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LE ISTITUZIONI CULTURALI DEL QUATTROCENTO

CANCELLERIA DELLA Si occupa della stesura di lettere ufficiali e dei rapporti diplomatici: è un centro culturale strettamente
REPUBBLICA DI collegato con la vita civile e politica
FIRENZE

CORTE insieme di intellettuali (artisti, scrittori, musicisti, filosofi), funzionari e dignitari che si raccolgono intorno a
un signore, dal quale traggono sostentamento e ricevono protezione. è nello stesso tempo un luogo di
produzione e di fruizione culturale, poiché i cortigiani rappresentano il pubblico cui sono destinate le opere
artistiche e letterarie

ACCADEMIA Cenacolo, spesso formatosi sotto il patrocinio di un signore, dove gli intellettuali si incontrano liberamente
per confrontarsi, discutere, scambiarsi idee

ISTITUZIONI Le università continuano a rivestire un ruolo molto importante per la formazione culturale e patrimoniale.
SCOLASTICHE Accanto ad esse nascono tuttavia scuole “umanistiche”, ispirate a nuovi principi pedagogici, che vedono
l’allievo come soggetto attivo nel processo educativo e che mirano ad una formazione più completa e
armonica dell’individuo

BOTTEGHE DI ARTISTI Le botteghe di artisti acquistano un prestigio di cui non avevano mai goduto in precedenza, grazie alla
E DI STAMPATORI (prima maggiore considerazione culturale riservata alla loro attività. Nell’ambito letterario, le botteghe degli
della stampa->monaci stampatori, che incominciano a diffondersi con l’invenzione della stampa, sono anche un luogo d’incontro
amanuensi) e di scambio culturale tra intellettuali.
DA RICORDARE: a Venezia si trova la bottega del più famoso stampatore del periodo, Aldo Manuzio,
uomo colto, che fu anche animatore di una vera e propria accademia, l’Accademia Aldina

BIBLIOTECHE Iniziano a diffondersi le prime biblioteche pubbliche; non sono solo luoghi di conservazione, ma anche
circolazione
Nella cultura inizia a venire meno la presenza della Chiesa.

INTELLETTUALI E PUBBLICO
INTELLETTUALE LAICO
Nell’ambito atipico della Firenze repubblicana sopravvive la figura dell’intellettuale comunale: il
cittadino che non trae il suo sostentamento dalla professione intellettuale, ma da altre attività, e che
partecipa alla vita politica del Comune.
Ma il tipo di intellettuale che diviene dominante è quello cortigiano, che si colloca nell’ambiente della
corte. Può provenire da una famiglia aristocratica o essere il signore della città, ma spesso si trova alle
dipendenze di un signore, riceve protezione e mantenimento in cambio dei suoi servizi. Alcuni intellettuali
sono stipendiati esclusivamente per svolgere le loro attività di poeti e di studiosi, ad altri, sono affidati
incarichi diplomatici o politici; altri ancora sono segretari, bibliotecari o precettori dei figli del signore.
La subordinazione al potere e la professionalità sono i due principali aspetti che differenziano questa
figura da quella dell’intellettuale-cittadino.
Il maggior o minor grado di libertà d’espressione deriva dall’atteggiamento dei principi.

I CHIERICI
L’unica alternativa che si presenta agli intellettuali che non vogliono entrare alle dipendenze dei principi è la
condizione clericale. Gli intellettuali alle loro dipendenze potevano trattare argomenti profani, a volte
perfino licenziosi.

UN PUBBLICO ELITARIO
La produzione umanistica è a circuito chiuso, nel senso che gli intellettuali scrivono quali
esclusivamente per altri intellettuali. Si crea un distacco nettissimo tra la cultura “alta” e quella popolare,
che si affida ancora all’oralità e resta limitata prevalentemente al campo religioso. Il panorama comincia a
cambiare con l’introduzione della stampa, che favorisce una maggiore alfabetizzazione e diffusione della
cultura. Per quanto riguarda la scelta linguistica, in un primo momento si afferma il ritorno al latino come
lingua letteraria di prestigio, mentre nella seconda metà del secolo si assiste ad una rivalutazione del
volgare.
LE IDEE E LE VISIONI DEL MONDO
IL MITO DELLA RINASCITA
Tra la fine del Trecento e del Quattrocento si diffonde fra gli uomini di cultura italiani l’idea che i secoli
precedenti fossero da considerare come un periodo di barbarie e di decadenza, che si era venuto a
frapporre tra l’antichità e il presente, stravolgendo l’immagine dei classici e ostacolando l’accesso al loro
messaggio. Nasce il mito di una “rinascita” della civiltà classica e si avverte il bisogno di far rivivere il
mondo antico nella sua fisionomia autentica, liberandolo di tutte le deformazioni medievali.

LA VISIONE ANTROPOCENTRICA
Il medioevo aveva una concezione del mondo di tipo teocentrico: Dio era posto al centro dell’universo
come motore di tutta la realtà e autore della storia, che era vista come il prodotto di un suo disegno
provvidenziale. Ora invece si afferma una visione antropocentrica (dal greco anthropos, uomo), in cui
l’uomo pone se stesso al centro della realtà come protagonista e autore della propria vita. Ciò ha
fondamentali riflessi sul modo di concepire l’uomo: ora si afferma una visione ottimistica dell’uomo, che
appare sicuro e ricco di forze, capace di contrastare i colpi della fortuna con la propria energia e la propria
intelligenza, di costruirsi il proprio destino con una libera scelta. Per questo uno dei temi prediletti dalla
cultura quattrocentesca è l’esaltazione della dignità dell’uomo. Il corpo non è più condannato, ma
celebrato nella sua bellezza.
L’uomo si realizza anche nell’esistenza terrena prima che in quella celeste. Ne scaturisce un
atteggiamento che si può definire edonistico, teso cioè a ricercare il piacere senza sensi di colpa. Esso
va unito al naturalismo, la tendenza a considerare la natura, e a goderla senza riferimenti al suo
significato metafisico e a non contrastare il libero espandersi delle forze naturali.

IL RAPPORTO CON I CLASSICI E IL PRINCIPIO DI IMITAZIONE


Gli intellettuali del quattrocento sono affascinati dal mondo classico, in cui ritrovano una visione della realtà
fine alla propria, a cominciare proprio dal ruolo assegnato all’uomo e alla sua capacità di dominare la realtà
esterna.
Si rivolgono, pertanto, con entusiasmo ai testi antichi, per trovare uno strumento mediante il quale
comprende meglio se stessi e fissare un modello ideale da cui trarre uno stimolo. Si afferma così il
principio di imitazione.
Poiché risulta chiara la consapevolezza del fatto che l’imitazione non può essere passiva, deve essere
attiva, dinamica, creativa.
I classici sono modelli ideali a cui tendere, ma ciò che conta davvero e scoprire la propria genuina
individualità e costruire un modello spirituale civile che risponde alle esigenze del presente.

LA RISCOPERTA DEI TESTI ANTICHI E LO STUDIO DEL GRECO


nel medioevo si era continuato a leggere i classici e ad ammirarli, ma molti autori, anche fondamentali, non
venivano più letti, e i loro testi restavano dimenticati nelle biblioteche delle abbazie o di vescovadi.
A partire da Petrarca e Boccaccio comincia un’intensa ricerca dei manoscritti antichi che giacevano
ignorati nelle biblioteche di tutta Europa. Nell’arco di pochi decenni una serie di scoperte arricchirà così
enormemente la conoscenza della letteratura latina.
Inoltre nel mondo occidentale era venuta a mancare da molti secoli la conoscenza della cultura greca,
per antonomasia anticristiana, che costituiva una parte essenziale della cultura classica.anche in questo
caso Petrarca e Boccaccio sono dei precursori.

Virgilio nella IV Bucolica parla di un puer e che i cristiani interpretano come Gesù Cristo (vengono così
ricopiati solo testi che si possono ricondurre al mondo cristiano)

LA SCOPERTA DELLA PROSPETTIVA STORICA


Vi è una differenza qualitativa nel modo di accostarsi ai classici.
Gli intellettuali medievali non avevano piena conoscenza delle differenze esistenti tra il passato e il
presente, e tendevano a leggere i testi antichi secondo le proprie mentalità, sovrapponendo le proprie
concezioni etiche religiose al proprio metodo di interpretazione allegorica. Quindi gli uomini del ‘400
sentono la necessità di recuperare la cultura antica nel modo più autentico.
LA FILOLOGIA
Si afferma una nuova scienza, la filologia, che studia i testi e li ricostruisce in modo critico per riportarli alle
condizioni originali, poiché nelle varie redazioni manoscritte che erano pervenute dall’antichità attraverso il
medioevo si erano accumulati errori.
Per correggerli e per ristabilire la lezione corretta, occorreva un accurato confronto fra le varie copie a
disposizione, in base a criteri rigorosi. Maggior filologo: Petrarca.

