LA VITA
L’ATTIVITÀ POLITICA
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza. Ebbe
un’educazione umanistica, basata sui classici latini, ma non apprese il greco, e quindi non era in grado di leggere
nell’originale gli scrittori greci di storia e politica.
Nel febbraio del 1498 concorse alla segreteria della seconda cancelleria del Comune. I suoi incarichi gli
conferivano grandi responsabilità nel campo della politica interna, estera e militare della Repubblica; la sua
posizione implica missioni diplomatiche. I quattordici anni della segreteria furono preziosi per Machiavelli,
perché gli consentirono di accumulare un'esperienza diretta della realtà politica e militare del tempo, da cui egli
poté trarre lo spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle sue opere. Tra il luglio e il dicembre
del 1500 fu in Francia presso il re Luigi XII. Nel giugno del 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, il duca
Valentino, che si era impadronito del Ducato di Urbino, e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e
spregiudicato, che aspirava a costruirsi un vasto Stato nell’Italia centrale. Nel Principe proprio la figura del duca
Valentino viene assunta come esempio della “virtù” che deve possedere un principe nuovo, che voglia costruire
una forte compagine statale, capace di opporsi alla crisi che stava travolgendo l’Italia.
LA STRUTTURA E I CONTENUTI
Il Principe è un'opera molto breve, scritta in forma concisa e incalzante. Si articola in 26 capitoli, di lunghezza
variabile, che recano dei titoli in latino. La materia è divisa in diverse sezioni.
VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la
crudeltà “bene e male usata”:
- bene: è impiegata solo per necessità, e si converte nella maggiore utilità possibile per i
sudditi;
- male usata invece è quella che cresce col tempo anziché cessare, ed è compiuta per
l’esclusivo vantaggio del tiranno.
IX il principato “civile”, in cui cioè il principe riceve il potere dai cittadini stessi;
XV- modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. Invece di esibire il catalogo delle virtù
XXIII morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla "verità effettuale della cosa” e per
questo provoca scalpore.
XXIV- esamina le cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è
XXV essenzialmente l'“ignavia" dei principi. Di qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV,
il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini
alle variazioni della fortuna, paragonata a un fiume in piena.
XXVI appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del
popolo italiano e liberare l’Italia dai “barbari”.
VIRTÙ E FORTUNA
Si delineano così due concezioni della “virtù”: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei
momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabilite istituzioni dello Stato.
Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza
dell’uomo, che era stata patrimonio della civiltà comunale, ed era stata poi ereditata dalla civiltà umanistica. Ma,
proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti,
e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante
della fortuna. È il frutto di una concezione laica e immanentistica che mette tra parentesi la presenza nel mondo
della provvidenza, intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente ad un fine, e porta in primo piano il
combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente. Vi sono per
Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi alla fortuna. In primo luogo essa può costituire l’
“occasione” del suo agire; l’occasione è quell’evento che mette in luce la virtù del singolo. La “virtù” del singolo e
l’”occasione” si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova
l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico “virtuoso” non sa
approfittarne. In secondo luogo la “virtù” umana si impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il
calcolo accorto. Nei momenti quieti l’abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari,
come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Si fronteggiano così, due forze gigantesche, la
fortuna incostante volubile, e la virtù umana, che è in grado di contrastarla. La “virtù” di cui parla Machiavelli è
quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico,
ricavate sia dall’esperienza diretta sia dalla “lezione” della storia passata; in secondo luogo la capacità di
applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari;
infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato; la virtù del politico è quindi
una sintesi di doti intellettuali e pratiche.
Ma vi è ancora un terzo modo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna: il “ riscontrarsi” con i tempi, cioè
la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano. E qui
compare una nota pessimistica: questa duttilità è una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli
uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze, perché difficilmente sanno adattarsi
a ricorrere a moduli diversi.
LA LINGUA E LO STILE
È uno stile profondamente diverso da quello rinascimentale. La scelta deriva dallo stretto rapporto che l’opera
vuole avere con la prassi, con la realtà politica effettuale: per incidere sul reale occorre una prosa agile, chiara, di
immediata presa, che si imponga solo grazie alla forza delle cose che deve dire. Lo stile si fa secco, coinciso,
lapidario. È un periodare comunque sempre ricco di energia, nervoso, incalzante, incisivo. Talora, può anche
divenire rotto, spezzato da anacoluti e irregolarità sintattiche. È un lessico libero e vario, dove si mescolano
latinismi tecnici del linguaggio delle cancellerie, arditi latinismi letterari desunti dai classici, ma anche parole
comuni e quotidiane, o addirittura termini plebei. Una funzione essenziale hanno poi le metafore, le immagini e i
paragoni.
