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NICCOLÒ MACHIAVELLI

LA VITA

L’ATTIVITÀ POLITICA
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza. Ebbe
un’educazione umanistica, basata sui classici latini, ma non apprese il greco, e quindi non era in grado di leggere
nell’originale gli scrittori greci di storia e politica.
Nel febbraio del 1498 concorse alla segreteria della seconda cancelleria del Comune. I suoi incarichi gli
conferivano grandi responsabilità nel campo della politica interna, estera e militare della Repubblica; la sua
posizione implica missioni diplomatiche. I quattordici anni della segreteria furono preziosi per Machiavelli,
perché gli consentirono di accumulare un'esperienza diretta della realtà politica e militare del tempo, da cui egli
poté trarre lo spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle sue opere. Tra il luglio e il dicembre
del 1500 fu in Francia presso il re Luigi XII. Nel giugno del 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, il duca
Valentino, che si era impadronito del Ducato di Urbino, e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e
spregiudicato, che aspirava a costruirsi un vasto Stato nell’Italia centrale. Nel Principe proprio la figura del duca
Valentino viene assunta come esempio della “virtù” che deve possedere un principe nuovo, che voglia costruire
una forte compagine statale, capace di opporsi alla crisi che stava travolgendo l’Italia.

LA RIFLESSIONE POLITICA E LE MISSIONI DIPLOMATICHE


Nel Principe e nell’Arte della guerra sostenne le sue teorie, sulla necessità di evitare le infide milizie mercenarie e
di creare un esercito permanente, alle dirette dipendenze dello Stato, composto di cittadini in armi. Machiavelli si
adoperò per convincere i maggiorenti della città a creare questa milizia comunale e si recò nelle campagne per
arruolare i soldati. Tra il 1507 e il 1508 compì una lunga missione in Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano
d’Asburgo.
La Repubblica cadde, i Medici tornarono a Firenze e Machiavelli venne licenziato da tutti i suoi incarichi.

L'ESCLUSIONE DALLA VITA POLITICA


L’esclusione dalla vita politica, fu per lui un colpo durissimo. A ciò si aggiunse il fatto che fu sospettato d'aver
preso parte ad una congiura antimedicea, torturato e tenuto in prigione per quindici giorni. Liberato, si ritirò, in
una sorta di esilio forzato, nel suo podere dell’Albergaccio, presso San Casciano, dove si dedicò agli studi. In
questo periodo scrisse il Principe (1513) e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e la Mandragola (1518). La
lontananza dalla vita politica attiva era però da lui intollerabile, quindi cercò un riavvicinamento ai Medici. Con
questo intento il Principe fu dedicato nel 1516 a Lorenzo de’ Medici.
Nel 1519, morto Lorenzo, il governo della città fu assunto dal cardinale Giulio de’ Medici, più favorevole a
Machiavelli. Il cardinale gli procurò l’incarico di stendere una storia di Firenze, con adeguato compenso.
Machiavelli offrì, le Istorie fiorentine. Revocata l’interdizione dagli uffici pubblici, cominciò poco a poco a
riottenere vari incarichi, di carattere militare e diplomatico. Nel 1527 i Medici vennero di nuovo scacciati e si
ristabilì la Repubblica: Machiavelli sperava di riottenere l'antica segreteria, ma venne guardato con sospetto e
ostilità per il suo riavvicinamento alla Signoria medicea. La delusione fu amara.
Ammalatosi all’improvviso, morì il 21 giugno del 1527.
IL PRINCIPE E I DISCORSI
IL PRINCIPE

LA GENESI E LA COMPOSIZIONE DELL’OPERA


Il 10 dicembre 1513, dall’ “esilio” dell’Albergaccio, Machiavelli annunciava all’amico Vettori di aver composto un
“opuscolo De Principatibus”.
T 1. “che cosa è principato
E 2. di quale spetie sono
M 3. come e’ si acquistono
I 4. come e’ si mantengono
5. perché e’ si perdono"
L’indicazione fissa il momento in cui l’opera può dirsi compiuta, ma non fa capire in quale periodo sia stata
composta, se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse. L’opuscolo non fu dato alle stampe e circolò in una
cerchia abbastanza ristretta; fu pubblicato postumo solo nel 1532, a Firenze e a Roma, suscitando
immediatamente molto scalpore.

IL GENERE E I PRECEDENTI DELL’OPERA


Questi trattati mirano a fornire un’immagine ideale ed esemplare del regnante, consigliandogli di praticare tutte
le più lodevoli virtù, Machiavelli proclama di voler guardare alla "verità effettuale della cosa” e non all’ideale,
quindi non propone al principe le virtù morali, ma quei mezzi che possono consentirgli effettivamente la
conquista e il mantenimento dello Stato, e, con coraggiosa spregiudicatezza, arriva a consigliargli di essere anche
non buono, crudele, mentitore, dissimulatore, quando le esigenze dello Stato lo impongono.

LA STRUTTURA E I CONTENUTI
Il Principe è un'opera molto breve, scritta in forma concisa e incalzante. Si articola in 26 capitoli, di lunghezza
variabile, che recano dei titoli in latino. La materia è divisa in diverse sezioni.

VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la
crudeltà “bene e male usata”:
- bene: è impiegata solo per necessità, e si converte nella maggiore utilità possibile per i
sudditi;
- male usata invece è quella che cresce col tempo anziché cessare, ed è compiuta per
l’esclusivo vantaggio del tiranno.

IX il principato “civile”, in cui cioè il principe riceve il potere dai cittadini stessi;

X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati;

XI principati ecclesiastici, in cui il potere è detenuto dall'autorità religiosa.


XII-XIV problema delle milizie; Machiavelli giudica negativamente l'uso degli eserciti mercenari, perché essi,
combattendo solo per denaro, sono infidi e pertanto sono una delle cause principali della debolezza
degli Stati italiani; per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie.

XV- modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. Invece di esibire il catalogo delle virtù
XXIII morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla "verità effettuale della cosa” e per
questo provoca scalpore.

XXIV- esamina le cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è
XXV essenzialmente l'“ignavia" dei principi. Di qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV,
il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini
alle variazioni della fortuna, paragonata a un fiume in piena.

XXVI appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del
popolo italiano e liberare l’Italia dai “barbari”.

I DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO

IL RAPPORTO TRA DISCORSI E PRINCIPE E L’IDEOLOGIA POLITICA DELL’AUTORE


Se nel Principe Machiavelli affronta la forma di governo monarchica e assoluta, nei Discorsi lascia trasparire
chiaramente forti simpatie repubblicane ed indica la repubblica come la forma più alta e preferibile di
organizzazione dello Stato.
L’orientamento di fondo di Machiavelli è certamente repubblicano; ma il Principe è scritto sotto l’urgenza
immediata di una situazione gravissima, a cui era indispensabile porre rimedio, la catastrofica crisi italiana (HIC
ET NUNC- qui e ora) che minacciava l'integrità e la stessa indipendenza degli stati Italiani: allo scrittore
sembrava necessaria la costruzione di uno Stato abbastanza forte da opporsi all’espansione delle grandi potenze
europee. Machiavelli riteneva che nel momento della creazione di uno Stato nuovo fosse indispensabile la
virtù politica di un singolo, mentre restava convinto che la repubblica fosse la forma di governo che garantiva
maggiore stabilità e durata alle istituzioni.

IL PENSIERO POLITICO NEL PRINCIPE E I DISCORSI

TEORIA E PRASSI (= Linea di comportamento nell'ambito di una consuetudine amministrativa,


giudiziaria, professionale)
Il suo pensiero è dunque una stretta fusione di teoria e prassi nella quale vi è una crisi politica, in quanto l’Italia
non presenta quei solidi organismi statali unitari; una crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie
mercenarie e compagnie di ventura; ma anche una crisi morale, perché sono scomparsi tutti quei valori che danno
fondamento saldo ad un vivere civile. Per il nostro l’unica via d’uscita da queste crisi è un PRINCIPE giusto capace
di organizzare le energie che sussistono ancora tra le genti italiane. Naturalmente il pensiero di Machiavelli non si
limita solo a questo, ma la sua teoria aspira ad avere una portata universale, a basarsi su leggi valide sempre.
Elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e luoghi.