GLI STUDIA HUMANITATIS E LA PEDAGOGIA UMANISTICA


Nel ‘400 la concezione della cultura e delle sue funzioni si è laicizzata: il suo scopo diviene la formazione
dell’uomo.
Le discipline letterarie vengono ritenute indispensabili per lo sviluppo armonioso delle facoltà e delle virtù di
ciascun individuo. Proprio a causa del ruolo fondamentale esercitato dagli studia humanitatis, questo primo
periodo di Rinascimento, coincidente all’incirca con il ‘400, viene chiamato umanesimo, e umanisti
intellettuali che ne sono esponenti.
Anche l’indicazione delle virtù morali era di derivazione classica: a essere insegnati erano il senso della
misura del decoro, la giustizia, la forza d’animo, e la capacità di sopportare le avversità, il dominio razionale
degli istinti, il rispetto per gli altri uomini.

I CENTRI
DELL’UMANESIMO:
Firenze, Padova, Venezia
(+ grande stampatore
italiano: Aldo Manuzio),
Milano (Visconti e Sforza/
Bramante e Leonardo da
Vinci), Mantova (Gonzaga,
Poliziano “la favola di
Orfeo”), Ferrara (Estensi),
Roma, Napoli (Lorenzo
Valla)

LA LINGUA : LATINO E VOLGARE


LA FASE DELL’UMANESIMO IN LATINO
Il culto umanistico dei classici determina nuovamente il predominio del latino come lingua letteraria,
interrompendo il vero e proprio trionfo del volgare come lingua della cultura. I primi umanisti scrivono le loro
opere esclusivamente in latino, ridando vita a generi classici come l’orazione, il dialogo, l’epistola, ma
praticando anche generi poetici. Il latino che prende il predominio è il latino classico nella sua purezza,
quello usato dagli autori della tarda età repubblicana e dell’età augustea.
In questo periodo il volgare resta relegato soprattutto a usi pratici: come nella comunicazione
quotidiana, nelle cancellerie, negli atti pubblici, nei tribunali. Le opere letterarie composte in volgare sono
estranee all’ambiente umanistico e sono legate a radici popolari: si tratta perlopiù di prediche, laudi, sacre
rappresentazioni, vite di santi, libri di mercanti, lettere familiari, cantari cavallereschi.

LA FASE DELL’UMANESIMO VOLGARE


Verso la metà del secolo il volgare comincia a riaffermarsi come lingua di cultura. La lingua usata dagli
scrittori tende tuttavia a modellarsi sul latino dei classici. Il volgare è quello fiorentino, consacrato come
lingua letteraria dal prestigio dei tre grandi scrittori del ‘300, ma non è un modello rigidamente codificato e
riprodotto con scrupolosa fedeltà, è caratterizzato da una grande libertà e varietà linguistica. Questa
lingua viene adottata a livello nazionale solo come lingua letteraria, impiegata da una ristretta minoranza
colta, e solo per determinati usi culturali. Le lingue veramente parlate sono i dialetti, che costituiscono un
panorama infinitamente vario e frammentato. Si ha una netta frattura fra la lingua letteraria e la lingua
effettivamente parlata dalla maggior maggioranza della popolazione.
Ciò determina da un lato il carattere estremamente aristocratico della letteratura italiana e dall’altro
l’estraneità totale di queste masse rispetto alla cultura di alto livello.

LORENZO DE’ MEDICI


Figura chiave del mondo culturale e politico italiano nel 400: Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze
dall’età di vent’anni alla morte. Svolse un ruolo fondamentale nel conservare l’equilibrio fra i diversi Stati
italiani. Con la sua morte si chiuse un’epoca di relativa pace.

TRIONFO DI BACCO E ARIANNA


- Metro: ballata costituita da sette stanze di ottonari intervallate da una ripresa di quattro versi, con
la reciproca coincidenza, negli ultimi tre, delle parole in rima: tuttavia, sia, certezza. Gli ultimi due
versi, a loro volta, si ripetono identici, rafforzando la cadenza di un ritornello divenuto quasi
proverbiale. La lingua segue il fiorentino letterario, con uno stile facile e popolare adatto al tipo di
componimento.
- Il testo è uno dei Canti carnascialeschi di Lorenzo e fu composto per il carnevale del 1490, dunque
negli ultimi anni della vita dell'autore: si tratta di una canzone a ballo che celebra il "trionfo" del dio
del vino Bacco (e della gioia e del piacere) e della sua sposa Arianna, che aprono un corteo
festoso su un carro seguiti da altri personaggi della mitologia classica legati alla loro storia (la
canzone aveva probabilmente un accompagnamento musicale e doveva essere eseguita mentre
per le strade di Firenze sfilavano i carri allegorici, i cosiddetti “trionfi”, inventati dallo stesso
Magnifico, tra il popolo in festa). Secondo il mito Bacco aveva raccolto Arianna sull'isola di Nasso
dopo che questa era stata abbandonata da Teseo e ne aveva fatto la sua sposa, portandola con
sé in cielo.

Il carattere edonistico della rappresentazione congiungendo giovani e vecchi nella ricerca del
piacere, nasce una concezione di fondo pessimistica e malinconica: quella che si basa sul
trascorrere del tempo e sulla caducità dei beni terreni.
I CANTARI CAVALLERESCHI
UN GENERE DESTINATO A UN PUBBLICO POPOLARE
Durante il Medioevo diviene molto importante il poema epico-cavalleresco. Questo era un componimento
narrativo in versi che trattava le avventure di cavalieri e paladini, e che veniva cantato nelle piazze dai
cantari cavallereschi; era un componimento destinato ad un pubblico non colto. Sono componenti narrativi
in versi in ottave di endecasillabi e venivano recitati dai giullari nelle piazze. Nel poema epico-cavalleresco
si ha l'unione tra i personaggi del ciclo carolingia e l'ambiente del ciclo bretone: scompare l’austera
solennità epica carolingia e si fa strada la ricerca della pura avventura e del meraviglioso. Assume una
grande importanza la tematica amorosa, che nel ciclo carolingio era del tutto assente, e il tema comico: i
giullari, infatti, rovesciano in chiave buffonesca le figure degli eroi tradizionali. Per il fatto che il poema
epico-cavalleresco è un poema destinato ad un pubblico non colto, gli autori ricorrono a meccanismi
narrativi elementari: effetti a sorpresa e ripetizione di scene; ovviamente, anche la metrica e lo stile sono
molto semplici e rozzi.

LE OPERE PRINCIPALI E LA LORO INFLUENZA SUI POETI SUCCESSIVI


Il poema epico-cavalleresco ebbe una grande importanza anche per i poeti successivi. Questi, ad esempio
Boiardo ed Ariosto, ripresero tali poemi e cercarono di portarli a livelli più elaborati ed elevati per far sì che
divenissero poemi adatti all'ambiente di corte.
Oltre a far propri personaggi, vicende, episodi interi, si compiacciono anche di riprodurre certe movenze
narrative, il dialogo con gli ascoltatori, riferimento a fonti fantasiose, il gusto delle iperboli nelle battaglie nei
duelli. Si tratta così di un gioco di intesa tra il poeta e il suo pubblico, poiché si divertono entrambi a
riprendere tratti tipici di una narrativa diffusissima popolarissima.

LA DEGRADAZIONE DEI MODELLI: IL MORGANTE DI PULCI


Più vicino allo spirito dei cantori è il Morgante di Luigi Pulci che riprende gli intensi giocosi e burlesche
tipici della tradizione borghese fiorentina, rimasta viva anche all’interno della signoria medicea. Pulci si
richiama all’esperienza della poesia comico-parodica, di Cecco Angiolieri, con il suo gusto per lo sberleffo,
per la deformazione caricaturale e grottesca. Il racconto delle avventure cavalleresche diventa così lo
spazio aperto non solo al divertimento, ma anche all’irriverenza e alla dissacrazione, quando il riso si
trasforma in irrisione.

LUIGI PULCI (Firenze)


LE OPERE MINORI E IL MORGANTE
il Morgante, un ampio poema in ottave di argomento cavalleresco. Esso trae il titolo dal nome del gigante
omonimo, che con le sue stravaganti imprese riscuoteva ampio favore del pubblico. Pulci si proponeva
inizialmente di dare una forma letteraria più degna ad un carattere popolaresco, l’Orlando, riversando nelle
leggende dei paladini di Carlo Magno, i suoi uomini bizzarri e mutevoli, oltre i suoi episodi e personaggi
nuovi, che sono le creazioni più straordinarie del poema, come il furfante Margaret e il diavolo sapiente
Astarotte. Il poema trae l’argomento delle leggende carolingie e narra le avventure e gli amori di orlando,
Rinaldo e altri paladini di paesi più lontani, a cui si accompagnano le vicende comiche del gigante
Morgante e del mezzo gigante Margaret, un astuto furfante. Il poema termina con la morte di Orlando.