DI QUELLE COSE PER LE QUALI GLI UOMINI, E SPECIALMENTE I PRINCIPI, SONO LODATI O
VITUPERATI
dal Principe, cap. XV
Il passo apre la parte del trattato dedicata alla descrizione dei comportamenti che il principe deve tener
nell'azione concreta di governo: il capitolo è quasi una sorta di proemio e l'autore dichiara in modo
programmatico di voler trattare la "verità effettuale" delle cose e non di andar dietro alla "imaginazione di essa",
poiché il suo fine è scrivere cose che siano utili ai lettori. Anche se Machiavelli non cita alcun autore, è implicito
un riferimento sia alla trattatistica antica (il Platone delle Leggi e della Repubblica, che lui forse conosceva in
modo indiretto, o il Cicerone del De re publica) sia a quella medievale dei Regimina principum, o anche alla
stessa Monarchia di Dante. Machiavelli parte dalla considerazione che gli uomini non sono tutti buoni, quindi per
il sovrano è impossibile comportarsi bene in qualunque circostanza, dal che emerge la concezione
profondamente pessimistica della natura umana che si riflette anche in altre opere dell'autore e che verrà ripresa.
Machiavelli elenca le diverse qualità che possono essere attribuite a un sovrano attraverso una serie di coppie di
aggettivi di opposto significato (generoso-rapace, traditore-fedele, leale-astuto, ecc.) e specifica che sarebbe bello
se il principe potesse dimostrare solo le qualità considerate "buone", ma poiché ciò è impossibile, data la natura
malvagia degli esseri umani, egli dovrà essere capace di usare l'una o l'altra a seconda delle circostanze, quindi
dovrà essere bugiardo, traditore, violento quando ciò sarà indispensabile per mantenere intatto lo Stato. L'autore
non vuole esortare il principe a comportarsi in maniera malvagia né scrivere un manuale per tiranni, ma solo
affermare che il fine principale del sovrano è il mantenimento dello Stato, quindi qualunque comportamento atto
a sortire questo fine deve essere tollerato e non respinto in virtù di ragioni puramente etiche o religiose.
LA MANDRAGOLA
Il testo letterario più importante di Machiavelli è però una commedia, la Mandragola, che è un autentico
capolavoro. Fu scritta presumibilmente nel 1518; risale quindi al periodo in cui Machiavelli era forzatamente
escluso dall’attività politica e riflette lo stato d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata nel
settembre del medesimo anno per le nozze di Lorenzo de’ Medici e pubblicata nello stesso 1518.
L'intreccio, che si svolge a Firenze in anni contemporanei, ricalca gli schemi propri del teatro comico del tempo:
una vicenda d'amore contrastato, che si risolve felicemente grazie all'intervento di uno scaltro parassita e la
vicenda di uno sciocco beffato, che risale alla novellistica toscana, in particolare a Boccaccio.
La comicità di Machiavelli non è serena e distesa, ma cupa, amara, quasi sinistra. La commedia rappresenta un
mondo senza luce, dove domina solo la legge dell’interesse economico, dell’astuzia e dell’inganno, ed in cui ogni
principio morale, ogni sentimento nobile e disinteressato appare assente. Anche qui l’impostazione del testo è
quindi fortemente problematica: da un lato, dipingendo i suoi personaggi, Machiavelli scaglia i suoi corrosivi
umori satirici e polemici contro la corruzione e l’amoralità della società contemporanea, dall’altro lato però, con
disincantato realismo, ammira la “virtù” di quei personaggi che, come Ligurio, con astuzia e energica decisione,
sanno commisurare perfettamente le azioni ai fini.
LA MANDRAGOLA: LA STORIA
La vicenda si apre con Callimaco, un gentiluomo fiorentino di trent’anni che da tempo vive a Parigi, il quale,
ritornando a Firenze, si innamora perdutamente di Lucrezia, moglie dello sciocco dottore in legge denominato
Messer Nicia. L’uomo decide di incontrare la donna e rimane completamente folgorato dalla sua bellezza. Così,
per avvicinarla e pur di trascorrere almeno una notte con lei, l’uomo escogita un piano e, con l’aiuto del servo Siro
e dell’astuto amico Ligurio, si spaccia per un famoso medico che la può aiutare a rimanere incinta. L’uomo riesce
a convincere Messer Nicia che l’unico modo per avere figli sia di somministrare a sua moglie una pozione di
mandragola, un’erba dalle capacità magiche (da qui nasce il titolo della commedia). L’unico problema è che il
primo che avrà rapporti con lei sarà destinato a morire.