LA POLITICA COME SCIENZA AUTONOMA


Machiavelli è stato indicato come il fondatore della moderna scienza politica. Egli delimita il campo di tale
scienza, distinguendolo da quello delle altre discipline che si occupano egualmente dall’agire dell’uomo, come la
morale. La teoria politica nel Medioevo, ed ancora nell’età umanistica, era subordinata alla
morale, nel senso che il giudizio dell’operato di un politico era soggetto al criterio del bene o del male.
Machiavelli rivendica invece vigorosamente l’autonomia del campo dell’azione politica: essa possiede delle
proprie leggi specifiche, e l’agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi: occorre cioè,
valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e
mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro criterio, non è pertinente alla valutazione politica
del suo operato. È una teoria di sconvolgente novità.
IL METODO
Machiavelli delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell’aderenza alla “verità
effettuale”. Machiavelli, proprio perché vuole agire sulla realtà, ne deve tenere conto, quindi per ogni costruzione
teorica parte sempre dall’indagine sulla realtà concreta.
L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi:
- diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende;
- indiretta, ricavata dalla lettura degli autori antichi.
Machiavelli nella dedica del Principe, le definisce rispettivamente “esperienze delle cose moderne” e “lezione
delle antique”. Si tratta di due forme uguali, cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell’informazione
su cui lavorare, ma il contenuto è lo stesso.

LA CONCEZIONE NATURALISTICA DELL’UOMO E IL PRINCIPIO DI IMITAZIONE


Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi è una concezione tipicamente naturalistica: Machiavelli è
convinto che l’uomo sia un fenomeno di natura al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non varino nel
tempo. Per questo ha fiducia nel fatto che si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità
universale, applicabili infallibilmente ad ogni situazione. Per questo, la sua trattazione è sempre costellata di
esempi tratti dalla storica antica: essi sono la prova che il comportamento umano non varia. Per lui gli uomini
“camminano sempre per vie battute da altri”, perciò propone il principio tipicamente rinascimentale
dell’imitazione.
Auspica quindi che gli uomini di oggi guardino a quei grandi esempi, li prendano a modello e si sforzino di
riprodurli. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell’agire
politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente, e quindi sappia suggerire
le sicure linee di condotta alla statista.

IL GIUDIZIO PESSIMISTICO SULLA NATURA UMANA


Punto di partenza per la formulazione di tali leggi è una visione crudamente pessimistica dell’uomo come essere
morale. Gli uomini per Machiavelli sono malvagi: egli non ne teorizza filosoficamente le cause, si limita a
constatarne empiricamente gli effetti nella realtà.
In un passo famoso del Principe afferma che dimenticano più facilmente l’uccisione del padre che la perdita del
patrimonio, cioè che la molla che li spinge è l’interesse materiale ed egoistico, non i valori, i sentimenti
disinteressati e nobili. L’uomo politico deve agire su questo terreno, non su un terreno ideale, per cui deve
commisurare ad esso le sue azioni. Le leggi della convivenza umana sono dure e spietate, perciò il principe non
può seguire sempre l’ideale e la virtù: deve sapere anche essere “non buono”, dove lo richiedano le esigenze dello
Stato: per questo Machiavelli propone per il politico l’immagine del centauro, che è appunto mezzo uomo e
mezza bestia.

L’AUTONOMIA DELLA POLITICA DALLA MORALE


Egli sa bene che certi comportamenti del principe, sono atti riprovevoli, ripugnanti moralmente. Ma ha il coraggio
di andare sino in fondo nella sua distinzione del giudizio politico da quello morale: questi comportamenti, che
sono malvagi secondo la morale, sono buoni, cioè efficaci e produttivi, in politica, perché assicurano il bene dello
Stato, e con esso anche il bene dei cittadini. Machiavelli non è quindi il fondatore di una nuova morale: individua
un ordine di giudizi autonomi, che si regolano su altri criteri, l’utile o il danno politico. Machiavelli non “giustifica”,
constata solo che certi comportamenti sono indispensabili per conquistare e mantenere lo Stato. Non solo, ma
Machiavelli distingue tra “principi” e “tiranni”: principe è chi opera a vantaggio dello Stato, e, se usa metodi
riprovevoli, lo fa per il bene pubblico; tiranno è chi è crudele senza necessità, e solo a suo vantaggio.

LO STATO E IL BENE COMUNE


Solo lo Stato può costituire un rimedio alla malvagità dell’uomo. Questa moltitudine rissosa e violenta può essere
ordinata in repubblica, cioè in una comunità in cui il fine delle azioni è la “cosa pubblica”, il bene comune. La
durezza e la violenza del principe devono sempre avere per fine questo bene comune, cioè la salvaguardia della
convenienza civile dalle spinte bestiali alla disgregazione e alla violenza. Per mantenere lo Stato sono
indispensabili certe virtù civili. Ma per radicare tali virtù, in uomini generalmente non buoni, sono necessarie
precise istituzioni: la religione, le leggi e le milizie. A Machiavelli non interessa la religione nella sua dimensione
concettuale, ma solo come “strumento di governo” (instrumentum regni). La religione obbliga i cittadini a
rispettarsi gli uni con gli altri. In un capitolo famoso dei Discorsi rimprovera invece alla religione cristiana di avere
un’influenza negativa, inducendo gli uomini alla mitezza e alla rassegnazione, a svalutare le cose del mondo per
guardare solo al cielo.
In secondo luogo, in ogni Stato ben ordinato sono le buone leggi il fondamento del vivere civile, perché
disciplinano il comportamento dei cittadini. Infine le milizie sono il fondamento della forza dello Stato. Esse
devono essere composte di cittadini.
La forma di governo che meglio riassume in sé questa idea di Stato ordinato e sicuro, che argina e disciplina le
forze anarchiche dell’uomo, è quella repubblicana. Il principato è per Machiavelli una forma d’eccezione e
transitoria, indispensabile solo in determinate contingenze. Ma lo stato creato dalla “virtù” eccezionale del
singolo, per mantenersi, deve darsi “buoni ordini”, istituzioni che durino nel tempo; e la forma repubblicana è
quella che meglio può garantire la continuità.

VIRTÙ E FORTUNA
Si delineano così due concezioni della “virtù”: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei
momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabilite istituzioni dello Stato.
Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza
dell’uomo, che era stata patrimonio della civiltà comunale, ed era stata poi ereditata dalla civiltà umanistica. Ma,
proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti,
e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante
della fortuna. È il frutto di una concezione laica e immanentistica che mette tra parentesi la presenza nel mondo
della provvidenza, intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente ad un fine, e porta in primo piano il
combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente. Vi sono per
Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi alla fortuna. In primo luogo essa può costituire l’
“occasione” del suo agire; l’occasione è quell’evento che mette in luce la virtù del singolo. La “virtù” del singolo e
l’”occasione” si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova
l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico “virtuoso” non sa
approfittarne. In secondo luogo la “virtù” umana si impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il
calcolo accorto. Nei momenti quieti l’abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari,
come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Si fronteggiano così, due forze gigantesche, la
fortuna incostante volubile, e la virtù umana, che è in grado di contrastarla. La “virtù” di cui parla Machiavelli è
quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico,
ricavate sia dall’esperienza diretta sia dalla “lezione” della storia passata; in secondo luogo la capacità di
applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari;
infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato; la virtù del politico è quindi
una sintesi di doti intellettuali e pratiche.
Ma vi è ancora un terzo modo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna: il “ riscontrarsi” con i tempi, cioè
la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano. E qui
compare una nota pessimistica: questa duttilità è una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli
uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze, perché difficilmente sanno adattarsi
a ricorrere a moduli diversi.

