibullo, gli artisti che
creano l’impronta della poesia occidentale sono VIRGILIO, ORAZIO e, a una generazione di distanza, OVIDIO. Queste
tre personalità distinte creano produzioni poetiche diverse, ciascuna campione nel suo ambito e con le sue modalità
di un genere, di una sensibilità e di uno stile.

LA RIELABORAZIONE DEI MODELLI GRECI

La Roma del tempo aveva nei Greci i propri “classici”: per quanto riguarda le arti figurative, si guardava all’arte
dell’Atene nel V secolo a.C. come un’esperienza a cui tendere con spirito emulativo; e anche per quanto riguarda la
letteratura, i Romani non negavano la necessità di seguire le orme dei “grandi” autori greci capostipiti dei vari generi
letterari.

L’età augustea vide, perciò, in ogni ambito artistico una straordinaria tensione emulativa verso i modelli greci, con
la consapevolezza che il prodotto finale dovesse comprendere anche aspetti estetici e contenutistici propri della
tradizione e della cultura romane.

L’eredità neoterica

Non si può negare che senza la rivoluzione neoterica e gli scambi economici e culturali che hanno permesso una
formazione non più solo sulla grande poesia omerica, ma anche su tanti altri generi letterari diversi (per esempio, la
poesia lirica ed ellenistica) non avremmo avuto quest’epoca di capolavori. I poetae novi, infatti, avevano dato ai
letterati romani una dignità del tutto nuova, una inusitata consapevolezza delle proprie doti tecniche e delle proprie
potenzialità creative.

Dunque, nel background culturale di ciascuno la letteratura greca è stata sostituita sia dalla LETTERATURA ARCAICA
di Esiodo e Omero, sia dalla LETTERATURA CLASSICA (in particolare la tragedia di Euripide, che a sua volta
influenzerà molto Virgilio nella costruzione della sua epica), sia dalla POESIA ELLENISTICA e ARCAICA portata a Roma
dalla mediazione di Catullo e dei poetae novi.

LA RIELABORAZIONE DEI MODELLI ROMANI

Nondimeno, il secondo blocco della formazione di questi poeti era costituito dalla tradizione romana, ovvero il
meglio che fino allora si era potuto vedere. Dal punto di vista poetico, il grande svecchiamento della poesia romana
è stato fatto da Catullo e dai poetae novi, ma anche dalla poesia didascalica di Lucrezio, Livio Andronico ed Ennio.

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GLI AUTORI E I GENERI LETTERARI
Su questo richiamo in termini di contenuti, forma, stile e metrica al passato, c’è un forte CARATTERE
SPERIMENTALE. Ciò significa che ognuno degli autori è abbastanza consapevole di aprire delle porte nuove, cioè di
sperimentare con la lingua latina dei generi letterari o praticati nella fase precedente soltanto in lingua greca, o
praticati da autori lontani che, quindi, sono consapevoli di svecchiarli.

Ciascuno di loro è anche dotato di una particolare sensibilità: oltre a tradizione e all’innovazione intesa come
sperimentalismo nei contenuti e nello stile, c’è anche un’ispirazione personale → una parte, frutto del talento e della
sensibilità, rende la produzione di questi tre autori riconoscibile e marcata da uno spirito individuale tipico che li
rende in qualche modo dei modelli per gli autori successivi.

Il primo è VIRGILIO, autore di Bucoliche, Georgiche ed Eneide:

 Bucoliche: hanno come modello la poesia bucolica inventata da Teocrito nell’età ellenistica e mai praticata in
questa forma a Roma
 Georgiche: sono un poema tecnico-didascalico (che tempo prima era stato utilizzato anche da Lucrezio
nell’argomento filosofico) dedicato all’agricoltura
 Eneide: è un’epica romana con una base e un fondamento importante nella storia e nella tradizione e nei
miti schiettamente romani, non un’epica greca basata su miti greci. In realtà, la presenza di Enea come eroe
fondatore è una presenza antichissima nel mito troiano, un personaggio che nasce con il ciclo iliadico

ORAZIO, invece, produce:

 Epistole in metrica
 Satire: è un genere che probabilmente nasce in Grecia ma che aveva visto una romanizzazione
importantissima nell’età repubblicana con Lucillio, che Quintiliano definirà tota nostra → rivendicherà
l’invenzione romana delle satire
 Epòdi: si ispirano alla poesia giambica tradizionale greca
 Odi: con esse si presenta come il nuovo Alceo, cioè come poeta lirico

