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Andrea battistini letteratura italiana volume 2 dal settecento ai


giorni nostri
Storia dell'Europa Contemporanea (Università degli Studi di Foggia)

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Riassunto Battistini
(Parte prima)

1. Il primo Settecento: una letteratura riformata

Alla fine del Seicento, a Roma, si colgono i primi segnali di evoluzione da un secolo all’altro.
Qui, in questo periodo, viveva Cristina di Svezia, regina luterana della nazione scandinava.
Essa aveva fondato l’Accademia Reale (1656) chiamando a raccolta oltre a scrittori-
scienziati di estrazione galileiana, i maggiori poeti del classicismo tardosecentesco (“i
prearcadi”).
Alla morte di Cristina il suo lascito accademico e programmatico venne ripreso
dall’Accademia dell’Arcadia, fondata il 5 ottobre 1690, giorno in cui quattordici letterati si
ritrovano negli orti di S. Pietro in Montorio per costruire il nuovo sodalizio. I nuovi propositi,
simili a quelli dell’Accademia Reale, erano a favore di una letteratura capace di restaurare
gli esempi della tradizione classica e cinquecentesca ed erano contro il modernismo e le
degenerazioni barocche. Con la nascita dell’Arcadia la proposta di una poetica antibarocca
va di pari passo con l’unificazione di un intero assetto culturale su base nazionale.
L’Arcadia si propone come organizzazione autonoma dei letterati, non più soggetti a
condizionamenti cortigiani o mecenateschi, tantomeno nella variante primosecentesca del
“segretario” ai voleri del principe. Di conseguenza di assiste all’emergere in accademia di
un consistente ceto borghese, composto da giuristi, professori, ecclesiastici, che riequilibra
e annulla la forte corrispondenza del mestiere delle lettere al codice nobiliare che aveva
caratterizzato il Seicento. Trova un inedito spicco anche la componente femminile:
nobildonne, ma anche appartenenti alla borghesia delle arti e delle professioni.
La capacità di raccordare luoghi e ambienti produce infine una stretta relazione tra i domini
disciplinari delle diverse scienze.
E’ nel fitto intreccio di motivazioni culturali e ragioni organizzative che emergono però due
diverse strategie sui compiti di una istituzione già capace di modificare i costumi e le
mentalità della società letteraria contemporanea:
• Gian Vincenzo Gravina —> tendenza basata sul modello di Dante e Omero;
• Giovan Mario Crescimbeni —> tendenza più moderna che si rifaceva a Petrarca.
Primo Custode generale d’Arcadia, storico della
tradizione poetica italiana, scrive opere destinate
a incidere nelle memorie e nelle scelte arcadiche.

Gravina (1664-1718) era nato in Calabria, si era formato a Scalea presso la scuola filosofica
di Gregorio Caloprese, d’importanza razionalistica e antiscolastica, e si era trasferito a
Napoli per approfondire le discipline giuridiche. A Roma, si era perfezionato nella
conoscenza dei testi classici greco-latini, pronto dunque a partecipare alla fondazione
d’Arcadia, le cui leggi furono da lui scritte e pronunciate (1696). A causa della sua
formazione e l’influenza della cultura napoletana, si era spinto su posizioni autonome e
vigorose rispetto a quelle pur sempre moderate e conciliative dell’ambiente romano.
Già ne l’Hydra mystica (ang. etico-religioso) Gravina aveva dimostrato la propria
insofferenza nei confronti delle sottigliezze aristoteliche e della casistica gesuitica.
Con Discorso sopra l’Endimione, Gravina svela una concezione alta, sapienza della scienza
poetica, cui è affidato il compito di restituire “la chiara e viva immagine del vero”, di
cogliere insomma l’essenza filosofica che la “natura” cela in sé come “impronta” dell’idea
divina (successiva ‘filosofia della luce’).
1711: anno in cui Gravina decise di lasciare l’Accademia d’Arcadia per fondare l’elitario
sodalizio dei Quiriti. Verrà dichiarata la presa di distanza dal proposito crescimbeniano di

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far rifiorire le forme deboli e autoreferenziali della lirica e si indicherà piuttosto la via del
tragico, purché libero anch'esso dai sofismi dell’aristotelismo contemporaneo.

Nella Napoli di fine Sei e inizio Settecento si era venuto formando un clima di particolare
impegno civile, riconoscibile specialmente negli appartenenti a una cultura forense
schierata a difesa del potere regale contro le resistenze feudali dei baroni e le ingerenze
curialiste della Chiesa, capace inoltre di assumere ruoli decisivi nelle cariche di governo,
della magistratura, dell’università. La specificità dell’esperienza napoletana impedisce
tuttavia un trapasso lineare verso le nuove prospettive del secolo, come accadrà invece sul
versante tipicamente arcadico-razionalistico, che si svilupperà lungo altre direttrici.
Si è di fronte a una qualità particolare del far cultura. La storia della civiltà meridionale di
primo Settecento poggia su rilevanti personalità:
• Gregorio Caloprese: (Scalea 1650) aveva operato a Napoli, animandone i circoli
intellettuali, per poi tornare nella sua città natale, fondarvi e dirigere la scuola fino
all’anno della morte, il 1715. Caloprese si servì della lezione cartesiana per impostare il
metodo analitico del suo insegnamento, interessato a prendere le distanze sia dalle
incertezze di un sapere probabilistico d’origine investigante sia dalla non provata
indiscutibilità delle leggi metafisiche. Ai molti discepoli il pensiero calopresiano si offrì
come snodo ineludibile, tra ricezione della modernità e ripensamento della tradizione.
• Pietro Giannone: (1676-1748) rispetto a Caloprese egli fu più intrinseco alla generazione
sei-settecentesca del ceto forense e più radicalmente esposto al dibattito storico-politico.
Nel mutamento dinastico egli intravede l’occasione per riformare alla base il sistema
istituzionale, economico e amministrativo dello Stato e per chiedere l’abolizione dei
poteri e dei privilegi della Chiesa, causa primaria della mancanza di autonomia statuale
(idea per la Historia civile del regno di Napoli). Decide poi di trasferirsi a Vienna, sotto la
protezione dell’imperatore Carlo VI, dove trascorse anni particolarmente fervidi.
1732-34 lascia Vienna e progetta il Triregno. La dimensione storica cara all’autore si
arricchisce di nuove aperture antropologiche, filosofiche e religiose, nell’opera che
individua lo sviluppo dell’umanità secondo i momenti 3 del “regno terreno”, “regno
celeste” e “regno papale”.
• Giambattista Vico: (1688-1744) dopo aver frequentato i tradizionali corsi delle scuole
gesuitiche, iniziò lo studio del diritto e della filosofia durante gli anni da precettore a
Vatolla. Scrisse componimenti encomiastici e ottenne la cattedra di eloquenza
all’università. De nostri temporis studiorum ratione settima delle Orazioni inaugurali: il
dato rilevante di questa dissertazione consiste nella confutazione del metodo analitico
cartesiano. Non si trattava di negare l’importanza dello studio della natura e del peso
della scienza; il problema era semmai quello di ricondurli all’interno di un sapere più
compiutamente unitario e armonico.
Molti studiosi di ascendenza partenopea si erano rivolti al recupero di forme linguistiche e
culturali proprie di un passato remoto, attratti dal fascino archeologia delle età
primigenie. Paolo Mattia Doria mette mano alla ricostruzione di una prisca theologia
idealizzazione neoermetica di un mondo esemplarmente irrelato dal presente.
Ma se talvolta i viaggi a ritroso conducono alla formulazione di ipotesi di segno regressivo,
così non capita a Vico. La risalita verso le origini delle civiltà italiche, la riscoperta di
alcuni basilari principi “metafisici”, stimola lo studioso a rimisurare il presente storico alla
luce di quanto è rinvenibile in quegli albori civili.
Principi di Scienza Nuova: 5 libri (1725- rielaborazioni- 1744) ricostruzione di una “tavola
cronologica” comparata degli avvenimenti storico-mitologici dell’antichità. In essa si
aggiorna l’antica convinzione che voleva il mondo scandito “per 3 età, degli dei, degli eroi
e degli uomini” e si verificano i fondamenti filosofici, filologici e metodologici per cui è
possibile concepire l’idea di una “storia ideale eterna”, governata dalla mente divina,
“sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni”. Nella Scienza Nuova la
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concezione metafisica di un’entità sovratemporale viene rivolta alle concrete realizzazioni


umane e sociali, arricchendosi di obiettivi dinamicamente storici. (Vi attingerà Leopardi).
Preliminare all’investigazione dei pensatori napoletani di primo Settecento era certamente
lo studio erudito, nei diversi campi delle scienze storiche, del diritto, delle lettere.
Ma in tale clima il reperimento dei dati aveva una funzione propedeutica all’interpretazione
filosofica che portava spesso a una battaglia di idee. Ciò spiega da un lato l’eccezionalità
della cultura meridionale ma dall’altro chiarisce perché nell’età arcadica vinca una diversa
concezione dell’erudizione, meno schierata ideologicamente e più moderatamente convinta
che la puntuale ricerca documentaria sia di per sé un atto innovativo.
Accurato compilatore di raccolte biografiche e ideatore a inizio secolo di una Istoria della
volgar poesia che modifica gli schemi della storiografa letteraria precedente a vantaggio
dell’esattezza informativa e della coscienza dello svolgimento di forme, generi, “epoche”
della nostra letteratura, Crescimbeni dà prova di come l’Accademia d’Arcadia si fosse
ufficialmente collocata su quel secondo versante.
L’erudizione settecentesca, invece di assestarsi sull’asse geo-culturale che legava Roma a
Napoli, sceglie percorsi settentrionali. E’ in territorio estense che vive e opera il suo
principale esponente.
Ludovico Antonio Muratori: (Vignola 1672-1750) Frequentò le scuole due gesuiti, si addottorò
in filosofia e diritto civile e canonico e abbracciò la carriera ecclesiastica. Decisivo per la
sua vocazione erudita era stato l’insegnamento di Benedetto Bacchini: egli aveva avviato
Muratori alla rigorosa metodologia di ricerca dei padri Maurini e di Mabillon, basata
sull’accuratezza delle citazioni, la precisione dei riferimenti bibliografici, l’esame di reperti
epigrafici, numismatici e archeologici, la distinzione tra fonte ed esegesi.
Muratori sviluppò un nucleo importante della tua vastissima produzione durante gli anni
trascorsi a Milano come prefetto della Biblioteca Ambrosiana e sopratutto dopo il ritorno a
Modena, chiamato dal duca Rinaldo I d’Este a ricoprire il ruolo di bibliotecario di corte.
Antichità Estensi: intese a ricostruire le origini della famiglia ducale.
Muratori iniziò quindi ad indagare sull’oscuro periodo di mezzo, fino a quel momento poco
frequentato. Si ha così il monumentale corpus in 25 volumi dei Rerum italicarum scriptores,
completato grazie anche a un considerevole numero di collaboratori.
Basata sulla concreta ricostruzione dei fatti, la storiografia muratoriana adotta un approccio
coerente ai principi di fede cattolica, a quella “regolata divozione” che Muratori sosterrà in
saggi di filosofia morale e prassi religiosa. La sua adesione a una religiosità profondamente
avvertita rinforza l’impiego etico-civile della sua visione riformatrice.
Saldamente impiantata al centro dell’Italia settecentesca, la sua attività è stata paragonata
alla “strategia del ragno”. Di altre fitte ragnatele era del resto tessuta la storia
dell’erudizione contemporanea.
Benedetto Bacchini aveva rifondato, nel 1687, il “Giornale de’ letterati”, sorto una prima
volta a Roma, nel 1668, sul modello parigino “Journal des Savants”. La vita del periodico
non fu facile, per la mancanza in Italia di sicuri riferimenti istituzionali, tanto che a fine
Seicento dovette cessare le pubblicazioni. Ma la nuova formula adottata, attenta al
carattere interdisciplinare delle scienze, alla fondatezza delle proposte avanzate e al
confronto delle posizioni, ne consentì una terza rinascita a Venezia.
Il compito di rilanciare il Giornale fu assunto nel 1710 da Apostolo Zeno e mantenuto fino al
1718. Zeno si dedica a studi relativo alla “italiana favella” e alla “volgare poesia”, con
specifica attenzione alla restaurazione classicistica dei generi, glossa lavori altrui e discute
in “erudite contese” raccogliendo un imponente materiale biobibliografico sugli autori e
sulle opere della letteratura italiana.
Quando rivolge le sue cure al “Giornale de’ letterati” Zeno si avvale di due condirettori,
Antonio Vallisneri per il settore delle scienze e Scipione Maffei: erede l’uno della tradizione
medico-sperimentale malpighiana, attratto l’altro da una pluralità di interessi cha variano
dall’analisi delle forme comportamentali del passato nobiliare alla scrittura e alla polemica
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teatrale, dalla letteratura alla storia, dall’economia all’antiquaria, tanto da emergere tra
gli esponenti più partecipi della cultura riformatrice contemporanea.
Non appena eredita la responsabilità del “Giornale”, Maffei adotta un criterio fortemente
conciliativo, preoccupato di costruire sotto specie giornalistica una reale unità d’intenti
della comunità dei dotti, puntando a rinsaldare una coscienza collettiva a difesa non
tradizionalistica ma dialogante delle patrie lettere e a porre in relazione le intellettualità
più diverse.
L’esperienza del “Giornale de’ letterati” non fu l’unica nel corso di un secolo che si
caratterizza per la pubblicazione di periodici eruditi, enciclopedici e divulgativi.
Lo stesso Maffei fu promotore di una seconda iniziativa editoriale a continuazione della
prima fondando le “Osservazioni letterarie”, mentre a Firenze Giovanni Lami diede vita alle
“Novelle letterarie”.
Fino a metà Settecento, tuttavia, la funzione connettiva tra gli ambienti colti d’Italia che si
era assunto il “Giornale” è ulteriormente potenziata dalla scrittura epistolografica.
Gli epistolari sono cardini fondamentali della cultura settecentesca. Un personaggio di
rilievo era stato Antonio Magliabechi, il quale si era quasi esclusivamente dedicato alla
formazione della biblioteca e alla diffusione della rete epistolare. L’imponente corpus della
sua corrispondenza veniva così a delineare i confini dell’ideale Repubblica delle Lettere alla
cui ‘geografia’ gli intellettuali settecenteschi guarderanno con sempre maggiore interesse.
Sotto l’erudizione, però, la storia continua a premere.
Verona illustrata (Maffei): Preciso e ampio affresco che va dalle origini preromane all’età
carolingia, abbracciando eventi politici e civili, fatti linguistici e letterari, vicende
artistiche.
L’individuazione delle fasi di formazione e tenuta di una civiltà cittadina e del suo territorio
si fa specchio per altre ricostruzioni in atto, rivolte alla nostra comune nazione. Non è un
caso perciò che l’attenzione alle fonti e ai lineamenti della storia nazionale trovino un pieno
riscontro anche nell’ambito della corrispondenza epistolare e nelle stesse ragioni della sua
riconversione verso nuovi obiettivi.
In questo quadro, si considerino infine le autobiografie intellettuali, caldeggiate con
propositi sistematici da Giovanni Artico di Porcia, estensore di un Progetto ai letterati
d’Italia per scrivere le loro vite, al quale aderiranno Vico, Muratori e Bacchini.

Nonostante Gravina si opponesse all’idea di affidare alla rinascita del genere lirico il ruolo
predominante nella prospettiva di una letteratura da riformarsi, la maggioranza filo-
crescimbeniana lavora al progetto.
La questione della poesia era al centro delle contemporanee discussioni sulle estetiche. In
quel periodo va segnalato il diffuso fenomeno dell’esercizio in versi.
Fatto pressoché unico nel panorama seicentesco, la cultura fiorentina aveva resistito per
l’intero secolo alla pressione delle correnti barocche richiamandosi alla tradizione toscana e
servendosi anche delle sue istituzioni storiche, come l’Accademia della Crusca, attenta agli
aspetti conservativi della lingua e degli esempi letterari, o quella scientifica del Cimento,
incaricata di trasmettere l’insegnamento galileiano circa l’aderenza dei mezzi espressivi
alle <cose> da rappresentarsi. Nella seconda metà del Seicento, i toscani si erano trovati
nella favorevole condizione di farsi anticipatori delle tendenze arcadiche. E non tanto nella
direzione teorica quanto sul terreno delle scelte pratiche. Per i toscani si doveva restaurare
il culto di Petrarca, riletto magari attraverso il filtro ancora indistinto dello stuolo dei
petrarchisti di pieno Cinquecento. Ma un problema e un nome vanno ancora evidenziati.
Nella sua opposizione al secentismo la letteratura toscana aveva respinto Marino e la sua
scuola, mentre aveva accolto, Gabriello Chiabrera, anch’egli pienamente partecipe del
gusto barocco ma estraneo alle poetiche dell’arguzia e del concettismo.
Che la storia della poesia di primo Settecento passi attraverso il rinnovato patto tra gli
ambienti culturali di Firenze e Roma appare dunque evidente.
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Rime degli Arcadi: (Crescimbeni) sanzionano ufficialmente, nel 1716, la nascente


consuetudine settecentesca delle antologie liriche, pensate allo scopo di documentare la
produzione recente in modo chiaro e preciso.
Crescimbeni privilegia tra i lirici del Cinquecento il napoletano Angelo Di Costanzo,
esponente di quella produzione meridionale che aveva cantato d’amore in scenari
naturalistici. Di Costanzo appare a molti arcadi un sicuro punto di riferimento, tanto che nel
1709 è canonizzato con l’edizione bolognese delle sue Rime.
Gravina non si stancherà di rinfacciare a Crescimbeni questa predilezione, tra le cause del
loro dissidio, anche perché la scelta crescimbeniana stava avendo ricadute significative
nell’ambito della scrittura poetica contemporanea. Essa indica infatti ai poetae novi la
possibilità di tradurre le situazioni petrarchesche in movenze alleggerite, animate in chiave
patetica e idilliaca. Caratteristiche che appartengono, per esempio, a uno dei più noti
rappresentanti della prima arcadia.
Giambattista Felice Zappi: (Imola 1667) Trasferitosi a Roma, fece della propria casa uno dei
più rinomati salotti letterati della città e fu tra i fondatori e animatori del sodalizio
arcadico fino al 1719 (morte). Zappi scrisse poesie secondo i dettami dell’ufficialità
accademica ma raggiunse i risultati migliori e riconosciuti realizzando un sonettismo
decorativamente aggraziato, tutt’altro che privo però di abilità tecnica e di moderna
vivacità rappresentativa. La sua vena briosa e colloquiale si manifesta spesso in duetti in
versi con gli altri arcadi (egloga/canti amebei) e con la moglie, complice letteraria.
Faustina Maratti Zappi (moglie di G.F.Z), accanto a Petronilla Paolini Massimi, ripropose il
tema della presenza femminile in Arcadia non più solo dal punto di vista degli aggiornamenti
di comportamento e socialità ma da quello delle effettive realizzazioni poetiche.
Strettamente legata per intenti e collaborazioni all’Arcadia romana, Colonia Renia
continuava a mantenere una sorta di priorità in molte questioni, dovuta alla compattezza
culturale del suo gruppo dirigente, all’intraprendenza editoriale, all’ampiezza delle
proposte teorico-letterarie.
Eustachio Manfredi: (1674-1739) Si era interessato di poesia sin dalla giovinezza, come
critico e autore. Dobbiamo sopratutto a lui l’ideazione e la realizzazione della Scelta di
sonetti e canzoni del passato e del presente poetico, generalmente attribuita a Gobbi.
Uno spazio assolutamente rilevante è assegnato a Petrarca e ai petrarchisti, ripresi con una
generosità che presuppone la volontà d’allargamento del canone e però tagliati in modo da
esibire il versante platonico-amoroso del Canzoniere e della sua tradizione.
Manfredi si era sempre dedicato alla scrittura poetica, sicché l’angolazione antologica trova
ulteriori conferme nel volume delle sue Rime (1713). In esso il confronto con il modello si fa
ravvicinato. Non tanto nella direzione di una difensiva assunzione dei topoi quanto in
quella, cara a Muratori, della loro rivisitazione, anche se dalle idee dell’amico il poeta
diverge proprio sulla scelta della tematica d’amore, censurata dal primo e da lui rielaborata
alla luce di un itinerario d’ascesi dell’animo amante.
Manfredi si pone alla guida dell’ortodossia petrarchesca. Non tutto però converge verso la
meta indicata. Per un tratto considerevole della sua esperienza poetica, del resto, lo stesso
Manfredi si era esercitato in composizioni a schema assai libero a contenuto pastorale.
Il compagno prediletto in questi tentativi era stato Pier Jacopo Martello (1665-1725), autore
di un Canzoniere meno affinato di quello manfrediano perché eterodosso. L’eterodossia
martelliana si avvicina a una prassi poetica che dall’ascolto di un agile Seicento si fa
interprete del nuovo gusto, aperto ormai a fruizioni mondane.
Del rilancio canzonettistico a inizio Settecento era stato interprete Zappi e che un giovane
Leopardi individuerà come moderno Anacreonte.
E’ possibile parlare di continuità tra poesia barocca e arcadica, sul versante della
cantabilità?
Non vi è dubbio che un rapporto di dipendenza leghi le prove settecentesche a quelle
seicentesche, sopratutto nell’associazione musica-poesia. Ma la tesi di una sostanziale
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durata tra i due secoli è da respingere. Non solo per la diversa atmosfera culturale che li
segna, ma anche per il diverso, innovativo impianto delle forme poetiche. In questa
direzione il caso più evidente di discontinuità con il passato appena trascorso è offerto dalla
sperimentazione lirica di Rolli.
Paolo Rolli: (1687-1765) Discepolo fedele di Gravina, lasciò l’Italia per Londra, dove fu
precettore a corte e animatore del mondo musicale inglese. Se una parte significativa della
sua vicenda letteraria è connessa alla storia del melodramma, in campo poetico prova rime
di vario metro, raggiungendo la fama per la produzione canzonettistica, che ripubblica nei
due volumi di Canzonette e cantate. Rispetto alle polimetre strutture seicentesche vi si
avverte una maggiore tenuta delle singole strofe, simmetriche per partizione interna,
siglate da tronchi per vivacizzare in clausola: sicché gli esiti fonoritmici originano non già
effetti sonori, di reminiscenza barocca, ma melodici. Questa fondamentale semplicità del
Rolli melico introduce propedeuticamente a un secondo ordine di osservazioni.
Nei suoi aspetti massimamente euforici, la letteratura del Seicento coincide con il barocco,
ha evidenti analogie con la musica e la figurazione coeve. Non altrettanto capita con la
letteratura d’Arcadia, la cui dicitura non ha corrispondenze nel campo delle arti musicali e
figurative, le une inserite, in piena continuità, nell’ampia accezione “barocca”, le seconde
nella inedita formulazione del rococò, questa sì a nuova diffusione europea.
Se da un lato il rococò figurativo si impreziosisce, reinventa forme irregolari, dall’altro la
lirica si semplifica. In sede letteraria il rococò risulta essere una componente da valutarsi
nell’attività di singoli gruppi e artisti, non una categoria estetica capace di assumere un
valore caratterizzante per un intero movimento culturale.
E’ indicativo il caso di Carlo Innocenzo Frugoni: (Genova 1692) appartenente alla seconda
generazione arcadica, imitatore di Chiabrera e frequentatore dei circoli bolognesi e romani,
si trasferì a Parma presso i Farnese, come poeta di corte, diventando l’interprete più
accreditato dell’atmosfera galante, d’impronta francese, che vi si respirava.
Dotato di spiccati interessi per le arti figurative, risulta essere il letterato più esposto sul
versante rococò, per temi e apparati, spesso mitologici. Ciononostante, anche nella prolifica
opera frugoniana, tra le più fortunate del secolo per la ricchezza delle proposte metrico-
formali, si registrano processi di semplificazione sintattica.
Da una arte Frugoni, che pure immaginava scenari artificiosamente dipinti, si mostra
attaccati all’ordo naturalis dell’espressione; dall’altra Rolli, la cui “chiarezza” sta alla base
della nuova formula canzonettistica, priva oramai delle movenze anacreontee e sicura al
punto da essere imitata in zone diffuse della lirica settecentesca, si pone saldamente al
centro del processo di linearità e unitarietà della struttura poetica.
A completare questa triade di poeti è Metastasio, maggior lirico di metà secolo. Le sue più
celebri canzonette rinviano - per i giochi interni dei parallelismi e per l’euritmia del dettato
- alle “arie” del melodramma. L’intervento metastasiano sancisce autorevolmente
l’avvenuto distacco dal petrarchismo. L’ampia misura dell’endecasillabo, con appoggio del
settenario, si è contratta in unità più brevi. La petrarchesca tensione a un itinerario
spirituale ha lasciato il posto alla lucida registrazione della varietà degli affetti.
All’introflessione dell’<io> si è sostituita l’esibizione di motti e atti.

Già nei primi decenni del Seicento, in Italia, erano emersi i contenuti della disputa degli
antichi e dei moderni che alimenterà il dibattito culturale dei secoli XVII e XVIII.
Nell’edizione definitiva dei Pensieri diversi di Alessandro Tassoni, l’ultimo libro era
intitolato Ingegni antichi e moderni. Tassoni, attento alle dinamiche della storia delle
scienze, delle arti e delle letterature, non aveva impostato il suo “paragone” nella chiave di
una lite che prevedesse la vittoria di una delle due parti, ma al contrario secondo una
prospettiva antidogmatica, scettica, che dava rilievo alle scoperte e alle forme della
“modernità” senza che però si smarrisse il senso profondo del dialogo con gli antichi.
Qualcosa di simile era accaduto, negli stessi anni, con il Boccalini dei Ragguagli di Parnaso.
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La rivalutazione delle facoltà immaginative dell’antico procederà di pari passo con i


momenti alti dell’investigazione illuminista. Prima però che la cultura italiana ed europea
possa disporsi su quell’asse, critici, esegeti, polemisti si trovano impegnati in un lavoro più
lento e minuzioso. Polemica Orsi- Bouhours: nata dall’esigenza di confutare gli attacchi
provenienti d’oltralpe e mirati a demolire il primato di quella tradizione italiana in versi
che, dalla restaurazione petrarchista fino ai risultati “per musica” irradiati per tutta
Europa, fanno della lirica un capitolo importante nella letteratura del secolo.

2. La cultura dei lumi

A inizio secolo la riflessione culturale di ambito partenopeo aveva scelto l’approccio storico-
giuridico e filosofico ai grandi temi del rinnovamento. Ma l’impegno degli intellettuali non
era stato solo di tipo speculativo.
Un caso, Paolo Mattia Doria: nel 1740, stese la relazione scritta Del commercio del regno di
Napoli, affrontando direttamente il problema della condizione sociale del regno di Napoli,
pressato ancora dalle gravi condizioni della miseria dei plebi, dalle ipoteche baronali sulle
terre, dalle pressione fiscale, dell’accentramento dei capitali nelle mani di una aristocrazia
ostile a reimpiegarli in iniziative economiche, e suggerendo la via per sviluppare un
“commercio interno e reale del regno”, basato sul rilancio manifatturiero e
sull’esportazione dei prodotti locali. Non per questo l’intelligenza napoletana cesserà di
perseguire ideali riformatori di forte radicalità, coraggiosamente rivolti in avanti.
Tra gli ammiratori della memoria di Paolo Mattia Doria ci sarà Antonio Genovesi (1713-1769).
Ordinato sacerdote e professore di materie metafisiche all’Università di Napoli, Genovesi si
era dedicato agli studi filosofici, pubblicando nel 1745 gli Elementorum artis logico-criticae
libri V e completando negli anni successivi gli Elementa metaphisicae. Già dai primi scritti
apparve evidente la sua libertà nell’interpretare le linee della tradizione, compresa quella
recente, vichiano-platonica. Questo precoce atteggiamento gli provocò l’ostilità
dell’arcivescovo Giuseppe Spinelli e il mancato ottenimento della cattedra di teologia.
Per motivi contingenti, dunque, ma sopratutto per un’inclinazione che si rinforza col
passare degli anni, si assiste a ciò che gli studiosi hanno definito una vera e propria
“conversione” dagli astratti interessi filosofico-teologici al concreto studio dell’economia.
• Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1753): nel discorso si sosteneva la
necessità di superare la prospettiva meramente “contemplativa” delle scuole perché il
compito della filosofia e delle lettere era di “giovare” alle necessità della vita umana.
• Delle lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767): in quest’opera l’impianto
analitico-propositivo si fa ampio, fondato su motivazioni etico-politiche più che sull’uso
dei tecnicismi, mentre sulla pagina scorrono i temi su cui la più avvertita cultura
economica europea stava discutendo. Anzitutto la questione relativa al “lusso” quale
motore della nuova economia. La posizione di Genovesi è mediana. Da una parte prende le
distanze dagli eccessi di un lusso che chiama negativo, dall'altra insiste sui vantaggi di un
lusso positivo, strumento di perfezionamento di arti, costumi e ricchezze dei popoli.
Altrettanto calibrate sono le posizioni espresse sul mercantilismo, da contemperarsi per i
suoi aspetti espansionistici con politiche di protezionismo all’interno, a tutela
dell’industria nazionale, e sulla fisiocrazia, di cui condivide gli intenti per la
valorizzazione dell’agricoltura ritenendo tuttavia non ancora maturi i tempi per la
realizzazione di una completa prassi liberoscambista in questo settore.
• Lettere accademiche (1764- riviste nel 1769): in esse, sotto forma di dialogo, gli
argomenti trattati nello scritto maggiore vengono ripassati alla luce di interrogazioni
ultimative sulla condizione dei “selvaggi” e dei “culti”, dei poveri e dei ricchi, sulla
felicità e l’infelicità dunque, sugli umani rimedi all’ingiustizia.
A molte domande aperte da Genovesi cercheranno una risposta coetanei e scolari.
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Ferdinando Galiani (1728-1787): Aveva approfondito alcuni cardini della cultura pratico
economica nei 5 libri Della moneta (1751), dedicati a Carlo III. Il trattato aveva riflettuto
sulle politiche monetarie contemporanee e offerto terapie anche scomode ai mali del
presente, schierandosi per la difesa dei pressi alti, segno comunque di un aumento del
benessere, e per l’abolizione dei privilegi annonari, moltiplicatori della “miseria”.
Galiani si era accorto della deplorevole condizione in cui versavano le plebi cittadine ma al
problema, diversamente da Genovesi, rispondeva con un qualche distacco. Il fatto è che il
percorso biografico e intellettuale lo stava portando in altra direzione.
Galiani si trasferì a Parigi nel 1759, frequentando i salotti più celebri e ottenendo l’amicizia
dei maggiori intellettuali del tempo. Scrittore dotato di genio e disincanto, quando ritorna a
Napoli nel 1769 non cessa di occuparsi di finanza ed economia. Ma l’intelligenza versatile lo
spinge verso un uso curiose e aperto della letteratura.
La responsabilità di affrontare ulteriori punti essenziali di una questione meridionale avanti-
lettera spetta dunque ai discepoli di Genovesi come Giuseppe Maria Galanti,
Francescantonio Grimaldi e Gaetano Filangieri.
Molto è mutato però nella situazione politica del regno. Il riformismo carolino procede con
vigore ma non senza difficoltà. La grande morìa dovuta alla carestia del 1764 fu
manifestazione del fallimento parziale dei piani della riforma. Nel 1777 Carlo III lasciò
Napoli perché chiamato sul trono di Spagna. Tannucci, nominato reggente, verrà allontanato
da Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV. Si avvertono insomma i primi segnali
d’arresto dei processi innovativi, in attesa che l’età ferdinandea ne smorzi ogni impulso.
Intanto in Europa si assiste a una sempre più forte polarizzazione del dibattito attorno al
pensiero di Montesquieu e Rousseau, con ripercussioni anche nel meridione d’Italia.
Grimaldi (1741-1781) scrisse le Riflessioni sopra l’ineguaglianza tra gli uomini, si oppose
alle tesi di Rousseau per cui gli uomini sarebbero uguali per natura se non fossero resi
diseguale dalle leggi.
Filangieri (1753-1788) estensore di una nuova Scienza della legislazione. Adesione alle tesi
del dispotismo illuminato, nelle esortazioni ai governanti, specialmente nella convinzione
che i filosofi abbiano finalmente liberato gli uomini dalla schiavitù delle superstizioni.
Quando le sollecitazioni rivoluzionarie derivate dai fatti di Francia impatteranno con la
crescente delusione per le capacità rigeneratrici delle monarchie, un inespresso filone di
repubblicanesimo potrà emergere e dar vita all’infausto tentativo della liberazione dello
Stato dalla sovranità borbonica.

La pace di Aquisgrana (1748) aveva posto fine all’ultima guerra dinastica per la successione
austriaca. L’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo regnava sulla Lombardia e aveva inaugurato
una rilevante serie di riforme amministrative, sociali, urbanistiche. Le accademie avevano
voce in capitolo. Nel 1762, Pietro Verri (1728-1797), autorevole fratello di Alessandro, e
Cesare Beccaria, già presenti alle riunioni dei “Trasformati” ma desiderosi di lasciarsi alle
spalle ogni residua costrizione formale, costituirono la Società dei Pugni, per sostanziare la
cultura di interessi riformatori. E’ questa situazione di collaborazione tra governanti e
intellettuali a consentire l’ultimo passaggio in direzione dei moderni strumenti
comunicativi, la fondazione appunto del “Caffè”, nel 1764. I giornalisti della neonata rivista
trovano la misura adatta a operare quel collegamento con la società che le accademie
letterarie, i salotti scientifici, i periodici eruditi non potevano comunque garantire. Nelle
pagine della rivista si aggrega un consistente numero di interlocutori. Pietro Verri parla degli
elementi del commercio e del problema del lusso in termini di facile comprensione, come fa
Beccaria a proposito della riforma monetaria e della procedura penale. Ci si occupava di
economia, di agricoltura e di questioni legate al clima, di scienza. Molto spazio è lasciato
alla critica dei costumi.

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L’obiettivo a cui si rivolgono le singole competenze è sempre quello della comune utilità. I
frequentatori-redattori del “Caffè” si candidavano insomma a progettare l’edificazione di
uno Stato moderno.
La rivista, che chiude nel 1766, incide attraverso l’ideazione di libri che risentono del clima
complessivo ma si innalzano per forza intrinseca.
- Dei delitti e delle pene (Cesare Beccaria, 1764): Dedicato alla legislazione penale,
l’opuscolo è organizzato per brevi paragrafi e affronta i punti cruciali con una capacità di
sintesi sconosciuta ali ampi trattati prodotti dalla cultura tecnico-giuridica meridionale.
L’origine delle pene è fondata esclusivamente sulla necessità di preservare la “salute
pubblica”. Proprio perché indirizzata alla tutela della “volontà comune”, da cui trae
legittimità, l’applicazione della legge non è suscettibile di interpretazioni, tanto più che i
giudici non sono i legislatori. Se è interesse comune che i “disordini” diminuiscano quanto
più recano danno alla collettività, vi deve essere una proporzione tra fra delitti e pene.
L’importante è che la pena sia “pronta e vicina al delitto commesso”, in modo da
apparire “giusta e utile”, che essa sia “inesorabile”, non “crudele”.
La concezione di una giustizia sicura ma mite apre il discorso da un lato ai modi per
“provare” i delitti e per “prevenirli”, dall’altro allo strumento della tortura, osteggiata
perché toglie la protezione al presunto reo prima della sentenza, perché se è il dolore il
“crogiolo della verità” saranno condannati i “deboli innocenti”, perché infine non è il
male fisico che può indurre alla redenzione. La stessa pena di morte è da rigettarsi.
Gli uomini non hanno il diritto di uccidere i loro simili, la reclusione perpetua basterà.
Il testo rovescia dunque le consuetudini secolari secolari e si pone al centro del dibattito
contemporaneo. Del tutto scontata è l’opposizione dello schieramento conservatore. Di
grande rilievo è invece l’accoglienza della parte illuminata, pronta ad accettarne le tesi.
L’interesse suscitato dal volumetto fece sì che Beccaria venisse invitato in Francia dagli
enciclopedisti e in Inghilterra dai membri della Royal Society. Il viaggio a Parigi si rivela
fallimentare per colpa della fragilità di Cesare, incapace di dominare il suo umor
malinconico e di sostenere a voce ferma il contraddittorio con intellettuali abituati alla
franca e libera disputa.
Mentre Alessandro prosegue l’itinerario che lo porterà a contatto con la filosofia
anglosassone, Cesare ripiega nella propria solitudine, dedicandosi ad approfondire problemi
di grande rilievo con un lavoro sulla natura delle lingue e un’indagine sulla storia
dell’incivilimento umano, mai terminata.
Pietro resta legato agli interessi di sempre, concretamente mirati ai problemi politico-
economici dell’oggi. Di Verri resta significativa la volontà di collaborazione con il riformismo
asburgico, fino a che gli eccessi dispotici dell’età giuseppina indicheranno all’ormai anziano
funzionario le contraddizioni insanabili tra l’assolutismo illuminato e gli auspicati
ordinamenti costituzionali, tanto da renderlo dubbioso verso l’ancien régime e aperto alle
novità giunte con la Rivoluzione francese. Nei primi anni Sessanta Verri aveva iniziato una
riflessione attorno alle dinamiche delle sensazioni. Focalizzati su alcune parole-chiave quali
“felicità”, “dolore”, “piacere”, i trattati verriani si collocano all’interno del maturo
pensiero europeo, che aggiornava l’empirismo sensistico della prima metà del secolo
analizzando le forze misteriose, sotterranee dell’organismo umano in una prospettiva
saldamente fisiocentrico. Il punto attorno a cui ruotano le tesi verriane è che il piacere
“non è altro che una rapida cessazione del dolore”. Alcune zone dell’opera sono dedicate ai
dolori fisici, ma l’interesse si appunta prevalentemente sull’analisi del dolore morale,
proprio degli uomini inciviliti. In questo caso è ancora più difficile individuare la catena
generativa perché si ignora l’origine della sofferenza

Le nuove prospettive riformatrici incidono in diverse realtà italiane. Il granducato di


Toscana conobbe una felice stagione di rinnovamento grazie all’impegno di un sovrano come
Pietro Leopoldo e al taglio pratico-economico impresso ai processi innovativi. Anche centri
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di media importanza furono rivitalizzati da un intenso fervore culturale. La presenza degli


intellettuali è attiva e diffusa pressoché ovunque. Mai nel corso della civiltà dei lumi la
geografia culturale assume caratteri regionalistici, neppure nazionalistici. Quel che diventa
dominante nei dibattiti contemporanei è semmai l’opposto. L’Illuminismo tende infatti ad
abbattere le barriere che separano luoghi fisici e mentali. Si fa strada l’idea del
cosmopolitismo, la dottrina che nega le divisioni territoriali e politiche affermando il diritto
di ciascuno, specie se intellettuale, di definirsi cittadino del mondo. Tra i linguaggi de
sapere, accanto a quelli propri delle scienze umane, spicca quello delle scienze fisiche e
naturali. Interviene il metodo di Newton: lo scienziato inglese era entrato d’autorità al
centro della tradizione empirica. Fu il primo punto di riferimento essenziale per molti
studiosi italiani, intenzionati ad aggiornare la scienza nostrana alla luce delle scoperte
recenti. La divulgazione scientifica è dunque un obiettivo all’ordine del giorno. Alla
letteratura viene affidato il compito di veicolare in modi avvincenti i contenuti complessi di
una scienza profondamente rinnovata. Ma intanto emerge il problema di quali forme
letterarie usare nell’atto divulgativo. Per un lato, ci si rivolge alla versificazione, fino al
riuso del poemetto in endecasillabi sciolti. D’altro lato, si sviluppa però una produzione in
prosa condotta spesso da scienziati solo occasionalmente prestati alla letteratura, dentro la
quale non mancano rese narrative e stilistiche di rilievo. Se la forma dialogica mima il
dibattito in corso e ne diffonde gli esiti essa fatica però a corrispondere alle esigenze di più
specifica e rapida comunicazione scientifica, sopratutto per quanto riguarda la
pubblicabilità e la traducibilità dei risultati in sede specialistica. Occorre la misura breve
del “saggio”.

Lungo il Settecento i confini fra stati, popoli, culture tendono idealmente a scomparire. La
stessa ricerca di una lingua sovranazionale si intensifica per il bisogno di individuare
strumenti di comunicazione praticabili dalle élite continentali e identificare dispositivi di
conoscenza generale. Il viaggio diventa così l’occasione idonea a un percorso di
apprendimento, una perlustrazione curiosa e divagante, che accanto all’attenta
osservazione degli assetti culturali e politico-economici delle nazioni visitate non trascura i
contesti sociali, comportamentali, paesaggistici.
- Algarotti, Viaggi di Russia (1739): Si connotano per le osservazioni sulla storia e la
geografia dell’impero russo, acutamente puntate sui problemi contemporanei. Allo stesso
tempo si raccomandando alla lettura per l’abbondanza di particolari descrittivi, di
appunti sui costumi, di racconti per sentito dire, che allargano ulteriormente lo spazio
visto e narrato.
- Alfieri, Vita: Ultimo esempio di questa letteratura nelle parti in cui si dirà con inedito
piglio narrativo dei soggiorni francesi e inglesi, nordici e iberici. Che poi questa forma
letteraria coltivi al proprio interno un registro romanzesco è fatto di notevole rilevanza.
Se l’occasione del viaggio è permeabile agli influssi del romanzo, nell’epoca in cui questo
genere tende a farsi egemone, resta però centrale nelle narrazioni il tema della formazione
intellettuale del viaggiatore.
Accanto alla produzione di viaggio di cui sono protagonisti i letterati si affianca una seconda
tipologia di scrittura relativa ad un viaggio, realizzata dagli studiosi di scienze in ripresa
della tradizione galileiana fatta di rigore, chiarezza ed eleganza.
- Lazzaro Spallanzani, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino (1788-1790):
Alla precisione descrittiva degli eventi naturali osservati si accostano parti di racconto in
cui il narratore restituisce il senso di mistero che circonda il mondo della natura,
percepibile nelle devastazione dei terremoti, nel ribollire delle lave vulcaniche, nel
frangersi delle mitiche onde di Scilla e Cariddi.

Il rinnovamento di idee e metodi, le aperture cosmopolite, il confronto tra culture nei


decenni del maturo Settecento vengono a riguardare anche il canone della storiografia
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letteraria, già affrontato all’inizio del secolo dagli scavi di Crescimbeni, Fontanini, Zeno e
soprattutto Muratori. A collegare la prima generazione di storiografi a quelle successive era
stato Francesco Saverio Quadrio (1695-1756) che nei volumi Della storia e della ragione
d’ogni poesia, aveva dato prova di una singolare attenzione universalistica, retrocedendo
verso la poesia ebraica e perlustrando le letterature straniere.
Ma il nome a cui occorre rifarsi per l’importanza nel panorama della storia della letteratura
è quello di Girolamo Tiraboschi (1731-1794). Fu autorevole esponente di quella cultura
gesuitica cui erano appartenuti Quadrio e altri storiografi. Tiraboschi pubblicò i dieci volumi
della sua Storia della letteratura italiana (1772-1782) con ampliamenti in successive
edizioni. La ricerca si qualifica per alcune caratteristiche. Intanto sceglie di affondare le
radici in quel che aveva preceduto la nascita della letteratura nazionale, dunque, nel caso
italiano, il terreno etrusco, magnogreco e latino. Allarga gli interessi della produzione in
versi e in prosa alla filologia, alla storia, agli studi scientifici e giuridici, facendo coincidere
nei fatti il termine “letteratura” con quello più ampio di “cultura”. Infine, adotta la
narrazione cronologica, abbandonando l’ordine ancora vincente dei generi e delle biografie
e istituendo la periodizzazione per secoli.
Saranno i romantici (da Foscolo a De Sanctis) a contrapporsi a un metodo che lasciava poco
spazio all’ascolto della grande poesia, al coinvolgimento interpretativo.

3. Un secolo teatrale

Pietro Metastasio
Nato a Roma nel 1698, Pietro Trapassi aveva conosciuto ben presto la benevolenza di
Gravina, che ne disciplinò il “naturale talento” con i severi studi della classicità e del
diritto. Nel 1712 il precettore condusse il discepolo in un viaggio di studio a Napoli e in
Calabria dove lo affidò a Caloprese affinché completasse la sua educazione alla luce delle
nuove istanze del pensiero razionalistico. Quando nel 1718 Gravina morì Metastasio ne
diventò l’erede. Per quanto siano presenti elementi eterodossi rispetto allo stile caro a
Gravina, relativi soprattutto alla produzione idillica, i testi pubblicati sono nel loro insieme
un prodotto dei primi studi. Rispetto ai precetti di Gravina, che aveva predicato la non
ammissibilità della passioni amorose all’interno del sistema tragico e la rigida osservanza
dell’unità spazio-temporale, Metastasio è dunque in difetto (Giustino).
A Napoli Metastasio matura scelte decisive. Da un lato, egli recupera pienamente la lezione
visiva e musicale del tassismo meridionale. Dall’altro, dopo aver sperimentato la breve
misura teatrale delle favole mitologiche per musica, imbocca la via del melodramma.
La scelta a favore di questo genere misto risulta delicata. Occorreva ristabilire il primato
della parola all’interno dell’organismo melodico, per non correre il rischio d’essere
risucchiati nella prassi seicentesca. In quegli anni aveva iniziato a lavorare su questo
progetto Apostolo Zeno, presso Vienna. Per Metastasio Vienna appariva un desiderato punto
di riferimento. Nel frattempo l’atmosfera della città partenopea poteva suggerirgli modelli
letterari di solido impianto e di buona agilità. Nacque così la Didone abbandonata (1724).
L’argomento tratta dell’amore di Enea e Didone, vedova di Sicheo e regina di Cartagine.
Già evidente nella scocciatura scenica, l’esempio tassiano (Gerusalemme liberata) si fa
decisivo per la fitta serie di modulazioni che articolano il discorso dei personaggi oltre il
diagramma virgiliano (Eneide). Il flusso dell’azione drammatica o già destinato ai recitativi,
di nuova complessità e arcatura, mentre alle arie è affidato il compito di isolare gli stati
sentimentali in una zona poetico-contemplativa. Il drammaturgo si è dunque avviato con
sicurezza sulla via della riforma del genere. La sua originalità si coglie dal confronto con
Zeno.
Scegliendo un brano di storia bizantina come traccia del suo secondo melodramma, Siroe,
Metastasio si avvicina più che mai ai modelli zeniani. Tuttavia le novità sono ben visibili.
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Metastasio reinventa, ben oltre Zeno, un personaggio mobile e inquieto, profondamente


innamorato e pronto al sacrificio di sé. Proprio la zeniana aspirazione alla virtù spinge però
Metastasio a confrontarsi ancora con la tradizione ‘romana’, perseguita dallo stesso Zeno in
alcune sue opere e sopratutto indicata da Gravina. Fu così che nel 1728 decise di affrontare
l’impegnativo soggetto del Catone in Utica. Il drammaturgo introduce un reagente amoroso,
affidato al rapporto che lega la figlia di Catone a Cesare, suo nemico. A lungo, nei tesi duelli
verbali tra padre e figlia, l’analisi dei sentimenti e la discussione politica crescono di pari
passo. Ma a vincere è l’inestinguibile passione libertaria di Catone, difensore del dovere
repubblicano. La morte dell’eroe è segnata dalla forte battuta antitirannica che risuonerà
nella Virginia afieriana e nel leopardiano Bruto minore. Un discorso sulla tirannide sarà
argomento di un altro melodramma ‘romano’, l’Ezio.
In attesa di riprendere la materia storico-civile in anni successivi, il drammaturgo dedicò
allora l’intero spazio alla componente amorosa. L’apice di questa sperimentazione fu
raggiunto dall’Artaserse (1730) e ritenuto concordemente dalla critica come il provvisorio
punto di arrivo della stagione italiana. Nella drammaturgia metastasiana anche il discorso
sulla mitezza regale è, accanto a quello della generosità amicale, destinato ad ampliarsi.
Gli elogi alla famiglia imperiale contenuti nei versi del periodo napoletano, l’indagine sul
primato della dignità regale avviata in molti melodrammi e culminante nel congedo
dell’Artaserse in esaltazione della “clemenza assisa in trono” attirano l’attenzione di Carlo
VI e dei suoi osservatori. Quando il poeta ricevette l’invito a trasferirsi a Vienna non ebbe
esitazioni. L’arrivo nella capitale austriaca pose a Metastasio non pochi problemi.
Innanzitutto gli corse l’obbligo di comporre simultaneamente secondo tre generi.
Ma fu sopratutto il nuovo pubblico colto, internazionale e ristretto del teatro di corte a
condizionare alcune scelte di scena e scrittura. La teatralità ancora barocca di molti
melodrammi italiani lascia il posto a soluzioni più sobrie, meglio rispondenti alla severità
dell’insieme. La scommessa è particolarmente rischiosa. Ma la messinscena del Demetrio
(1731) coglie nel segno. Costruito sulle qualità interne della rappresentazione il
melodramma affascinò l’illustre platea. E’ reintrodotto il tema già svolto nella Didone sul
contrasto tra il regno e l’amore. Gli sviluppi e le modifiche apportate agli esiti liberamente
emotivi del celebre ‘esordio’ napoletano sono tuttavia rilevanti. Nella studiata
concentrazione del Demetrio Metastasio sta raccordando lo studio degli stati d’animo al
dibattito sulla figura del sovrano ideale, i diritti “privati” della persona ai doveri riguardanti
il “pubblico” bene. Sarà il lieto fine a sancire la conciliazione tra le diverse sfere.
Fu con l’Olimpiade (1733) che la ricerca metastasiana proseguì sulla via maestra. Metastasio
trae molti argomenti da fonti storiche e mitografiche che hanno tuttavia scarsa ricaduta sul
piano tematico-narrativo. Di ben altra incidenza sono i reagenti teatrali di una moderna
tradizione a cui Metastasio non smette di guardare. Ma, a questa altezza sperimentativa,
agisce anche il lascito di un altro genere teatrale, quello della pastorale. Vi alludeva la
luminosità dell’ambientazione marittima e bucolica con cui si era aperto il Demetrio. E sarà
l’Olimpiade ad accostarvisi in misura ancora maggiore. Si è certo in presenza della
fondamentale conquista di un Metastasio riformatore dell’organismo melodrammatico e
delle sue espressioni stilistiche. L’ultimo segmento dell’ideale trittico, che parte dal
Demetrio e attraversa l’Olimpiade, fu il Demofoonte (1733). A una prima lettura questo
melodramma appare diverso. Si è a un punto nodale dell’itinerario metastasiano.
Da un lato infatti l’indagine profana nei territori del tragico dialoga strettamente con i
risultati della coeva melodrammaturgia delle “azioni sacre”: tra il 1730 e il 1735 nacquero
le più rilevanti. D’altra parte il ribaltamento della tragicità in letizia completa il discorso
sugli obblighi della regalità.
Con le opere degli anni Trenta Metastasio ha raggiunto il punto elevato della propria
drammaturgia. Gli è riuscito il tentativo di affidare al genere melodrammatico il compito di
occupare lo spazio tradizionalmente delegato alla tragedia. Maneggiando abilmente l’intera
gamma delle passioni, collegando le sottili arcature dei sentimenti ai gesti magnanimi della
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politica sino a fonderli nei grandi lieto fine, il poeta cesareo sa parlare alle corti europee e
alle vaste platee dei teatri pubblici, dove i suoi drammi per musica pervengono,
rimaneggiati per le diverse occasioni. La sperimentazione metastasiana non si conclude nel
decennio in questione. Per molto ancora Metastasio dominò le scene di Vienna e d’Europa,
diventando l’interprete più autorevole di quella impegnata drammaturgia della felicità cui
tende l’intero secolo. Alcuni melodrammi si disporranno sulla linea d’approfondimento delle
responsabilità civili e sovrane. Con Temistocle (1735) e l’Attilio Regolo (1740) si scolpisce il
ruolo eticamente austero del cittadino, a fronte di quello indulgente dell’imperatore. Con
testi di rinnovata ambientazione arcadica o di inediti straniamenti esotici si sceneggia una
vera e propria pedagogia sui doveri di governo, rivolta ai giovani principi di casa d’Austria.
Naturalmente, Metastasio non aveva smesso di interessarsi al pathos amoroso, ai suoi
eccessi e alle sue delimitazioni. Ma con la messinscena del melodramma Nitteti accade
qualcosa di diverso. Destinata alla corte madrilena, la vicenda eroico-sentimentale è
segnata da una drammaticità musical-spettacolare sconosciuta in precedenza. La vibrante
sonorità della Nitteti è dovuta alla musica di Christoph Gluck. Gluck si accingeva a proporre
un’ultima riforma settecentesca della struttura melodrammatica, sostanzialmente affidata
al predominio della musica su prolungato recitativo declamato. L’intonazione gluckiana
lasciò perplesso Metastasio, che intanto aveva iniziato un sodalizio con Adolph Hasse.
Indiscusso rappresentante della cultura poetico-musicale di metà secolo, Metastasio rifinì
un’opera di grande pregio, l’epistolario. Il poeta aveva trasferito dubbi e melanconie
dall’intimità dell’<io> ai personaggi spesso autobiografici della finzione teatrale, aveva
sublimato le proprie ansie per mezzo della distanza scenica. Il vasto corpus delle lettere,
organizzato secondo una pratica di scrittura, tra le più affascinanti del Settecento,
anticipatrice delle moderne “confessioni”, restituisce la parte nascosta di quel processo
terapeutico, svela le tensioni che alimentano le <belle favole> e si placano in esse.
L’aspirazione a una finale ricomposizione si fa però dominante nelle ultime lettere.
Metastasio muore il 21 aprile 1782.

Carlo Goldoni
Molte lettere metastasiane documentano la laboriosità di un percorso drammaturgico mai
affidato alla sola pagina scritta ma costruito a caldo, verifica dopo verifica.
Questa qualità autenticamente riformatrice appartiene di diritto a Carlo Goldoni, più
interno ancora di quanto non fosse Metastasio alla concreta vita del teatro.
Nato a Venezia nel 1707, Goldoni fu inviato dal padre al Collegio Ghislieri di Pavia, per
frequentare gli studi giuridici. In realtà, il precoce innamoramento per il mondo della scena
lo portò a differire il raggiungimento della laurea, ottenuta a Padova in anni successivi, e a
far ritorno in laguna, dove organizzò spettacoli per dilettanti e iniziò a comporre intermezzi
e tragedie per musica. La decisione di dedicarsi alla professione teatrale è dovuta
all’incontro con il capocomico Giuseppe Imer. Dopo il rientro in patria la collaborazione con
Imer si sviluppa lungo un tratto ancora sui diversi registri dei drammi giocosi e seri, musicati
e non, per stabilizzarsi sulla commedia. Ma cos’era avvenuto del genere comico, fino al
momento in cui vi si accosta Goldoni, è da riassumere.
Come nel corso del Seicento il melodramma aveva conosciuto un processo di allentamento
delle proprie strutture compositive, così era capitato alla commedia. A porre rimedio a una
prassi scenica tanto indebolita quanto diffusa avevano provato a inizio Settecento i
cosiddetti “precursori toscani” della riforma. Le prove dei primi riformatori, per quanto
fortunate, non avevano tuttavia oltrepassato i confini degli ambienti colti. La loro incidenza
sulla prassi teatrale del tempo era stata quasi nulla. La scelta d’operare nel vivo di una
situazione per un verso dinamica e per l’altro minacciata da fenomeni di venalità e
corruttela era perciò nei fatti. Non stupisce che il commediografo veneziano maturi il
proprio mestiere sulle tavole di palcoscenico, a stretto contatto della troupe comicale.