REALISMO “SCIENTIFICO” E UTOPIA PROFETICA


Le idee politiche di Machiavelli si organizzano in un sistema logico e coerente, che possiede i caratteri di un vero
e proprio sistema scientifico. Ma si è anche notato come l’origine prima di questo sistema non sia un’asettica
riflessione teorica, bensì l’urgere di interessi pratici immediati.

LA LINGUA E LO STILE
È uno stile profondamente diverso da quello rinascimentale. La scelta deriva dallo stretto rapporto che l’opera
vuole avere con la prassi, con la realtà politica effettuale: per incidere sul reale occorre una prosa agile, chiara, di
immediata presa, che si imponga solo grazie alla forza delle cose che deve dire. Lo stile si fa secco, coinciso,
lapidario. È un periodare comunque sempre ricco di energia, nervoso, incalzante, incisivo. Talora, può anche
divenire rotto, spezzato da anacoluti e irregolarità sintattiche. È un lessico libero e vario, dove si mescolano
latinismi tecnici del linguaggio delle cancellerie, arditi latinismi letterari desunti dai classici, ma anche parole
comuni e quotidiane, o addirittura termini plebei. Una funzione essenziale hanno poi le metafore, le immagini e i
paragoni.

L’”ESPERIENZA DELLE COSE MODERNE” E LA “LEZIONE DELLE ANTIQUE”


dal Principe, Dedica
La lettera fu scritta con ogni probabilità nel 1516, dopo la morte di Giuliano de' Medici (cui Machiavelli pensava
inizialmente di dedicare il Principe, secondo quanto dichiarato nella lettera al Vettori) ed è indirizzata
all'esponente più autorevole della Signoria di Firenze: il testo risponde anzitutto a un intento encomiastico,
proprio come la composizione del trattato col quale l'autore sperava di accreditarsi presso i Medici e ottenere un
nuovo incarico pubblico, dopo il bando cui era stato costretto nel 1513. Machiavelli presenta il Principe come un
dono al signore di Firenze e si scusa dell'apparente modestia della sua offerta, giustificandosi col dire che la sua
esperienza delle cose politiche, accumulata sia con la lettura di libri antichi sia con il servizio alla Repubblica, ha
per lui un valore inestimabile e rappresenta quanto di più prezioso possa donare a Lorenzo. La lettera
rappresenta una continuazione ideale di quella a F. Vettori del 10 dicembre 1513.
Il Principe viene concepito da Machiavelli come il sunto di tutta la sua esperienza politica e dovrà essere una
sorta di "manuale" in cui egli fornisce al sovrano regole e consigli sul modo di mantenere il proprio Stato, per cui
la scelta linguistica ricade sul volgare fiorentino del Cinquecento e lo stile è chiaro e immediato, lontano dalla
"canonizzazione" che Bembo e altri letterati del secolo stavano imponendo alle opere letterarie più colte.
Machiavelli giustifica l'apparente immodestia di rivolgersi, lui borghese e non nobile, a signori come i Medici di
Firenze e idealmente a tutti i sovrani d'Italia per dare precetti sull'arte di governo, dal momento che è necessario
essere "populare" per conoscere la natura dei principi e, viceversa, occorre essere al potere per conoscere la
natura dei popoli, proprio come i geometri si pongono in basso per descrivere le montagne e sulle vette per
delineare i territori pianeggianti.

QUANTI SIANO I GENERI DI PRINCIPATI E IN CHE MODO SI ACQUISTANO


dal Principe, cap. I
Il capitolo, nella sua estrema brevità, vuol essere una sorta di sintetico "proemio" del trattato, con una rapida
enunciazione del tema dell'opera: Machiavelli opera subito una distinzione tra repubbliche e principati.
Nel testo Machiavelli dimostra il procedimento "dilemmatico" del suo ragionamento, che tende a individuare due
opposte alternative che poi vengono prese in esame: dopo la prima distinzione tra repubbliche e principati, questi
ultimi vengono divisi tra ereditari e nuovi, e quelli nuovi possono esserlo in tutto o in parte, a seconda che siano
stati creati dal nulla o aggiunti al dominio di un sovrano già al potere. I principati di nuova acquisizione possono
poi essere già avvezzi al dominio di un monarca, oppure essere abituati alla libertà, inoltre possono essere
conquistati con armi proprie o altrui, con virtù o fortuna. Particolare interesse suscita in Machiavelli proprio la
natura dei principati nuovi, in cui "consistono le difficultà" in quanto il nuovo principe, che abbia creato lo Stato
dal nulla come Francesco Sforza o lo abbia aggiunto ai suoi propri domini, deve comunque vincere la diffidenza
dei nuovi sudditi, introdurre nuove leggi e istituzioni politiche, prevenire ulteriori ribellioni che potrebbero
scalzarlo dalla sua posizione.

I PRINCIPATI NUOVI CHE SI ACQUISTANO CON ARMI PROPRIE E CON LA VIRTÙ

dal Principe, cap. VI


In questo cap. VI gli esempi presentati sono alcuni "grandissimi" personaggi del passato, come Mosè (liberò gli
Ebrei dalla schiavitù e li guidò alla terra promessa, dando loro le leggi), Ciro II il Grande (fu il fondatore della
monarchia persiana), Romolo (secondo la tradizione fu il primo re di Roma), Teseo (fu il mitico re di Atene), scelta
motivata dall'autore con la necessità di indicare dei modelli quasi inarrivabili per chi deve necessariamente
pensare in grande, come l'arciere che per colpire il bersaglio mira più in alto sapendo che la freccia poi scenderà
nella sua parabola verso il basso. La scelta degli esempi rivela una certa approssimazione da parte dell'autore,
che mescola personaggi tratti dal mito e dalla storia, tuttavia i modelli sono accomunati dal fatto di essere stati
grandi condottieri e di aver riscattato il loro popolo dalla schiavitù di popoli stranieri.

I PRINCIPATI NUOVI CHE SI ACQUISTANO CON LE ARMI ALTRUI E CON LA FORTUNA


dal Principe, cap. VII
Il cap. VII forma una sorta di "dittico" con il precedente, il VI, in cui l'autore aveva proposto alcuni "grandissimi
esempli" di condottieri del passato giunti al potere con armi proprie e virtù, mentre in questo passo l'autore
mostra due esempi di potenti, entrambi tratti dalla storia a lui contemporanea, a conferma ancora una volta del
suo approccio empirico alla riflessione politica: Francesco Sforza e Cesare Borgia, saliti al potere il primo per virtù
propria e il secondo per fortuna. Machiavelli sottolinea nuovamente come sia più complicato riuscire a
mantenere un potere ereditato, ottenuto quindi grazie all’azione di un altro, rispetto a una posizione conquistata
grazie all’applicazione della propria virtù e del proprio impegno. L’autore si concentra dunque su questo secondo
caso, e indica in Cesare Borgia il modello per quei principi che hanno ottenuto il loro potere per fortuna e non per
virtù.