OVIDIO è prima di tutto poeta elegiaco, elegia praticata anche da Tibullo e Properzio:

 Elegia: è un genere letterario della poesia lirica


 Metamorfosi: è un poema epico unico e ciclico, ma al contempo anche frammentario e costruito ad anello,
assolutamente nuovo e destinato a rimanere talmente tanto nel pensiero occidentale che sarà anche una
delle fonti di ispirazione di Dante

I tre poeti sono autori di generi letterari diversi, all’interno di ciascun dei quali ciascuno diventa un modello,
operando con una fortissima carica di sperimentalismo. Il SUCCESSO immediato che ricevono le loro opere appena
pubblicate li mette direttamente nel canone, facendo in modo che non si prescinda più da questi poeti, che
diventano classici non appena le loro opere vengono performate.

LA DIFFUSIONE GRAZIE ALLE RECITATIONES

Questo è particolarmente evidente con la vicenda editoriale dell’Eneide virgiliana. Quando il poeta muore
improvvisamente per malaria tornato da un viaggio, la sua opera non era completa e, sul letto di morte, afferma di
bruciarla poiché non aveva raggiunto la stessa perfezione delle Bucoliche.

In realtà, non fu così: i suoi amici la pubblicarono, proprio grazie alle recitationes. Infatti, all’interno del Circolo di
Mecenate avvenivano delle letture pubbliche delle novità letterarie (delle opere dei poeti mentre le stanno ancora
scrivendo, ovvero in fieri) tra gli artisti del Circolo stesso e tra le persone dell’entourage di Ottaviano Augusto (lui e i
membri della sua famiglia) → questo non accade a Ovidio, di una generazione successiva a Orazio e Virgilio.

I circoli erano anche momenti di affetto: Orazio dice più volte che all’interno del Circolo di Mecenate non c’è né
competizione né di rivalità, ma DESIDERIO SINCERO DI STARE INSIEME (→ sono luoghi in cui nascono amicizie).

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Nell’ambiente di Alessandria d’Egitto, in Grecia, invece, gli artisti e intellettuali sono muniti di coltelli e parlano male
gli uni degli altri → sarà un ambiente litigiosissimo in cui tutti dovranno difendersi.

IL PUBBLICO

Siamo sicuri di coloro che facevano parte del pubblico soprattutto grazie alle recitationes dell’Eneide; a esse, infatti,
assisteva la famiglia di Ottaviano. Quando Virgilio lesse il libro VI che racconta della catabasi (di Marcello, nipote di
Augusto, giovane di buone speranze e grandi capacità che muore precocemente durante una campagna militare), la
sorella di Augusto, madre di questo Marcello, fu talmente tanto commossa dai versi meravigliosi scritti da Virgilio
che donò al poeta una somma di denaro incredibile, proprio in segno di RINGRAZIAMENTO → questo è
testimonianza del fatto che questi poeti erano anche sostenuti e alimentati; per certi aspetti, dunque, erano poeti
cortigiani, ma di una cortigianeria che è comunanza di vita, rispetto e sostegno, NON adulazione.

Già da 50 anni (quindi per tutto il primo secolo), si vede uno scollamento tra i gusti della plebe e i gusti dei dotti.
Questo divario, infatti, si acuisce nell’età classica, la quale vede una poesia che NON va a sollecitare un pubblico poco
dotto: si tratta di una poesia per un PUBBLICO RAFFINATO.

Sicuramente segue anche una fruizione media, ma la plebe romana non è più interessata alla produzione letteraria
da molto tempo. In quest’epoca, infatti, nascono gli INTRATTENIMENTI destinati al popolo, comprendenti
performance meno impegnative dei generi teatrali tradizionali (tragedia e commedia) e più spettacolari, come il
MIMO e il CIRCO.

VITRUVIO
Di Vitruvio sono ignoti il luogo e la data di nascita, come pure la sua completa onomastica. ARCHITETTO E
INGEGNERE, collaborò con Augusto progettando e costruendo, per esempio, la Basilica di Fano. Per queste sue
attività ebbe, in vecchiaia, una considerevole pensione.

In realtà l’esordio della sua carriera fu quando fu ufficiale del genio sotto Cesare durante le campagne militari in
Gallia, occupandosi della costruzione e della manutenzione delle macchine da guerra.

IL DE ARCHITECTURA

Fra il 27 e il 23 a.C., Vitruvio scrisse il De architectura, dedicando la sua fatica ad Augusto, che in quegli anni stava
realizzando importanti opere pubbliche e progettava la riorganizzazione urbanistica di Roma.