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L’approccio prevalentemente empirico al teatro spesa perché fin dagli esordi Goldoni
intervenga con decisione sui ruoli. Il protagonista del trittico Momolo cortesan (1738-40),
privo di maschera, usufruisce del testo interamente scritto, mentre i coprotagonisti si
muovono ancora sulle tracce dell”improvviso”. Intanto il tempo della collaborazione con
Imer volgeva al termine e il poeta si trasferì a Pisa.
Il soggiorno pisano è importante nel percorso biografico e artistico dello scrittore in quanto
lo pone a contatto con ambienti intellettuali nazionali aperti alle novità, tali da consentirgli
una maturazione civile che agirà nelle opere seguenti. Il distacco dalle turbolenze
veneziane non interrompe il rapporto con i comici. Al contrario proprio a Pisa il
commediografo viene raggiunto da Antonio Sacchi, che gli propone l’argomento del
Servitore di due padroni, ideato sotto forma di canovaccio per le straordinarie doti
funamboliche dell’attore e solo in seguito scritto compiutamente. Si incontra anche con il
Pantalone Cesare D’Arbes e Girolamo Medebach. Dopo la scrittura dell’Uomo prudente
Goldoni rientra a Venezia. Lo attende il successo della Vedova scaltra, dove a recitare è la
moglie di Girolamo, Teodora Medebach.
Non più soltanto poeta di compagnia, ma autore riconosciuto, Goldoni iniziò con Medebach
e i suoi attori un robusto sodalizio, marcato dai primi significativi risultati della forma. Da
un lato stanno le commedie che si appoggiano ancora ai meccanismi collaudati; dall’altro le
commedie che incidono realisticamente nel contesto sociale e nei suoi “caratteri”
rappresentativi: Il padre di famiglia. Nel mezzo, però, si collocano alcuni testi di notevole
interesse, testimonianze di una ricerca aperta a vasto raggio.
Quando vengono sceneggiate le vicende della Putta onorata (1748) concluse l’anno
successivo nell’ideale seconda parte della Buona moglie così da formare il dittico di Bettina.
Da quelle fonti riemergono l’ambientazione tra le calli veneziane, l’uso corposo e vario del
dialetto, le movenze delle maschere, anche il topos della fanciulla perseguitata, di larga
fortuna romanzesca, accentuata in questo caso dai risvolti noir di accoltellamenti e
uccisioni. Nella visione goldoniana della Putta e della Buona moglie quella materia subisce
tuttavia un forte scuotimento. Il dittico imposta altri temi decisivi. Intanto l’avvertimento
di un disagio familiare e collettivo, di cui il teatro si fa carico. In secondo luogo si
intravedono motivi e soluzioni destinati a svilupparsi. Parlando della Putta onorata e della
Buona moglie non si insiste dunque su testi mediani, o di mediazione, ma su pièces dotate di
sicura volontà sperimentativa. Del fatto che a essa corrispondano non pochi squilibri e
ipertrofie compositive non sarà solo il grande rivale di Goldoni, Carlo Gozzi, ad
accorgersene, ma l’autore stesso. Occorreva ricompattare le trame, selezionare sui
personaggi, forzando comunque quel nesso tra realismo e moralità su cui aveva puntato
anche il dittico di Bettina.
Già nelle prime prove Goldoni si era cimentato con la figura del mercante veneziano e la
relativa tematica. Con la collaborazione del Pantalone D’Arbes, prende forza un percorso
che affida alla parte del “vecchio” la rappresentanza del medio ceto cittadino, con i suoi
valori di operosità e onestà, radicati nello spessore dialettale della lingua, negli ideali
sanamente ruvidi di chi sa far di conto. Della doppia linea, giocata sul contrasto tra la
condotta scapestrata dei giovani e quella prudente dei vecchi, darà ancora ragione il teatro
goldoniano, addossandole nuove responsabilità.
La commedia è molto importante. Anzitutto per la sua qualità di manifesto politico-
programmatico, basato sui cardini di una educazione domestico-mercantile che va
nuovamente orientata sugli assetti stabili e gerarchicizzati, garanti della solidità
complessiva della società costruita.
Come sempre accade in Goldoni l’ideologia non prescinde dall’invenzione teatrale, i
contenuti si calano nel mezzo scenico, pronti a mutare per suo tramite. Si arriva insomma al
nodo della scelta drammaturgica. Mai come ora Goldoni si fa rispettoso dell’unità di luogo e
di tempo poiché tutto si compie nell’arco di una giornata, all’interno delle pareti abitative.
Questa struttura compositiva ricalca quella della cosiddetta “tragedia domestica”.
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Attraverso un intenso lavoro la costrizione scenica verrà movimentata dall’interno, fino a


cambiar segno ai contenuti, a scompigliare ordini e gerarchie.
L’anno del Padre di famiglia, 1750, fu quello in cui Goldoni s’impegnò con Medebach a
fornirgli per la successiva stagione autunnale 16 commedie nuove. A una di esse, Il teatro
comico, lo scrittore assegna la funzione di rappresentare un chiave metaletteraria i principi
della riforma, consegnando ad Orazio (capocomico) le proprie idee sulla necessità di
lavorare sui “caratteri”, adottare stesure d’autore, collegare l’ambito del “teatro” a quello
del “mondo” per mezzo di un’arte recitativa accordata con il “verosimile” e il “naturale”.
Altre commedie si incaricarono di approfondire attraverso i personaggi eponimi lo studio di
singoli modelli di comportamento, negativi o positivi che siano.
Autentica chiave di volta del sistema goldoniano risulta essere La bottega del caffè.
Dopo la rottura con Medebach, Goldoni si trasferì a San Luca, di proprietà dei fratelli
Vendramin. Il passaggio segnerà una svolta nella drammaturgia goldoniana, anche a causa di
ragioni obiettive. La compagnia del San Luca non intendeva rinunciare del tutto al
repertorio tradizionale. Un palcoscenico di ampie dimensioni si rivelava inadatto a
rappresentazioni che eliminassero gli elementi spettacolari per favorire il solo studio del
“caratteri”. Si spiega così la fatica di quegli anni per far fronte alle difficoltà e si giustifica
la crisi che colpì il commediografo dopo alcuni insuccessi, inducendolo a viaggiare molto, in
cerca di conferme. E tuttavia queste circostanze diedero modo a Goldoni di ampliare lo
spettro della ricerca.
Non appena poté tornare sul filone veneziano offrirà risultati di grande rilievo, sopratutto
con il Campiello (1756), insieme di caratterizzazioni e voci che si concentrano sulla scena
stabile della piazzetta e attraggono il forestiero, tra scoppi di morbin, l’allegra voglia di
divertirsi, e di baruffe. Ma anche quando sembra smarrirsi dietro mode circolanti in Europa,
Goldoni ritrova le fila di un discorso mai interrotto, i nuclei forti della propria ispirazione, e
li modula in avanti, pronti a nuove saldature. Dando vita alla spiccata figura di Mirandolina,
Goldoni aveva dotato di piena carica fascinatrice il personaggio femminile. Sul piano della
complessità sentimentale restava ancora molto da dire. Con la stesura della Trilogia
persiana la linea melodrammatica si dilata e si modifica. A partire intanto dalla struttura. Si
parla infatti di una triangolazione amorosa; in corrispondenza dello sviluppo delle passioni
la vicenda si dispone lungo un trittico, ampliando lo schema a dittico su cui le peripezie di
Bettina anche quelle di Pamela si erano assestate, con la conclusione della Pamela
maritata; l’interpretazione vive su due timbri femminili, della sposa tradita e della volitiva
amante. Anche dal punto di vista dei contenuti le novità sono rilevanti. Il filtro scenico
dell’esotismo ha allontanato gli accadimenti, proiettandoli in un’altra realtà.
A rinforzare il procedimento interviene l’impiego della versificazione martelliana: in questo
caso l’ampia e ritmata cadenza dei doppi settenari uniti in distici baciati serve a innalzare
lo stile, a superare la misura della colloquialità prosastica con un maggiore grado di
connotazione, distanziante appunto. E’ così che possono proporsi gli scottanti temi della
critica alle convenzioni.
Siamo alla vigilia dei grandi capolavori dei primi anni Sessanta. A Bologna, compose Gli
innamorati. Fulgenzio ed Eugenia, gli amanti in questione, conoscono gli sconvolgimenti del
turbamento amoroso, tanto più tempestosi perché imprevisti, nati dal nulla, senza che
alcuna occasione li provocasse. Leggero e profondo insieme, rappresentativo della
condizione irragionevole cui può condurre la passione, il testo degli Innamorati è
straordinario di per sé. Ma funziona anche da traccia per l’ideazione della Trilogia della
villeggiatura (1761). Goldoni, all’impazzimento della protagonista da corrispondere quello
dell’intera società circostante. Per ristabilire l’ordine non bastano più gli ammonimenti del
buon padre: occorre l’intervento di un altro orchestratore, Fulgenzio, che indica la difficile
soluzione. Perché si possa tornare all’auspicata normalità sperimentale ed economica
Giacinta deve congedarsi da Guglielmo, sposarsi con Leonardo e recarsi con lui nella lontana
Genova. In nessun caso però l’apparente lieto fine sana le ferite aperte.
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Nel teatro goldoniano s’affaccia e si esorcizza l’ombra delle relazioni adulterine. Anche dal
punto di vista dell’analisi politico-sociale l’affondo goldoniano è rilevante. Sul topos della
villeggiatura Goldoni aveva a lungo riflettuto, nei testi ambientati tra gli ozi di campagna.
Nel vasto affresco delle Trilogia ogni residuo di progettualità virtuosa vien meno, la
villeggiatura si fa metafora del malessere dell’intera borghesia.
Le ambientazioni toscane del trittico e quelle milanesi degli Innamorati indicano la volontà
di rappresentare una condizione nazionale. Ma la specifica realtà di Venezia continua ad
attirare il commediografo, sopratutto perché la crisi economico-istituzionale si faceva
sempre più evidente a causa della stagnazione dei traffici e della debolezza riformatrice
della classe di governo. In due commedie di poco precedenti alla Trilogia, i Rusteghi e la
Casa nova ( inizio 1760), Goldoni tornò a dire su uno dei cardini del suo teatro, dove un
tempo aveva regnato pressoché indisturbato Pantalone. Proprio sul personaggio del vecchio
pater familias si rivolge nuovamente l’attenzione del commediografo.
Dopo aver preso le distanze dalle manifestazioni corrotte dell’aristocrazia in anni precoci,
dopo aver analizzato mentalità e atteggiamenti delle classi intermedie con stratigrafie
sociali e generazionali particolarmente affinate, Goldoni si rivolse nuovamente al mondo
popolare per il quale da sempre aveva provato curiosità e interesse. Con le Baruffe
chiozzotte il sipario si apre su una “strada con varie casupole” per poi mutare in una
“veduta sul canale” e “varie barche pescherecce” all’attracco. Se oltre a rappresentare una
classe civile ormai assente il ruolo del coautore assomiglia a quello del regista in
palcoscenico, alter ego di Goldoni, il finale delle Baruffe assume la valenza metateatrale di
un commiato all’universo del “popolo basso”, colto nel suo momento di massima vitalità ma
illuminato anche da luci illividite.
Un estremo congedo dall’intero ambiente del teatro veneziano è esplicitamente sceneggiato
in Una delle ultime sere di carnovale: i saluti e i ringraziamenti che il protagonista rivolge
ai convitati allegorizzano quelli di Goldoni al suo pubblico. Poco dopo, nel 1762, il
commediografo si mise in viaggio verso Parigi. Nella capitale francese, dove visse fino alla
morte, avvenuta nel 1793, fornì di commedie a soggetto la Commedie italienne che lo aveva
chiamato perché tornasse alle fonti della sua drammaturgia, insegnò lingua italiana alla
corte di Versailles, licenziò commedie di carattere, scrisse i tre tomi dei Mémoires, da
annoverarsi tra le migliori autobiografie del Settecento europeo. Ma la sostanza con cui
Goldoni rivolge pensieri e progetti a Venezia sta a indicare il rimpianto per una stagione
insuperata.

Carlo Gozzi
Tra i motivi che convincono Goldoni ad abbandonare Venezia c’è l’inaspettato successo di
una formula teatrale oppositiva d’ogni idea di riforma, quella gozziana. Nato a Venezia nel
1720, Carlo Gozzi aveva manifestato la sua ostilità nei confronti della vittoriosa civiltà dei
lumi imitando provocatoriamente gli scrittori della tradizione tre-cinquecentesca toscana,
divenendo capofila dell’ala più oltranzista della veneziana Accademia dei Granelleschi,
nemica di ogni novità ideologica e formale, e sconfiggendo dall’interno del sodalizio la
corrente più moderata e aperta al dialogo con la contemporaneità, guidata dal saggio e
“illuminato” fratello maggiore, Gasparo. Già in molti interventi di fattura ancora
“granellesca” come la Tartana degli influssi per l’anno bisestile 1756, lo scrittore aveva
dato prova di una notevole capacità di muoversi a contrappelo nel campo privilegiato della
drammatica, tema che costituirà il filo del poema eroicomico La Marisa bizzarra.
Fu l’incontro con Antonio Sacchi a determinare il salto di qualità, dalle pastoie accademiche
a una effettiva pratica di scrittura che lo rese riconoscibile tra gli autori di teatro del
secondo Settecento italiano ed europeo.
- L’amore delle tre melarance: la pièce racconta la storia di un principe malinconico la cui
felicità e la cui stessa vita dipendono dal ritrovamento di tre pomi incantati, per una
maledizione scagliata dalla nemica fata Morgana. Malamente protetto da Celio, mago di
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scarso valore, il principe partirà per la ricerca. La fiaba ha diverse declinazioni


folcloristiche e una precisa ascendenza letteraria, la novella I tre cedri di Giovan Battista
Basile. Quel che conta notare è l’intenzione allegorico-parodica che guida la
sceneggiatura gozziana. Questa volontà è certificata dallo stesso Carlo quando dieci anni
dopo decide di pubblicare la fiaba nell’inconsueta forma di una “analisi riflessiva”.
Dopo aver attentamente analizzato le reazioni del pubblico, Gozzi capisce che la fiaba di
magia ha in sé una potenzialità drammaturgica da non sottovalutare. Invece di insistere sul
nesso maschere-parodia, lo scrittore scommette per intero sull’effetto-spettacolo.
L’intenzione di costruire testi sopratutto antigoldoniani non viene meno. Ma per realizzarla
il commediografo sceglie ora una diversa via, che esclude la polemica diretta, lo sberleffo
derisorio e si affida invece alla forza delle singole forme teatrali, degli specifici piani del
linguaggio che vengono studiati e montati per sceneggiare nuovi racconti. Questa
importante svolta venne messa a fuoco nelle fasi di stesura del Corvo e del Re cervo.
L’impiego di testi autorizzati consente al commediografo di sbozzare e ricostruire storie ben
definite. E gli permette inoltre di far convergere intorno a quelle storie l’intero repertorio
recitativo che aveva già esibito nelle Tre melarance e che intendeva ulteriormente
rivitalizzare.
Nel 1762, Gozzi mise mano alla Turandot. Con quest’opera, ricavata anch’essa, dal
repertorio della novellistica franco-orientale, Carlo sfida i propri detrattori. Elimina cioè
quegli effetti di magia e trasformazioni che potevano facilitare un facile consenso di
pubblico ed evidenzia i temi seri e declamati dell’ispirazione. Il commediografo concentra
la trama sui duetti dei protagonisti, sui bei gesti dell’uno e la tormentata resistenza
dell’altra, in un crescendo melodrammatico che offre le diverse variazioni della generosità,
dell’orgoglio, dell’onore, dell’amore infine. Il nucleo drammatico-patetico che sorregge
l’inconsueta favola acquista dunque uno spicco decisivo.
Dall’inesauribile serbatoio “orientale” lo scrittore ricava una seconda, “folle” storia
d’amore che è insieme una bella fiaba di magia: La donna serpente. Compito del registro
fiabesco e degli intensi correlativi spettacolari sarà quello di divaricare ulteriormente il
piano della realtà, stralunata, degli zanni, o assennata, dei magnifici, dal quello, vittorioso,
del sogno. Il risultato raggiunto nella Donna serpente è decisivo, ricco di indicazioni
metateatrali. Le successive opere fiabesche si limitano a riporre schemi ormai sfruttati, che
l’autore non riesce a innovare. Gozzi avverte però l’esaurissi della propria inventiva e
reagisce. Da consumato sperimentatore qual è decide di riscompigliare tutto, di riproporre
per altre vie le proprie, immutabili idee sul teatro, di riattraversare temi e atmosfere
settecentesche con nuovi tagli e montaggi. Scrive l’Augellino belvedere, ideale
prosecuzione dell’Amore delle tre melarance. La decima fiaba, Zeim re de’ Geni, del
novembre 1765, non spegnerà l’eco degli applausi che avevano salutato nell’Augellino il
vittorioso congedo gozziano.
La pièce non ha finalità parodica e neppure esalta il primato alternativo ed esclusivo dei
grandi gesti e sentimenti. E’ invece “filosofica”, interessata cioè a delineare un itinerario
d’educazione. Il reagente fiabesco-teatrale interviene non già per operare scarti rispetto
alla realtà, per opporvi altri mondi compatti e irraggiungibili ai più, ma per attraversarla,
mutarla, e indicare così nuove convinzioni e comportamenti. Il fluire del racconto e delle
sorprese sceniche si fa rapido, il ritmo così raggiunto alleggerisce le stesse ipoteche
ideologiche e coinvolge protagonisti, comprimari e spettatori in una collettiva e aperta
conversazione finale. E’ la soluzione forse più brillante, certo più nota dell’intero del teatro
di Carlo Gozzi.
Dopo gli anni delle Fiabe, l’importazione del dramma serio di matrice anglo-francese e la
decadenza del mestiere attorico allontanano definitivamente dai palcoscenici di Venezia le
maschere. Mentre Goldoni vive lontano, l’anziano Gozzi scrive la Memorie inutili,
autobiografia leggibile non solo in chiave antigoldoniana ma come affascinante
ripensamento di una soggettiva e angolata esperienza all’interno di una società al tramonto.
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Mentre tra fine Sette e inizio Ottocento, con un significativo rovesciamento delle parti
rispetto alle vicende ‘in vita’, Goldoni recupererà in patria il posto che gli spettava, è Gozzi
a essere esiliato. Ma di esilio fortunato si tratta. Adattando le Fiabe in versioni tedesche
Goethe, Tieck e Schiller sanciscono autorevolmente il carattere sentimentale della libera
fantasia, dando così vita alla Gozzische Manier. Rivalutando a sua volta il carattere
costruito, riflesso, metateatrale della settecentesca sperimentazione gozziana, un altro
romantico, Hoffmann, ne rilancia l’esempio in direzione Novecento, verso la ripresa delle
avanguardie russe, del teatro in musica, della rinnovata fortuna odierna.

4. Il secondo Settecento

Giuseppe Parini
Saldamente impiantata nella cultura milanese della metà del Settecento, l’opera di
Giuseppe Parini rappresenta il momento di svolta dalla fase ancora arcadico-razionalistica
del secolo, a una seconda in cui la matura lezione dell’Illuminismo viene recuperata
all’interno di una concezione della poesia che, se da un lato poggia su una inedita
rivendicazione del ruolo politico-civile del letterato, dall’altro segna lo sviluppo verso le
nuove forme del classicismo e del neoclassicismo.
Parini era nato in Brianza, il 23 maggio 1729. Nel 1739 fu mandato a Milano presso le scuole
dei padri barnabiti per continuare gli studi. Quando ricevette gli ordini, nel 1754, Parini era
appena stato accolto dall’Accademia dei Trasformatori e aveva cominciato a lavorare come
precettore di casa Serbelloni. Attraverso le frequentazioni del mondo accademico e della
società aristocratica Parini si era insomma avviato a percorrere una lunga carriera di onoro e
fatiche. Privo di occupazione dopo il distacco dai Serbelloni, il poeta accettò l’incarico di
istruire il giovane Carlo Imbonati, destinato a diventare figura di rilievo nella cultura
italiana di fine Settecento. Ma fu per merito del ministro Carlo Firmian se Parini fu chiamato
a incarichi sempre più rilevanti. Nel 1768 fu nominato poeta del Regio Ducale Teatro. L’anno
dopo fu chiamato a professare Eloquenza e Belle Lettere nelle scuole Palatine. Nel 1776
ebbe l’incarico di insegnare agli allievi della Accademia di Belle Arti.
Parini era divenuto ormai il letterato di riferimento, nella rinnovata Milano degli anni
Settanta, attivo in molte direzioni: poetica, teatrale, artistica.
Quando Parini era entrato nei Trasformati (1753) l’Accademia cinquecentesca manteneva la
propria autonomia rispetto all’Arcadia romana. Da una prospettiva esclusivamente letteraria
era si appoggiava a schemi conservativi, tanto da causare il polemico allontanamento dei
Verri, ostili verso la convenzionale rimedia d’occasione. Ma coltivava anche la specifica
tradizione della poesia dialettale. La prima raccolta in versi pariniana, le Rime di Ripano
Eupilino (1752), agisce nel solco dei Trasformati, per almeno due ragioni. Intanto il suo
autore vi dimostrava una sicura padronanza versificatoria, cimentandosi in vari argomenti di
varia specie. In secondo luogo, dalla rimeria comica di Ripano stava emergendo un nucleo
parodico-satirico che si sarebbe ben presto reso libero dall’autoreferenzialità dei modelli
quattro-cinquecenteschi, in cui si dibattevano invano i sodali veneziani dei Granelleschi, per
imporsi con novità d’intenti. E’ a questo livello tematico che agisce positivamente la forza
polemica della citata linea dialettale, direttamente rivolta alla realtà sociale. Nelle poesie
scritte dopo il 1752 aumenta il peso della satira, appuntata contro le pessime abitudini
dell’ossequio letterario o del mondo teatrale ma intenzionata più ancora a colpire la
superstizione delle “plebi” ignoranti, la religiosità ipocrita, sopratutto gli intollerabili
privilegi dei ceti abbienti.
Tra l’impiego di componimenti in terza rima e il nuovo uso degli endecasillabi sciolti fa la
sua comparsa la prosa. Il testo più significativo è il Dialogo sopra la nobiltà, del 1757.

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In quest’opera viene demolito il concetto stesso di nobiltà, che “spogliata della virtù, della
ricchezza e de’ talenti” non si beffe su altro, e vi si contrappongono i principi egualitaristici
di sanità morale e utilità sociale.
Fuor di finzione letteraria, lo scrittore si stava intanto dedicando a controbattere tesi di
carattere fondamentalmente linguistico, che avvertiva come pericolose per l’insegnamento
ai giovani e per la pratica corrente. La prima polemica riguardava alcune considerazioni
espresse da padre Alessandro Bandiera, sostenitore di un ritorno alla prosa toscaneggiante,
a cui Parini aveva indirizzato una Lettera dove rivendicava la semplicità, la chiarezza e
l’efficacia dello scrivere attuale a fronte dei tortuosi periodi di lascito boccacciano.
Di ben altra ampiezza risultò però una seconda disputa, aperta questa volta, con il suo
antico maestro, il padre Onofrio Branda, autore dei dialoghi Della lingua toscana, anch’essi
rivolti agli strumenti linguistico-stilistici del passato. L’intento pariniano consiste nel
respingere le pesanti accuse mosse da Branda ai poeti dialettali milanesi. Ma la difesa
dell’uso del dialetto nella poesia collega direttamente alle moderne teorie della lingua, per
cui ogni espressione linguistica è di per sé degna di “dire e scrivere belle ed ottime cose”.
La polemica non si chiude su questo punto. Branda aveva infatti criticato il dialetto
milanese quale lingua della plebe e delle donne e Parini non ha difficoltà a ricordargli i suoi
doveri di “cittadino, cristiano e religioso”.
L’impeto umanitario che caratterizza queste affermazioni troverà piena realizzazione nel
Discorso sopra a carità (1762). L’anno prima un altro intervento accademico, il Discorso
sopra la poesia, aveva offerto la misura di quanto Parini stesse ragionando sui cardini del
nuovo fare poetico, da realizzarsi con la fusione di più sollecitazioni, sensistico-
classicistiche da un lato, e utilitaristiche dall’altro, dal momento che il poeta deve esser
mosso dall’amore del bene, secondo la prospettiva “caritatevole” che si delineerà con forza
nel secondo discorso. E’ evidente però che simili osservazioni devono essere controllate alla
luce dei risultati poetici. Tanto più che si è ormai nel mezzo della composizione delle prime
odi e alla vigilia della pubblicazione del Mattino.
Tra il 1758-66 Parini scrisse un gruppo di 7 componimenti che anni dopo il giovane discepolo
Antonio Gambarelli inserirà nella raccolta maggiore di 22 odi, isolate dal resto della rimeria
pariniana, come autonomo e strutturato ‘libro’ di poesia. Fino al momento in cui vi mette
mano Parini la struttura metrica dell’ode era stata adoperata dai rimatori arcadi, e da loro
sicuramente prende spunto. Nella Vita rustica ritorna la strofa settenaria composta di due
periodi ritmici: il primo di due sdruccioli e due piani, il secondo di due piani e due tronchi
alternati. Ma progressivamente si assiste a un processo si riduzione degli effetti eufonici e
cantabili a vantaggio di una misura strofica sintetica e rinsaldata: gia nella Salubrità
dell’aria si hanno strofe di sei settenari piani. Questo compatimento dell’unità metrico-
formale serve a Parini per sostituire alle evasive galanterie arcadiche contenuti di maggiore
pregnanza, indicati dalla voce ferma e libera del poeta. La concretezza degli argomenti, la
resa realistica di molti squarci narrativo-descrittivi, non abbassa tuttavia il registro
lessicale, sintattico e stilistico. Accade l’opposto. Parini modella la propria lingua poetica
sulle fonti classiche, la rielabora dotandola di una “evidenza” che fissa le immagini
sensoriali in un’aura di elegante perfezione. Nell’Educazione compare il mito di Chirone e
Achille. Attraverso la favola del saggio centauro, maestro del giovane eroe, il poeta illustra i
precetti autenticamente religiosi e umanitari a cui il discepolo deve attenersi. Il
componimento, scritto nel 1764, si colloca del resto tra l’uscita del Mattino e quella del
Mezzogiorno, i poemetti destinati, con la progettata Sera, a costituire le tre parti del
Giorno, titolo con cui si designa l’opera maggiore di Parini, rimasta tuttavia incompiuta.
Composto in eleganti endecasillabi sciolti, il Mattino viene pubblicato nel 1763, dopo un
lungo periodo di elaborazione. Anche in questo caso i lettori ascoltano le parole di un
precettore che si rivolge al “giovin signore”: quanto narrato e descritto va inteso in senso
ironico fino ad assumere negli episodi più penetranti l’aperto tono della satira.

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Quanto accade in seguito è narrato nel secondo poemetto, il Mezzogiorno (1765). Il ruolo di
chi narra è mutato: a descrivere la giornata del giovine non è più il precettore ma un “umil
cantore”. Anche la prospettiva si è allargata, perché dagli interni del palazzo ci si
trasferisce in spazi diversi. A contare nel Giorno è, nell’autonomia dei singoli poemetti, la
“descrizione”, il procedimento che serve a rappresentare con vivezza atti, scene, oggetti e
che consente di analizzare più a fondo le tecniche e il senso dell’operazione letteraria di
Parini. L’operazione di Parini non si risolve nella diretta parodia dell’epica a immediati fini
polemico-burleschi. Passa piuttosto da una complessa assunzione delle modalità dei poemi
omerici, virgiliani e tassiani, quasi a volerli riconvocare per un’ultima volta.
I principali appuntamenti del nuovo poema sono infatti organizzati sulla rievocazione delle
gesta degli eroi con una cura ricostruttiva sconosciuta all’eroicomico, attratto viceversa dal
rovesciamento immediato, dallo sberleffo derisorio. L’intenzione dello scrittore consiste
nell’attualizzare gli strumenti dell’alta retorica per cantare l’unica epica possibile nella
società contemporanea, quella della “moda”, dell’allentata ritualità aristocratico-mondana.
In questo senso la consuetudine del genere eroicomico di far cozzare tra loro elementi e stili
di diversa provenienza assume una funzione del tutto inedita. Nell’antitesi tra superfluità e
necessità, la descrizione dei begli oggetti sta a significare e contrario una ferma posizione
contro gli eccessi del lusso corrente, questione che si inscrive nell’ampio dibattito del
tempo e dà vita a versi esplicitamente ironici. A questa prosopopea si affianca quella del
Commercio, esaltata nella scena del banchetto da un commensale in cui la critica ha
facilmente riconosciuto il profilo di Pietro Verri. Che Parini entrasse in conflitto con le tesi
verriane, sostenute all’interno dell’ambiente del Caffè, non deve meravigliare. L’ideologia
del poeta, saldamente illuminista per la presa di coscienza storica e l’adesione ai principi
dell’umanitarismo settecentesco, era meno esposta sul versante delle audacie riformistiche
in campo economico e filosofico, più ancorata invece ai dettami di un profondo sentimento
morale. E si capisce anche quanto siano importanti nel poema pariniano i momenti in cui
l’endecasillabo sciolto flette verso accenti di commossa partecipazione ai soprusi patiti
dagli umili e di sicura denuncia delle ingiustizie, un tempo affidate alla prosa dei dialoghi e
alla poesia delle prime odi.
La pubblicazione del Mattino e del Mezzogiorno assicura intanto al poeta il pieno
riconoscimento del suo ruolo cittadino. Alle incertezze relative alla prosecuzione del Giorno
Parini contrappose un forte impegno pubblico. Nomina a poeta del Teatro Ducale: in questa
veste compose il libretto della cantata Ascanio in Alba, musicata da Mozart in occasione
delle nozze dell’arciduca Ferdinando e Maria Beatrice d’Este. Più decisiva ancora la sua
attività di insegnante presso le scuole braidensi, in particolare all’Accademia delle Belle
Arti. Dalle lezioni di Brera sono rimasti due interventi, ricostruiti sugli appunti degli allievi,
De’ principii fondamentali delle Belle Lettere applicate alle Belle Arti e De’ principii
particolari delle Belle Lettere (1773-1775). Nell’indagare i legami tra le discipline
“sorelle”, nell’assegnare alla poesia il compito di suggeritrice per le arti visive Parini non si
era fermato però alla sola teorizzazione. Ci restano di lui molti soggetti proposti ai pittori-
decoratori e spesso concretizzati. La soggettistica pariniana è fondamentalmente di
carattere mitologico, rimodellata in chiave celebrativa ed etico-pedagogica e adattata alle
forme neoclassiche che il Piermarini imponeva. Si è ormai ai primi anni Ottanta.
Il problema degli influssi piermariniani e della maturazione del gusto pariniano non è
secondario, anche perché la svolta in direzione neoclassica si fa paradigmatica dell’intera
cultura del Settecento avanzato. La poesia delle due parti del Giorno si era fondata su un
esplicito impianto classicistico, venato in molti tratti dall’aggiornata componente sensistica.
Non erano mancati neppure gli apporti residuali ma significativi del rococò letterario.
Unito ai mutamenti causati dal rinnovamento politico-istituzionale in atto, questo
svolgimento del gusto spiega la difficoltà avuta da Parini nel portare a termine il progetto
del Giorno. Restava da stendere la Sera. Nel 1791 Parini annuncia di aver pronto due
poemetti per terminare gli altri due. L’impianto complessivo dell’opera è dunque cambiato
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radicalmente. Al Mattino e al Mezzogiorno - che assumerà il titolo del Meriggio - seguiranno


il Vespro e la Notte. Ma la modifica dello schema ha comportato nel frattempo una intensa
attività correttoria, che riguarda i primi due poemetti: parti consistenti del Mattino
vengono rielaborate, alcune del Mezzogiorno transitano nel Vespro. Questa faticosa
elaborazione del poema evidenzia anche una qualche difficoltà dell’autore nel proseguire il
filo narrativo.
Il Vespro si appropria del tema già impostato nel Mezzogiorno del percorso in cocchio del
“giovin signore” e della “dama” nel passeggio serale, con l’inserimento di alcuni nuovi
episodi. Nella Notte si seguono i due amanti mentre indugiano nel corso ormai vuoto,
entrano in un nobile palazzo, dove si gioca e si danza, con nuove rassegne di personaggi.
La sperimentazione di Parini all’interno delle poetiche neoclassiche rivela i suoi effetti: le
cadenze della narrazione appaiono più lente e pacate, le figurazioni mitologiche sono
disposte in sequenze ariose. Ma la qualità del ritrattista non viene meno.
Intanto Parini era tornato a lavorare da tempo sulla linea inaugurata dalle prime odi,
raddrizzando così il rovescio della satira nella prospettiva del diretto e positivo
ammaestramento. Dopo i 7 componimenti già citati e l’isolata La laurea, compaiono altri
testi poetici, composti in anni più avanzati. Sono le cosiddette grandi odi, nate per le
singole occasioni celebrative ma leggibili secondo un percorso che si viene elevando per
stile e contenuti. |La caduta|
A completamento dell’itinerario lirico Parini scrive altri tre componimenti: Per l’inclita Nice
(1793), A Silvia (1795), Alla Musa (1795). E’ in queste alte prove che il poeta coniuga il culto
della bellezza con l’integrità della disposizione morale. Elegantemente stilizzata è la
raffigurazione della Musa che s’accosta al fianco del prediletto. Anche su questa linea Parini
si fa proposito per le generazioni successive, del Foscolo delle Odi e del Leopardi che nella
zona neoclassica dei Canti rivolgerà alla “cara beltà” apparsa in effige l’ultimo, disilluso
inno. Parini muore il 15 agosto 1799.

Tra le attitudini del secolo spicca la scelta d’adoperare la traduzione come via di
sperimentazione della lingua e delle forme poetiche. Oggetti del tradurre sono gli autori
contemporanei, d’ambito europeo. Ma nello sviluppo di un’epoca che viene rinforzando il
gusto classicistico resta decisiva l’attenzione ai poeti greci e latini, i quali vengono tradotti
con rifacimenti di alta fattura letteraria. La traduzione dei classici è in molti casi
propedeutica al formarsi di nuove raccolte di poesia.
Il poeta che aveva rappresentato il punto di sutura tra la stagione della prima Arcadia e la
recente, Ludovico Savioli, si era esercitato sull’Ovidio degli Amores. Nel 1765 erano usciti i
suoi Amori, operetta che procurò all’autore fama immediata, diffusa anche all’estero. Dai
precedenti arcadici, Savioli aveva ripreso il gusto edonistico in via di mescolamento con le
recenti sollecitazioni sensistiche, esibendolo ora attraverso un citazionismo ovidiano a
valenza erotica di cui è prova il componimento d’apertura. Già in questo testo si nota la
propensione all’evidenza sensibile, appoggiata a un sottile riuso della mitologia in funzione
figurativa, che sarà sigla precipua del libro, accanto a una rinnovata attenzione per la
sperimentazione metrica basata su quartine di settenari. Poesia di scene che sulle
tramutare narrativo-mitologiche colgono attimi di vita settecentesca, così è stata definita la
poesia di Savioli. Il poeta non oltrepassava dunque quella linea che Parini avrebbe saputo
attraversare per forza ispirativa e resa formale.
A valle dell’esperienza pariniana, formata da letterati che nel magistero del poeta milanese
si riconoscono pienamente, si impone nel panorama della poesia contemporanea una
generazione che per vicinanza di interessi e per collaborazione geografica fu definita scuola
estense. Accanto a intellettuali come Agostino e Giovanni Paradisi e Cerretti, si annoverano i
traduttori Luigi Lamberti e Francesco Cassoli.
L’alta tradizione della poesia non solo dura per l’intero Settecento ma viene ripensata con
forza anche a fine secolo. La concorrenza della prosa quale strumento di comunicazione
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diretta si era fatta però pressante e aveva contribuito a spostare in direzione prosastico-
comunicativa anche gli equilibri di alcuni generi versificati. Non sempre ciò accade. Vi è una
linea d’argomento scientifico che mantiene e potenzia il tasso di letterarietà. Ma il
problema si quale strumento usare per collegare la cultura letteraria e quella tecnico-
scientifica si era posto. In qualche caso si trattava solamente di restaurare un genere
fortunato in epoca classica e rinascimentale. Ma spesso questa letteratura esprimeva
contenuti concreti, riflettendo le posizioni di economisti e teorici della fisiocrazia. Non che
il problema della prevalenza di un linguaggio troppo direttamente tecnico e scientifico non
restasse aperto. Nel frattempo però la tendenza a piegare il verso a usi simil-prosastici
stava permeando altri genere o sottogeneri.
La questione dell’abbassamento stilistico coinvolge anche un episodio di letteratura
settecentesca come il poema satirico. Esiste un filone di opere di matrice burlesca che
viene ad assumere i caratteri della satira rusticana e cittadina. Ma di assai maggiore
interesse è la linea che indirizza verso obiettivi satirici il repertorio eroicomico. Parini aveva
usato tecniche e costanti eroicomiche nella scrittura del suo poema, ma la volontà di
reinventare un’epica contemporanea aveva fatto sì che il Giorno diventasse ben altro.
Qui ci si riferisce invece a esempi che assumono direttamente l’argomento della narrazione
dalla tradizione canterina e boiardesca, sfruttando la mistura di eroismo e comicità
connaturata ai personaggi, li fanno agire in uno spazio-tempo cavalleresco che per mezzo
degli anacronismi rimanda costantemente all’oggi. Anche in rapporto al problema della
desublimazione del registro stilistico le cose assumono una specifica rilevanza. L’intenzione
non consiste nel voler comunicare con maggiore immediatezza, come nei poemi didascalici.
Ci si appropria piuttosto del linguaggio comico della tradizione e lo si impasta con prelievi
linguistici e tipologici d’uso corrente per mimare o parodizzare la realtà.
All’inizio del Settecento era stato il pistoiese Niccolò Forteguerri (1674-1735) a riproporre il
genere eroicomico nel fortunato poema in ottave Ricciardetto. La proposta più interessante
è però quella avanzata da Carlo Gozzi nelle ottave della Marfisa bizzarra, terminata nel
1768. Il poema di Gozzi assume la forma di un vero e proprio pamphlet antilluministico, che
discute gli eventi dell’attualità e l’odierno ruolo della letteratura di consumo.
Con la resistenza del verso si misura anche un altro genere assai diffuso, quello della
favolistica e della novellistica. Preparata dalla fortuna delle Fables di La Fontaine, la
produzione di apologhi-favole aveva visto il succedersi di autori dal notevole valore e dai
vasti interessi. L’uso della prosa non viene certo meno: è il caso, per esempio, dei molti
inserti favolistici che Gasparo Gozzi inserisce nei periodici da lui compilati.
L’alternarsi di narrazioni versificate e prosastiche caratterizza anche il contiguo territorio
della novellistica. Ma risulta più frequentata la novella in versi. La scelta della favola stava
a significare una prevalente intenzione di critica morale e dei costumi. L’impiego della
novella invitava invece gli scrittori a rimodellare le fonti letterarie di origine boccacciana e
cinquecentesca per un affondo beffardo e caricaturale nella realtà quotidiana, come
succedeva in Carlo Gozzi, o per una proiezione trasgressiva nell’universo libertino del
Settecento, come nelle novelle di Casti o in quelle licenziose ma a scottante contenuto
politico del pisano Domenico Luigi Battacchi.

La resistenza delle forme poetiche può spiegare solo in parte l’appuntamento mancato con
il genere divenuto nel frattempo egemone in Europa, il romanzo. In Italia non era avvenuto
quel rivolgimento economico-sociale che in Francia e soprattutto in Inghilterra aveva
completato l’ascesa della borghesia al ruolo di classe egemone. Nelle più evolute nazioni
europee erano stati infatti i fruitori borghesi a decretare il successo di questo genere,
destinato tra Settecento e Ottocento a diventare l’unica specie possibile di epos moderno.
Mentre in Francia e in Inghilterra i diversi autori andavano creando i diversi filoni del
romanzo, in Italia invece il compito di adeguare psicologie e ruoli ai nuovi contesti era
ricaduto quasi per intero sul teatro di Goldoni, che dovette misurarsi però con un pubblico
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trasversale per provenienza e interessi, in situazioni economicamente più arretrate, anche


se culturalmente umorose. Ciò non significa comunque che in Italia l’avventura del romanzo
sia stata ignorata.
Questo fenomeno letterario si sviluppa a Venezia con la fioritura del romanzo barocco e del
teatro pubblico. Di origine bresciana, Pietro Chiari (1711-1785) aveva vissuto una lunga
stagione della sua vita in laguna, impegnato nelle battaglie teatrali con Goldoni e Gozzi per
sostenere la proposta di una drammaturgia, in versi martelliani e in prosa, dai contenuti
eterogenei, oscillante tra comicità e tragedia ma sempre mirata alla ricostruzione di storie
a elevata percentuale di intrigo. E’ il versatile uomo di teatro a essere
contemporaneamente il romanziere di riferimento. I romanzi chiariani sono numerosi.
Si va da La filosofia italiana (1735), dove l’autore mette a fuoco la formula della
pseudoautobiografia al femminile, ai 3 romanzi di medio realismo urbano ad ambientazione
teatrale, La ballerina onorata, La cantatrice per disgrazia, La commediante in fortuna
(1754-55). Le dinamiche psico-sociali che condizionano le vicende private formano
l’intelaiatura di altre prove narrative. Una sorta di romanzo utopico-filosofico, tra racconto
volteriano e viaggio alla Robinson Crusoe, è invece L’uomo dell’altro mondo (1760) e
indirizzate al mito dell’approdo felice sono le più tarde Isole della fortuna o sia viaggi di
Missi Jalingh scritti da lei medesima (1774).
Ma è opportuno evidenziare su quali meccanismi si basano i suoi romanzi, verso quali
obiettivi tendono. Anzitutto lo scrittore persegue lucidamente l’intenzione di contrastare la
linea aulica della tradizione letteraria italiana per rispondere alle esigenze di un mercato in
crescita, per sollecitare le attese di nuovi lettori. Il romanziere si pone in cerca di soluzioni
che non si limitino a intrattenere il pubblico ma lo educhino. La sola scelta sentimentale,
delle eroine amanti e sfortunate, non lo soddisfa. Preferisce piuttosto dotare il plot
narrativo di elementi pedagogico-illuministici, diacronicamente ricontrollati sui mutamenti
in atto nella società veneziana e italiana. I romanzi di Chiari vengono così ad assestarsi su
una struttura prevalentemente binaria. Da un lato si snoda la narrazione dei fatti, spesso
eccessivi per accumulo di avventure. Dall’altro si impone il piano del commento, con
l’intervento autoscale che si sostituisce alla voce del personaggio narrante.
Nessun dubbio resta perciò sul fatto che la complessità della macchina romanzesca, la
prevalenza dell’intenzione didattica sulla felicità del narrante distanzino la narrativa di
Chiari dai capolavori europei.
Pietro Chiari non è l’unico romanziere. Antonio Piazza (1742-1825), veneziano, licenziò una
decina di romanzi di stampo chiariano. Sempre a Venezia, Francesco Gritti (1740-1811)
pubblicò una parodia rivolta alle stesse convenzioni romanzesche, mentre Giacomo
Casanova scriverà nei primi anni Ottanta Il duello e Né amori né donne. A documentare il
diffondersi all’interno della letteratura settecentesca italiana del codice romanzesco è però
la sua pervasività verso altri generi, quello teatrale sopratutto.
Nella seconda metà del Settecento la drammaturgia ha una storia rilevante di per sé,
riconducibile in prima istanza allo sviluppo delle proprie forme. Ciò avviene in modo
particolare nel campo del melodramma, a valle dell’esperienza metastasiana. Nato a
Livorno nel 1714, Ranieri Calzabigi era stato solerte ammiratore e in seguito duro oppositore
di Metastasio. Curatore dell’edizione parigina delle opere metastasiane, nel decennio
successivo si era convintamente deciso a lavorare con la riforma del teatro musicale
avanzata dal Gluck. L’innovazione dei libretti calzabigiani consisteva nel ridurre il divario
tra recitativo e aria, realizzata per mezzo di una nuova funzione attributiva al recitativo,
ora accompagnato e non “secco”, favorito da una metrica regolare, a frequente cadenza di
rime, arioso e compatto al punto da sorreggere il flusso di una musica ricca di pathos e
sonorità quale quella del musicista tedesco. Nell’Orfeo e nel Alceste si recuperano i miti
della tragedia antica trascurati da Metastasio, garanti di semplicità di trama e intensità
tonale, scandita dagli interventi del coro.

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Nata all’inizio del secolo dalla progressiva separazione degli intermezzi e degli inserti
comuni dall’organismo melodrammaturgico, si era intanto affermata in parallelo l’altra
linea del Settecento musicale italiano, quello dell’opera buffa.
Particolarmente attento al genere giocoso fu Goldoni, autore di numerosi libretti tra cui
quello particolarmente fortunato de La buona figliuola (1756), intonato da Niccolò Piccinni.
Altro librettista di grande successo fu il napoletano Giovanni Battista Lorenzi (1721-1807).
Per quanto costruisca la sua verve sulle stereotipie linguistiche e sulle caricature dei
personaggi, l’opera buffa realizza la straordinaria resa teatrale attraverso il potenziamento
del dialogo, formando i pezzi d’insieme che riducono la distanza tra sezioni musicali e
recitate: duetti, terzetti, sestetti. Così dinamicizzata, l’estrema convenzionalità della
pratica comica favorisce l’illuminazione del tutto inedita dei rapporti sociali all’interno
delle storie. (Nozze di Figaro - Da Ponte)
Sul terreno del teatro in prosa successivo a Goldoni si erano realizzate le maggiori
contaminazioni del genere romanzesco, dentro un interessante storia di metamorfosi dei
generi. Chi aveva avvertito la pericolosa diffusione del fenomeno era stato Carlo Gozzi,
ostile a ogni novità proveniente d’oltralpe.
Capace ancora di reinventare modelli da proporre all’Europa nel campo della
melodrammaturgia seria e comica la letteratura italiana appare dunque debole nella
competizione attorno al romanzo e alle sue derivazioni. In un settore limitrofo e altrettanto
vitale quale quello dell’autobiografia alcuni importanti autori del nostro Settecento stavano
però ideando opere di notevole rilevanza. Non ci si riferisce più allo schema della
narrazione a scopo intellettuale-educativo frequentato durante il secolo da Vico, Giannone,
Genovesi. L’innovazione consisteva nel porre al centro dell’indagine il proprio “io”, per
recuperare l’ordito della personale esistenza, sul filo spesso sotterraneo e frantumato della
memoria.

5. Alla svolta del secolo: il ritorno dell’ombra

Nella sua seconda metà il Settecento è profondamente segnato dal pensiero illuminista, che
rinvigorisce anche le scelte di gusto classicistico, nelle sue varie declinazioni. La ricerca di
luce, razionalità, ordine nelle idee e nelle forme non cessa di agire neppure quando
comincia a essere insidiata dal sopraggiungere delle ombre. Attualmente si sta discutendo in
sede critica e storiografica sulla trasparenza del termine preromanticismo, tradizionalmente
usato per descrivere quel clima fatto di inquietudini dell’anima e oscurità di paesaggi che
anticipa la grande stagione romantica. Si può adoperare quella definizione, allo scopo di
orientarsi, ma occorre ammetterne la genericità. Non solo perché in essa gli intellettuali di
fine secolo non si riconoscevano, ma perché immaginare che uno strato chiaroscurale si
depositi indistintamente sulle cose letterarie non corrisponde alla piena realtà dei fatti.
E’ Roma la città letteraria dove l’incontro tra biancore e opacità avviene in modo evidente.
Da un lato le forme solenni delle fabbriche, dall’altro i muschi, la vegetazione che
ricoprendole ne ha spezzato la continuità delle linee, le ha ridotte a rovine. Alcuni scrittori
interrogano con più insistenza la precaria monumentalità del paesaggio urbani. Tra costoro
c’è Alessandro Verri.
Dopo gli anni trascorsi nella Milano del “Caffè” e nelle capitali dell’Europa illuminata,
Alessandro aveva deciso di prolungare il soggiorno romani indefinitamente. Ricalibrata sulla
realtà della nuova Roma neoclassica e papalina, la produzione letteraria verriana risulta in
ogni caso di notevole interesse. Nel 1780 Verri pubblica un primo romanzo, Le avventure di
Saffo poetessa di Mitilene, la storia d’amore e morte della celebre scrittrice di Lesbo
cantata poi da Leopardi. Una seconda vicenda fu raccontata nel più tardo romanzo, La vita
di Erostrato. L’interesse per il genere, riproposto in versione colta e stilisticamente
elaborata, dimostra il continuo aggiornamento di Alessandro, ancor più documentato dal
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fatto che Le avventure di Saffo guardavano a un orizzonte di lettura emotivamente rilevato,


al femminile. E’ certo però che il nodo più complesso di questa fase della scrittura verriana
si rappresentato dalle Notti romane, una vasta opera a mezzo tra romanzo, “visione” e
saggio dialogato che Alessandro aveva iniziato a comporre, nel 1781, sollecitato dalla
recente scoperta dei sepolcri degli Scipioni, a cui si era appassionata la comunità antiquaria
della quale egli stesso si sentiva ormai parte. La posizione di Verri offre una risposta
particolarmente complessa al problema che il paradigma romano andava ponendo a molti
intellettuali, quello del rapporto tra l’antico e il moderno, o più esattamente dell’innesto
del moderno sull’antico, esito per nulla inerte della querelle che nelle sue diverse
diramazioni aveva attraversato l’intero secolo. Alessandro non era il solo in quegli anni a
proporsi quale difensore dell’attuale Roma di Pio VI. Elogiatore, persino propagandista
dell’assetto pontificio era stato tra gli altri il Vincenzo Monti cantore di papa Braschi. A
stupirci della scelta di Alessandro c’è piuttosto il sovrappiù di impegno argomentativo, certo
assente negli elogi mondani. Ma un altro elemento va ancora valutato. Se lo scrittore muta
segno ai risultati delle sue analisi, non dimentica la lezione dell’Illuminismo, per quanto
riguarda almeno l’interesse allo svolgimento della storia e dei costumi e l’adozione delle
procedure d’indagine, basate sul confronto e la critica.
Oltre all’arroventata comparazione tra civiltà del romanzo-saggio verriano, la questione di
come il moderno possa radicarsi sul ceppo dell’antico interessa altri ambiti del letterario.
Studioso di valore assoluto nelle discipline archeologiche, Ennio Quirino Visconti (1751-1818)
era collocato al centro di una fitta rete di rapporti con i letterati residenti a Roma. Visconti
aveva stretto forti legami con Monti, che gli dedicò il Saggio di poesie e la Prosopopea di
Pericle, con Verri, Milizia, Alfieri. Personalità riconosciuta dall’intera Arcadia romana,
l’archeologo si era impegnato direttamente nel campo della letteratura, come traduttore di
Omero, Pindaro e Orazio e come autore di odi e sonetti a carattere religioso e encomiastico.
Ma il Visconti letterato offre un contributo significativo sopratutto nell’ambito della critica.
Un suo primo Discordo era stato rivolto allo Stato attuale della romana letteratura. Con un
secondo intervento, Confronto tra l’Antigone tragedia di Sofocle e quella di Vittorio Alfieri,
entra nel vivo di un dibattito dalle molte ricadute, estetiche e di genere.
Nella Roma neoclassica, accanto alla rivisitazione di miti ed epopee antiche, tornava a farsi
sentire il richiamo del verso tragico. Più volte Monti aveva espresso la volontà di
abbandonare la misura ancorché solenne della lirica per scrivere tragedie: è ciò che accade
con la stesura dell’Aristodemo (1786). Quattro anni prima della stesura montiana, la recita
‘romana’ dell’Antigone di Alfieri, aveva avuto una vastissima risonanza, per la presenza nel
pubblico selezionato di spettatori d’eccezione, tra cui Monti e A. Verri, autori a loro volta di
molti commenti. E’ appunto questa tragedia alfieriana che Visconti paragona all’originale
sofocleo.

L’ultimo scorcio del secolo si affolla di letterati che passeggiano tra marmi rovinati dal
tempo, immaginando dialoghi con gli antichi, interrogandoli sui loro ordinamenti,
addossando loro gli affanni dei moderni. Un personaggio che rappresenta bene gli sviluppi di
questa inclinazione, propria della line descrittiva che attraversa l’intero Seicento, è Aurelio
de’ Giorgi Bertola.
Nato a Rimini nel 1753, Bertola si era recato poco più che ventenne a Roma, pubblicandovi
le Notti clementine. Con espliciti rimandi ad altre Notti, quelle di E. Young, vi si anticipava
la tensione all’oscuro che Monti avrebbe ripensato autonomamente dentro precisi confini
neoclassici. Più proficuo era stato il soggiorno napoletano, durante il quale aveva composto
le Lettere campestri. In esse Bertola descriveva le passeggiate attraverso “le liete e felici
contrade” della campagna partenopea, usando deliberatamente una ricca tavolozza
cromatica, come se si trattasse di “una copiatura dal vivo” che esaltava la vaghezza dei
luoghi e celava le testimonianze del distruttivo mutamento ciclico (Vesuvio), sul quale, nel

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ricordo delle discussioni partenopee Bertola sarebbe tornato a meditare, con il saggio su La
filosofia della storia (1787).
Gia nel fecondo periodo napoletano Bertola aveva guardato alla letteratura di lingua
tedesca. Nel 1789 esce L’elogio di Gessner, ultimo rilancio della poesie pastorale tedesca. Il
testo che però caratterizza maggiormente la qualità della scrittura bertoliana è il Viaggio
sul Reno, resoconto sotto forma di diario di una perlustrazione lungo le anse fluviali
(1787-95). Il Viaggio assume rilievo quale efficace esempio di letteratura paesaggistica. Le
diverse redazioni dell’opera documentano le plurime fasi di una stratigrafia compositiva che
amplia progressivamente i dati effettivi, ricavati dalla diretta osservazione dei luoghi
visitati, con inserti suggeriti dall’immaginazione. Talvolta le pagine diaristiche generano
porzioni di romanzesco. Ma nella compenetrazione di realtà e immaginativa dominano
comunque la misura e la tecnica della descrizione rispetto a quelle della narrazione.
Interessa sopratutto lo spazio, che protegge la misura idillica, con le sue rifrangenze
nell’interiorità, dall’irruzione di un tempo esterno a essa. In questa dimensione
prevalentemente spaziale si colloca il contributo di Bertola all’estetica del paesaggio.
Ossimori che movimentano le sensazioni, formule psichico-metereologiche, metafore della
curvatura fanno parte del bersaglio stilistico del Viaggio.
Saggio sopra la Grazia (1786): per Bertola era la “grazia” il criterio già sensistico di
un’estetica comparativa che rifiuta ogni sistemazione classificatoria e si affida invece al
gioco delle suggestioni “incrociate”, delle combinazioni di emozioni e percezioni, della
“gradazione” dei processi d’intensificazione del pathos, dallo scherzevole vago alla
gravitas.
Di una generazione precedente a quella di Bertola, Melchiorre Cesarotti si colloca tuttavia
su un’onda lunga, sia per la vita operosa e longeva di maestro riconosciuto sia per le opere
letterarie. Nato a Padova nel 1730, si era presto trasferito a Venezia in qualità di
precettore, esordendo in letteratura come traduttore di due tragedie di Voltaire e come
critico della drammaturgia coeva, nel Ragionamento intorno al dialetto della tragedia, del
1762. In quello stesso anno aveva conosciuto i Fragments of Ancient Poetry del mitico barbo
Ossian che ritenne autentici, dandone nel 1763 una traduzione poetica in endecasillabi
sciolti, per le parti prosaiche, e in versi vari per le parti poetiche, intitolata Poesia di Ossian
figlio di Fingal, antico poeta celtico, il cui enorme successo durerà fino a Foscolo e a
Leopardi. Cesarotti era intanto tornato a Padova, dove aveva proseguito la sua carriera di
traduttore delle letterature moderne, con la versione dell’Elegia del cimitero campestre
dell’inglese Gray, e dalle letterature classiche, con la riscrittura in prosa letterale
dell’Iliade seguita da un libero rifacimento in versi dal titolo La morte di Ettore. Data agli
anni ’80 il mai completato Saggio sul bello. E’ questo il testo in cui lo scrittore affrontò
direttamente il tema del sublime. Per Cesarotti altro non è, il sublime, che la parte del
bello sensibile, che sviluppa il sentimento del “terribile” in dinamico contatto con la
percezione della natura. Cesarotti non presentò altri risultati di rilievo in questa direzione.
Anzi, quando tornerà a occuparsi, come interlocutore di Alfieri, del territorio del tragico,
ripiegherà verso l’amato e moralizzato Voltaire, senza capire quanto i drammi alfieriani
avessero indirizzato la ricerca del sublime negli spazi sconosciuti dell’interiorità. Del resto
gli interessi di Cesarotti si erano venuti concentrando sulla stesura di due testi importanti
come il Saggio sulla filosofia del gusto e sopratutto il Saggio sulla filosofia delle lingue
(inizialmente Saggio sopra la lingua italiana) entrambi del 1785: il primo, recitato
all’Arcadia romana, disegnava una moderna figura di critico dotato di un “genio” aperto alle
molteplici dimensioni; il secondo, analizzava invece l’inesauribile vitalità dei linguaggi e ne
verificava lo sviluppo da un punto di vista concretamente storico.
Ippolito Pindemonte, figlio della nobiltà veronese che a due anni dalla sua nascita, nel 1753,
sarebbe rimasta orfana di Scipione Maffei, interpreta bene le qualità del letterato di fine
Settecento. Dopo gli studi classici aveva esordito come autore teatrale con la tragedia
Ulisse, e al teatro, assieme al fratello Giovanni, restò fedele, componendo in un periodo più
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avanzato l’Arminio, una tragedia bardita in versi, dalle molte suggestioni alfieriane e
shakesperiane. A Verona, tra il 1784-88 scrisse le Poesie campestri, una raccolta di elegie
che risentono delle recenti prove di Gray, tradotte anche da Cesarotti, e del Bertola
promeneur negli spazi di natura, ideando anche un primo abbozzo di Prose. Durante la
Rivoluzione francese Pindemonte si trovava a Parigi, appoggiando le idee rivoluzionarie nel
poemetto del 1789 La Francia. Deluso dagli accessi giacobini, si riturò nella villa di Avesa,
sito idoneo al completamento delle Prose campestri, che furono riunite alle precedenti
elegie nel Saggio di prose e poesie campestri, pubblicato nel 1795. Le poesie: la loro
specifica impronta consiste nell’interlocuzione tra il poeta in solitudine e la natura. Al
sopraggiungere della notte, sono la luna e le stelle che si fanno coprotagoniste e complici di
un intenso colloquio. Un altro testo pindemontiano, Alla notte, esordisce con l’immagine
del poeta che si vede seduto su “questa rupe”, intento a osservare la straordinaria scena del
“teatro” notturno e a percepire il solenne silenzio che lo avvolge (rimandi leopardiani).
Sono i momenti della poesia pindemontiana in cui il discorso sembra avviarsi verso le
poetiche romantiche. In realtà il passo decisivo non si compie. C’è un’eredità settecentesca
che Pindemonte conserva, in attesa che i grandi poeti di primo Ottocento possano superarla.
Mentre declinano gli stati d’animo dell “io” in rapporto alle manifestazioni naturali, le
poesie campestri tengono ben fermo l’asse centrale dell’intera operazione investigativa,
che consiste nel ritrovare una perduta ma essenziale “salute”, nel ricostruire l’integrità
morale e intellettuale del soggetto. L’equilibrio tra città e campagna viene a mancare. La
stessa concezione fisiocratica è vista meno come utile dottrina economica e più come
ineludibile necessità salvifica. La solitudine orienta al ritrovamento dell’autodominio etico-
intellettuale e al ristabilimento di una sintonia con il più vasto ordine del cosmo. Le prose:
la sezione delle prose campestri racconta l’itinerario riflessivo, condotto attraverso il filtro
di una “malinconia” non distruttiva, modulata sul timbro elegiaco-memoriale che era
proprio della poesia di Gray. Nel paesaggio di Avesa Pindemonte evoca gli incontri, gli amici.
E incontra le simbologie della morte. Nell’ultima prosa, davanti a epigrafi tombali,
Pindemonte scrive un memento mori, si interroga sul perché della vita. All’inizio del nuovo
secolo Pindemonte interruppe la stesura di un poemetto sui Cimiteri avendo saputo che
Foscolo attendeva ai Sepolcri. Le due opere verranno pubblicate insieme, nel 1807, l’una a
difesa di una pietas elegiaca che vince l’oblio, l’altra di un pathos riepicizzato, che affida
ad antichi vati greci il compito di ricordarsi come si combatte la battaglia contro il tempo
distruttore. Negli anni precedenti alla morte, avvenuta nel 1828, Pindemonte si dedicò alla
traduzione dell’Omero odisseo.