DI QUELLE COSE PER LE QUALI GLI UOMINI, E SPECIALMENTE I PRINCIPI, SONO LODATI O
VITUPERATI
dal Principe, cap. XV
Il passo apre la parte del trattato dedicata alla descrizione dei comportamenti che il principe deve tener
nell'azione concreta di governo: il capitolo è quasi una sorta di proemio e l'autore dichiara in modo
programmatico di voler trattare la "verità effettuale" delle cose e non di andar dietro alla "imaginazione di essa",
poiché il suo fine è scrivere cose che siano utili ai lettori. Anche se Machiavelli non cita alcun autore, è implicito
un riferimento sia alla trattatistica antica (il Platone delle Leggi e della Repubblica, che lui forse conosceva in
modo indiretto, o il Cicerone del De re publica) sia a quella medievale dei Regimina principum, o anche alla
stessa Monarchia di Dante. Machiavelli parte dalla considerazione che gli uomini non sono tutti buoni, quindi per
il sovrano è impossibile comportarsi bene in qualunque circostanza, dal che emerge la concezione
profondamente pessimistica della natura umana che si riflette anche in altre opere dell'autore e che verrà ripresa.
Machiavelli elenca le diverse qualità che possono essere attribuite a un sovrano attraverso una serie di coppie di
aggettivi di opposto significato (generoso-rapace, traditore-fedele, leale-astuto, ecc.) e specifica che sarebbe bello
se il principe potesse dimostrare solo le qualità considerate "buone", ma poiché ciò è impossibile, data la natura
malvagia degli esseri umani, egli dovrà essere capace di usare l'una o l'altra a seconda delle circostanze, quindi
dovrà essere bugiardo, traditore, violento quando ciò sarà indispensabile per mantenere intatto lo Stato. L'autore
non vuole esortare il principe a comportarsi in maniera malvagia né scrivere un manuale per tiranni, ma solo
affermare che il fine principale del sovrano è il mantenimento dello Stato, quindi qualunque comportamento atto
a sortire questo fine deve essere tollerato e non respinto in virtù di ragioni puramente etiche o religiose.

QUANTO POSSA LA FORTUNA NELLE COSE UMANE E IN CHE MODO OCCORRA


RESISTERLE
dal Principe, cap. XXV
Il capitolo è strettamente legato al precedente, in cui Machiavelli ha affermato che i principi italiani hanno perso i
loro Stati in seguito alle guerre di inizio XVI sec. a causa della loro "ignavia" e non già per l'azione della "fortuna",
specie per la loro incapacità militare e l'eccessiva fiducia nelle soldatesche mercenarie: in questo passo l'autore
dichiara che la fortuna, definita quale capriccio del caso e non certo come espressione del giudizio divino,
influisce su metà delle azioni umane ed è quindi possibile opporsi ad essa con la "virtù", specie prevedendo i
possibili rovesci della malasorte e, soprattutto, prendendo precauzioni per tempo, cosa che i sovrani degli Stati
non hanno fatto al tempo della discesa di Carlo VIII di Francia.
L'autore paragona l'azione della fortuna a un fiume in piena, che quando esonda devasta le coltivazioni
circostanti, ma la cui azione distruttiva può essere mitigata con la costruzione di argini e canali.
Machiavelli esprime una visione moderna e pienamente "umanistica" della fortuna, descritta appunto come
espressione della pura casualità, e mostra la sua distanza dalla cultura medievale che la considerava intelligenza
angelica, "ministra" del volere divino, quindi come qualcosa cui l'uomo non poteva assolutamente opporsi.
La principale "virtù" che il principe saggio deve usare contro l'azione della fortuna è il sapersi adattare alle
diverse circostanze, mutando la propria linea di condotta a seconda di ciò che la situazione richiede: Machiavelli
riconosce che questa capacità è molto rara.
Nel finale del capitolo Machiavelli afferma che, per un uomo politico o un condottiero è meglio agire in modo
impulsivo che troppo cauto e ciò perché la fortuna "è donna" e per dominarla è necessario "batterla e urtarla",
mentre in quanto donna sarebbe più portata ad apprezzare gli uomini giovani che con più audacia la comandano:
emerge in queste parole un lato misogino del pensiero di Machiavelli, che è evidente anche nella Novella di
Belfagor arcidiavolo e nella Mandragola.
ESORTAZIONE A PIGLIARE L’ITALIA E A LIBERARLA DALLE MANI DEI BARBARI
dal Principe, cap. XXVI
Composto probabilmente nel 1516 come la lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici, il capitolo conclusivo del
trattato è una appassionata e retorica esortazione ai signori di Firenze perché si mettano alla testa di un moto di
riscossa nazionale e guidino una sorta di ribellione armata contro gli eserciti stranieri che percorrono l'Italia e ne
causano, la decadenza politica e militare. Il testo ha un tono vibrante e privo del carattere analitico dei passi
precedenti, con un largo uso di immagini bibliche e religiose (a cominciare dal paragone tra la situazione italiana
e quella dei popoli ebraico, persiano e ateniese che trovarono in Mosè, Ciro e Teseo i loro condottieri e salvatori)
e assumendo a tratti un tono profetico, che individua appunto nella "casa" medicea la famiglia in grado di guidare
gli italiani contro gli stranieri visti come "barbari" e responsabili delle "piaghe" che affliggono il Paese, bisognoso
di cure come un malato in fase avanzata.
L'egemonia degli Stati stranieri in Italia agli inizi del Cinquecento viene definita un "barbaro dominio" che "puzza"
a tutti gli abitanti della Penisola, con un implicito paragone tra l'Italia "schiava" del XVI sec. e quella del periodo
romano che imponeva la sua supremazia su tutto il mondo.

L’ARTE DELLA GUERRA 1519-1520


Nell’Arte della guerra Machiavelli riprende i temi militari che gli stanno a cuore, che erano già presenti nei
capitoli XII-XIV del Principe, e l’importanza di milizie proprie.

LE ISTORIE FIORENTINE 1519


Il primo libro traccia una sintesi della storia d’Italia dalla caduta dell’Impero romano sino al 1434; i libri II-III
narrano la storia di Firenze sino allo stesso 1434, l’anno in cui Cosimo de’ Medici instaura in città la propria
signoria; i libri IV-VIII si concentrano sulla storia di Firenze e dell’Italia dal 1434 alla morte di Lorenzo il Magnifico
nel 1492.

LA MANDRAGOLA
Il testo letterario più importante di Machiavelli è però una commedia, la Mandragola, che è un autentico
capolavoro. Fu scritta presumibilmente nel 1518; risale quindi al periodo in cui Machiavelli era forzatamente
escluso dall’attività politica e riflette lo stato d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata nel
settembre del medesimo anno per le nozze di Lorenzo de’ Medici e pubblicata nello stesso 1518.
L'intreccio, che si svolge a Firenze in anni contemporanei, ricalca gli schemi propri del teatro comico del tempo:
una vicenda d'amore contrastato, che si risolve felicemente grazie all'intervento di uno scaltro parassita e la
vicenda di uno sciocco beffato, che risale alla novellistica toscana, in particolare a Boccaccio.
La comicità di Machiavelli non è serena e distesa, ma cupa, amara, quasi sinistra. La commedia rappresenta un
mondo senza luce, dove domina solo la legge dell’interesse economico, dell’astuzia e dell’inganno, ed in cui ogni
principio morale, ogni sentimento nobile e disinteressato appare assente. Anche qui l’impostazione del testo è
quindi fortemente problematica: da un lato, dipingendo i suoi personaggi, Machiavelli scaglia i suoi corrosivi
umori satirici e polemici contro la corruzione e l’amoralità della società contemporanea, dall’altro lato però, con
disincantato realismo, ammira la “virtù” di quei personaggi che, come Ligurio, con astuzia e energica decisione,
sanno commisurare perfettamente le azioni ai fini.

