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LA COMMEDIA

LE EPISTOLE
Ci sono giunte 13 lettere scritte in latino. Si tratta di lettere ufficiali composte secondo le regole
medievali delle artes dictandi, quindi in uno stile estremamente elaborato, ricco di artifici
retorici e di riferimenti dotti ai classici latini e alla Bibbia. La lettera più importante è l’Epistola a
Cangrande della Scala. L’epistola contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, ma è resa
preziosa dal fatto che contiene fondamentali indicazioni di lettura del poema: il soggetto, che è la
condizione delle anime dopo la morte; la pluralità dei sensi, letterale, allegorico, morale,
anagogico; il titolo, che deriva dal fatto che l’inizio è aspro e luttuoso e la fine è lieta e dal fatto
che lo stile è “dimesso e umile”; la finalità dell’opera che è pratica, poiché la Commedia mira a
“togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità”.

LA GENESI POLITICO-RELIGIOSA DEL POEMA


Dante decide di scrivere la commedia per denunciare il degrado della realtà presente, che
coinvolge in primis l’imperatore (che non esercita la sua autorità sull’Italia, che così è fatta
“indomita e selvaggia”) e la chiesa (che pensa solo alla potenza terrena e intralcia l’imperatore, a
danno della salvezza delle anime).
Venuto a mancare il freno di chi doveva far rispettare la legge, si scatena negli uomini la volontà
di sopraffare a vicenda e l’assenza di ogni freno dall'alto scatena anche la cupidigia di denaro.
Dante descrive con grande precisione gli aspetti essenziali della crisi contemporanea ed è
convinto che una punizione divina non può tardare (c’è una visione apocalittica e cupa della
realtà presente). Dante dice che il male sarà sconfitto simbolicamente da un veltro (un cane da
caccia) (rappresenta l’inviato da Dio) che batterà la lupa (l’avarizia), il leone (la superbia) e la lonza
(la cupidigia).
Dante ritiene quindi di essere stato incaricato da Dio della missione di portare l’umanità verso la
salvezza (missione profetica). Per fare ciò compì un viaggio nei tre regni dell’aldilà: inferno,
purgatorio e paradiso.
Il viaggio si configura, quindi come una storia di redenzione personale di Dante e anche
dell'umanità intera; cioè Dante alla fine del viaggio si libera del peccato originale e con lui anche
l’umanità.
Dante è il terzo mortale a compiere il viaggio nei regni ultraterreni sensibilmente (= ancora in
vita). Prima di lui lo avevano effettuato Enea, dal cui ritorno nacque l’Impero Romano, e san
Paolo (Dante lo chiama vas d’elezione = vaso dello spirito santo. 1° evangelizzatore della storia),
che ritornando sulla terra pose le basi alla fede cristiana.

VISIONE MEDIEVALE “PRE-UMANESIMO” DI DANTE


Basata su un lavoro teologico e filosofico del Medioevo, la visione del mondo di Dante è
caratterizzata da un’incontrollabile Fede nel possesso della verità.
Egli non vede la conoscenza come un'avventura di ricerca personale, capace di sfidare ogni
limite, ma la vede come un’adeguazione ad un patrimonio di nozioni già dato una volta per
tutte. Per questo condanna il viaggio di Ulisse, il quale si è spinto al di là dei limiti segnati da Dio.
È proprio grazie a questa Fede che Dante usa raccogliere nel suo poema tutti gli aspetti della
realtà, dai più umili a quelli più elevati e spirituali. Egli non teme ad accostare nella stessa opera
elementi tra loro così opposti, questo perché nell'ordine Divino tutto ha un suo posto e un suo
senso.
Questa visione del mondo si collocava nella mentalità medievale ma in essa è possibile
rintracciare alcune caratteristiche culturali proprie delle epoche successive. Una di queste
caratteristiche è l’ammirazione che Dante ha verso i personaggi classici (umanesimo).
Questa ammirazione per il valore del mondo antico si riflette essenzialmente nella figura di
Virgilio (rappresenta la ragione umana nella sua più alta espressione e per questo sia assunto da
Dante come guida nella parte terrena del suo viaggio)

L’ALLEGORIA NELLA COMMEDIA


La Commedia è un’allegoria, cioè una narrazione profonda. Dante distingue 3 livelli di senso
ulteriori a quello letterale:
1. allegorico: che comprende la verità generali della dottrina.
2. morale: da cui si ricavano insegnamenti per la condotta dell’uomo
3. anagogico: che allude al piano trascendente di Dio

La divina commedia è un poema allegorico-didascalico:


POEMA: lungo componimento in versi
ALLEGORICO: parlare d’altro, non si tratta di una lettura letterale ma bisogna approfondire
- alla base: l’uomo ha peccato e continua a peccare (Dante rappresenta l’umanità)
DIDASCALICO: opera che fornisce un insegnamento (cosa succede a chi pecca o non)

LA CONCEZIONE FIGURALE
Ma il carattere reale e storico dei personaggi del poema rimanda ad un’altra importante
concezione, quella figurale.
La visione cristiano-medievale vedeva i personaggi in continua correlazione con un piano
divino. Così veniva letta la storia biblica: Mosè (la “figura”) che salva gli ebrei dall’egitto era
considerato come una profezia di Cristo (”l’adempimento” della profezia reale in essa contenuta)
che salva l’umanità dal peccato Nella figura significante e significato sono storici e reali,
nell’allegoria significante può essere storica, ma significato è sempre un concetto astratto, non
un evento o un personaggio individuale e concreto.
Ebbene nella Commedia, oltre all’allegoria, ha un ruolo importante anche la concezione figurale.
Virgilio, Beatrice, Catone e tutti gli altri innumerevoli personaggi che compaiono nelle 3
cantiche, nella loro esistenza terrena erano la “figura” della loro vita nell’aldilà.