Vittorio Alfieri
Alfieri nasce ad Asti nel 1749, da famiglia d’antica nobiltà savoiarda. Compiuti i primi studi
sotto la guida di un sacerdote, Vittorio fu mandato a completare il ciclo scolastico
all’Accademia Reale di Torino (1758-66). Nella capitale sabauda viveva Benedetto Alfieri,
cugino del padre e architetto di corte, che gli facilitò le prime frequentazioni mondane e
culturali dell’ambiente torinese. Entrato nell’esercito, nel 1766 era intanto partito per un
lungo viaggio in Italia, accompagnato dal servo Elia, suo compagno fedele, tanto che nel
racconto autobiografico della Vita lo scrittore gli affiderà l’impegnativo compito di
rappresentare il versante della concreta assennatezza piemontese, come fosse una sorta di
suo “doppio”, compensativo di quelle virtù mediane che l’intemperante aristocratico
rifiutata per indole e convinzione. Come narrano le pagine dell’autobiografia, l’esperienza
di viaggio significò molto per Alfieri, offrendogli la possibilità di vedere da vicino il
deludente mondo delle corti, da quelle toscane di Leopoldo di Lorena e napoletane di
Ferdinando IV di Borbone a quelle internazionali di Versailles e Vienna. Si tratta
dell’acquisizione di un importante bagaglio di conoscenze, vissute e ripensate alla luce di
una risentita coscienza individuale che non rese certo facile il suo ritorno a Torino, nel 1772.
Nel corso del secolo la cultura del Piemonte aveva espresso segnali di rinnovamento, a
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partire dalle sue istituzioni. Ma resta difficile parlare di riformismo di stampo illuministico.
Persino quando salirà al trono V. Amedeo III le resistenze conservatrici saranno rilevanti, in
ordine all’oculata ma autoritaria burocrazia statuale, alle diffidenze nei confronti della
circolazione di idee e libri, alla realizzazione di coraggiosi progetti politico-economici.
In questa realtà torinese si trovò dunque ad operare Alfieri, quando decise di fondare con
alcuni amici un sodalizio basato su liturgie paramassoniche e su intenti parodici, di dedicarsi
alla scrittura letteraria. L’inclinazione verso la letteratura si era del resto rinforzata durante
i viaggi, grazie alle molte letture accumulate e alle sollecitazioni di maestri-amici come il
conte Tommaso Valperga di Caluso, l’autorevole punto di riferimento della cultura
aristocratica di stampo subalpino che Alfieri aveva conosciuto alla corte portoghese.
Datano a quegli anni la composizione in francese dell’Esquisse du Jugement Universel
(1773-74), un esercizio impostato secondo la tecnica settecentesca del “dialogo dei morti”
in cui venivano chiamati di fronte a un tribunale divino e satireggiati di conseguenza molti
personaggi della corte piemontese, e di un diario, poi riscritto in italiano col titolo di
Giornale, in cui l’autore abbozzava un autoritratto, in cui osservava vizi, debolezze, moti
della propria natura indocile. In queste prove giovanili Alfieri aveva dunque sperimentato
una precoce vocazione comico-satirica che per un verso riaffiorerà in alcuni tratti della Vita
e che in altra direzione darà vita alla stesura della Satire, assieme alle Commedie, ma
abbozzate in forma provvisoria ed episodica gia negli anni Settanta.
La tentazione del tragico intanto si faceva irresistibile. Nel corso del 1774, Alfieri di dedicò
a composizione de la Cleopatra, durante i tormenti per un’ennesima vicenda sentimentale
destinata a concludersi bruscamente. Il registro comico era perciò costretto a lasciar spazio
alla nuova ispirazione, sebbene tracce di quel tirocinio restino depositate nella scrittura
tragica, in attesa di riconquistare la perdita autonomia di genere, nei tardi anni Novanta.
Per quanto gli esiti fossero incerti, il noviziato nel campo della tragedia presentava alcune
caratteristiche che nel breve giro di una rapida maturazione letteraria restarono a
fondamento delle tecniche compositive alfieriane. Decidendo di sceneggiare la vicenda
della regina d’Egitto Alfieri aveva sperimentato diverse fasi di scrittura, fino alla definitiva
trasposizione dell’intero materiale in endecasillabi sciolti, conclusa poco prima che la
tragedia andasse in scena al Teatro Carignano, nel 1775, con il nuovo titolo di Antonio e
Cleopatra. Molto restava da fare dopo quel tentativo, ma il cammino era ormai avviato.
L’esordio nel percorso tragico riguardava anche il rapporto con le fonti e il recupero delle
sollecitazioni che provenivano dall’apprendistato letterario, condotto sui grandi autori
italiani, gli essaystes e i drammaturghi d’oltralpe. Dopo l’ultima controspinta comica della
“farsetta” I poeti, nel 1775 furono messi sulla carta gli abbozzi e le stesure in prosa italiana
e francese del Filippo, del Polinice e dell’interrotto Charles premier.
- Filippo: prima tragedia tra quelle autorizzate dall’autore nelle edizioni del suo teatro, il
Filippo è il testo che conobbe le maggiori cure rielaborative, per un tempo di circa 15
anni. La responsabilità che grava su di esso riguardava due punti di rilievo. Da un lato la
faticosa conquista di un verso sempre più lontano dall’uniformità prosodica di derivazione
francese, e al contrario spezzato al suo interno da cesure e inversioni, progressivamente
esemplato dal trimetro giambico senecano, tale insomma da restituire un endecasillabo
assai diverso da quello della tradizione lirica petrarchesca, e finalmente destinato alla
recitazione. Dall’altra parte il lavoro sui temi e i personaggi. La scena dove si svolge il
dramma è la reggia-prigione di Madrid. Archetipo dei tiranni alfieriani, Filippo assume le
qualità regali della diffidenza, della spietatezza proprie del mondo delle corti, agevolato
in ciò dal consigliere Gomez. Al contrario del modello di Racine in Mithridate, dove il re-
padre riconosceva gli errori compiuti a danno del figlio, qui ogni spiraglio è chiuso. A
Carlo e Isabella non resta che l’eroica scelta della morte. Le tonalità affidare
all’interpretazione degli infelici senza colpa erano però destinate a crescere. E l’ultima
interrogazione che angoscia il re dopo aver sacrificato ogni impulso paterno in nome del

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potere tirannico illumina un improvviso ritorno di coscienza: “Ma, felice son io?”.
Sopratutto per questo il Filippo fu costantemente ripensato.
- Polinice: Alfieri quando decide di inoltrarsi all’interno del ciclo tebano e progetta il
Polinice, è una fonte classica a sollecitarlo, la Tebaide di Stazio, già rielaborata da
Racine. Il raffronto con il precedente francese aiuta ancora a fissare le linee di ricerca
alfieriane. Nella vicenda di Eteocle e Polinice, la lotta fratricida non dà più occasione pre
sceneggiare una casistica cortigiana (quale quella raciniana), ma viene utilizzata per
tratteggiare in Eteocle una nuova figura di tiranno, di fronte al quale Polinice non può che
recitare la parte della vittima. Anche i ruoli della madre Giocastra e della sorella
Antigone, tesi a evitare la reciproca uccisione tra fratelli, acquistano un diverso peso.
Nella riscoperta essenzialità del mito antico le voci delle due donne si sono come
assolutizzate: la prima preparandosi ad affrontare il dramma fraterno e l’infausto destino
personale, la seconda esibendo senza alcune mediazione quell’hybris originata dalla
mostruosità nata dal suo stesso ventre.
Dal Polinice il progetto alfieriano di sta aprendo verso il ciclo delle tragedie ideate nel
1776, con versificazioni successive, e composto all’Antigone, l’Agamennone e l’Oreste.
Se Antigone poggia fondamentalmente sulla crescita del personaggio eponimo, di maggior
concentrazione è invece l’Agamennone, almeno fino al momento in cui la tremenda
uccisione di Agamennone si compie per mano della moglie Clitennestra. Come a
Clitennestra nell’Agamennone, così spetta a suo figlio interpretare gli eccessi di una
“furia” incontrollata nel secondo tempo del dittico dedicata agli Atridi, in quell’Oreste
caro ad Alfieri per l’impeto “caldo” di un personaggio destinato ad uccidere la madre,
divorata dal rimorso. Con Antigone il teatro alfieriano si impadronisce di modulazioni di
alta elegia funebre.
Intanto nel 1776 Alfieri aveva intrapreso il suo primo “viaggio letterario” in Toscana, dove si
era dedicato alla versificazione delle tragedie già iniziate e all’ideazione di nuove. Dopo
una breve permanenza a Torino, ha inizio nel 1777 un secondo viaggio nelle città toscane.
A Sarzana il drammaturgo tradusse alcuni capitoli di Tito Livio e scrisse l’abbozzo della
Virginia. Nell’arco di pochi mesi, a Siena, dopo la lettura di Machiavelli da cui scaturisce il
soggetto della Congiura de’ Pazzi, stese di getto il trattato Della tirannide, che conoscerà
molte revisioni e che dialogherà strettamente con il Del principe e delle lettere (1778),
altra espressione della sua radicale trattatistica politico-civile.
Diviso in due libri, il trattato definisce il concetto della tirannide e lo estende a ogni
manifestazione di monarchia assoluta, comprese le forme di assolutismo illuminato e le
repubbliche oligarchiche, giungendo infine a formulare una condanna alla “tirannide di
molti”, suscettibile di nuove applicazioni in tempi successivi. Lo studio di quali siano il
fondamento e i mezzi della tirannide, di come si possa vivere sotto di essa, si prolunga in
Del principe e delle lettere con l’esame dei modi che consentono o meno all’homme de
lettres di assolvere alla funzione di libero proposito di idee in rapporto al potere sovrano.
Da questo intenso momento di riflessione sulla storia passata e recente nascono le
cosiddette “tragedie della libertà”, la Virginia, la Congiura de’ Pazzi e il Timoleone,
composte tra il 1777-1779.
La Virginia è il testo più noto del trittico. L’eroina romana preferisce darsi la morte
piuttosto che sottostare alla duplice violenza di chi la perseguita, insieme personale e
politica. L’impetuoso Raimondo, protagonista della machiavelliana Congiura de’ Pazzi, è
deciso ad agire contro i “tiranni” Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Per la prima volta la
drammaturgia alfieriana affronta, in chiave reale, il tema della congiura, che aveva animato
molti luoghi del teatro settecentesco. Già nel Della tirannide Alfieri aveva espresso dubbi
sulla liceità dello strumento, che qui Raimondo si incarica di esplicitare ancora:”non poco
duolmi,/ mezzo usar vile a generosa impresa”. Ma la colpa dei tempi e il fine libertario
autorizzano il dibattito sulla difficile scelta, per quanto essa sia destinata al fallimento.

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Il Timoleone, è un testo di maggiore edificazione perché l’uccisione del violento fratello in


procinto di farsi tiranno da parte dell’eroe eponimo verrà siglata da reciproche parole
d’amore e perdono fraterni, al modo di una riscrittura addolcita del Polinice. Che invece la
discussione impostata nella Congiura risulti ben altrimenti dinamica all’interno del sistema
tragico alfieriano lo dimostrano sia la proiezione verso il Bruto secondo, sia l’aperta
problematicità del finale. Appare dunque lontano il compatto entusiasmo della Virginia
rispetto alla presa di coscienza dei limiti che avvolgono l’azione dell’eroe di libertà.
Mentre la Congiura de’ Pazzi prosegue il suo cammino compositivo vedono la luce le prime
stesure di un successivo ciclo di testi ideati da Alfieri a partire dal 1778, dopo aver
conosciuto a Firenze la contessa d’Albany, moglie del pretendente al trono d’Inghilterra
Carlo Stuart. Fu sotto suo suggerimento che il drammaturgo scrisse la Maria Stuarda, il cui
argomento, ricavato dalle vicende storiche dell’Inghilterra stuartiana usate anche nel
Charles premier, conferma la decisa virata alfieriana verso le fonti ‘moderne’. Nel
teatralizzare la vicenda della regina scozzese Alfieri non si concentra sulla morte
dell’eroina, ma lavora sull’infelicità della protagonista creduta nemica del marito e
viceversa tradita da questi, con preciso rovesciamento della situazione di Clitennestra. Con
questo testo Alfieri si pone in cerca di un sentimentalismo più morbido rispetto alla tragicità
assoluta della sua prima drammaturgia, suscettibile di uno sconfinamento nel dramma
borghese.
Nel Don Grazia, altro testo appartenente al ciclo antimediceo, il procedimento raggiunge
una maggior complessità scenica. Ambientato alla corte fiorentina di Cosimo, il dramma
priva il protagonista di ogni carica antagonistica e lo trasforma definitivamente in amante e
figlio infelice. Ma accade qualcos'altro ancora. Questa metamorfosi d’impronta lacrimevole
si impianta su una trama a intrigo, dotata di un intreccio secondo, in questo caso recuperato
dal Polinice, poiché riprende il paradigma classico-tebano dei due fratelli nemici.

(Parte seconda)

6. L’utopia del classico tra Rivoluzione e impero

A inizio Ottocento società e cultura italiane risentono della radicale frattura storica aperta
dalla Rivoluzione francese del 1789. Il conflitto investe l’Italia nel 1796: l’arrivo dei soldati
della Repubblica suscita grandi aspettative in chi simpatizza per gli ideali di libertà e
uguaglianza della Rivoluzione e spera di scacciare i dominatori stranieri, o di sostituire
sovrani e oligarchi italiani con nuove istituzioni democratiche.
Ma Bonaparte guarda sopratutto agli interessi della Francia: nel 1797 col trattato di
Campoformio si rappacifica con l’Austria, cedendole l’antica Repubblica aristocratica di
Venezia e creando delusione e sconcerto tra i patrioti italiani. Nel resto della penisola,
invece, l’esercito francese instaura nuove repubbliche. Privilegi feudali e titoli nobiliari
sono aboliti insieme alle principali istituzioni dell’Antico Regime, si sancisce la libertà di
stampa e di opinione e tutti i beni della Chiesa vengono confiscati. Le classi meno abbienti
non vedono nessun significativo miglioramento delle loro difficili condizioni di vita. Questa
condizione facilita nel 1799 il crollo delle repubbliche sotto l’offensiva degli eserciti
legittimisti e delle “insorgenze” di popolani e contadini. Una di queste abbatte la
Repubblica partenopea, che governava l’Italia del sud, e che subisce la repressione più
dura. Il meridione perde molti intellettuali ed esponenti tra i più innovativi e democratici
della classe dirigente, finendo relegato ai margini della vita culturale italiana.
Intanto Bonaparte riconquista la penisola. Proclamandosi nel 1804 Imperatore dei francesi,
Napoleone si insedia nel 1805 sul trono del nuovo Regno d’Italia e crea un Regno di Napoli
filofrancese. Il regime napoleonico produce una svolta autoritaria, ma avvia anche una
efficace politica di riforme che guadagna il consenso della classe dirigente. La
centralizzazione amministrativa rende necessaria la formazione di nuovi funzionari civili e
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militari, da cui si sviluppa una nuova borghesia. I governi napoleonici introducono


l’istruzione elementare obbligatoria, organizzata interamente dallo Stato secondo princìpi
laici. L’Italia stringe così i suoi legami con il sistema economico e culturale francese,
finendo però isolata dal resto d’Europa. Questo assetto dura fino alla caduta di Bonaparte,
sconfitto a Waterloo nel 1815, data che segna l’inizio dell’età della Restaurazione .

La produzione letteraria del triennio 1796-99 non esce dal pubblico circoscritto dei notabili
e dei borghesi e non si distacca dalle poetiche del neoclassicismo e del primitivismo alla
Ossian. Di fronte alla nuova situazione politica aumenta d’importanza il genere della poesia
civile, e gli scrittori traggono dagli storici classici esempi delle “virtù” delle antiche
repubbliche che devono rivivere nelle azioni dei cittadini moderni.
La rottura si produce incede nella mutata condizione sociale dei letterati. Il monopolio
dell’attività letteraria si sposta dai chierici ai laici. Le trasformazioni rivoluzionarie rendono
obsoleta la professione del letterato di corte: i governi repubblicani offrono agli intellettuali
nuove possibilità di carriera nell’amministrazione pubblica, nell’esercito, nei luoghi
d’insegnamento superiore, riconoscendo loro uno status privilegiato e maggiore autonomia.
Le accademie settecentesche perdono rilievo mentre cresce l’importanza dei salotti,
crocevia di scambi artistico-letterari e politici. Le libertà di stampa e di associazione
offrono nuove possibilità a quei giovani intellettuali che, come Foscolo, vogliono intervenire
attivamente nella vita pubblica. Si affaccia così la nuova figura dell’intellettuale militante
che rivendica la capacità di formulare valutazioni indipendenti sulla storia e sulla politica,
giudicate in nome dei valori universali.
Nel triennio “giacobino” fioriscono molti nuovi giornali. Nasce un giornalismo politico, che
punta a formare le opinioni per coinvolgere i cittadini nella trasformazione della società.
Con la caduta delle repubbliche giacobine e poi con il colpo di stato di Bonaparte, che
imbavaglia la stampa, si chiude la breve stagione del giornalismo politico. Ma i governi
napoleonici cercano i sostegno degli intellettuali per promuovere il consenso e favorire lo
sviluppo culturale necessario per modernizzare il paese. Letterati, artisti, tecnici e
scienziati ottengono cospicui sostegni economici dallo Stato. E’ il momento degli
intellettuali funzionari, disposti a elaborare una cultura di regime. Tra loro si impone
Vincenzo Monti, nominati “Poeta” e “Istoriografo” ufficiale del Regno Italico. Chi invece,
come Foscolo, rivendica la propria indipendenza, è marginalizzato ma non eccessivamente
represso.
Il declino di Venezia dopo Campoformio e di Napoli dopo la repressione borbonica cambia la
geografia culturale del paese, e rafforza la centralità di Milano, capitale del Regno d’Italia e
sede di ministeri. Iniziano quindi a trasferirvisi uomini di cultura da ogni parte della
penisola. Qui nasce nel 1802 la Società Tipografica de’ Classici Italiani. Il successo di questa
impresa segna l’inizio dell’industria editoriale milanese.
Ma il mondo culturale italiano è ancora segnato dal frazionamento in più centri, diversi nel
gusto e nella sensibilità, mentre il pubblico della letteratura è più esiguo che nel resto
d’Europa. Manca una produzione letteraria di livello medio, mentre le opere composte
seguendo i canoni del gusto purista e neoclassico possono essere apprezzate solo dai pochi
lettori più istruiti.

Nel periodo 1796-1815, la presenza di autorità e governanti francofoni e l’utilizzo del


francese come lingua ufficiale aumentano l’influenza del francese sull’italiano, già forte nel
Settecento. Nei letterati questo stimola per reazione la tendenza a sforzarsi di ripristinare
la ‘purezza’ della lingua italiana ‘corrotta’ dall’invasione dei francesismi. L’abate Antonio
Cesari svolge un ruolo di primo piano per affermare le tesi del purismo, proponendo di
ampliare il Vocabolario della Crusca con vocaboli e locuzioni tratte da testi volgari antichi di
varie parti d’Italia. La sua preferenza va alle scritture pratiche e debole del Trecento,
secolo d’oro della lingua italiana. Questa ricerca dipende sia dal mito primitivista del
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ritorno a una ingenua spontaneità originaria, non contaminata dalla civiltà, sia dal rifiuto
che Cesari, credente e conservatore, oppone alla cultura illuminista. Il movimento purista
esercita un influsso importante sul lessico, lo stile e la riflessione linguistica di tutto il primo
Ottocento. Il purismo continua un dibattito sulla lingua che accompagna da secoli la
letteratura italiana e che proseguirà fino ai primi decenni dopo l’unificazione. La scelta del
modello linguistico, che implica l’individuazione del pubblico a cui ci si intende rivolgere e
la selezione di un canone letterario, è un passaggio decisivo nella costruzione dell’identità
nazionale.
Fino al 1816 l’Italia resta esclusa dal movimento internazionale che sta mettendo in crisi la
sintesi di razionalità illuminista e imitazione dei classici greco-latini su cui si fonda il codice
estetico della Rivoluzione: il Romanticismo. Lo stile ufficiale dell’impero napoleonico
rielabora il classicismo rivoluzionario, rievocando la magnificenza dell’antica Roma
imperiale. L’isolamento dell’Italia, aggravato dalla scarsa conoscenza della lingua tedesca,
ostacola la diffusione del pensiero idealistico che sta nascendo in Germania. La cultura
filosofica italiana continua quindi a dipendere dalle ultime teorizzazioni del pensiero
illuminista, tra cui il sensismo. Anche la produzione letteraria non si distacca dalle premesse
neoclassiche settecentesche. Si accresce la divaricazione tra quella che Foscolo chiama
“alta letteratura”, destinata ai pochi lettori colti, formati sui classici antichi, e la
produzione, tendenzialmente narrativa, rivolta alla maggioranza dei lettori. Gli autori che
vogliono conquistarsi una stabile rinomanza letteraria devono guadagnarsi la stima della
ristretta comunità dei critici e degli intenditori, dove il massimo prestigio è attribuito a chi
si distingue nell’esercizio della poesia. Finisce così per consolidarsi un canone letterario
neoclassico, che indirizza il gusto dei lettori colti e orienta la creatività degli autori.
La scena letteraria è dominata da Monti e Foscolo, che occupano posizioni diverse e in parte
conflittuali. Monti conquista il vertice e il governo del mondo letterario italiano, di cui resta
dominatore fino ai primi anni della Restaurazione. Le sue straordinarie capacità tecniche,
l’abilità nell’intuire i temi all’ordine del giorno e nell’assecondare le oscillazioni del gusto
lo rendono l’arbitro e il rappresentante esemplare del neoclassicismo.
Invece Foscolo entra spesso in attrito o in aperto conflitto con i vari governi e con la cultura
ufficiale, restando nella condizione di dissidente e di innovatore. Le sue opere si
guadagnano con più difficoltà il consenso degli esperti, perché sperimentano nuove strade
creative e portano le convinzioni letterarie dell’epoca a un punto di estrema tensione,
anche se continuano comunque a condividere gli ideali e i criteri di valutazione della cultura
neoclassica.

Vincenzo Monti nasce nel 1754 in provincia di Ravenna. Dopo essere stato accolto
nell’Accademia d’Arcadia (1775), nel 1778 si trasferisce a Roma, dove rimarrà fino al 1797.
Nello stesso anno, inizia la sua carriera come intellettuale funzionario quando, benché abbia
acquistato fama internazionale con il poemetto antirivoluzionario In morte di Ugo Bassville,
abbandona la corte del papa e si trasferisce a Milano. La sua produzione si modella
immediatamente sulle tematiche rivoluzionarie, rinnegando la Bassvilliana.
Monti non si limita a conferire la dignità e l’eleganza di una raffinata filigrana letteraria alle
nuove parole d’ordine del potere, perché cerca di riaffermare la continuità e il prestigio
delle istituzioni letterarie di fronte all’instabilità della storia. La sua eccezionale abilità
tecnica resta comunque fuori discussione. Egli ha messo a punto una lingua poetica “alta”
che rende fruibile alla sensibilità dei contemporanei la più illustre tradizione letteraria
classica e italiana. Ma i cambiamenti politici rendono obsoleti gli episodi e le opinioni
“eternate” nei versi, costringendolo a lasciare incompiuti molti poemi propagandistici.
Così Monti abbandona anche il suo tentativo più ambizioso, Il bardo della selva nera (1806),
poema epico moderno, dove canta le imprese napoleoniche mescolando il modello
primitivista e barbarico di Ossian con quelli dell’epica latina di Virgilio e dei poemi
cavallereschi rinascimentali.
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Monti conquista stabilmente il primato tra i poeti italiani con la traduzione dell’Iliade
(1806), in competizione con Foscolo, e con Pindemonte, che traduce l’Odissea,
terminandola nel 1810. Non conoscendo il greco, lavora su traduzioni moderne,
appoggiandosi anche a una versione latina che gli serve per nobilitare i suoi endecasillabi
sciolti, la forma metrica più amarra a riecheggiare il suono degli esametri antichi. Mentre il
suo avversario Foscolo sceglie un approccio più letterale, Monti privilegia la resa poetica
nella lingua d’arrivo, sforzandosi di conferire ai versi il massimo di grazia, fluidità e
armonia. E’ il suo capolavoro: riproducendo nella lingua dei moderni l’emozione estetica
suscitata nei lettori ottocenteschi dall’opera più venerata dell’antichità, Monti brilla della
luce riflessa del più grande poeta di tutti i tempi.
Caduto Bonaparte, il governo austriaco gli commissiona inni per il rientro degli antichi
sovrani (Il ritorno di Astrea, 1816), e gli affida la redazione della prestigiosa e diffusa rivista
“Biblioteca italiana”. Ma molto presto Monti si ritira. Si tiene fuori dalla polemica classico-
romantica e di dedica alla questione della lingua, con la Proposta di alcune correzioni e
aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-26), stesa assieme al genero Giulio Perticari.
Apre la strada ad un uso moderato del lessico tecnico-scientifico e propone di attingere
all’italiano illustre di tutti gli autori canonici della tradizione letteraria italiana, guardando
sopratutto al Cinquecento. Solo nel 1825, col sermone Sulla Mitologia, tenta di rilanciare la
poesia del mito contro le innovazioni della scuola romantica, ma non fa che sancire la
vittoria di Alessandro Manzoni, ritenuto il capofila dei romantici. L’ultimo guizzo è la
canzone Pel giorno onomastico della mia donna (1826), vicina al classicismo moderno,
introspettivo e sentimentale, di Leopardi, con cui condivide l’innovativo schema metrico di
Alla sua donna.
Quanto ai principali generi letterari del primo Ottocento, notiamo che innanzitutto che a
teatro, oltre ai melodrammi, in cui si afferma il dinamismo musicale di Gioacchino Rossini, il
pubblico apprezza ancora la tragedia, un genere praticato da tutti i poeti più importanti.
La tragedia di tipo alfieriano - pochi personaggi, azione essenziale che ruota attorno a
contrasti insanabili - è la più apprezzata dai letterati e dagli intellettuali. Gli autori seguono
la regola classica delle tre unità (tempo/spazio/luogo), secondo cui ogni tragedia deve
rappresentare una sola situazione drammatica che si deve svolgere in un unico luogo
nell’arco di 24 ore.
Nella storiografia si impone Vincenzo Cuoco (1770-1823), formatosi a Napoli, ed in esilio a
Milano dopo il ritorno borbonico. Lì pubblica il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli
(1801), in cui racconta la storia della Repubblica del 1799 per analizzare le contraddizioni
che l’hanno fatta crollare. Lo stile è quello solenne e sentenzioso degli storici classici, citati
e presi a modello insieme al disincantato realismo politico di Machiavelli e allo storicismo di
Vico. La rivoluzione napoletana è fallita perché “passiva”, scatenata dall’intervento esterno
dell’esercito francese, e perché fondata su massime che non sono riuscite a diventare
“popolari”. Per Cuoco i “patrioti” napoletani avrebbero dovuto riformare le finanze e
dividere più equamente le “immense terre” accumulate dagli “ecclesiastici” e dal re. Cuoco
indirizza la sua ipotesi politica liberale-moderata alla borghesia dei commercianti, dei
piccoli proprietari terrieri e dei funzionari. Il libro ha successo e resterà un testo centrale
nella formazione politica di tutti i protagonisti del movimento di unificazione nazionale,
anche per l’importanza data ai temi della nazione e della indipendenza italiana. Da
aspirazioni analoghe nasce il Platone in Italia (1804-06), un romanzo epistolare modellato
sul genere tardosecentesco della narrativa antiquaria, teso a definire e a rilanciare la
supremazia culturale dell’Italia di fronte alla posizione dominante della Francia. Cuoco
ripropone il mito di una antichissima sapienza degli italiani per conferire l’autorevolezza
dell’antichità alla sua moderna invenzione di un’identità nazionale.
Il primato nel campo della prosa saggistica e critica, equivalente neoclassico dell’eloquenza
oratoria degli antichi, appartiene a Pietro Giordani (1774-1848). Il suo capolavoro è il
Panegirico delle imprese civili di sua maestà Napoleone il Grande (1807). Giordani elogia la
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legislazione riformatrice e laica di Bonaparte, con uno stile che evoca l’armonioso equilibrio
e la solennità del latino, grazie alla simmetria delle frasi e al lessico elevato ma preciso. Ma
proprio per l’enorme importanza che, nella sua rigida adesione al neoclassicismo,
attribuisce alla perfezione dello stile, Giordani, sempre insoddisfatto dei risultati, non
riesce mai a realizzare le opere di largo respiro che i contemporanei si aspettano da lui.
Con la Restaurazione, espulso dallo Stato Pontificio a causa delle sue opinioni liberali e
atee, si trasferisce nella Milano austriaca dove insieme a Monti diventa redattore dell
“Biblioteca italiana”, ottenendo una rinomanza nazionale. Diventa poi un oppositore
dichiarato dei regimi legittimisti italiani, finendo più volte in carcere. Nel 1817 conosce il
giovane Leopardi e ne intuisce subito le potenzialità letterarie: quel giovane può diventare
il prefetto scrittore italiano che Giordani non riesce ad essere, ridando forza e prestigio al
classicismo. Negli anni Venti collabora alla prestigiosa “Antologia” di Vieusseux, dove fa
pubblicare un’anticipazione delle Operette Morali leopardiane. Nei suoi ultimi anni si
dedica alla stesura di lettere aperte semiclandestine, con cui diffonde coraggiose prese di
posizione morali e civili, come la clamorosa denuncia dei maltrattamenti inflitti agli allievi
delle scuola religiose o gli inviti a migliorare cultura e condizioni di vita dei ceti popolari.
La sua prosa svolgerà un ruolo importante nel recupero carducciano del classicismo.

7. Ugo Foscolo

Foscolo nasce nel 1778 a Zante, isola greca governata dalla Repubblica di Venezia. Provenire
dalla patria ideale del mondo classico sarà sempre per lui motivo di orgoglio e uno stimolo
creativo. Morto il padre, la famiglia si trasferisce a Venezia, dove Foscolo riceve una buona
formazione classico-umanistica presso istituti religiosi, maturando una vocazione letteraria.
A Venezia, scopre i libri più importanti per la sua formazione: Parini, Alfieri, la poesia
sepolcrale e notturna inglese, Ossian, Rousseau e i grandi autori antichi. All’università di
Padova alcuni studenti lo introducono a ideali democratico-rivoluzionari di ascendenza
giacobina. L’arrivo dell’esercito repubblicano lo entusiasma. Lo dimostra il suo esordio
letterario col Trieste (1797), una tragedia che imita Alfieri nel tema libertario e
antitirannico e nell’essenzialità del disegno, fondato solo su 4 personaggi. L’opera riscuote
grande successo. Foscolo sceglie poi di trasferirsi a Bologna dove si arruola nell’esercito.
Di fronte al precipitare degli eventi, la poesia e la letteratura si intrecciano sempre di più
con la politica. Ora Foscolo può seguire la sua vocazione letteraria con una libertà prima
impensabile e può mettere in pratica il modello ideale di scrittore indipendente, che ha
appreso da Parini e Alfieri. Sulle orme di Alfieri, rivendica per sé un ruolo di intellettuale
indipendente, che hai potenti sa dire “fermamente la verità”. Ma il suo temperamento
burrascoso e anticonformista gli fa sopratutto vivere intensamente molte storie d’amore.
Queste esperienze segnano profondamente la sua attività creativa, che giunge, tra il
1802-03, ai primi approdi importanti.

Nel 1802 pubblica la prima edizione completa del romanzo epistolare Ultime lettere di
Jacopo Ortis. Partito da una notizia di cronaca, ricava gli elementi essenziali della trama e
la struttura narrativa da un celebre romanzo epistolare tedesco: I dolori del giovane
Werther (1774) di Goethe, a cui aggiunge una specifica attenzione per la politica.
Il romanzo si presenta come la raccolta delle lettere del protagonista, curata dal suo amico
e corrispondente Lorenzo Alderani. Jacopo, giovane veneziano di opinioni democratiche,
ricercato dagli austriaci dopo Campoformio, trova un precario sollievo dalle delusioni
politiche nell’amore per Teresa, che lo ricambia. Ma il padre di lei ha già programmato un
matrimonio di convenienza con Odoardo, uomo d’affari conservatore. Jacopo allora
intraprende un viaggio in varie regioni d’Italia, scoprendo le ingiustizie e le contraddizioni
dei nuovi governatori repubblicani. Cresce così il suo disperato disinganno nella possibilità di
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assicurare “libertà” e “giustizia” alla sua patria. Al suo ritorno scopre che Teresa di è già
sposata con Odoardo e decise di suicidarsi, pugnalandosi il cuore.
Pubblicando un romanzo ambientato nel presente, Foscolo introduce uno scarto significativo
rispetto al canone letterario neoclassico, che lo considera un genere inferiore. Ma questo gli
permette di raggiungere un pubblico più ampio e può comunicare le sue passioni umane e
politiche alla nascente borghesia. Si guadagna anche il riconoscimento letterario dei lettori
più colti rendendo l’Ortis “sublime” nell’argomento e solenne nello stile, secondo i
parametri neoclassici. Ponendo al centro della scena l’io di un solo personaggio, la struttura
epistolare a una sola voce conferisce al romanzo un adattamento diaristico, rendendolo un
coinvolgente sfogo-confessione delle “angosciose passioni” dell’autore. Ma se il romanzo
accoglie esperienze e sentimenti reali, la personalità e la scrittura intima di Foscolo
risentono di modelli letterari. Nella prosa dell’Ortis risuonano gli echi di poesie antiche e
moderne. Per esprimere le personalità melodrammatica del protagonista, Foscolo crea un
concerto di dissonanze. I registri più elevati prevalgono sui tratti realistici, quotidiani,
prosaici, che restano sullo sfondo per non abbassare il livello letterario.
Sul versante politico, il suicidio di Jacopo Ortis è una metafora della crisi delle ipotesi
rivoluzionarie e della delusione delle speranze patriottiche. I rapporti tra gli uomini
appaiono guidati dalla lotta egoistica di tutti contro tutti. Non resta che coltivare le
“illusioni” dell’amore, dell’amicizia, della bellezza, dell’arte, degli ideali democratici e
patriottici, che elevano al di sopra della squallida realtà. Alla ragione, Jacopo contrappone
le proprie “generose passioni”. Questa squalifica della razionalità in nome del sentimento
diventerà uno dei temi portanti del Romanticismo. E il romanzo di Foscolo rielabora una
vasta gamma di motivi tipici dell’estetica del sentimentale, del tenebroso e dell’orrido-
sublime di fine Settecento, poi ripresi dai romantici.
Ma Foscolo trasfigura e idealizza il proprio autoritratto. Alla negatività della situazione
storica e al conformismo dei comportamenti privati, Jacopo contrappone un’esigenza
assoluta di libertà e di amore e una “virtù” che non si piega al compromesso. L’Ortis esalta
il conflitto insanabile tra l’ingiustizia del mondo e la nobiltà dell’eroe, che sceglie il suicidio
come affermazione estrema di sé. Questa struttura drammatica resta quindi vicina a quella
della tragedia (letteratura alta) e segue gli imperativi estetici, la visione del mondo e i
modelli esistenziali della cultura neoclassica.
L’Ortis ottiene subito un enorme successo di pubblico: è il primo romanzo italiano che si
sottrae alla squalifica letteraria del genere. La combinazione di amore e patria na farà un
libri di culto nell’età del Risorgimento.

Nel 1803 esce una breve raccolta di Poesie (12 sonetti e 2 odi), frutto di una lunga
elaborazione, tesa ad avvicinarsi ai severi ideali neoclassici di perfezione formale, sempre
più lontani dalla facile vena creativa di tanta poesia settecentesca. Le Odi riprendono il
modello classicista di Parini, per proiettare la bellezza assoluta delle dee greche su due
protagoniste della vita mondana contemporanea, in una elegante trasfigurazione mitica del
quotidiano. Nei Sonetti le figure del mito e gli echi dei poeti antichi si fondono
coll’espressione lirica dell’io e le sue vicissitudini biografiche ed esistenziali: l’origine greca
(A Zacinto), l’esilio da Venezia, il suicidio del fratello (In morte del fratello Giovanni),
l’amore, la malinconica attrazione per la “fatal quiete” della morte (Alla sera), la
ribellione. Convinzioni e sentimenti già espresse nell’Ortis compongono un nuovo
autoritratto ideale, in cui le violente pulsioni soggettive dialogano in un gioco di echi e
allusioni con la tradizione lirica italiana e greco-latina.
Nello stesso anno, nei Discorsi introduttivi alla sua traduzione de La chioma di Berenice,
Foscolo mette a fuoco la propria poetica. Sostiene che i grandi poeti “primitivi” educavano
le proprie nazioni con la potenza della loro “immaginazione”, non intaccata dalla “ragione”.
Le loro “favole” trasformavano i concetti astratti in “allegorie e pitture sensibili”, capaci di
coinvolgere e persuadere. Analogamente, la poesia “lirica” moderna, per suscitare alti
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ideali civili, deve colpire “il cuore” con le “passioni” e “la mente” col “meraviglioso”,
tratto dalla mitologia greca, che custodisce nelle sue storie un patrimonio di valori
universali apprezzato e compreso da tutti.
Nel 1807 esce il “carme” Dei Sepolcri, l’applicazione più organica e compiuta della sua
poetica. Lo spunto sono i colloqui con Pindemonte sull’editto napoleonico che prescrive di
seppellire i morti fuori dalle mura cittadine. Ma i versi di Foscolo non si limitano alla
malinconica meditazione elegiaca sulla caducità, tipica della poesia tardosettecentesca.
Con i Sepolcri crea infatti una nuova poesia filosofica in cui emozioni e procedimenti
stilistici sono anzitutto al servizio delle idee: devono coinvolgere i lettori nel denso discorso
teorico sulla funzione etica, culturale e politica del culto dei morti.
Scritta in endecasillabi sciolti secondo l’uso classicista, questa poesia forza i limiti del gusto
contemporaneo a causa della densità di significati, che la rende di difficile lettura. Foscolo,
per facilitarne la comprensione, pubblica in appendice una serie di Note al carme, e
realizza una schematica parafrasi dei versi divisa in 4 sequenze:
1. Illustra l’importanza privata, affettiva e morale delle tombe, che conservano la
memoria delle persone oneste permettendo una “corrispondenza d’amorosi sensi” con
chi li ha amati o stimati in vita ;
2. Espone lo stretto vincolo tra il culto dei morti e la nascita del legame sociale e della
civiltà tra le “umane belve” ;
3. Mostra la funzione civile e politica delle “urne de’ forti”, che spingono i vivi a emularne
le imprese, e celebra Firenze custode delle tombe dei grandi italiani che suscitano
“amor di patria” ;
4. Associa il ruolo di trasmissione della memoria proprio dei sepolcri a quello eternatore
della poesia.
Questa articolata struttura argomentata accoglie una fitta trama di immagini, descrizioni,
ricordi, episodi tratti dalla storia e dal mito, che aggiungono di volta in volta evidenza
sensibile o inaspettate trasfigurazioni fantastiche al discorso teorico, conferendogli un
inedito potere evocativo. Foscolo innesta il repertorio poetico e mitologico classico
nell’attualità politica e culturale del suo tempo, attribuendogli una funzione e un significato
moderni. Foscolo affida alla poesia il compito di tramandare le “illusioni” dell’etica e della
civiltà, rendendola il valore supremo di un’umanità senza speranze. I poeti acquistano così
l’inedito ruolo di legislatori morali. I Sepolcri tracciano allora una fondazione mitica del
ruolo civile dello scrittore e della sua indipendenza dal potere.

Nelle sue lezioni all’Università di Pavia (1808), inaugurate dal discorso Dell’origine e
dell’ufficio della letteratura (1809), espone la sua concezione del ruolo dello scrittore e dei
suoi rapporti col potere e con la società. Gli scrittori, in posizione intermedia e
indipendente tra i governatori e i loro sudditi, devono criticare gli eccessi dei primi e
trasmettere valori civili e patriottici ai secondi, in particolare ai ceti medi dei possidenti,
che possono giovare di più alla patria. Nel 1811 il governo proibisce una sua tragedia, Ajace,
ritenuta antinapoleonica, e lo espelle dal Regno d’Italia.
Nel 1812 si sposta a Firenze e inizia la stesura del suo poema più ambizioso: Le Grazie.
L’Europa è appena tornata in guerra e a perire sono i soldati italiani sotto la guida di
Napoleone. A questo “delirar di battaglie” Foscolo oppone un’utopia estetica: rappresentare
la potenza civilizzatrice dell’arte, che seduce e ingentilisce con la sua “armonia”
l’aggressività umana e placa il dolore. Stile e struttura narrativa sviluppano quelli dei
Sepolcri, ma l’energia declamatoria del primo poemetto si attenua nella ricerca di
compostezza ed eleganza, per avvicinare l’effetto di questi versi a quello delle sculture di
Canova a cui si ispirano. Foscolo vuole disegnare una storia ideale della civilizzazione
umana, attraverso la diffusione delle arti dalla Grecia classica all’Italia moderna. Vuole
creare un nuovo mito che abbia lo stesso fascino e la stessa immediatezza di quelli degli
antichi greci. Questo mito sarà ripartito in 3 inni, che canteranno rispettivamente:
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1. Dedicato a Venere, dea della bellezza -> nascita della civiltà nella Grecia classica ;
2. Dedicato a Vesta, dea della sapienza -> importanza dell’Italia nel Rinascimento:
equilibrio e armonia di quel periodo sono valori perduti da recuperare ;
3. Dedicato a Pallade, dea dell’intelligenza -> perdita nella realtà presente dei valori
rappresentati dalle Grazie.
Per dare evidenza visiva alle dee, Foscolo ricorre all’allegoria, “personificazione” di una
“idea astratta”. E’ il suo tentativo estremo di ricreare nel moderno la bellezza assoluta
dell’antico, ma non riesce a portarlo a termine.
Al crollo dell’impero Foscolo si schiera con chi cerca di tenere in vita il Regno d’Italia,
sottraendolo al controllo francese. Quando però gli verrà chiesto di giurare fedeltà al nuovo
governo austriaco egli si rifiuta e sceglie l’esilio. Si rifugia in Inghilterra, dove la fama di
grande scrittore indipendente gli guadagna la stima e l’accoglienza degli ambienti liberali e
del mondo culturale dell’isola. Ma ben presto il suo comportamento estraneo ai codici
sociali dell’aristocrazia inglese lo relega gradualmente ai margini dell’alta società.
Ridotto alla miseria, continua a lavorare in modo sempre più irregolare a opere in versi che
resteranno frammentarie. Invece la produzione in prosa è molto più ampia, e va dagli
interventi politici militanti a un tentativo di creare un brillante saggio romanzesco, le
Lettere scritte dall’Inghilterra, che mette a confronto la civiltà italiana e inglese.
Ma è come critico “specialista” di letteratura italiana che Foscolo riesce a conquistarsi un
suo pubblico nello sviluppatissimo mercato editoriale inglese, e a vivere del suo lavoro
intellettuale. Muore a Londra nel 1827.

8. La svolta romantica sotto la Restaurazione

Nel Congresso di Vienna del 1815, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia ridisegnano la
geografia politica dell’Europa per scongiurare la rinascita della potenza napoleonica o nuove
fiammate rivoluzionarie. Da una parte restaurano le monarchie assolute, dall’altra creano
nuovi stati per mantenere in equilibrio le aree di influenza delle grandi potenze europee.
Fino al decennio 1830-40 il continente è dominato dalla Santa Alleanza tra le potenze
assolutiste di Austria, Russia e Prussia, che aboliscono molte innovazioni sociali, economiche
e amministrative dell’età rivoluzionaria e napoleonica: è l’epoca della Restaurazione. Con le
vecchie dinastie regnanti, tornano gli antichi privilegi feudali, crescono la censura della
stampa e la repressione degli oppositori, mentre cala il peso politico della borghesia. Il
territorio italiano è di nuovo diviso in diversi stati, e posto sotto la tutela dell’impero
d’Austria. Il ripristino del frazionamento e del protezionismo rallenta la crescita dell’Italia,
che resta ai margini del moderno capitalismo industriale dei grandi stati-nazione europei.
Accanto alle parole d’ordine liberali, in tutta Europa si riscoprono o si inventano identità
nazionali che spesso non coincidono con il sistema di stati instaurato dal Congresso di
Vienna. Anche in Italia, gli imprenditori e proprietari terrieri più innovatori spingono per
unificare il paese, dandogli un ordinamento moderatamente liberale e abbattendo il
protezionismo economico. I funzionari napoleonici organizzano clandestinamente
l’opposizione ai governi legittimi. In Italia nasce una rete di associazioni segrete, la
Carboneria, che cerca di rovesciare i sovrani assoluti.
Nel 1820-21 una vittoriosa insurrezione di militari liberali spagnolo innesca rivolte in tutta
Europa. In Italia, i principali epicentri di questi moti, guidati dai carbonari e dagli ex
ufficiali napoleonici, sono in Piemonte e nel Regno delle Due Sicilie, dove il principe Carlo
Alberto e il re Ferdinando I accettano riforme costituzionali. Ma l’esercito austriaco
sconfigge gli insorti, ripristina la situazione precedente e apre la via alla repressione. La
classe dirigente viene epurata, la censura e il controllo poliziesco si induriscono,
condizionando anche la vita culturale.

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Nel 1830 in Francia una rivolta porta al trono Luigi Filippo, che introduce riforme liberali e
una costituzione che abroga il principio del diritto divino. Sconfessando il Congresso di
Vienna, Luigi Filippo minaccia di bloccare col suo esercito eventuali interventi militari della
Santa Alleanza. In Italia carbonari e liberali si convincono che sia possibile rovesciare i
sovrani restaurati senza essere repressi dall’Austria. Nel 1831 insorgono i ducati di Parma e
Modena e i territori dello Stato Pontificio, dando vita a governi di orientamento liberale-
moderato. Ma l’Austria interviene, travolge gli insorti e innesca un’altra ondata repressiva,
che spinge i patrioti superstiti ad emigrare. Questo secondo fallimento rende palese
l’inefficacia delle sette carbonare: nel mondo degli esiliati prende corpo un nuovo
movimento, la Giovine Italia, guidato da Giuseppe Mazzini, che sostiene un programma
nazionalista e repubblicano.

In questi anni la vita culturale italiana è condizionata dal potere politico che cerca di
bloccare la circolazione di idee di ordinamento liberale o contrarie all’ortodossia cattolica.
La censura è praticata con particolare durezza nel Lombardo-Veneto, nello Stato della
Chiesa e nel Regno delle Due Sicilie, mentre è più tollerante in Toscana. L’istruzione
pubblica gratuita e obbligatoria viene abolita ovunque tranne che nel Lombardo-Veneto.
L’insegnamento di base è affidato alle istituzioni ecclesiastiche, mentre decadono le
università; i livelli di alfabetizzazione e istruzione restano lontani da quelli delle maggiori
nazioni europee. Solo nei grandi centri urbani di Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania
prende corpo un nuovo pubblico borghese.
Escluso dal pubblico impiego, l’intellettuale privo di rendite deve guadagnarsi da vivere con
l’insegnamento privato o il lavoro editoriale nei grandi centri culturali, dove si pubblicano
libri e riviste, e si elaborano le nuove tendenze culturali e letterarie. La divisione in più
stati, intanto, aumenta il policentrismo culturale del paese, diversificando sensibilità e
gusto secondo le aree geografiche. Il centro dominante resta Milano, dove l’incontro tra i
primi imprenditori librai del periodo napoleonico e i tanti intellettuali esclusi dagli impieghi
pubblici porta allo sviluppo della prima moderna industria editoriale italiana, importante
cassa di risonanza per il movimento liberale e patriottico. Nasce qui la nuova figura del
letterato di professione che vive degli incassi delle sue opere e del lavoro di giornalista,
traduttore e compilatore di antologie e volumi divulgativi. Qui i giovani autori romantici
lanciano nel 1816 l’offensiva contro il canone letterario classicista, difeso dalla
filogovernativa “Biblioteca italiana” e fondano il primo importante periodico di opposizione
ottocentesco: “Il Conciliatore” (1818-1819), una rivista che si richiama all’esperienza
settecentesca del “Caffè” e non si indirizza più ai soliti ‘dotti’ ma al nuovo e più ampio
pubblico giudicante, da convincere “con le sole armi della ragione”. “Il Conciliatore”
diffonde con linguaggio vivace e informa le principali innovazioni scientifiche, economiche e
tecniche, le idee liberali e le proposte letterarie romantiche, introducendo in Italia i temi
chiave del dibattito europeo, ma è presto bloccato dalla censura austriaca.
A Firenze la politica più tollerante del granduca rende possibili importanti iniziative
editoriali, coordinate dall’operatore culturale svizzero Gian Pietro Vieusseux (1779-1863) e
finanziate da proprietari terrieri aristocratici liberal-moderati, che vedono nella cultura uno
strumento di pressione politica e di organizzazione del consenso. Al Gabinetto scientifico-
letterario, luogo di ritrovo e discussione di rilevanza nazionale dove si possono anche
consultare libri e periodici europei, si affianca presto l’Antologia (1821-33), la rivista più
diffusa e autorevole dell’epoca, che raccoglie il testimone del “Conciliatore”. Diretta da
Vieusseux e redatta da Giuseppe Montani (1789-1833) e Niccolò Tommaseo, pubblica sia
contributo legati all’economia, alla scienza, all’agronomia, sia testi e recensioni di
letteratura. Di orientamento liberal-moderato, dà spazio a tutti i maggiori intellettuali
italiano dell’epoca. Fino al 1833, quando l’ Antologia è soppressa dalla Santa Alleanza,
Firenze contende quindi a Milano il ruolo di capitale culturale.

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Invece a Roma, centro classicista provinciale e conservatore, prevale l”antiquaria”, cioè lo


studio dilettantesco dell’archeologia romana, che non rischia di turbare l’ordine costituito.
Il governo pontificio combatte le innovazioni culturali e chiude le frontiere a ogni influsso
esterno, proprio come il Regno delle Due Sicilie.
La rete dei centri culturali italiani si estende anche all’estero perché molti letterati vivono
in esilio. In tutta Europa, ma sopratutto in Italia, libri di successo, come i Promessi sposi di
Manzoni, sono ristampati abusivamente e venduti sottocosto. Nel 1840 si chiude la battaglia
per una legislazione unitaria sui diritti d’autore, lanciata da Vieusseux una decina di anni
prima, con un accordo siglato da tutti i governi della penisola, tranne i Regno delle Due
Sicilie: in un’Italia ancora da costruire, la via letteraria assume così i tratti di una “nazione”
senza stato.

Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento si impongono sulla scena
culturale europea profondi mutamenti della sensibilità, del gusto, delle categorie estetiche
e delle pratiche creative. Filosofi, scrittori e artisti liquidano l’estetica e le poetiche
classicità fondate sull’imitazione degli antichi modelli greci e latini. Anche i capisaldi
illuministi della razionalità e dell’universalismo cosmopolita sono messi in crisi da nuove
generazioni di intellettuali che attribuiscono più importanza alla sfera dei sentimenti
individuali e alla dimensione religiosa e tendono a valorizzare le diverse identità nazionali.
Il mondo delle arti europeo è percorso da una serie di innovazioni dei temi, dei generi e dei
procedimenti, interpretata dagli storici della letteratura come un fenomeno unitario grazie
al concetto di Romanticismo.
Molte premesse risalgono alla metà del Settecento, soprattutto in Inghilterra e Germania,
interessate a controbilanciare l’egemonia della tradizione classicista della Francia dei
“lumi”. Nell’Inghilterra del secondo Settecento artisti e intellettuali si discostano dal mondo
della ragione illuminista e dall’equilibrio dell’arte classica. Si celebra il fascino
dell’architettura gotica del Medioevo e di una natura pittoresca e irregolare, mentre si
riscopre il teatro di Shakespeare (1564-1616). Ai modelli mediterranei greco-latini dell’epica
e della tragedia (Francia) si oppone il patrimonio autoctono della poesia popolare delle
saghe celtiche del nord, accolte come frutto di una spontanea immaginazione barbarica e
primitiva, come i canti attribuiti al bardo scozzese Ossian, di James Macpherson. Sorgono
nuovi generi come la poesia sepolcrale o il tenebroso romanzo gotico.
In Germania (1760-80) queste tendenze sono rielaborate dalla riflessione di Johann G.
Herder (1744-1803), che rifiuta i modelli atemporali e razionalisti su cui si fonda l’egemonia
del classicismo francese e propone invece un approccio storico-genetico alle opere del
passato. Il valore di una cultura non dipende dalla vicinanza a un modello ideale, ma dalla
sua originalità e autenticità, cioè dalla capacita di esprimere lo spirito del popolo, ossia il
carattere profondo di una nazione.
Le sue proposte sono raccolte da un gruppo di giovani scrittori che creano una nuova
tendenza letteraria, poi chiamata Strum und Drung. Per esaltare la forza istintiva e
dirompente del genio, rappresentano personaggi d’eccezione, estranei alla morale comune,
che lottano contro un mondo gretto e meschino.
Questa nebulosa di fenomeni convive con l’egemonia delle posizioni classiciste e
illuministiche, che però subisce scosse decisive nel decennio successivo al 1789. Molti
intellettuali riflettono su contraddizioni e limiti della ragione illuminista. La svolta matura
fuori dai circuiti della cultura ufficiale francese. Uno dei suoi promotori è il nobile François
René de Chateaubriand (1768-1848), che illustra con Il genio del cristianesimo (1802) “le
bellezze della religione cristiana”, demolita e ridicolizzata dall’Illuminismo, riscuotendo
successo in tutta Europa. All’acume razionale e ironico della filosofia settecentesca,
Chateaubriand oppone la “poesia” dei sentimenti e la verità della “religione”. Agli “eleganti
fantasmi” dei miti antichi oppone il “meraviglioso cristiano” della letteratura del Medioevo

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e del Rinascimento. Nel suo breve romanzo, René, ritrae le inquietudini interiori della
generazione postrivoluzionaria.
La Francia illuminista è scalata dalla sua posizione dominante sul piano filosofico dalla
Germania, dove lo studio della filosofia è connesso a quello della teologia, e dove nasce il
nuovo sistema dell’idealismo, che pone l’accento sul ruolo fondativo dell’Io, cioè del
soggetto pensante che organizza i processi di conoscenza della natura e può superare anche
la propria finitezza e i limiti del non-Io (mondo) attraverso l’intuizione dell’Ideale. Lo
sviluppo sistematico della filosofia idealistica attuato da Georg W.F. Hegel (1770-1831)
segnerà tutto il pensiero ottocentesco europeo. Per Hegel, ogni evento storico e cultuale
significativo è spiegabile in termini razionali: la storia ideale dell’umanità è scandita da
complesso movimento per cui da una situazione ideale (tesi), scaturisce per contraddizione
interna una reazione (antitesi), che la nega, rendendo possibile il “superamento” di
entrambe grazie a una “sintesi” che porta l’umanità a un superiore livello di consapevolezza
di sé. Hegel ripensa nella Fenomenologia dello Spirito l’intero sviluppo della civiltà umana.
Richiamandosi all’idealismo, Schiller propone col saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale
(1794) una diagnosi filosofica della sensibilità estetica contemporanea. L’avanzamento della
civiltà ha provocato una frattura tra l’uomo e il mondo naturale: vi è una distinzione tra il
poeta “ingenuo”, che “è natura” e imita felicemente il mondo fenomenico con “l’arte della
limitazione”, e il poeta “sentimentale”, che “cerca la natura” e trasforma la sua nostalgia
nell’aspirazione a una superiore idealità con “l’arte dell’infinito”.
A Jena, nel circolo di scrittori animato dai fratelli Schlegel intorno alla rivista
“Athenaeum” (1798-1800), nasce la teoria del Romanticismo. Friedrich Schlegel (1772-1829)
distingue la “poesia classica” dalla “poesia romantica”: se l’antica ruotava intorno alla
mitologia, la moderna “manca di un centro”, e deve crearsene uno nuovo, partendo dallo
scavo nel profondo dell’io. Essa si ispirerà all letteratura nata nel Medioevo dall’incontro tra
le invasioni germaniche, la nuova religione cristiana e le fantasie dell’Oriente. A divulgare
per l’Europa la nuova teoria estetica è il fratello August W. Schlegel. Egli sostiene che l’arte
non è un soggetto “meccanico”, che segue regole universali, ma si sviluppa secondo leggi
interne e individuali, e va compresa esaminando il suo rapporto con la civiltà che l’ha
creata. Per lui l’arte “classica” è quella degli antichi greci e latini che hanno creato una
poesia delle perfezione atemporale, un’arte del “limite”. L’arte “romantica” è invece
quella dei moderni: trae le sue origini dal cristianesimo medievale e dalle istituzioni della
cavalleria, è in continua evoluzione nel tempo ed è una poesie del desiderio infinito.
L’opera decisiva per la diffusione delle teorie romantiche è il suo Corso di letteratura
drammatica (1811), dove si serve della dicotomia classico-romantica per attaccare la
posizione dominante del teatro classicista francese. A suo parere il classicismo è governato
dal principio meccanico dell’imitazione e dalla regola delle 3 unità, mentre la letteratura
romantica si fonda sull’originalità dell’ispirazione individuale e la mescolanza di generi.
La diffusione europea di queste teorie è favorita dall’aristocratica liberale e
antinapoleonica Madame de Staël (1766-1817), la quale organizza nel castello ginevrino di
Coppet un centro di elaborazione politico-culturale da cui fa circolare le nuove tendenze
romantiche, esposte nel suo saggio Alla Germania (1813), che insieme alla tradizione
francese del Corso di Schlegel suscita dibattiti in tutto il continente. L’offensiva ha
successo: le nuove generazioni di intellettuali trovano nelle poetiche romantiche un efficace
dispositivo polemico e un ventaglio di proposte estetiche con cui rovesciare le gerarchie
culturali consolidate.
In Italia e in Francia si accendono i contrasti fra tradizionalisti e innovatori. In Inghilterra,
invece, i giovani scrittori non si sentono coinvolti dal quelle teorie e da quei dibattiti,
benché all’estero siano considerati romantici perché non si attengono alle regole classiciste.
La critica fisserà la data di avvio del Romanticismo inglese nel 1798, l’anno di pubblicazione
delle Ballate liriche di Coleridge, che introducono una consapevole rottura con la
tradizione. I loro versi adottano un linguaggio vicino alla comunicazione quotidiana,
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mettendo in scena anche personaggi popolari o esplorando i territori del mistero e del
fantastico. In particolare, la prefazione di Wordsworth sancisce un cruciale cambio di
paradigma da un’estetica dell’imitazione a un’estetica dell’espressione soggettiva,
sostenendo che “la poesia è lo spontaneo traboccare di forti sentimenti”.
In questi anni, il successo di un autore dipende sempre più dal gradimento del mercato
editoriale, mentre un processo di sacralizzazione dello scrittore crea la nuova figura del
poeta-profeta. L’offensiva dei romantici contro le regole classiste segna anche la fine della
lunga durata della retorica e delle sue regole. Le poetiche emergenti cercano direttamente
esempi e modelli nei singoli testi, e viene sconvolto il tradizionale sistema dei generi
letterari.
In poesia, l’importanza attribuita ai sentimenti individuali scatena un’esplosione della lirica.
L’epica esce definitivamente di scena, sostituita da racconti in versi più vicini alle tradizioni
popolari, come la ballata, o più agili, come i poemi narrativi o teatrali con cui si impone
Byron (1788-1824). Nelle sue opere più di successo, come il Pellegrinaggio del giovane
Aroldo (1812) o il Giaour (1813), uomini straordinari, trascinati da passioni estreme, sfidano
le regole della morale e della società per seguire la loro sola coscienza, tragicamente
straziata da colpe oscure e indicibili. Questo nuovo personaggio del titano o dell’eroe
demoniaco ha enorme impatto sull’immaginario per l’intero Ottocento.
Nella poesia, il nuovo pubblico di massa decreta il successo del romanzo, un genere libero,
senza modelli costrittivi, mobile, accattivante, capace di adattarsi a ogni oscillazione del
gusto e di tenere avvinghiati con il suspense e le peripezie dell’intreccio lettori di ogni
livello culturale. Dall’Inghilterra W. Scott (1771-1832) conquista il pubblico europeo con
Waverley (1814) e Ivanhoe (1820), creando il nuovo genere del romanzo storico attraverso la
sintesi di due grandi filoni della tradizione letteraria. Da una parte il romance, il racconto
epico cavalleresco della tradizione romanza, il cui interesse ruota attorno a storie d’amore
o d’avventura, ricche di colpi di scena e intrighi, ambientate nel Medioevo. Dall’altra il
novel, cioè il romanzo, la narrazione prosaica e realistica che descrive “il corso ordinario
delle vicende umane, e la condizione moderna della società”. Grazie a questa fusione il
narratore trasporta i suoi lettori in età remote, raccontando un mondo pittoresco e
romantico, ma non inverosimile come quello del romance.
I romanzi storici di Scott appassionano i lettori e diventano il modello dominante a cui si
ispira per un decennio tutta la narrativa europea. Solo dopo il 1830 gli scrittori francesi e
inglese iniziano a distaccarsene. Al posto delle storie di eroismo e avventura e delle
suggestive scenografie tratte da un remoto passato, Stendhal (1783-1842), Balzac
(1799-1850) e Dickens (1812-1870) privilegiano la rappresentazione crudamente realistica
della società contemporanea, indagata anche nei risvolti più prosaici e sgradevoli, offrendo
un’interpretazione narrativa delle tensioni e dei conflitti del presente.