L’opera, unico trattato di architettura pervenutoci dal mondo greco e ormano, è divisa in dieci libri, ognuno dei
quali ha un proemio e alcuni excursus (descrizioni di luoghi, racconti di aneddoti, etc.). Scritta in latino tecnico,
tramite il quale cerca di raccontare l’ingegneria e l’architettura (come si costruiscono i muri, i capitelli, la forma del
teatro, etc.); ovviamente si tratta di prosa e non di poesia

La costruzione dei teatri

Motivo per cui Vitruvio è così importante è perché racconta come erano fatti i TEATRI.

Prima della prima costruzione di un teatro in pietra da parte del mecenate e filantropo Pompeo negli anni 60, i teatri
erano mobili, strutture a tendone che avevano una parte in legno semimobile e una parte con velature e coperture
necessarie a proteggere dal sole.

I primi, costruiti in pietra, vengono eretti a Roma in pianura, poiché erano ben sviluppate le capacità ingegneristiche
nella costruzione di strutture complesse, anche a più piani → ne risultavano costruzioni belle e anche funzionali.

In GRECIA, invece, la costruzione del teatro (a partire dal V secolo a.C.) sfruttava gli elementi naturali, come la
pendenza naturale di una collina, sulle cui sponde venivano appoggiate le gradinate. Sfruttando questa caratteristica
morfologica, si ottenevano anche effetti straordinari dal punto di vista dell’acustica per la propagazione delle onde
sonore.

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43
LA “ROMA DI MARMO” DI AUGUSTO, approfondimento, pag. 16
Questa breve porzione di testo cerca di ricordare come anche all’interno della politica di governo di Ottaviano ci sia
stato un RIAMMODERNAMENTO e un ABBELLIMENTO DELLA CITTÀ STESSA, che, a partire dal I secolo, diventa
anche più monumentale.

Tanta parte degli edifici pubblici e dei luoghi di fruizione pubblica, infatti, tra i I e il II secolo erano ancora costruiti in
legno; invece, con Ottaviano si apre una FASE EDILIZIA fondata sull’uso prevalente di pietra, laterizio e marmo.
Questo è possibile anche per il nuovo apporto e flusso di ricchezza che arriva con il consolidamento del
Mediterraneo come mare nostrum → ROMA è la città che comincia a essere non più solo il riferimento politico, ma
anche culturale, artistico e architettonico.

L’INIZIO DELL’AVVENTURA DI AUGUSTO, Res gestae divi Augusti, Ottaviano Augusto,


testo T1 pag. 23
“[…] con il quale restituii a libertà la Repubblica oppressa […]” → questa è un’affermazione apologetica in cui
Augusto si difende dall’aver assemblato un esercito dedito al colpo di Stato e dalle conseguenti accuse di aver
usurpato il potere (“con mia personale decisione e a mie spese personale costituii un esercito ”). Chiaramente nessun
cittadino in uno Stato repubblicano con organismi statali stabiliti può farsi un esercito, ma lui lo inserisce in una frase
in cui la parola chiave è LIBERTÀ (l’ha fatto perché voleva restituire la libertà alla Repubblica oppressa da una
fazione).

Nel periodo immediatamente successivo dà la chiave di lettura: “Per tale mio merito […]” → non è una colpa, ma un
merito.

LA CARRIERA POLITICA DI OTTAVIANO AUGUSTO

Il problema è che OTTAVIANO AUGUSTO aveva 19 anni e NON aveva ancora compiuto nulla del cursus honorum.
Allora, essendo così giovane, stava per partire per una campagna militare lontano da Roma, dove era stato piazzato
dall’illustre zio, nonché padre adottivo, Giulio Cesare (fratello della madre), ma gli arriva la notizia che Cesare è stato
ucciso.

Allora torna indietro e, con un acume politico straordinario, riesce a muoversi in un mondo politico romano pieno di
uomini politici disposti a tutto per mantenere la propria fetta di potere. Nonostante la giovane età (siamo nel 43 a.C.,
quando lui ha 20 anni), dunque, grazie alla formazione del proprio esercito privato riesce a farsi affidare dal Senato
una serie di cariche, pur non avendo il regolare cursus honorum.