IL TITOLO DELLA COMMEDIA E LA CONCEZIONE DANTESCA DEGLI STILI


La chiama Commedia per due ragioni:
1. la prima di natura contenutistica, perché è un’opera che inizia male e finisce bene al
contrario della tragedia
2. la seconda di natura stilistica, poiché è scritta nello stile comico, umile e dimesso
proprio della commedia / mentre la tragedia utilizza uno stile aulico e solenne. Ma
questa definizione stilistica si può attribuire esclusivamente all’Inferno.
Dante dimostra piena conoscenza dell’altezza della sua opera.
Il grande poeta propone un nuovo tipo di sublime: ispirato alla visione cristiana della vita, che
non teme di accogliere in sé anche gli aspetti più concreti e dimessi del reale.
IL PLURILINGUISMO DANTESCO
Caronte: vecchio - Catone: veglio - san Bernardo: sene
Nell'inferno spicca l’intensa espressività dello stile aspro, fatto di termini rari e a volte
crudelmente dialettali, vocaboli plebei scurrili, di rime rare e difficili, dei suoni striduli e
sgradevoli.
Ma non mancano passi di linguaggio letterario elevato, come i versi dedicati a Beatrice nel
secondo canto o le terzine del racconto di Francesca, che riprendono il linguaggio e le forme
della poesia cortese, oppure le formule artificiose e lambiccante del maestro di retorica Pier
Della Vigna. Non mancano inoltre parole del linguaggio domestico, della medicina e linguaggi
cifrati o barbarici.
Nel Purgatorio il linguaggio si fa più elevato e nobile, coerentemente con il carattere della
cantica. Nel VI ricompare un linguaggio plebeo, l’inserzione di versi in lingua d’Oc e latino di
Virgilio.
Nel paradiso ricorre ad un linguaggio di eccezionale sublimità, composto di latinismi,
provincialismi e francesismi preziosi, non esita a ridiscendere a termini concreti e plebei nei
passi di più violenta invettiva politica e morale.

LA PLURALITÀ DEI GENERI


nella sua struttura, voracemente disponibile, confluisce una somma di generi diversi: il poema
didascalico allegorico, l’enciclopedia, la profezia apocalittica, la commedia, l’invettiva, la
tragedia, la lirica elegiaca, l’epica e la satira sarcastica.
DA EPACI TLESS

LA TECNICA NARRATIVA DELLA COMMEDIA: LA FOCALIZZAZIONE


la vicenda è narrata in prima persona dal suo stesso protagonista: la commedia è perciò un
racconto autodiegetico (quindi interno) (narratore che narra la vicenda di cui è protagonista).
È indispensabile però avere ben chiara distinzione tra Dante narratore e Dante personaggio. Il
Dante che narra non coincide col Dante che vive gli avvenimenti narrati.
Il racconto viene a distanza di tempi dei fatti, quando già l’esperienza è conclusa: pertanto il
Dante narratore ha una conoscenza infinitamente superiore a quella del Dante personaggio, che
vive progressivamente l’esperienza del più del viaggio e dell’apprendimento.
Il narratore non solo narra i fatti passati, ma li giudica e li spiega al lettore, lasciando però che
quest’ultimo riesca ad immedesimarsi nel Dante personaggio, e quindi non fa anticipazioni di
eventi futuri.
Il compito di narrare a volte viene affidato a personaggi secondari, che dialogano con Dante. Il
protagonista in questo poema non è un eroe dalle virtù eccezionali, ma un uomo come tutti, di
cui si possiede anche una precisa biografia.
Dio ha incaricato Dante di rivelare agli uomini ciò che gli viene mostrato nell’aldilà, e per
questo motivo la Commedia può essere considerata come una profezia di redenzione, che deve
spingere gli uomini ad abbandonare la tentazione al peccato e prendere la via che porta a Dio.

Secondo Giorgio Petrocchi, critico letterario, la Divina Commedia è stata scritta dal 1304 al 1321,
quindi alla sua morte.
➔ 1304 - 1308 → inferno
➔ 1309 - 1312 → purgatorio
➔ 1316 - 1321 → paradiso
Dante parlava di Commedia, perché comincia male e finisce bene, mentre Boccaccio, grande
stimatore di Dante, nell’introduzione di una delle sue opere dice di voler parlare di una cosa
divina. Dal 1555 la Commedia viene stampata con Divina Commedia.