In Italia, la polemica tra i romantici e classicisti si accende a Milano. Nel 1816 la “Biblioteca
italiana” pubblica l’articolo di Madame de Staël, Sulla maniera e utilità delle traduzioni,
che esorta gli italiani a tradurre le “recenti poesie inglesi e tedesche” per creare opere
scaturite “dal cuore”. Il fronte dei sostenitori classicisti va dai reazionari più retrivi ai
liberali come Pietro Giordani, che difende il canone letterario neoclassico nei suoi risvolti
laici e razionali, e critica la riscoperta romantica del Medioevo perché rischia di rivalutare
anche pregiudizi e superstizioni di quell’epoca.
Sono sopratutto i giovani scrittori che operano a Milano a sostenere la nuova poetica. Essi
danno vita al primo gruppo di letterati di un paese neolatino che si autodefinisce
“romantico” e stendono dei saggi-manifesto scritti in forma giornalistica, narrativa e
satirica, con la lingua scorrevole e ricca di immagini comiche, vicina al modo di pensare dei
contemporanei.
L’aristocratico liberale Ludovico di Breme (1780-1820) con i suoi saggi oppone alle regole e
ai precetti classicisti il “furor poetico” e il “patetico”. Per lui la poesia moderna è più abile
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ad analizzare ed esprimere “il profondo e la vastità del sentimento”. Le antiche formule


della mitologia gli appaiono ormai un codice vuoto, mentre la poesia contemporanea deve
rappresentare la spiritualità cristiana e le conquiste scientifiche del mondo moderno. Il
nobile milanese Ermes Visconti (1784-1841), nelle Idee elementari sulla poesia romantica,
pubblicate nel 1818 sul “Conciliatore”, sistematizza le teorie degli Schlegel e Madame de
Staël ma prende le distanze dalle possibili implicazioni reazionarie della rivalutazione del
Medioevo. Questa visione della storia come un processo lineare e inarrestabile guidato dalla
ragione è comune a tutti i romantici milanesi, che si sforzano di conciliare le nuove
tendenze con la loro formazione illuminista, optando per un cattolicesimo moderno e un
patriottismo liberale. Nell’ironica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (1816), il
borghese Giovanni Berchet (1783-1851) sostiene che la poesia deve essere “popolare”, cioè
rivolgersi all’ampio ceto che ha “attitudine alle emozioni” e si trova a metà strada tra i
“parigini” (intellettuali) e gli “ottentotti” (selvaggi). Per parlare ai “vivi” occorre
interessare questo nuovo pubblico borghese, abbandonando le convenzioni della “poesia de’
morti” classicista e guardando ai tentativi delle più moderne nazioni europee, come le
ballate di Bürger, che Berchet traduce per offrire un nuovo modello di letteratura moderna.
Nel conflitto tra classicisti e romantici si scontrano due opposte concezioni del rapporto tra
letteratura e società. Per i primi le opere devono emulare la perfetta bellezza dei classici
antichi e moderni, anche a costo di riuscire accessibile solo a pochi. Per gli altri è decisiva
la ricerca della sintonia con la mentalità dei contemporanei. Come scrive Manzoni nel 1823
nella sua lettera Sul Romanticismo, indirizzata a Cesare d’Azeglio, occorre scegliere gli
argomenti che suscitano curiosità e affezione nella massa dei lettori, invece di quelli
apprezzati per abitudini scolastiche e da una classe sola di lettori.
I romantici prevalgono grazie alla loro consonanza con i processi di trasformazione della
società, del pubblico e del sistema editoriale che rendono obsoleti i loro avversari. Sulla
scena letteraria si impone Manzoni, che entra nella battaglia classico-romantica con opere
subito tradotte in tutta Europa. Le sue poesie religiose e patriottiche, le sue tragedie e
sopratutto il suo romanzo lo consacrano come grande scrittore nazionale sia presso il grande
pubblico sia nella ristretta cerchia degli intellettuali.
Il teatro è il primo a recepire le innovazioni romantiche, che interessano sopratutto la
tragedia. Crolla la regola delle 3 unità, mentre le trame tratte dalla mitologia e dalla Bibbia
sono sostituite dalle ambientazioni storiche, in particolare medievali o rinascimentali. Sul
palcoscenico si affermano opere più facili e spettacolari, in cui il linguaggio enfatico, con
toni patetici e lacrimosi, le passioni e la violenza puntano al massimo coinvolgimento
emotivo del pubblico. L’autore più apprezzato è Silvio Pellico (1789-1854): il suo maggiore
successo, Francesca da Rimini (1814), adatta per la scena un celebre episodio dantesco. Nel
melodramma, invece, i nuovi compositori che sia affiancano a Rossini, come Gaetano
Donizetti (1797-1848) e Vincenzo Bellini (1801-1835), sfruttano le nuove possibilità offerte
dal teatro romantico, con opere che ruotano intorno alla rappresentazione ora elegiaca, ora
tragica, della passione d’amore.
Nella poesia la novità della lirica leopardiana è apprezzata solo da ristrette minoranze di
lettori. Dominano la scena i modelli metrici e lessicali imposti dai versi religiosi e patriottici
di Manzoni con la loro rinnovata partitura ritmica, che suona più accattivante per il lettore
medio. I generi più praticati sono quelli narrativi della ballata e della novella sentimentale
in versi, con cui hanno successo autori come Tommaso Grossi (1790-1853) e Berchet,
divenuto il maggior poeta militante del movimento risorgimentale. Le loro scelte tematiche
e stilistiche puntano a produrre il massimo impatto emotivo, spesso a scapito della densità e
della ricchezza dei significati. Le trame, ambientate nel Medioevo o in età contemporanea,
in luoghi esotici/pittoreschi, ruotano intorno ai nodi centrali dell’immaginario dell’epoca:
amore, famiglia e patria. I protagonisti sono piatti e stereotipati, il linguaggio è aulico ed
enfatico e i toni sono patetici e lacrimosi. I risultati più interessanti e innovativi li ottiene la

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poesia dialettale di Porta e di Belli, svincolata dalle limitazioni di linguaggio, di stile e di


gamma tematica dei poeti che compongono in italiano.
Il campo della prosa è interamente rinnovato da nuovo genere del romanzo storico, che si
afferma sull’onda del successo delle opere di Scott. La svolta si ha nel 1827, quando, oltre
ai Promessi sposi di Manzoni, esce un gran numero di romanzi di minore qualità che imitano
il modello scottiano. Il successo e la durata del romanzo storico, che in Italia continua
quando in Francia e Inghilterra era già tramontato, dipendono sia dalla godibilità delle sue
rappresentazioni spettacolari di epoche remote, sia dalle possibilità di far circolare
messaggi patriottici che, trasposti nel passato, sfuggono ai vincoli della censura. La
reinvenzione del passato cambia secondo l’orientamento politico degli autori, divisi tra una
maggioranza liberale moderata e cattolica e una combattiva minoranza democratico-
mazziniana e anticlericale. Questi autori, però, attribuendo per lo più al romanzo funzioni
propagandistiche o di intrattenimento, ripropongono con minime varianti una macchina
narrativa schematica e prevedibile. Le mie prigioni (1832) di Silvio Pellico diventano un
bestseller internazionale e si guadagnano in Italia una popolarità seconda solo a quella dei
promessi sposi, ottenendo un enorme impatto propagandistico, non previsto dall’autore.
Pellico racconta con toni dimessi e commoventi le sue sofferenze di recluso nelle carceri
austriache, tacendo le ragioni della militanza patriottica che gli era costata la condanna,
per dare invece rilievo al proprio tormentato itinerario di riscoperta della fede cattolica,
che lo conduce alla pace interiore.

Dalla parte dei romantici si schiera l’affermato poeta dialettale Carlo Porta (1775-1821).
Egli trae i suoi riferimenti culturali ed etici dal riformismo illuminato della Milano
settecentesca, rivisto alla luce della mentalità diffusa nella classe media: pragmatica,
disincantata e moderatamente egualitaria. Nel 1816 è nel pieno della sua maturità artistica:
una raccolta dei suoi versi deve coronare una collana dedicata ai grandi autori dialettali
milanesi. Giordani stronca l’iniziativa, perché ritiene che i dialetti ostacolino “la pratica
della comune lingua nazionale”. Porta risponde con sonetti sarcastici rivendicando
l’efficacia comunicativa della sua scelta linguistica e difendendo le teorie e le prime opere
romantiche contro le regole classiciste, che riducono la creazione poetica a una “pappa
fatta”. Lo scontro con Giordani fa emergere le due alternative di un dilemma linguistico,
culturale e politico con cui si misureranno gli scrittori fino all’Unità.
Giordani oppone ai dialetti una lingua valida per l’intera nazione, che però è l’arcaico
italiano letterario, purista e classicistico, più scritto che parlato, accessibile solo ai più colti
e lontano dalla vita e dalla cultura contemporanee. Il dialetto di Porta resta chiuso nei
confini municipali, ma è una lingua viva, in grado di rappresentare con precisione e
concretezza ogni aspetto della realtà e di restituire i modi di esprimersi, le autentiche
inflessioni di tutti gli strati sociali.
Lo dimostrano i suoi vivaci poemetti narrativi, che seguono due grandi direttrici:
• Da una parte una voce bonaria e sottilmente ironica racconta dall’esterno le ridicole
peripezie di preti e frati scrocconi e gaudenti, sbeffeggiando il parassitismo ecclesiastico e
dissacrando i racconti edificanti della tradizione religiosa più retriva. Il dialetto permette
a Porta di arricchire e vivacizzare la critica di costume, mettendo in scena la concreta
fisicità del corpo, in tutti i suoi risvolti più bassi, grotteschi od osceni, interdetti
all’italiano alto e rarefatto della tradizione illustre.
• Dall’altra parte, i racconti più sapidi e rivoluzionari sono quelli in cui sono dei popolani a
raccontare in prima persona la loro storia. Porta impiega la tecnica teatrale del monologo
per riprodurre il tono autentico del parlato popolare, con le invettive, gli intercalari, le
incongruenze sintattiche, e per restituire la crudezza e la vivacità di uno sguardo portato
dal basso sulle ingiustizie, le crudeltà e le inesattezze della società e della vita. E’ una
svolta radicale, per una tradizione letteraria che non aveva quasi mai dato la parola al
popolo, relegato di solito nelle stilizzazione irrealistiche della comicità o dell’idillio.
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La poesia portiana invece gli restituisce voce, spessore psicologico e dignità umana,
mettendo in scena personaggi e vicende estremamente realistici, in cui il comico si mescola
col serio e col tragico.
All’opera di Porta si ispira il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863),
intellettuale di formazione illuminista e di convinzioni moderatamente liberali, divenuto
aspramente reazionario sull’onda degli eccessi rivoluzionari del 1848. Belli si occupa in
forma semiclandestina a una colossale impresa letteraria che sarà pubblicata solo dopo la
sua morte: più di duemila Sonetti, composti in dialetto romanesco sopratutto tra gli anni
1830-39 e 1842-47. Il suo scopo, dice, è “lasciare un monumento di quella che è oggi la
plebe di Roma”, ritratta nella sua spontanea vivacità per darne un’immagine fedele, non
idealizzata. A Belli non interessa restituire i modi di pensare dell’intera comunità romana,
ma solo quelli degli strati sociali più bassi. Chi parla nei suoi sonetti è la “plebe ignorante”,
con la sua lingua “guasta e corrotta”, “non italiana e neppure romana, ma romanesca”.
Belli non intende rifarsi alla poesia popolare o impiegare toni popolareschi ma esporre “i
popolari discorsi svolti nella mia poesia”, facendo sì che le costrizioni del metro e della rima
appaiano quasi casuali, o servano a dare più incisività alle battute divertenti e feroci di
carrettieri, macellai, osti, artigiani, ignoranti e analfabeti.
A Roma borghesi, aristocratici e clero parlano correntemente l’italiano, il romanesco è il
linguaggio della plebe, relegata da retrivo e legittimista governo papalino in condizioni di
ignoranza e di miseria estreme. Quando devono usare l’italiano lo storpiano comicamente,
la loro religione è un misto di credenze superstiziose e di storpiature grottesche e
profanatrici di quello che imparano dal parroco. Vivono in un mondo bloccato, gerarchico,
senza tempo e senza prospettive di mutamento, dove il glorioso passato della loro città può
ridursi a una sapida bella qualunquista. Monologhi, dialoghi, minicommedie restituiscono
con un estremo e spregiudicato realismo i multiformi punti di vista plebei sulla vita
quotidiana della Roma papalina. Il borghese Belli decide quindi di immergersi in un universo
morale e mentale altro, cancellando il più possibile le tracce della propria presenza di
autore, ribadita solo nell’abilissimo impiego degli strumenti metrici e nel contrappunto
delle mote note in italiano a piè di pagina. I Sonetti fanno parlare una miriade di voci senza
volto, che restituiscono così una sterminata polifonia di prospettive differenti. I singoli testi
possono essere letti separatamente pur essendo congiunti tra loro dal comune punto di
osservazione dal basso, che fa saltare tutti i divieti dell’italiano letterario e della visione
del mondo delle classi medio-alte.

9. Alessandro Manzoni
Il conte Alessandro Manzoni (1785-1873) nasce dal matrimonio tra Pietro Verri e Giulia
Beccaria, figlia di Cesare, filosofo illuminista celebre in Europa per il saggio Dei delitti e
delle pene. La discordia tra i genitori, che culmina nel 1795 quando sua madre va a vivere a
Parigi, turba precocemente il suo mondo di affetti. D’altra parte, la rete di relazioni della
famiglia lo mette in contatto con i grandi protagonisti della cultura neoclassica.
Nel 1801 scrive il Trionfo della libertà, poemetto ispirato agli ideali della Rivoluzione
francese. Nel 1805 si trasferisce a Parigi dalla madre, dove frequenta gli illuministi liberali
antinapoleonici, e stringe amicizia con lo storico Claude Fauriel, che lo aiuterà a dare
rilievo europeo alle sue opere. E a Parigi Manzoni esordisce ufficialmente come poeta,
pubblicando il carme neoclassico in endecasillabi sciolti In morte di Carlo Imbonati,
dedicato al defunto compagno della madre. In esso viene enunciato un severo programma
etico e letterario ispirato a Parini. Tra il 1808-10, dopo aver sposato la calvinista Enrichetta
Blondel, mentre continua a comporre testi di tipo classicista, Manzoni matura la grande
svolta della sua vita: si converte al cattolicesimo.
L’intera poesia neoclassica gli appare ormai prova di interesse per i lettori contemporanei:
la svolta religiosa si traduce in una svolta letteraria. A partire dal 1812 progetta gli Inni
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sacri, poesie religiose che celebrano le festività del calendario liturgico. Nel 1815 escono i
primi quattro. Si tratta di poesie antiliriche, a metà tra la predica e la preghiera, che
illustrano il significato spirituale di ciascuna ricorrenza religiosa: Manzoni accantona il suo io
per comunicare quelle che per lui sono verità assolute e universali. Egli abbandona il
repertorio mitologico neoclassico, e guarda un canone letterario che ha al suo centro la
poesia dei Salmi biblici. Il lessico è quello aulico della tradizione letteraria alta, ma lo stile
tutto enfasi emotiva, esclamazioni, interrogativi, appelli, ripetizioni, è più vicino a quello
concitato dei Salmi che a quello, solenne e armonico, dei modelli classici. Nelle scelte
metriche Manzoni reintroduce la rima e adotta misure più brevi, dagli accenti fortemente
scanditi: settenari, ottonari, decasillabi. Gli Inni hanno immediato successo ed entrano
presto nel canone della poesia ottocentesca italiana.

Abituato alla prospettiva internazionale parigina, Manzoni è il più disposto ad allinearsi alle
nuove tendenze romantiche europee, ma non prende direttamente parte al dibattito
classico-romantico, per dedicarsi invece alla stesura di due lavori, in cui prende posizione in
campo etico-religioso e in campo letterario. Nelle Osservazioni sulla morale cattolica
(1819), replicando a un libro del calvinista Sismondi, espone gli snodi nevralgici della
propria nuova visione del mondo. Come molti intellettuali europei, Manzoni ha perso fiducia
nella razionalità illuminista. Sente l’esigenza di un sistema di valori più forti, al di sopra e al
di là degli arbitrii soggettivi e delle debolezze umane. E la “religione cattolica” risponde al
suo bisogno di punti di riferimento “in tutte le questioni che toccano ciò che l’uomo ha di
più serio e di più intimo”. E’ una pubblica rinuncia all’autonomia razionale dell’uomo, e la
constatazione di una frattura radicale tra i valori morali supremi, religiosamente fondati, e
la relatività della storia.
Questa teoria etica guida tutta la sua attività letteraria. Ne risente anche la tragedia Il
Conte di Carmagnola (1820). Manzoni guarda au nuovi modelli drammaturgici estranei al
canone neoclassico, e compone una tragedia tratta da un evento storico reale, senza
rispettare le unità di tempo e di luogo. E’ l’opera manifesto del nuovo teatro romantico
italiano. Nella Prefazione Manzoni illustra i principi a cui si richiama. La sua soluzione si
ispira a quella delle antiche tragedie greche, secondo cui il coro esponeva il significato
morale della vicenda, parlando in nome sia della “nazione” sia “dell’umanità”. Egli ha così
inserito una parte corale, in cui si riserva un “cantuccio” per esprimere il suo giudizio etico
sugli eventi rappresentati. Il linguaggio e lo stile sono aulici, solenni, ma privi di
ricercatezza, della patina arcaica e della complessità sintattica neoclassica: Manzoni ha
composto una tragedia da leggere, destinata all’ammaestramento morale di un ampio
pubblico.
Inizia un periodo di straordinario fervore creativo: dal 1820 al 1823 Manzoni scrive o
abbozza le sue opere principali. Sono anni in cui in politica si susseguono rapidamente
speranze e delusioni. Con i moti del 1821 sembra arrivare il momento dell’unificazione
nazionale: ode Marzo 1821. E’ una poesia militante, piena di entusiasmo patriottico, a cui
Manzoni affida di nuovo il suo pensiero politico: gli italiano sono un popolo unito dalla
lingua, dalla religione, dalla memoria storica, dal “sangue” e dal sentimento patriottico.
Falliti i moti, la durissima repressione austriaca decima gli amici di Manzoni, che pubblica
questo testo solo nel 1848.
Sempre nel 1821, alla notizia della morte di Napoleone, compone un’altra ode, Il cinque
maggio, poesia in cui si interroga sull’enigma di una personalità eccezionale che aveva
sconvolto l’Europa con le sue imprese, e trae un significato etico universale dalla storia
recente. Manzoni prende spunto dalla morte di Napoleone per interrogare l’indiscutibile
grandezza del condottiero e del politico. Ma, cantando la grandezza terrena di Bonaparte,
lascia in sospeso l’interpretazione ultima di quei tragici eventi storici, manifestazione del
superiore e indecifrabile volere di Dio. Ciò che conta ai suoi occhi è l’eternità. La metrica
riprende uno schema settecentesco: sestine di settenari, cadenzati dal gioco degli accenti.
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Bloccata dalla censura austriaca, la poesia circola manoscritta riscuotendo consensi in tutta
Europa.
Il rapporto tra etica cristiana e violenza della storia, sullo sfondo del problema dell’unità
nazionale, è il nucleo di Adelchi (1822), tragedia ambientata nell’alto Medioevo, quando
Franchi e Longobardi si contendevano il controllo della penisola, disputandosi il sostegno del
papa. Manzoni costruisce la trama esclusivamente sulla base di eventi storicamente
accertati. Conduce una scrupolosa ricerca sulle scarne e inaffidabili fonti dell’epoca, che
sfocia in un saggio: il Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia. Nel
Discorso si intuisce che gli italiani contemporanei si trovano per lui in un situazione simile ai
“Latini” oppressi prima dai Longobardi e poi dai Franchi: spettatori impotenti di guerre che
decidono solo chi sarà il loro padrone. Nel primo coro entra in scena la moltitudine degli
oppressi, trasparente simbolo degli italiani contemporanei. Manzoni smonta la loro
irragionevole speranza che la sconfitta dei vecchi dominatori comporti la loro liberazione.
Da una parte gli spietati meccanismi del potere, dall’altra la sofferenza degli antichi
oppressori (Desiderio, Adelchi ed Ermengarda).
I consensi critici dell’Adelchi rompono in Italia l’egemonia della politica neoclassica nel
genere tragico. Con la Lettera al Sig. Chauvet sull’unità di tempo e luogo nella tragedia
(1820), viene delineata la poetica manzoniana del dramma storico. La rottura delle unità
classiciste di spazio e tempo serve al tragediografo per restituire realisticamente i rapporti
che legano gli eventi, mettendo in scena le “cause che hanno realmente determinato
l’azione rappresentata”. Ma allo scrittore compete qualcosa che allo storico è precluso:
“restituire una parte perduta della storia”, dando voce con le sue invenzioni a pensieri,
passioni e discorsi di chi ha partecipato agli eventi reali.

Intanto, fin dal 1821 Manzoni, in anticipo sul contesto italiano, ha intrapreso la stesura di un
romanzo storico. Questo genere risponde meglio della tragedia alle sue esigenze di un’atre
moralmente utile, più vicina al vero che al verosimile e rivolta a un pubblico più esteso.
Forte del prestigio conquistato con poesie e tragedie, può dedicarsi ad un “genere proscritto
nella letteratura italiana moderna”, come scrive introducendo la prima versione dal titolo
provvisorio Fermo e Lucia. La trama è ambientata in luoghi familiari, in modo da mantenere
il massimo di aderenza realistica. L’epoca degli eventi, dal 1628 al 1631, presenta “uno
stato della società veramente straordinario”: malgoverno, dominio straniero, soprusi, guerre
e pestilenze. Privo di una tradizione romanzesca nazionale, Manzoni si costruisce un nuovo
canone su misura, da cui trae motivi utili ad arricchire la trama, spunti per tratteggiare la
psicologia dei personaggi, procedimenti narrativi. La sua innovazione consiste nel
“considerare nella realtà il modo di agire degli uomini” dando più spazio “a ciò che essa ha
di opposto allo spirito romanzesco”. Per Manzoni il romanzo storico deve essere “una
rappresentazione di un determinato stato della società”, così verosimile da sembrare una
“storia vera appena scoperta”. La storia non è un ingrediente, a un contesto reale da
ricostruire per proporre ai lettori questioni cruciali sulla natura umana, la società, la
religione, la morale e il loro rapporto con le scelte degli individui.
La principale difficoltà è la “povertà della lingua italiana”, quasi esclusivamente scritta, e
fissata in una norma, quella purista, incapace si trattare le “grandi questioni” al livello
delle “cognizioni europee” contemporanee, che richiederebbero un lessico francesizzante.
Tra l’altro, non essendoci né unità linguistica né politica, è difficile perfino stabilire quale
sia la corretta lingua italiana. Infine Manzoni non è disposto a escludere dalla sua opera la
rappresentazione della concreta realtà quotidiana. Ma nell’italiano letterario in uso
mancano parole e modi di dire per designare oggetti e situazioni della vita di tutti i giorni.
Egli deve quindi inventarsi una lingua che abbia sia la correttezza e la dignità letteraria
dello scritto sia la precisione e la spontaneità del parlato. La soluzione iniziale, adottata
nella stesura di Fermo e Lucia, lo lascia insoddisfatto. Manzoni risente la pressione degli
imperativi di correttezza linguistica imposti dai puristi e dai classicisti. Egli non intende
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sottrarsi all’esigenza insieme culturale e politica che manifestano entrambi: mettere a


punto una lingua “convenuta” che sia valida per tutti gli italiani. Si orienta quindi sulla
parlata toscana contemporanea. Manzoni riscrive in toscano il Fermo e Lucia, tagliando le
parti più melodrammatiche e a tinte forti, aumentando la verosimiglianza storica a scapito
degli effetti romanzeschi.
Il romanzo esce con titolo I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e
rifatta da Alessandro Manzoni (1827 “ventisettana”). Manzoni finge di non essere l’autore
della storia, che avrebbe invece ricopiato dal manoscritto di un “Anonimo” del Seicento,
steso in ampolloso stile barocco. Il rapporto dialogico con la visione del mondo dell’Anonimo
gli consente di parodiare gli aspetti più retrivi e irrazionali della cultura seicentesca.
Manzoni crea così una distanza tra sé e gli eventi rappresentati, ritagliandosi uno spazio per
intervenire con le sue considerazioni morali e politiche, intrise di ironia ora sorridente ora
amara. Questo continuo sdoppiamento gli permette di conservare le prerogative del
narratore onnisciente, informato su ogni dettaglio e in grado di penetrare nei pensieri e nei
sentimenti riposti dei suoi personaggi, e allo stesso tempo di porre questo ruolo in una luce
problematica, segnalando con le sue considerazioni metanarrative lo statuto di finzione del
racconto. Il romanzo, al servizio dell’etica cristiana e della rigorosa ricostruzione storica,
non offre schemi semplificatori in cui inserire la complessità degli eventi terreni.
Quello di Manzoni è un grandioso dettagliato affresco dei comportamenti, della mentalità,
delle condizioni di vita di tutti gli strati sociali della Lombardia seicentesca, ritratti nella
varietà delle professioni, dai religiosi ai medici, dai mugnai agli eruditi.
Con una svolta rivoluzionaria, Manzoni rappresenta lo spazio sociale collocandosi nel punto
di osservazione dei dominati, ponendo al centro del suo romanzo la storia di lavoratori del
popolo. I grandi personaggi storici e gli esponenti delle classi dominanti retrocedono sullo
sfondo, passano in primo piano figure, comportamenti e problemi tradizionalmente esclusi o
relegati nel comico. I Promessi sposi, trasponendo la formula vincente del romanzo storico
scottiano in un sistema di valori cattolici, si accordano sia alla nuova poetica romantica, sia
alla sensibilità religiosa della maggioranza degli italiani. Il loro enorme successo impone
definitivamente Manzoni al vertice del mondo letterario italiano.
Ma il culmine del successo segna anche la fine della stagione creativa, mentre crescono i
dubbi sulla compatibilità tra rigore storico e immaginazione romanzesca. Manzoni si dedica
sopratutto a riflessioni sul problema della lingua, e si trasferisce per qualche mese a
Firenze, per eliminare con una “risciacquatura in Arno” i residui lombardi e tradurre il
toscano libresco dei Promessi sposi in una “lingua viva”. Il romanzo approda così
all’edizione definitiva del 1840-42 (“quarantana”), arricchita da illustrazioni e da
un’appendice saggistica, la Storia della colonna infame, in cui, esaminando il processo del
1630 contro gli “untori” accusati di aver diffuso la peste, si dimostra che i giudici hanno
infierito su degli innocenti con torture e ricatti. Manzoni sostiene che i giudici abbiano
emesso una sentenza illegittima per compiacere il governo, che cercava capri espiatori per
la peste. Il nocciolo del saggio è quindi la responsabilità morale dell’individuo, che anche in
tempi difficili può e deve agire secondo coscienza. La tristezza di questa vicenda proietta
un’ombra in più sull’apparente lieto fine del romanzo, ponendo i lettori di fronte alla atroci
ingiustizie e ai dilemmi etici della storia.

Intanto, l’esigenza religiosa, morale e scientifica di un assoluto rispetto della verità


storicamente accertabile conduce Manzoni a sconfessare i presupposti del suo itinerario
creativo nel saggio Del romanzo storico, e in genere, de’ componimenti misti di storia e
d’invenzione (1850). Il romanzo storico gli appare un genere “intrinsecamente
contraddittorio”, in quanto l’impiego di precisi riferimenti storici produce “inganno”,
facendo sembrare vera anche la componente fittizia, che “contraffà e confonde” la verità
storica. Alle rappresentazioni letterarie della storia occorre quindi sostituire la “critica

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storica” che “cerca la verità di fatto” nel passato ed è più adeguata sia sul piano cognitivo
sia su quello etico.
Vari altri sono i tentativi lasciati incompiuti: l’inno sacro, Il Natale del 1833, dedicato alla
memoria della prima moglie, interrotto nel 1835. Un frammento di un altro inno,
Ognissanti, esce nel 1847. Una versione aggiornata delle Osservazioni sulla morale cattolica
nel 1855. Ma le contraddizioni della poetica romanzesca, che non è più conciliabile con
quella della verità e dell’etica, e una lunga serie di lutti impediscono di superare i blocchi
psicologici e creativi che affliggono ormai lo scrittore.
Il suo impegno è invece notevole a sostegno della nuova questione linguistica, ovvero di
quali soluzioni adottare, nella pratica, per far sì che l’Italia in via di riunificazione, e
finalmente riunita dopo il 1860, possa dotarsi di una lingua comune. Su questo
fondamentale problema Manzoni riflette, con un trattato Della lingua italiana -incompiuto-
e si esprime pubblicamente prima attraverso una lettera Sulla lingua italiana inviata
all’Accademia della Crusca Giacinto Carena (1847); successivamente con la relazione
Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), che fornirà alcuni precisi indirizzi
per il sistema scolastico nazionale. La base comune era vista nel fiorentino parlato colto,
che poteva vantare una lunga e nobile tradizione ma era anche vivo e diffuso nella
contemporaneità.
Da segnalare infine anche i contributi manzoniani di argomento storico-pubblico, quali
l’abbozzo di un saggio comparativo fra La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione
italiana del 1859 (1860-62), da cui lo scrittore si diede a ricavare un saggio più breve
Dell’indipendenza dell’Italia (1872), con cui voleva ribadire il valore etico del Risorgimento
italiano. Manzoni rimase a lungo, dopo l’unificazione, l’autore canonico e la personalità più
autorevole del panorama letterario e culturale italiano. Tributato di onori, muore nel 1873.

10. Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi (1798-1837) nasce a Recanati, nello Stato della Chiesa, da una famiglia
aristocratica. Viene formato da precettori religiosi all’insegna di un cattolicesimo
conservatore, che difende i dogmi religiosi impiegando anche gli strumenti razionali della
filosofia illuminista. Gli anni di “studio matto e disperatissimo” affinano il suo gusto e la sua
sensibilità minando irreparabilmente la sua salute. Agli esordi si allinea al gusto classicista
declinante e stringe amicizia con Pietro Giordani, che ne intuisce il talento e lo introduce ai
criteri del purismo e del canone classico, orientandolo verso opinioni laiche e
antilegittimiste. La sua famiglia, invece, progetta per lui una carriera ecclesiastica che gli
garantisca una rendita, ma Leopardi non intende diventare un erudito apologeta del
cattolicesimo reazionario. Lo scontro con i genitori gli rende sempre sgradito il soggiorno a
Recanati, dove non trova interlocutori alla sua altezza.
Egli si dedica alla poesie e alla riflessione filosofica. Dopo alcune prove ora raccolte sotto
l’etichetta di Puerili (1809-12), Leopardi produce varie opere di erudizione non prive di
tratti originali, traduzioni e adattamenti dal greco e dal latino molto importanti per il
raffinamento del suo stile, e anche testi letterari propri, come l’Appressamento della
morte, la cui parte iniziale verrà ripresa nei Canti. Di fronte ai manifesti romantici, si
schiera con i classicisti e invia dapprima una Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana
in risposta a M.me de Stael (1816), e poi scrive addirittura un ampio e argomentato Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasto inedito. Egli respinge l’esigenza
romantica di adattarsi alla mentalità contemporanea, perché ritiene che lo sviluppo della
scienza e della ragione abbiano impoverito i “sensi” dei moderni, rendendoli incapaci di
trarre “diletto” dalla natura. A differenza degli altri classicisti, non si richiama a norme
estetiche assolute e atemporali, ma rileva una frattura tra la sensibilità degli antichi e
quella dei moderni. L’imitazione dei classici serve a liberare dalla “corruzione” prodotta
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dall’ ”incivilimento” cantato dai romantici, recuperando la “maniera antica e primitiva di


poesia”, frutto di una felice e spontanea comunanza con la natura, spezzata dalla crescita
della religione.

Dal 1817 Leopardi annota con sistematicità spunti creativi, teorie estetiche e letterarie,
ragionamenti filosofici nel brogliaccio che chiama Zibaldone di pensieri. E’ un segreto diario
intellettuale, un’officina in cui mette alla prova ipotesi teoriche e un deposito di materiali a
cui attingere nelle sue opere. Lo stile è sintetico e scorrevole, sganciato dalla sintassi più
complessa e dallo stile arcaizzante delle prose ideate per la pubblicazione.
Inizialmente Leopardi vede nella “ragione” la causa storica dell’infelicità umana, perché il
suo sviluppo, che produce l’avanzamento della civiltà, della filosofia e delle cognizioni
esatte, demistifica le preziose “illusioni” originariamente instillate negli uomini dalla
“natura”. E a suo parere, “la ragione è nemica della natura”, perché distrugge il “piacer
vano delle illusioni” dimostrandone l’inconsistenza e la falsità. Essa annienta le uniche fonti
di felicità dell’uomo, senza le quali la vita è piena solo di “noia” e fondata sul “nulla”.
Di qui la superiorità degli “antichi”, perché, a differenza dei “moderni”, ritenevano reali “i
sogno dell’immaginazione” e si trovavano quindi più vicini alla condizione predisposta dalla
natura. E’ una filosofia della storia paradossale, perché Leopardi attacca la ragione, ma non
mette in dubbio la verità delle sue scoperte. A suo parere, la ragione è un acquisto negativo
ma irreversibile: non si può più tornare indietro alla condizione naturale. Del resto tutto il
suo “sistema” è costruito impiegando quella stessa ragione di cui depreca lo sviluppo e che
coincide solo in parte con quella della filosofia illuministica. Infatti, attaccando il suo tempo
privo di illusioni, egli attacca l’età della Restaurazione, che gli appare caratterizzata dalla
tirannide e dal servilismo. Gradualmente, Leopardi abbraccia le teorie empiriste e sensiste
settecentesche fondandosi solo sulla concreta evidenza delle percezioni materiali. Anche le
sofferenze dei moderni e la necessità delle illusioni trovano una spiegazione filosofica
sensista con la “teoria del piacere”. Per Leopardi, gli uomini provano un “desiderio” di
piacere, che “non ha limiti”, il quale non può mai placarsi, perché è insito nel fatto stesso
di esistere, né può trovare piena soddisfazione, perché “nessun piacere è immenso”
abbastanza da placarlo. La “inclinazione dell’uomo all’infinito”, che per gli spiritualisti è
una prova dell’esistenza dell’anima e di Dio, dipende invece per Leopardi da questa
contraddizione “materiale” tra un desiderio infinito e i piaceri finiti che si possono
concretamente conseguire.
Dalla teoria del piacere Leopardi desume una poetica che si misura con i limiti della
condizione moderna. Egli si prefigge di creare ad arte nelle sue poesie delle “sembianze
d’infinito”, grazie alla messa a punto di procedimenti e alla selezione di situazioni, oggetti
e parole che producono un effetto “vago”, “indefinito”. Riprendendo una teoria illuminista,
Leopardi distingue due categorie lessicali: i “termini” che hanno un significato univoco,
esatto e si addicono solo alla sfera razionale della filosofia e della scienza, e le “parole
proprie”, che invece hanno un significato non univoco, ricco di sfumature, e fanno “errare
la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro incircoscritto”. Sono parole
“poeticissime” poiché evocano nell’immaginazione quell’infinito che resta precluso nella
realtà. Leopardi individua nelle sue poesie e nello Zibaldone situazioni liriche in grado di
provocare emozioni analoghe.

Sul versante della poesia Leopardi esplora contemporaneamente due generi lirici distinti: la
canzone e l’idillio, orientati entrambi sui modelli poetici classicisti. Nascono così le prime
due raccolte poetiche. Le Canzoni, pubblicate nel 1824, tentano la via della poesia difficile
e ardita. Il loro linguaggio è caratterizzato da parole e modi di dire aulici e lontani dall’uso
comune. Sul piano stilistico, spiccano metafore e similitudini oscure e complesse, che
devono arricchire i versi, e costringere i lettori all’attenzione, perché recepiscano le
peculiari concezioni del mondo che ispirano la raccolta. Egli affida a questa poesia iper-
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classicista la rappresentazione lirica delle sue teorie sul conflitto tra natura e ragione e la
superiorità degli antichi sui moderni.
Mentre i poeti neoclassici italiani si erano limitati o a tradurre o ad alludere ai versi degli
antichi, Leopardi si spinge fino a ricrearli. Nell’Ultimo canto di Saffo, egli fa esprimere le
sue sofferenze di “animo delicato, tenero, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e
giovane”, alla più grande poetessa lirica dell’antichità. Con Alla primavera, o delle favole
antiche, Leopardi legge il problema dell’inattualità della mitologia classica, sollevato dal
dibattito classico-romantico, come un segno di sofferenza dei moderni.
La raccolta si chiude con Alla sua donna, invocazione amorosa disperata e paradossale alla
donna perfetta e irraggiungibile perché vive nel mondo delle “eterne idee” platoniche,
oppure in uno dei “mondi innumerabili” sperduti nel cosmo. Le Canzoni vengono trascurate
dai contemporanei, a parte quelle patriottiche, All’Italia e Sopra il monumento di Dante
(1818), e poi quella civile Ad Angelo Mai (1820), che per altro presenta molte intersezioni
con i temi e gli stilemi degli idilli.
Sorte analoga tocca ai Versi (1826), dove escono, assieme ad altri componimenti, i primi
idilli, l’esito più innovativo della poesia giovanile di Leopardi. Una novità che l’autore trae
da una reinvenzione creativa dell’antico. L’idillio è un genere lirico della poesia ellenistica:
brevi bozzetti di vita di campagna, ritratta dal vero, molto imitato dai poeti settecenteschi
dell’Arcadia. Negli idilli leopardiani troviamo sullo sfondo concrete immagini di vita
recanatese, ritratte con spontaneità e naturalezza, secondo un registro lirico diverso da
quello sperimentato nelle Canzoni. Gli idilli puntano sul massimo di semplicità e su un
abbassamento di tono. Il metro è quello degli endecasillabi sciolti, caro ai classicisti, ma
impiegato anche dai romantici. In due dei primi e più celebri idilli, Alla luna (1819) e La
sera del dì di festa (1820), si presenta il contrasto tra la quieta serenità della notte
illuminata dalla luna e l’affanno o l’angoscia dell’io poetante, ma è un dolore intimo, che, a
differenza della maggior parte delle Canzoni, non è ricondotto a cause storico-filosofiche.
La gamma lessicale e le situazioni sono quelle indicate nello Zibaldone come
“poeticissime”.
Grazie a questa poetica, Leopardi opera uno scarto decisivo dalla tradizione, che trova la
sua riuscita massima nell’idillio L’infinito (1819), un capolavoro dell’intera poesia italiana
moderna. Qui l’io poetante esplora ed esprime le sensazioni e i sentimenti che sgorgano
dentro di sé nell’atto del fantasticare, saggiando delle possibilità nuove del linguaggio
poetico e dell’introspezione lirica attraverso un viaggio che è prima di tutto mentale. La
poesia è al presente: il tempo della narrazione lirica e quello in cui si svolge l’esperienza
descritta coincidono. La tensione verso l’infinito è pura virtualità, un’illimitata apertura di
significati possibili, che per altro sono sempre tenuti sotto il controllo dell’autore: molti
segnali dell’infinito sono ripresi in tanti altri componimenti leopardiani, ma nel breve dillo
del 1819 si registra una combinazione perfetta di partitura stilistico-melodica di densità di
pensiero e di sentimenti.

Dal 1823 Leopardi esce dalla gabbia di Recanati, vivendo per qualche periodo a Roma,
Milano e Bologna. Si è anche in parte emancipato economicamente dalla famiglia, lavorando
per un editore milanese. Leggendo filosofi antichi e moderni materialisti settecenteschi, ha
maturato una decisiva svolta nel suo pensiero. Il conflitto tra natura e ragione muta di
significato e valore. Leopardi sostiene ora che tutto ciò che esiste è composto solo da
aggregazioni di materia, la quale è in grado di pensare e sentire. La causa prima del dolore
risiede quindi nella contraddizione insanabile tra il “sistema della natura” e le vite dei
singoli individui messi da questo in condizione di soffrire. La “santa natura” di Alla
primavera è diventata ora un cieco meccanismo indifferente, governato dal caso o da leggi
assurde se osservate dal punto di vista degli esseri che la popolani. Leopardi si spinge fino a
sostenere che “non v’ha altro bene che il non essere”. Restano poche alternative a questo
elogio incondizionato alla morte: o una “vita vitale”, ricca di attività, sensazioni e passioni
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come quella degli antichi, o avere il minimo di sensibilità e consapevolezza possibile, quindi
essere degli animali o dei “selvaggi”, condizione di minore sofferenza.
Egli dà espressione letteraria a queste teorie nelle Operette morali, pubblicate nel 1827.
Il suo primo intento è di comporre un’opera che gioca sullo stridore tra la tragicità delle
considerazioni sulla vita e sul cosmo e la comicità dei procedimenti stilistici. L’altra
ambizione è esporre in “buona lingua italiana” la propria rilettura negativa della filosofia
settecentesca, di cui non condivide il linguaggio francesizzante. Così, per creare una prosa
adeguata al “genere filosofico, moderno e preciso”, ma che sia distaccata dal parlare
comune, e “sappia d’antico”, Leopardi modella il suo linguaggio sugli autori canonici della
tradizione letteraria nazionale, in particolare quelli cinquecenteschi. Le Operette sono
d’altra parte un’opera di “filosofia” intesa come una riflessione razionale non sistematica
consegnata ai generi di scrittura più diversi. Loro modelli sono i dialoghi e le novelle dello
scrittore umoristico greco di età ellenistica Luciano di Samosata e i racconti e i brevi
romanzi filosofici praticati dagli illuministi francesi come Voltaire. Ponendosi al di fuori dei
modelli narrativi emergenti in Italia, Leopardi sperimenta una gamma molto vasta di generi
per esporre con vivacità e gusto del paradosso i punti chiave della sua riflessione.
Il libro si apre con un racconto mitologico, la Storia del genere umano, che narra
scherzosamente in forma di mito il graduale sviluppo della civiltà umana come un
inesorabile approdo alla conoscenza della “Verità” e quindi alla dolorosa consapevolezza
dell’assurdità dell’esistenza.
In una delle operette più significative del punto di vista del nuovo pensiero leopardiano, il
Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), un viaggiatore nativo della desolata Islanda,
dopo aver passato la vita a tentare invano di sottrarsi ai pericoli e alle asprezze del mondo
naturale, si imbatte nella Natura in persona. Subito si lamenta con lei delle proprie
disavventure e del trattamento che riserva agli uomini, per sentirsi dire rispondere che il
mondo non è fatto per loro, e che “la vita” dell’intero universo è solo “un perpetuo circuito
di produzione e distruzione”, che funziona con “patimento” dei viventi. Qui, come in altre
operette, il senso ultimo dell’esistenza universale rimane un mistero.
Composte in controtendenza rispetto al panorama editoriale e culturale, a dominanza
romantica e cattolica o almeno spiritualista, il materialismo delle Operette e il loro stile
ironico e sfuggente vanno contro i gusti e gli orientamenti ideologici dei contemporanei.
Uscite lo stesso anno dei Promessi sposi, sono schiacciate dal successo che arride al
capolavoro di Manzoni e all’ondata di romanzi storici di ispirazione scottiana. Trovano un
pubblico molto ristretto, e sono apprezzate solo dai lettori più acculturati, che ne colgono
quasi solo la raffinatezza dello stile. L’edizione definitiva delle Operette sarà curata, come
quella dei Canti, dall’amico Antonio Ranieri (1845).

Dal 1827 il baricentro dell’attività di Leopardi si è spostato verso Firenze, dove entra in
contatto con gli intellettuali dell’Antologia. A Pisa, dal 1828 ritorna a fare poesie col suo
“cuore di una volta”. Si apre una nuova stagione creativa e prendono forma i Canti, libro in
cui Leopardi seleziona e raccoglie secondo nuovi criteri tutta la sua produzione poetica,
inclusi le canzoni e gli idilli. A una prima edizione del 1831, segue una seconda, uscita nel
1835; essa però sarà ulteriormente corretta e ampliata con importanti testi, come la
Ginestra, cosicché l’edizione finale dei Canti è considerata quella postuma del 1845.
Il titolo evoca l’identità tra poesia e musica, teorizzata da Leopardi nelle sue riflessioni
sulla lirica: genere poetico “eterno e universale”. Ora egli concepisce la poesia come
un’espressione libera e schietta di qualsiasi “affetto vivo e ben sentito dell’uomo”. Così i
Canti rompono le tradizionali partizioni dei generi lirici del canone neoclassico, rispettate
nelle raccolte giovanili. La successione delle poesie suggerisce nel lettore lo svolgimento di
un romanzo autobiografico in versi, a cui Leopardi confida i vari mutamenti del suo io più
profondo, dalle illusioni degli anni giovanili all’amara consapevolezza della maturità.
Il libro accompagna la vita dell’autore, e cresce con lui di edizione in edizione. Leopardi
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crea così una struttura aperta, un’opera in divenire che rappresenta nella successione delle
poesie l’ideale “storia di un’anima”.
Il libro è aperto dalle canzoni e dagli idilli, che assumono il senso di un variegato ritratto
della propria giovinezza, in cui Leopardi insinua già delle note di rimpianto collocandovi una
canzone più tarda: Il passero solitario, lamento sulla “beata gioventù" che “vien meno”.
Seguono le opere della feconda stagione creativa compresa tra il soggiorno a Pisa e il rientro
a Recanati: si parla perciò di “canti pisano-recanatesi” (1828-1830), mentre è impropria la
definizione già ottocentesca di “grandi idilli”.
In queste poesie Leopardi crea una nuova musica verbale, sperimentando la canzone libera,
un metro composto da endecasillabi e settenari che si alternano liberamente, collegati da
rime sciolte da ogni schema. E’ una misura che lascia fluire più rapidamente i rimandi
musicali e di significato tra le parole, e produce un effetto di spontaneità e naturalezza.
Con la canzone libera A Silvia e gli endecasillabi sciolti de Le ricordanze ritorna la Recanati
degli idilli, trasfigurata nella memoria. La vicenda di Silvia inasprisce con la sua tragedia
concreta la meditazione intima delle disillusioni della maturità. Il compianto elegiaco per la
sua morte si fonde con la riflessione esistenziale sull’inganno riservato dalla “natura” ai suoi
“figli”. Questa sintesi di lirica e filosofia diventa inscindibile nel Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia, in cui il nomade rivolge alla luna, in un canto malinconico reso
“vago” e “indefinito” dalla sua spontanea ingenuità primitiva, le domande cruciali sullo
scopo e il significato dell’esistenza umana. Con La quiete dopo la tempesta e Il sabato del
villaggio si ritorna a Recanati, descritta nei comportamenti dei suoi semplici abitanti
campagnoli con il massimo livello di realismo accettato dalla lingua della tradizione. Qui
rappresentazione lirica e ragionamento filosofico si separano: la scena bucolica stilizzata
offre lo spunto per meditare sul momentaneo sollievo che dà la fine di un dolore e sulla
dolcezza della speranza e dell’attesa.
A Firenze Leopardi stringe due relazioni cruciali: l’amicizia con Antonio Ranieri, che lo
assisterà fino alla morte, e l’amore, non corrisposto, per la nobile Fanny Targioni Tozzetti,
che gli ispira una serie di liriche pubblicate nella seconda edizione dei Canti, caratterizzate
da una poetica nuova: si usa la definizione di “canti fiorentini” (1831-1833). Sparisce
definitivamente lo sfondo di Recanati e sorge una poesia meditativa, che esprime il nascere
e lo spegnersi di un amore. E’ la passione in sé, non la donna che l’ha ispirata, la vera
protagonista di queste liriche. Il pensiero dominante celebra la grandezza e il potere
vitalizzante del sentimento amoroso, che innalza al di sopra delle meschinità umane l’animo
di chi lo prova. Poi Leopardi canta i due “fratelli” Amore e morte, celebrando nel primo “il
piacere maggiore” che si possa provare e nella seconda la facoltà di annullare ogni dolore.
La morte non è una figura macabra, ma una “bellissima fanciulla”. E la poesia si trasforma
in un’elegia d’amore indirizzata proprio a lei, affinché rapisca alle sue continue sofferenze
un io poetante che si presenta “renitente al fato” e rivendica le proprie convinzioni
materialistiche. A segnare drammaticamente la fine di quell’amore Leopardi pone la breve
poesia A se stesso, fatta di rapidi e secchi periodi, spezzati dagli a capo, tutta affermazioni
recise e senza speranza: si chiude rovesciando in negativo un termine chiave del linguaggio
vago e indefinito, proclamando “l’infinita vanità del tutto”.
Leopardi, nel settembre del 1833, si trasferisce con Ranieri a Napoli. Nella città partenopea
completa un poema eroicomico e satirico in ottave, i Paralipomeni alla Batracomiomachia:
esso allude alla situazione politica e culturale italiana e, anche per il suo argomento, fu
pubblicato solo postumo a Parigi nel 1842. Ma Leopardi scrive anche vari nuovi
componimenti, detti appunto “canti napoletani”, fra i quali la Palinodia al Marchese Gino
Capponi, due poesie sepolcrali, Il tramonto della luna e sopratutto la Ginestra, un lungo
poemetto, pubblicato solo nell’edizione postuma dei Canti (1845): a esso Leopardi affida il
proprio testamento etico e intellettuale. La ginestra, simbolo della consolazione offerta
dalla bellezza, quindi della poesia, e inerme di fronte alle colate laviche, diventa così nel
finale quasi un alter ego di Leopardi.
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Se Manzoni e i romantici italiani scrivono per il proprio tempo, Leopardi scrive contro le
tendenze egemoni nell’epoca in cui vive. Di fronte al dilagare di una produzione letteraria
che segue le preferenze del grande pubblico incolto, si attesta sulla divisione di inizio
secolo tra due “letterature”: una di alta elaborazione formale, rivolta agli “intendenti”,
l’altra per intrattenere il “popolo” escluso dallo “studio”. Il linguaggio della poesia deve
distinguersi dal “parlar prosaico e volgare”. Ma grazie all’indeterminatezza e alla semplicità
che riesce a conferire alla lingua della tradizione poetica italiana, Leopardi dà ai suoi versi
una patina di assolutezza fuori dal tempo. Egli fonde nella sua poesia l’espressione di
emozioni soggettive con l’interrogazione filosofica su problemi universali, facendo
coincidere l’esplorazione del proprio io privatissimo con il compianto sui problemi
fondamentali dell’umanità, intesa come una fragile e meravigliosa forma di vita gettata a
soffrire senza motivo in un universo assurdo, crudele e indifferente.
La sua concezione della lirica come spontanea effusione del sentimento individuale opera
una frattura nella tradizione letteraria analoga a quella dei principali poeti romantici
europei. Ma Leopardi arriva a conclusioni simili in piena autonomia, e partendo da una
concezione del mondo materialistica e illuministica in totale controtendenza rispetto alle
correnti spiritualiste dominanti. Di qui l’assoluta originalità della sua opera. Ai suoi occhi la
poesia ha una funzione consolatoria, vitalizzante. Però questa gioia impalpabile creata dalla
bellezza si realizza nei Canti infondendo nella musica verbale della poesia le nozioni
filosofiche che dichiarano e denunciano l’inevitabile infelicità e dolore dell’esistere. Le sue
scelte controcorrente e il suo materialismo, osteggiato sia dal potere politico sia dalla
sensibilità cristiana dell’opinione pubblica, gli costano il tendenziale disinteresse dei suoi
contemporanei: sarà riscoperto e riconosciuto a partire dalla seconda metà del secolo.

11. Dopo il Romanticismo: letteratura e unificazione nazionale

Verso il 1840, nelle aree più sviluppate dell’Europa, le trasformazioni economiche e sociali
innescate dalla crescita frenetica del capitalismo industriale aumentano gli attriti tra
governi assolutisti o autoritari e i ceti emergenti della borghesia e del nascente proletariato
industriale. Mentre la prima resta orientata su posizioni liberali, il secondo inizia a
organizzarsi per rivendicare migliori condizioni di vita, adottando le teorie egualitarie
sistematizzate nel 1848 dal Manifesto del partito comunista di Karl Marx (1818-1883) e
Friedrich Engels (1820-1895).
In Italia i nuovi problemi sociali restano sullo sfondo: in quel periodo gli intellettuali
militanti si pongono sopratutto il problema dell’unificazione politica e del modello di
governo della nazione, dando vita a diverse correnti. Per Giuseppe Mazzini (1805-1872) la
nazione è sia una comunità popolare voluta da Dio, sia un patrimonio di memorie storiche,
artistiche e culturali e di esempi morali. Il suo pensiero politico matura insieme
all’attenzione critica per la letteratura contemporanea, nella quale legge l’espressione
delle grandi tensioni ideali di un’epoca. Mazzini riprende in chiave laica l’immaginario e il
lessico cristiano: il risultato è una nuova religione politica, dallo slogan “Dio e popolo”.
Invece per il sacerdote torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) la nazione italiana nasce da
una radice etnica comune, su cui la plurisecolare presenza del papato ha innestato
un’anima cattolica che la rende superiore a tutte le altre. Occorre quindi unire gli stati
italiani in una confederazione presieduta dal papa, che deve impegnarsi a varare riforme
liberali e a scacciare gli austriaci. E’ l’ipotesi detta “neoguelfa”, perché ricorda la posizione
del guelfi, che nel Medioevo sostenevano il primato del papa contro i ghibellini, fautori del
potere laico dell’imperatore. Il saggio Del primato morale e civile degli italiani (1843)
riscuote uno strepitoso successo presso l’opinione pubblica italiana, composta in
maggioranza da borghesi di formazione cattolica, entusiasti di poter conciliare credo
religioso e sentimento nazionale.
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A Gioberti risponde il nobile piemontese Cesare Balbo (1789-1853) pubblicando a Parigi Le


speranze d’Italia (1844), in cui sostiene tesi liberal-moderate all’insegna d’un cauto
realismo politico. Balbo sostiene che il progetto federativo potrà essere realizzato solo sotto
la guida politico-diplomatica dello Stato dinastico dei Savoia, che dovrebbe ottenere
dall’Austria il Lombardo-Veneto offrendole in cambio la possibilità di espandersi nei Balcani.
Questi 3 grandi orientamenti conflittuali si alternano alla guida dell’opinione pubblica,
mentre trovano meno seguito gli sviluppi delle teorie mazziniane avviati in direzione
riformista dall’intellettuale Carlo Cattaneo (1801-1869) e in una prospettiva rivoluzionaria
dall’ufficiale napoletano Carlo Pisacane (1818-1857). Per Cattaneo, l’unità nazionale deve
realizzarsi attraverso una repubblica federale, conciliando la generalizzazione delle libertà
democratiche e l’autonomia delle comunità locali. Il capitalismo liberale è per lui il motore
per sviluppare una società in cui gli interessi conflittuali vanno moderati giuridicamente e
gli squilibri compensati da una pragmatica politica di riforme culturali e sociali orientate
all’utilità collettiva. Pisacane, invece, recepisce le teorie del nascente movimento
socialista, e sostiene la necessità di formare un esercito popolare rivoluzionario che realizzi
insieme l’unificazione politica del paese e un ordinamento sociale radicalmente egualitario.
Nel decennio 1840-50 molti tentativi insurrezionali falliscono tragicamente. Nel 1846
l’elezione del nuovo papa, Pio IX, che introduce delle riforme liberali, alimenta le speranze
neoguelfe. La situazione precipita nel 1848: una vittoriosa insurrezione democratica in
Sicilia innesca manifestazioni a catena in tutta Europa, con numerose concessioni da parte
dei sovrani, mentre in Francia si instaura di nuovo la repubblica. Carlo Alberto di Savoia
attacca l’Austria: inizia la prima guerra d’indipendenza. Ma alla prima occasione le riforme
sono revocate, gli austriaci sconfiggono i piemontesi e riconquistano il Lombardo-Veneto,
mentre l’esercito francese ripristina la sovranità papale su Roma, che si era data un governo
repubblicano. Una stretta repressiva si abbatte allora su tutta la penisola, tranne che nel
regno di Sardegna, dove il nuovo re Vittorio Emanuele II mantiene in vigore la costituzione,
appoggia la politica economica liberale e modernizzatrice del conte Camillo Benso di Cavour
e introduce un sistema di istruzione pubblica laica. Così, lo Stato sabaudo diventa il
principale punto di riferimento politico per i fautori dell’unificazione: grazie all’alleanza
con la Francia vince nel 1859 la seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria, e si annette
la Lombardia. Toscana, Emilia e Romagna si uniscono al nuovo regno. Nel 1860 volontari
democratici, guidati da Giuseppe Garibaldi, sbarcano in Sicilia, conquistando tutti il regno
borbonico. Cavour invia un esercito a conquistare Marche e Umbria per riunirsi alle “camice
rosse” di Garibaldi. La nascita del regno d’Italia è ufficialmente proclamata il 17 marzo
1861: abbraccia la Sicilia, la Sardegna e l’intera penisola, a eccezione del Lazio e dell’area
veneta, una sotto il governo del papa, l’altra dominata dall’Austria.