Ligurio, a quel punto, trova una geniale soluzione: a morire e a consumare il rapporto con la moglie sarà un
semplice garzone, cosa che tranquillizza in modo parziale Messer Nicia, inizialmente non del tutto convinto. A
quel punto, Ligurio pensa all’amico Callimaco, che da sempre ha un debole per Lucrezia. Infatti non vi sarà nessun
garzone come vittima predestinata, bensì sarà lo stesso Callimaco a travestirsi da tale. La scena più divertente e
più significativa è quella in cui il garzone-Callimaco viene portato a casa di Nicia e viene invitato ad andare a
letto insieme alla moglie Lucrezia. Dapprima la donna è titubante, ma in un secondo momento si convince a
consumare il rapporto adulterino da Fra Timoteo e dall’intervento rassicurante della madre Sostrata.
Lucrezia decide così di concedersi al garzone, vedendo il fatto come un dono piovuto dal cielo. La situazione
precipita ulteriormente quando Lucrezia, venendo a conoscenza della verità e scoprendo la vera identità del
garzone che in realtà è Callimaco, decide di diventare addirittura la sua amante poiché rimane soddisfatta dalle
attenzioni del giovane. La messa in scena si ripete. Il giorno dopo Callimaco continua la recita, riassumendo le
sembianze del medico, ottenendo perfino dall’inconsapevole marito Nicia, ormai contento della sua futura
paternità, il permesso di vivere perfino nella sua dimora facendolo tornare a proprio piacimento. Callimaco, così,
tutte le volte che vuole può godere delle grazie di Lucrezia e ingannare il povero ma sciocco Nicia.
Il finale è lieto per tutti. Fra Timoteo riceve il suo lauto compenso, Messer Nicia è contento della paternità della
moglie, Lucrezia si ritrova ad avere un’amante focoso, Callimaco soddisfa i suoi desideri con la donna che più
desidera al mondo e l’amico Ligurio gode per aver avuto un’idea geniale e per aver attuato la beffa
ai danni di Nicia. Perfino la madre di Lucrezia, Sostrata, è contenta dell’arrivo di un nipote; non importa se si sia
perpetrato un inganno, tutti sono contenti di aver raggiunto i propri obiettivi, seppur a scapito della verità. Tutti i
personaggi hanno violato le regole morali, sono al tempo stesso vittime e carnefici, ma ora
tutti sono soddisfatti. L’opera si conclude con tutti i personaggi che si radunano in chiesa per celebrare il lieto
evento.
IL BAROCCO IN LETTERATURA
Gli effetti ricercati dall'arte barocca si osservano anche, trasferiti nella specificità degli strumenti propri della
scrittura, in alcune delle esperienze letterarie secentesche, a partire dalla ricerca dello stupore e dell'effetto
sorpresa. La ricerca di questi effetti, come fine principale a cui tende la letteratura, è condotta a partire dalle
possibilità combinatorie del linguaggio, chiamato a sperimentare soluzioni sempre nuove e, in certo senso,
sconvolgenti. Di qui, ad esempio, l'uso frequente della metafora. Ad aumentare l'efficacia concorrono altre figure
retoriche, quali i procedimenti cumulativi e amplificativi, le antitesi, le iperboli. Il caposcuola di questa esperienza
è stato Giovan Battista Marino noto soprattutto come autore di un lungo poema, l'Adone, ma anche di rime e di
altri componimenti, tutti caratterizzati da una ricerca di artifici verbali spinta sino al virtuosismo; attorno a lui
gravitò un folto stuolo di seguaci e imitatori, i cosiddetti "marinisti", che hanno rappresentato il fulcro del
dominante gusto "barocco".