INTRODUZIONE ALL’OPERA
Dante racconta di essersi smarrito, all’età di 35 anni, in una “selva oscura” = peccato. Riesce ad
uscire dalla selva dopo una notte di angoscia, comincia a salire un colle illuminato dal sole =
salvezza, ma il suo cammino viene sbarrato da tre fiere: lonza (v. 32) = lussuria, leone (v. 45) =
superbia e lupa (v. 49) = avarizia. Arriva il poeta latino Virgilio (70 a.C.-19 a.C., nato ad Antes,
attuale Pietole a Mantova e muore a Brindisi), che gli rivela come, per raggiungere la salvezza,
debba percorrere la via più lunga, attraverso inferno, purgatorio, paradiso. Virgilio gli fa da duca
(da dux = comandante) fino al purgatorio, poi Beatrice. Virgilio = ragione umana, Beatrice =
teologia. Nel Medioevo Virgilio era considerato l’uomo più sapiente dell’antichità. Era anche
ritenuto profeta inconsapevole della venuta di Cristo perché parlò di un “puer”. Inoltre nel suo
poema aveva cantato di Enea, il capostipite dell’Impero romano. Virgilio è anche il maestro di
“bello stilo”.

L’INFERNO
Il viaggio, durò 7 giorni. Nel 1300, anno del primo Giubileo (= garantisce ai fedeli il perdono di
tutti i peccati → indulgenza plenaria), indetto da Bonifacio Ⅷ. L’inferno è un’immensa voragine a
forma di cono rovesciato, formatosi dopo che un ex-angelo, Lucifero (= portatore di luce), viene
cacciato dal Paradiso a causa della sua superbia, quando precipitò la terra si ritrasse e andò a
formare il monte del Purgatorio, si impiantò al centro della Terra nel lago Cocito che è ghiacciato
perché Lucifero continua a muovere le ali. Ha il busto e le gambe nell’emisfero australe, mentre la
testa e le braccia in quello boreale, dove c’è l’inferno ed è pieno di peli (Dante e Virgilio per
passare si arrampicheranno su di essi).

REGOLA DEL CONTRAPPASSO


Via via che si scende, sono puniti i peccati più gravi. I dannati sono sottoposti ad atroci
sofferenze fisiche e la qualità della pena inflitta dipende dalla cosiddetta “legge del
contrappasso”:
1. analogia: ovvero la pena è l'equivalente del peccato commesso (un esempio è la pena
subita dai golosi: come in vita mangiavano senza ritegno come delle bestie nell'inferno
sono accovacciate nel fango come delle bestie sotto una costante tempesta e sbranate da
Cerbero; un altro esempio sono i lussuriosi, che vengono trascinati da una tempesta
senza riposo perché in vita si sono lasciati trascinare da una passione eccessiva);
2. opposizione: ovvero la pena è l'opposto del peccato (un esempio sono gli ignavi: non
essendosi mai schierati in vita, sono costretti alla sollecitudine inutile e costante da parte
di insetti quali vespe e mosche oppure da vermi).
CANTO I
RIASSUNTO
La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, senza
sapere come, Dante si è smarrito in una selva, a un tratto però, mentre sta albeggiando, scorge
un colle illuminato dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi di sole. Questo lo spinge a tentare
la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena
corso (come un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il
poeta inizia quindi a salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza. Mentre sta
salendo il colle si frappongono al suo cammino prima una lonza, poi un leone, infine una lupa
famelica. Spaventato, indietreggia, ma improvvisamente appare un’ombra: è l’anima del poeta
Virgilio, che Dante ha sempre ammirato come proprio maestro e di cui ora invoca l’aiuto. Virgilio
spiega che per vincere la lupa (* allegoria, come le altre due fiere, dei peccati che impediscono
l’uomo di raggiungere la salvezza eterna) occorrerà un veltro (cioè un cane da caccia, oscura
*allegoria di un fautore di rinnovamento politico e morale). Ma ora, Virgilio condurrà Dante
attraverso l’Inferno e il Purgatorio, per affidarlo poi a un’anima beata che lo guiderà in Paradiso:
solo conoscendo il mondo ultraterreno egli potrà purificarsi e salvarsi. I due poeti iniziano così il
loro viaggio.

APPUNTI
1° terzina: nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via
era smarrita.

- 35 anni (si viveva fino a circa 70 anni)


- peccato
- via della salvezza che serve per arrivare a Dio

Colle = Purgatorio

Le 3 fiere
- lonza (v. 32) → lussuria
- leone (v. 45) → superbia
- lupa (v. 49) → avarizia → deve essere fermata da un veltro*
ostacolano il viaggio di Dante sul colle, quindi è costretto a scendere

*Veltro (profezia post-eventum)


3 ipotesi.
- nascita del puer, Gesù; è nato in condizioni povere e il feltro è un tessuto povero
- imperatore; col feltro venivano ricoprite le urne dell’elezione imperiale, quindi sta
dicendo che l’Italia avesse bisogno di un imperatore che stava per scendere, Enrico Ⅶ di
Lussemburgo
- Feltre, Veneto e Monte Feltro, Romagna; si arriva a Cangrande della Scala, il signore di
Verona che ospitò Dante durante l’esilio e che venne celebrato nel Paradiso, che
possedeva territori in quelle zone
Similitudine: Dante esce dalla selva come un naufrago che è uscito da un mare tempestoso

Dante non ci parla del suo prodigioso viaggio nel momento in cui esso si compie: lo racconta.
Il poema è dunque un’opera di memoria, trascrizione, sul filo dei ricordi, del viaggio compiuto e
ora rivissuto a distanza di tempo. Per questo l’opera si svolge sempre su due piani: quello
dell’esperienza ormai conclusa, e quello dell’attuale revisione, che implica un giudizio su quello
che fu. Dante infatti si presenta al suo pubblico sotto un aspetto duplice: da un lato - il Dante
agens, o il Dante personaggio - è colui che compie il viaggio dall'Inferno, mentre dall'altro è il
narratore - il Dante auctor, o il Dante poeta - di questa esperienza straordinaria.