In questo contino succedersi di eventi, poi celebrato con il nome di Rinascimento per
evocare la “rinascita” della nazione italiana, la maggioranza degli intellettuali si schiera sul
fronte dell’opposizione ai governi assolutisti sostenuti dalla Santa Alleanza. Prevale quindi la
figura dell’intellettuale militante, che dedica la maggior parte delle sue energie alla causa
dell’unificazione, animando dibattiti ideologico-politici del movimento nazionale e
partecipando ai moti risorgimentali.
Lo sviluppo industriale crea processi si crescente urbanizzazione, che aumentano il pubblico
dei lettori e la domanda di prodotti editoriali.Nelle città torna in scena il giornalismo
politico. Si sviluppa un’editoria tesa a espandere il suo pubblico e a trasformare le piccole
aziende libraie in grandi società editrici. La svolta parte dalle grandi città degli stati più
liberali: Torino e Firenze. Dopo il 1848, la politica liberale di Cavour, fa di Torino la nuova
capitale culturale della penisola, dove confluiscono patriotti e intellettuali da tutto il
paese. Anche a Milano le iniziative culturali più importanti sorgono in opposizione al governo
austriaco. Qui Carlo Cattaneo fonda il “Politecnico” (1839-44 e 1859-69), rivolto alla
componente più innovatrice della borghesia imprenditoriale. La rivista promuove una
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cultura laica e razionalista, presentando ai suoi numerosi lettori le applicazioni pratiche


della scienza, gli studi economici e sociali utili al benessere pubblico, senza trascurare gli
studi umanistici per favorire sia la crescita materiale sia l’istituzione di ordinamenti sociali
democratici. Cattaneo sostiene il pragmatismo e la verifica razionale dei dati empirici
contro i richiami astratti a verità assolute o metafisiche. Con la sua prosa nitida e precisa,
Cattaneo aggiorna il classicismo laico di Giordani e Leopardi realizzando un esempio di
lingua comunicativa diretta. Anche sul piano teorico propone una sintesi tra i diversi filoni
linguistici della tradizione letteraria nazionale, che si delinea come un’alternativa alla
centralità del fiorentino propugnata da Manzoni.
Vicino alle sue posizioni è anche il critico e giornalista milanese Carlo Tenca (1816-1883),
che fonda il “Crepuscolo” (1850-59), ospitando scrittori di diverso orientamento e
difendendo una linea patriottica liberale-moderata in opposizione al governo austriaco.
Tenca prosegue la tendenza di Mazzini a collegare letteratura e sviluppo civile, e crea così
una moderna critica militante, che giudica gli scrittori per la loro capacità di rappresentare
efficacemente “la vita attuale della società”. I suoi saggi, in particolare Delle condizioni
della odierna letteratura in Italia (1846), sono tra i primi tentativi in Italia di una critica
sociologia della letteratura. Tenca polemizza contro il “decadimento” delle innovazioni
romantiche, e lo riconduce ai condizionamenti dell’industria editoriale sulla creatività degli
scrittori.

Il grande rilievo assunto dalla causa dell’unità nazionale accresce il peso e l’importanza
della saggistica di argomento storico, civile e politico nel panorama dei generi letterari. Il
campo dei generi di finzione è occupato invece da una produzione di livello medio-basso.
Manzoni continua a essere lo scrittore più autorevole, ma, avendo chiuso la sua stagione
creativa, resta una presenza lontana e incombente per le nuove generazioni di intellettuali.
Predomina la tendenza a ricalcare generi e motivi della grande poesia romantica e della
narrativa realista europee per adattarli al gusto chiuso e provinciale e alla mentalità
perbenista delle fasce maggioritarie del pubblico. Questo favorisce in tutti i campi la scelta
di soluzioni espressive più facili e schematiche. La poesia è probabilmente il veicolo più
sfruttato dalla letteratura di propaganda rinascimentale per offrire testi di facile impiego
alle lotte patriottiche. E’ in questo periodo che Goffredo Mameli (1827-1849) compone
l’inno repubblicano Canto nazionale (1847). Accanto a questo filone prevale una poesia di
intrattenimento che banalizza i temi fantastici, esotizzanti e visionari della grande poesia
romantica europea. I lettori apprezzano in particolare il sentimentalismo estenuato, le
atmosfere di sogno, le descrizioni estetizzanti, ricche di dettagli, e i toni aulici in cui
primeggia il veneto Giovanni Prati (1814-1884) che segna una svolta nel genere della novella
in versi, con Edmengarda (1841), abbandonando i temi storici per rappresentare uno
scandaloso dramma borghese.
Il più autorevole esponente letterario delle tendenze spiritualiste e sentimentali
predominanti è il poeta e narratore Niccolò Tommaseo (1802-1874). La sua vasta produzione
in versi, riordinata nelle Poesie del 1872, percorre molti motivi e generi, con raffinati
recuperi arcaizzanti delle antiche forme metriche italiane. I risultati più originali sono
ottenuti da liriche di confessione dei suoi tormenti interiori di cattolico inquieto, ma
sopratutto della vena mistico-visionaria maturata intorno alla metà del secolo. Tommaseo
fissa nei suoi versi i legami metafisici tra l’anima individuale e i misteriosi flussi vitali
irradiati dall’amore divino in una cosmica “armonia delle cose”. La sua raccolta di Canti
popolari corsi illirici e greci (1842) introduce una innovativa tecnica di traduzione poetica,
che si stacca dalle forme metriche codificate. Ma c’è anche chi prende le distanze da
queste linee maggioritarie, collegandosi al filone comico-realistico rilanciato dal toscano
Giuseppe Giusti (1809-1850). I suoi “scherzi” rivisitano in chiave satirica gli eventi e i
malcostumi contemporanei. Giusti si assesta sul moderato liberalismo cattolico, ma il
retroterra mentale della sua poesia non esce mai dei limitati confini del buonsenso, di quel
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pubblico borghese che ne decreta lo straordinario successo. La sua satira è resa più incisiva
e realistica da una lingua che soffre meno il divario tra lo scritto e il parlato, e può
raggiungere briosi effetti comici grazie all’attrito tra la chiusura formale della versificazione
e la prosasticità della materia.
In ambito narrativo, in Europa entra in crisi l’egemonia di Walter Scott e del romanzo
storico. Autori vecchi e nuovi iniziano a ritenerlo un genere ormai esaurito, mentre vengono
letti, tradotti e discussi i narratori francesi che, come Balzac, si dedicano con grande
successo alla rappresentazione della realtà sociale contemporanea, benché le loro analisi
più crude e disincantate suscitino nei critici dure resistenze moralistiche. Anche in Italia si
impone questa tendenza. La svolta è lanciata da Fede e Bellezza (1840) di Tommaseo che si
dà all’analisi psicologica e alla descrizione realistica della vita privata contemporanea.
L’innovazione investe anche la tecnica narrativa: lo spazio del narratore onnisciente è
ridotto, per rappresentare anche dall’interno “gli affetti” dei due protagonisti, alternando
confessioni in prima persona, diari, lettere, memorie, che ritraggono lo straziante conflitto
intimo di psicologie diverse tra gli scrupoli di una severa etica cattolica e le tentazioni
ricorrenti della sensualità. Il linguaggio invece si attiene al modello del fiorentino popolare.
Il romanzo storico mantiene però nel nostro paese una certa vitalità. In quest’ambito si
inquadra l’ambiziosa impresa tentata dal milanese Giuseppe Rovani (1818-1874) con il
“romanzo ciclico” Cento anni, uscito in appendice alla “Gazzetta di Milano” dal 1859 al ’63,
che combina ambientazioni e tecniche del romanzo storico con i grandi organismi narrativi
messi in voga da Balzac. Rovani realizza una colossale carrellata storica di costumi, mode,
ambienti, personaggi reali e fittizi, spettacoli, dibattiti che si avvicendano nella “lanterna
magica” d’una narrazione estesa dal 1750 al 1850. E’ un racconto che tocca grandi eventi,
ma con la prospettiva antieroica del loro impatto sulla vita di persone comuni. Resta quindi
centrale l’esempio di Manzoni.
Dopo la metà del secolo, per conquistare i lettori popolari degli strati sociali più bassi, è
introdotto anche in Italia il nuovo genere del romanzo d’appendice. Si tratta di romanzi che
escono a puntate sui giornali a larghissima tiratura. Sono elementari ma efficaci macchine
narrative, capaci di tenere viva la curiosità dei lettori e di appassionarli con trame intricate
e convenzionali, ricche di peripezie, avventure e colpi di scena.
Parallelamente, in area milanese, nasce la tendenza di rappresentare in chiave filantropico-
edificante il proletariato contadino. Manifesto inaugurale è la lettera Della letteratura
rusticale, rivolta nel 1846 al romanziere Giulio Carcano (1812-1884) dal liberale moderato
Cesare Correnti (1815-1888). L’invito è a raccontare le sofferenze dei “poverelli” che vivono
e lavorano nelle campagne. La narrativa rusticale si sviluppa sopratutto in area veneta,
dove opera l’aristocratica friulana Caterina Percoto (1812-1887), autrice di racconti capaci
si restituire con una crudezza drammatica le durissime condizioni di vita del mondo reale.

Sulle scene teatrali italiane domina il grande mattatore del melodramma: Giuseppe Verdi
(1813-1901), l’unico artista capace di appassionare spettatori di tutte le classi sociali,
entrando stabilmente nell’educazione sentimentale degli italiani. Verdi esordisce con una
serie di opere che offrono una coinvolgente espressione artistica alle aspirazioni
patriottiche dell’epoca. Col Nabucco (1842), dove il coro degli ebrei biblici esiliati in Egitto
lamenta il dominio straniero e modula la sia nostalgia per la “patria sì bella e perduta",
Verdi ottiene un enorme popolarità diventando il grande artista nazionale e un nome-
simbolo della lotta per l’unificazione. Altro nucleo tematico dell’immaginario verdiano sono
i rapporti familiari, che ruotano intorno alla figura del padre, severo tutore dell’ordine
morale, in lotta con le pulsioni di rivolta dei figli. L’amore assoluto, la sfida alle convenzioni
sociali, l’eccesso, la colpa: tutti i motivi portanti dell’immaginario romantico europeo sono
esplorati dal poeta. Dotato di un senso straordinario della teatralità, Verdi non si limita alla
ricerca musicale, ma dirige il lavoro dei suoi librettisti perché pieghino il loro linguaggio alla
messa a pinto d’una “parola scenica” in grado di restituire gli snodi dell’azione drammatica
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con pochi tratti essenziali, alternando situazioni estreme e colpi di scena, per spingere al
massimo la tensione emotiva degli spettatori.
Dopo le delusioni del 1848, anche Verdi dedica più spazio alla psicologia conflittuale degli
affetti privati, realizzando la cosiddetta “trilogia popolare”: due tragedie romantiche come
Rigoletto (1851) e Il trovatore (1853) e un dramma borghese come La traviata (1853), che
introduce anche nel melodramma la rappresentazione della società contemporanea. Qui
l’accompagnamento orchestrale aumenta d’importanza per sottolineare i passaggi cruciali in
cui si consuma la tragedia, mentre le parti vocali rendono le passioni dei protagonisti. Il suo
percorso creativo continuerà a sviluppare e ad approfondire queste nuove possibilità anche
negli anni postunitari, quando si afferma sulla scena musicale europea, tratteggiando
psicologie complesse e contraddittorie come nel Don Carlos (1867), o sfruttando i grandiosi
effetti scenografici del grand opéra francese con l’Aida (1871). Nella vecchiaia riuscirà
ancora a imporsi con le sue interpretazioni di Shakespeare nell’Otello (1887) e nel Falstaff
(1893). Verdi, in questi ultimi libretti si avvale del poeta/musicista scapigliato Arrigo Boito,
crea un’inedita recitazione melodica continua.

Ippolito Nievo
Nel periodo culturale successivo al 1848, Ippolito Nievo (1831-1861) fu l’unico nostro
scrittore capace di dialogare a distanza con i grandi romanzieri realisti europei,
sottraendosi, ai limiti e ai condizionamenti ideologici, linguistici e stilistici del contesto
culturale e letterario italiano dell’epoca. Nievo passa la sua infanzia nel castello di
Colloredo, in Friuli, che diventerà un luogo chiave del suo universo narrativo. Partecipando
ai moti del ’48, entra in contato con esponenti del partito democratico-mazziniano. La
storia d’amore con Matilde Ferrari anima un fitto epistolario sentimentale di tono ortisiano
che, rotta la relazione, è autoparodiato nella sua prima prova narrativa: l’Antiafrodisiaco
per l’amor platonico (1851 inedito), breve romanzo umoristico di matrice sterniana. A
partire da questo momento Nievo si dedica freneticamente alla scrittura, sperimentando
tutti i generi letterari. La sua produzione narrativa spazia dalle novelle e dai romanzi di
argomento rusticale, in cui Nievo descrive con realismo le condizioni materiali della vita
contadina, al romanzo storico, al racconto umoristico-filosofico, ispirato a Sterne e Voltaire.

Tra il 1857-58, Nievo stende un romanzo molto ambizioso: Le confessioni di un italiano, che
combina e sviluppa molti dei temi e dei procedimenti narrativi già sperimentati,
svincolandosi dalle convenzioni e dai generi letterari allora prevalenti. Ne esce un ritratto in
controluce della nuova poetica romanzesca maturata da Nievo: attitudine realistica a
rappresentare, senza stereotipi né censure moralistiche, la società contemporanea,
attenzione ai temi e ai procedimenti stilistici dei romanzieri francesi, convinzione che la
qualità di un narratore si misuri anche sulla capacità di affascinare e divertire i lettori.
• Trama: il romanzo è l’autobiografia fittizia, raccontata in prima persona, di Carlino
Altoviti, che scrive le sue memore dall’anno di nascita fino all’età di 83 anni. E’ la storia
di una presa di consapevolezza politica e intende descrivere “l’azione dei tempi sopra la
vita di un uomo”. Le sue peripezie avventurose vogliono essere un esempio di “quelle
innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al
raffazzonarsi dei presenti composero la grande sorte nazionale italiana”. Ma Carlino
racconta anche la storia d’amore con la cugina Pisana, croce e delizia della sua intera
esistenza. Il carattere del loto legame si delinea fin dalle prime schermaglie infantili.
Tutta la prima parte del romanzo rievoca giochi,litigi e scorribande, nell’atmosfera di
incanto fiabesco che il loro sguardo infantile proietta sul mondo.
Col passare degli anni, subentra la scoperta avventurosa dei meccanismi della società e
delle grandi contrapposizioni ideologiche, politiche e morali dell’epoca, esemplificati da
personaggi le cui storie si evolvono parallelamente a quelle dei due protagonisti. I quali
vivono in prima persona tutte le grandi svolte storiche italiane. Carlino combatte
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nell’esercito della Repubblica partenopea, poi Pisana lo salva e diventa sua amante. Per
non diventare complice della tirannia di Napoleone, Carlino abbandona l’incarico
amministrativo assunto sotto la Repubblica cisalpina e torna a Fratta, dove aveva
trascorso l’infanzia con Pisana. Ma lei, sacrifica il proprio amore, costringendolo a sposare
una ragazza del luogo. Carlino partecipa ai moti del ’20-21: caduto prigioniero, diventa
poi cieco. Riparato a Londra, viene curato da Pisana, che per lui si sacrifica oltre ogni
limite, e muore poco dopo che lui ha recuperato la vista. Tornato a Venezia, Carlino educa
i suoi figli agli ideali patriottici, e partecipa alla rivoluzione del ’48. Il libro si chiude
riportando il diario del figlio Giulio, morto combattendo in Argentina, e sulla serena
“coscienza” del vecchio protagonista, testimone ed attore d’un bel capitolo di storia, e
speranzoso di ritrovare l’amata Pisana nell’aldilà.
Questo romanzo si ritaglia uno spazio di assoluta originalità nel panorama contemporaneo,
giocando sulla combinazione d’un ampia gamma di generi e modi narrativi. In primo piano,
la fusione del romanzo storico col romanzo di formazione, che descrive la graduale
evoluzione del protagonista a contatto con i problemi e le contraddizioni dell’esistenza
sociale. Nell’originale sintesi di Nievo la maturazione privata dell’individuo diventa il prisma
attraverso cui riflettere lo sviluppo collettivo di una moderna identità nazionale. La vita di
Carlino viene così a coincidere con il processo di unificazione dell’Italia. Ma Nievo vivacizza
e arricchisce questo impegnativo canovaccio romanzesco innestandovi motivi, situazioni e
personaggi tratti via via dalla narrativa d’avventura, d’amore, di realismo sociale,
d’introspezione, di viaggio e dalle grandi autobiografie veneziane del Settecento.
Di qui l’invasione di personaggi, che compongono un affresco vivido e preciso degli stili di
vita e delle scelte esistenziali a cavallo dei due secoli, differenziato a seconda
dell’appartenenza sociale e delle opinioni politiche. Su tutti, spiccano i due protagonisti.
A quello femminile Nievo conferisce una selvatica vitalità: Pisana trasgredisce tutti i confini
del buonsenso, della morale e dei comportamenti sessuali che a quell’epoca erano imposti
alla donna. Nasce così la figura femminile più anticonvenzionale della letteratura italiana
ottocentesca. Solo nella parte finale della sua esistenza, Pisana torna in una certa misura ad
obbedire agli imperativi moralistici dell’epoca. Ma anche Carlino si sottrae agli schemi, è un
antieroe, il contrario di Jacopo Ortis, che si presta all’immedesimazione dei lettori,
soddisfacendo l’esigenza di una letteratura “popolare”. Il fatto poi che non rinunci mai ai
suoi ideali liberali e patriottici e alla lotta per realizzarli, assolve alla funzione politico-
pedagogica di mostrare che l’impegno civile è e deve essere alla portata di tutti.
D’altra parte Carlino nel romanzo svolge una doppia funzione: quella del protagonista che
cresce, matura e invecchia, e quella dell’anziano narratore che racconta e commenta la
propria storia. Questa scelta strutturale permette di rappresentare con spontaneità
l’universo favoloso della vita infantile, fino a quel momento precluso al romanzo. Inoltre la
presenza permanente di questo io narrante crea un solido filo conduttore in grado di tenere
insieme un’amplissima tela di eventi e di anni che altrimenti rischierebbe di sfilacciarsi.
Questo permette a Nievo di relativizzare la figura del narratore, limitando il suo sapere e
situandolo in un punto di vista e in una prospettiva ideologica definiti. La voce narrante può
concedersi di interpolare il racconto, con effetti di grande disinvoltura e naturalezza.
Infine, mettendo in scena un narratore che si dichiara esplicitamente “non letterato”, Nievo
può sottrarsi ai vincoli e alle rigidità dell’italiano letterario, e mettere a punto uno stile
spigliato e diretto, ricco di toni familiari, per farsi intendere da molti. La varietà dei toni e
dei registri e l’ampiezza della gamma lessicale sono rafforzati da una scelta linguistica che
si distacca dal modello fiorentino di Manzoni.
Ma il romanzo è troppo scabroso, sia sul piano politico sia su quello dei costumi, per trovare
subito un editore. Così Nievo si dedica a realizzare i suoi ideali patriottici: combatte nella
seconda guerra d’indipendenza e ritrae l’esperienza in un raccolta in versi: Gli amori
garibaldini (1860), che era stata preceduta dal volume Le lucciole (1858). La politica
diventa il centro delle sue preoccupazioni e dei suoi scritti: satireggia le scelte ideologiche
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dei liberali moderati, depreca l’abbandono del Veneto agli austriaci e afferma la necessità
di coinvolgere il proletariato agrario nel processo di unificazione nazionale, affidando però
tale compito non ai socialisti, ma ai parroci di campagna, che condividono la dura vita dei
contadini.
Le Confessioni escono solo nel 1867, a cura di un’amica poetessa, Erminia Fuà Fusinato, che
le rimaneggia e cambia il titolo nel più neutrale Confessioni di un ottuagenario. Ma il
romanzo è condannato dai contemporanei. Dovrà attendere il Novecento e una nuova
edizione critica (1999) per essere adeguatamente riconosciuto da una critica e da una
pubblico in grado di apprezzarlo.

12 L’epoca postunitaria e le sfide della modernità

I primi governi del regno d’Italia cercano di completare il processo di unificazione


nazionale. Nel 1864, la capitale è trasferita da Torino a Firenze per avvicinarsi a Roma, e
l’Italia si allea con la Prussia, per contrastare la Francia di Napoleone III, che sostiene il
potere temporale della Chiesa. Nel 1866, Prussia e Italia dichiarano guerra all’Austria:
l’esercito italiano è sconfitto a Custoza e Lissa, ma la vittoria dei prussiano guadagna
all’Italia il Veneto. Nel 1870 la Prussia fa cadere Napoleone III: l’Italia ne approfitta per
conquistare Roma, che diventa la nuova capitale. Questo aggrava la frattura tra Stato
italiano e mondo cattolico: il papa scomunica i re italiani e vieta ai fedeli di partecipare alla
vita politica. La borghesia laica reagisce aderendo alla massoneria. Il governo unifica le
leggi l’economia del paese, penalizzando però, con l’abolizione dei dazi, l’agricoltura e le
poche industrie del sud.
Resta il problema di conferire un’identità culturale e una lingua comuni a una popolazione
per tre quarti analfabeta e che spesso parla solo dialetto. Si introduce l’istruzione pubblica
maschile e femminile, laica e gratuita, finanziata e gestita dallo Stato, e si riqualificano le
istituzioni culturali. Il dibattito sulla questione della lingua diventa a questo punto un
problema istituzionale: il governo incarica una commissione, presieduta da Manzoni, di
mettere a punto una lingua unitaria da insegnare nelle scuole. Nella sua relazione Dell’unità
della lingua e dei mezzi di diffonderla, Manzoni rilancia la sintesi fra tradizione e modernità
del fiorentino, rifacendosi però “all’uso attuale” della lingua “vivente”, adattato alle
esigenze comunicative della società contemporanea.
Intanto lo squilibrio tra il nord e il sud innesca profondi scontenti che favoriscono la vittoria
nel 1876 della Sinistra storica guidata da Agostino Depretis, mazziniano moderato. Egli
estende il diritto di voto ai maschi alfabetizzati e potenzia l’istruzione di massa. Nel 1882
Depretis si allea con la Destra moderata dando vita al trasformismo. La Sinistra cerca di
coinvolgere in massa gli italiani nella costruzione simbolica dell’identità nazionale.
La borghesia imprenditoriale sostituisce l’aristocrazia terriera alla guida del paese, e
crescono i ceti medi, che contribuiscono a diffondere una specifica identità cultuale
borghese, fatta di laicità, patriottismo, esaltazione del lavoro, rigore morale e paternalismo
populista verso i proletariato. Dopo il 1880 l’avvio dell’industria pesante provoca
l’inurbamento di grandi masse di contadini con gravi costi sociali per le classi lavoratrici;
guadagnano consensi gli anarchici e le organizzazioni socialiste.

La Francia sotto Luigi Filippo vive un periodo di sviluppo socioeconomico e di vitalità


culturale che riporta Parigi al centro del panorama intellettuale europeo. Qui nascono le
poetiche e i procedimenti più innovativi che si impongono come punti di riferimento in tutta
Europa. Ma la modernizzazione condiziona anche il lavoro artistico, che deve soddisfare i
bisogni di consumo e di intrattenimento del nuovo pubblico di massa. Per gli strati piccolo-
borghesi e i ceti popolari vengono messi a punti nuovi generi come il romanzo d’appendice.
Gli scrittori si trovano quindi costretti a scegliere tra obbedienza al mercato e autonomia
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creativa. Chi asseconda le aspettative maggioritarie del pubblico e le committenze degli


editori commerciali può conquistarsi un rapido successo. Chi invece sfida le attese del
mercato può contare quasi solo sul consenso degli esperti e degli altri scrittori.
Intanto il prestigio conferito dalla cultura romantica alla figura dell’artista e dello scrittore
attira a Parigi molti giovani ambiziosi. Si forma un pittoresco ambiente di aspiranti artisti
dallo stile di vita disordinato, ribelle e anticonformista: la cosiddetta bohème,
caratterizzata da atteggiamenti d’insofferenza e disprezzo per la chiusura mentale e il
conformismo del mondo borghese. I bohémiens respingono i valori usuali della società
contemporanea, perseguendo l’eccentricità, lo scandalo, le trasgressioni e l’eccesso.
Henri Murger (1822-1861) -> Reso celebre dal romanzo Scene della vita di bohème (1851) di
H.M quel mondo diventa una generica bandiera di rivolta generazionale e la fucina di
un’arte e di una letteratura di contestazione, che professa il “realismo” e la denuncia delle
ingiustizie sociali. Il rifiuto di piegarsi ai valori morali e ideologici dominanti è espresso
invece da altri artisti che si vogliono indipendenti da tutto ciò che estraneo all’arte.
Théophile Gautier (1811-1872) -> Nella prefazione del romanzo Mademoiselle Maupin (1835),
lancia la nuova parola d’ordine dell’arte per l’arte: l’arte ha significato e valore di per se
stessa, nella pura e disinteressata ricerca della bellezza. Alle poetiche romantiche
dell’espressione soggettiva, sostituisce l’imperativo dell’oggettività e dell’impassibilità
quasi impersonale: punta a suscitare sentimenti. Il suo esempio è seguito dal gruppo dei
cosiddetti poeti “parnassiani” nel decennio 1866-76.
Charles Baudelaire (1821-1867) -> C.B conduce alle estreme conseguenze le contraddizioni e
le possibilità creative aperte dal conflitto tra gli artisti e la società borghese. La condizione
dell’artista respinto e incompreso dalla società diventa un tragico segno di grandezza.
Maledetto e sbeffeggiato, il poeta è come un “albatros”, che accompagna dall’alto il
cammino degli uomini sugli “abissi amari” dell’esistenza. Nei Fiori del male (1857) impiega
un’impeccabile finitura stilistica per rappresentare oggetti, situazioni e sentimenti che
scandalizzano il lettore perbenista. Baudelaire traduce in francese e lancia in Europa
l’americano Edgar Allan Poe (1809-1849), autore dei Racconti del grottesco e dell’arabesco
(1843), che si riallacciano alla tradizione del gothic novel e alla narrativa fantastica di
Hoffmann (1776-1822) creando la moderna letteratura dell’orrore, fatta di immaginario
macabro e sapiente dosaggio del suspense. Ispirandosi a Poe, Baudelaire sconvolge nelle sue
poesie il repertorio dei temi poetabili, esplorando la bellezza del “bizzarro”. Ai panorama
naturali della tradizione lirica sostituisce prosaiche immagini della “brulicante città”
contemporanea. Egli dà voce a uno stato d’animo inedito: lo spleen, un senso di malinconia
astratta e assoluta, che esprime il disagio per la perdita di significato e di punti di
riferimento nella vita spersonalizzata della metropoli moderna. I suoi versi esplorano
polarità estreme e contraddittorie. Baudelaire opera una rivoluzione del linguaggio poetico.
Da una parte giustappone metafore e scelte lessicali preziose ed elevate con termini bassi o
crudamente realistici. Dall’altra concepisce la poesia come una “stregoneria evocativa” che
esprime le relazioni segrete e inspiegabili che legano l’intero universo in una misteriosa
foresta di analogie. Egli attribuisce così enigmatici significati spirituali alla tradizionale
figura retorica della sinestesia, che giustappone percezioni appartenete a sensi diversi.
Gustave Flaubert (1821-1880) -> Contemporaneamente, G.F rivoluzionava la narrativa
ponendosi anch’egli all’incrocio fra tendenze prima contrapposte. Nel romanzo Madame
Bovary (1857) disseziona l’universo sociale piccolo-borghese raccontando il naufragio di una
donna inquieta, insoddisfatta della vita di provincia, che sfoga nell’adulterio le sue
frustrazioni. L’effetto dissacrante è potenziato da uno stile di scrittura rigorosamente
oggettivo, in cui Flaubert elimina completamente gli interventi diretti del narratore diffusi
nei romanzi storici e in quelli realistici. Per lui lo scrittore deve attenersi al criterio della
più assoluta impersonalità: l’autore non deve rendersi “visibile” nella sua opera. Così, per
riportare i pensieri di Madame Bovary, Flaubert introduce il procedimento stilistico del
discorso indiretto libero. Baudelaire e Flaubert rivendicano la piena autonomia della ricerca
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artistica dalle norme e dai valori della società. Creando opere che non corrispondono alla
percezione e ai gusti correnti, lavorano per formare un nuovo pubblico, libero dai vecchi
pregiudizi, in grado di capirle e apprezzarle. Con loro diventa evidente un fenomeno tipico
della letteratura moderna: lo scarto temporale tra il momento in cui sono state create le
opere più innovative e quello in cui sono riconosciute come capolavori.
Auguste Comte (1798-1857) -> Alcuni tratti della narrativa flaubertiana ispirano gli autori
influenzati dalla filosofia del positivismo. Il termine, lanciato da A.C per designare lo stadio
scientifico del sapere umano, indica la tendenza ad abbandonare la teorizzazione di astratti
principi ideali o metafisici, per dedicarsi all’analisi dei concreti “dati positivi”, cioè dei fatti
accertabili empiricamente, alla ricerca delle “leggi scientifiche” che consentono di
descrivere il loro e di prevedere quando/come/perché si verificano. A metà del secolo si
diffonde in Europa la propensione a considerare la scienza della natura e il metodo
sperimentale i soli strumenti conoscitivi certi. Ulteriore slancio agli orientamenti positivi
viene impresso dal biologo naturalista Charles Darwin (1809-1882). Con le ricerche esposte
in L’origine delle specie per selezione naturale (1859) egli dimostra che la natura è
governata dalla lotta per l’esistenza tra specie diverse, che causa una selezione naturale,
grazie a cui sopravvivono solo gli organismi più forti. Con L’origine dell’uomo (1871) Darwin
spiega mediante la teoria dell’evoluzione come anche il genere umano sia un prodotto di
questi meccanismi naturali. Lo storico e studioso di estetica Hippolyte Taine (1828-1893)
utilizza le concezioni positiviste nello studio dei fenomeni letterari e artistici, sostenendo
che anche le creazioni della cultura sono prodotti dall’interazione tra i tre fattori
determinanti della razza, dell’ambiente e del momento.
Émile Zola (1840-1902) -> E.Z trasporta la metodologia e le ipotesi esplicative della scienza
positivista nei procedimenti narrativi e stilistici del suo ciclo di romanzi, i Rougon-Macquart
(1871-93), “storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero”. Egli lancia la
tendenza letteraria del naturalismo, che si sforza di descrivere il mondo sociale con la
stessa oggettività con cui la “storia naturale” descrive quello animale, vegetale e minerale.
Nel saggio Il romanzo sperimentale (1880) sostiene che il compito dei romanzieri è partire
dall’osservazione minuta dei fenomeni psicologici e sociali, quindi elaborare un’ipotesi
interpretativa e realizzarne una verifica sperimentale. La tecnica flaubertiana
dell’impersonalità è quindi condotta alle sue estreme conseguenze. Il narratore, oltre a
eclissarsi completamente dietro la nuda esposizione degli eventi, si sforza di riprodurre i
modi di parlare dei suoi personaggi, facendo ampio ricorso al parlato anche gergale o
scurrile, spesso messo in scena con la tecnica flaubertiana del discorso indiretto libero.
Tutto nei personaggi zoliani obbedisce al principio darwiniano della “lotta per l’esistenza” e
sono regolarmente determinati dai 3 fattori della razza/ambiente/momento, per conferire
al ciclo dei Rougon-Macquart l’autorevolezza di una rappresentazione scientifica della
realtà. Zola affronta ogni aspetto della vita sociale e ritiene che i suoi “romanzi
sperimentali” siano anche uno strumento per analizzare e correggere le storture sociali.
Grazie all’evidenza realistica della sua prosa e alla capacità di mettere a fuoco le grandi
contraddizioni sociali che segnano la sua epoca, Zola ottiene un enorme successo di
pubblico, e i suoi romanzi si affermano come il principale punto di riferimento per una
nuova generazione di scrittori in tutta Europa.

In Italia il Risorgimento diventa un modello da tramandare alle nuove generazioni o un


oggetto di rimpianto per non riconosce nel suo esito le grandi tensioni ideali che l’avevano
animato. Il panorama editoriale è inondato dalla produzione memorialistica. Giulio Cesare
Abba (1838-1910) con Da Quarto al Volturno. Noterete di uno dei Mille (1880) tratteggia il
ritratto più vivace dell’epopea garibaldina. La liberazione del meridione è narrata al
presente, in pagine di diario, con una scrittura essenziale, vicina al parlato, pre restituire il
coinvolgimento emotivo e ideale di chi ha vissuto quell’avventura lontana, che ora suona
come una critica della disincantata, borghese e prosastica Italia.
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Infatti, finito il periodo risorgimentale, si ridimensionano gli ideali degli anni preunitari. Il
cambiamento del sistema politico muta la condizione sociale degli intellettuali, sanando la
frattura col loro mondo del potere e delle istituzioni pubbliche. Lo sviluppo impresso
all’insegnamento pubblico apre nuovi spazi di lavoro per gli intellettuali privi di rendita, che
grazie allo stipendio dello Stato possono dedicarsi solo allo studio e alla ricerca senza più
dipendere dal mercato editoriale. Sulla scena della cultura si affacciano anche le donne,
anche se sono spesso relegate nei ruoli meno prestigiosi delle scrittrici di romanzi
d’intrattenimento o di maestre elementari. Ai maschi, invece, toccano le cattedre di licei e
università, luoghi di formazione della classe dirigente.
Anche gli scrittori entrano nel sistema dell’insegnamento superiore: liberi dalle costrizioni
economiche, possono praticare la poesia, il genere più prestigioso per le élite. Nasce così la
figura del poeta-professore che, con Giosuè Carducci, si conquista nei primi decenni
postunitari una posizione dominante in campo letterario. Carducci insegna a Bologna che,
grazie alla sua attiva presenza, acquista rilievo come centro culturale ed editoriale. Lo
spostamento della capitale a Firenze toglie a Torino il ruolo di centro di orientamento
culturale del paese, ma il suo ateneo diventa un caposaldo dell’offensiva positivista.
Chi lavora nell’industria editoriale (Milano) pratica generi meno prestigiosi ma più graditi al
largo pubblico come la narrativa e il teatro, e sopratutto si dedica al giornalismo. Nascono
riviste di ogni tipo e i primi strumenti di comunicazione di massa: i quotidiani, che
contribuiscono a formare un’opinione pubblica a livello nazionale.
Anche in Italia lo sviluppo industriale dell’editoria pone gli autori di fronte al dilemma tra
autonomia e mercato. A Milano nasce, vent’anni dopo, una situazione analoga a quella della
bohème parigina. Si forma un ambiente di intellettuali che vivono alla giornata, praticano
una creatività ribelle e disordinata e rivendicano provocatoriamente i comportamenti più
eccessivi e anticonformisti. Il romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862) di Cletto
Arrighi, li ritrae come una bizzarra “casta” a parte, creativa e squattrinata. La scapigliatura
di Arrighi traduce in un vocabolo e in un contesto italiano la bohème parigina resa celebre
da Murger. Il successo della formula lancia sulla scena questo nuovo costume letterario.
Nella suggestiva etichetta si riconoscono vari gruppi di poeti e narratori che seguono
itinerari creativi e poetiche anche molto diverse, ma si sentono accomunati dalla
programmatica trasgressione dei codici culturali ed estetici graditi al perbenismo borghese.
La rivolta non riesce però ad imporsi e di spegne poco dopo il 1880.
Il panorama letterario italiano dei primi due decenni postunitari è tra i più complessi e
variegati dell’intero secondo. Mentre la poesia e la saggistica aiutano a costruire e
valorizzare l’identità culturale della nuova nazione, il pubblico dei lettori, in tumultuosa
crescita, trova sopratutto nella narrativa la miglior risposta ai propri bisogni di evasione e
intrattenimento. Inizia il decollo decollo della narrativa, e quindi del romanzo, il genere più
osteggiato dal progetto di restaurazione e aggiornamento del canone letterario neoclassico
sostenuto dal Carducci. Con lo sviluppo dell’industria editoriale anche in Italia gli scrittori
iniziano a sentire il dilemma tra autonomia della ricerca artistica e adeguamento al
mercato. Nella narrativa si assiste alla proliferazione delle poetiche e delle tendenze. Gli
scrittori che si contendono il riconoscimento critico, danno vita a un conflitto permanente,
fatto di superamenti veri o presunti e di controffensive, in un rapido avvicendarsi di nuove
mode culturali. Questo processo accelera il mutamento degli stili e dei procedimenti
romanzeschi, e favorisce la compresenza di opere dalle caratteristiche opposte.

Lo studio e l’insegnamento della letteratura italiana occupano un ruolo cruciale nella


cultura dei primi decenni postunitari. Questa antica tradizione culturale è tra i pochi tratti
comuni e condivisi di una nazione eterogenea in cerca di simboli unificanti. I capolavori di
Dante, Petrarca e Boccaccio e degli autori del Rinascimento sono considerati i monumenti di
una grandezza che l’Italia contemporanea deve fare sua per riconquistare il prestigio di un

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tempo. Con questo lavoro di riscoperta e valorizzazione, la nuova Italia si inserisce nella
competizione culturale tra le grandi tradizioni nazionali europee.
L’intera attività del critico Francesco De Sanctis (1817-1883) è dedicata al tentativo di
istituire uno stretto legame tra gli ideali patriottici e l’interpretazione critica e
l’insegnamento della letteratura italiana. Nato in provincia di Avellino, De Sanctis si forma a
Napoli, dove presto si dedica all’insegnamento dell’Estetica e della Filosofia della storia di
Hegel. Le sue lezioni si distaccano dall’impostazione linguistico-stilistica del purismo perché
inseriscono le opere d’arte nel processo di progressiva e conflittuale evoluzione storica dello
“spirito”, cioè nella scoperta e comprensione di sé gradualmente conquistata dall’umanità.
La dimensione estetica per De Sanctis non è solo una fase dello sviluppo progressivo dello
spirito umano, ma ha una dimensione a sé, autonoma e insostituibile, in grado di rendere
“reale” l“ideale”, cioè di conferire una concreta evidenza sensibile agli astratti contenuti
culturali di un’epoca. Egli misura la riuscita artistica delle opere letterarie valutando se e
quanto esse riescono a fondere in una sintesi organica “forma” e “contenuto” in una
specifica “situazione”, vale a dire nell’incontro tra un “concetto poetico” e una particolare
“disposizione” d’animo dell’autore. Compito della critica è esaminare la natura di questa
“situazione”, collocandola nel disegno evolutivo del divenire storico.
Nel 1860 De Sanctis diventa ministro della pubblica istruzione e provvede a rinnovare
l’università, assumendo intellettuali di formazione laica e idealistica e riducendo l’influenza
delle scuole cattolico-liberali. Con i Saggi critici (1866) e il Saggio critico su Petrarca (1869)
rinnova il genere saggistico, inaugurando in Italia il modello della moderna monografia
critica. Scrive poi una Storia della letteratura italiana (1870-71) seguendo il proprio
originale metodo idealistico. Egli racconta come i grandi autori della letteratura italiana
hanno espresso nel corso del tempo lo sviluppo della “coscienza nazionale”, nel suo faticoso
approdo alla rinascita civile e politica e alla conciliazione dell “ideale” con il “reale”. In
questa cornice concettuale, il critico inserisce le grandi svolte storico-politiche, i
mutamenti della società, le trasformazioni della cultura e del gusto, che mette in rapporto
con l’evoluzione della letteratura. La sua narrazione critica è costruita come un “romanzo
di formazione” della coscienza italiana. Passando attraverso continui processi dialettici di
tesi e antitesi, la letteratura italiana approda a una moderna sintesi di ideale e reale con
Manzoni e Leopardi, che inaugura “il regno dell’arido vero, del reale”.
Nelle lezioni successive sull’Ottocento italiano De Sanctis individua il conflitto ideologico-
estetico tra due grandi “scuole”, che coincidono con i raggruppamenti politici del
Risorgimento: la “scuola cattolico-liberale”, più moderata ma realistica, si rifà a Manzoni,
mentre quella “democratica”, più radicale e laica, ma estremamente idealista, fa capo a
Mazzini. Al di fuori dello schema resta la figura di Leopardi, del quale viene valorizzata la
poesia degli idilli e dei canti pisano-recanatesi. Con la vittoria della Sinistra, De Sanctis
lascia l’insegnamento però continua a dialogare con le correnti culturali e letterarie che
hanno conquistato la scena culturale italiana: positivismo e naturalismo. Dalla prolusione
accademica La scienza e la vita (1872), fino allo Studio sopra Emilio Zola (1878), il critico si
sforza di leggere in una prospettiva dialettica un universo culturale ormai estraneo ai suoi
punti di riferimento ideali di matrice risorgimentale. Il naturalismo, con la sua nuda
rappresentazione oggettivante della società, manda in crisi la teoria desanctisiana della
letteratura come luogo di formazione della coscienza nazionale.
Nella conclusione della sua Storia De Sanctis aveva visto giusto: negli anni successivi al 1860
i Paesi più avanzati, Francia, Germania, Inghilterra avevano già abbandonato la filosofica
idealistica in favore del positivismo. La nuova generazione degli accademici italiani si
adegua tempestivamente ai nuovi modelli europei. Pasquale Villari (1826-1917), importa in
Italia queste metodologie tracciando le linee programmatiche del nuovo indirizzo nel
manifesto inaugurale del positivismo italiano: il discorso La filosofia positiva e il metodo
storico, pubblicato nel 1866 su “Politecnico”. L’altro grande divulgatore italiano è lo
psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909), con il saggio L’uomo delinquente (1876), sostiene
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che si possono analizzare scientificamente le cause fisiologiche del crimine e fonda la nuova
disciplina dell’antropologia criminale. Le teorie di Lombroso ottengono un successo
internazionale ed esercitano un profondo influsso su molti rami della cultura europea.
L’indirizzo positivista è applicato allo studio della letteratura italiana dalla cosiddetta
Scuola storica, che si afferma dopo il 1880, scalzando l’impostazione desanctisiana. Il suo
obiettivo è realizzare un sistematico inventario scientifico del patrimonio culturale della
nazione. Anche l’interesse di origine herderiana e romantica per le tradizioni popolari si
trasforma nello studio rigoroso e filologicamente fondato di documenti, testi, memorie
orali.

Fuori dai circuiti protetti del mondo universitario, i cosiddetti scapigliati lanciano negli anni
successivi all’Unità la loro rivolta contro lo stile di vita e la mentalità della nuova Italia
borghese. L’offensiva investe dapprima la poesia. La poesia scapigliata si ispira a Baudelaire
per attaccare si il sentimentalismo perbenista della letteratura precedente, sia il nuovo
ordinamento sociale, che ha deluso le aspettative risorgimentali.
Apre la via Emilio Praga (1839-1875), folgorato dai Fiori del male. Nei versi di Penombre
(1864) prende a modello questa “bestemmia cesellata nel diamante” per contestare sul
piano sia morale sia estetico l’angusto panorama dell’Italia postunitaria. Ma è una rivolta
più dichiarata che reale. Nel Preludio, per dare voce a uno smarrimento storico e
generazione, Praga condensa un programma poetico orientato allo scandalo e alla
provocazione che però, a differenza di Baudelaire, non è condotto alle sue ultime
conseguenze sul piano della ricerca verbale e stilistica. Praga rinnega la figura tradizionale
del poeta e scardina il ristretto repertorio dei motivi poetabili, annettendo spazi
dell’esperienza fino allora esclusi, con l’irruzione del brutto, del macabro, del grottesco,
del repellente e del malsano. Ma le tonalità tardoromantiche da cui vorrebbe staccarsi
riaffiorano in molte poesie, segnate da un sentimentalismo che cade nei registri più
convenzionali dell’idillio o dell’elegia.
Arrigo Boito (1842-1918), musicista e poeta, anche lui lettore di Baudelaire, si associa
all’amico. I versi di Boito rendono più esplicita l’assunzione polemica del brutto nella sfera
della poesia. Grazie alla sua maestria nella metrica, arricchisce la gamma delle
provocazioni, con rime dissacranti e nuovi effetti ritmici, alla ricerca di un metro
“scomposto e tetro”. Il ventaglio tematico è simile a quello di Praga, solo più consapevole e
esibito.

Giosuè Carducci (1835-1907)


Più che la poesia scapigliata, nell’Italia unita arrivò progressivamente a imporsi il
classicismo nelle forme rinnovate da Giosuè Carducci, assoluto dominatore della scena
poetica negli ultimi trent’anni del secolo. Il suo successo dipende sopratutto da due fattori.
Da una parte la sintonia raggiunta tra la sua produzione letteraria e l’immaginario e il gusto
della classe dirigente. Dall’altra la convergenza tra la sua figura pubblica di poeta-
professore e le esigenze di politica culturale della “nuova Italia”. La strategia con cui egli
reagisce all’egemonia tardoromantica e alla crisi di valori postunitaria è opposta a quella
degli scapigliati: riscoperta e restaurazione degli antichi istituti letterari nazionali e rilancio
di un’etica borghese, connessa alla religione laica del patriottismo, al culto umanistico della
tradizione letteraria italiana e alla rivisitazione neopagana del mito e del classici greco-
latini. Carducci si forma in Toscana, negli anni delle grandi rivolte e delle imprese
risorgimentali, a cui non partecipa attivamente, dedicandosi invece allo studio filologico-
erudito dei classici italiani. In quel periodo la scena letteraria italiana è dominata nella
poesia dai modelli tardoromantici europei. Nella prosa sono egemoni gli imitatori di
Manzoni. Carducci, che è laico, democratico radicale, si oppone a queste tendenze,
ricollegandosi al classicismo laico e materialista di Giordani e Leopardi, ai quali dedica la
sua prima raccolta di Rime (1857).
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Nel 1860 è nominato professore di eloquenza italiana all’Università di Bologna, dove


trascorrerà la sua intera esistenza. In ambito politico-culturale, scopre la produzione storica
e narrativa di orientamento democratico-repubblicano della Francia della seconda
Repubblica, diventa un fervente mazziniano e aderisce alla massoneria. Riuniti nei Levia
gravia (1868) e nelle Poesie (1871), i testi di questo periodo saranno poi suddivisi,
nell’edizione definitiva, nelle raccolte Juvenilia (1880), Levia gravia (1881) e Giambi ed
epodi (1882). Il lessico aulico e la ripresa della retorica di ascendenza classicista, l’aura
illustre conferita dalla metrica, dalle immagini e dai procedimenti stilistici ricalcati dalla
più prestigiosa tradizione letteraria, realizzano un nuovo genere di poesia civile, che trae la
propria autorevolezza dal legame con il patrimonio culturale e ideale della nazione.
L’impegno democratico e sociale del poeta-profeta romantico è riformulato in veste classica
e in chiave patriottico-risorgimentale, rivendicando al poeta una funzione di guida etica e
politica. Carducci si fa portavoce in versi della razionalità laica e materialista e del
progresso sociale. Le sue poesie rievocano i grandi episodi storici, interpretati, secondo
l’ideologia mazziniana e massonica, come tappe del cammino dell’umanità, che progredisce
ribellandosi alla tirannia e all’oscurantismo. Nell’Inno a Satana (1863), Carducci reinventa in
chiave laico-democratica e anticlericale anche il tema baudelairiano e scapigliato
dell’adorazione blasfema del demonio, celebrando provocatoriamente Satana come
personificazione del materialismo anticristiano e della “forza vindice / de la ragione”,
simboleggiata nel finale dalla locomotiva, immagine del progresso tecnico-scientifico che
trionfa sui dogmi religiosi.

Dopo il 1871 una passione extraconiugale ravviva la sua vita intima, straziata dalla morte
improvvisa del figlio Dante. Sul piano politico sostiene il nuovo governo della Sinistra
abbandonando il radicalismo repubblicano. In ambito letterario, adotta una poetica
dell’arte pura, desunta da Gautier e dai parnassiani: suo obiettivo è scrivere “odi
oggettive”, cioè immuni dal sentimentalismo soggettivo dei romantici, perseguendo con una
rigorosa cesellatura formale la levigatezza, l’armonia e la perfezione degli antichi. Il frutto
di questo moderno classicismo sono le Odi barbare, che imprimono alla poesia italiana
dell’Ottocento una svolta fondamentale, sia sul piano metrico sia su quello tematico.
Carducci attinge alla metrica del Rinascimento, ma il suo classicismo va oltre, perché
riscopre e riutilizza i procedimenti impiegati dai poeti cinquecenteschi italiani per imitare
con versi moderni la cadenze ritmiche della metrica quantitativa classica. L’impresa
presenta grandi difficoltà tecniche, perché deve affrontare gli ostacoli posti dal sistema
metrico accentuativo della tradizione romanza. L’aggettivo barbare posto nel titolo
denuncia la consapevole arbitrarietà di questa trasposizione. Ma i versi “barbari” delle Odi
creano un ordine e delle sonorità inedite che sconvolgono radicalmente gli istituti metrici
ottocenteschi e introducono un nuovo elemento di discontinuità nella tradizione, diverso da
quello della canzone libera leopardiana.
Scrivendo delle odi, Carducci si vuole richiamare soprattutto al capolavoro del più grande
poeta lirico latino, Orazio. Come il giovane Leopardi delle Canzoni, riprende questa
concezione aristocratica della poesia, riservata ai pochi eletti in grado di apprezzarla. Ma
non si limita a fare sua la metrica e la poetica di Orazio: vuole riportare in vita e diffondere
anche le convinzioni morali e per così dire religiose del poeta antico. Il suo classicismo è sia
estetico sia etico. La musica finto-antica dei versi barbari accoglie anche situazioni e
ambienti moderni. Il poeta-vate vuole parlare ai suoi contemporanei, per convincerli a fare
del neopaganesimo un punto di riferimento morale per il presente, un ethos laico, borghese,
fatto di gusto per i piaceri concreti della vita, autocontrollo razionale, da contrapporre sia
al cattolicesimo sia al senso di crisi e smarrimento degli scapigliati.
Sul versante politico, alla rappresentazione polemica e militante della storia antica e
moderna del periodo giambico, seguono ora le evocazioni monumentali della perduta
grandezza dell’impero romano, con cui Carducci porta il suo contributo al mito nazionalista
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ufficiale della nuova Italia, erede dell’antica Roma. Lo stile e il lessico si accordano ai
canoni classicisti, mentre le immagini e le descrizioni si allineano al gusto parnassiano, con
colori vividi e netti. Il successo delle Odi barbare è enorme, anche grazie alla familiarità del
pubblico borghese con la poesia classica. Il nuovo sistema “barbaro” si impone
immediatamente come il massimo di raffinatezza metrica.
Anche nelle poesie in rima, composte negli stessi anni ma raccolte più tardi nelle Rime
nuove (1887), Carducci si sforza spesso di esprimere i sentimenti più intimi evitando di
parlare in prima persona. Nei celebri versi di Pianto antico, egli rappresenta la tragedia più
atroce della sua vita, la morte del figlio, senza mai dire “io”. Carducci oggettiva il proprio
dolore nella metafora di un albero prosciugato dalla linfa vitale.
Le Rime nuove esplorano le moderne misure romanze della rima e del verso, ma all’insegna
della medesima poetica parnassiana e patriottica delle Odi barbare. Il poeta-professore si
avvale dei suoi studi eruditi per trarne immagini e procedimenti stilistici e metrici
dimenticati, e impreziosire i suoi versi moderni con i gioielli nascosti dell’antico tesoro
poetico nazionale. Odi e Rime formano un dittico di poesia oggettiva che celebra le due
grandi tradizioni formali su cui si fondano la poesia italiana e la letteratura europea: quella
classica e quella romanza. Carducci si presenta così come il grane interprete
contemporaneo e l’autore culminante dell’intera tradizione letteraria nazionale,
identificata con quella poetica, rafforzando l’immagine ufficiale di vate che gli permette di
contrastare col suo prestigio istituzionale e il riconoscimento delle élite, il successo di
pubblico della narrativa. Dopo il 1880 domina il mondo letterario italiano. La consacrazione
istituzionale come vate italiano culmina, da una parte, nella nomina a senatore e nel
sostegno alla politica reazionaria di Crispi, dall’altra nel riconoscimento internazionale
come esponente di un moderno umanesimo nazionalista. Ma quando gli viene tributato il
premio Nobel (1906) l’anziano Carducci è simbolo d’un mondo scomparso. Tuttavia la sua
opera verrà riletta in vari modi nei periodi successivi, anche per motivi nazionalistici sotto il
regime fascista; dal secondo dopoguerra, sono state apprezzate le sue opere in prosa, i
saggi critici e anche gli scritti autobiografici e polemici raccolti in Confessioni e battaglie.

L’industria editoriale in grande espansione punta sul romanzo, aprendo agli autori italiani un
mercato dove dominavano le opere francesi e inglesi. La figura del romanziere inizia a
professionalizzarsi, avvicinandosi anche nei codici comunicativi a quella del giornalista.
Lo stile si svecchia, facendosi più mosso e disinvolto, il lessico più moderno e diretto, la
sintassi semplice e scorrevole, le tecniche narrative aumentano la suspence e velocizzano la
successione degli eventi. I romanzi devono essere di facile e piacevole lettura e soddisfare
la più estesa varietà di gusti. Di qui il proliferare del autori e della produzione narrativa nei
primi decenni postunitari.
La narrativa di consumo si sgancia sempre di più da quella letterariamente più ambiziosa, e
mette a punto vari sottogeneri adatti a intercettare i diversi livelli di cultura e i gusti dei
lettori. Ora il pubblico popolare può scegliere tra romanzi d’appendice appartenenti a filoni
diversi. Sulla scia de I misteri di Parigi (1843) di Sue, riscuotono grande successo macabre
storie di delitti perpetrati nei bassifondi delle grandi metropoli. I lettori borghesi
preferiscono romanzi mondani di moderato realismo, che trasportano nel contesto italiano
le storie di amori impossibili ambientate nei salotti dell’alta società parigina.
Con la crescita della scolarizzazione femminile, anche le donne entrano nell’industria della
narrativa, sia in qualità di autrici, sia come nuovo pubblico da conquistare. Si sviluppano
così dei generi romanzeschi specificamente dedicati a loro. Alcune scrittrici iniziano a
narrare, in modi più realistici, le condizioni di vita e i sentimenti delle donne.
Anche i bambini e gli adolescenti diventano un pubblico corteggiato dall’industria
editoriale. Nasce il nuovo sottogenere della narrativa per l’infanzia, che coniuga
divertimento e funzione educativa per domare nei giovani una mentalità unitaria,
patriottica e monarchica. Cuore (1886), dello scrittore Edmondo De Amicis (1846-1908), è il
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romanzo che soddisfa meglio queste esigenze, e ottiene un successo straordinario. E’ il libro
di lettura scolastico per eccellenza e viene tradotto in tutto il mondo. Racconta in toni
melodrammatici ed edificanti un anno di scuola elementare a Torino, attraverso il diario di
un allievo di estrazione medio-borghese. De Amicis si è proposto un libro “che faccia
piangere, che rassegni e dia forza a una tesi indiscutibile”. Così le esperienze quotidiane
degli scolari e le gesta straordinarie dei piccoli eroi dei racconti letti in classe servono a
presentare, attraverso azioni esemplari, un modello di comportamento umanitario,
patriottico e interclassista, orientato al lavoro e al sacrificio, da inculcare nei giovani
lettori, in accordo con valori i etici e ideologici predominanti nella borghesia dell’epoca.
Invece Carlo Collodi (1826-1890), uno specialista di narrativa per l’infanzia, crea con Le
avventure di Pinocchio (1883) un divertente romanzo fiabesco che, travalicando gli intenti
pedagogici, immerge il lettore in un incantato e variopinto universo fantastico, congeniale
alla fantasia e all’anarchica voglia di libertà dell’immaginario infantile. E’ una sintesi
inedita tra il genere adulto e realistico del romanzo di formazione e quello infantile e
fantastico della favola, popolata da animali parlanti, fate, orchi, mostri e incantesimi.