LE CARATTERISTICHE DEL POEMA


Destinata alla recitazione nell'ambito della corte, l'opera manca di un disegno organico e unitario: gli
episodi scaturiscono l’uno dall’altro in modo apparentemente casuale, e spesso si arruffano in modo
tortuoso, oppure procedendo a sbalzi, senza legami evidenti tra loro. I paladini spesso perdono la loro
eroica dignità, degradandosi a livelli buffoneschi e furfanteschi, e vi riconducono il gusto di tratteggiare
scene realistiche, interventi arguti della voce narrante, i riferimenti a novelle e proverbi. La materia
cavalleresca dei giullari offre al Pulci lo spazio più aperto per lo sbrigliarsi dell’immaginazione, per
l’insegnamento degli umori più bizzarri. Il poema diventa allora una mutevole avventura di toni diversi,
buffoneschi e furfanteschi, seri ed eroici, patetici e teneri, fiabeschi. Il suo poema rispecchia fedelmente
l’immaginazione della vita per Pulci.

LA LINGUA E LO STILE
Viene usata una lingua forzata al di là dei codici consueti del linguistico letterario, e che si colloca quindi
agli antipodi rispetto al canone classicistico. Il fondo è il toscano parlato, dialettale, ricco di termini saporosi
di modi di dire vivacissimi incisivi; Pulci innesta su di essi una varietà ricercata linguistica e recupera termini
latini, o letterari, o scientifico-filosofici. Su tutto domina il gusto della deformazione e della forzatura
espressiva della parola, in concomitanza con la ricerca dell’eccesso, della decisione beffarda corrosiva, del
provocatorio rovesciamento di ciò che è serio, elevato e degno.

LA RIPROPOSTA DEI VALORI CAVALLERESCHI: L’ORLANDO INNAMORATO DI BOIARDO


I cantari venivano recitati nelle piazze e, quindi, continuavano a mantenere i caratteri dell'oralità; ciò finché
alcuni autori, come Ariosto o Boiardo, non decisero di portare tali poemi ad un livello più elevato, e di farli
rivivere nella corte. I poemi epico-cavallereschi rivivono nella corte per due motivi: innanzitutto,
rappresentano il tipo di svago e di divertimento perfetto per i cortigiani; in secondo luogo, la corte ha in sé
quegli ideali cavallereschi che rispecchiano i poemi.
La corte di Ferrara ebbe una grande importanza in questi anni. Qui, infatti, lavorarono alcuni grandi autori,
tra i quali Boiardo e Ariosto. Quest'ultimo, proprio nella corte di Ferrara, lavorò all'opera intitolata “Orlando
innamorato”.

LA MATERIA E I MODELLI
L'Orlando innamorato, l'opera più importante di Boiardo, cominciò ad essere scritta nel 1476. I primi due
libri dell'opera furono pubblicati nel 1483 in 60 canti, mentre la composizione di un terzo libro venne
interrotta alcuni mesi prima della morte dell'autore. Il titolo fa capire che sarà un'opera innovativa: racconta,
infatti, le avventure di Orlando, un guerriero prode e valoroso che cade in preda all'amore, così come era
successo ad uno dei protagonisti del ciclo bretone. Boiardo, quindi, porta a compimento la fusione tra il
ciclo carolingio e quello bretone. Le avventure hanno come protagonisti personaggi carolingi, ma le vicende
si svolgono in un ambiente tipicamente arturiano; il poeta stesso giustifica questa scelta nell'opera: afferma
che la corte di Re Artù era più adatta alle vicende in quanto essa fu sempre aperta nei confronti delle armi
e degli amori, al contrario della corte di Carlo Magno, che, invece, fu sempre chiusa nei confronti
dell'Amore. Amore e Forza sono per Boiardo gli ideali principali, le uniche virtù che possono far sì che un
cavaliere abbia onore e gentilezza.

VALORI CAVALLERESCHI E VALORI UMANISTICI NELL’ORLANDO INNAMORATO


Boiardo, essendo un autore umanistico-rinascimentale, tende a spogliare la cavalleria dei valori medievali
(religiosità, politica, etica), e a farle assumere dei valori più rinascimentali. Ad esempio, la prodezza non
viene più considerata come la forza o il valore del cavaliere, è considerata come una virtù indispensabile
del cavaliere che deve riuscire a superare prove e ostacoli, e ad imporre il suo dominio sulla Fortuna. Nel
poema, quindi, vi è un nuovo tema: la virtù dell’individuo che sa superare gli ostacoli e imporre il suo
dominio sulla Fortuna: tale tema viene sviluppato molte volte nel poema. Anche l'Amore perde il significato
medievale. L’amore e le armi, formando un’inscindibile unità, esprimono una visione già rinascimentale
della vita, in senso laico, mondano (volto alla ricerca del sapere per se stesso), edonistico. La più felice
incarnazione di questa visione dell’amore è Angelica, una donna in tutta la complessa mobilità della sua
psicologia protesa con tutte le forze a soddisfare il suo desiderio amoroso. Boiardo guarda con ironia
l’effetto di una partecipazione goduta allo slancio vitale che anima le sue storia e mira a rendere quel
mondo più familiare ai lettori.

LA STRUTTURA NARRATIVA E LO STILE


La trama del poema si costruisce attraverso un proliferare inesauribile di fatti, personaggi, situazioni e
luoghi.
La narrazione del poema gira attorno a moltissime vicende intrecciate tra di loro: duelli, battaglie, incontri
con personaggi fiabeschi, ecc. La narrazione sembra poter continuare all'infinito; sembra senza
conclusione. In questa struttura, numerosi fili si intrecciano fra loro attraverso la tecnica dell’entrelacement:
le vicende di un personaggio sono seguite sino ad un certo punto, poi interrotte per seguire quelle di un
altro, poi riprese, mescolate.
Il linguaggio del poema è molto vivo: vi sono vocaboli toscani, padani e latini. Tale linguaggio rispecchia la
vivacità della narrazione.
PULCI, BOIARDO E ARIOSTO
PULCI- MORGANTE BOIARDO-ORLANDO INNAMORATO ARIOSTO- ORLANDO FURIOSO

MATERIA primo che introduce la materia fusione della materia cavalleresca del fusione della materia cavalleresca
carolingia ciclo carolingio con quella amorosa e del ciclo carolingio con quella
fiabesca del ciclo bretone amorosa e fiabesca del ciclo bretone

PUBBLICO colto colto colto

CONTESTO E corte dei Medici (Firenze) corte estense (Ferrara) corte Estense (Ferrara)
MODALITÀ DI
FRUIZIONE

FINALITÀ divertimento e svago divertimento e svago divertimento e svago, conoscenza


della verità

METRICA ottave di endecasillabi ottave di endecasillabi ottave di endecasillabi

STILE vivace ed espressionistico, esuberante e immediato registri lessicali diversi


caratterizzato dalla mescolanza di
toni e di registri lessicali diversi

LE IDEE E LA VISIONE DEL MONDO


UMANESIMO, RINASCIMENTO E MANIERISMO: PROBLEMI DI PERIODIZZAZIONE
La cultura e la letteratura del ‘500 si possono dividere in due momenti: il Rinascimento, nella prima metà
del ‘500, che porta a conclusione del processo culturale già avviato nel ‘400 dall’umanesimo; il manierismo,
che rappresenta la crisi nella seconda metà del ‘500.

LA FIORITURA CULTURALE DEL RINASCIMENTO


vedi (IL RAPPORTO CON I CLASSICI E IL PRINCIPIO DI IMITAZIONI) Il termine Rinascimento implica la
convinzione di essere eredi di una somma altissima di valori, che occorre riproporre e perfezionare.
Caratteristici del Rinascimento appaiono il classicismo formale, il sentimento della bellezza intesa come
equilibrio spirituale e ordine intellettuale, una ricerca delle proporzioni che ha alcune delle sue massime
espressioni nelle contemporanea manifestazioni dell’arte figurativa. La grande fioritura letteraria del primo
cinquecento rafforza l’immagine di una letteratura ormai giunta a maturazione e padrona delle proprie
risorse tecniche ed espressive e di fatto intesa come raggiungimento di una misura superiore di stile. Nel
classicismo vengono individuati modelli trecenteschi come quello di Petrarca e Boccaccio e a questi si
aggiungono anche le regole aristoteliche che definiscono in maniera rigorosa il funzionamento dei generi
letterari.
Nato come reazione alle regole del classicismo e al principio di imitazione, il cosiddetto anticlassicismo
trova nelle diverse forme del comico e della parodia i suoi punti di forza.
- 1525 tracciarono la storia della lingua volgare dalle origini, nelle Prose della volgar lingua di Pietro
Bembo, inoltre si sancisce la superiorità del fiorentino letterario (Manzoni: parlato dai colti)
NON Dante perché poneva al centro del mondo Dio e non l’uomo.