Da un lato il Barocco reagiva a quelli che erano divenuti ormai gli stereotipi della letteratura rinascimentale (si
pensi alla pedissequa imitazione di Petrarca portata avanti per tutto il Cinquecento dai tanti canzonieri dei
"petrarchisti"); dall'altro la mutevole variazione dei punti di vista offriva della realtà un'immagine più articolata e
complessa, corrispondente a nuove forme e bisogni di conoscenza, a cui non erano estranee certe suggestioni di
quella ricerca scientifica portata avanti, sia pure in forme e modi completamente diversi, da Galileo. Il Barocco, in
questo senso, corrispondeva a una nuova visione delle cose, legata a una crisi delle certezze tradizionali e a una
perdita di stabili punti di riferimento. Più in generale si avvertiva il desiderio di rompere i ponti con la tradizione,
rifiutando quel principio dell'imitazione che era stato alla base delle poetiche del classicismo rinascimentale.
Non è un caso, allora, che nel Seicento nasca la cosiddetta "questione degli antichi e dei moderni".
LA METAFORA
Per Tesauro la metafora non è semplicemente la figura retorica più importante, di tutte, ma diventa lo strumento
essenziale per una nuova forma di conoscenza; un modo di conoscere che, collegando fra di loro «le remote e
separate nozioni» delle cose, può rivelare aspetti del reale prima sconosciuti. In questo senso la metafora diventa
fonte di «maraviglia», capace di scoprire ciò che unisce realtà anche molto diverse fra di loro, rivelando
corrispondenze e analogie impensate. La metafora scende nella profondità dei concetti e delle cose, rivelandone
anche significati nascosti.
LA LIRICA IN ITALIA
L’indiscusso capofila della lirica barocca è Giovan Battista Marino, autore dell’Adone. Il carattere innovativo
consiste nell’impiego di un linguaggio metaforico, ricco di concetti e di immagini iperboliche. La ricerca della
“meraviglia”, teorizzata da Marino e ottenuta attraverso l’uso di un linguaggio metaforico volto a produrre effetti
variamente coniugati di stupore e di sorpresa. Oltre alla metafora compare un uso di altre figure retoriche, come
le antitesi, gli ossimori, le iperboli e i giochi di parole. A essere rifiutato era il petrarchismo cinquecentesco,
monolinguistico. I poeti barocchi celebrano la figura femminile in una gamma d’aspetti incomparabilmente più
ampia e complessa. Oggetto di attenzione non è più solo la nobile donna bionda e avvenente ma anche quella
bruna o rossa, vecchia o brutta, appartenente ai gruppi sociali umili, celebrata nelle situazioni quotidiane e
spesso ritratta proprio con i suoi difetti fisici: nei canzonieri barocchi non mancano donne calve e sdentate, zoppe,
nane, piene di pidocchi.
I poeti barocchi si cimentano con il genere galante, ma, allargano l'interesse ad eventi quotidiani ritenuti sino ad
allora decisamente impoetici, come terremoti, inondazioni e siccità, inoltre, celebrano oggetti della più dimessa
realtà quotidiana (come pietre, piume, pettini, specchi, occhiali, pulci). Oggetto sempre presente nei canzonieri
barocchi è l'orologio: esemplare dell'interesse per il meccanismo dei congegni tecnici è il sonetto Orologio da
rote di Ciro di Pers.
È un sonetto in cui l’immagine dei “capelli” della donna amata subisce una variazione, coinvolgendo il sonetto in
un gioco metaforico ricco di risonanze: i capelli paragonati alle “onde” del mare, “dorate” nel gioco della
trasposizione delle luci e dei colori, il pettine, che diventa una “navicella d'avorio”, sapientemente pilotata dalla
mano femminile ”d'avorio”; il vagare (gli “errori”) nei “flutti”, solcati e divisi dalla scriminatura del pettine. A metà
della seconda quartina, la metafora marina è presente la tematica amorosa: Amore che trasforma i capelli in
catene, nelle quali l'amante resta imprigionato, Amore travolto quasi da quel mare “procelloso” che lo conduce
alla “morte”. In un senso fortemente metaforico, è il consueto tema amore e morte che si risolve in un “naufragio”
che placa la “tempesta” negli elementi, in chiasmo, dell'ultimo verso. L'univoca continuità della sequenza
metaforica esalta la concatenazione delle immagini.
OROLOGIO DA ROTE - CIRO DI PERS
È un sonetto e tutto il componimento prende avvio dall'immagine iniziale dell'orologio e delle sue ruote
dentellate che sembrano quasi le fauci di un mostro, che stracciano il giorno, scandendo il tempo dell'uomo,
frammentandolo in piccoli brandelli.