Gli scapigliati sono i primi ad affacciarsi sulla scena dell’Italia unita anche nel settore della
narrativa d’arte. Seguono itinerari creativi differenziati, ma partecipi di un’atmosfera
comune, fatta di spregiudicatezza, curiosità per filoni letterari stranieri trascurati in Italia,
e sopratutto propensione a trasgredire i codici narrativi, linguistici e sociali.
Questa passione sovversiva si esercita in due grandi direzioni. Da una parte nell’esplorazione
dei territori del morboso, del perverso e del fantastico, sviluppando il versante più
irrazionale del Romanticismo europeo; dall’altra nel programmatico rovesciamento dei
normali modelli linguistici.
La prima tendenza è aperta da Igino Ugo Tarchetti (1839-1869). In Fosca (1869) egli
rappresenta una passione amorosa abnorme e ossessiva, che travolge il nesso romantico
amore-morte ideando una trama perturbante, che si addentra nelle zone più recondite e
contraddittorie della psiche. La storia è narrata in prima persona dal protagonista, che
scrive la storia del legame morboso che lo ha legato contro la propria volontà a Fosca, una
donna dalla bruttezza inquietante, vicina alla morte e sconvolta dall’isteria. La sua figura
incarna l’ambigua fascinazione scapigliata per il macabro. In molti dei suoi racconti,
Tarchetti si riallaccia ai filoni ancora inesplorati in Italia del fantastico alla Hoffmann e
dell’orrore alla Poe: nei Racconti fantastici (1869), irrompono il mistero, l’incubo, il
soprannaturale, gli sdoppiamenti della personalità o il precipitare nel delirio/pazzia.
Atmosfere e suggestioni simili si ritrovano nei racconti di Camillo Boito (1836-1914). Le sue
Storielle vane (’76 e ’83) traducono il repertorio dell’immaginario scapigliato in storie meno
estreme e surreali, dove la verosimiglianza realistica rende più acuta l’analisi psicologica di
sentimenti torbidi e spregiudicatamente morali. In Senso (’83), la sua novella più famosa,
una nobildonna veneziana racconta la passione degradante che durante la guerra del 1866
l’ha legata a un ufficiale austriaco, pronto a sfruttare i suoi soldi per imboscarsi e tradirla
con un’altra. E’ un amore antirisorgimentale per eccellenza. Anche il finale, la vendetta
astuta e crudele, messa in atto dalla donna, è lontanissimo dalle idealità romantiche della
generazione precedente.
Invece, Carlo Alberto Pisani Dossi (1849-1910) è lo scapigliato che percorre con più radicalità
la strada dell’insubordinazione e della rivolta contro i codici rappresentativi correnti,
rifiutando sia il monolinguismo fiorentino, sia lo stile narrativo scorrevole. Dossi frequenta
l’ambiente della Scapigliatura milanese, ed esordisce giovanissimo con il breve romanzo
autobiografico L’Altrieri (1868). In quattro squarci memoriali, Dossi evoca in prima persona,
assumendo un nome fittizio, sparsi frantumi di sensazioni, sentimenti ed episodi di quello
che per lui è “l’altro ieri”, cioè il recente passato dell’infanzia e dell’adolescenza. Il
secondo romanzo, La vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi (1870), intensifica fin dal
titolo il gioco di specchi e di mascheramenti tra l’autobiografia e l’invenzione letteraria.
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Il racconto in terza persona della propria vita, della precoce vocazione alla scrittura e di un
innamoramento è inframezzato da scherzose allusioni dell’Altrieri e da brevi racconti. Ma
qui la conclusione è più tipicamente scapigliata: quando scopre che la sua amata è morta, il
protagonista ne compra il cadavere dal becchino e, in preda al delirio, si uccide sopra la
bara scoperchiata. Ma l’aspetto più originale e innovativo della prosa di Dossi è il suo
eccentrico impasto linguistico, costruito con il sapiente intarsio di parole che si scostano
dalla norma postmanzoniana. Per aumentare l’effetto di bizzarria delle sue scelte lessicali,
Dossi si crea un’ortografia tutta sua, accentando tutte le parole non piane e introducendo
nuovi segni di punteggiatura. E’ un’impresa d’avanguardia tentata da uno scrittore
controcorrente, che incontra solo il consenso dei critici più raffinati e di un piccolissimo
numero di lettori, e si chiude presto, quando Dossi si dedica alla politica. Ma, prima di
abbandonare la scena, ripropone nuove edizioni dei suoi libri, fra cui va ricordato anche La
desinenza in A. Ritratti umani (’78 e ’84), raccolta di racconti satirici sulle donne.
In una prefazione di questo periodo, Dossi spiega le sue scelte stilistiche: egli punta a
“stipare quanto più senso si possa in ogni frase”, ma anche a esprimere un senso di
disgregazione dell’io. Scrivendo una prosa difficile, seleziona i pochi lettori di grande gusto
in grado di intenderlo piuttosto che inseguire il pubblico di massa, perché vuole “arricchire”
la “letteratura”, non “le case editrici”.
Dopo il 1870 il successo internazionale dei romanzi di Zola mette all’ordine del giorno anche
in Italia la tendenza naturalista e l’imperativo letterario del realismo. La nuova tendenza si
irrida in Italia da Milano, dove operano i critici e gli scrittori della scapigliatura
democratica. Loro portavoce è Felice Cameroni (1844-1913) che intende lanciare una
narrativa “realista” che si appropri del naturalismo francese per “passare dal campo
semplicemente artistico alla lotta sociale”, denunciando le ingiustizie della società
contemporanea. Ma i romanzi degli scapigliati democratici si esauriscono spesso in una
superficiale imitazione dei temi zoliani: il loro è solo un realismo generico.
Invece Giovanni Verga e Luigi Capuana (1839-1915) traggono i risultati più incisivi dal nuovo
orientamento realista, imprimendo una svolta dalla narrativa italiana. Entrambi avevano
iniziato guardando al romanzo d’intrattenimento borghese, ma l’incontro decisivo con
l’opera di Zola li spinge a cambiare strada. Dopo i primi “romanzi mondani” di Verga,
Capuana rilancia l’offensiva col romanzo Giacinta (1879), che diventa un manifesto del
verismo italiano. Vi si racconta la storia tragica della degenerazione psichica e morale di
una donna che ha subito uno stupro da bambina e ne resta segnata per tutta la vita.
Ossessionata dall’idea del “disonore” patito, sposa un uomo che non ama, per tradirlo la
notte stessa delle nozze col proprio vero innamorato, da cui ha una figlia. Quando questa
muore, e Giacinta è abbandonata dall’amante, le resta solo il suicidio.
L’opera si inserisce nell’aspra polemica pro e contro realismo, naturalismo e verismo. Sul
fronte del naturalismo e del verismo si schierano i giornali della Scapigliatura, che
sostengono l’opportunità di rappresentare anche gli aspetti più scabrosi e sconvenienti della
società contemporanea. I critici, i giornali e i romanzieri più conservatori difendono invece
la morale corrente e la narrativa idealista, e la sua scelta di selezionare solo temi consoni a
severi principi morali. A questi ultimi si aggiunge Carducci che vede nel verismo un
pericoloso avversario della sua poetica classicista e di rievocazione storica.
Capuana risponde pubblicando gli Studi sulla letteratura contemporanea (1880), in cui
propugna la rappresentazione narrativa di “documenti umani” condotta con “metodo
scientifico e impersonale”. Contemporaneamente Verga realizza la più radicale rivoluzione
dei codici narrativi concepita in Italia dai tempi del Promessi sposi, reinventando e
spingendo alle estreme conseguenze le più innovative soluzioni stilistiche zoliane. Si impone
così come l’assoluto caposcuola del verismo italiano, ma poco gradito dal grande pubblico,
disorientato dalla novità delle sue soluzioni stilistiche.
Nonostante queste resistenze, l’egemonia conseguita dalla cultura positivista, l’interesse
per i nuovi studi demoantropologici sul folclore popolare, il prestigio di Zola e quello più
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faticosamente conseguito da Verga e Capuana favoriscono tra il 1870-80 la diffusione su


quasi tutto il territorio nazionale di una narrativa verista. Molti scrittori si dedicano a
scoprire e rappresentare le variegate realtà regionali, tuttavia, la rivoluzione di Verga resta
senza imitatori adeguati, e l’adesione alla poetica verista si rivela piuttosto superficiale.

Giovanni Verga (1840-1922)


Nato a Catania da una famiglia di proprietari terrieri, Giovanni Verga dopo aver fatto studi
privati e aver militato nel 1860 a sostegno di Garibaldi, si dedica assiduamente alla
scrittura. Nel 1865 si trasferisca a Firenze, dove inizia a sottrarsi alla cultura provinciale di
provenienza ed esordisce con Storia di una capinera (1871), lacrimoso romanzo epistolare su
una monacazione forza, che segue i moduli del tardo Romanticismo intimista, anche se
presenta risvolti anticlericali di sicura attualità, dato lo scontro in atto tra Stato e Chiesa.
Nel 1872 si sposta a Milano dove si inserisce nella vita mondana dei salotti e negli ambienti
letterari. Qui frequenta gli scapigliati e riesce a piazzare dall’editore Treves il romanzo Eva.
E’ la storia, ricca di spunti autobiografici, di un pittore catanese, trasferitosi e Firenze in
cerca di fortuna, e del suo duplice fallimento nell’amore e nell’arte, che si chiude nella
disillusione e nella morte. Lo stile, ricco di interventi del narratore, le situazioni
melodrammatiche e gli ambienti mondani risentono della narrativa d’intrattenimento. Ma
l’involuzione del protagonista intende rappresentare la problematica condizione dell’artista
nella società contemporanea. Nella prefazione Verga si allinea alla polemica scapigliata
contro l’ipocrisia dei lettori borghesi e perbenisti, scandalizzati da una narrativa che
“raccoglie e getta in faccia” lo spettacolo delle miserie create da loro. Il libro si inserisce
nel dibattito sul naturalismo e gli regala una certa visibilità. Con i due romanzi successivi,
Tigre reale (1874) ed Eros (1875), Verga si afferma come scrittore professionista. I suoi
romanzi sanno tratteggiare a tinte forti le “esuberanze patologiche della civiltà”
assecondando abilmente i gusti del pubblico medio. Contemporaneamente, Verga compone
varie novelle, tra cui Nedda (1874), che riscuote molto successo rappresentando la miseria e
la tragica fine di una contadina siciliana orfana, che, rimasta incinta, non può più
mantenersi e vede morire la figlia di stenti. Lo scrittore ripropone qui i tradizionali toni
patetici della narrativa rusticale, staccandosi dalla produzione romanzesca.

Tra il 1878-80 Verga avvia una radicale svolta creativa, compiendo un decisivo salto di
qualità con cui si pone all’altezza della grande narrativa naturalista europea. E’ un
mutamento improvviso, prodotto dal concorso di molti fattori concomitanti, tra cui
l’impressione di novità prodotta da L’Assommoir (1877, lo scannatoio), romanzo in cui Zola
si sforza di “raccogliere la lingua popolare, e di colarla in un calco molto elaborato”,
ricorrendo ampiamente al discorso indiretto libero. Dal 1878 Verga inizia ad assumere e
ricreare nei propri procedimenti stilistici le tecniche più all’avanguardia messe a punto dal
“romanzo sperimentale” zoliano per rappresentare il reale nelle forme più impersonali e
oggettive possibili.
Il confronto con Zola spinge Verga a creare un’opera d’arte pura, indifferente alle
costrizioni del mercato, come quella già teorizzata in Francia e assunta da alcuni scapigliati.
Il primo oggetto del suo nuovo corso narrativo è la Sicilia dei contadini, dei pescatori, dei
braccianti, dei minatori: un universo arcaico, immobile, remoto, che alla mentalità
progressista dell’epoca appariva primitivo e selvaggio.
Il laboratorio creativo in cui sperimenta e mette a punto questa nuova svolta sono le novelle
raccolta in Vita dei campi (1880). Il volume comprende anche due brevi testi
programmatici, o manifesti di poesia: sommarie ma precise istruzioni per la lettura. Il primo
è la novella Fantasticheria, in cui lo scrittore affronta essenzialmente questioni tematiche:
la dignità e l’interesse del “dramma modesto e ignoto” rappresentato ai suoi occhi dalla
“vita di stenti” dei proletari siciliani. Il secondo scritto-manifesto, che affronta questioni
stilistiche, è la dedica di L’amante di Gramigna a Salvatore Farina, narratore
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d’intrattenimento di grande successo, alfiere degli antiveristi. E’ un discorso breve, lucido,


che mostra come Verga abbia deciso di appropriarsi in modo selettivo della lezione del
“romanzo sperimentale” zoliano, lasciando da parte le teorie della degenerazione e
dell’ereditarietà per accogliere il metodo dell’impersonalità. Ha voluto creare un
“documento umano”, raccontato con le stesse parole semplici della narrazione popolare.
L’ideale massimo del romanzo è far si che la mano dell’artista risulti assolutamente
invisibile, al punto che “l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé”.
Nei racconti di Vita dei campi parla una serie di voci narranti che impiegano un italiano
comunicativo e scorrevole, moderno, ma intriso di movenze sintattiche, modi di dire,
metafore tipiche della parlata popolare e del dialetto. Questo impasto linguistico acuisce
l’effetto di impersonalità del racconto, che viene potenziato dall’impiego del discorso
indiretto libero, senza alcun intervento diretto da parte del narratore.
E’ una duplice svolta: da una parte l’effetto di oggettività creato dalla mimetizzazione del
narratore dietro le voci popolari, dall’altra la rottura di quel diaframma impenetrabile che
in Italia aveva sparato la letteratura in lingua dalla vitalità e dalla durezza del mondo
proletario. Finora, infatti, la voce dei popolani era stata presentata solo attraverso il filtro
linguistico e cognitivo dell’italiano delle classi dominanti.
L’eclissi del narratore permette a Verga di ottenere effetti drammatici con pochi dettagli
essenziali, senza cadere nell’enfasi melodrammatica o declamatoria dei veristi scapigliati.
Due esempi di segno opposto: La lupa racconta il furioso trasporto erotico di una donna
matura, di bruciante sensualità, per un uomo più giovane. Rosso Malpelo narra invece la
breve vita e la morte d’un ragazzo di miniera ridotto dai suoi stessi compagni a bestia da
soma, ma ricco di affetto filiale, di voglia di ribellarsi e di una scontrosa solidarietà, nella
dura consapevolezza della propria atroce condizione di sfruttamento.
L’approdo più radicale di queste sperimentazioni è I Malavoglia (1881), romanzo dedicato
alle disgrazie d’una famiglia di pescatori di Aci Trezza, già abbozzate in Fantasticheria.
La Prefazione chiarisce che il libro fa parte di un ciclo di 5 romanzi (I vinti) che punta a
esplorare via via le aspirazioni profonde che muovono alla “ricerca del meglio” gli individui
appartenenti alle diverse classi della società italiana contemporanea. Tra quelle inferiori,
affrontate nei Malavoglia, emerge solo “la lotta per i bisogni materiali”, poi, mano a mano
che si salirà nella scala gerarchica, le passioni e le psicologie si complicheranno, e lo stile si
arricchirà. Si passerà quindi alla “avidità di ricchezze” nel borghese Mastro don Gesualdo,
alla “vanità aristocratica” nella Duchessa di Leyra, alla “ambizione” nell’Onorevole Scipioni
per culminare nell’Uomo di lusso, “artista” che “sente tutte coteste bramosie, tutte coteste
vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne”. Oltre ad anticipare il
disegno del ciclo, l’autore tratteggia a grandi linee l’amara visione del mondo che ispira
tutto il suo progetto. E’ uno sguardo sul grande mito idealistico e positivista del progresso,
che sottolinea il suo lato oscuro, tragico, inaccettabile, guardando al versante negativo
della teoria darwiniana.
Trama: Malavoglia è il soprannome popolare della famiglia Toscano, che possiede una barca
da pesca, la Provvidenza e la “casa del nespolo”. Questo nucleo di pescatori ha resistito
grazie alla sua coesione intorno al patriarca Padron ‘Ntoni, figura di arcaica, ingenua
sapienza popolare, che governa il gruppo con autorità e affetto, seguendo principi di
onestà. Nel 1863 uno dei figli, il giovane ‘Ntoni, è sottratto al lavoro dalla chiamata
militare. L’economia familiare va in crisi, e Padron ‘Ntoni per rimediare, compra a credito
dei lupini da imbarcare sulla Provvidenza per rivenderli al porto vicino. Ma la tempesta
travolge la barca, guidata dall’altro figlio adulto, che muore, e il carico va perduto. Inizia la
rovina economica, su cui si innesta la disgregazione morale e materiale della famiglia. La
“casa del nespolo” viene venduta per saldare i debiti, il colera uccide la madre di ‘Ntoni
che non riesce più a rassegnarsi alla vita del pescatore perché ha intravisto i lussi della vita
moderna. Tornato ad Aci Trezza, diventa contrabbandiere e finisce poi in carcere. Sua
sorella Lia fugge a Catania dove si prostituisce. Quando Luca perde la vita nella battaglia di
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Lissa, Padron ‘Ntoni si ammala, e muore solo all’ospedale di Catania. Solo il nipote Alessi,
fedele ai valori tradizionali, riesce con duri sacrifici a riscattare la “casa del nespolo” e a
ristabilirvisi.
La trama ruota intorno allo scontro tra due universi di valori inconciliabili. Da una parte
l’integrità dell’arcaica etica popolare, che affronta la “lotta per la vita” fondandosi
sull’onore, il lavoro, la solidarietà, il sacrificio, espressione di un mondo immutabile, che si
rinnova ciclicamente ed è fuori dalla storia. Dall’altra la tensione all’ascesa sociale,
l’accettazione della legge spietata del denaro, dell’interesse egoistico, della lotta di tutti
contro tutti, favorita dall’irruzione del cambiamento, della storia, rappresentata dalla leva
militare e dalla guerra del ’66, nel microcosmo di Aci Trezza. Ne esce una visione amara del
mondo contemporaneo, perché lo scrittore è ben consapevole del fatto che l’Italia sta
avviando un’inarrestabile processo di modernizzazione che cancellerà il mondo patriarcale
di Padron ‘Ntoni. Al contrario di Zola, che nutre una fiducia positivista nel romanzo, Verga
costruisce un’opera in cui la critica dei meccanismi disumani della realtà sociale
contemporanea resta tragicamente bloccata alla sola dimensione negativa.
Sul versante delle scelte linguistiche, ci troviamo radicalmente lontani dal modello
manzoniano: tutti i Malavoglia e i loro compaesani, si esprimono alla loro maniera, in un
italiano che ricalca da vicini la sintassi e i modi di dire dialettali, con effetti di straordinaria
aderenza al parlato popolare. Le tecniche narrative applicano rigorosamente il “metodo”
verista e l’imperativo dell’impersonalità. La coerenza e la sistematicità di questa scelta
sono stati tali da fare dei Malavoglia un’opera d’avanguardia, in cui l’eclissi dell’autore è
ancora più radicale che nell’opera di Zola. Verga nasconde con la massima accuratezza
possibile la propria presenza e delega la responsabilità del racconto in larghissima parte alle
voci dei paesani di Aci Trezza e ai protagonisti.
Questo fitto brusio di voci dà vita a una narrazione che viene definita corale, ma in cui si
intrecciano, sovrappongono e scontrano prospettive diverse, spesso discordanti.
Assistiamo così allo scontro implicito, tra chi descrive gli eventi assumendo cinicamente il
punto di vista egoistico dell’obbedienza alle crudeli leggi dell’utile economico e della
prevaricazione, e chi guarda alle vicende dalla prospettiva si chi intende conservare integra
la moralità tradizionale.

Appena avviata, la rivoluzione verghiana si scontra con le tipiche contraddizioni della


letteratura moderna. Ma Verga non ha l’attitudine intransigente di Flaubert, e invece dello
scontro frontale col pubblico avvia una serie di laboriose mediazioni. Confeziona un
“manicaretto”, esterno e stilisticamente estraneo al ciclo dei Vinti: il convenzionale
romanzo borghese Il Marito di Elena (1882), che gli permette di non guastarsi né col
pubblico né col suo editore. Intanto, su altri versanti, rilancia l’offensiva per affermare la
propria versione d’avanguardia dell’arte verista, con le raccolte di novelle Per le vie e
Novelle rusticane (1883) e un nuovo progetto teatrale.
Verga punta a realizzare un ciclo di tipo zoliano anche per il teatro, un genere popolare e
redditizio, e concepisce una trilogia di opere ambientate tra i contadini del sul, nel
proletario urbano milanese e infine nei salotti aristocratico-borghesi. Il primo tassello è
Cavalleria rusticana (1884), storia di un delitto d’onore in un piccolo paese siculo. Per
renderlo più accessibile al pubblico medio, Verga appiattisce l’impasto linguistico sul
modello fiorentino, mentre riserva un trattamento verista ai dialoghi, scabri ed essenziali,
eliminando completamente le tirare dirette alla platea, con cui i personaggi del teatro
tradizionale esprimevano pensieri e sentimenti nascosti. Il risultato è un tragedia che
matura e precipita a ritmo rapidissimo, fatta di passioni elementari e universali.
Il dramma è un abile compromesso tra la poetica verista e la convenzione della trama
amorosa caratteristica del teatro borghese. L’opera riscuote un clamoroso successo. Verga
riesce così a lanciare il verismo teatrale sulle scene italiane, fino a quel momento occupate
dalla commedia borghese contemporanea.
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Ma dopo il fiasco della seconda opera, il ciclo teatrale si interrompe, e Verga si dedica al
secondo romanzo dei Vinti, il Mastro don Gesualdo (1888-89), in cui attenua la radicale
novità dei Malavoglia.
Trama: Nel 1820, a Vizzini, nel catanese, un incendio divora la casa di due vecchi nobili in
rovina, i Trao. I paesani accorsi per placare le fiamme scoprono che la giovane nipote è
chiusa nella stanza con un uomo. Si impongono nozze riparatrici. L’aristocratica Bianca,
senza dote e incinta, è offerta in sposa a un ex manovale, “mastro” Gesualdo Motta,
diventato “don”, cioè ricco proprietario terriero, a forza di duro lavoro, astuzie e tirchierie.
Gesualdo accetta il matrimonio per accedere al prestigioso ceto aristocratico, che è
costretto ad accettarlo perché, essendo in pieno declino economico e politico, deve piegarsi
ai borghesi emergenti. Ma piegarsi non significa integrare. Per sposare Bianca, Gesualdo
abbandona la sua serva-amante Diodata, a lui devota. Invece la moglie non lo capisce e non
lo ama, e i due restano divisi dalle enormi barriere culturali e sociali che separano le loro
classi di origine. Nel ’21 Gesualdo partecipa ai moti carbonari, nella speranza di espandere i
propri possedimenti. Intanto Bianca da alla luce Isabella, che da grande si vergognerà delle
origini umili di Gesualdo. Anche lei, nonostante l’attenta vigilanza del padre, resta incinta.
Gesualdo, che non vuole concedere la sua mano all’amante squattrinato, si piega a
maritarla a un duca palermitano che si rivela ben presto a corto di soldi e abile a
scialacquare i tesori del suocero. Vedovo, odiato da tutti, circondato da pretendenti alle sue
ricchezze, finisce per collare, ammalandosi di un tumore incurabile. Per accaparrarsi i suoi
beni, suo genero lo porta nel suo palazzo a Palermo, dove morirà solo.
Ora Verga mette a fuoco non più una micro-comunità, ma un uomo, e toglie di scena i valori
morali autentici ancora presenti nei Malavoglia. Dalla storia di una famiglia solidale che
entra in crisi, a quella dell’ascesa e del naufragio di un rapace individualista. La fame di
possesso, motivo centrale del romanzo, è presentata come il motore occulto della società, e
conduce alla lotta senza tregua di tutti contro tutti, secondo la logica spietata della
moderna accumulazione economica borghese. Gesualdo, esclusivamente dedito a
incamerare “roba” e ad ascendere nella gerarchia sociale, è pronto a recidere l’unico
barlume di autentico affetto della sua vita: quello di Diodata. Ed è questa gelida
repressione della propria umanità a lasciarlo senza difese quando, alla fine, cadrà anche lui
tra i “vinti”. Il prezzo che paga per passare al mondo dei dominatori è la disumanizzazione e
l’isolamento.
Questa storia privata si intreccia organicamente con le grandi tappe della storia pubblica: i
moti del ’21 e del ’48. Ma mentre nei romanzi di trent’anni prima queste lotte e queste
trasformazioni appaiono preziose, cruciali, e conferiscono un significato all’accadere
storico, in quest’epoca gli ideali diventano squallidi strumenti di un gioco delle parti. Le
trasformazioni storiche si rivelano più apparenti che reali, dove la logica profonda del
potere e del denaro resta in fondo identica.
Rispetto ai Malavoglia cambiano anche i procedimenti. Verga restituisce molto più spazio
alla parola esterna del narratore: si espandono i momenti descrittivi, che assumono valenze
suggestive/indiziarie/simboliche. Lo sguardo del narratore esterno è totalmente distaccato.
La maggiore varietà di ambienti e l’unità garantita dal protagonista unico rendono il
romanzo di più facile e gradevole lettura ai contemporanei: pubblico e critica ne decretano
il successo. Ma intanto l’offensiva antiverista ha trovato gli autori su cui puntare: Fogazzaro
e D’Annunzio, che proprio nel 1889, con il Piacere, ha creato il romanzo-manifesto della
nuova tendenza estetizzante. A Parigi le quotazioni del naturalismo stanno precipitando, e
anche il sistema letterario italiano volta le spalle ai veristi. Per di più Verga, per completare
il suo ciclo, deve ora mettere in scena un universo sociale ben più articolato e complesso
nelle sue motivazioni psicologiche e culturali. Rappresentarlo si rivela molto difficile. Per
tutto l’ultimo decennio del secolo continua a cercare una nuova riuscita artistica lavorando
al terzo romanzo, La duchessa di Leyra, che dovrebbe raccontare la storia della figlia di
Mastro don Gesualdo. Ma non riesce ad andare più in là del primo capitolo: il ciclo dei Vinti
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si ferma qui. Verga si dedica a un lavoro di scrittura sempre più di routine, anche se non
mancano opere significative, come le novelle di I ricordi del capitano D’Arce (1891) e Don
Candeloro e C. (1894) e il dramma Dal tuo al mio (1903). Il suo valore sarà pienamente
riconosciuto dalla critica solo ai primi del Novecento.

13. Esteti, decadenti e simbolisti nella crisi di fine secolo

Nel 1887 va al governo l’esponente della Sinistra Francesco Crispi, che dominerà la scena
politica italiana per il difficile decennio successivo. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento,
infatti, le contraddizioni della modernizzazione post-unitaria precipitano il paese nella crisi
di fine secolo, un processo, comune a tutte le principali democrazie parlamentari europee.
In Italia, la crescita demografica si scontra con un’economia stagnante e con una serie di
carestie che precipitano nella miseria milioni di contadini, costretti ad emigrare. Dall’altra
parte, la massiccia scolarizzazione e l’allargamento del suffragio elettorale hanno inserito
nella vita della nazione grandi masse di cittadini, in grado di organizzarsi per estendere i
propri diritti. Cresce il movimento socialista, con la diffusione dei sindacati, e la fondazione
del Partito socialista italiano, che si guadagna il consenso di parte del ceto medio e di
intellettuali di area laica e positivista. Il Partito socialista è diviso tra l’ala moderata del
“riformisti”, che sostiene la lotta parlamentare, e quella rivoluzionaria dei “massimalisti”.
All’estrema sinistra, gli anarchici rifiutato le mediazioni dei socialisti e si dedicano a
scioperi, manifestazioni e attentati.
Di fronte all’emergenza della questione sociale, anche la Chiesa prende posizione. Papa
Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum (1891) critica le ingiustizie sociali del capitalismo,
predicando la conciliazione tra le classi sociali e condannando le lotte dei movimenti
socialisti. Le associazioni cattoliche organizzano sindacati e cooperative, creando un
movimento alternativo a quello socialista. Un suo dirigente è il sacerdote Romolo Murri, che
punta a democratizzare la società italiana secondo principi cristiani, sia a far recedere la
Chiesa dal suo rifiuto integralista del mondo moderno. Questa aspirazione troverà
espressione teorica all’inizio del Novecento nel gruppo dei modernisti. Ma nel 1903 papa
Pio X condanna sia i murriani sia i modernisti.
Le nuove generazioni di intellettuali piccolo borghesi stentano a trovare impieghi adeguati
alla loro istruzione. Lavorando fuori dalla istituzioni universitarie, creano la figura
emergente dell’intellettuale polemista, capace di orientare il dibattito politico-culturale
con le formule sintetiche e provocatore del linguaggio giornalistico. In maggioranza
adottano posizioni ultraconservatrici, diffondendo teorie che contrappongono la superiorità
“spirituale” delle élite intellettuali alla “bestialità” delle “folle” ignoranti. Questo ceto
conservatore sostituisce il patriottismo risorgimentale col nazionalismo, che rappresenta la
nazione come una comunità organica a cui va sacrificato ogni interesse particolare.
Per difendere l’assetto sociale e le istituzioni liberali, sotto attacco da opposti versanti,
Crispi imprime una svolta autoritaria e modernizzatrice, col sostegno dei nazionalisti.
Reprime con durezza gli avversari del sistema liberale, sia quelli di parte socialista e
anarchica, sia i cattolici. Crispi rilancia poi l’imperialismo coloniale in Africa, ma l’esercito
italiano è sconfitto ad Adua (1896). Lo smacco costringe Crispi a dimettersi. La frustrazione
per la sconfitta alimenta il sentimento nazionalista e le ideologie autoritarie e
imperialistiche negli ambienti conservatori.
L’attentato che uccise il re Umberto I porta il paese all’orlo del collasso. Ma il nuovo re
Vittorio Emanuele III dichiara di voler restaurare “la pace interna e la concordia”, ponendo
fine alla politica reazionaria. Si apre una nuova fase, guidata da Giovanni Giolitti, che
promuove il compromesso tra le parti sociali e coinvolge nella gestione dello Stato parte del
mondo cattolico e i socialisti riformisti.

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Molti intellettuali europei reagiscono alla crisi di fine secolo mettendo sotto accusa la
cultura positivista, che non appare più in grado di offrire certezze in una situazione di
smarrimento. Il mito positivissimo del progresso viene ribaltato e sostituito con l’opposta
teoria della decadenza, che si presta a interpretare le angosce dei ceti medi e delle élite di
fronte alla pressione delle rivendicazioni socialiste e ai problemi posti dallo sviluppo
industriale. Il nuovo clima favorisce la rivalutazione delle filosofie e degli atteggiamenti
spiritualisti diffusi nel periodo romantico. Queste trasformazioni investono il mondo artistico
e letterario, favorendo la formazione nei principali centri del continente di un’atmosfera
comune, i cui tratti principali sono l’inclinazione all’estetismo, il frequente ricorso al tema
della decadenza connesso a una diversa percezione del mondo antico, il richiamo alle
poetiche e l’impiego dei rivoluzionari procedimenti stilistici praticati dai poeti simbolisti
francesi.
Con estetismo si intende la propensione a estremizzare l’ideale parnassiano de “l’arte per
l’arte”. Artisti, scrittori e intellettuali elevano a loro ideale supremo la sapiente
degustazione della bellezza e dei piaceri più squisiti. Il culto del bello come valore supremo
diventa un fenomeno di costume, diffondendo tra i ceti medio-alti i comportamenti del
dandy, che modella la propria vira come un’opera d’arte.
Il gusto decadente enfatizza i tratti melodrammatici dell’immaginario tardo-romantico e
trae materiali dalle poetiche di Baudelaire e Flaubert per creare una bellezza “bizzarra” e
“corrotta” dalla sensualità e dal “vizio”, rappresentato sotto forma di un erotismo raffinato
e perverso. Il tema della decadenza ottiene uno straordinario successo: letteratura e arti
figurative rievocano lo sfarzo, l’estenuato culto del piacere, il senso di corruzione morale
dei grandi imperi in declino e delle loro antiche capitali.
Le poetiche e i procedimenti dei simbolisti riprendono e sistematizzano in una nuovo canone
estetico-letterario le rivoluzionarie innovazioni del linguaggio poetico messe a punto tra il
1870-80 in Francia sulla scia di Baudelaire. Si impone l’esigenza di restituire l’irripetibile
unicità della vita interiore, attraverso un linguaggio volutamente indefinito, inafferrabile,
musicale. Per farlo, si impiegano sequenze di parole, immagini suggestive, accostamenti
fulminei e arbitrari, sinestesie, scelti guardando più al valore evocato che al loro significato.
In Inghilterra il punto di partenza del movimento estetico è il gruppo artistico-letterario che
ruota intorno al poeta e pittore Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), che si ispira alla poesia
e alla pittura italiana del Medioevo e del Quattrocento, di cui esalta gli aspetti di purezza
primitiva e di mistica trasfigurazione della bellezza femminile. Nel 1848 egli fonda la
fratellanza preraffaellita, termine con cui si richiama al periodo che precede il
Rinascimento. Le loro opere ricreano atmosfere rarefatte e sognanti, ricche di dettagli
raffinati o preziosi, in cui campeggiano dolenti e trasognate figure femminili, moderna
rivisitazione delle donne-angelo stilnoviste. Invece il poeta Algernon Charles Swinburne
(1837-1909) innesta l’ideale bellezza femminile spiritualizzata dei preraffaelliti
sull’immaginario erotico di ascendenza baudelairiana e lancia il personaggio della donna
fatale. Queste opere trovano fortuna in tutta Europa, combinate con la teoria fondatrice
dell’estetismo elaborata dal saggista e scrittore Walter Pater (1839-1894), che inaugura un
nuovo genere di critica. Per lui, il valore artistico di un’opera dipende sopratutto
dall’intensità delle sensazioni destate dal “fuoco divorante” della sua bellezza.
Nella Germania del secondo Ottocento si impongono filosofi e musicisti che saranno alla
base della svolta irrazionalistica di fine secolo. Arthur Schopenhauer (1788-1860) nel Mondo
come volontà e come rappresentazione (1819) sostiene che l’intero mondo dei fenomeni
percepiti dai sensi e conoscibile per via razionale non è che “rappresentazione”: un velo
illusorio, che copre una realtà in sé inattingibile. Il mondo è governato “dall’impulso
incosciente, cieco e irresistibile” della Volontà irrazionale, che spinge animali e uomini a
conservarsi in vita e a cercare il piacere. Solo l’arte offre una “consolazione provvisoria”
perché estrae l’essenza della vita, permettendo di “contemplare” dall’esterno la Volontà.

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Questa contemplazione raggiunge il massimo grado di purezza nella musica che non
rappresenta le apparenze sensibili, ma solo l’influsso emotivo e irrazionale della Volontà.
Questa riflessione diventa egemone solo a metà secolo, dopo il fallimento del 1848. Ne è
influenzato il musicista Richard Wagner (1813-1883). La sua ricerca artistica si fonda sulla
poetica esposta nel saggio L’opera d’arte dell’avvenire (1849). Wagner sogna di restituire
alla musica la funzione “sacra” che svolgeva nell’antica tragedia greca, per riallacciare il
legame emotivo tra l’individuo e la vita della nazione. Per questo progetta una “opera
d’arte totale” che unisca parola, musica e azione drammatica. L’applicazione più
sistematica di questa poetica è la tetralogia L’anello del Nibelungo (1854-72) in cui Wagner
fonde il canto degli attori e la sinfonia dell’orchestra in un unico impasto sonoro da cui
emergono i motivi conduttori, temi musicali che ritornano, variati, in diversi momenti
dell’opera. La loro funzione è di imprimere nella memoria degli spettatori delle atmosfere
emotive, associate a situazioni drammatiche, per evocare i nessi sotterranei che collegano
gli episodi e far emergere i significati ideali della vicenda rappresentata.
Il fascino di Schopenhauer e Wagner conquista anche Friedrich Nietzsche (1844-1900),
filologo e filosofo che con La nascita della tragedia (1872) lancia una nuova interpretazione
della cultura classica. Nietzsche individua nell’arte due poli opposti e complementari,
esemplificati dai greci in due divinità:
1. Apollo, dio della scultura e del sogno -> serena contemplazione delle “belle apparenze”
del mondo, delle forme armoniche degli individui. (principio apollineo)
2. Dioniso, dio della musica e dell’ebbrezza -> condizione “dionisiaca”, che è insieme
“gioia, dolore e conoscenza”, data dalla comprensione dei “terrori e delle atrocità
dell’esistenza”. (principio dionisiaco)
La tragedia, fondendo musica, danza e parola, compone l’apollineo e il dionisiaco,
generando il “mito tragico”, che esprime per simboli la verità dionisiaca. Proiettando sul
mondo classico le inquietudini dei suoi contemporanei e le teorie di Schopenhauer e Wagner,
Nietzsche rivoluziona la percezione della grecità, che da supremo modello di armonia
diventa immagine di compenetrazione tra passioni estreme e opposte, disordinata vitalità,
ebbrezza.
Ma presto Nietzsche inizia a dedicarsi a una radicale critica materialistica delle “illusioni”
artistiche e religiose, demolendo tutti i capisaldi etici della cultura occidentale. La sua
riflessione asistematica e paradossale trova una sintesi provvisoria in opere a cavallo tra
filosofia e letteratura, come Così parlò Zarathustra (1885) e Genealogia della morale
(1887). Egli parte dall’assunto che la religione e i suoi valori morali sono crollati sotto
l’offensiva della razionalità scientifica, e che è giunto il momento di imparare a farne a
meno. Sostenere la “morte” di Dio e l’inconsistenza di ogni valore morale senza cadere
nella disperazione significa allora vivere in modo da poter accettare l’eterna ripetizione dei
propri atti, andando al di là di ogni limite umano, preparando l’avvento di un essere nuovo,
il superuomo. Il superuomo saprà “dire sì alla vita” eternamente ripetuta, che Nietzsche
identifica con la “volontà di potenza”: tensione al “possesso”, al “dominio”,
all’affermazione di sé. Alla fine del secolo egli diventa una celebrità europea.
Invece in Francia nuove generazioni di poeti portano alle estreme conseguenze la svolta di
Baudelaire, dando vita a una rivoluzione del linguaggio poetico che sconvolge l’usuale
percezione del mondo, espandendo in modo prima impensabile la gamma delle possibilità
espressive.
Il più radicale tra questi innovatori è Arthur Rimbaud (1854-1891). Egli sostiene che chi crea
non è realmente consapevole di sé, “perché Io è un altro”. Occorre quindi coltivarsi per
diventare “veggente” attraverso “un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i
sensi” sperimentando su di sé “tutte le forme d’amore, sofferenza, pazzia”, in un viaggio
nell’irrazionale e nel proibito. Rimbaud crea immagini surreali in cui sensazioni, percezioni,
stati d’animo si associano liberamente, esercitando un puro potere evocativo, che abbaglia
il lettore coll’intensità dei suoi esperimenti di “pura allucinazione”.
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La sua opera fu valorizzare da Paul Verlaine (1844-1896), legatosi con lui in una sofferta
relazione omosessuale. Verlaine contribuisce alla trasformazione del linguaggio poetico
ottocentesco cercando di suscitare con le sue poesie la suggestione vaga e indefinita della
musica. Le sue Romanze senza parole (1874), opponendosi alla poetica parnassiana dello
stile “alto” e della rigorosa cesellatura metrica, adottano registri confidenziali e dimessi e
descrivono oggetti e situazioni quotidiane, esprimendo in prima persona affetti dolcemente
ingenui, o lo stanco “languore” della “decadenza”. Verlaine cerca la sfumatura, creando
immagini indefinite.
Ma è Stéphane Mallarmé (1842-1898) a spingere alle conseguenze estreme la ricerca di una
nuova lingua della poesia. Mallarmé aspira a creare una lingua “suprema”, che si separi
dalla “brutta” comunicazione quotidiana e superi la connessione arbitraria tra suono e
significato per “esprimere gli oggetti con pennellate di colorito o movimento”. Per Mallarmé
la poesia deve abbandonare l’esattezza parnassiana per esprimere il “senso misterioso degli
aspetti dell’esistenza”. Questa enigmatica suggestione è prodotta mediante una particolare
ricorso al “simbolo”, che non è decifrabile secondo un codice definito, perché è scelto
arbitrariamente per le idee e le sensazione che può suscitare.
Nel 1883, con la raccolta I poeti maledetti Verlaine valorizza la radicale novità della poesia
sua e di altri sperimentatori come Rimbaud e Mallarmé. Alla nuova tendenza poetica presto
vi si adeguano anche gli altri generi, affrontando gli stessi temi ed elaborando una prosa di
grande sofisticazione formale, che persegue effetti evocativi analoghi a quelli della poesia.
Joris-Karl Huysmans (1848-1907) pubblica Controcorrente (1884), il romanzo manifesto
dell’estetismo e del nuovo gusto decadente. Il protagonista ed alter ego, quintessenza del
dandy, è il prototipo di molti personaggi della narrativa europea di fine secolo.
Questa mescolanza di estetismo esclusivo e di misticismo si accorda alla rinascita
spiritualista in atto nelle classi medio-alte. Il suo successo favorisce lo sviluppo di
un’avanguardia letteraria che cumula e sistematizza le innovazioni di Rimbaud, Verlaine e
Mallarmé e tenta nuove strade teoriche e creative per realizzare l’utopia di una fusione o
convergenza di tutte le arti. Ma la ricerca permanente della novità e l’esigenza di
differenziarsi dai concorrenti inducono gli scrittori d’avanguardia a frammentarsi in vari
raggruppamenti. I critici dell’epoca disegnano una contrapposizione tra:
- Decadenti: si richiamano a Verlaine, difendono una musicalità facile e dimessa, e
rivendicano la chiarezza e la poesia delle emozioni semplici, più vicine alla mentalità da
bohémiens e alla cultura del mondo borghese da cui provengono.
- Simbolisti: prediligono Mallarmé. Essi, in conformità con le loro abitudini di colti
intellettuali di estrazione aristocratica o altoborghese, vivono la poesia come una
“religione suprema”, scrivendo con uno stile sofisticato, ermetico, accessibile a pochi
“eletti”.
Se simbolisti e decadenti mettono in crisi l’egemonia parnassiana nella poesia e quella
naturalista nella narrativa all’interno dei circuiti culturali d’avanguardia, un’analoga
offensiva è condotta, da posizioni ideologiche e culturali più conservatrici, dall’autorevole
“Revue des deux mondes”, che raggiunge un ampio pubblico in tutto il continente. La dirige
il critico Ferdinand Brunetière (1849-1906), che mette all’ordine del giorno nel dibattito
intellettuale europeo la polemica contro il riformismo liberale e la laicità in campo politico,
la filosofia positivista e il naturalismo in campo culturale. Le sue dichiarazioni rafforzano
l’egemonia raggiunta dalla nuova mentalità antipositivista.
La “Revue” traduce e valorizza narratori stranieri alternativi al naturalismo, in particolari i
romanzieri russi, che offrono risposte artistiche ed etiche al bisogno di riferimenti
esistenziali e religiosi aperto dalla crisi delle certezze positiviste. Per esempio, in Delitto e
castigo (1866), Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881) racconta la tragedia interiore del
giovane studente Nikolaj, che deruba e uccide una vecchia usuraia, nell’allucinata
convinzione che gli uomini superiori possano infrangere la legge morale per affermasi e
provvedere al bene comune, approdando infine a un tormentato pentimento. Scandite da un
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ritmo narrativo frenetico, si succedono grande scene teatrali, in cui il dialogo tra i
personaggi fa emergere lo scontro fra valori etici ed esistenziali radicalmente incompatibili.
Ma la radicale novità dello scavo psicologico ed etico dei romanzieri russi è percepita solo
superficialmente.
Anche in Italia, poco dopo il 1880, nuove generazioni di intellettuali attingono a questa
nebulosa di tendenze e si impongono minando l’egemonia positiva e verista. La svolta parte
da Roma e Firenze. A Roma, l’ambiente artistico e intellettuale che ruota intorno alla rivista
“Cronaca bizantina” (1881-85) contamina la poetica carducciana con le idee di Pater e
Schopenhauer, mettendo in voga un gusto letterario e figurativo improntato a modelli
parnassiani e preraffaelliti. Negli anni seguenti è la rivista “Il Convito” (1895-1900) a
diventare il nuovo punto di riferimento. Il Prologo, scritto da D’Annunzio, è un manifesto di
estetismo antidemocratico ed elitario. ”Il Convito” si rivolge a un pubblico ristretto, di alta
estrazione sociale, presso cui diffonde il pensiero di Nietzsche e propugna un’arte
spiritualista e “aristocratica”, che opponga un nuovo “Rinascimento latino” all’egemonia
culturale nordeuropea. Ma il maggior centro d’irritazione dell’estetismo italiano è Firenze.
Qui la letteratura estetizzante dello spiritualismo neoplatonico ideata dal critico Angelo
Conti (1860-1930) diventa un punto di riferimento per gli artisti e gli scrittori dei fine
secolo. Conti, oppone al rigore metodologico della “scuola storica” un’idea della critica
come una forma di creazione, che interpreta il senso e amplifica il potere suggestivo delle
opere. Egli elabora una teoria ascetica dell’arte come strumento di elevazione spirituale. A
queste teorie si rifanno intellettuali e letterati raccolti intorno a riviste come “Vita
Nuova” (1889-91) e “Il Marzocco” (1896-1932), che contende all’elitario “Convito” il ruolo di
portabandiera dell’estetismo italiano. Vi convivono a fatica tendenze diverse, spesso
conflittuali: il nazionalismo aggressivo e imperialista, l’estetismo aristocratico di Conti e
D’Annunzio e l’originale mescolanza di poetiche simboliste e socialismo umanitario di
Pascoli.

Gabriele D’Annunzio (1863-1938)


Gabriele D’Annunzio, nato a Pescara da una ricca famiglia borghese, riceve una solida
formazione classicistico-umanistica che gli fa scoprire fin dagli anni del liceo Darwin,
Flaubert, Zola, e soprattutto Carducci. A soli sedici anni, pubblica una raccolta di rime e di
versi ‘barbari’: Primo vere (1879), che contano sulla “curiosità che in quei giorni destano le
Odi barbare nella repubblica letteraria” dominata da Carducci. Oltre alla padronanza
tecnica con cui accorda il lessico, temi e procedimenti stilistici alla tendenza emergente del
periodo, spiccano la vivida resa delle sensazioni fisiche e l’animazione sensuale della
natura.
Nel 1881 si trasferisce a Roma per gli studi universitari e si inserisce negli ambienti
giornalistici e nei salotti dell’alta società. Il suo stile di vita è quello gaudente e
anticonformista del dandy. Sia come scrittore sia come personaggio pubblico, si presta alle
aggressive e raffinate strategie editoriali della “Cronaca bizantina”, il cui editore gli
pubblica nel 1882 due libri che, senza uscire dalle coordinate carducciane, si accordano alla
sensibilità e all’immaginario estetizzanti in ascesa a livello europeo. Nelle poesie di Canto
novo si affaccia un gusto sofisticato per metafore preziose o bizzarre. Le prose di Terra
vergine tentano di conciliare la raffinatezza e il prestigio del richiamo carducciano alla
tradizione con la spendibilità commerciale della narrativa, facendo ricorso al genere illustre
della novella. D’Annunzio racconta storie di vita popolare del suo natio Abruzzo, simili a
quelle della narrativa verista, ma accantona gli aspetti più quotidiani e prosaici di quella
realtà e mette in scena un mondo primitivo, governato da istinti bestiali, sullo sfondo d’una
natura selvaggia e sensualmente rigogliosa, tratteggiato con una scrittura preziosa che non
segue le tecniche impersonali naturalistiche.
Sul piano privato, una disposizione narcisistica e sensuale e una prorompente vitalità,
orientata da una parte a sperimentare e assaporare sensazioni voluttuose o estreme,
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avventure erotiche, sofisticate esperienze estetiche stili di vita lussuosi, dall’altra a


evadere dalla banale quotidianità borghese con viaggi, provocazioni anticonformiste o
imprese rischiose. Sul piano pubblico, sviluppa un intuito per gli orientamenti estetici e
culturali più in voga e per le esigenze del mercato editoriale. Per farsi strada si avvale di
tutte le possibilità e i mezzi di comunicazione di massa offerti dalla moderna società
industriale. Tutto ciò si traduce sul piano artistico in una fervida, effervescente creatività,
forte di una magistrale padronanza linguistica e dell’abilità di assimilare e imitare qualsiasi
stile o procedimento letterario: la sua scrittura è caratterizzata dal gusto della
rielaborazione manieristica di testi altrui.
D’Annunzio si afferma come il protagonista della nuova stagione estetica. Egli diversifica la
sua ricerca poetica , intercettando pubblici e gusti differenti con un ampio ventaglio di
sofisticati prodotti letterari, adatti al consumo di lusso. Li accomuna la cesellatura stilistica
parnassiana, il lessico aulico e l’elegante ripescaggio di metri arcaici o esotici, in cui
D’Annunzio incastona tutto il repertorio dell’immaginario di fine secolo. E’ un variopinto
assortimento di personaggi e animali mitologici, seduttrici fatali, sorrisi misteriosi, androgini
inquietanti, atmosfere e situazioni da favola o da leggenda medievale, episodi di erotismo
perverso o lussurioso.
Le frequenti allusioni sessuali sollecitano e attirano nuovi lettori, ma scandalizzano molti
compassati intellettuali carducciani. Scoppia una violenta polemica che si trasforma in
ulteriore pubblicità per D’Annunzio. Ormai il clima culturale è decisamente cambiato
rispetto al periodo postunitario : D’Annunzio lotta per la libera espressione del desiderio
sessuale nelle sue sfumature più oscene e inquietanti. Ma, sopratutto, è in corso un radicale
mutamento nel mondo della produzione e del consumo libraio, dove si impone la richiesta di
generi d’intrattenimento.

Nel 1885 D’Annunzio intuisce la svolta: a suo parere la poesia, la novellistica, la critica, le
ricerche storico-filosofiche sono “in ribasso sui mercati”, e la “produzione letteraria
lucrativa” è ormai confinata “alla forma romanzo”. Egli si adatta alla nuova atmosfera,
mettendo a frutto la sua fama di raffinato poeta per conferire prestigio culturale anche al
romanzo. Nasce così Il Piacere (1889), un romanzo in parte autobiografico che introduce in
Italia atmosfere, scelte linguistiche, personaggi tipici dell’immaginario e del nuovo gusto
antinaturalista, estetizzante e decadente europeo.
Ai personaggi e agli ambienti popolari o borghese, resi co crudo realismo dai veristi,
D’Annunzio oppone un’alta società idealizzata, e si allinea agli intellettuali conservatori
della “Revue des deux mondes” sostenendo la superiorità dei pochi dandies privilegiati sul
“grigio diluvio democratico moderno”.
Il narratore dannunziano, a differenza dei veristi, non si eclissa dietro il racconto:
onnisciente, descrive i pensieri segreti e le inclinazioni intime dei personaggi, e interviene
con commenti, massime, digressioni. Ora i procedimenti tendono a restituire la soggettività
dei personaggi, descrivendo minutamente i trasalimenti interiori, le sensazioni rare, i
sentimenti torbidi, inquieti o contraddittori che occupano il loro io ipersensibile e orientato
all’introspezione. La prosa, aulica e arcaizzante nei momenti più elevati, è ravvivata e
alleggerita da brillanti dialoghi stesi nel registro frivolo e spigliato delle cronache mondane.
In tutti i suoi aspetti, il Piacere si dimostra insomma un’abile e spregiudicata manipolazione
di materiali estetici alla moda, ideologie elitarie e situazioni romanzesche stereotipate,
confezionati con una tecnica narrativa accattivante, grazie all’agile montaggio delle scene e
all’alternarsi di anticipazioni e flashback. D’Annunzio crea così un prodotto tipico della
moderna industria culturale: di qui il suo successi travolgente, amplificato anche dalle
politiche sull’immoralità del protagonista. Il Piacere segna una svolta nel panorama
culturale e letterario italiano, affermando il predominio della sensibilità e del gusto
estetizzanti.

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Come nella poesia, anche nella narrativa D’Annunzio recepisce tempestivamente le nuove
mode culturali parigine. Con Giovanni Episcopo (1892) e L’innocente (1892) si riallaccia al
modello di successo del romanzo russo, i cui interrogativi etici diventano il pretesto per
analisi psicologiche di sentimenti abnormi e morbosi.
Nei romanzi successivi, il Trionfo della morte (1894) e Le Vergini delle Rocce (1895),
D’Annunzio inserisce ampie digressioni filosofico-politiche dedicate all’ultima novità
importata dalla Francia: il pensiero di Nietzsche. D’Annunzio recepisce in modo superficiale
e riduttivo la nozione di superuomo, facendone un modello ideologico-letterario su cui
plasmare personaggi e alter ego dalle doti sovrumane e animati da straordinaria vitalità.
Questa personale reinterpretazione del superuomo diventa il protagonista di tutte le opere
dannunziane e la maschera su cui lo scrittore modellerà la propria immagine pubblica. E’
una scelta di successo e D’Annunzio la trasporta anche nella realtà politica, facendosi
eleggere nel 1897 in Parlamento con un programma ultrareazionario. Sfruttando la propria
celebrità, e la padronanza delle retoriche della comunicazione di massa, D’Annunzio
trasforma radicalmente la figura del “poeta vate” carducciano, facendone un trascinatore
di folle, profeta della bellezza, della forza, della gerarchia e dell’imperialismo. Ma nel 1900
abbandona i banche della Destra per sostenere la Sinistra.
Combinando nazionalismo e apertura internazionale, D’Annunzio si presenta ora come il
profeta della rigenerazione estetica e morale della cultura “neolatina” d’Italia e di Francia,
eredi delle grandezza di Roma. All’immaginario nordico e romanticheggiante dell’arte
wagneriana, egli propone un moderno classicismo mediterraneo, caratterizzato dalla forza,
dalla vitalità e dalla gioia del godimento sensuale. Si apre una fruttuosa stagione creativa,
in cui D’Annunzio interviene contemporaneamente nei generi del romanzo, della poesia e
del teatro. Le linee guida di questa ricerca trovano una prima sistemazione nel romanzo-
poema Il fuoco (1900), ambientato in una Venezia sontuosa e malinconica, un’atmosfera che
esalta gli effetti suggestivi e musicali della prosa lirica che cerca di creare col ritorno di
alcuni temi di sonorità ricorrenti un equivalente verbale dei leitmotiv wagneriani. Un nuovo
alter ego superomistico espone i capisaldi della nuova poetica dannunziana riprendendo la
teoria schopenhaueriana sull’arte donatrice di “oblio”, che interrompe “per qualche attimo
l’angoscia umana”.

L’ideale del Fuoco prende corpo della Figlia di Jorio (1904), un dramma pastorale in versi,
con cui D’Annunzio conquista il favore le pubblico anche a teatro. E’ una rivisitazione della
tragedia greca classica e delle sacre rappresentazioni medievali, che fonde primitive
credenze pagane e arcaica spiritualità cristiana. La struttura del dramma è costruita in
modo che ciascuno dei tre atti, preso singolarmente, rappresenti una situazione drammatica
completa e autosufficiente, rispettando le tre unità classiche di tempo, azione e spazio. La
regola aristotelica, però, è infranta nell’insieme dell’opera, dando allo svolgimento più
elasticità e verosimiglianza. E’ come se D’Annunzio condensasse in una sola opera tre brevi
tragedie, creando così un equivalente delle trilogie tragiche che nella Grecia classica
venivano rappresentate l’una di seguito all’altra, nel corso della stessa giornata.
Anche nell’ideazione della trama D’Annunzio ne crea un equivalente moderno, proiettando
su materiali tratti dal folclore abruzzese i grandi conflitti primari della tragedia greca. Sullo
scenario di un Abruzzo fuori dal tempo, D’Annunzio crea una sintesi originale delle principali
tendenze artistiche contemporanee: la poetica wagneriana di un teatro sacro e mitico-
rituale, l’esposizione dei conflitti etici e psicologici dei romanzieri russi, la teoria
nietzschiana del dionisiaco, le atmosfere rarefatte e misteriose delle opere simboliste.
Questa densità di significati sovrapposti e non pienamente decifrabili acquista potere di
suggestione grazie all’impiego di un linguaggio astratto e antirealistico, che crea
un’atmosfera sospesa e conferisce ai gesti dei personaggi una solennità rituale sottolineata
anche dalle ricorrenti simmetrie, dai parallelismi delle situazioni sceniche e dalla tecnica
dei leitmotiv, con la ripetizione lievemente variata si alcune sequenze verbali.
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D’Annunzio lavora per vari anni in ambito teatrale, realizzando fra l’altro una riduzione del
V canto dell’Inferno, un dramma ambientato in epoca bizantina e una rielaborazione del
mito di Fedra. Un altro dramma di ambientazione abruzzese e arcaica è La fiaccola sotto il
moggio (1905), meno riuscita della Figlia di Jorio. Successivamente D’Annunzio scrive anche
il testo del Martirio di San Sebastiano, musicato da Claude Debussy (1911) ed è il principale
sceneggiatore del film Cabiria (1914), ancora una volta intuendo le potenzialità di un nuovo
mezzo artistico.