LA POETICA DI ARISTOTELE
la poetica aristotelica corrispondeva perfettamente alle attese della cultura del tempo, volta alla ricerca di
norme e di regole capaci di razionalizzare le forme e gli stili delle opere letterarie. Nelle parti che ci sono
pervenute Aristotele aveva analizzato le opere della letteratura greca, per ricavarne le regole alle quali i
generi letterari in questione obbedivano. A queste norme (unità di tempo, luogo e azione) i teorici
cinquecenteschi attribuirono perlopiù un carattere esemplare poiché pretendevano che fossero applicati in
maniera rigorosa da tutti gli scrittori.

TRASFORMAZIONE DEL PUBBLICO E FIGURE INTELLETTUALI


IL PUBBLICO
L'opera letteraria nasce nella corte dove si trova il suo pubblico, poiché i primi fruitori furono principi e
cortigiani, che potevano permettersi di comprare libri. Anche quando inizia a diffondersi, queste opere
riguardano la ricca borghesia e l'aristocrazia: un pubblico di élite. Causò un radicale distacco dalle masse
popolari, afflitti sempre di più da un alto tasso di analfabetismo. L'introduzione della stampa favorì la
circolazione della letteratura. Le opere non sono composte solo per altri intellettuali ma raggiungono
attraverso il libro direttamente il lettore.

L’EDITORIA DI MERCATO
La letteratura diventa un fatto mondano e di costume, che modificò la collocazione sociale dello scrittore
che gli consentiva una fonte di guadagno. Proprio per questo cambiò l’attenzione nei confronti del pubblico.
Gli autori scrivono scritti bizzarri e anticonformistici che vengono incontro alle richieste, gusti ed esigenze
del pubblico. Si comincia ad individuare un duplice movimento: di promuovere la crescita culturale e la
sensibilità estetica del pubblico e in secondo luogo di venire incontro ai gusti e alle attese dei lettori.

L’INTELLETTUALE CORTIGIANO
A Firenze la figura dell'intellettuale è sempre presente. In questo periodo la condizione della figura
dell'intellettuale cortigiano prevale. Egli dipendeva dal principe o cercava una sistemazione nelle gerarchie
di chiesa. Il letterato si pone al servizio di casate aristocratiche, ad esso viene dato uno stipendio e ottiene
protezione. In cambio il letterato svolge mansioni di tipo amministrativo. Paga i suoi debiti attraverso la
letteratura (attività molto apprezzata). Le figure dell'intellettuale e del cortigiano iniziano piano piano a
coincidere. Ciò appare evidente nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione che descrive il ritratto del
perfetto uomo di corte e delle alte qualità sociali e ne “il Galateo” di Giovanni della Casa. Parla anche della
donna, cortigiana, e il suo ruolo nella corte. Pietro Aretino invece ha una visione polemica della vita di corte
e ci mostra i lati negativi: umiliazione e perdita della dignità. La protezione e gli onori che dà il principe agli
intellettuali accrescono il prestigio sociale ma comporta la perdita della sua indipendenza.

LA CONDIZIONE PRECARIA DEGLI INTELLETTUALI


Intorno agli anni 30/40 del '500 le corti persero potere. La crisi si manifesta anche nel ruolo degli intellettuali
che ricevono sempre meno richieste, alcuni di loro vengono trasformati in segretari. L'intellettuale cerca
una nuova forma di aggregazione ovvero le accademie le quali raggiungono una grande diffusione. C'è un
aspetto negativo, l'intellettuale non può criticare il principe, non è libero di esprimere opinioni perchè nella
corte non c'è libertà di pensiero.

UN TEATRO DEI VINTI


si può dire che il 500 registri la nascita del teatro moderno, proponendo, anche ad opera di alcuni fra i
maggiori scrittori del secolo, testi di grande importanza e significato. Fondamentale resta il richiamo e non
ai modelli del mondo classico, sia per la commedia sia per la tragedia, che può anche avvalersi delle
indicazioni ricavate dalla poetica di Aristotele. Il Ruzante introduce un forte e nuovo elemento di polemica
sociale, contro i ceti superiori, ponendo in primo piano la miseria e le sofferenze dei ceti subalterni.

ANGELO BEOLCO, IL RUZANTE


nacque a Padova intorno al 1500. Viene chiamato “Ruzante” dal nome del protagonista di alcune suoe
commedie. La critica più recente ha messo in luce la sua squisita educazione letteraria: la sua scelta del
dialetto è da collocarsi nella scia delle esperienze goliardiche, vive nell’area veneta e che si espressero
anche nella traduzione meccanica maccheronica.

LE OPERE
Protagonista assoluto di questi dialoghi (IL PARLAMENTO DE RUZANTE CHE IERA VEGNÙ DE CAMPO
e BILORA) è il villano, che si esprime in dialetto pavano, ed era portato sulla scena dello stesso Beolco. Il
personaggio del villano si oppone agli sletran, letterati, che vivono in un mondo di falsità, e cerca di
affermare sincero i valori naturali su cui deve fondarsi un nuovo roesso mondo. Con il personaggio del
villano rivisita la cultura contadina impregnata di tradizioni folcloriche e legata al fenomeno del carnevale
come momento di libertà, di autoaffermazione, di rovesciamento di valori delle gerarchie tradizionali.
L’esagerazione il capo del cibo e del sesso, a cui villano si abbandona, peraltro solo con la fantasia, sono
riconducibili all’immaginario carnevalesco. Con questa operazione si inserisce nella tradizione letteraria
della satira del villano che aveva l’intento di far divertire il pubblico dei signori con il racconto delle
disavventure del rozzo personaggio, ma rovescia radicalmente il significato dell’esperienza, adottando un
punto di vista interno alla narrazione, quella del contadino. Di conseguenza il ritratto di questa società
“bassa” fa emergere tutta la drammatica condizione di sfruttamento e di emarginazione in cui vivono i
contadini e da occasione di comicità si trasforma in un documento di denuncia e polemica.

ARIOSTO
Ludovico Ariosto rappresenta la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento: egli, infatti,lavorò
per tutta la vita all'interno della corte anche se, comunque, nutriva nei confronti di questo ambiente
sentimenti di rifiuto e anche di polemica.

LA FORMAZIONE E IL SERVIZIO DEL CARDINALE IPPOLITO


Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia nel 1474 da una famiglia nobile. Dall’84 si trasferì con il padre a
Ferrara ove intraprese i primi studi; tuttavia abbandonò questi studi che gli erano stati imposti dal padre per
seguire la sua vera vocazione: gli studi di letteratura e gli studi umanistici. A partire dal 1497 cominciò a
frequentare Pietro Bembo; questo lo influenzò e lo indirizzò verso la poesia in volgare. Negli stessi anni
entrò al servizio nella corte del duca Ercole I ed entrò a far parte della cerchia dei cortigiani stipendiati. In
seguito alla morte del padre dovette occuparsi del patrimonio familiare, assumere la tutela dei fratelli minori
e cercare di accasare le sorelle. Nel 1503 entrò a servizio del cardinale Ippolito, figlio del duca, e intraprese
compiti diplomatici e politici che egli riteneva non all'altezza della sua vocazione, come lui stesso afferma
nelle Satire.
Per aumentare le entrate assunse le vesti di chierico, prendendo gli ordini minori. A causa dei rapporti tesi
tra il duca e il papa Giulio II, Ariosto viene inviato come ambasciatore a Roma molteplici volte. Nel
frattempo cominciò a stringere rapporti con ambienti fiorentini, che miravano alla restaurazione del potere
mediceo, ed in particolare con Giovanni de’ Medici (figlio del Magnifico). Nel 1513 muore papa Giulio II e
viene eletto papa Leone X (1475-1521), da cui il poeta si reca in cerca di una sistemazione nella città
pontificia, senza avere risultati effettivi e dovette adattarsi a restare a Ferrara. Sulla strada di ritorno, in una
sosta a Firenze, conosce Alessandra Benucci, di cui si innamora e che sposerà.

AL SERVIZIO DEL DUCA ALFONSO


Nel 1516 Ariosto dedicò al cardinale Ippolito la prima edizione dell'Orlando Furioso; il cardinale,tuttavia,
non fu entusiasta dell'opera quanto aveva immaginato Ariosto. Nel 1517 Ariosto passò al servizio del
cardinale Alfonso. Questo gli diede l’incarico di governatore della Garfagnana, regione appenninica da
poco annessa al Ducato estense: una regione turbolenta, infestata da banditi, in cui l’ordine doveva essere
mantenuto con la forza, e proprio in quest'occasione Ariosto dimostrò di avere ottime doti politiche e
amministrative. Nel 1525 tornò a Ferrara; qui morì nel 1533. Ariosto stesso, nelle Satire, ha lasciato
un'immagine di sé come uomo che amava la vita pacata e sedentaria. Tuttavia tale immagine non risponde
a quella che fu veramente la sua personalità: egli condusse sempre una vita frenetica e dimostrò di avere
doti eccellenti non solo come poeta, ma anche come politico.