Dante compie un errore, al v. 68, infatti, il duca definisce i genitori di origine lombarda, cosa non
vera in quanto i longobardi scenderanno in Italia nel 568 d.C. mentre Virgilio nacque ai tempi di
Giulio Cesare.

CANTO II
RIASSUNTO
Sta calando la notte e Dante, che segue Virgilio lungo la strada che li condurrà alla porta
dell’Inferno. Il poeta invoca l’assistenza delle Muse, perché lo aiutino a ricordare ciò che ha visto
nel corso del suo viaggio.
Si rivolge così a Virgilio. Virgilio cantò di Enea, il quale fu protagonista di una discesa agli inferi
quando era ancora vivo: egli però avrebbe contribuito alla fondazione di Roma, centro
dell’impero romano e poi sede del Papato, quindi non è sorprendente che Dio gli abbia concesso
un tale privilegio. Anche San Paolo compì un viaggio nel mondo ultraterreno, al fine di
corroborare la fede nella religione cristiana di cui era zelante apostolo. Ma come si può pensare
che ne sia degno Dante? Virgilio rimprovera il poeta per la sua viltà e gli spiega le circostanze che
lo hanno deciso a soccorrerlo nella selva. Nel Limbo egli è stato visitato da una donna beata:
quella stessa Beatrice che Dante ha amato in gioventù e che ora, dal cielo, vuole soccorrerlo
perché non si danni per i suoi peccati. Ella è stata inviata a lui da Santa Lucia (grazia
illuminatrice), protettrice di Dante stesso, a sua volta sollecitata dalla Madonna. A questo
racconto, Dante ritrova coraggio e si dispone a seguire Virgilio nel viaggio che li attende.

APPUNTI
I Canto = canto proemiale di tutta la Divina Commedia
II Canto = canto proemiale dell’Inferno
La tematica infernale qui viene sottolineata dall’invocazione alle Muse e dell’ingegno
e dall’enunciazione del tema.
In linea generale, potremmo dividere il Canto in tre macro-sezioni:
1. Il proemio (vv. 1-9);
2. L’esposizione dei dubbi da parte di Dante circa la sua predisposizione a compiere un
viaggio di simile importanza (vv. 10-42);
3. La risposta di Virgilio, che spiega al poeta la natura divina dell’itinerario che i due stanno
per compiere e il conseguente convincimento di Dante (vv. 43-142).

Le «tre donne benedette», nella struttura allegorica della Commedia dantesca, rappresentano le
tre forme della Grazia divina:
1. Maria è la Grazia preveniente, dono gratuito di Dio a tutti gli uomini, indipendentemente
dai loro meriti;
2. Santa Lucia è la Grazia illuminante, concessa da Dio agli uomini per aiutarli a discernere
il bene dal male;
3. Beatrice è la Grazia operante o santificante, ovvero quella che – con la cooperazione
dell’uomo – lo aiuta ad operare il bene.

Dio → Maria → Santa Lucia → Beatrice → Virgilio (riceve da Dio l’ordine di guidare Dante
all’interno dei 3 regni)

CANTO III
RIASSUNTO
Siamo davanti alla porta dell’Inferno: su di essa, un’iscrizione annuncia la dannazione eterna.
Virgilio esorta Dante a non avere paura, e gli fa varcare la porta. Giungiamo così all’Antinferno,
cioè nella zona che precede l’Inferno propriamente detto. Lamenti, urla e fragore segnalano la
presenza delle anime che vissero senza commettere peccati orribili, ma senza operare nemmeno
in modo virtuoso: sono gli ignavi, con i quali stanno gli angeli che non si unirono né a Lucifero
ribellatosi a Dio, né agli angeli rimasti fedeli a lui. Per disprezzo, nessuno di costoro è nominato
dal poeta, neppure “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, sulla cui identità si discute ancora:
corrono disperatamente dietro una bandiera, mentre insetti mostruosi li tormentano. Dante vede
che le anime corrono dietro un'insegna senza significato, che gira vorticosamente su se stessa.
Formano una schiera infinita e tra esse Dante crede di riconoscere papa Celestino V (aiutò papa
Bonifacio VIII a salire al soglio), che per viltà rinunciò al soglio pontificio. Il poeta è sicuro che
questi siano proprio gli ignavi, che piacquero tanto a Dio quanto ai suoi nemici: essi sono punti e
tormentati da vespe e mosconi, che gli fanno colare il sangue dal volto, il quale cade a terra
mischiato alle loro lacrime e viene raccolto da vermi ripugnanti.
I due viaggiatori si avvicinano all’Acheronte, fiume infernale, quando d’un tratto compare su una
barca Caronte, demonio vecchio e irato, che vorrebbero cacciarli. Virgilio lo zittisce,
spiegandogli che Dante è là per volere di Dio. Caronte raccoglie dunque le anime dei dannati,
percuotendole, per traghettarle verso l’Inferno. Ma improvvisamente, cala l'oscurità e la terra è
scossa da un terremoto: allora, Dante cade a terra svenuto.