Intanto D’Annunzio è tornato anche alla poesia, l’unico campo, dove con Pascoli, è emerso
un concorrente in grado di contendergli la successione di Carducci. Ma anche per la poesia il
vero punto di riferimenti della sua ricerca artistica è la capitale della scena artistica
internazionale, Parigi, che D’Annunzio osserva con attenzione per individuare le correnti
estetiche e filosofiche più all’avanguardia. Con il Poema paradisiaco (1893), si allinea alle
tendenze dei decadenti e dei simbolisti francesi, mutuando temi e procedimenti da
entrambi. La raccolta si presenta come un diario sentimentale, ambientato in misteriosi
giardini abbandonati. Sembra l’espressione lirica di una crisi, ma è sopratutto la sapiente
reinvenzione di un repertorio tematico e di una musica verbale ormai egemoni in Francia, e
già sperimentati in Italia dalle Myricae pascoliane. Dalla scuola simbolista D’Annunzio trae
sia una teoria mistica delle “corrispondenze”, sia un vasto repertorio di temi. Da Verlaine e
Pascoli riprende invece la celebrazione del ritorno ai buoni sentimenti, agli affetti familiari
dimessi, alla poesia delle piccole cose, la confessione di stanchezza e sazietà verso l’amore
carnale, la malinconia, una “dolcezza indefinita”, ma anche un lessico feriale, dai toni
colloquiali o quotidiani, e una musicalità trasandata, rotta da incisi e parentesi.
All’inizio del Novecento, il progetto estetico-politico del “Rinascimento latino” si traduce
nell’elaborazione di un ambizioso ciclo di poemi: le Laudi del cielo del mare della terra e
degli eroi. Il termine “laudi” richiama il gusto preraffaellita per la spiritualità medievale.
Ma è solo un’allusione: la nuova poesia dannunziana si ispira infatti alle teorie anticristiane
di Nietzsche, in un culto pagano, sensuale, e superomistico della natura e della “volontà di
potenza” degli “eroi”, che aggiorna la poesia neopagana di Carducci allineandola alla
cultura di fine secolo. Il mondo classico è trasfigurato in un modello di sfrenata esaltazione
degli istinti e dei sensi. Le Laudi dovrebbero comprendere 7 libri, intitolati ciascuno col
nome di una delle Pleiadi, mitiche fanciulle tramutate in stelle: ne finirà solo 5.
I temi neopagani e superomistici sono sviluppati in Maia con la Laus vitae, un esperimento
di poema epico moderno, che rivista le tradizionali tecniche eroicizzanti e di amplificazione
aulica della materia per celebrare il poeta, narratore e protagonista delle imprese cantate.
Il poeta-superuomo innalza così un monumento al suo io, esaltando l’orgia di piaceri ed
esperienze della propria vita di Ulisse redivivo. E’ la consacrazione poetica della propria
immagine pubblica, sancita dall’omaggio finale del “Maestro” Carducci. Il secondo libro,
Elettra, dedicato sopratutto all’enfatica celebrazione degli “eroi”, tenta una nuova poesia
civile, in linea con le ideologie nazionaliste e imperialistiche che D’Annunzio promuove
declamando pubblicamente i suoi versi nelle principali città italiane.
Nel terzo libro, Alcyone, D’Annunzio accantona la maschera del “vate” nazionale per
dedicarsi alla contemplazione della natura, misurandosi a suo modo con un tema posto
all’ordine del giorno dal successo delle Myricae e dei Poemetti di Pascoli. Nasce così una
rivisitazione lirica del genere bucolico e della mitologia classica, che ricava originali spunti
creativi svolgendo in chiave vitalista nietzschiana suggestioni neopagane già abbozzate dal
Carducci delle Odi barbare. D’Annunzio cambia così la funzione poetica del repertorio
mitico tradizionale, impiegato per rappresentare con vivida concretezza la sensuale
comunione tra l’uomo-superuomo e l’universo naturale. La struttura della raccolta cerca di
combinare la libera varietà espressiva e sentimentale del genere lirico e la scatenata
ebbrezza del dionisiaco nietzschiano, con l’articolazione simmetrica di un poema che vuole
riecheggiare l’ordine e l’equilibro formale della classicità apollinea. D’Annunzio ordina le
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sue poesie in modo che rappresentino lo sbocciare, il rigoglio e infine il declino dell’estate,
come in un diario lirico d’una vacanza estiva.
L’estate ha la funzione di un esile filo narrativo, che simboleggia sia la tregua dell’arte che
ritempra dalle durezze dell’esistenza, dia la vicenda ciclica di nascita, morte e
rigenerazione della vitalità naturale. Il fluire del tempo estivo è regolarmente scandito dai
“ditirambi”, lunghe sequenze di versi liberi che hanno la funzione di cornice ornamentale.
Li precedono brevi poesie in forme più regolari, in cui il montaggio delle immagini per
accostamenti analogici, di matrice simbolista, produce un’enigmatica condensazione di
significati.
D’Annunzio diluisce i procedimenti simbolisti, senza pregiudicare il significato logico del
testo, e svolge un discorso compiuto, in cui le tecniche moderne rendono più intensa la resa
delle sensazioni visive, tattili, uditive, gustative, moltiplicandole o incrociandole. Piuttosto
che montare analogie, D’Annunzio preferisce ricorrere a serie di similitudini, con cui evoca
e giustappone una multiforme gamma di apparenze incantevoli, senza mai spezzare i nessi
razionali. Gli effetti di immediatezza e spontaneità sono il risultato di un lavoro da
collezionista professionale di sensazioni. Sia sul piano del linguaggio sia sul piano dei temi
D’Annunzio costruisce così un moderno e raffinato codice poetico, che esclude
rigorosamente tutto ciò che può risultare banale, prosaico, sgradevole, in un sogno di
nobilitazione estetica del mondo che si accorda al gusto dei ceti sociali più alti.
Alcyone, ritenuto il capolavoro di D’Annunzio, ha un enorme impatto sui contemporanei.

Mentre in Europa è apprezzato sopratutto per i romanzi e il teatro, in Italia D’Annunzio, con
la sua immagine pubblica si esteta, “vate” e superuomo, appare come il modello esemplare
e quasi la norma della poesia. Un modello e una norma che verranno messi in crisi, restando
però un punto di riferimento e un passaggio obbligato per la poesia novecentesca. Tuttavia
nella sua produzione degli anni Venti e Trenta il poeta si dedicò sopratutto alla scrittura in
prosa, rinunciando almeno in parte ai sovrabbondanti artifici dei suoi romanzi di fine secolo.
A parte le prose giornalistiche raccolte col titolo Le faville del maglio (1911 e 1928), molto
apprezzato è attualmente il Notturno (1921), il diario di un periodo in cui il poeta fu
costretto a rimanere bendato per non perdere entrambi gli occhi. Questo “commentario
della tenebra” è composto di frasi brevi e affronta con una potenza non paludata il grande
tema della morte. Un tema che, a livello biografico, ricompare a più riprese nella vita
dannunziana, sia per l’impresa di Fiume, sia per le sue riflessioni esistenziali al limite del
nichilismo, raccolte nel suo Libro segreto (1935). Nell’epoca del fascismo trionfante,
D’Annunzio sembra voler esprimere in modi nuovi alcuni temi di fondo della sua opera,
fuoriuscendo dai limiti della scrittura inimitabile.

Giovanni Pascoli (1855-1912)


L’unico autore che, tra fine Otto e inizio Novecento, contende a D’Annunzio il primato nella
poesia è Giovanni Pascoli. Nato a San Mauro di Romagna, passa un’infanzia serena in
campagna, e riceve un’approfondita formazione umanistica in un collegio religioso. Ma
quando è ancora bambino la sua famiglia è travolta da una tragica serie di lutti. La rottura e
la dispersione del nucleo familiare aprono laceranti ferite interiori e gli instillano il
desiderio di ricomporre l’unità perduta e ripristinare l’armonia degli anni infantili.
Nel 1873 inizia a studiare lettere all’università di Bologna, dove frequenta le lezioni di
Carducci e si inserisce nella sua cerchia, senza però abbracciarne del tutto
l’anticlericalismo ateo e pagano. La morte del fratello maggiore e la perdita della borsa di
studio con cui si manteneva lo precipitano nella dissipazione autodistruttiva dei bohémiens.
Ma, grazie a Carducci, si laurea in letteratura greca nel 1882, e insegna nei licei di piccole
città di provincia per mantenere le due sorelle minori che nel 1885 vanno a vivere con lui a
Massa. Questa esclusiva relazione tende a imporre ai tre fratelli un fatto tacito, fondato
sulla comune rinuncia al matrimonio per non alterare il fragile equilibrio raggiunto. Tale
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relazione però degenera in una distorsione delle relazioni affettive, che affiora in alcune
poesie, in cui Pascoli tende a proiettare sulle sorelle i ruoli di madre e di moglie. Quando
Ida si sposa, nel 1895, spaccando l’intimità familiare, Pascoli cade in uno “squilibrio
nervoso” e si rifugia nel legame con Maria. Questa esistenza sofferta ha un ruolo decisivo
nell’evoluzione della sua poesia e delle sue convinzioni estetiche ed ideologiche, che
maturano in un dialogo discreto, quasi nascosto, ma profondo, con le più innovative
tendenze letterarie e culturali italiane ed europee.
I versi e le letture del giovane Pascoli sono per lo più in linea con le preferenze carducciane.
Ma l’allievo esordiente opera subito qualche scarto al maestro. Se Carducci rilancia
l’imitazione classicista degli antichi, Pascoli si dedica piuttosto ad approfondire la
conoscenza diretta delle loro opere e del loro mondo. In particolare lo appassionano le
lezioni di archeologia e le interpretazioni spiritualiste di Platone e del pensiero greco,
opposte a quella materialista e neopagana di Carducci, e in linea con la sua educazione
religiosa. Pascoli si accosta al pensiero irrazionalista di Eduard Von Hartmann (1842-1906),
autore di una Filosofia dell’inconscio (1896) in cui si sostiene l’esistenza di un principio
“inconscio” che guida i fenomeni naturali secondo una segreta armonia spirituale. Le sue
poesie d’esordio evitano i temi epici o risorgimentali, preferendo invece le atmosfere
incantate dell’Orlando furioso di Ariosto, oppure alcuni toni polemici inneggiati alla lotta di
classe, come nelle quartine che descrivono La morte del ricco (1878).

Mentre il più giovane D’Annunzio ottiene un rapido successo, negli stessi anni Pascoli
conduce una vita ritirata, da insegnante di provincia, e si dedica alla paziente ideazione di
uno stile poetico nuovo e personale, lontano dalle mode letterarie seguite da quelli che
chiama i “poeti cromolitografici” contemporanei. Questo comportamento si traduce anche
in una specifica strategia editoriale. I suoi testi innovano con crescente radicalità le
principali componenti della scrittura poetica: la selezione dei temi, il linguaggio, i
procedimenti stilistici, la musicalità verbale e la metrica. Prende così forma la sua raccolta
di esordio: Myricae, pubblicata nel 1891, via via arricchita nelle numerose riedizioni, fino
all’ultima del 1911. Il titolo deriva da un passo delle Bucoliche, o ecloghe, poesie di
argomento pastorale, di Virgilio.
La metafora vegetale delle Myricae, o tamerici, richiama la scelta d’una “poesia che si
eleva poco da terra”, una poesia bassa, dove prevalgono argomenti e registri dimessi,
quotidiani, antisublimi, in netta controtendenza rispetto a quelli aulici e altisonanti di
Carducci, o a quelli preziosi e ricercati di D’Annunzio. Alla loro arte aristocratica, Pascoli ne
oppone una più democratica, estranea alla retorica civile del “vate” e all’estetismo
esclusivo del dandy, che risente della sua infanzia in campagna e degli ideali socialisti
giovanili. Ma Pascoli segnala l’abbassamento tematico e tonale con un titolo in latino: la
lingua che evoca quanto c’è di più alto, nobile, raffinato, sacro, designa quindi una poesia
che canta ciò che è basso, popolare, comune, profano. E uno dei tratti dominando della
raccolta è infatti la contaminazione ai aulico e umile. Le liriche di Myricae allargano la sfera
della poesia, ristretta dalla selezione lessicale e tematica dei parnassiani e degli esteti, alla
semplice bellezza di esperienze comuni, accessibili a chiunque, e di sentimenti non riservati
solo a personalità eccezionali. D’altra parte egli non rinuncia all’imperativo parnassiano
della precisione, perché rivendica come “poeticissimi” proprio i termini popolareschi che
indicano con esattezza e senza l’astrusità dei termini scientifici di origine latina i minimi
dettagli del mondo naturale, rappresentati invece con un lessico astratto e generico dalla
trazione lirica italiana.
Composta per stratificazioni successive, la struttura della raccolta dissimula la sua faticosa
evoluzione, fatta di un decennio di ricerche creative, segnate sia da rapporto con gli
orientamenti estetici della scena letteraria contemporanea, sia da un sofferto percorso di
esplorazione della propria psiche, che porta a parola sofferenze e contraddizioni intime.

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In un primo momento (1891), Pascoli tende a ritagliarsi un limitato spazio di autonomia


creativa senza trasgredire apertamente all’imperativo parnassiano dell’oggettività rilanciato
da Carducci, che inibisce l’espressione diretta dei sentimenti. Il giovane Pascoli sostiene che
il poeta “rende una sensazione che ha subita come l’ha subita” creando una poesia
“soggettiva”, in cui però “l’oggettivo prende il sopravvento”. E nel nucleo originario di
Myricae l’intervento soggettivo dell’io poetante è ridotto alla nuda registrazione di come gli
elementi del paesaggio si imprimono nei suoi sensi.
A partire dalla seconda edizione di Myricae (1892) Pascoli rompe l’interdetto estetico che lo
aveva spinto a lasciare inedite fino a quel momento “poesie di dolore intimo e nascosto sino
ad allora nell’intimità della casa”. Il trauma e il lutto per la distruzione della sua famiglia
ora campeggiano in gran parte delle nuove liriche. Anche la prefazione, mescolando prosa e
frammenti di quella che nelle edizioni successive diventerà la poesia introduttiva, Il giorno
dei morti, racconta il misterioso e impunito assassinio del padre, la morte della madre e dei
fratelli, il proprio dolore di orfano. E’ un procedimento che orienta il pubblico verso una
lettura unitaria del libro inquadrando liriche diverse per tonalità e stile in un comune
fondale emotivo, cupo e lacrimoso, che presenta tratti romanzeschi e melodrammatici.
Al motivo del “nido” familiare e al compianto sull’abbandono e la solitudine degli orfani si
affiancano temi cari alla poesia simbolista come il mistero, il sogno, le apparizioni spettrali,
la presenza inspiegabile del soprannaturale.
La svolta del 1892 apre una straordinaria stagione creativa, che si approfondisce e sviluppa
nelle edizioni successive. Myricae accoglie innovazioni stilistiche che rivoluzionano il
linguaggio poetico italiano in tutti i suoi aspetti fondamentali: procedimenti retorici e
stilistici, sintassi, musicali verbale, metrica. Pascoli si distacca dalle rappresentazioni nitide
ed esatte, dalla musica raffinata e dal rispetto di una metrica ardua, tipiche del canone
parnassiano. Ma tende a dissimulare la radicalità delle proprie innovazioni alternando
trasgressione e rispetto degli istituti tradizionali. Anche se il suo lessico è sempre preciso,
Pascoli ricorre a procedimenti stilistici che restituiscono percezioni sfumate, indefinite,
impalpabili. Pascoli rende il suo stile sempre più ellittico e allusivo, carica oggetti e
situazioni di significati simbolici e suggestivi, come ne L’assiuolo, in cui il canto di un
uccello notturno assume di strofa in strofa un valore luttuoso.
Pascoli importa nel suo personalissimo mondo poetico anche il primato attribuito dalla
cultura di fine secolo alla musicalità. Myricae è un raffinato concerto di sonorità
tendenzialmente tenui: una musica intima, sommessa, lontana dalle maestose e irruenti
volute sonore di quella wagneriana, a cui guarda D’Annunzio. Con combinazioni variate di
vocali e consonanti, Pascoli imita nei suoi versi un’enorme gamma di suoni reali. Questo uso
mimetico e insieme evocativo delle sonorità verbali, detto anche fonosimbolismo, arriva a
rompere le frontiere della lingua dotata di un senso codificato. Pascoli prende sul serio
l’imperativo lanciato da Verlaine: “della musica prima di tutto”, e inserisce nei suoi versi
delle onomatopee, parole prive di un senso grammaticalmente codificato, che mimano i puri
suoni di una musica naturale e spontanea. E’ un procedimento antichissimo che rappresenta
uno scarto rivoluzionario nelle istituzioni linguistiche e formali della letteratura
ottocentesca, e apre la strada alle rotture sperimentali dei codici linguistici operato dalle
avanguardie novecentesche. Il mondo classico si configura per Pascoli come un repertorio
aperto di possibilità dimenticate a cui attingere. Ma le trasgressioni pascoliane non
contestano mai frontalmente le istituzioni, e lavorano sempre sulla sottile frontiera tra
norma e violazione.

A fianco del riconoscimento della critica più d’avanguardia, arriva quello degli altri poeti
che, D’Annunzio in testa, iniziano a importare suggestioni e procedimenti della poesia
pascolana. D’altra parte questa rivoluzione discreta si accorda spontaneamente alla
sensibilità e al gusto del pubblico della media e piccola borghesia. Pascoli ne condivide la
religione degli affetti familiari e i modelli di vita tranquilla, lontana dall’ideologia elitaria e
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dal gusto per l’eccesso di D’Annunzio. Di qui il crescente successi e le tante riedizioni di
Myricae, che alla fine del secolo rendono Pascoli un poeta apprezzato dal pubblico.
Intanto fa carriera: il professore di provincia è ormai diventato un intellettuale riconosciuto,
che pubblica le sue poesie e i suoi interventi critici e saggistici sulle riviste più prestigiose,
come “Convito” e “Il Marzocco”, dove espone il suo originale punto di vista sulle questioni
estetiche e sociali contemporanee. Solo la sua vita privata non cambia: dopo il matrimonio
di Ida, si trasferisce con Maria in un angolo appartato della campagna toscana, a
Castelvecchio. Qui si dedica allo studio e alla scrittura, organizzando anche lo spazio per
lavorare in contemporanea su più filoni, con tre tavoli dedicati rispettivamente alla
composizione poetica in italiano, a quella in latino e alla critica dantesca. In questo
periodo, Pascoli fa uscire in simultanea saggi, interventi e poesie che poi raccoglierà in
volumi differenti, le cui date non rispecchiano i tempi reali di composizione.
Nei suoi saggi, pubblicati col titolo Miei pensieri di varia umanità (1903), Pascoli chiarisce la
sua opinione sugli aspetti chiave della crisi si fine secolo. Memore della sua doppia
formazione, cattolica e socialista, propende per un socialismo fondato sulla “fratellanza di
tutti gli uomini” e sui valori cristiani della “carità” e del“amore”, che abolisca “la lotta tra
le classi e la guerra tra i popoli”. Questo mito della riconciliazione interclassista, che si
oppone all’etilismo reazionario e al superomismo nietzschiano in voga tra gli intellettuali,
non trova però spazio presso i suoi interlocutori.
Ma l’ideologia di Pascoli, più che una teoria politica, è un’estensione alla società, sognata
come un nido familiare ingrandito, delle sue scelte di vita e della sua poetica. Per lui la
poesia svolge una funzione di “suprema utilità morale e sociale” perché insegna ad
apprezzare la bellezza nascosta nei piccoli dettagli e ad accontentasi di ciò che si ha.
Pascoli sostiene che “la poesia è nelle cose”, un “etere” visibile solo al poeta. Pascoli
espone il nocciolo di questa teoria della letteratura nel saggio Il fanciullino (1897), dove
istituisce un legame diretto tra la poesia e la “psiche primordiale e perenne”. Tutti
mantengono dentro di sé una traccia della loro infanzia, un “fanciullino che vede tutto con
meraviglia, tutto come per la prima volta”. Il poeta rimette il suo lettore in contatto con
quell’angolo d’anima trascurato, restituendogli quell’incanto perduto perché, ascoltando il
suo fanciullo interiore, “scopre tra le cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose” e
crea le sintesi sorprendenti di chi “due pensieri dia per una parola”.
Pascoli contrappone alla “poesia applicata”, tesa a illustrare eventi, ideologie, teorie, una
“poesia pura”, che tende a coincidere con la lirica. Ma il suo scopo non è chiudersi in una
religione della parola, bensì rinnovare la percezione umana della natura. E per svelare la
bellezza di dettagli che si trovano fuori dalle normali soglie percettive, occorre una lingua
capace di designarli con precisione, allargando la gamma lessicale della tradizione poetica
italiana, troppo astratta e compassata, includendo i termini delle diverse parlate locali,
trascurati da una lingua nazionale costruita senza badare alla resa di dettagli naturali
minimi ma preziosi. La sua idea di “poesia pura” lo distingue dalle esigenze di realismo
proprie della poesia dialettale e della tradizione narrativa ottocentesca, perché l’esattezza
lessicale serve a restituire un contatto ingenuo e diretto con la natura, dando voce a una
“sostanza psichica” universale ed eterna.
A fianco delle riflessioni di poetica, Pascoli produce saggi di interpretazione dantesca,
indirizzati agli specialisti universitari. Nella sua lettura della Divina commedia si discosta
dalle analisi filosofiche e storico-ricostruttive della critica accademica di orientamento
positivista, per individuare dietro i personaggi, gli oggetti e le azioni del poema segreti
significati allegorici. Quella di Dante è una “ascensione” spirituale verso la libertà interiore
e una riconquista politica della libertà in terra. Ma i suoi saggi, raccolti sotto titoli
suggestivi come Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1902),
vengono stroncati dalla critica universitaria, respinta dal suo modo di procedere per “salti”
logici, istituendo nessi emotivi analoghi a quelli della scrittura poetica simbolista.

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La sua poesia nell’ultimo decennio tenta vie diverse dalla lirica. Nascono testi più lunghi,
narrativi: i Poemetti (1897), la cui epigrafe segnale che si affronteranno argomenti un po’
più importanti. Pascoli si misura con il poemetto in forma epica. E’ una moderna
rivisitazione dell’epillio, un genere poetico che affronta singoli episodi epici in testi di
media lunghezza. Se da una parte Pascoli si richiama implicitamente all’antica poesia
alessandrina, dall’altra la piega a trattare un “soggetto umile, spesso campestre”. La
raccolta si innerva intorno a due cicli, La sementa e L’accestire, dove l’amore e il
matrimonio tra due giovani contadini si intrecciano col corso delle stagioni e il lavoro dei
campi descritti con esattezza di dettagli tecnici, sulla scia della poesia didascalica praticata
da Virgilio nelle Georgiche.
Nella prefazione, Pascoli ringrazia la natura perché sa ricavare il “bene” anche dal “male”,
dato che le ferite inferte dal dolore danno poi una risonanza più profonda alle piccole gioie
della vita. La narrazione, svolta in un metro illustre come la terzina dantesca, è condotta
secondo le regole dell’epica: in terza persona, da un narratore onnisciente, con ripetizioni
che richiamano formule fisse omeriche, e ritmi lenti, solenni, in accordo col graduale
procedere dei cicli naturali. Ma questi procedimenti letterari nobilitanti sono impiegati per
mettere in scena eventi bassi, concreti, quotidiani. Anche il linguaggio è in stridente
controcanto rispetto ai tratti epicizzanti: il lessico presenta termini tecnici, che designano
attrezzi agricoli e gli oggetti di cucina, e soprattutto inserti dialettali, che rendono il colore
locale della parlata vernacolare di Castelvecchio. La sintassi passa da costrutti solenni a
passaggi colloquiali. In Italy, Pascoli conduce ai suoi esiti più radicali questa mescolanza
linguistica, giustapponendo non solo registri stilistici e lessici contrastanti, ma addirittura
lingue diverse, mettendo in scena i dialoghi tra gli elementi in vista al paese natio e i
parenti rimasti con un’alternanza di italiano, inglese e italoamericano.
A fianco di questo filone a dominante realistica, Pascoli ne sviluppa uno più in linea con la
poetica simbolista da cui nascono le ultime liriche di Myricae. I registri stilistici sono più
elevati, le atmosfere sospese, allusive, mentre i temi spaziano dal frammenti lirici di
memorie personali a situazioni quotidiane che assumono enigmatici valori simbolici, fino a
preziose allegorie. Qui l’oscuramento simbolista del significato consente a Pascoli si sfiorare
in modo ellittico i turbamenti più scottanti del suo io profondo. Il mondo vegetale è caricato
di indefinite valenze simboliche in cui si esprimono per via allusiva tensioni psichiche
altrimenti indicibili. Nascono poesie come Il vischio, dove la pianta parassita allude a una
segreta angoscia che lacera una personalità e consuma la sua parte vitale.
Allo stesso tempo Pascoli crea versi che, per scelte linguistiche, stile e motivi predominanti,
puntano a occupare il polo più alto del canone estetico e letterario contemporaneo. Infatti
sia il filone delle poesie in italiano, poi raccolte nei Poemi conviviali (1904), sia i poemetti
con cui dal 1892 concorre al concorso internazionale di poesia latina di Amsterdam si
indirizzano a circuiti intellettuali più ristretti, sofisticati ed esclusivi. Grazie ai suoi versi
latini Pascoli si fregia di un raro segno di distinzione e si riallaccia a una tradizione
attualizzata dalle poetiche parnassiane e dalla rilettura estetizzante del Rinascimento. La
composizione in latino non è per Pascoli un polveroso esercizio erudito, ma un laboratorio
creativo in cui sperimenta condensazioni analogiche di significati, fulminei montaggi
narrativi, mescolanze di registri, modulazioni fonosimboliche e lievi distorsioni espressive
della norma metrica analoghi a quelle della sua poesia italiana. Queste poesie, raccolte in
un volume postumo (Carmina, 1914), sono tendenzialmente narrative e declinano in chiave
spiritualista il tema estetizzante dell’apogeo e del tramonto dell’impero romano.
Invece i versi in italiano dei Poemi conviviali sono dedicati in prevalenza all’antichità greca.
Le sue poesie rappresentano i latini e i greci da una prospettiva molto ravvicinata,
sorprendendoli nei loro pensieri e nei loro gesti di tutti i giorni, con ricchezza e precisione
di dettagli. Ma se Pascoli, come Nietzsche, proietta sugli antichi le proprie inquietudini e la
propria sensibilità di moderno, il senso della sua rilettura va in una direzione opposta a
quella del filosofo tedesco. Personaggio storico-leggendari o mitici affrontano la precarietà
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dell’esistenza e l’insensatezza della morte, aprono interrogativi molti vicini a quelli della
spiritualità cristiana. L’epigrafe virgiliana dei Conviviali li colloca su una polarità stilistica e
tematica opposta a quella bassa di Myricae. Poesia alta, dedicata al direttore del “Convito”,
su cui Pascoli aveva inaugurato questo filone pubblicando nel primo numero Gog e Magog,
elegante rivisitazione del tema della calata dei barbari. Il lessico si intona all’elevatezza dei
temi, spesso di registro nobile, e così la metrica, dove prevale un verso della tradizione
classicista come gli endecasillabi sciolti. Ma il tono dominante non è né quello solenne e
monumentale della poesia neoclassica, né quello raffinato e sensuale degli esteti. Pascoli
evoca sulla pagina i fantasmi della classicità per dar voce alle pensose inquietudini, la
malinconia, il ripiegamento su di sé caratteristici della sua sensibilità intimistica.

Mentre lavora per portare a termine la sua prima raccolta in stile alto, Pascoli porta a
termine i Canti di Castelvecchio (1903), che definisce una “seconda serie” di Myricae, di cui
condividono la prevalenza di temi bassi e l’ambientazione campagnola. La scelta del
termine canti per il tutolo allude a Leopardi, richiamandosi alla rappresentazione idillica
della natura e all’autobiografismo lirico, ma respingendo il radicale materialismo illuminista
del poeta di Recanati. D’altra parte la specificazione di luogo dà alle poesie un carattere
più privato che universale. Inizialmente Pascoli intendeva comporre due libri di canti: uno
dedicato a Castelvecchio, luogo dell’unità familiare faticosamente ricomposta, l’altro a San
Mauro, luogo della famiglia perduta. Poi i due spazi fisici e simbolici confluiscono in una sola
raccolta, dove prevalgono gli ambienti di Castelvecchio mentre il paese natale è confinato
nella sezione conclusiva: Ritorno a San Mauro.
In una lettera a un amico, Pascoli illustra l’ordine del libro che segue il ciclo delle stagioni,
partendo dall’inverno e finendo, dopo un giro completo delle stagioni, alla primavera.
Questo ciclo stagionale si carica, nella successione effettiva dei testi che dovrebbero
illustriamo, di valori simbolici. L’avvicendassi di morte e rinascita della vegetazione
contrasta, nella sequenza interrotta inverno-primavera, con il dolore, la precarietà e la
morte irreversibile che toccano agli animali e agli uomini. Con il finale Ritorno a San Mauro,
Pascoli immagina una visita più onirica che reale ai suoi luoghi d’origine, le strade di
campagna, la chiesa dove pregava da bambino, la casa di famiglia, mescola memorie, visioni
e struggimento luttuoso per le perdite irrevocabili.
Nei Canti, oltre a ripercorrere, con una più matura padronanza tecnica, tutti i motivi lirici
di Myricae, Pascoli esplora nuovi filoni, intrecciando le opposte polarità estetiche della
basso quotidiano e del sublime spirituale. Troviamo così varie riletture poetiche del folclore
contadino, dai proverbi, alle leggende, alle usanze rituali. Qui Pascoli mima i metri
cantilenati della musica e della poesia popolare, lavorando a volte sul contrasto tra
l’apparente leggerezza dello stile la cruda, prosastica materialità dei temi. Prende forma
una denuncia delle condizioni di vita del proletariato che fino a quel momento la poesia
ottocentesca aveva praticato solo in dialetto. E al polo opposto prende voce un senso tutto
leopardiano - ma non materialista - di smarrimento nel considerare la propria finitudine e
piccolezza di fronte all’immensità dell’universo. In una conferenza del 1899, L’era nuova,
Pascoli aveva rivendicato alla poesia il compito di far provare ciò che la scienza svela ma
non esprime: propositi che cerca di mettere in pratica nei Canti di Castelvecchio.
Tutti i tratti della rivoluzione del linguaggio e dei procedimenti metrici e stilistici della
poesia, avviati in Myricae e nei Poemetti, sono amplificati nei Canti, pur rimanendo
all’interno del sottile gioco di contrappunti e bilanciamenti tra norma e trasgressione. Salta
invece l’esigenza di scendere a patti con l’imperativo parnassiano dell’oggettività e il rifiuto
del sentimentalismo di ascendenza romantica. Il narratore ellittico, troncato, le allusioni, la
trama di sinestesie o il montaggio delle analogie suggeriscono che dietro la consistenza
fisica del paesaggio si nasconde una realtà più profonda e sfumata, spesso enigmatica o
indicibile, che appartiene all’universo interiore (Il gelsomino notturno) o a quello spirituale
(La guazza). Questa tendenza antinaturalistica e una rappresentazione interiorizzata ed
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evocativa di paesaggi ed eventi si traduce nel continuo sovrapporsi e intrecciasi di


sensazioni, memorie, analogie, con effetti di spaesamento e di perdita di consistenza del
mondo reale, che raggiunge l’apice nella messa in scena di situazioni oniriche, di stati di
coscienza intermedi tra il sonno e la veglia, negli incontri con le apparizioni dei parenti
morti. Anche la musicalità si fa più personale: utilizzo di onomatopee per la creazione di
assonanze/dissonanze e sfruttamento del novenario nella metrica.

All’ingresso nel nuovo secolo Pascoli è all’apice della sua maturità creativa, mentre fioccano
i riconoscimenti del suo valore. Questa conquistata autorevolezza lo induce a dare più
spazio alla poesia civile, un genere a cui si era affacciato solo tardi. Così. se si escludono i
Nuovi poemetti (1909), dove Pascoli sviluppa i nuovi motivi del suo filone cosmico, la
maggior parte della sua poesia novecentesca si dedica, senza rinunciare alla densità
simbolica e ricchezza di linguaggi e registri, ad affrontare i grandi snodi etici e politici del
presente e della storia nazionale, in raccolte come Odi e inni (1906), Poemi italici (1911) o
Canzoni di Re Enzio (1911). Ma nel Novecento la figura del poeta-vate ha perso di rilievo
rispetto all’età carducciana, e il moderato socialismo di Pascoli resta ai margini del
dibattito primonovecentesco. Anche il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa
(1911), con cui sostiene l’invasione della Libia, testimonia più l’allineamento a un’ideologia
condivisa dal ceto medio e piccolo borghese dell’epoca che una posizione di ideologo
egemone. La sua relativa marginalità fa sì che i poeti esordienti del nuovo secolo non
sentano l’esigenza di contrapporglisi. Così la poesia del primo Novecento, mentre prende
esplicitamente le distanze dalla personalità e dalla poetica più ingombranti e appariscenti
di D’Annunzio, mantiene con Pascoli un rapporto sotterraneo, spesso non dichiarato.

Antonio Fogazzaro (1842-1911)


Il percorso intellettuale e creativo dello scrittore veneto Antonio Fogazzaro risente sia dei
grandi mutamenti della scena letteraria e culturale tra età postunitaria e crisi di fine
secolo, sia l’evoluzione del mondo cattolico italiano. Fogazzaro ha dedicato il suo impegno
di scrittore al tentativo di conciliare cattolicesimo e cultura moderna. La sua aspirazioni è
che la Chiesa abbandono la chiusura reazionaria e avvii il dialogo con la razionalità
scientifica e il liberalismo politico contemporanei.
Come romanziere esordisce tardi, ma già negli anni 1860-70 frequenta gli scapigliati
milanesi e del 1872 tiene la conferenza Dell’avvenire del romanzo in Italia, in cui attacca le
“basse aberrazioni della scuola realista” e sostiene che in Italia manca un “romanzo
contemporaneo, psicologico e sociale”.
Il suo primo romanzo, Malombra (1881), immette queste esigenze in una trama
accattivante, ricca di colpi di scena, che si ispira alla narrativa fantastica di Hoffmann e Poe
e alle atmosfere morbose e inquietanti della Fosca di Tarchetti. Un’eroina dal fascino
ambiguo e perverso che precipita nella follia, costruita fondendo le cognizioni
psicopatologiche positive con motivi romantici e scapigliati che mantengono un’aura
soprannaturale. Dietro, un narratore all’antica, che descrive, commenta, interviene,
inserisce frammenti epistolari e diaristici e, sopratutto, carica tutti i registri lessicali e
stilistici, dal lirico al tragico, per immergere i lettori in atmosfere suggestive o spingerli
all’apice della tensione melodrammatica. Ci sono tutti gli ingredienti per conquistare il
pubblico medio. E il successo è grande e immediato.
Il secondo libro, Daniele Cortis (1885), che fonde intreccio sentimentale e romanzo di idee,
dà voce alle istanze politiche dei cattolici liberali, introducendo il progetto di un nuovo
partito che persegua un “possibile ideale di democrazia cristiana”. I romanzi fogazzariani,
che si adattano perfettamente al nuovo clima antipositivista e alle tendenze neocattoliche
emergenti, gli guadagnano una notorietà internazionale. In Italia, un suo importante
articolo del 1894, I cavalieri dello spirito, è ripreso e rilanciato come un manifesto
antiverista dalla scrittrice e giornalista Matilde Serao, per propagandare una letteratura che
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persegue “un senso più alto e nobile della vita interiore”. Ma Fogazzaro non si adegua alle
poetiche estetizzanti e decadenti seguite dai suoi sostenitori interessati, e prosegue su una
linea di ricerca autonoma, che si differenzia dall’immaginario di fine secolo dominato da
D’Annunzio. Il risultato è il suo secondo grande romanzo di successo: Piccolo mondo antico
(1895). Se Malombra era il romanzo dell’eccesso passionale ed estetico, questo è il libro
della misura, delle emozioni e dei dolori familiari, domestici, dell’intimità borghese. Questa
mescolanza di romanzo storico, realistico-borghese e psicologico è messa al servizio di una
dettagliata ricostruzione e di un nostalgico, lirico rimpianto per un universo di età
risorgimentale, che l’Italia di fine secolo dovrebbe ritrovare. La prosa è scorrevole, e se la
voce dell’autore è molto presente sulla scena narrativa, cerca registri più dimessi e gioca
tutto sul piano della precisione descrittiva e della sottile analisi psicologica dei trasalimenti
interiori dei protagonisti, in una rappresentazione molto realistica dei malesseri della vita di
coppia. Il tuffo nel recente passato offre una risposta, moderata e patriottica, alla crisi di
legittimità del sistema politico, mentre gli accenni polemici allo spiritismo si ricollegano a
un fenomeno di costume molto diffuso all’epoca.
Alla svolta del secolo Fogazzaro affronta il tema della riforma del cattolicesimo
contemporaneo, che fa interagire con il motivo, congeniale alla narrativa
d’intrattenimento, del conflitto tra l’attrazione per la sensualità carnale e la superiore
spiritualità dell’ascesi mistica. I protagonisti dei suoi romanzi sono legati da un amore reso
impossibile da vincoli sociali o religiosi, e scelgono di sublimarlo in una pura comunione
d’anime: esempi -> Piccolo mondo moderno (1900) e Il Santo (1905). Questi romanzi-
manifesto, vicini alle posizioni dei modernisti, si guadagnano il consenso dei lettori ma
anche la diffida del clero ufficiale, che nel 1906 inserisce Il Santo nell’indice dei libri
proibiti.

Di fronte al successo dell’offensiva antinaturalista, gli scrittori veristi sono costretti a


rivedere le loro tecniche narrative o ad affrontare motivi più consoni ai nuovi gusti. Luigi
Capuana, capofila verista, prende pubblicamente le distanze dal naturalismo. Il suo secondo
romanzo, Profumo (1892), mescola elementi di psichiatria positiva con temi del romanzo
psicologico ed elementi fantastici. Dopo vari tentativi di inserirsi nelle tendenze culturali
emergenti, Capuana riesce a trovare una soluzione convincente con Il marchese di
Roccaverdina (1901), storia di un aristocratico che sprofonda gradualmente nella pazzia
sotto il peso di un duplice rimorso. Nelle tecniche narrative e nelle ambientazioni veriste
Capuana innesta una storia di colpa e di dannazione e un’analisi di passione estreme, spinte
fino alla disgregazione psicotica della personalità, abilmente mutate dai nuovi modelli di
Dostoevskij.
L’ultimo dei maggiori narratori ottocenteschi è Federico De Roberto (1861-1927), formatosi
anche lui alla scuola verista siciliana e approdato alla capitale editoriale milanese: egli
sviluppa con estremo rigore le tecniche narrative verghiane, facendone uno strumento di
analisi e demistificazione della società contemporanea, ma progressivamente impiega anche
tecniche e tematiche derivate dalla narrativa europea di fine Ottocento. I suoi primi
tentativi sono consegnati in quattro anni (1886-90) alle raccolte di novelle La sorte,
Documenti umani, L’albero della scienza e Processi verbali, in cui porta all’estremo, con
uno sperimentalismo radicale, la programmatica riduzione della presenza del narratore, alla
ricerca di effetti di assoluta oggettività, anche in virtù della sua formazione e attività
giornalistica. Nei Processi verbali rende la narrazione quanto di più simile a un nudo
documento, a una minuziosa e neutrale registrazione burocratica di eventi. Alcuni racconti
finiscono così per riuscire vicinissimi ai copioni teatrali, con la voce narrante che si limita a
registrare fatti, senza mai entrare nel punto di vista dei protagonisti né suggerire il pensiero
dell’autore. Dopo due prove narrative importanti quali l’Ermanno Raeli (1889) e L’illusione
(1891), nel romanzo I Viceré (1894) De Roberto mette tutta la straordinaria capacità tecnica
al servizio di uno sguardo amaro e disincantato sulla storia italiana recente. Senza
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abbandonare il metodo di rappresentazione naturalistico e il criterio dell’impersonalità,


racconta una storia di degenerazione fisica e morale che recepisce alcuni motivi diffusi nella
sensibilità culturale dell’epoca, trasformandoli però in una diagnosi spiega sulla società
italiana contemporanea. Il romanzo smaschera i retroscena meschini e grotteschi della
storia ufficiale. L’analisi spietata dell’evoluzione sociopolitica dell’Italia unita proseguirà
nel romanzo L’imperio, che racconta le vicende parlamentari romane di Consalvo Uzeda,
che però rimase incompiuto, uscendo postumo nel 1929.
In questi stessi anni, in un’area completamente ai margini del mondo culturale italiano,
nella Trieste governata dall’impero austroungarico, inizia senza fortuna la carriera narrativa
di Italo Svevo, che esordisce con due romanzi, Una vita (1892) e Selinità (1898),
chiaramente debitori del naturalismo, in cui però si affacciano delle psicologie corrose da
un inedito senso di impotenza ed estraneità alla vita. Opere che inaugurano un universo
estetico e mentale che troverà piena espressione e peserà in campo letterario solo nel
Novecento.

(Parte terza)
14. Percorsi della letteratura novecentesca
L’evoluzione della letteratura italiana nel Novecento si potrebbe rappresentare come una
serie di insiemi con intersezioni più o meno ampie, dato che sono numerose le
sovrapposizioni fra movimenti e poetiche, singole e collettive, ritenute molto distanti fra
loro ma invece spesso coesistenti, sia pure magari in contrasto. Su quest’evoluzione hanno
pesato fattori storico-politici e socioculturali in genere. Sul primo versante non si può
sottovalutare che, durante il ventennio fascista, la libera circolazione delle idee è stata
impedita o fortemente limitata, e che perciò il dibattito letterario è stato condizionato
sopratutto nel rapporto intellettuali/politica, viceversa tornato in primo piano alla fine
della seconda guerra mondiale, con una massiccia adesione degli scrittori alle ideologie die
sinistra.
Sul versante socioculturale, la grande influenza del filosofo e critico Benedetto Croce,
peraltro fra i pochissimi intellettuali a rimanere sino in fondo indipendente dal fascismo,
fece sì che la critica accademica non si aprisse a stimoli provenienti da altri Paesi europei,
rimanendo spesso legata a canoni estetico-idealistici, almeno sino alle nuove sollecitazioni
ideologiche e metodologiche del secondo dopoguerra e più ancora dei primi anni Sessanta.
Ma, una volta sottolineati questi aspetti, si dovrà subito segnalare che anche sotto il regime
fascista rimase vivace l’interesse per il confronto letterario con le novità europee, grazie
sopratutto ai gruppi riuniti introno alle riviste fiorentine come “Solaria”, alla quale
collaboravano autori quali Montale o Gadda. E contemporaneamente molti giovani
propongono letture e valutazioni autonome dei nuovi scrittori: basti citare Giacomo
Debenedetti, saggista aperto alle connessioni con altre discipline, e Gianfranco Contini,
filologo capace di analisi stilistiche acutissime, spesso partendo dalla critica delle varianti,
ossia delle correzioni d’autore, teoricamente disprezzata da Croce.
Una scansione del Novecento letterario deve mettere in rilievo le dominanti di un periodo,
senza però schiacciare gli elementi di contrasto, gli autori che non si adeguano o le poetiche
che non riescono a imporsi ma che rappresentano una ricchezza: spesso i risultati più alti
vengono da scrittori fuori dai circuiti di moda, come Svevo con la Coscienza di Zeno o
Fenoglio con Il partigiano Johnny.
Un altro aspetto da tenere sempre in considerazione è il rapporto fra la letteratura italiana
nel suo insieme e le tendenze internazionali. Questo perché la formazione dei nostri
scrittori avviene molto spesso grazie ai contatti con movimenti e autori attivi altrove. Si
tratta di scambi che avvengono con rapidità crescente e a volte in concomitanza, per cui in
alcuni casi non è giusto parlare del ritardo cronico della cultura e della letteratura italiana
rispetto alle più quotate e influenti in ambito internazionale: esempi, il Futurismo lanciato
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(1909) in Francia e in Italia da Filippo Tommaso Marinetti, le sperimentazioni postmoderne


di Calvino ed Eco. Certo, in generale la letteratura italiana del secolo scorso ha sofferto per
la sostanziale lateralità della nostra cultura artistica rispetto ad altre, e anche per questo
hanno faticato ad imporsi opere di grandissimo valore. Ciò non toglie che il rapporto fra le
letteratura italiana e quelle straniere del Novecento sia caratterizzato da una costante
interazione, che può indurre alla modifica di poetica o alla scelta di percorrere vie nuove.

Quali sono allora i caratteri fondamentali del Novecento letterario italiano? Quanto cioè la
nostra produzione si poi distinguere rispetto ad altre coeve?
Innanzitutto, di grande rilievo è stata a lungo l’interazione fra la lingua nazionale, impostasi
di fatto solo a partire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento, e i dialetti, ovvero le lingue legate
alle tante realtà socioculturali della nazione. Questa dialettica linguistico-culturale dà
origine in molti casi a forme di interferenza e di mescolanza che negli autori maggiori arriva
a quella particolare forma di espressionismo che il già citato Contini considera intrinseco
allo sviluppo della nostra letteratura sin dalle origini e dall Commedia dantesca. E’ però
evidente che la scelta della lingua italiana, ovvero del toscano manzoniano poi
standardizzato, non è mai stata scontata per i nostri autori fino alle generazioni nate nel
secondo dopoguerra; anzi, la difesa dei dialetti implicava spesso un bilinguismo, ben
evidente per esempio in molti poeti del primo Novecento, come Giacomo Noventa.
Dalla seconda metà del secolo, però, la scelta dei dialetti risulta sopratutto difensiva, o per
manifestare la nostalgia di una dimensione socioculturale in via d’estinzione, o per proporre
un’estrema denuncia contro la massificazione e poi la globalizzazione: emblematico il caso
d’un Pasolini che arriva a riscrivere e in parte a distruggere i versi giovanili perché ormai del
tutto fuori tempo rispetto alla terribile “mutazione antropologica” dovuta al capitalismo.
Ovviamente le motivazioni possono essere altre. Ma in generale e indipendentemente dai
risultati, l’intersezione con i dialetti diventa, nel secondo Novecento, molto più affine al
plurilinguismo colto, e basato magari sul rapporto anche con lingue morte, piuttosto che
un’interazione vivace e diretta, che semmai si può cogliere in alcuni tratti dialettali
riassorbiti nei gerghi giovanili, impiegato fa alcuni nuovi poeti e narratori.
Un’altra caratteristica della nostra letteratura è la notevole divaricazione tra i destino della
poesia e quello della narrativa: mentre la prima è senz’altro dotata di una propria
tradizione, che comporta un confronto diretto o indiretto con i grandi modelli; la seconda
appare continuamente rinnovata e di fatto azzerata, tanto che il critico e storico della
lingua Pier Vincenzo Mengaldo ha parlato di costanti “ripartenze” per i nostri scrittori in
prosa. Non è vero, comunque, che non esiste una narrativa italiana di alto valore: essa
semmai si estrinseca più di frequente nel racconto breve o lungo che non nel grande
romanzo. E’ vero però che è difficile che il romanzo italiano svolta una funzione simile a
quella che ha avuto nelle principali nazioni europee e negli Stati Uniti, ossia quella di
proporre una ricostruzione della società nel suo insieme, interpretata negli aspetti
dominanti e caratteristici. E questo avviene non solo per le storiche prevalenze della lirica e
del melodramma sui romanzi nella considerazione dei letterati e nei gusti del pubblico
italiano; bensì anche per l’effettiva difficoltà a ricostruire fenomeni che fossero davvero di
portata nazionale in una lingua che non risultasse immediatamente troppo artificiosa e
personale, oppure che venisse stilizzata sino al virtuosismo.
Nell’ambito della lirica, un tratto distintivo italiano è il rifarsi alla tradizione nazionale e
spesso a quella europea, coniugando un linguaggio aulico oppure antiurico, ma comunque
marcato e poi stilizzato dai singoli, a una dimensione di referenzialità, ossia alla possibilità
di nominare oggetti e situazioni, sia pure caricandoli di sovrasensi simbolici o allegorici.
Questa concretezza di fondo, cui si leva in molti casi un’intensa carica etica, distingue
nettamente l’evoluzione della poesia italiana rispetto a quella francese, e l’avvicina semmai
a quella anglosassone (es. metafisica di Eliot). Va tuttavia precisato che la linea oggettuale
italiana può trovare uno specifico antecedente in Pascoli, e sicuramente s’incarna bene nel
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modello centrale della poesia italiana novecentesca, il Montale degli Ossi e sopratutto delle
Occasioni, dove ben si coglie anche il rapporto con la poesia metafisica anglosassone. E però
fino al secondo dopoguerra i modelli privilegiati erano altri, e prevalevano i due proposti da
Ungaretti, quello costituito dall’Allegria e quello, molto diverso, di Sentimento del tempo.
Nel contempo, sempre negli anni Venti si veniva rafforzando una tendenza antinovecentesca
(cioè ostile ai caratteri sperimentali tipici del primo Novecento), che trovava il suo punto di
riferimento nel Canzoniere di Saba, che poi scriverà alcune delle sue raccolte più dense,
proprio entrando in contatto con giovani più aperti a un confronto con la poesia europea,
come Montale. Ma a partire dalla dine degli anni Cinquanta è la sperimentazione a costituire
la linea dominante nella nostra poesia, sia sul versante della riflessione sul linguaggio e i
suoi limiti, sia su quello della demistificazione teologica della cultura nel senso più ampio
derivata dal sistema capitalistico. Anche in questo caso però i risultati più duraturi non sono
ottenuti dalle forme estreme, bensì dalle elaborazioni attende alla tradizione e pronte a un
rinnovamento molto forte ma non a uno scardinamento.
In sostanza, i tratti fondamentali che si possono sottolineare nella nostra letteratura del
Novecento spingono a individuare, nella scansione cronologica, sovrapposizioni e
intersezioni, che diventerebbero ancora più complicate tenendo conto di altre variabili
significative: per esempio, l’influenza del cinema sulla narrativa scritta, oppure il prevalere
della poesia popolare, o ancora il legame di tutto il teatro italiano con autori che sono
spesso non drammaturghi tout court ma letterari che scrivono anche per il teatro, almeno
sino agli anni Sessanta, quando prendono il sopravvento dapprima attori-autori, e
successivamente figure che coniugano l’esperienza teatrale con quella cinematografa e
visiva in genere.
Queste variabili non risultano esclusive o quasi della nostra letteratura, anzi. Piuttosto,
andrà infine sottolineata, l’importanza della prosa saggistica, che a detta di alcuni
interpreti raggiunge nel Novecento risultati addirittura superiori a quelli della narrativa, sia
per le prove dei numerosi scrittori-saggisti, sia per i saggisti che scrivono opere di ampio
respiro o testi brevi e stilisticamente molto marcati, o accuratamente polemici, o
elegantemente narrativizzati; senza tralasciare i vari critici dotati di una prosa
efficacissima. E non bisogna dimenticare che il saggismo entra a far parte della scrittura di
molti nostri autori, e in particolare di chi ha riflettuto con maggior coerenza e profondità
sulle tragedie etiche e sociali del secolo scorso.

Si propone quindi una partizione della letteratura novecentesca in 5 periodi. Si indicheranno


innanzitutto i possibili spartiacque fra Otto e Novecento, suggerendo alcune date simbolo,
come il 1903 per la poesia, quando giungono al culmine le parabole di Pascoli e D’Annunzio
e si avvia il movimento crepuscolare, o il 1904 per la prosa, quando Pirandello pubblica il
romanzo Il fu Mattia Pascal. Si proseguirà poi segnalando i caratteri fondamentali delle
varie avanguardie o dei movimenti sperimentali italiani: sperimentazioni che contribuiscono
in vario modo ad allontanare la nostra letteratura dalle risonanze ancora decadenti della
ricerca dell’Opera totale, e mettono invece in risalto tratti come l’inettitudine o la volontà
rivoluzionaria dell’io, oppure l’artificiosità delle trame e dei personaggi realistici, sia nella
narrativa che nel teatro. Testi emblematici di questa fase risultano sopratutto l’Allegria di
Ungaretti e I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Siamo negli anni Venti, quando
la spinta propulsiva delle avanguardie, italiane ed europee, tende a diminuire o modificarsi.
Nel frattempo, si è gia consolidata una tendenza a un classicismo paradossale che diventa
lavorìo originale sulla nostra tradizione, per esempio nelle forme in apparenza canoniche di
Canzoniere di Saba o in quelle più variegate degli Ossi di seppia di Montale. Lo stesso
Montale costituisce poi il modello della tendenza per vari aspetti più rilevante nella lirica
del Novecento italiano, quella metafisica o oggettuale. Ciò non toglie che negli anni Trenta
molti poeti privilegiassero invece l’ermetismo, versione italiana del tardosimbolismo, a
volte fuso con elementi del surrealismo. In ambito narrativo, gli appelli a un nuovo realismo
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non incontrano solo un’opposizione del fascismo, ma anche un’effettiva difficoltà a


raggiungere una misura lunga dovendo puntare a una prosa stilisticamente molto elaborata,
quasi “d’arte”. Fu Gadda con la sua Cognizione e ancor più con il Pasticciaccio a superare
tali limiti, proponendo un plurilinguismo e un pluristilismo motivatissimi sulla base della
necessità di indagare gli infiniti aspetti del reale, e quindi di impiegare una mescolanza
barocca in rapporto alla baroccaggine del mondo.
Nel secondo dopoguerra, la fortissima spinta al racconto delle vicende passate si coniuga
con la necessità ideologico-politica di un impegno, sentito in forme diverse da quasi tutti gli
scrittori. Il progressivo rifiuto dell’oscurità ermetica non coincise con un rinnovamento
immediato della lirica, che trovò un nuovo impulso sopratutto a partire dalla seconda metà
degli anni Cinquanta. Forte fu invece il dibattito sulle nuove forme di realismo in narrativa,
che però non produsse capolavori ma, in genere, opere apprezzabili sopratutto sotto il
profilo etico-documentario. Un capolavoro a suo modo realistico, ma fuori dagli schemi più
facili del Neorealismo, sarebbe già in quegli anni il libro di Beppe Fenoglio, scritto tra il
1955-58, Il partigiano Johnny. E’ in questi anni che iniziano a essere rilevanti molti
fenomeni socioculturali che diventeranno poi decisici a partire dai decenni successivi, come
il sempre maggior peso delle città più attive nell’industria editoriale, quali Torino, Milano e
Roma, dove gli scrittori troveranno un ambiente favorevole anche grazie alla produzione
cinematografica e radiotelevisiva.
Dai primi anni Sessanta (1963) comincia una stagione fortemente sperimentale, che solo in
parte coincide con l’attività della neoavanguardia e in specie del cosiddetto Gruppo 63. E’
vero che da questo gruppo nacquero molte delle provocazioni più significative di quegli
anni, ma i risultati migliori vennero da esponenti non allineati su posizioni puramente
distruttive, come Alberto Arbasino o l’outsider Amelia Rosselli. Tuttavia ancora una volta
alcuni degli esiti più alti di questo periodo sono raggiunti da autori che sintetizzano una
formazione variegata e modificata nel tempo, come Mario Luzi (Nel magma), Vittorio Sereni
(Gli strumenti umani) o Andrea Zanzotto (La Beltà).
Poco dopo il passaggio all’epoca postmoderna è in Italia abbastanza rapido. Il primo a
modificare i propri modelli narrativi fu Italo Calvino, abile e limitatissimo narratore, ma
pure acuto interprete delle modificazioni culturali. Ma un successo in parte inaspettato
viene ottenuto dal romanzo che meglio sintetizza le componenti citazionistiche e ipecolte di
un filone del postmodernismo letterario: ci si riferisce a Il nome della rosa di Eco, che dal
1980 e sino alla metà degli anni Novanta ha rappresentato il principale modello di
un’originale concezione del rapporto autore-testo-lettore, non senza conseguenze per gli
sviluppi della nuova letteratura.

15. Tra modernisti e avanguardie

Quando comincia il Novecento letterario italiano? Le date significative si possono


individuare, in letteratura, sulla base della pubblicazione di testi di particolare rilievo. Si
può quindi notare che nel 1903 escono due opere che in un certo senso chiudono la fase
pienamente ottocentesca della nostra lirica: si tratta dei Canti di Castelvecchio di Pascoli e
dell’Alcyone di D’Annunzio. Entrambe le raccolte costituiscono tappe fondamentali nei
percorsi di questi scrittori, che vengono in seguito definitivamente consacrati come i più
autorevoli lirici italiano dopo Carducci.
In sostanza, nei Canti di Castelvecchio Pascoli narrativizza l’impressionismo di fondo delle
Myricae e aumenta la già ampia nomenclatura di oggetti, caricati peraltro di complessi
valori simbolici; nell’Alcyone D’Annunzio porta a compimento le sue elaborazioni sul mito
moderno, creando un’opera che fonde componenti nietzschiane e grandiosa esuberanza
linguistico-retorica. Le novità lessicali e sintattiche, la poetica degli oggetti pascoliana e la
sensualità della parola dannunziana furono rielaborate o, quest’ultima, parodiata in vario
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modo lungo l’intero Novecento. Viceversa, pochi riscontri ottennero le opere pascoliane più
tarde, mentre dell’ultimo D’Annunzio venne apprezzato proprio il momento meno eroico.
L’attraversamento del modello dannunziano, dominante all’avvio del secolo, iniziò a ridosso
del 1903, quando cominciarono ad uscire le prime raccolte dei poeti crepuscolari. Questi
ultimi si rifacevano a modelli tardorealistici italiani e sopratutto a simbolisti franco-belgi,
nei quali si fondevano malinconia e consapevolezza della marginalità della poesia nella
società ormai pienamente borghesi. La protesta contro la mercificazione dell’arte, quindi,
avveniva dal basso piuttosto che attraverso la ricerca di una vita sublime. Fu il maggiore
degli autori di questo gruppo, Guido Gozzano, a sancire la diversità del modello etico e
poetico crepuscolare, che si concretizzava, sopratutto nel suo caso, in una cifra lirica
connotata dall’ironia.
Nel suo insieme il Crepuscolarismo non si configura come una tendenza trasgressiva e di
rottura. Invece, proprio all’inizio del secolo esplodono a livello europeo le cosiddette
avanguardie, movimenti artistici che intendono rompere definitivamente i ponti con le
riforme più tradizionali e di maniera, sia attraverso le opere, sia attraverso le dichiarazioni
di poetica. Alcuni di essi giungono a rifiutare l’arte stessa in quanto istituzione: es. Marcel
Duchamp, dadaismo, scultura la Fontana, Picasso con il cubismo. Tra i maggiori movimenti
d’avanguardia va segnalato l’espressionismo, caratterizzato da una voluta deformazione dei
codici espressivi e dei soggetti delle varie arti, e sviluppatosi sopratutto in Germani a
partire dal 1905 circa. E’ da notare infine che a Parigi, centro principale di tutte le
avanguardie, operavano a inizio secolo numerosi letterati che cominciavano a intersecare
scrittura e grafica (poesia visiva),come nel caso di Apollinaire con i suoi Calligrammi (1918).
Apollinaire fu tra i primi sostenitori del Futurismo, che venne lanciato con provocatori
manifesti nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti: si tratta di un’avanguardia dai tratti
fortemente aggressivi e tecnologici, che ebbe successo legandosi spesso a movimenti politici
rivoluzionari, come il fascismo o il comunismo. Il Futurismo raggiunse una diffusione
capillare in Italia, ma non ottenne in letteratura risultati di grande valore, se non sul
versante delle poetiche. Viceversa, considerevoli furono i risultati ottenuti da altri scrittori
sperimentali italiani più vicini al movimento espressionista ma senza una propensione
spiccatamente trasgressiva, i cosiddetti vociani, legati alla rivista fiorentina “La Voce”,
attiva con diverse serie tra il 1908-16, ma influente in modo indiretto anche in seguito.
Si può già infierire che le tendenze verso la lirica nelle sue diverse forme e la prosa
frammentista sono nettamente più forti rispetto a quelle verso la prosa narrativa.
A ciò si deve aggiungere che nell’ambito della critica più autorevole si andava ormai
affermando il dominio del filosofo neoidealista Benedetto Croce, che pubblicò nel 1902 una
sua monumentale Estetica, dalla quale derivarono varie conseguenze per la valutazione
delle opere letterarie. Fra le principali si può segnalare la distinzione tra la poesie e non-
poesia. In questo modo, si considerava in genere la lirica superiore alla prosa narrativa e, in
ambito poetico, gli ideali classici e tradizionali, incarnati in ultimo da Carducci, superiori
alle tendenze avanguardistiche. Non a caso, Croce giudicò molto severamente quasi tutti gli
scrittori contemporanei.
La subordinazione della prosa narrativa alla lirica non implicò comunque a inizio secolo un
totale rifiuto del romanzo. Innanzitutto va considerata la prosecuzione di alcuni filoni
inaugurati a fine Ottocento, specie quello decadente, con capofila D’Annunzio, del quale
uno dei romanzi più ambiziosi, Il fuoco, esce appunto nel 1900. Si deve poi citare Antonio
Fogazzaro, nel quale permane fondamentale l’intreccio di spiritualismo tormentato e
passionalità raffrenata, non senza incursioni nell’ambito politico ed ecclesiastico. Certo,
perde mordente il filone verista: anche quello che viene considerato un ultimo di questa
corrente, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana (1901), in realtà è debitore quasi più
verso la narrativa di tipo psicologico che non verso quella verista. D’altro canto, si comincia
ad imporre anche in Italia un’editoria, soprattutto milanese, pronta a stampare testi capaci
di raggiungere un vasto pubblico.
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In questo contesto risultava abbastanza rara l’elaborazione di una prosa narrativa


sperimentale o quantomeno originale. Si debbono perciò citare casi isolati, come quello di
Pirandello, già autore a fine Ottocento di opere in quale misura ascrivibili al filone verista,
ma che esce decisamente da questi limiti con Il fu Mattia Pascal (1904): singolare storia di
un cambio d’identità, in cui la riflessione pirandelliana sui limiti dell’io e sulla crisi
dell’individuo in quanto istituzione anagrafico-borghese si coniuga con la riscoperta di un
filone narrativo di tipo umoristico. Se a quest’altezza cronologica la ricoperta di tale filone,
che stava già per essere rivalutato, fu forse dovuta, per Pirandello, più a una propensione
personale che non a contatti con i nascenti movimenti d’avanguardia, sta di fatto che i temi
affrontati dall’autore anche nelle novelle e poi nella produzione teatrale rimasero alcuni di
quelli più essenziali nella cultura primonovecentesca: ciò favorì l’accettazione delle sue
dissonanze di scrittura, viceversa molto contestate all’epoca specialmente da Croce.
L’opera di Pirandello rimase quindi per buon periodo ai margini del sistema letterario
ufficiale; tuttavia, riconosciamo nel suo modo di affrontare temi tipici del disagio sociale e
psicologico, gli stessi oggetti delle coeve analisi di Freud e della nascete psicanalisi. Benché
non manchino le affinità con le avanguardie, i modernisti evitarono di giungere a rotture
radicali con la tradizione e proposero sperimentalismi mai fini a se stessi. Semmai, in Italia
presto le forme di modernismo s’intrecciarono con una forte, ma mai passiva, rivisitazione
della tradizione: è il caso per esempio di Montale.
La fine di questa stagione varia e ricca di fermenti può essere indicata in un lasso di tempo
relativamente ampio. Di sicuro, la prima guerra mondiale costituì un limite e insieme un
banco di prova per molte avanguardie, prima fra tutte quella futurista che, in linea con i
suoi ideali, sostenne decisamente la lotta fra le nazioni europee e che, nel dopoguerra
italiano, fu in prima fila nell’appoggiare il movimento fascista. Molto diversa la reazione di
altri autori, sopratutto vociano-espressionisti, che dopo iniziai entusiasmi rifiutarono
completamente il massacro bellico, proponendo opere intensamente autobiografiche. Si
colloca qui l’opera più innovativa nel panorama della lirica sino alla fine degli anni Dieci,
ossia Allegria di naufragi (1919) di Giuseppe Ungaretti. Con questa raccolta giungimi a un
limite estremo sia l’attenzione alla parola pura, assoluta, sia alla disgregazione metrico
sintattica, praticata dai futuristi, qui motivata dalla necessità di rappresentare una realtà in
frantumi come quella sperimentata dal soldato Ungaretti nelle trincee.
Sul versante del teatro, il vertice della produzione sperimentale viene toccato nel 1921 con
i Sei personaggi in cerca d’autore: Pirandello punta decisamente sulla riflessione
metateatrale e sulla scrittura di testi in cui le sue ossessioni vengono quasi allegorizzate
nella rappresentazione scenica. Qui comincia la fortuna addirittura internazionale del
nostro drammaturgo. Di fatto, con in primissimi anni Venti si avviò a conclusione una fase
variamente sperimentale della nostra letteratura, che diede ancora frutti, ma non fu più
dominante, sia per esaurimento interno, sia per i vincoli imposti poi dal fascismo.