LE OPERE MINORI
LE LIRICHE LATINE E LE RIME VOLGARI
La lirica latina di Ariosto risale prevalentemente agli anni giovanili. Non furono mai raccolti dall’autore in
forma organica né pubblicati come opera compiuta. Vi si rivela la formazione umanistica di Ariosto e sono
chiaramente ravvisabili i modelli classici come quelli di Orazio, Catullo e Virgilio.
Le rime volgari sono state scritte lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta, tra il 1493 e il 1527, anche esse
non furono mai raccolte organicamente dall’autore. Buona parte delle rime si concentra intorno al tema
amoroso e alla figura della donna amata, Alessandra Benucci.

LE COMMEDIE
Ariosto si occupò professionalmente di teatro, come si è accennato, tra i suoi compiti intellettuale cortigiano
vi era anche l’allestimento di spettacoli per le feste di corte, secondo la tradizione che era
particolarmente viva a Ferrara già nel 400. Per tali spettacoli si utilizzavano inizialmente traduzioni e
adattamenti di testi comici latini, ma in seguito si passò anche alla liberazione di testi originali in volgare.
Ariosto fu colui che inaugurò questa nuova tradizione con due commedie fatte rappresentare alla corte di
Ferrara, tra cui la Cassaria nel carnevale del 1508 e i Suppositi. Ariosto scelse in un primo tempo la prosa.
Le sue due prime commedie riprendono il tipico schema plautino del conflitto fra i giovani. Al modello
dell’intreccio flautino si aggiunge la suggestione della novella italiana, in particolare di Boccaccio, nel
motivo dell’intraprendenza dei giovani alla ricerca del amoroso e in quello dell’astuzia di servi. La scena
come nel teatro comico antico è collocata in ambienti borghesi cittadini. La Cassaria, per esempio, si
svolge in una città greca. L’autore poi lasciò la prosa per il verso endecasillabo sciolto sdrucciolo che aveva
un andamento simile a quello del verso più usato dei comici latini.
- Il Negromante / la Lena / la Cassaria

LE LETTERE
ci sono giunte 214 lettere di Ariosto. Si tratta di un epistolario di carattere molto diverso da quelli umanistici,
che hanno come modello quello petrarchesco. Si tratta di lettere private, relazioni diplomatiche, rapporti ai
signori, biglietti d’occasione. Non sono scritti in un linguaggio letterario elaborato, ma in stile semplice e
immediato.

LE SATIRE
Tra il 1517 e 1525 Ariosto scrisse sette satire in forma di lettere in versi indirizzate a parenti ed amici; non
ne curò però la stampa. Anche per questi componimenti vi erano dei modelli classici (le satire e le epistole
di Orazio). La satira antica era in origine un componimento che permetteva di toccare i più vari argomenti,
senza un ordine prefissato (il nome pare che derivi da satura lanx, un piatto votivo che conteneva i più vari
tipi di cibi). L’autore può toccare gli argomenti più diversi: riferimenti autobiografici, riflessioni generali sul
portamento umano, ritratti di persone, apologhi, favole. Ad Orazio è particolarmente vicino nell’ideale di
una vita quieta e modesta ma indipendente da ogni servitù e del distacco ironico con cui sa guardare
se stesso e gli altri. Ariosto impiega la forma del capitolo in terzine dantesche.
- la satira I: insiste sull’incompatibilità degli incarichi pratici del cortigiano con la vocazione letteraria
- la satira II: contiene la rappresentazione critica e polemica della corte papale.
- La sarta III: tratta della condizione del poeta e ribadisce con vigore la sua esigenza di autonomia
della dalla corte.
- La satira IV: descrive le difficoltà del suo compito di governatore della Garfagnana, il rimpianto
dell’attività letteraria interrotta.
- La satira V: è una disamina dei vantaggi e degli svantaggi della vita matrimoniale.
La struttura di questi componimenti è quella della chiacchierata alla buona, che trascorre disinvoltamente,
talora senza apparenti connessioni, tra i più vari argomenti. Cesare Segre ne ha sottolineato la struttura
intimamente dialogica: il poeta dialoga continuamente, con se stesso, con destinatari, con interlocutori
immaginari. I temi centrali delle satire sono la condizione dell’intellettuale cortigiano, i limiti di ostacoli che
essa pone alla libertà dell’individuo, l’aspirazione di una vita quieta ed apparata, dedita agli studi, ai voli
della fantasia e gli affetti familiari, la follia degli uomini che si danno ad inseguire oggetti vani, la fama, il
successo, la ricchezza. In realtà, dietro agli atteggiamenti bonari e sorridenti, si cela uno sguardo acuto ed
una visione sostanzialmente pessimistica e amara della vita dei tempi. Usa uno stile colloquiale,
volutamente prosaico ed il certi tratti apparentemente disadorno ed impiega largamente modi di dire della
lingua parlata. L’andamento è colloquiale e rifugge dalle cadenze troppo musicali, prediligendo spesso
fratture e pause. Nelle Satire si trova lo stato puro quell'atteggiamento riflessivo e conoscitivo e
l’atteggiamento ironico.

LA CONDIZIONE SUBALTERNA DELL’INTELLETTUALE CORTIGIANO


Il passo getta luce sulla condizione subalterna in cui era tenuto l’intellettuale Ariosto nella provinciale corte
Estense. L’amarezza del poeta nasce dal fatto che non viene considerata come merita la sua attività
intellettuale. Di essa Ariosto, formatosi in clima umanissimo, ha una concezione altissima: di qui deriva il
conflitto con il suo signore, che, preso dalle sue preoccupazioni politiche, privilegia altre attività più pratiche
e prosaiche, e alla letteratura ostenta un atteggiamento sprezzante, tanto da scendere al livello di battute
volgari. Per questo chiesto, rivolgendosi a un altro poeta, riprende polemicamente da immagine greve, che
con la sua volgarità gli rivela tutta l’amarezza del poeta.
Un altro motivo di amarezza è che il servizio di corte compromette la libertà dell’intellettuale, la sua
possibilità di dedicarsi agli studi, che per lui sono il valore più alto, l’autentica ragione di vita. Per questo il
poeta ha compiuto il gesto di rottura e si è rifiutato di seguire il suo signore anche a costo della povertà. Il
suo ideale è la quiete, cioè l’ozio, il tempo libero da dedicare all’attività poetica, con l’animo sgombro da
preoccupazioni e dai fastidi provocati dai servizi del servizio del duca, che lo costringe ad attività umilianti
per la sua dignità personale e a missioni politiche faticose e pericolose.

L’INTELLETTUALE CORTIGIANO RIVENDICA LA SUA AUTONOMIA


Il discorso si concentra intorno ad alcuni nuclei tematici essenziali: in più in primo luogo la ferma
rivendicazione dell’indipendenza personale come valore supremo. Questo senso geloso, orgoglioso della
dignità e dell’autonomia dell’individuo, che deve essere libero di autodeterminarsi e realizzarsi come crede,
è uno dei grandi principi della mentalità moderna, in opposizione alla concezione feudale della dipendenza
personale, che era propria del medioevo ma sopravvive in buona misura nella civiltà di corte, nei rapporti
tra cortigiano e signore. Ne scaturisce un atteggiamento di insofferenza e rifiuto per cui l’ambiente di corte,
che tende per la sua stessa essenza a limitare l’indipendenza dell’individuo, sottomettendolo in tutto la
volontà e ai favori del principe. Secondo il poeta l’uomo non si realizza compiutamente nella vita cortigiana,
ma nella sfera privata, nella sua vita domestica, familiare. Solo nell’ambito privato l’uomo è veramente
libero, interiormente resto chiaramente, mentre la vita del cortigiano non è che servitù.