All’interno del Senato, il suo principale sponsor politico era CICERONE, il quale era convinto che il vero politico e
uomo più potente di Roma (poiché aveva il sostegno dei populares e della plebe) in quel momento dopo la morte di
Cesare fosse Marco Antonio, il luogotenente di Cesare. Vedendo questo giovane capace e legato per parentela a
Giulio Cesare stesso, individua in lui un possibile avversario per Antonio, anche perché, essendo così giovane, era
facilmente manipolabile politicamente e in sé aveva le caratteristiche per essere un homo novo che, senza troppa
iniziativa personale, potesse seguire le linee politiche dettate da lui e dai senatori della sua fazione.

Alla fine non andrà tutto così secondo i piani, perché nel giro di poco tempo ci sarà un colpo di mano: Ottaviano,
dopo essere uscito dal cono d’ombra di Cicerone, forma il SECONDO TRIUMVIRATO, un patto pubblico che, per
essere suggellato, fa accettare ai tre triumviri che gli altri due facciano piazza pulita dei loro avversari → Antonio,
chiaramente, chiede e ottiene il permesso di eliminare Cicerone, il suo principale avversario (aveva scritto una serie
di orazioni di fuoco contro Antonio, le Filippiche, così chiamate poiché il modello è quello delle orazioni scritte ad
Atene da Demostene contro Filippo di Macedonia).

A questo punto Antonio invia dei sicari verso la villa fuori città di Cicerone, il quale aveva capito ciò che xtava
accadendo e si stava facendo portare con una lettiga verso il porto per andare in Oriente in esilio. Uno schiavo, però,
tradisce la sua fiducia e dice ai sicari la strada che prenderanno: essi arrivano, Cicerone li vede da lontano, si ferma e
dice “State cercando me?”. Lo prendono, lo uccidono, gli tagliano la testa e le mani e le portano a Roma, per esporle
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su picche nel foro suoi rostri, perché Ottaviano vuole dimostrare che fine fanno le mani e la testa che hanno osato
scrivere o parlare contro di lui.

UN PRINCEPS VITTORIOSO MA CLEMENTE, Res gestae divi Augusti, Ottaviano Augusto,


testo T2 pag. 24
Questo passo espone la virtus della CLEMENTIA. La parola chiave che indica il perdono è VENIAM.

Ottaviano per la prima volta dice apertamente l’espressione proibita di GUERRA CIVILE. Infatti, chi combatteva le
guerre civili a Roma tendeva a non farsene atto, poiché esse erano guerre fratricide; qui, invece, questi scontri sono
rivendicati con un certo orgoglio: da una parte ci sono le guerre civili, dall’altra quelle contro nemici esterni.

Un’altra benemerenza è sulle 600 NAVI da lui possedute, derivate da conquiste diverse di battaglie navali. Dunque,
tra le battaglie non ci sono solo quelle civili, ma anche quella dell’Egitto, dove l’ultimo regno ellenistico viene
sconfitto e la flotta navale posseduta da Antonio e dai suoi generali diventa di possesso di Roma.

IL PROBLEMA DEI VETERANI

Il CONGEDO dei veterani è una grande questione sempre affrontata dai romani, a partire dal suo sorgere durante
l’età delle conquiste, quando la massa di soldati-cittadini tornati dalle campagne militare non riuscivano più a
entrare in possesso dei propri campi, poiché in tanti anni di battaglia o li avevano disincentivati, o le loro famiglie
erano state costrette ad alienarli. Dunque, ha avvio la fase già presente nel II secolo dei latifondi, dello spopolamento
delle campagne e dell’arrivo in città (in particolare Roma, ma anche le altre) di masse di contadini senza più campi
(→ questo problema era già stato affrontato tramite delle riforme dai Gracchi).

Lo stesso problema si ripropone anche con Mario e Silla, che si scontrano proprio per il collocamento dei veterani. La
stessa vita familiare di Virgilio sarà sconvolta da questo fatto: dopo la guerra civile, tutti i loro terreni vennero
conquistati affinché venissero assegnati ai veterani → il problema di RICOMPENSARE I VETERANI CON TERRE
CONFISCATE era una situazione che generava sempre malcontento, perché qualcuno veniva privato di queste terre.

Allora, chi non voleva generare dissenso, ricompensava i veterani o:

 con il DENARO DEI BOTTINI DI GUERRA


 STANZIANDOLI nelle COLONIE; questo segnava anche la pacificazione e ripopolazione di nuove zone e
territori che erano entrati nell’orbita geografica di Roma
 INVIANDOLI di nuovo NELLE LORO CASE E MUNICIPI (perché magari non erano di Roma).

Ottaviano, in controtendenza, racconta di come lui sia sempre stato in grado di ricompensare i veterani SENZA
LEDERE I DIRITTI di nessuno.

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