LA MANDRAGOLA: LA STORIA
La vicenda si apre con Callimaco, un gentiluomo fiorentino di trent’anni che da tempo vive a Parigi, il quale,
ritornando a Firenze, si innamora perdutamente di Lucrezia, moglie dello sciocco dottore in legge denominato
Messer Nicia. L’uomo decide di incontrare la donna e rimane completamente folgorato dalla sua bellezza. Così,
per avvicinarla e pur di trascorrere almeno una notte con lei, l’uomo escogita un piano e, con l’aiuto del servo Siro
e dell’astuto amico Ligurio, si spaccia per un famoso medico che la può aiutare a rimanere incinta. L’uomo riesce
a convincere Messer Nicia che l’unico modo per avere figli sia di somministrare a sua moglie una pozione di
mandragola, un’erba dalle capacità magiche (da qui nasce il titolo della commedia). L’unico problema è che il
primo che avrà rapporti con lei sarà destinato a morire.
Ligurio, a quel punto, trova una geniale soluzione: a morire e a consumare il rapporto con la moglie sarà un
semplice garzone, cosa che tranquillizza in modo parziale Messer Nicia, inizialmente non del tutto convinto. A
quel punto, Ligurio pensa all’amico Callimaco, che da sempre ha un debole per Lucrezia. Infatti non vi sarà nessun
garzone come vittima predestinata, bensì sarà lo stesso Callimaco a travestirsi da tale. La scena più divertente e
più significativa è quella in cui il garzone-Callimaco viene portato a casa di Nicia e viene invitato ad andare a
letto insieme alla moglie Lucrezia. Dapprima la donna è titubante, ma in un secondo momento si convince a
consumare il rapporto adulterino da Fra Timoteo e dall’intervento rassicurante della madre Sostrata.
Lucrezia decide così di concedersi al garzone, vedendo il fatto come un dono piovuto dal cielo. La situazione
precipita ulteriormente quando Lucrezia, venendo a conoscenza della verità e scoprendo la vera identità del
garzone che in realtà è Callimaco, decide di diventare addirittura la sua amante poiché rimane soddisfatta dalle
attenzioni del giovane. La messa in scena si ripete. Il giorno dopo Callimaco continua la recita, riassumendo le
sembianze del medico, ottenendo perfino dall’inconsapevole marito Nicia, ormai contento della sua futura
paternità, il permesso di vivere perfino nella sua dimora facendolo tornare a proprio piacimento. Callimaco, così,
tutte le volte che vuole può godere delle grazie di Lucrezia e ingannare il povero ma sciocco Nicia.
Il finale è lieto per tutti. Fra Timoteo riceve il suo lauto compenso, Messer Nicia è contento della paternità della
moglie, Lucrezia si ritrova ad avere un’amante focoso, Callimaco soddisfa i suoi desideri con la donna che più
desidera al mondo e l’amico Ligurio gode per aver avuto un’idea geniale e per aver attuato la beffa
ai danni di Nicia. Perfino la madre di Lucrezia, Sostrata, è contenta dell’arrivo di un nipote; non importa se si sia
perpetrato un inganno, tutti sono contenti di aver raggiunto i propri obiettivi, seppur a scapito della verità. Tutti i
personaggi hanno violato le regole morali, sono al tempo stesso vittime e carnefici, ma ora
tutti sono soddisfatti. L’opera si conclude con tutti i personaggi che si radunano in chiesa per celebrare il lieto
evento.

“PER TUTTO TRALIGNA DA L’ANTICA VIRTÙ EL SECOL PRESENTE”


Il Prologo della Mandragola è essenziale per capire l’intento programmatico del Machiavelli nella stesura di
quest’opera teatrale. Qui infatti il narratore, il Machiavelli stesso, si rivolge direttamente e in prima persona ai
“benigni uditori”, con particolare attenzione alle spettatrici di sesso femminile. Riprendendo quindi un
atteggiamento tipico della tradizione del teatro antico e della commedia latina (da cui il Machiavelli attinge
costantemente), l’autore cerca di creare un contatto diretto col pubblico. Inizia così illustrando e spiegando la
scenografia agli uditori, funzione che nella commedia latina era svolta dall’attore del prologo.
L’apparato è la scenografia: Machiavelli esplicita al pubblico lo spazio in cui si svolgerà lo spettacolo: ci troviamo
a Firenze, la loro città. L’autore continua indicando gli spazi interni in cui prenderanno forma le scene, la casa di
messer Nicia, quella di Callimaco e il luogo dove Fra' Timoteo svolge la sua attività di confessore, la chiesa:
presenta così una porta che si trova alla sua destra, e cioè l’uscio della casa del dottore di legge, uno dei
protagonisti principali della Mandragola, messer Nicia. L’autore introduce poi l’argomento amoroso, tema
preminente nell’opera, e continua ad anticipare al pubblico i protagonisti delle vicende che si stanno per
compiere sul palco. Incontriamo così “un giovane, Callimaco Guadagno, venuto or da Parigi [...]”, protagonista
della commedia e definito dal Machiavelli un “buon compagno” (ma solo ad una prima impressione). Viene poi
citata Lucrezia, e l’inganno erotico cui verrà sottoposta.

GLI INTELLETTUALI E L’ORGANIZZAZIONE DELLA CULTURA

I LUOGHI DELLA CULTURA


La corte del Seicento finisce sempre più per identificarsi con l'apparato burocratico statale, e il "cortigiano" si
trasforma gradualmente nel "segretario" del principe. Il letterato sviluppa, perciò, competenze da giurista,
diplomatico, militare e amministratore; il compito di creare e diffondere un'immagine positiva del principe viene
sempre più spesso affidato al pittore o all'architetto. Solo un' esigua minoranza di letterati può ambire, dunque, a
una sistemazione stabile e prestigiosa nell'ambito delle corti. Conseguenza di questa situazione è l'aspirazione
degli uomini di lettere a svincolarsi dalla protezione di un principe particolare, ma questa via risulta praticabile
soltanto da pochissimi, come nel caso di Giovan Battista Marino sorretti da una solida rinomanza internazionale.
In concreto, acquista sempre maggior peso la produzione encomiastica. L'attività missionaria, che prevedeva la
difesa e la diffusione delle fede sia nei paesi europei sia in quelli oltreoceano di recente scoperti; sul piano del
sociale, l'organizzazione dell'insegnamento, con la creazione di scuole, dove si formavano i quadri delle future
classi dirigenti. Tra le attività praticate ci fu anche l'allestimento di spettacoli teatrali aperti al pubblico, il
cosiddetto "teatro dei gesuiti".
LE ACCADEMIE
- della Crusca (Firenze): 1585 con l’intento di difendere la tradizione letteraria della lingua italiana.

IL BAROCCO NELLE ARTI


Con il termine Barocco si indica una tendenza della ricerca espressiva, artistica in senso lato e letteraria in
particolare, che ha caratterizzato il gusto dominante del secolo. L'origine del nome è incerta: secondo l'opinione
più accreditata, deriverebbe dal portoghese barroco, che indica un particolare tipo di perla, dalla forma ondulata
e irregolare (il termine è ancora in uso), passato in Francia (baroque) con il significato di "stravagante" "Bizzarro"
(si è pensato anche a un sillogismo, tipo di ragionamento particolarmente contorto). il barocco si segnala per la
perdita dell’equilibrio e della misura ritenuta e le caratteristiche distintive dell’arte rinascimentale. prevalgono,
nelle arti figurative, le linee curve e sinuose. Sono caratteristiche che si trovano, esaltate, soprattutto
nell’architettura, dove il rifiuto della linea degli angoli retti altera le proporzioni regolari realizzate dall’arte
ispirata al classicismo. Ne deriva l'ambiguità di una visione del mondo in cui le stesse certezze appaiono
accompagnate da profonde inquietudini, dalla precarietà dei segni di una crisi che, dietro le immagini sfarzose,
lascia talora trapelare un senso incombente della morte. Questo immaginario si estende a tutti gli aspetti della
realtà, concepita come il «gran teatro del mondo». Assume così importanza, nell'arte, l'elemento della finzione, su
cui si basa un'esperienza fondamentale come quella della festa, in quanto manifestazione artistica in cui le corti
ostentano la loro magnificenza e lo splendore, anche attraverso l'interagire dei diversi linguaggi espressivi:
dall'immagine alla parola e alla musica. In tutti questi casi si tratta di stupire lo spettatore.