L’ORLANDO FURIOSO
LE FASI DELLA COMPOSIZIONE
Dopo aver interrotto la realizzazione dell’Obizzeide, poema che avrebbe dovuto celebrare la casata d’este,
Ariosto inizia a scrivere l’Orlando Furioso, continuo dell’opera di Boiardo l’Orlando Innamorato. L’opera si
riallaccia perfettamente a quella di Boiardo, proseguendola e allargandola con nuove avventure.
La prima edizione è del 1516, ma non molto dopo uscirà anche la seconda edizione, nel 1521, una
revisione della prima che non propone sostanziali cambiamenti; infine, una terza edizione del poema vi
apparve nel 1532. La revisione fu in primo luogo linguistica: nelle prime due edizioni utilizzò la lingua
cortigiana propria anche di Boiardo, nella terza e ultima redazione si avvale alla lingua ai canoni
classicistici fissati da Bembo: il modello era una lingua pura e levigatissima, che si rifaceva rigorosamente
al fiorentino dei classici trecenteschi. ci fu un’aggiunta di contenuti che ampliò l’opera a 46 canti; i
contenuti, però, non solo crearono nuove simmetrie e nuove vicende, ma modificarono anche il clima
dell’opera spostando la lancetta sul pessimismo per l’uomo e per le sue attività (tradimento, tirannide,
violenza)(si possono cogliere riflessi del progredire della crisi italiana fra il 1516 e il 1532). In questo clima
cupo e pessimistico rientrano anche i 5 canti. Scritti presumibilmente attorno al 1518-19, con l’intenzione di
inserirli nella seconda edizione del poema (pubblicati postumi dal figlio Virginio).

LA MATERIA DEL POEMA


Ariosto riprende la materia cavalleresca che già aveva avuto fortuna nel suolo italiano fin dal duecento.
Anche nel Furioso si opera quella fusione tra materia carolingia e arturiana. I personaggi sono quelli della
tradizione carolingia, ma grande rilievo hanno sia il motivo amoroso che quello fiabesco e meraviglioso.
Alla materia romanza poi si aggiungono infinite reminiscenze della letteratura classica di Virgilio, di Ovidio e
di altri poeti antichi: può trattarsi di episodi ricalcati, di rimandi mitologici. Ariosto si rivela poeta del pieno
Rinascimento e utilizza la sua formazione umanistica.

IL PUBBLICO
Come il poeta stesso dichiara in una nota pagina al doge di Venezia, l’opera è composta “per spasso e
recreatione de’ Signori e persone de animo gentile”, fatta di “cose piacevole e dilettevole di arme et amor” e
merita di essere pubblicata “per solazzo et a piacer d’ognuno”. Il poema è quindi pensato come un opera di
intrattenimento, indirizzata ad un pubblico di cortigiani e persone colte. Il pubblico non era più costituito in
primo luogo dalla cerchia ristretta dell’ambiente in cui l'opera era nata, come era proprio delle opere
pubblicate prima dell’invenzione della stampa, ma era ormai il pubblico nazionale, formato dall’insieme
delle persone colte in tutti i centri della penisola.

L’ORGANIZZAZIONE DELL’INTRECCIO
Nel Furioso si intrecciano le vicende di numerosissimi eroi. Il narratore porta avanti in parallelo il racconto
di più vicende contemporaneamente, troncandole e riprendendole, conducendo numerosi fili narrativi ad
intersecarsi fra loro, per dividersi poi nuovamente. Questo procedimento è stato definito dalla critica
entrelacement. Nel tessuto narrativo sono inoltre inserite novelle raccontate da vari personaggi e anche
episodi in cui si profetizzano eventi storici futuri per alludere ad eventi politici e militari contemporanei. Ogni
canto presenta un esordio in cui la voce narrante, prima di riprendere le fila dell’intreccio, traendo spunto
dai casi dei personaggi si abbandona a considerazioni morali sul comportamento umano in generale.
1. Guerra: re saraceno Agramante invade la Francia e assedia Parigi perché Orlando aveva ucciso
suo padre troiano (Boiardo). Agramante sembra avere la meglio sull’esercito cristiano di Carlo
Magno anche perché i paladini più importanti sono distratti da Angelica. In realtà alla fine Orlando
vincerà contro i mori.
2. amore: Orlando per Angelica. Durante l’assedio di Parigi Angelica è promessa sposa al più
valoroso, ambita da Orlando e Rinaldo, ma lei fugge inseguita da tanti. Incontra poi un bel fante
moro ferito di nome Medoro e se ne innamora. Insieme fuggono nel Catai. Orlando durante la
ricerca di Angelica vede, in un luogo, sugli alberi delle incisioni che celebrano l’amore tra Angelica
e Medoro lì vissuto e impazzisce, perde il senno. Intanto il guerriero Astolfo vola con l’ippogrifo
sulla luna per riprendere il senno di Orlando che una volta tornato in sé riprende a combattere.
3. il motivo encomiastico: dopo molte traversie Ruggero, guerriero saraceno, riuscirà a convertirsi
al cristianesimo e a sposare Bradamante, sorella di Rinaldo, e a diventare il capostipite della
dinastia degli Estensi.

IL MOTIVO DELL’INCHIESTA
La critica più recente ha notato che al centro del Furioso vi è il motivo dell’inchiesta: ciò che muove la
vicenda e suscita le imprese dei cavalieri è la ricerca di un oggetto di desiderio. Ma mentre nei romanzi
arturiani questa ricerca si caricava di sensi religiosi, nel Furioso l’inchiesta assume un carattere del tutto
profano e laico. Tutti i personaggi desiderano e cercano qualcosa, una donna, l’uomo amato, un elmo, una
spada. Ma il desiderio è vano, gli oggetti ricercati deludono sempre le attese e appaiono irraggiungibili.
Angelica, della quale è pazzo Orlando e altri cavalieri, sfugge sempre davanti a loro, irraggiungibile,
svanisce ai loro occhi grazie all’anello magico che la rende invisibile. L’inchiesta inconcludente si traduce in
un movimento circolare, che non approda mai a una meta e ritorna sempre su se stesso, ad indicare il
carattere ossessivamente ripetitivo della ricerca. Il movimento circolare trova espressione in una formula
che compare di frequente nel poema in varie forme: “di qua, di là” , “di su, di giù”, “or quinci or quindi”.
errore, un altro termine chiave del poema: errare, nel senso materiale l’allontanarsi fisicamente e nel senso
morale e intellettuale: il desiderio ossessivo e insoddisfatto può trasformarsi in follia.

LA STRUTTURA DEL POEMA: L’ORGANIZZAZIONE DELLO SPAZIO


Si tratta di uno spazio vastissimo. Lo spazio nel Furioso è del tutto orizzontale: il movimento dei cavalieri
avviene sul piano di una perfetta orizzontalità, nella dimensione puramente terrena. Può sembrare
un’eccezione il viaggio di Astolfo sulla Luna ma solo apparentemente, in quanto la Luna non è che il
complemento della terra, il suo rovescio speculare, il luogo dove si raduna tutto ciò che sulla terra si perde.
Il mondo del Furioso è quindi uno spazio immanente, che ignora la trascendenza. Mentre di fronte a Dante
si apre un’unica direzione di movimento, davanti ai cavalieri si apre ad ogni momento un campo infinito e
vario di possibilità tra cui scegliere e la ricerca non raggiunge mai il suo oggetto. Si tratta quindi di uno
spazio labirintico e frustrante nel quale non domina il disegno divino che tutto regola provvidenzialmente,
ma l’azione capricciosa e imprevedibile della Fortuna.

LA STRUTTURA DEL POEMA: L’ORGANIZZAZIONE DEL TEMPO


L’organizzazione del tempo è analoga a quello dello spazio. Nel Furioso il tempo non è lineare, ma
anch’esso labirintico: poiché sono molteplici i fili narrativi che si intrecciano, molti fatti, che si succedono
sull’asse sintagmatico del racconto, sono in realtà contemporanei, oppure fatti raccontati successivamente
sono precedenti o viceversa.
Abbiamo quindi l’entrelacement, ovvero l’intrecciarsi fra loro delle varie narrazioni, con continue interruzioni
e riprese.

LABIRINTO E ORDINE: STRUTTURA NARRATIVA E VISIONE DEL MONDO


Emerge quindi questa immagine del labirinto, infinitamente vario e molteplice, mutevole e imprevedibile.
Ma l’impressione che il poeta rende non è quella del disordine, del caos informe: anzi, l’immagine che si
ricava è quella di un cosmo perfettamente ordinato e armonico. In un primo luogo l’entrelacement non dà
mai il senso di un accostamento casuale ma appare sempre inserito in un disegno organizzativo rigoroso
che la mente del poeta regola dall’alto,con perfetto dominio e perfetta consapevolezza registica

DAL ROMANZO ALL’EPICA


La materia cavalleresca dà l’impressione di una struttura aperta, capace di espandersi all’infinito, in realtà
tutti i filoni narrativi principali arrivano a una conclusione: Angelica sposa l’umile fante Medoro e sparisce
sal poema, Orlando riacquista in senno e dà un contributo decisivo alla vittoria dei cristiani, Ruggero sposa
bradamante e diventa fondatore di una dinastia illustre, Rinaldo, bevendo alla fonte delle Ardenne,
rinsavisce e rinuncia al suo amore ossessivo per Angelica, la guerra tra i cristiani e i Mori, dopo alterne
vicende, si conclude con la sconfitta dei Mori. Alla struttura aperta del romanzo cavalleresco ad un certo
punto dell’intreccio comincia a sostituirsi quella chiusa e compatta, propria dell’epica classica.
L’entrelacement, nella seconda parte del poema, dopo il culmine toccano dalla follia di Orlando, si fa più
raro: predominano le sequenze narrative lunghe e ininterrotte. Anche l’inchiesta muta carattere, si tratta ora
di una ricerca intellettuale. Solo la letteratura consente un dominio simbolico del reale. Lo scacco pratico,
nel campo della realtà, trova un risarcimento estetico nella finzione. Se nella realtà l’uomo è soggetto a
forze capricciose e incontrollabili e va incontro all’inevitabile delusione, all’errore, alla follia, nell’universo
della finzione l’uomo-artista è appunto come Dio, che può esercitare un controllo totale sulla sua creazione.