"Per me si va ne la città dolente, "Attraverso me si entra nella città del dolore,


per me si va ne l’etterno dolore, attraverso me si va nel dolore eterno,
per me si va tra la perduta gente. attraverso me si va tra le anime perdute
3 (anafora) (dannati).

Giustizia mosse il mio alto fattore: La giustizia ha fatto agire il mio alto Creatore
fecemi la divina podestate, (Dio): mi hanno costruito la potestà divina
la somma sapienza e ’l primo amore. (Padre), la somma sapienza (Figlio) e il primo
6 amore (Spirito Santo).

Dinanzi a me non fuor cose create Prima di me non fu creato nulla, se non
se non etterne, e io etterno duro. eterno, e io durerò eternamente. Lasciate
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate". ogni speranza, voi che entrate qui".
9
Ed elli a me: «Questo misero modo Lui mi rispose: «Questa è la misera
tegnon l’anime triste di coloro condizione delle anime tristi di quelli che
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. vissero senza infamia e senza meriti.
36

Mischiate sono a quel cattivo coro Sono mescolate a quell'insieme spregevole


de li angeli che non furon ribelli degli angeli che non si ribellarono a Dio, né gli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. rimasero fedeli, ma furono neutrali.
39

Caccianli i ciel per non esser men belli, I cieli li cacciano per non perdere la loro
né lo profondo inferno li riceve, bellezza, né l'Inferno li accoglie nelle sue
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli». profondità, poiché i dannati (rei) potrebbero
42 ricevere alcuna gloria dalla loro presenza».

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, Dopo che ebbi riconosciuto qualcuno di loro,
vidi e conobbi l’ombra di colui vidi e riconobbi l'ombra di colui che per viltà
che fece per viltade il gran rifiuto. fece il grande rifiuto.
60

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: E il maestro gli disse: «Caronte, non ti
vuolsi così colà dove si puote angustiare: si vuole così lassù (in cielo) dove è
ciò che si vuole, e più non dimandare». possibile tutto ciò che si vuole, quindi non
96 dire altro».

- v. 36: perifrasi per indicare gli ignavi


- v. 60: Celestino V (con la sua dimissione al soglio salì Bonifacio VIII → Dante lo ritiene il
fautore della decadenza delle istituzioni papali e della rovina di Firenze) o Ponzio Pilato
(lasciò crocifiggere Gesù)
- v. 95: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole = nel regno di Dio → Paradiso

CANTO V
RIASSUNTO
Dante scende nel secondo cerchio guidato da Virgilio. All’ingresso si trova Minosse, il giudice
infernale, che ascolta le confessioni delle anime dannate e indica loro in quale Cerchio siano
destinate, attorcigliando intorno al corpo la lunghissima coda tante volte quanti sono i Cerchi
che il dannato deve discendere. Non appena vede che Dante è vivo, lo apostrofa con durezza e lo
ammonisce a non fidarsi di Virgilio, poiché uscire dall'Inferno non è così facile come entrare.
Virgilio lo zittisce ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio.
Vengono descritti l’ambiente del secondo cerchio e la pena: il buio e il vento che fanno roteare le
anime. Dante comprende che qui sono le anime che il vento trascina in una lunga fila e il poeta
latino gli mostra, tra le tante, alcune anime illustri. Dante è a tal punto colpito che quasi perde i
sensi per la pietà. Dante è attirato da due anime, un uomo e una donna, che, a differenza delle
altre, volano unite; si rivolge a loro cortesemente ed esse, come colombe, escono dalla loro
schiera e si accostano ai poeti. La donna parla a Dante e narra il proprio dramma mentre l’uomo
tace . Il loro amore li ha portati alla morte. Sono Francesca moglie di Gianciotto Malatesta ,
signore di Rimini, e Paolo , cognato e amante della donna, entrambi fatti uccidere dallo stesso
Gianciotto. A queste parole Dante abbassa gli occhi ed è turbato. Poi chiede a Francesca in quali
circostanze lei e Paolo abbiano compreso di essere innamorati uno dell’altra. Francesca narra la
seconda parte della sua storia. Un giorno lei e Paolo stavano leggendo le gesta di Lancillotto e,
quando lessero il passo in cui il cavaliere bacia Ginevra , Paolo baciò Francesca. Alle parole di
Francesca e al pianto di Paolo Dante perde i sensi.

APPUNTI
I peccatori situati in questo cerchio sono i lussuriosi ossia tutti coloro che preferirono l'amore
carnale rispetto a Dio. La loro pena è stabilita secondo la legge del contrappasso per analogia:
sono condannati a vivere all'interno di una bufera infernale così come in vita preferirono la
bufera della passione.

Intesi ch’a così fatto tormento Capii che a questa pena sono dannati i
enno dannati i peccator carnali, peccatori di lussuria, che sottomettono la
che la ragion sommettono al talento. ragione al piacere.
39

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende L'amore, che si attacca subito al cuore nobile,
prese costui de la bella persona prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. il modo ancora mi danneggia.
102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, L'amore, che non consente a nessuno che sia
mi prese del costui piacer sì forte, amato di non ricambiare, mi prese per la
che, come vedi, ancor non m’abbandona. bellezza di costui con tale forza che, come
105 vedi, non mi abbandona neppure adesso.