IL BAROCCO IN LETTERATURA
Gli effetti ricercati dall'arte barocca si osservano anche, trasferiti nella specificità degli strumenti propri della
scrittura, in alcune delle esperienze letterarie secentesche, a partire dalla ricerca dello stupore e dell'effetto
sorpresa. La ricerca di questi effetti, come fine principale a cui tende la letteratura, è condotta a partire dalle
possibilità combinatorie del linguaggio, chiamato a sperimentare soluzioni sempre nuove e, in certo senso,
sconvolgenti. Di qui, ad esempio, l'uso frequente della metafora. Ad aumentare l'efficacia concorrono altre figure
retoriche, quali i procedimenti cumulativi e amplificativi, le antitesi, le iperboli. Il caposcuola di questa esperienza
è stato Giovan Battista Marino noto soprattutto come autore di un lungo poema, l'Adone, ma anche di rime e di
altri componimenti, tutti caratterizzati da una ricerca di artifici verbali spinta sino al virtuosismo; attorno a lui
gravitò un folto stuolo di seguaci e imitatori, i cosiddetti "marinisti", che hanno rappresentato il fulcro del
dominante gusto "barocco".
Da un lato il Barocco reagiva a quelli che erano divenuti ormai gli stereotipi della letteratura rinascimentale (si
pensi alla pedissequa imitazione di Petrarca portata avanti per tutto il Cinquecento dai tanti canzonieri dei
"petrarchisti"); dall'altro la mutevole variazione dei punti di vista offriva della realtà un'immagine più articolata e
complessa, corrispondente a nuove forme e bisogni di conoscenza, a cui non erano estranee certe suggestioni di
quella ricerca scientifica portata avanti, sia pure in forme e modi completamente diversi, da Galileo. Il Barocco, in
questo senso, corrispondeva a una nuova visione delle cose, legata a una crisi delle certezze tradizionali e a una
perdita di stabili punti di riferimento. Più in generale si avvertiva il desiderio di rompere i ponti con la tradizione,
rifiutando quel principio dell'imitazione che era stato alla base delle poetiche del classicismo rinascimentale.
Non è un caso, allora, che nel Seicento nasca la cosiddetta "questione degli antichi e dei moderni".

LA METAFORA
Per Tesauro la metafora non è semplicemente la figura retorica più importante, di tutte, ma diventa lo strumento
essenziale per una nuova forma di conoscenza; un modo di conoscere che, collegando fra di loro «le remote e
separate nozioni» delle cose, può rivelare aspetti del reale prima sconosciuti. In questo senso la metafora diventa
fonte di «maraviglia», capace di scoprire ciò che unisce realtà anche molto diverse fra di loro, rivelando
corrispondenze e analogie impensate. La metafora scende nella profondità dei concetti e delle cose, rivelandone
anche significati nascosti.

IL DIBATTITO SULLA LINGUA NEL SECONDO CINQUECENTO


Nel secondo cinquecento il dibattito sulla lingua prosegue sulle linee fondamentali già tracciate nella prima
parte del secolo: esse sono rappresentate dalla tesi di Bembo (1525: prose della volgar lingua).
IL DIBATTITO DEL SEICENTO
Nel seicento si afferma una corrente politica, che cioè vuole stabilire un canone di lingua pura sulla base della
tradizione fiorentina trecentesca.tale corrente fa capo all’Accademia della crusca nato a Firenze nel 1585.nel
vocabolario erano registrati tutti i termini dell’uso fiorentino trecentesco. Il dibattito seicentesco si concentra
soprattutto sulla polemica tra cruscanti e anticruscanti.

GALILEO E LA PROSA SCIENTIFICA


Galileo Galilei è scrittore di raro valore ed efficacia. Con lui Francesco De Sanctis vedeva inaugurarsi l'epoca della
«nuova scienza». La ricerca dell'effetto-sorpresa, per Galileo, non è nelle parole ma nelle cose, nei sorprendenti
risultati delle scoperte, nei procedimenti rigorosamente logici delle dimostrazioni.

LA NASCITA DEL MELODRAMMA


In Italia, nel Seicento, nasce e si sviluppa il melodramma, inizialmente noto come "opera in musica" e oggi
comunemente definito "opera lirica". Si tratta di un genere del tutto nuovo, che congiunge tragedia e commedia
(per lo sviluppo dell'intreccio drammatico), pittura (per le scenografie), danza, musica e poesia (per le parti
liriche). L’idea degli intellettuali della Camerata era quella di far rivivere lo stile drammatico degli antichi greci,
dove i personaggi sulla scena non dovevano solo recitare, ma recitavano cantando. Recitar cantando viene
appunto chiamato questo stile di canto. È la ricerca di un linguaggio capace di esprimere gli affetti, ovvero le più
profonde passioni dell'animo. I testi drammatici, di conseguenza, devono essere di forte pathos.
Il maggior compositore: Claudio Monteverdi (autore dell’Orfeo, 1607)

LA LIRICA IN ITALIA
L’indiscusso capofila della lirica barocca è Giovan Battista Marino, autore dell’Adone. Il carattere innovativo
consiste nell’impiego di un linguaggio metaforico, ricco di concetti e di immagini iperboliche. La ricerca della
“meraviglia”, teorizzata da Marino e ottenuta attraverso l’uso di un linguaggio metaforico volto a produrre effetti
variamente coniugati di stupore e di sorpresa. Oltre alla metafora compare un uso di altre figure retoriche, come
le antitesi, gli ossimori, le iperboli e i giochi di parole. A essere rifiutato era il petrarchismo cinquecentesco,
monolinguistico. I poeti barocchi celebrano la figura femminile in una gamma d’aspetti incomparabilmente più
ampia e complessa. Oggetto di attenzione non è più solo la nobile donna bionda e avvenente ma anche quella
bruna o rossa, vecchia o brutta, appartenente ai gruppi sociali umili, celebrata nelle situazioni quotidiane e
spesso ritratta proprio con i suoi difetti fisici: nei canzonieri barocchi non mancano donne calve e sdentate, zoppe,
nane, piene di pidocchi.
I poeti barocchi si cimentano con il genere galante, ma, allargano l'interesse ad eventi quotidiani ritenuti sino ad
allora decisamente impoetici, come terremoti, inondazioni e siccità, inoltre, celebrano oggetti della più dimessa
realtà quotidiana (come pietre, piume, pettini, specchi, occhiali, pulci). Oggetto sempre presente nei canzonieri
barocchi è l'orologio: esemplare dell'interesse per il meccanismo dei congegni tecnici è il sonetto Orologio da
rote di Ciro di Pers.

DONNA CHE SI PETTINA

È un sonetto in cui l’immagine dei “capelli” della donna amata subisce una variazione, coinvolgendo il sonetto in
un gioco metaforico ricco di risonanze: i capelli paragonati alle “onde” del mare, “dorate” nel gioco della
trasposizione delle luci e dei colori, il pettine, che diventa una “navicella d'avorio”, sapientemente pilotata dalla
mano femminile ”d'avorio”; il vagare (gli “errori”) nei “flutti”, solcati e divisi dalla scriminatura del pettine. A metà
della seconda quartina, la metafora marina è presente la tematica amorosa: Amore che trasforma i capelli in
catene, nelle quali l'amante resta imprigionato, Amore travolto quasi da quel mare “procelloso” che lo conduce
alla “morte”. In un senso fortemente metaforico, è il consueto tema amore e morte che si risolve in un “naufragio”
che placa la “tempesta” negli elementi, in chiasmo, dell'ultimo verso. L'univoca continuità della sequenza
metaforica esalta la concatenazione delle immagini.
OROLOGIO DA ROTE - CIRO DI PERS
È un sonetto e tutto il componimento prende avvio dall'immagine iniziale dell'orologio e delle sue ruote
dentellate che sembrano quasi le fauci di un mostro, che stracciano il giorno, scandendo il tempo dell'uomo,
frammentandolo in piccoli brandelli.
L'immagine è tipicamente barocca, per quel gusto dell'esagerato, del voler creare stupore e meraviglia nel lettore.
L'orologio è qui visto come un congegno malvagio, che misura il (poco) tempo che all'uomo è concesso di vivere.
E' uno strumento che, già solo per come è fatto, con le sue ruote e i suoi numeri scritti sul quadrante, definiti
“fosche note” dall’autore, e il suono cupo e grave, ricorda continuamente all'uomo la fugacità della sua vita e lo
accompagna verso la tomba che da sempre lo aspetta.
Tutta la lirica è costruita fonicamente in analogia col suono cadenzato dell'orologio volendo sottolineare il
procedere dell'uomo verso il suo ultimo destino, la morte.