IL SIGNIFICATO DELLA MATERIA CAVALLERESCA

LO STRANIAMENTO E L’IRONIA
Il procedimento dello straniamento, che è costante nel Furioso, consiste in un improvviso mutamento nella
prospettiva da cui è presentata la materia, nell’allontanarla e nel guardarla con occhio estraneo, in modo da
impedire
l’immedesimazione emotiva nel mondo narrato e in modo da costringere anche il lettore a guardare
personaggi, situazioni e sentimenti come da lontano, e quindi a riflettere su essi con atteggiamento critico.
Un effetto simile è ottenuto con vari procedimenti. Il più tipico è il continuo intervenire della voce narrante
con giudizi e commenti, in genere maliziosi che spezzano l’illusione narrativa. In altri casi il narratore
ostenta una imperfetta conoscenza dei fatti, giocando deliberatamente a limitare il proprio statuto di
onniscienza. Un procedimento simile allo straniamento e sempre veicolo di ironia, è l’abbassamento:
Ariosto si limita ad abbassare leggermente la dignità epica ed eroica dei personaggi, portandoli a un livello
più prosaico e familiare e facendo cosi emergere al di sotto delle apparenze dei cavalieri e dalle dame gli
uomini e le donne comuni, con i loro limiti e i loro errori.

L’IRONIA E L’ABBASSAMENTO

IL PLURALISMO PROSPETTICO E LA NARRAZIONE POLIFONICA


Non esiste un solo o prevalente punto di vista, coincidente con quello del narratore esterno o di un
personaggio, ma le vicende sono presentare da una pluralità di prospettive diverse. Nel proemio ogni
certezza e ogni acquisizione non è mai definitiva, ma viene superata con un procedimento di correzione
continua, che rende reversibile la lettura (rappresentazione della realtà -> per questo non vi è un giudizio
univoco).

LA LINGUA E LA METRICA DEL FURIOSO


A creare nel poema l’immagine di un ordine armonico ed equilibrato concorrono anche la lingua e la
metrica. Il modello seguito è l’unilinguismo di Petrarca anche se in realtà la lingua del Furioso è più
variegata e multiforme della lingua del petrarchismo, non è cosi selettiva e circoscritta nelle scelte lessicali.
Possono comparire nel discorso termini aulici e termini più comuni, vicini al parlato. La stessa tendenza a
comporre il molteplice nell’uno, che si manifesta al livello dei contenuti tematici e delle strutture narrative,
compare anche al livello della lingua e dello stile. Alla fusione unitaria contribuisce anche il ritmo dell’ottava,
che è di una fluidità miracolosa. A seconda della materia l’ottava può avere impostazioni diverse:
colloquiale, vibrante, solenne. Era il metro tradizionale della poesia cavalleresca.
PROEMIO
Il Furioso ha inizio con un proemio che contiene la protasi, l’esposizione all’argomento, l’invocazione e la
dedica al signore. Si concentra sui 3 filoni narrativi principali, cioè la guerra contro i Mori, la vicenda di
Orlando e l’eroe capostipite della casa estense. L’incipit, di 2 versi, evoca una tipica materia cavalleresca
costituita da armi, amori e cortesie. Innanzitutto rievoca una formula dantesca presente nel 14° canto del
Purgatorio e anche dell’Eneide virgiliana. Così facendo riprende l’imitazione tipica rinascimentale, di
modelli classici, inoltre i versi formano un doppio chiasmo tra donne, amori, cortesie e cavallier, arme,
audaci imprese. La prima ottava è di intonazione epica, mentre la seconda si concentra su Orlando e sulla
novità della pazzia per amore. Mettendo in primo piano la follia di Orlando ribadisce il titolo del poema. Il
distacco viene messo in evidenza anche dall’invocazione alla donna amata e non alle muse o a Dio come
era solito un tempo.
La terza e quarta ottava sono la dedica al cardinale Ippolito, quindi il motivo encomiastico.

LA CONDANNA DELLE ARMI DA FUOCO


Orlando, mentre vaga per l’Europa in cerca di Angelica, giunge in una città dove ascolta la storia di
Olimpia, figlia del conte di Olanda. Promessa a Bireno mentre questi era lontano a combattere i Mori in
Spagna era stata chiesta in moglie dal vicino re di Frisa per il proprio figlio, ma aveva rifiutato. Il malvagio
re aveva allora mosso guerra all’Olanda, valendosi di un’arma potente e mai vista prima, le armi con
polvere da sparo.
La leggenda attribuisce la scoperta della polvere da sparo a Bertoldo il Nero, tedesco, anche se
probabilmente si pensa sia stata scoperta da un cinese. Le armi da fuoco portarono cambiamenti nella
tecnica militare, sul piano sociale, per esempio le città non vengono più fortificate perché le mura venivano
abbattute molto facilmente, economico, urbanistico. L’importanza della cavalleria diminuì e così
l’aristocrazia venne colpita perché la fornivano. L’introduzione di queste armi diede impulso alle officine per
la loro fabbricazione.

LA FOLLIA DI ORLANDO
Dopo aver girato invano per due giorni, Orlando giunge nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la
loro passione amorosa. Vede i loro nomi incisi su ogni albero ed ogni pietra. Il paladino cerca di convincersi
prima che si tratti di un’altra Angelica, ma conosce la sua grafia; crede poi che Medoro fosse il soprannome
che lei gli aveva dato, ma in una grotta trova una poesia scritta dal giovane in onore della passione vissuta
insieme ad Angelica. Ma con sempre più sospetto Orlando giunge in una grotta dove vide molte frasi che
Medoro aveva scritto in arabo; Orlando le rilesse infinite volte sperando che non significassero quello che
c’era scritto e ogni volta provava una fitta come se una mano fredda lo stringesse. Il dolore che voleva
sfogare viene paragonato (da Ariosto) all’acqua in un vaso largo alla base ma stretto nel collo e
capovolgendolo il liquido si intoppa nella stretta apertura.

Per un po’ Orlando ritorna in sé crede che qualcuno abbia scritto quelle parole per infamare Angelica.
Prima del tramonto prende il cavallo, si mette in viaggio e poco dopo vede una casa. Un pastore lo ospita
per la notte e, vedendolo triste e sconsolato, per allietarlo gli racconta, con dovizia di dettagli, la notte
amorosa trascorsa da Angelica e Medoro in quella stanza. Dopo aver curato il giovane Medoro ferito,
Angelica se n’era innamorata e aveva deciso di sposarlo, benché egli fosse solo un povero fante e lei figlia
del più potente sovrano d’Oriente. Il pastore mostra a Orlando il letto su cui si è consumato l’amore tra i
due giovani e un prezioso bracciale che Angelica gli ha dato come compenso per l’ospitalità ricevuta. È il
bracciale che Orlando aveva donato ad Angelica. Dopo che il pastore lascia la camera Orlando scoppia in
lacrime e continua a girarsi nel letto. Gli viene in mente però che il suo amante e Angelica si sono coricati
lì.

Preso il suo cavallo raggiunge il bosco, e giunge per caso nei pressi della fonte, dove aveva visto le
incisioni dei due amanti. Frantuma in mille pezzi la roccia (viene usata la figura retorica dell’iperbole) su cui
Medoro aveva espresso il suo amore per Angelica, al punto che la fonte da allora è rimasta per sempre
torbida. Poi, stremato, crolla sull’erba e dorme per tre giorni. Il quarto giorno, uscito di senno, dopo essersi
completamente spogliato, inizia a correre e a devastare tutto quel che incontra, sradicando alberi. I
contadini, sentendo il frastuono, si incuriosiscono e vanno a vedere che cosa sta succedendo.

ASTOLFO SULLA LUNA


Superata la sfera del fuoco che separa la terra dal cielo della luna, Astolfo e San Giovanni giungono sul
mondo lunare, dove in una valle si accumula tutto ciò che gli uomini perdono sulla terra.
Astolfo trova le lacrime e i sospiri d’amore, l’ozio, il tempo perso nel gioco, i desideri irrealizzati, i doni fatti
con speranza di ricompensa, il denaro dato in beneficenza, la corruzione della Chiesa. Poi si rivolge verso
le sue esperienze perdute, modificate a tal punto che c'è bisogno dell'intervento di Giovanni per
riconoscerle.