L'immagine è tipicamente barocca, per quel gusto dell'esagerato, del voler creare stupore e meraviglia nel lettore.
L'orologio è qui visto come un congegno malvagio, che misura il (poco) tempo che all'uomo è concesso di vivere.
E' uno strumento che, già solo per come è fatto, con le sue ruote e i suoi numeri scritti sul quadrante, definiti
“fosche note” dall’autore, e il suono cupo e grave, ricorda continuamente all'uomo la fugacità della sua vita e lo
accompagna verso la tomba che da sempre lo aspetta.
Tutta la lirica è costruita fonicamente in analogia col suono cadenzato dell'orologio volendo sottolineare il
procedere dell'uomo verso il suo ultimo destino, la morte.
GALILEO GALILEI
Galileo Galilei occupa un posto di fondamentale importanza. In particolare il perfezionamento del cannocchiale,
gli permise di scoprire quattro nuovi pianeti e di osservare le macchie lunari, consentendogli di dimostrare che la
superficie della luna non era liscia e levigata. Dall'osservazione diretta del cielo mediante il cannocchiale sarebbe
derivata la conferma dell'ipotesi avanzata di Niccolò Copernico (1473-1543), secondo cui era la Terra a girare
intorno al Sole. Il passaggio al sistema eliocentrico introduce una nuova visione del mondo.
Il sistema tolemaico, sostenuto dall'autorità di Aristotele, costituiva un caposaldo ufficiale della dottrina della
Chiesa, che si oppose decisamente alle conclusioni a cui era giunto Galileo. Lo scienziato poneva delle questioni
di metodo decisive per gli sviluppi di quella che Francesco De Sanctis, nella «nuova scienza». Galileo affidava la
conoscenza della "verità" alla sperimentazione e alla dimostrazione matematica, da lui ritenute la più alta
espressione della filosofia. Così veniva a rifiutare - con l'ipse dixit- ogni forma di dogmatismo e di imposizione
autoritaria rivendicando la libertà della ricerca e la responsabilità dello scienziato. Sottoposto a processo, fu
indotto, ormai vecchio, ad abiurare. continuando gli studi e tenendosi in contatto con i suoi discepoli, che ne
raccoglieranno l'insegnamento dando vita, nel 1657, all'Accademia del Cimento.
Il Sidereus nuncius (1610) è un trattato scientifico scritto in latino e indirizzato essenzialmente ai dotti del tempo,
per comunicare i risultati delle ricerche condotte con il cannocchiale. L'opera è notevole perché si può
considerare la prima descrizione di un paesaggio condotta "dal vero", al di fuori cioè dei luoghi comuni abituali. Il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632), rivela l'impeccabile formazione
umanistica e l'abilità dello scrittore. Il trattato dialogico era la più alta conquista della civiltà rinascimentale; nel
riprendere questa forma, Galileo intendeva rivolgersi non solo agli specialisti ma al pubblico più colto, in grado di
accettare e promuovere le sue idee. L'opera rivela l'abilità argomentativa del pacato polemista, che si affida
all'ironia e alle prove delle sue dimostrazioni per difendere le proprie tesi e confutare quelle dell'avversario.
LA VITA
Nacque a Pisa nel 1564 da Vincenzo, musicista, e da Giulia degli Ammannati. Ebbe una raffinata educazione
artistica e letteraria. A Pisa iniziò gli studi di medicina, che abbandonò per dedicarsi a quelli della matematica e
della fisica. Lo studio sulla gravità dei solidi, gli procurarono la cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa.
L’importanza delle sue scoperte gli valse la chiamata presso l’Università di Padova, dove rimase per diciotto anni,
che rappresenta il periodo più felice e operoso della sua vita.
Sulla base di notizie che gli erano giunte dall’Olanda, perfezionò la fabbricazione del cannocchiale, che, puntato
verso il cielo, gli permise di compiere fondamentali scoperte. L’anno dopo pubblica il Sidereus Nuncius, un
trattato, scritto in latino, in cui comunicava ai dotti e agli scienziati del tempo i risultati di queste scoperte, che
recavano una implicita conferma alla validità della teoria eliocentrica. Il Sidereus rischiava di mettere
ufficialmente in discussione questa teoria, che coincideva con le posizioni sostenute dalla Chiesa. Inizialmente
questa non oppose sostanziali obiezioni e un primo incontro con la curia romana si concluse favorevolmente.