GALILEO GALILEI
Galileo Galilei occupa un posto di fondamentale importanza. In particolare il perfezionamento del cannocchiale,
gli permise di scoprire quattro nuovi pianeti e di osservare le macchie lunari, consentendogli di dimostrare che la
superficie della luna non era liscia e levigata. Dall'osservazione diretta del cielo mediante il cannocchiale sarebbe
derivata la conferma dell'ipotesi avanzata di Niccolò Copernico (1473-1543), secondo cui era la Terra a girare
intorno al Sole. Il passaggio al sistema eliocentrico introduce una nuova visione del mondo.

Il sistema tolemaico, sostenuto dall'autorità di Aristotele, costituiva un caposaldo ufficiale della dottrina della
Chiesa, che si oppose decisamente alle conclusioni a cui era giunto Galileo. Lo scienziato poneva delle questioni
di metodo decisive per gli sviluppi di quella che Francesco De Sanctis, nella «nuova scienza». Galileo affidava la
conoscenza della "verità" alla sperimentazione e alla dimostrazione matematica, da lui ritenute la più alta
espressione della filosofia. Così veniva a rifiutare - con l'ipse dixit- ogni forma di dogmatismo e di imposizione
autoritaria rivendicando la libertà della ricerca e la responsabilità dello scienziato. Sottoposto a processo, fu
indotto, ormai vecchio, ad abiurare. continuando gli studi e tenendosi in contatto con i suoi discepoli, che ne
raccoglieranno l'insegnamento dando vita, nel 1657, all'Accademia del Cimento.

Il Sidereus nuncius (1610) è un trattato scientifico scritto in latino e indirizzato essenzialmente ai dotti del tempo,
per comunicare i risultati delle ricerche condotte con il cannocchiale. L'opera è notevole perché si può
considerare la prima descrizione di un paesaggio condotta "dal vero", al di fuori cioè dei luoghi comuni abituali. Il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632), rivela l'impeccabile formazione
umanistica e l'abilità dello scrittore. Il trattato dialogico era la più alta conquista della civiltà rinascimentale; nel
riprendere questa forma, Galileo intendeva rivolgersi non solo agli specialisti ma al pubblico più colto, in grado di
accettare e promuovere le sue idee. L'opera rivela l'abilità argomentativa del pacato polemista, che si affida
all'ironia e alle prove delle sue dimostrazioni per difendere le proprie tesi e confutare quelle dell'avversario.

LA VITA
Nacque a Pisa nel 1564 da Vincenzo, musicista, e da Giulia degli Ammannati. Ebbe una raffinata educazione
artistica e letteraria. A Pisa iniziò gli studi di medicina, che abbandonò per dedicarsi a quelli della matematica e
della fisica. Lo studio sulla gravità dei solidi, gli procurarono la cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa.
L’importanza delle sue scoperte gli valse la chiamata presso l’Università di Padova, dove rimase per diciotto anni,
che rappresenta il periodo più felice e operoso della sua vita.
Sulla base di notizie che gli erano giunte dall’Olanda, perfezionò la fabbricazione del cannocchiale, che, puntato
verso il cielo, gli permise di compiere fondamentali scoperte. L’anno dopo pubblica il Sidereus Nuncius, un
trattato, scritto in latino, in cui comunicava ai dotti e agli scienziati del tempo i risultati di queste scoperte, che
recavano una implicita conferma alla validità della teoria eliocentrica. Il Sidereus rischiava di mettere
ufficialmente in discussione questa teoria, che coincideva con le posizioni sostenute dalla Chiesa. Inizialmente
questa non oppose sostanziali obiezioni e un primo incontro con la curia romana si concluse favorevolmente.
La grande notorietà ottenuta grazie al Sidereus gli valse l’offerta, da parte di Cosimo II de’Medici, degli incarichi di
‘matematico straordinario dello Studio di Pisa’, senza obbligo di lezioni, e di ‘filosofo del serenissimo granduca’.
Ma l’influenza dell’Inquisizione in Toscana era forte e aumentarono i sospetti nei suoi confronti. Per difendere le
proprie posizioni, Galileo scrisse fra il 1613 e il 1615 quattro lettere, le cosiddette “lettere copernicane”, in cui si
pronunciava chiaramente sui rapporti fra la scienza e la fede. Queste lettere provocarono l’intervento del
Sant’Uffizio (collegio di prelati e cardinali che difendevano l’integrità della Fede, esaminando gli orari e le false
dottrine), che nel 1616 condannava come eretiche le tesi copernicane e diffidava Galileo dal farne professione.
Il Saggiatore (1623): le comete non erano apparenze dovute ai raggi solari, bensì corpi celesti.
Dal 1624 al 1630, alla composizione del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e
copernicano”. Dopo pochi mesi, il libro venne sequestrato e fu intimato a Galileo di recarsi a Roma, dove
fuincarcerato e minacciato di tortura. Il processo che ne seguì si chiuse con l’abiura del vecchio scienziato e la sua
condanna al carcere perpetuo, che venne commutata in una specie di confino nella villa di Arcetri. Qui trascorse
gli ultimi anni della sua vita.

L’ELABORAZIONE DEL PENSIERO SCIENTIFICO E IL METODO GALILEIANO


I risultati conseguiti dalla civiltà umanistico-rinascimentale e le successive esigenze di un aggiornamento. La
ricerca galileiana non solo rende operante il controllo dell'uomo sulla natura, ma infligge il colpo di grazia al
principio di autorità aristotelico, secondo cui quanto affermato da Aristotele aveva valore di verità e non poteva
essere messo in discussione.
È il cosiddetto ipse dixit ("l'ha detto lui", e quindi non può essere messo in discussione) che, accettato dalla Chiesa,
comportava anche una sudditanza del presente rispetto al passato. Galileo sembra risolvere in maniera definitiva
la questione degli antichi e dei moderni, gettando le fondamenta della nuova ricerca scientifica. Della sua portata
rivoluzionaria è ben consapevole, fino al punto di farla coincidere con il valore. La filosofia, come visione del
mondo, viene rivalutata tutta la componente sperimentale della ricerca, che appare come lo strumento di verifica
essenziale per il conseguimento della verità; una verità non più rivelata o identificata con quanto asseriva
Aristotele, ma comprovata dall'esperimento. La matematica, in questo senso, assume il valore di un metodo
totale; Galileo giunge così a posizioni di una sorprendente modernità.
È la scoperta di un nuovo linguaggio, in altri termini, capace di guidare l'uomo all'interno di quel «laberinto» che,
dell'universo barocco, è uno dei simboli più pertinenti, ma da cui Galileo intende uscire, esplorandone i recessi
segreti con la guida della ragione.