Amor condusse noi ad una morte: L'amore ci condusse alla stessa morte: Caina
Caina attende chi a vita ci spense». attende colui che ci uccise». Essi ci dissero
Queste parole da lor ci fuor porte. queste parole.
108

Quando leggemmo il disiato riso Quando leggemmo che la bocca desiderata di


esser basciato da cotanto amante, Ginevra fu baciata da un simile amante,
questi, che mai da me non fia diviso, costui, che non sarà mai diviso da me,
135

la bocca mi basciò tutto tremante. mi baciò la bocca tutto tremante. Galeotto fu


Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: il libro e chi lo scrisse; quel giorno non
quel giorno più non vi leggemmo avante». leggemmo altre pagine».
138

- Minosse indica ai dannati a quale cerchio appartengono attorcigliando su di sé la sua


coda tante volte quante il cerchio in cui deve andare.
- Francesca da Rimini, figlia del signore di Ravenna. Di lei si innamorò il cognato Paolo: il
marito, Gianciotto Malatesta, li sorprese e li uccise a tradimento.
CANTO VI
RIASSUNTO
Dante riprende i sensi, e ai suoi occhi si presenta un nuovo spettacolo di sofferenze e tormenti:
sotto una pioggia, che cade incessantemente mista a tempesta, nel fango, ci sono i peccatori
schiavi del vizio della gola. A custodia del girone c’è un demonio deforme e trifase: Cerbero, che
assorda i dannati. Scorgendo i due poeti, esibisce un grottesco spettacolo, finché Virgilio, con
una manciata di terra, riesce a distoglierlo, a calmare le brame bestiali e ad entrare nel cerchio.
I due pellegrini iniziano ad attraversare il cerchio dei golosi; solo uno di essi riesce a sollevarsi,
ma il suo viso è disfatto dalla sofferenza e sporco di fango cosicché Dante non è in grado di
riconoscerlo: egli è Ciacco. Il dolore di Dante verso il concittadino è grande, ma più grande
ancora il desiderio di conoscere il destino di Firenze (profezia post-eventum). Le parole di
Ciacco dipingono a scure tinte il futuro della città: le parti si succederanno al governo fino a
quando i Neri riusciranno a prevalere e per i Bianchi e per Dante non resterà che l’esilio e la
rovina. Le sane tradizioni antiche hanno ceduto il passo al dilagare del vizio e in particolare
dell’avarizia, superbia e invidia. Ciacco interrompe il discorso, ma Dante vuole ancora conoscere
il destino di alcuni noti personaggi che si distinsero nell’impegno a favore della città. La risposta
aggrava la tristezza del poeta, poiché per molti i meriti politici non sono valsi a guadagnare loro
la salvezza e anch’essi sono nell’Inferno. Ciacco chiede di essere ricordato nel dolce mondo e si
immerge nel lurido fango con gli altri compagni di eterna sventura. Virgilio ricorda a Dante che
Ciacco si ridesterà nuovamente il giorno del giudizio universale per sentire la definitiva
condanna da Cristo. Risponde poi alla domanda sulla condizione ultima delle anime quando
saranno riunite al corpo: per loro dopo il giudizio il supplizio sarà ancora maggiore. I due poeti
giungono infine al luogo da cui si può discendere al girone successivo custodito da Pluto.

APPUNTI
Canto politico così come i VI canti di purgatorio e paradiso.

Il primo nuovo personaggio che Dante e Virgilio incontrano all’ingresso del III Cerchio è Cerbero,
una figura mostruosa posta a custodia delle anime dei golosi.
Come già avvenuto per Caronte e Minosse, anche il personaggio di Cerbero è desunto dall’antica
mitologia pagana.
I precedenti illustri più cari a Dante sono sicuramente Virgilio, che inserisce la figura di Cerbero
nel libro VI dell’Eneide, e Ovidio, che descrive questo personaggio nel libro IV delle Metamorfosi,
entrambe due opere particolarmente care a Dante il cui materiale è spesso riutilizzato per la
stesura della Commedia.

Il personaggio a cui viene dato più spessore all’interno del Canto VI dell’Inferno è senza alcun
dubbio Ciacco, unica tra le anime dei golosi a prendere parola. Sull’identità storica di quest’uomo
non possediamo alcuna notizia; tutto ciò che sappiamo lo dobbiamo a questi versi di Dante e ad
una novella del Decameron di Boccaccio, in particolar modo l’ottava della nona giornata. Egli fu,
quindi, un cittadino di Firenze (vv. 49-51) che conobbe Dante (vv. 40-42); per questo motivo si
suppone possa essere nato intorno al 1250.
Varie ipotesi:
● Ciacco dell’Anguillara, poeta duecentesco, quest’ ipotesi sarebbe tuttavia da scartare.
● Molti dubbi esistono sulla teoria secondo cui “ciacco” non sarebbe il nome proprio del
personaggio, bensì un nome comune dal significato di “porco”: questo vocabolo, secondo
gli studi, non era infatti utilizzato ai tempi di Dante con questo significato.
● Quello che deduciamo dal testo è che “Ciacco” potrebbe essere un soprannome o un
diminutivo: l’ipotesi più accreditata è che si tratti di una deformazione di Giacco,
diminutivo di Giacomo, un nome piuttosto diffuso nella Toscana dell’epoca.
Privo di spessore storico, Ciacco si presenta ai nostri occhi nell’unica veste, attestata dal testo
stesso, che ci interessa: quella di un comune cittadino di Firenze.
In virtù di questo suo ruolo egli può esprimere tutto il proprio dissenso per le sorti della città,
divisa al suo interno dalle lotte intestine tra i Bianchi e i Neri, e illustrarne efficacemente – anche
attraverso il ricorso a un lessico municipale – vizi e difetti.