Astolfo si trova davanti a un monte dov’è accumulato il senno perso dagli uomini. È racchiuso in ampolle,
poiché si trova allo stato gassoso: prende prima la sua e poi quella di Orlando, che è quella più grande di
tutte.

Astolfo nota molte altre ampolle con i nomi di famosi personaggi dal poco senno. Ariosto spiega poi quali
sono i motivi che portano alla follia: l’amore, la ricerca affannosa e le sciocchezze.

Astolfo, con la sua ampolla, può tornare sulla Terra per restituire ad Orlando il suo senno perduto.
Descrivendo la vanità dei desideri degli uomini che non possono essere mai raggiunti o per errore umano o
per colpa della Fortuna, Ariosto dà una descrizione dell’umanità negativa.

DALLA RIFORMA ALLA CONTRORIFORMA


LUTERO E LA RIFORMA PROTESTANTE
Con la pace di Cateau-Cambrésis, l’Italia passa in mano spagnola. Prosegue la crisi economica e la
rifeudalizzazione, il ritorno alle campagne e la corte inizia a diventare un apparato autoritario e burocratico.
In atto c’è anche la Riforma protestante. Con l'affissione delle 95 tesi di Lutero nel 1517 sulla porta della
cattedrale di Wittenberg inizia la frattura che ha diviso l’Europa cattolica da quella protestante. La Riforma
di Lutero colpì i principi che servivano per rafforzare l’accentramento del potere della Chiesa. I punti
fondamentali sono:
- non è dovuta l’obbedienza assoluta al pontefice
- per il perdono dei peccati non sono indispensabili la confessione e la penitenza
- la salvezza eterna è assicurata dalla fede
- il rapporto tra credente e Dio è diretto, non necessita la mediazione della Chiesa che interpreti le
scritture che il fedele può leggere da solo.
Lutero tradusse la Bibbia in tedesco, favorendone la lettura e la libera interpretazione di essa. Oltre a motivi
religiosi, la riforma ha anche motivi di carattere politico-sociale perché i signori volevano sottrarsi
all’egemonia dell’imperatore Carlo V e del papa. Il protestantesimo dà luogo al calvinismo di Giovanni
Calvino in Svizzera che si diffuse in buona parte d’Europa, e lo scisma della Chiesa anglicana in Inghilterra.

IL CONCILIO DI TRENTO E LA REPRESSIONE DEGLI ERETICI


La Chiesa convocò il Concilio di Trento per trovare una soluzione alla crisi religiosa, che durò 18 anni, dal
1545 al 1563. La Chiesa alla fine rafforzò i suoi poteri e riorganizzò le istituzioni, dando inizio all’età della
Riforma cattolica o Controriforma. Vennero istituiti l’Inquisizione che serviva per sopprimere le eresie,
spesso in modo violento e il tribunale del Sant’Uffizio che processava gli eretici e giudizi in materia
religiosa. Molti decisero di non esprimere la loro opinione, mentre chi lo faceva era costretto alla fuga e
all’esilio e se scoperto doveva abiurare o subire gravi condanne.

LE ISTITUZIONI CULTURALI
LA COMPAGNIA DI GESÙ E L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI
La Chiesa rafforzò la sua autorità tanto da eseguire un rigoroso controllo sulle manifestazioni della vita
sociale e del pensiero. Principale strumento fu l’Ordine dei Gesuiti fondato da sant'Ignazio di Loyola,
caratterizzato dal voto di assoluta obbedienza al pontefice. Svolgevano principalmente attività missionarie
di evangelizzazione in Europa e America e si dedicavano all’insegnamento. Fondarono infatti molti collegi
per laici e religiosi dove veniva insegnato un programma omogeneo e compatto per formare la futura
classe dirigente.
Un altro strumento fu quello della censura. Il tribunale del Sant’Uffizio pubblicò l’Indice dei Libri Proibiti,
elenco di libri che erano contrari alla morale cattolica. Vennero proibite anche opere della tradizione
letteraria come il Principe di Machiavelli e La monarchia di Dante. Altre vennero ripulite dalle parti che la
Chiesa considerava dannose.

LA CENSURA E LA DECADENZA DELLA FILOLOGIA


Il Decameron, diffusissimo a quell’epoca, non poteva essere completamente rimosso quindi iniziò una
rassettatura dell’opera da parte di un filologo fiorentino. La sua edizione presentava molte annotazioni al
margine che richiamano i lettori all’interpretazione voluta dal revisore. Inoltre cambiò anche la conclusione
di alcune novelle, rovesciando i significati originali dell’opera.

RAPPORTO TRA INTELLETTUALI E POTERE


Questo portò ad un cambiamento nel rapporto tra gli intellettuali e il potere politico-religioso. Ariosto riuscì a
mantenere una certa autonomia nei confronti del potere della corte, a differenza di Tasso che ebbe forti
ripercussioni sul piano psicologico.
Le Accademie diventano organismi burocratici e formali, l’editoria deve adeguarsi ai nuovi orientamenti
imposti dal Concilio di Trento. Viene ridotta la stampa di opere considerate spregiudicate e licenziose come
il Decameron e l’Orlando Furioso, mentre viene aumentata la stampa di opere morali. Con il tempo gli
intellettuali vengono reclutati tra i religiosi.

TASSO
VITA
Nacque a Sorrento nel 1544. Il padre era anch’esso l’autore di un poema cavalleresco. Si trasferì ad
Urbino, dove venne a contatto con l’ambiente cortigiano, poi a Venezia e Padova dove intraprese gli studi
giuridici che lascia da parte per dedicarsi alla filosofia e alla letteratura. Si trasferì poi a Ferrara, da cui
rimase molto colpito, perché assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este. Qui trascorse gli anni più felici
della sua vita. Passò poi al servizio come gentiluomo stipendiato e così poté dedicarsi alla poesia. Tasso fu
stimolato dalla scrittura di un poema epico su una delle crociate, grazie ai precedenti letterati Boiardo e
Ariosto. Quando finì l’opera, tormentato dall’inquietudine e dall’insoddisfazione si recò a Roma per
sottoporre l’opera a dei letterati. Questi fecero delle critiche moralistiche a Tasso che, condividendo ciò che
dicevano, modificò l’opera per renderla conforme alle regole. Fu assalito anche da dubbi religiosi allora la
sottopose all’Inquisizione di Ferrara da cui fu assolto. Era anche tormentato da manie di persecuzione,
tanto da un uccidere un servo perché credeva che lo spiava. Il duca allora lo rinchiuse nel convento di San
Francesco, da cui fuggì. Ritornò a Sorrento, dove si presentò alla sorella travestito annunciandole la morte
del fratello per mettere alla prova il suo amore. Successivamente rivelò alla sorella la sua identità e
trascorse dei giorni felici. Si recò poi a Ferrara e altre corti come Mantova, Urbino e Torino per poi ritornare
a Ferrara nuovamente. Non ospitato calorosamente quanto aspettava diede in escandescenze e il duca lo
fece rinchiudere nell’ospedale di Sant’Anna per 7 anni e gli fu concesso di studiare e scrivere. Dovette
subire gravi sofferenze fisiche e psichiche, manie di persecuzione (folletto che disordinava le carte) e
aveva tendenze autopunitive. Scrisse molte lettere a principi, prelati e intellettuali per difendere la sua
persona e chiedere soccorso.
Lo imprigionarono perché Alfonso in contrasto con la Chiesa, che voleva che Ferrara ritornasse nelle sue
mani alla sua morte, non voleva che ci fossero sospetti di eresia.
Nel 1580 venne pubblicata la Gerusalemme senza il consenso di Tasso mentre era a sant’Anna.
Nonostante il successo scrisse l’Apologia della “Gerusalemme liberata” con le revisioni dell’opera per
renderla più conforme ai precetti retorici e moralisti. Quando fu liberato andò a Roma e Napoli. In quel
periodo compose molte opere encomiastiche e poesie di ispirazione religiosa. Revisionò nuovamente la
sua opera che ripubblicò con il titolo di “Gerusalemme conquistata” che riscosse meno successo della
precedente. Gli venne proposto da papa Clemente VIII l’incoronazione poetica a Roma, ma si ammalò e
morì nel 1595.
Tasso incarna l’immagine del poeta cortigiano perché la sua vita si svolse nell’ambito della corte a cui è
legato materialmente e intellettualmente perché dipendeva da essa. Nel contempo crede che la sua fama
possa essere consacrata solo nella corte e dove si trova il pubblico che sa apprezzare la sua poesia. A
differenza di Ariosto che crede che l’autentica realizzazione umana avvenga nel privato, per Tasso solo
nella corte è possibile. Prova però anche una segreta avversione che si esprime nei suoi atteggiamenti.

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