IL RAPPORTO CON LA CHIESA


Galileo non mette in discussione la verità della fede. L'essenza stessa della cultura e i privilegi che le erano
connessi. Si trattava, in primo luogo, di salvaguardare l'autonomia della ricerca scientifica, sottraendola alle
ingerenze del potere ecclesiastico, rappresentato soprattutto dal potente Ordine dei gesuiti, e alle accuse di
eresia, secondo un impegno che ha sorretto l'intero arco dell'opera dello scienziato.

IL SIDEREUS NUNCIUS
Il Sidereus nuncius è il trattato scientifico in cui Galileo comunicava al mondo gli straordinari risultati, delle
scoperte ottenute scrutando il cielo con il suo cannocchiale: la Via lattea, le macchie lunari, i quattro satelliti di
Giove, chiamati in onore della casa regnante in Toscana "pianeti medicei, l’anello di Saturno e le fasi di Venere, le
macchie solari e il moto rotatorio del Sole. L’opera divise la comunità scientifica e religiosa tra gli ammiratori e i
detrattori preoccupati del fatto che alcune osservazioni potessero mettere in crisi il sistema aristotelico e
tolemaico, sostenuto dalla Chiesa: i corpi celesti non apparivano più perfetti e incorruttibili, mentre la scoperta
del moto orbitale dei satelliti di Giove forniva una prova ulteriore a favore del sistema copernicano, che possono
esistere nel cosmo altri centri gravitazionali.
La scelta del latino riservava l'opera soprattutto ai dotti e agli scienziati, ma non per questo minore era
l'attenzione per una scrittura capace di assecondare i movimenti delle argomentazioni. Le parole seguono
l'andamento delle descrizioni, rese vive da un'abilità analitica rappresentativa che sa rendere con precisione
tradotte visivamente dai disegni inseriti a corredo del testo. Galileo non esita a ricorrere a dei confronti con
fenomeni simili visibili sulla terra. Traspare l'entusiasmo per aver potuto osservare cose mai viste prima, quella
meraviglia che può essere avvicinata a quella della poetica barocca; una meraviglia (la conoscenza della natura)
che nasce dalla conoscenza delle cose e non da una ricerca delle parole.

LA SUPERFICIE DELLA LUNA


All'inizio dell'opera, accingendosi a comunicare gli straordinari risultati delle scoperte da lui compiute grazie
all'uso del cannocchiale, Galileo da voce al suo stupore, a quella "meraviglia" dovuta alla novità. Ora, la
"meraviglia" era cercata anche dai poeti barocchi e dal loro capostipite, Giambattista Marino, che l'aveva posta
alla base della sua poetica. La meraviglia di Galileo nasce dalle cose, dallo scoprire ciò che nessun altro mai
prima aveva osservato. La prima cosa di cui si meraviglia Galilei è la presenza di molte più stelle, quasi 10 volte di
più, di quelle identificate fino a quel momento. Grazie al cannocchiale riuscì a vedere la superficie lunare che
risulta irregolare e non sferica, liscia come era stata immaginata durante i secoli precedenti, ed è la prima volta
che in testo letterario è presente la descrizione reale della luna. Si può vedere la Via Lattea, di cosa sono formate
le nebulose, individua 4 astri e riesce a vedere i satelliti di Giove, chiamati medicei, in onore di Cosimo Ⅱ.

IL DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO, TOLEMAICO E COPERNICANO


Nel 1623 ne comunica la progettazione, nel 1630 conclude dialogo, 1632 ottenne l’autorizzazione del Papa
Urbano VIII epoca le due tesi contrapposte, quella tolemaica e quella copernicana, come teorie astratte e di
mantenere le loro confronti un atteggiamento di equidistanza. Galileo fili per fare quest’opera la più stringente
l’efficacia dimostrazione della validità del sistema copernicano. Ambientazione: Venezia (città aperta e
tollerante); è suddiviso in 4 giornate con argomenti differenti:
1. rapporto terra-astri
2. ipse dixit (principio autorità aristotelico)
3. problema maree
4. moto orbitale terra attorno Sole (tema centrale, erroneo)
L’opera è basata sul confronto fra due concezioni antagonistiche del mondo:
➔ Salviati, sostiene concezione del mondo copernicana, ha spirito della ricerca sperimentale e scientifica;
➔ Simplicio, difende concezione del mondo aristotelico tolemaico, è esponente della vecchia cultura e
dell’ipse dixit;
➔ Sagredo, in posizione neutrale in apparenza, che convinto nelle argomentazioni di Salvianti, si fa
espressione di una vivacità ironica e polemica nei confronti delle istituzioni e della mentalità del
passato.
Attraverso le loro parole traspare un’umanità viva e vitale resa qui più significativa da un confronto di fatti e idee
di assoluta rilevanza storica e culturale. Simplicio, che ci apparirà alla fine schiacciato dalle dimostrazioni
contrarie alla tesi da lui sostenuta, riflette un aspetto fondamentale della natura umana, la paura di regolarsi
della vita e di affrontare i problemi della conoscenza mettendo in gioco la propria responsabilità.
Il Dialogo è cosa complementare diversa rispetto a un arido trattato scientifico, ma, utilizzando il volgare
riprendendo una forma eminentemente letteraria come quella dialogica, si innesta su una precisa e consolidata
tradizione. I destinatari erano gli esponenti più aperti del pubblico colto (lettori che sanno discernere vero dal
falso)

LA FORMA E LO STILE
L’ideale letterario di Galileo è rinascimentale. La scelta del dialogo riflette questa sensibilità e meglio si presta a
far risaltare le sue doti di scrittore, la lucida perspicuità dell'argomentazione, il giudizio tagliente, l'ironia. Nel
Dialogo e nel Saggiatore assume anche il punto di vista dell’avversario per confutarlo dall’interno. Il dialogo
infatti è forma intrinsecamente dialettica, e alla divergenza delle opinioni, Galileo affida l’efficacia persuasiva
delle tesi da dimostrare. Si avvale dell’abile uso dei paragoni e delle corrispondenze, con sciolti ed efficaci indugi
di tipo novellistico o aneddotico.
A tutto questo vanno aggiunte la chiarezza e la precisione del linguaggio, a cui contribuirono sia la raffinata
educazione letteraria sia l'occhio dello scienziato, che sa cogliere l'esattezza dell'espressione, conservando al
tempo stesso quella "leggerezza" della parola tanto cara a Italo Calvino.
Leopardi riserva, nell’antologia dei migliori passi in prosa degli scrittori italiani, lo spazio maggiore a Galileo, a cui
veniva riconosciuto il merito, così raro nella nostra tradizione letteraria, di una scrittura non solo stilisticamente
raffinata ma anche ricca di pensiero.

L’ELOGIO DELL’INTELLETTO UMANO


In questo passo Sagredo e Salviati risolvono
L'episodio è collocato nel primo giorno di dialogo. Il primo a parlare è Sagredo, il mediator, Salviati, amico di
Galilei e portavoce dell'autore nell'opera, e Simplicio, esponente della vecchia cultura e del principio di autorità
di Aristotele, il cosiddetto "ipse dixit". Il dialogo parte da un paradosso insolubile: Socrate sostiene di non sapere
nulla, mentre l’oracolo di Delfi lo proclama il più sapiente di tutti gli uomini. Infatti solo le persone ignoranti
hanno la presunzione di conoscere tutto, tanto che pure Socrate, davanti alla sapienza infinita e divina, ammette
di conoscere poche cose. Si può affermare che il grado di conoscenza delle leggi della natura è variabile in
relazione all’intelligenza degli uomini, che comunque può raggiungere livelli straordinari. Ad esempio, le sculture
di Michelangelo sono superiori a tutte quelle degli altri scultori, ma comunque restano infinitamente inferiori alla
creazione divina. Il passo si conclude ricordando l’invenzione più importante di tutte, cioè della scrittura, che ha
consentito agli uomini di comunicare fra di loro nonostante il tempo e lo spazio.

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