Siamo di fronte ad una pena dal doppio significato:


● Come in vita, per via del peccato della Gola, le anime si sono disumanizzate divenendo
sempre più simili a delle belve, così sono immerse in una fanghiglia sudicia, al pari dei
porci (contrappasso per analogia);
● Come in vita hanno ceduto ai piaceri del cibo e alle sue prelibatezze, così sono ora punite
con il cattivo odore e il sudiciume del fango (contrappasso per antitesi).

CANTO XXVI
RIASSUNTO
Prima di risalire dalla settima bolgia, Dante pronuncia un'invettiva contro Firenze,
rimproverandole la cattiva fama che la contraddistingue nel mondo; infatti ne ha abbastanza dei
suoi cittadini. Dal ponte dell'ottava bolgia, in cui scontano la propria pena i consiglieri di frode,
il poeta vede un'immensa distesa brulicante di lingue di fuoco, ognuna delle quali avvolge e
nasconde l'anima di un dannato. L'attenzione di Dante è attratta da una fiamma che avanza
divisa in due nella sua parte superiore.
Da Virgilio apprende di essere di fronte a Ulisse e Diomede, puniti insieme per gli innumerevoli
inganni orditi, tra cui quello perpetrato ai danni dei Troiani con il famoso cavallo di legno. Prega
allora vivamente la sua guida di poter parlare con loro. Atteso il momento favorevole, Virgilio si
rivolge alla fiamma biforcuta, chiedendo ad ambedue le anime di raccontare la loro fine.
La punta maggiore della fiamma, che racchiude l'anima di Ulisse, narra che, dopo la partenza
dalla terra di Circe, né la dolcezza per il figlio né la pietà per il padre, né l'amore per la moglie
riuscirono a vincere il suo desiderio di conoscere il mondo e gli uomini. Salpò allora con un
piccolo ma fedele equipaggio. Viaggiò per il Mediterraneo e giunse fino alle Colonne d'Ercole, il
confine oltre il quale l'uomo non doveva spingersi. Ulisse però volle proseguire: esortati i
compagni, rivolse la prua verso occidente, oltre le Colonne d'Ercole. Dopo cinque mesi di
navigazione, avvistò la montagna del Purgatorio. L'equipaggio si rallegrò, ma presto l'allegria si
convertì in pianto perché dalla montagna ebbe origine un vortice che, dopo aver fatto girare la
nave su se stessa per tre volte, la fece inabissare e il mare vi si richiuse sopra.

APPUNTI
Luogo: cerchio 8°- bolgia 8°: consiglieri fraudolenti. La bolgia è immersa in un profondo silenzio
ed è avvolta da una fittissima tenebra in cui lampeggiano le fiamme che nascondono le anime dei
dannati.

Consiglieri fraudolenti: Così tradizionalmente sono appellati questi peccatori che posero la loro
acuta intelligenza non al servizio della verità ma della frode e dell'inganno. Sono soprattutto
consiglieri politici e militari che diedero spregiudicate indicazioni per far valere una causa, un
partito o un personaggio.
Ulisse incarna non più soltanto l’astuto ingannatore, bensì l’uomo di ogni tempo che dedica
l’intera propria vita alla conoscenza. Qual è, dunque, la sua colpa? Il peccato commesso da Ulisse
non si limita a questo: l’eroe acheo trova la morte proprio nel momento in cui sta cercando di
oltrepassare i limiti posti al sapere umano, raffigurati nelle Colonne d’Ercole. Il suo desiderio di
«seguir virtute e canoscenza» viene perpetuato al di fuori della Grazia divina e assume quindi i
connotati di un folle volo: la sua audacia, esclusivamente basata sulle capacità umane e sulla
ragione, è destinata al fallimento, alla morte di fronte al monte del Purgatorio, segno di ciò che
può essere raggiunto solo attraverso un percorso di conversione e di obbedienza a Dio.

Ulisse viene definito l’uomo dall’ingegno multiforme.

3 motivi per cui Dante considera la punizione di Ulisse necessaria:


- inganno del cavallo di troia
- scoperta di Achille travestito (Achille andò ad una festa travestito da donna e quando Ulisse
disse alle fanciulle di scegliere tra vari oggetti, loro scelsero dei gioielli, tutte tranne Achille che
scelso l’elmo e la spada)
- furto della statua di pallade che proteggeva la città di Troia (per indebolirla)

captatio benevolentiae: vv 79-81 (chi parla o chi scrive cerca di ottenere l'attenzione benevola del
suo interlocutore)

Considerate la vostra semenza: Considerate la vostra origine: non siete stati


fatti non foste a viver come bruti, creati per vivere come bestie, ma per seguire
ma per seguir virtute e canoscenza la virtù e la conoscenza
v. 118-120