La grande notorietà ottenuta grazie al Sidereus gli valse l’offerta, da parte di Cosimo II de’Medici, degli incarichi di
‘matematico straordinario dello Studio di Pisa’, senza obbligo di lezioni, e di ‘filosofo del serenissimo granduca’.
Ma l’influenza dell’Inquisizione in Toscana era forte e aumentarono i sospetti nei suoi confronti. Per difendere le
proprie posizioni, Galileo scrisse fra il 1613 e il 1615 quattro lettere, le cosiddette “lettere copernicane”, in cui si
pronunciava chiaramente sui rapporti fra la scienza e la fede. Queste lettere provocarono l’intervento del
Sant’Uffizio (collegio di prelati e cardinali che difendevano l’integrità della Fede, esaminando gli orari e le false
dottrine), che nel 1616 condannava come eretiche le tesi copernicane e diffidava Galileo dal farne professione.
Il Saggiatore (1623): le comete non erano apparenze dovute ai raggi solari, bensì corpi celesti.
Dal 1624 al 1630, alla composizione del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e
copernicano”. Dopo pochi mesi, il libro venne sequestrato e fu intimato a Galileo di recarsi a Roma, dove
fuincarcerato e minacciato di tortura. Il processo che ne seguì si chiuse con l’abiura del vecchio scienziato e la sua
condanna al carcere perpetuo, che venne commutata in una specie di confino nella villa di Arcetri. Qui trascorse
gli ultimi anni della sua vita.
IL SIDEREUS NUNCIUS
Il Sidereus nuncius è il trattato scientifico in cui Galileo comunicava al mondo gli straordinari risultati, delle
scoperte ottenute scrutando il cielo con il suo cannocchiale: la Via lattea, le macchie lunari, i quattro satelliti di
Giove, chiamati in onore della casa regnante in Toscana "pianeti medicei, l’anello di Saturno e le fasi di Venere, le
macchie solari e il moto rotatorio del Sole. L’opera divise la comunità scientifica e religiosa tra gli ammiratori e i
detrattori preoccupati del fatto che alcune osservazioni potessero mettere in crisi il sistema aristotelico e
tolemaico, sostenuto dalla Chiesa: i corpi celesti non apparivano più perfetti e incorruttibili, mentre la scoperta
del moto orbitale dei satelliti di Giove forniva una prova ulteriore a favore del sistema copernicano, che possono
esistere nel cosmo altri centri gravitazionali.
La scelta del latino riservava l'opera soprattutto ai dotti e agli scienziati, ma non per questo minore era
l'attenzione per una scrittura capace di assecondare i movimenti delle argomentazioni. Le parole seguono
l'andamento delle descrizioni, rese vive da un'abilità analitica rappresentativa che sa rendere con precisione
tradotte visivamente dai disegni inseriti a corredo del testo. Galileo non esita a ricorrere a dei confronti con
fenomeni simili visibili sulla terra. Traspare l'entusiasmo per aver potuto osservare cose mai viste prima, quella
meraviglia che può essere avvicinata a quella della poetica barocca; una meraviglia (la conoscenza della natura)
che nasce dalla conoscenza delle cose e non da una ricerca delle parole.
LA FORMA E LO STILE
L’ideale letterario di Galileo è rinascimentale. La scelta del dialogo riflette questa sensibilità e meglio si presta a
far risaltare le sue doti di scrittore, la lucida perspicuità dell'argomentazione, il giudizio tagliente, l'ironia. Nel
Dialogo e nel Saggiatore assume anche il punto di vista dell’avversario per confutarlo dall’interno. Il dialogo
infatti è forma intrinsecamente dialettica, e alla divergenza delle opinioni, Galileo affida l’efficacia persuasiva
delle tesi da dimostrare. Si avvale dell’abile uso dei paragoni e delle corrispondenze, con sciolti ed efficaci indugi
di tipo novellistico o aneddotico.
A tutto questo vanno aggiunte la chiarezza e la precisione del linguaggio, a cui contribuirono sia la raffinata
educazione letteraria sia l'occhio dello scienziato, che sa cogliere l'esattezza dell'espressione, conservando al
tempo stesso quella "leggerezza" della parola tanto cara a Italo Calvino.
Leopardi riserva, nell’antologia dei migliori passi in prosa degli scrittori italiani, lo spazio maggiore a Galileo, a cui
veniva riconosciuto il merito, così raro nella nostra tradizione letteraria, di una scrittura non solo stilisticamente
raffinata ma anche ricca di pensiero.