CANTO XXXIII
RIASSUNTO
Conficcati nel ghiaccio dell’Antenora Dante incontra due dannati e interpella colui che rode
rabbiosamente la nuca del suo compagno di pena. E’ Ugolino della Gherardesca che, già
potentissimo a Pisa, fu fatto prigioniero dai Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due
figli e a due nipoti. L’altro è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà
egli dovette la cattura e la fine orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere
consegnato a Lucca ed a Firenze alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le
loro pene non sono certo pari: Ruggieri oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli
infligge la rabbia del suo nemico; per Ugolino al dramma della dannazione si aggiunge l’ira e la
sete inesausta di vendetta contro il suo nemico.
Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani innocenti
occupano l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note perché sia
necessario ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa
prorompere in una fiera invettiva contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono
puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò
a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli.
APPUNTI
I parte traditori della patria
● racconto Ugolino
○ faceva parte della famiglia Gherardesca, famiglia ancora oggi presente nel centro
Italia
○ sepolto in una buca con l'arcivescovo Ruggieri: il conte sta sopra di lui e addenta
bestialmente il cranio di Ruggieri. Dante si rivolge a lui chiedendogli la ragione di
un tale odio. Dopo aver ceduto vari castelli di Pisa a Firenze e Lucca, l’arcivescovo
Ruggieri con altre famiglie potenti lo catturarono nella torre della Muda insieme
ai 2 figli e ai 2 nipoti. Ogni tre mesi gli veniva portato da mangiare e così per 3
volte (simbologia numero 3) e, in seguito a un fosco sogno premonitore fatto da
lui una notte, il mattino dopo l'uscio della torre fu inchiodato e a lui e ai figli non
fu più portato il cibo. L'atroce agonia dei prigionieri durò circa sei giorni, durante
i quali Ugolino vide morire i figli uno ad uno senza poter far nulla per aiutarli; per
due giorni aveva brancolato sui loro cadaveri chiamandoli per nome, poi il
digiuno aveva prevalso sul dolore. Alla fine del suo racconto, il cui scopo è
infamare la memoria di Ruggieri, Ugolino torna ad addentarne orribilmente il
cranio.
● inizio in medias res
○ immagine subito feroce
○ le anime dei traditori sono tutte immerse nel Cocito, il lago ghiacciato che
ricopre il nono Cerchio dell’Inferno. La condanna richiama la colpa: il tradimento
si configura infatti come manifestazione più grande della perdita di umanità,
raggelamento dell’agire umano che ha completamente perso il necessario calore
della carità. Siamo quindi di fronte ad un contrappasso per analogia.
● v. 75 da ricordare con duplice significato
○ «Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno», parafrasando il verso, il cui significato è
“dopodiché, la fame
prevalse sul dolore”, due possono essere le possibili spiegazioni:
1. che il conte Ugolino morì non a causa del dolore provocatogli dalla
condizione in cui si trovavano lui e, soprattutto, i suoi figli e nipoti, bensì
per via della fame;
2. che la fame ebbe il sopravvento sul dolore per la morte dei suoi familiari
e, di conseguenza, se ne cibò.
○ la tradizione ha optato per la prima ipotesi interpretativa, poiché – qualora si
fosse cibato delle carni dei suoi figli e dei suoi nipoti – il conte Ugolino sarebbe
riuscito a sopravvivere per discreto tempo. Questo contrasterebbe con le
cronache dell’epoca, secondo le quali i cadaveri di Ugolino e dei suoi familiari
sarebbero stati tolti dalla torre della Muda il nono giorno.
Siamo di fronte a un chiaro esempio di “retorica della reticenza”: Dante
volutamente non rende palese il significato del verso, in modo da lasciarci
soltanto sospettare del cannibalismo di Ugolino.
○ il conte morde il cranio dell’arcivescovo o perché lo affamò o perché per colpa
sua si dovette cibare dei suoi figli/nipoti
CANTO XXXIV
RIASSUNTO
Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove soffrono coloro
che tradirono i loro benefattori.
Qui nessuna delle anime dannate parla, nessuna e’ identificata: imprigionate totalmente nel
ghiaccio, si possono appena intravedere, immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in
piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria opaca che grava sulla palude gelata comincia a
delinearsi un’enorme sagoma, come un mulino le cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di
Lucifero piantato fino a mezzo il petto nella palude.
Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è nera e quella destra è
gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due supreme autorità,
la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è straziato di
continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il
vento che fa ghiacciare Cocito.
Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si avvinghia al collo di
Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo villoso di Satana e il
ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro (corrispondente al centro della
terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo attraverso una stretta galleria, mentre
Dante gli chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla superficie della terra.

APPUNTI
● Lucifero ha 3 facce

nera (odio) → Bruto: rosso (ira) → Giuda: tradì bianca/gialla (invidia) →


uccise/tradì Cesare (idi di Gesù Cassio: tradisce Cesare (idi
marzo del 44 a.C.) di marzo del 44 a.C.)
ogni testa ha 2 ali che sbattono = ghiacciano il lago. In totale 6 ali
● sono nell’emisfero boreale, scendono per i peli di Lucifero e risalgono dai piedi
nell’emisfero australe dove raggiungono la Natural Burella (corridoio che porta ai piedi
del colle del Purgatorio) dove riusciranno a vedere nuovamente le stelle

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