Una prima tendenza della lirica italiana che si comincia a staccare dal filone
tardosimbolista-decandente è quello del Crepuscolarismo. Il termine fu coniato dal critico
Giuseppe Antonio Borgese per indicare più un atteggiamento spirituale, e quindi un campo
dell’immaginario poetico, che non un preciso gruppo di autori: infatti, il Crepuscolarismo
non è un grippo coeso, bensì un movimento diramato in varie regioni d’Italia, non senza
differenze tra le maggiori varianti. Tale atteggiamento si basa sulla consapevolezza della
lateralità della poesia nella società borghese-capitalistica, che comporta non un tentativo
estremo di riscatto attraverso l’autoesaltazione e la ricerca di una vita inimitabile, ma il
restringimento della propria prospettiva vitale alle piccole cose quotidiane, alla banalità
accettata ora con malinconia, ora con ironia. A questi aspetti di lega l’uso di un linguaggio
ordinario, al limite del denotato, oppure con un voluto abbassamento dell’aulico fatto
scontrare con il prosaico, con effetti ironici. Di certo, la poesia delle piccole cose aveva
trovato un’anticipazione nella poesia realistica della tarda Scapigliatura e poi in Pascoli, ma
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anche nel filone del simbolismo franco-belga. I crepuscolari però rinunciano a investire di
valori simbolici gli oggetti quotidiani, e semmai li nominano e li descrivono in quanto
espressioni di una cultura sempre più emarginata, oppure di una sensibilità piccolo-
borghese, legata alla difesa di un microcosmo volutamente al di sotto di quanto
richiederebbe l’attivissima società commerciale primonovecentesca. Ecco quindi che il tema
dell’inettitudine diventa basilare per la costruzione dell’io poetico crepuscolare, che
rivendica la sua incapacità di vivere grandiosamente, di superare la meschinità borghese
come l’esteta D’Annunzio, agli occhi dei crepuscolari esempio di falsità artistica/morale.
Fra i primi poeti a distinguersi nel filone crepuscolare va ricordato il romano Sergio
Corazzini (1886-1907). Nelle sue poesie, fra le quali spicca Piccolo libro inutile (1906),
prevale il sentimento doloroso dell’impossibilità di fare poesia, e la rivendicazione di una
sincerità che porta al rifiuto degli artifici retorici. A ciò si accompagnano una scelta metrica
piuttosto semplice (v. 11/7, sonetti..) e un uso linguistico-stilistico del tutto medio,
pressoché privo di punte elevate o di preziosismi.
In poeti come il ferrarese Corrado Govoni (1884-1965) e il cesenaticese Marino Moretti
(1885-1979), prevale invece l’elencazione monotona di oggetti e di situazioni prive di
rilevanza. Anzi, nel primo il catalogo risulta la forma poetica preferita, tanto che molte
delle poesie della sua prima fase si configurano come lunghi elenchi. In Moretti, che come
altri autori di questo periodo trova a Firenze la cassa di risonanza per la sua produzione, e
che dopo varie prove giunge a un primo rilevante risultato con Poesie scritte col lapis
(1910), predomina invece la sottolineatura del vuoto esistenziale, per cui la poesia ha la
funzione di dire il “niente da dire” ormai rimasto ai poeti.
Una via distinta dalle precedenti viene invece battuta dal torinese Guido Gozzano
(1883-1916), il quale ripropone i temi già visti in una chiave ironica, riuscendo così a
demistificare le mitologie del sublime simbolistico-decadente. L’io delle raccolte gozziane
rifiuta decisamente di atteggiarsi a “gabrieledannunzio”, rivelandosi invece come “un coso
con due gambe/ detto guidogozzano”. L’abbassamento del nome proprio a nome comune
indica emblematicamente il raggiungimento del nadir, della posizione opposta allo zenit del
sublime “io” dannunziano. Ma appunto si tratta di antisublime o di sublime dal basso: in
Gozzano non si trova solo la rinuncia o il grigiore, ma la rivendicazione a suo modo etica del
doversi distinguere dai miti già romantici e decadenti. E non a caso, la “vergogna” della
poesia viene rappresentata attraverso un’elaborazione stilistica e metrica corrosiva, che
riprende versi tradizionali, ma li tratta con voluta libertà, e con un gusto per il paradosso.
Insomma, Gozzano riscatta la sua posizione mettendo in rilievo la falsità di quelle
superomistiche in voga, grazie anche a un gioco raffinato e in parte caustico con la
tradizione letteraria. Fra i temi che meglio rappresentano questo insieme si può citare
quello dell’eros: in Gozzano, l’eros o viene del tutto evitato e bloccato sul nascere, oppure
viene solo ipotizzato, in rapporto a donne irraggiungibili, oppure viene ridotto ad avventura
prosaica con modeste servette.

La prima e più consapevole avanguardia letteraria in Italia è il Futurismo, che peraltro


nasce in rapporto alle tendenze sperimentali più avanzate d’Europa, quelle parigine. E’ a
Parigi infatti che si forma Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), l’ideatore delle
formidabili eversioni futuriste e il punto di riferimento di esperienze artistiche varie. Ed è a
Parigi che, con l’aiuto di Apollinaire, esce uno dei primi Manifesti del Futurismo, pubblicato
sul “Figaro” il 20 feb 1909. In esso Marinetti pone in rilievo alcuni dei punti essenziali della
poetica futurista: prima di tutto, il rifiuto totale di ogni forma di tradizione, l’accettazione
del presente fatto di macchine e di velocità, di forza e di violenza, e insieme una spinta
verso il futuro in quanto espressione di un movimento incessante e rivoluzionario.
Specie in ambito letterario, le indicazioni di poetica appaiono più interessanti dei risultati
degli autori futuristi. Del resto la teorizzazione artistica risulta una parte integrante
dell’opera in tutte le avanguardie. Ecco quindi che i manifesti del Futurismo, molto spesso
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promossi o avallati da Marinetti, si susseguono sempre più ripetitivamente fino agli anni
Quaranta, quando il movimento, che dopo la prima guerra mondiale si era avvicinato al
fascismo, diventando una delle forme d’arte del regime, esaurì definitivamente la sua
azione. Col tempo, il Futurismo provò a proporre i suoi oltranzismi su tutti i fronti della
letteratura, ma il primo settore di sperimentazione fu la poesia, sulla quale Marinetti
espose alcune sue precise riflessioni in un ennesimo Manifesto del 1912: in esso si teorizzava
l’eversione sintattica, l’abolizione degli aggettivi e degli avverbi nonché della
punteggiatura, mentre doveva dominare l’uso dell’analogia, intesa come “l’amore profondo
che collega le cose distanti”. L’immaginario doveva essenzialmente rientrare nell’ambito
tecnologico e non in quello naturalistico.
In concreto, Marinetti raggiunge i risultati più interessanti della sua sperimentazione con le
“parole in libertà”, ovvero con la creazione di composizioni tipografiche in cui le parole
sono accostate senza precisi nessi sintattici, e spesso disposte a formare figure di oggetti: è
il caso di Battaglia Peso+odore (1912) e sopratutto del “poema parolibero” Zang Tumb Tumb
(1914), nei quali la violenza della guerra si estrinseca appunto nella grafica, nonché nella
scelta di parole onomatopeiche e spesso prive di una semantica codificata. Con le “parole in
libertà” si portava agli estremi l’eversione rispetto alla poesia canonica, gia iniziata dai
sostenitori del verso libero fra Otto e Novecento, come Gian Pietro Lucini (1867-1914). Negli
anni successivi alla prima guerra mondiale, le sperimentazioni marinettiane risultano meno
sorprendenti e poi per così dire obbligate. Altri tentativi furono compiuti da alcuni dei
seguaci più fedeli, Luciano Folgore (1888- 1966) e Paolo Buzzi (1874-1956).
In realtà le opere più significative del Futurismo vengono da altri autori, e addirittura da
tendenze almeno in origine distinte da quella marinettiana. Infatti, se la prima diffusione
del Futurismo avviene in Italia, a Milano, dove operano pure i maggiori pittori del
movimento, abbastanza presto si fa strada una variante che ha come baricentro la colta
Firenze, punto di convergenza di numerosi filoni letterari, dove già operava lo scrittore e
intellettuale Giovanni Papini (1881-1956), e dove iniziarono la loro attività un artista e
scrittore quale Ardengo Soffici (1879-1964) e un autore poliedrico come Aldo Palazzeschi
(1885-1974). Soffici è un valido sperimentatore con il suo BIF§ZF+18. Simultaneità e
chimismi lirici (1915), nel quale si coglie bene l’intersezione con l’attività pittorica, nonché
la conoscenza delle contemporanee prove di Apollinaire. Palazzeschi approda al Futurismo
dopo esordi di ascendenza pascoliano-crepuscolare, in questo seguono un percorso analogo a
quello del già citato Govoni. Ma l’approdo è dovuto a una carica eversiva e tendenzialmente
beffarda, che appare intrinseca a questo autore più che acquisita per ragioni di poetica: ne
è prova la raccolta più innovativa e fortunata di Palazzeschi, L’incendiario (1910), che
contiene anche la celebre E lasciatemi divertire!, dove il poeta appare come uno strambo
individuo, il quale dissacra con i suoi versi brevissimi,e spesso con puri “suoni-sberleffi”,
l’idea canonica di lirica. Prevalgono quindi forme libere, che si avvicinano in qualche caso al
nonsense, o che raccontano vicende grottesche di personaggi stravaganti. Le pulsioni
anarchiche implicite in questi testi si colgono adeguatamente pure in opere successive,
come per il gruppo di testi narrativi dedicati a “l’omino di fumo” Perelà (1911), o il diario-
manifesto del Controdolore (1914). La sostanziale anarchia palazzeschiana si conferma nel
1914, quando rifiuta di sostenere l’interventismo e si apparta dal gruppo. Negli anni
successivi, Palazzeschi adotterà forme molto più tradizionali, prima di ricapitolare nel suo
percorso comico-satirico-parodico con Il buffone integrale (1966).
Nel complesso, il Futurismo si configura come il più forte tentativo di rifiutare
integralmente le forme tradizionali mai effettuato in Italia, tanto che la sua diffusione
risulterà capillare. La sua latenza ideologica è evidente: il disprezzo della borghesia si
esplicita qui non in forme estetizzanti, ma in volute riduzioni del linguaggio alla sua essenza
energetica, sostanzialmente deprivato delle risonanze acquisite nel tempo. Questa tecnica
comportò l’abbandono di lirismi più patetici e dell’eccessiva sovraesposizione dell’io, ma
alla lunga non poteva non cadere nella ripetitività del gesto distruttivo e dissacrante.
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Nonostante i limiti, il Futurismo fu capace di affiancarsi alle principali correnti


d’avanguardia europee, trovando una rielaborazione nel cubofuturismo russo, poi assunto,
dopo il 1917, come arte ufficiale dal primo comunismo rivoluzionario, in particolare con
l’attività del grande poeta Vladimir Majakovskij.

Confrontabile con la grande europea appare un filone della letteratura italiana del primo
Novecento definito Espressionismo. Gianfranco Contini considerava l’espressionismo una
vocazione della nostra letteratura sin dalle origini, e in particolare da Dante, che nella
Commedia impiegava vocaboli derivati da varietà dialettali non toscane, termini popolare
insieme a termini aulici ecc. L’uso di molteplici varietà linguistiche dell’italiano e di una
sintassi spezzata e complessa, si ritrova in numerosi autori degli inizi del secolo, che si
potrebbe confrontare con quelli dell’espressionismo propriamente detto, cioè il movimento
di avanguardia sviluppatosi a partire dal 1905 e diffusosi sopratutto in Germania. Tuttavia,
tra la linea espressionista italiana e l’espressionismo avanguardistico si notano affinità ma
anche differenze: la più vistosa è che il secondo affronta molto più direttamente i grandi
temi della modernità primonovecentesca, ed è perciò assai attento alle problematiche
politico-rivoluzionarie.
Molti degli autori inservibili nel filone espressionista italiano collaboravano con la rivista
fiorentina “La Voce”, che pubblicò molti giovano autori ancien volumi autonomi. La
scrittura dei vociani si esplicitava sopratutto nella forma del frammento, ovvero in testi
brevi e intensi, dalla forte evocatività e dalla tensione di tipo lirico pure quando veniva
impiegata la prosa. Spesso lo scopo era quello di scavare nell’interiorità spirituale. In questa
prospettiva, uno dei più rappresentativi fra i vociano è Clemente Rebora (1885-1957), che
manifestò nelle sue raccolte poetiche Frammenti lirici (1913) e Canti anonimi (1922) una
propensione all’analisi esistenziale acuta quanto drammatica: la sua forza è dovuta all’uso
all’uso di un linguaggio aspro e denso, sicché riprese colte e neologismi si inseriscono in una
versificazione molto martellato, ricca di rime ravvicinate e di frequenti ripetizioni. Vengono
così raggiunti effetti fonici di intensità addirittura violenta, che si accompagnano a una
percezione sofferta dell’insignificanza del vivere.
Fra gli altri autori vociani, meritano di essere ricordati almeno Giovanni Boine (1887-1917) e
Pietro Jahier (1884-1966). Il primo fu un critico molto battagliero, ma viene ricordato in
particolare per i suoi esperimenti di poemi in prosa, ovvero testi che, sulla scorta dei
modelli francesi di Baudelaire e Rimbaud, tendono a esprimere sentimenti lirici in frasi
brevi e intense, prosastiche ma scandite da una forte ritmicità (Frantumi 1915). Jahier,
invece, impiegò spesso in alternanza poesia e prosa, incrociando un forte impegno etico e
civile con un rigorismo religioso, che lo portò a affrontare la prima guerra mondiale con un
sentimento di fratellanza nei confronti dei soldati in trincea (raccolta Poesie 1964).
All’ambiente vociano si accostò pire Dino Campana (1885-1932), nella cui opera principale, i
Canti orfici (1914), si colgono tuttavia molteplici influssi, da quelli derivati dai poeti
maledetti francesi ad altri di matrice futurista, mentre non mancano tracce di
un’eccentrica conoscenza dei classici, sino alla triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio. I
Canti orfici vogliono collocarsi nell’alveo dell’orfismo, ovvero una poesia sostanzialmente
simbolista, che mira a evocare significati profondi e nascosti dietro la superficie della
realtà. La propensione visionaria si smorza però in una più consueta attitudine al visivo: in
effetti sono frequenti in Campana i testi che prendono spunto da paesaggi o da dipinti, per
tentare una rappresentazione nella scrittura. A livello stilistico il libro, che contiene testi in
versi e altri in prosa lirica, presenta alcuni tratti ricorrenti, per esempio l’uso insistito
dell’anafora e in generale delle figure di ripetizione, per creare un ritmo quasi onirico.
Testo dalla storia travagliata, i Canti orfici raggiungono i risultati più alti in poesie come
Genova, dove il gusto visionario incontra quello visivo, e la ricerca della potenza vitale si
coniuga con una percezione finale dell’impossibilità della sua durata, mentre l’io-poeta
resta solo nella “infinitamente occhiuta devastazione” della “notte tirrena”.
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Poco vistose infine sono le tracce espressioniste-vociai in Camillo Sbarbaro (1888-1967), che
pure pubblicò uno dei suoi libri più riusciti, Pianissimo (1914), per le edizioni della “Voce”.
In realtà il dettato dei suoi versi risulta quasi privo di punte oltranziste, ed è segnato da una
nettezza a suo modo classica, che conferisce perentorietà ed efficacia. Pianissimo presenta
numerosi testi rivolti a un interlocutore oppure al poeta stesso: ciò sottolinea la volontà di
manifestare le riflessioni interiori, spesso scaturite da eventi occasionali. Lo scavo etico
contraddistingue i testi di Sbarbaro che, pur presentando affinità con alcuni vociani o
crepuscolari, trova in Leopardi il modello prediletto. Egli costituirà un punto di riferimento
per poeti più giovani, sopratutto per Montale.

Giuseppe Ungaretti (1888-1970)


Nel campo delle sperimentazioni di matrice avanguardista si colloca in prima istanza l’opera
di Giuseppe Ungaretti. Ungaretti visse a lungo ad Alessandria d’Egitto, e poi studiò a Parigi
tra il 1912-14, entrando in contatto con molti esponenti delle avanguardie, in particolare
con Apollinaire. Nella sua formazione interagiscono interessi letterari ma anche politici, che
indussero il giovane a partecipare alla prima guerra mondiale: esperienza traumatica e
definitiva spinta alla scrittura poetica, che portò a un esito folgorante con Il porto sepolto,
uscito a Udine nel 1916 mentre l’autore era ancora al fronte. Al termine del conflitto,
Ungaretti strinse rapporti sempre più forti con l’ambiente fiorentino, dove nel 1919 uscì
Allegria di naufragi, e poi con quello di Roma, dove si trasferì, aderendo al fascismo. Tra gli
anni Venti e Trenta, il poeta fece sue molte istanze del regime e del cattolicesimo,
riadattando nei suoi versi una mitologia di forte importanza nazionalistica e religiosa, e
tornando a impiegare una metrica più canonica e immagini di un denso simbolismo,
specialmente nella sua seconda raccolta, Il sentimento del tempo (1933). Tuttavia le sue
raccolte poetiche non ottennero consensi pari alle prime, sebbene il grande progetto
intitolato Vita d’un uomo, che doveva raccogliere la sua opera omnia, sia continuato sino
alla morte.

L’Allegria è il libro poetico più rilevante della fase primonovecentesca. La sua gestazione fu
piuttosto elaborata: al nucleo costituito dal Porto sepolto (1916), si aggiunsero varie sezioni
nell’edizione uscita a Firenze col titolo Allegria di naufragi (1919): questa raccolta sarà poi
sottoposta a numerosi varianti nel 1931, assumendo il titolo definitivo di L’Allegria. Le forti
novità della versificazione ungarettiana sono evidenti già nel Porto sepolto. In primo luogo,
alla poesia viene riassegnata un’alta funzione, di ascendenza simbolista, e comunque
lontana tanto dell’ironia o malinconia crepuscolare, quanto dall’oltranzismo vitalistico
futurista benché componenti futurista agiscano in parte di Ungaretti.
La guerra è il tema dominate della raccolta, ma ricorrono anche altri motivi legati ad essa:
- lo sradicamento, che rappresenta la condizione del suicida M.Sceab (In memoria), ma
anche quella del poeta stesso e di tutti gli altri soldati in trincea. Anzi, l’esperienza della
guerra vissuta da Ungaretti diviene parametro dell’esperienza di tutti: il poeta esprime la
condizione collettiva dei combattimenti e dà voce al loro punto di vista;
- il ricordo dell’Egitto, che riemerge a tratti, collegandosi alla ricerca di un radicamento e
di un’origine;
- la natura, nella quale l’io ricerca un senso per la condizione umana: tra soggetto e natura
s’instaura un dialogo intimo;
- la parola poetica, che diventa tema esplicito in numerosi testi: essa consente a Ungaretti
di riconoscere la propria identità, dare senso all’esperienza, di avvertire su di sé il valore
collettivo delle vicende storiche e di riscattarne il significato.
Da un lato il poeta lascia attorno alla parola un alone di indefinitezza e di mistero,
dall’altro, mira a potenziare l’espressività del singolo verso. Entrambe si affidano alle stesse
soluzioni formali. Infatti, le “parola-verso” valgono, da un lato, a valorizzare l’espressività
del singolo termine, dall’altro costruiscono attorno a ogni vocabolo un eco di mistero e di
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assoluto.| La compattezza del Porto sepolto viene in parte persa con Allegria di naufragi,
raccolta nella quale confluiscono numerosi nuovi testi, compresi alcuni in prosa, mentre
quasi tutti quelli gia editi subiscono rimaneggiamenti. In questa nuova raccolta, Ungaretti
accentua l’uso dell’analogia e delle metafore ardite, eliminando molti elementi troppo
cronachisti del Porto e lasciando spesso le parole isolate; la sintassi viene semplificata al
massimo, in modo che di frequente le poesie risultano costituite da una serie di frasi,
spezzate in microversi e senza punteggiatura o quasi. Sebbene l’antecedente di questi
procedimenti possa essere rintracciato nelle teorie futuriste, il risultato appare diverso, non
essendo lo scardinamento beffardo dell’istituzione letteraria lo scopo di questa eversione,
bensì quello di ridare un senso forte all’esperienza di un singolo individuo, poeta-soldato
sofferente e insieme poeta-evocatore e creatore di immagini dalla metaforicità ardita e
sublime. Va notato che i procedimenti stilistici sono scelti da Ungaretti in rapporto alle
potenzialità linguistiche: nelle sue liriche in francese, coeve a quelle italiane e spesso
autotraduzioni, alcuni testi sono ridotti a una semplice frase in prosa lirica, mentre
risultano ancora più elaborati la disposizione grafica e l’uso degli spazi bianchi.

Nelle versioni successive dell’Allegria (’31-’42) Ungaretti tenderà a ridurre gli oltranzismi e
a riportare molti versi a una scansione più piana. Si tratta di un segnale sintomatico: il
poeta ha compiuto una parabola esistenziale che l’ha portato non solo ad aderire al
fascismo e al cattolicesimo, ma anche a riscoprire l’importanza della tradizione letteraria
italiana ed europea. Già nella seconda raccolta, Sentimento del tempo, il gusto per
l’analogia tende a farsi più manierato, ricco di risonanze raffinate che derivano da
un’attenta lettura du Petrarca e Leopardi; nel contempo si attenuano i riferimenti
all’esistenza vissuta. La poesia assume un valore sublime in sé e tende a creare miti e
metafore preziose, al limite del barocco. Anche la metrica viene ricondotta a misure
consuete, mentre il lessico risulta depurato. Insomma, il Sentimento appare come la
prosecuzione di alcune linee di forza già attive dell’Allegria, ma non può nascondere la
perdita della dimensione esistenziale-tragica, nonché di quella più sperimentale. Molto
forte è invece la dimensione mitologizzante, non solo per il confronto diretto con miti
antichi, ma anche per la presenza di figure vicarie, che rappresentano in maniera mediata
la condizione del poeta.
Nelle sue opere successive Ungaretti mantiene un tono in genere retoricamente elevato,
sebbene tornino a volte in primo piano drammi personali, come la morte del figlio, che
costituisce uno dei temi fondamentali de Il dolore (1947), e in particolare delle sezioni
Giorno per giorno e Il tempo è muto; ma pure i drammi del secondo conflitto mondiale
emergono in testi come Mio fiume anche tu, sorta di appendice al celebre e autobiografico
I fiumi del 1916. In realtà però, Ungaretti aveva iniziato sin dal ’35 un’altra raccolta, La
terra promessa, che doveva costituire la terza tappa del suo poema complessivo: il testo
però esce solo nel 1950 come insieme di frammenti in cui si fondono miti antichi e
virtuosismi barocchi. Le raccolte successive, che in parte proseguono i temi delle due
precedenti, sono in genere state considerate minori. In generale, si chiudono qui alcuni
percorsi tematici e simbolici presenti sin dai componimenti giovanili di Ungaretti, sino al
trionfo del ricordo e della vita sulla morte, in una sorta di nuova mitologia a forte caratura
religiosa. Tutti i componimento ungarettiani vengono a formare un intero canzoniere,
intitolato Vita d’un uomo: nel volume del 1969 furono raccolte le poesie, accompagnate da
introduzione e note dell’autore, dall’apparato delle varianti, nonché da interventi critici.
Alle poesie furono poi affiancati i saggi e gli interventi critici di Ungaretti: molto spesso si
tratta di contributi assai utili per capire l’evoluzione della poetica di questo autore. Una
menzione a parte meritano le traduzioni: se il rispetto dell’originale è a volte eccessivo, a
volte troppo superficiale, si può constatare che in molti casi è notevole la resa sopratutto di
metafore e analogie ardite.

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Rispetto alla poesia, il quadro della narrativa italiana appare molto più vario e privo di linee
davvero permanenti. Ciò corrisponde a una situazione di fatto: la narrativa, si presenta in
Italia dotata di una tradizione molto meno forte rispetto alla lirica, e comunque dominata
per lungo tempo dal modello dei Promessi sposi. Nel primo Novecento continuano a
occupare la scena della narrativa più stimata e venduta autori come D’Annunzio e
Fogazzaro, mentre si fanno notare scrittori adatti a un’editoria di massa, e il cui principale
esponente si può dire sia Edmondo De Amicis. Non mancano opere che intersecano la grande
tradizione del realismo-verismo ottocentesco con una nuova sensibilità per gli aspetti
inconsci o primordiali della psiche: in quest’ottica, rappresentativi sono i romanzi di Grazia
Deledda (1871-1936), il migliore dei quali è considerato Canne al vento (1913). Ma la critica
tende oggi a individuare i testi più significatici fra quelli di Pirandello che si propone sin dal
1904 come sperimentatore e precorritore di alcune soluzioni metanarrative con Il fu Mattia
Pascal. D’altra parte, la scrittura di tipo espressionista trova alcuni esponenti significativi
pure nella prosa di racconti o romanzi, come quelli di Federigo Tozzi.

Federigo Tozzi (1883-1920) e i prosatori


Nel panorama della narrativa primonovecentesca vanno ricordati autori che hanno
privilegiato la prosa di carattere espressionista, ricca di asperità e di vocaboli rari. In
generale gli scrittori espressionisti hanno impiegato il frammento o il poema in prosa,
ovvero una prosa di tipo lirico. Viceversa, Enrico Pea (1881-1958) usa il vernacolo in
funzione antidillica, componendo per oltre vent’anni una tetralogia di romanzi brevi poi
raccolta con titolo Il romanzo di Moscardino (1944); mentre Lorenzo Viani (1882-1936)
impiega toni grotteschi per descrivere vite di emarginati. Forte in questi e in altri autori
toscani coevi è la componente anarchica, che del resto contraddistingue molti scrittori
espressionisti di questa fase.
La narrativa di tipo espressionista attualmente più stimata è quella di Federigo Tozzi. Dopo
un’adolescenza segnata dal dispotismo del padre e dai dissenti finanziari della famiglia,
Tozzi arriva nel 1913 alla scrittura del suo primo e notevole romanzo, edito nel 1919 col
titolo Con gli occhi chiusi. La storia in sé appare piuttosto semplice, di grande efficacia è
sopratutto la resa narrativa, basata su un accostamento di rapidi quadri, spesso
caratterizzati da punti di vista diversi, a volte deformanti, mentre il normale flusso
temporale risulta sconnesso. Questi aspetti sottolineano la dimensione psicologica del
racconto: Tozzi, oltre ad aver studiato Freud, conosce molto bene le teorie dello
statunitense William James sul “flusso di sensazioni” che va a formare la psiche umana.
Ecco allora che il racconto può essere interpretato come una sorta di resoconto delle
sensazioni provate da protagonista quasi “con gli occhi chiusi”, ossia in uno stato incerto fra
realtà e idealizzazione. Le componenti oniriche e fortemente drammatiche si sostanziano di
uno stile secco e nervoso, ricco di toscanismi arcaici.
In altri romanzi, come Tre croci e Il podere (1918), la costruzione narrativa risulta più
tradizionale, ma i temi vengono ancora trattati con potenza ed efficacia. In entrambi
domina il senso di un destino inevitabile, di una colpa che i protagonisti devono scontare,
sino ad arrivare all’autodistruzione. Il sondaggio del “mistero” dell’anima umana si coniuga
con un fatalismo di origine prima autobiografica e poi religiosa. Sono le novelle a esplicitare
le componenti violente nei rapporti interpersonali: nella raccolta Giovani sono frequenti le
azioni direttamente o indirettamente brutali, narrate con nettezza ma non senza un gusto
grottesco-deformante.

Il teatro italiano nei primissimi anni del Novecento risulta ancora legato a schemi realistico-
veristi: es. nel 1900 viene rappresentato Come le foglie di Giuseppe Giacosa (1847-1906), un
dramma borghese interessante ma certo non innovativo sul piano della tecnica. Continua
semmai il successo del genere teatrale più fortunato in Italia, il melodramma, che trova in
Giacomo Puccini (1858-1924), coadiuvato dallo stesso Giocosa e da Luigi Illica come
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librettisti, un autore di raffinata sensibilità melodica, giunta a una dei suoi vertici con Tosca
(1900), cui seguiranno Madama Butterfly (1904) e da ultimo Turandot, lasciata incompiuta
nel 1926. Non va infine dimenticato il successo del teatro dannunziano, che peraltro non
raggiunse mai in vertici della lirica e della narrativa. Un tentativo di innovazione violenta e
avanguardistica viene per il teatro dai futuristi, che proponevano testi “in libertà”, parodie,
battute satiriche o paradossali, insomma tutto l’armamentario più adatto a scandalizzare il
pubblico borghese. Più duraturi i risultati di autori ricollegabili all’espressionismo per l’uso
di una teatralità “grottesca”, fra i quali va citato almeno Pier Maria Rosso di San Secondo
(1887-1959) con il suo Marionette, che passione! (1917-18). Ma un’innovazione forte arrivò
sopratutto con i drammi più sperimentali di Pirandello.

Luigi Pirandello (1867-1936)


Luigi Pirandello nasce ad Agrigento e studia tra Palermo e Roma, dove conosce l’autorevole
critico e scrittore verista Luigi Capuana. La vocazione letteraria si manifesta con la
pubblicazione di libri di poesie, alla quale fa seguito, nel 1891, una laurea a Bonn; in
Germania, Pirandello approfondisce la sua conoscenza di autori come Goethe e
Schopenhauer. Tornato a Roma, inizia a scrivere con continuità, sopratutto saggi, novelle e
romanzi: ma i dissesti economici e la malattia mentale della moglie segnano fortemente
questa fase. A partire dall’inizio del Novecento, concentra la sua riflessione su temi
essenziali del suo tempo, come il rapporto tra scienza e arte, e poi a poetiche in apparenza
eccentriche come quella dell’umorismo, cui dedica un fondamentale saggio nel 1908.
Pirandello diventa un narratore di successo e poi un drammaturgo acclamato. La sua
adesione al fascismo nel 1924 non fu priva di contrasti, che peraltro non impedirono la sua
affermazione come autore sperimentale, premiato addirittura con il Nobel nel 1934.

Gli esordi e “Il fu Mattia Pascal”: Dopo varie prove poetiche, Pirandello iniziò a scrivere
novelle e romanzi quali L’esclusa (1901) e Il turno (1902). In queste opere si colgono già
alcuni spunti sintomatici della poetica pirandelliana, come l’impossibilità di stabilire verità
oggettive o la necessità di cogliere i lati nascosti delle varie personalità, superando le
apparenze e le finzioni. La propensione pirandelliana alla costruzione di intrecci in cui il
caso strano diventa occasione per un’analisi netta e originale della psicologia e più in
generale della stessa natura umana viene poi a incontrarsi con un’ampia riflessione sulle
caratteristiche della scrittura umoristica, nata agli inizi del Novecento e subito
concretizzatasi in un innovativo romanzo, Il fu Mattia Pascal (1904).
Questo romanzo è l’opera con cui Pirandello abbandona sostanzialmente le strutture
naturaliste-verista, per sperimentare intrecci inconsueti, che certamente debbono qualcosa
alla narrativa umoristica (Sterne). Proprio la stravaganza della vicenda costituisce la base
umoristica che permette a Pirandello di porre in evidenza alcuni suoi temi fondamentali. Il
primo è quello del contrasto insanabile tra la vita e la forma che il singolo individuo è
costretto ad assumere, in primo luogo a causa delle convenzioni sociali. Collegabile al tema
precedente, è il contrasto fra la persona coerente e compiuta, che ciascuno dovrebbe
essere, e il ruolo di personaggio (maschera) che invece ognuno assume nella società. Mattia
cerca di usciere da suo primo ruolo, ma è costretto a prendere un’altra maschera, che di
nuovo lo vincola: il suo atteggiamento finale però corrisponde a quello più tipico
dell’umorista, che guarda l’esistenza propria e altrui con distacco, non accettando di dare
un ordine alla vita perché “la vita non conclude”, e comprendendo che ogni certezza,
persino quella della propria identità, è relativa. Del resto, il relativismo viene indicato sin
dalla Premessa seconda (filosofica) come la condizione tipica dell’uomo moderno. I temi e
la struttura fanno usciere fortemente Il fu Mattia Pascal dal tardoverismo dei romanzi
precedenti, permettendo di collocarlo fra quelli sperimentali primonovecenteschi. Al fondo,
si colgono nel testo le componenti della poetica pirandelliana più tipica: l’antipositivismo e
l’antirazionalismo, cui si contrappongono la tendenza al vitalismo e l’interesse per le pieghe
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oscure della psiche, e addirittura per la teosofia e l’occultismo. E’ senza dubbio il rifiuto
della concezione realistico-naturalistica del romanzo, con trame ben costruite e personaggi
credibili, a costituire l’elemento più rilevante del Fu Mattia Pascal: la scomposizione del
personaggio proseguirà nella principale narrativa pirandelliana e diventerà essenziale pure
nella fase più innovativa del suo teatro. Quanto alla poetica umoristica, la sua esplicitazione
avviene alcuni anni più tardi nell’ampio saggio intitolato L’umorismo (1908), nel quale si
trova la celebre distinzione tra il comico, che porta al solo “avvertimento” degli aspetti
inconsueti dell’esistenza, e l’umorismo, che invece va a scavare nelle motivazioni profonde
di situazioni buffe o grottesche, puntando al “sentimento del contrario”.
I romanzi successivi: Nei romanzi scritti dopo Il fu Mattia Pascal Pirandello approfondisce
vari aspetti della sua poetica. Si deve ricordare innanzitutto I vecchi e i giovani (1909-13),
riguardante l’Italia postrisorgimentale, fra scandali e arrivismi, nel quale l’analisi sociale si
coniuga con una critica implicita dello storicismo assoluto, perché la storia, come la vita,
“non conclude” e non è mai definitiva. Il successivo Si gira.. (1915, poi Quaderni di Serafino
Gubbio operatore) tratta del rapporto uomo/macchina attraverso il diario di un operatore
cinematografico, che non riesce più a parlare a causa di un trauma subito mentre veniva
girata una scena: si colgono vari spunti adatti al teatro, mentre la riflessione
sull’onnipotenza delle macchine approfondisce quella sulle some che sclerotizzano e
alienano la vita (saggio Arte e scienza 1908). Ultimo e ormai tardo romanzo pirandelliano è
Uno, nessuno e centomila (1926). Il tema della mancanza di un’identità certa viene qui
portato fino alle estreme conseguenze: il protagonista, Vitangelo Moscarda, dopo essere
stato sconvolto dalla scoperta che i suoi conoscenti lo vedono in “centomila” modi diversi
da come lui si percepisce, non solo accetta la disgregazione della sua individualità, ma
cerca di annullarsi per uniformasi al ritmo della natura-madre. Si colgono qui gli effetti
delle propensioni antirazionalistiche, già presenti in altre opere, che sembrano coniugarsi
con spunti derivati dalle filosofie orientali.
Le novelle: Alla narrativa breve Pirandello si dedicò sin dal 1894, mentre nel 1922 progettò
le Novelle per un anno, che dovevano riunire durra la sua produzione in 24 volumi. Ne
vennero composti solo 15: un gruppo assai consistente, al cui interno si possono riconoscere
caratteri, temi e strutture molto differenziati, essendo individuabili novelle comiche,
drammatiche, surreali, umoristiche ecc. Sono valutati positivamente sopratutto i testi nei
quali le riflessioni pirandelliane si concretizzano in eventi assurdi o imprevisti: è il caso di
La carriola. L’assurdità dei comportamenti dei singoli e in genere dell’esistenza stessa
emerge con forza in numerose novelle, dominate dalla volontà di demistificare i luoghi
comuni, le verità consolidate: a questo scopo, in alcuni casi vengono adottati punti di vista
straniati, per esempio, in La rallegrata, quello dei cavalli. Non mancano comunque tesi
godibili per la loro immediatezza descrittiva, specie quelli di ambientazione siciliana, come
la beffa raccontata in La giara o il duro mondo delle miniere di Ciaula scopre la luna. La
scrittura è volutamente media ma non priva si preziosismi, specie di toscanismi rari, o, in
quelle di ambientazione siciliana, di dialettalismi. In ogni caso, questi come molti altri
esempi di racconti brevi o lunghi costituiscono una rilevante alternativa al grande romanzo.
Va notato infine che nella struttura delle novelle pirandelliane sono spesso dominanti i
monologhi e il dialogo, e questo ha favorito la loro riscrittura per i teatro.
Le opere teatrali sino al 1920: Pirandello cominciò a dedicarsi al teatro con costanza dal
1910. Le prime prove appaiono legate al mondo siciliano e ancora piuttosto convenzionali,
ma a partire dal 1915-16 venne approfondita la costruzione del personaggio teatrale, che
può riuscire a incarnare pienamente le riflessioni dell’autore, in particolare riguardi alla
funzione dell’umorismo, liberatoria e dissacrante nei confronti delle forme e delle
convenzioni sociali (Liolà, dramma). Un ulteriore passo avanti viene segnato con la
produzione del 1917-18, che affianca a testi regionalistici i primi drammi “grotteschi”,
come Così è (se vi pare) o Il giuoco delle parti. L’ambientazione borghese lascia il posto a
situazioni allucinate e appunto grottesche, in cui non è possibile distinguere tra vero o
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falso, perché la verità stessa è relativa. Insomma, anche in questi drammi, che l’autore
comincia a raccogliere sotto il titolo di Maschere nude, si mira a demistificare le certezze e
a rompere le sclerotizzazioni: fondamentale risulta l’uso dei dialoghi e dei monologhi,
caratterizzati da un linguaggio a volte enfatico e ripetitivo, che ne sottolinea l’andamento
raziocinante e addirittura cavilloso. Certamente, in questa fase Pirandello svuota
dall’interno tutte le convenzioni del teatro borghese, come mostrano due drammi del 1920,
Tutto per bene e Come prima, meglio di prima.
I “Sei personaggi” e la fase maggiore: La fase più importante del teatro pirandelliano si
apre con il 1921, quando vanno in scena i Sei personaggi in cerca d’autore. Il dramma
appare fortemente rivoluzionario: non solo infatti viene riutilizzato l’espediente del teatro
nel teatro, ma l’intera azione riguarda poi la stessa natura della finzione teatrale, su cui il
teatro stesso riflette, proponendo aspetti metateatrali che saranno ripresi da molti autori
d’avanguardia. Il dramma è poi una sorta di “opera da fare”: i sei personaggi sono in realtà
idee dell’autore, che però ha rifiutato di materializzare in un testo, e queste figure non-
nate si presentano al Capocomico appunto per vedere la luce nel palcoscenico. Il tema non
è nuovo in Pirandello: la novità sta nella sua applicazione al teatro, che produce uno
sconvolgimento delle convenzioni e un’ulteriore riflessione sul rapporto tra realtà e
finzione. Infatti, mentre il Capocomico cerca di trovare spunti nella vicenda dei sei
personaggi, tentando di ricondurli a forme concrete ma nello stesso tempo false, il Padre in
vari modi afferma che essi, nella loro condizione potenziale, sono le uniche persone
perfette e complete. Dunque, l’individuo non solo appare scomposto, ma in questo grande
dramma si giunge a decretare il rovesciamento del rapporto fra realtà e finzione, per cui la
sola idea dello scrittore appare autentica. Questi aspetti vennero riaffermati e ampliati in
una Prefazione aggiunta a una nuova versione dell’opera nel 1925. La parabola pirandelliana
aveva così incontrato quella dello sperimentalismo avanguardistico, anche se rimasero
sempre punti di contrasto e differenziazione: e in effetti, più che avanguardista, Pirandello
può essere considerato uno scrittore modernista, libero rielaboratole più che liquidatore
della tradizione. Sino al 1930 Pirandello continuò la sua produzione basata sullo schema del
teatro nel teatro, con testi peraltro meno rilevanti come Ciascuno a suo modo (1924) e
Questa sera si recita a soggetto (1930).
Molto più considerevole è un’altro dramma, Enrico IV (1922), nel quale il tema della pazzia
viene posto al centro dell’azione, che si svolge che un falso dramma storico. Il protagonista,
che per molti anni ha creduto di essere Enrico IV di Germania, è invece rinsavito e tuttavia
continua a fingere di essere pazzo, non solo per potersi vendicare di un rivale in amore, ma
anche per poter mettere in crisi la presunta razionalità dei sani di mente.
I drammi dell’ultimo periodo: Nell’ultima parte degli anni Venti Pirandello comincia a
ripetere alcuni dei suoi temi e delle sue tecniche più collaudate, finendo per generare un
pirandellismo d’autore. Più interessante appare il suo tentativo di uscire da questo filone,
per tornare a sondare aspetti mitologico-simbolici, cari alla sua sensibilità
antirazionalistica. Fra i drammi di quest’ultima fase, dopo La nuova colonia (1928) e
Lazzaro (1929), il più suggestivo sembra l’incompiuto I giganti della montagna, un “mito in
due tempi” scritto tra il 1930-33. Avvicinandosi decisamente a tematiche di tipo
psicanalitico, Pirandello gioca sull’inconscio e sulla possibilità di liberarlo interamente dalle
repressioni morali e sociali. Questa forza si troverebbe nell’arte, rappresentata nel dramma
dagli attori, capaci di azioni simboliche quasi magiche, ai quali si contrappongono in giganti,
brutali e distruttivi. L’incompiutezza del testo non permette interpretazioni univoche;
tuttavia questa riscoperta del mito è apparsa a numerosi critici recenti in linea con gli
sviluppi dell’ultima avanguardia primonovecentesca, il surrealismo.

Il dibattito culturale e letterario nell’Italia dei primi due decenni del Novecento fu vivace e
innovativo. Vanno però ricordati altri suoi aspetti, a cominciare da quello della critica
ufficiale, che vide instaurarsi progressivamente il predominio del filosofo idealista
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Benedetto Croce (1866-1952). Come già accennato, con la sua Estetica (1902) Croce
teorizzò che l’arte doveva rimanere autonoma da qualsiasi finalità pratica; in particolare,
nella letteratura si doveva ricercare la liricità in senso assoluto, cosicché lo scopo della
critica diventava quello di individuare i momenti di autentica poesia di un’opera. Croce
divenne così il difensore della grane tradizione letteraria italiana sino a Carducci, mentre
spesso attaccò le sperimentazioni e gli eccessi. Le posizioni crociane furono accolte sempre
più largamente anche per il prestigio personale del filosofo, che divenne fra l’altro un punto
di riferimento per la cultura antifascista. Tuttavia, la loro rigidità bloccò per molto tempo lo
sviluppo di una critica accademica attenta alle nuove discipline applicabili allo studio
letterario, come la sociologia, la psicoanalisi ecc. Al di là di una critica si stretta osservanza
estetico-crociana, per molto tempo in Italia si ebbero sopratutto studi di carattere erudito-
documentario, oppure strettamente filologico, che peraltro produssero molti studi ed
edizioni di altissimo valore, per esempio grazie a Michele Barbi (1867-1941) e Santorre
Debenedetti (1878-1948), specialisti di Dante, Ariosto e altri grandi classici italiani.

Al di fuori dell’accademia, fra gli interlocutori di Croce si contano vari letterati impegnati in
riviste militanti, come gli animatori de “La Voce”. In particolare, Giuseppe Prezzolini
(1882-1982), si avvicinò alle teorie crociane, che in qualche misura si potevano coniugare
con la propensione al frammentismo tipica dei vociani. Ciò non toglie che all’interno del
gruppo vociano si cogliessero anche voci differenti, per esempio quella di Renato Serra
(1884-1915), che nelle sue raffinate lettere cercava di ricostruire appieno la personalità dei
nuovi autori, in parte ritornando all’ideale ottocentesco di coniugare “l’uomo e l’opera”.
Nell’ultima fase della rivista fiorentina si mise invece in luce Giuseppe De Robertis
(1888-1963), sostenitore di giovani poeti come Ungaretti, e in seguito capofila di una
corrente della critica stilistica. Sempre in ambito vociano si fecero notare pure intellettuali
non legati direttamente alla critica letteraria, fra i quali occorre ricordare Carlo
Michelstaedter (1887-1911), che sostenne tesi da qualcuno considerate pre-esistenzialiste
nel suo impegnativo trattato La persuasione e la retorica, uscito postumo nel 1913.
Altre riviste attive a Firenze furono, nei primi anni del Novecento, il “Leonardo”, il “Regno”
e “Hermes”, tutte promosse o sostenute da Prezzolini e da Giovanni Papini, che fu poi uno
degli animatori principali della futurista “Lacerba”, attiva tra il 1913e il ’15. Nonostante la
loro spesso breve durata, queste e molte altre riviste contribuirono ad ampliare il dibattito
intellettuale, ed ebbero una momentanea ripresa alla fine della prima guerra mondiale, non
di rado però con posizioni nettamente diverse rispetto l’inizio. Cominciò a prevalere la
tendenza a un ritorno all’ordine, che ebbe i suoi inizi prima nell’ambito culturale che in
quello politico-sociale.

16. Riletture della tradizione

Dopo la fine della prima guerra mondiale, la forza propulsiva della avanguardie diminuì
progressivamente. Tuttavia la fase delle sperimentazioni non terminò di colpo; anzi, essa
diede alcuni dei risultati più importanti, ora spesso inquadrati sotto la categoria del
modernismo. I capolavori di quegli anni non erano più votati alla sola novità, imperativo
delle prime avanguardie, e tendevano invece a ricostruire un rapporto con la tradizione,
peraltro ormai sentita non come un patrimonio stabile e rassicurante, bensì come un grande
repertorio da riacquisire e da cui estrarre i materiali adagi per sostenere la frammentarietà
del presente. Ecco perché la tradizione ritorna ad agire in modo straniato, ovvero attraverso
citazioni, allusioni, persino parodie: per far sì che la tradizione sia recuperata bisogna
reinterpretarla, e questa tendenza si coglie in molti dei maggiori autori che scrissero tra le
due guerre. Ciò vale anche in qualche misura pure per gli autori statunitensi, che a partire
dai primi anni Venti acquistarono sempre più notorietà in Europa: sopratutto un narratore
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come William Faulkner raggiunge gli esiti più alti quando riesce a coniugare nei suoi romanzi
la rappresentazione delle campagne americane con un senso tragico del destino, derivato in
buona parte dalla Bibbia e dalla cultura greca.
Quanto alle avanguardie propriamente dette molte si esaurirono dopo l’esito drammatico
della Grande Guerra, spesso sostenuta proprio da intellettuali avanguardisti. Certo, vari
esponenti del Futurismo trovarono modo di continuare le loro battaglie. Tuttavia l’unica
nuova avanguardia può essere considerata il Surrealismo, iniziato a Parigi ufficialmente del
1924 con la pubblicazione di un Manifesto, ma in realtà già sviluppatosi nel 1919 grazie agli
apporti di molti intellettuali, specie di André Breton e di Paul Eluard. A differenza delle
avanguardie precedenti, il surrealismo non partiva da una polemica contro le istituzioni
artistiche o contro la riduzione dell’arte a oggetto di mercato; piuttosto, prendeva spunto
dalle teorie psicanalitiche freudiane e poi junghiane per dare spazio a tutti gli ambienti
della creatività, derivati dall’inconscio e non dalla razionalità. Il surrealismo poté assumere
quindi forme molto diverse e si modificò nel tempo sino a trovare una nuova vitalità con la
contestazione giovanile degli anni Cinquanta e Sessanta: i suoi risultati maggiori vennero da
una forte connessione tra opere letterarie e opere pittoriche o cinematografiche, fra testi
scritti e testi visivi.
In Italia l’avvento del fascismo condizionò ben presto pesantemente il dibattito culturale. I
margini per una libera espressione delle opinioni politiche si annullarono a partire dal 1925,
e molti intellettuali si ridussero a manifestare occultamente il loro dissenso. A parte Croce,
però, furono pochi i punti di riferimento espliciti per gli antifascisti, spesso costretti
all’esilio o imprigionati, come il marxista Antonio Gramsci (1891-1937), del quale solo nel
dopoguerra furono pubblicati i Quaderni del carcere, con acute osservazioni anche sulla
letteratura. Più di frequente, la non adesione al fascismo riguardò la scelta di temi lontani
dalla retorica del regime, a volte astratti e simbolici, oppure più allegorici o realistici. Molti
furono invece gli scrittori che aderirono al regime; addirittura, nel periodo bellico il
ministro della cultura Giuseppe Bottai tentò di unire nel nome della patria intellettuali non
affini al fascismo, promuovendo la rivista “Primato”, attiva dal 1940 al ’43. Tuttavia, solo
dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio gli antifascisti di tutte le tendenze politiche
poterono tornare ad esprimere le loro opinioni, organizzando la lotta di Resistenza e
gettando le basi per il nuovo sistema democratico.
Varie quindi furono le tendenze in ambito poetico nel periodo fra le due guerre: gia nel 1919
la reazione alle avanguardie si manifestò chiaramente, in particolare con la pubblicazione a
Roma della rivista “La Ronda”, che propugnava un ritorno classicistico alla tradizione
italiana. In modo più libero, il rapporto con la tradizione è fondamentale pure per i maggiori
poeti di questa fase, come Saba e Montale. Dal canto suo, Ungaretti, con Sentimento del
tempo (’33) punta a una sorta di petrarchismo simbolista, molto ammirato dagli ermetici.
Insomma, la sperimentazione anche in Italia si colloca nell’ambito di un fruttuoso rapporto
con la tradizione, raggiungendo i suoi livelli più alti quando si apre a una dimensione
europea. Come sempre è meno chiama la situazione della narrativa. Infatti, la linea della
prosa d’arte viene ben presto contrastata da una volontà di tornare a una narrazione
diretta, sostenuta sin dal 1921 dal critici Giuseppe Antonio Borghese: essa venne messa in
pratica fra gli altri da Alberto Moravia o da scrittori schierati nel cosiddetto “fascismo di
sinistra” come Elio Vittorini o Romano Bilenchi. Ma in pochi sapranno mostrare un respiro
narrativo davvero ampio e un’effettiva originalità. In primis, occorre ricordare Italo Svevo
che, dopo anni di silenzio, pubblica il suo capolavoro La coscienza di Zeno (1923). Negli anni
Trenta, invece, matura e poi emerge con forza il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda, in
seguito considerato da Gianfranco Contini come l’ultimo esponente della linea
espressionista italiana. Si tratta comunque di casi diversi e in qualche maniera a sé stanti:
l’editoria di massa privilegiava semmai testi dalle trame ricche di suggestioni emotive o
erotiche, e privi di allusioni alla concreta realtà italiana.

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Nella lirica del periodo tra le due guerra, la prima vera novità è la rivalutazione delle forme
canoniche, tanto in prosa quanto in poesia, da parte della rivista romana “La Ronda”, edita
fra il 1919-22, e per alcuni aspetti parallela a quella artistica “Valori plastici”. Fra i
principali promotori si contano il critico e scrittore Emilio Cecchi (1884-1966), autorevole
interprete delle novità letterarie italiane, nonché saggista raffinato e imitato, il romanziere
ma anche poeta Riccardo Bacchelli (1891-1985), che sulla “Ronda” pubblicò fra l’altro
drammi d’ispirazione classica, e Vincenzo Cardarelli (1887-1959). Quest’ultimo iniziò a
pubblicare opere in versi e in prosa sulla rivista “La Voce”, ma poi propugnò una sempre più
netta distinzione fra i due ambiti, prendendo a modello stilistico il Leopardi dei Canti ma
sopratutto le Operette morali. Cardarelli cercava in sostanza un nuovo classicismo da lui
stesso definito “a doppio fondo”, ovvero tale da nascondere un vuoto esistenziale con
un’esteriorità perfetta. Nelle poesie come nelle prose si coglie una tensione all’esattezza e
al nitore del dettato, che spesso affronta temi perenni come la caducità del vivere, il
passare delle stagioni ecc. Con “La Ronda” si esplicita dunque una tendenza opposta a
quelle di tipo avanguardistico, ma anche a quelle decadenti e tardosimboliste, che
continuano a essere attive. Dagli ideali della rivista romana si distaccarono peraltro varie
correnti letterarie successive, attive sopratutto dalla seconda metà degli anni Venti.

“La Ronda” operò in una fase piuttosto circoscritta nella cultura italiana del primo
dopoguerra, e tuttavia il suo modello rappresentò un punto di riferimento per molte delle
poetiche che si svilupparono in Italia tra gli anni Venti e Trenta. A Roma, agli intellettuali di
regime era imposta l’adesione ai miti del fascismo dittatoriale; tuttavia restarono alcuni
margini per un confronto aperto con le culture straniere, per esempio quella francese e
inglese nell’ambito della rivista “900”, attiva dal 1926. Viceversa, le componenti sovversive
e antiborghesi tipiche del primo fascismo rimasero vive in riviste nate in aree laterali, come
“Il Selvaggio”, promossa da pittore Mino Maccari e poi dallo scrittore eterodosso Curzio
Malaparte, dapprima pubblicata in provincia di Siena, successivamente a Firenze.
La cultura fiorentina di città era comunque quella più vivace e variegata di quegli anni, sia
per la presenza di quasi tutti gli intellettuali allora di spicco, sia per la capacità di fondare e
sostenere poetiche innovative grazie a numerose riviste e prestigiose case editrici. Senza
uscire dai limiti imposti dal regime, fu concreto il dibattito fra i letterati più aperti al
confronto con modelli italiani e stranieri, e quelli che puntarono progressivamente a una
“religione delle lettere”, quindi a un assoluto distacco dall’impegno politico e a una
scrittura criptica e simbolista, definita già in quegli anni “ermetica”.

Mentre si svolgono percorsi indirizzati verso un recupero originale della classicità,


sopratutto negli anni Trenta riprende forza il filone tardosimbolista della lirica pura, il
quale, oltre che negli antecedenti francesi, trovava nell’Ungaretti del Sentimento un punto
di riferimento sicuro. Questo filone, cui viene dato il nome di Ermetismo, presenta in realtà
caratteristiche in qualche misura distinte: da una parte si può individuare un ermetismo di
giovani autori toscani, legato alla rivista “Frontespizio” (1929-40) e in particolare al critico
Carlo Bo, di ispirazione cattolica e sostenitore di un’idea di Letteratura come vita (saggio
1938), che mirava a contrapporre i valori religiosi e umanistici della poesia alla crudezza del
regime fascista, non senza correre il rischio di cancellare la realtà storica concreta; da
un’altra parte, si distingue l’ermetismo di vari autori del Sud, più propenso a una
metaforicità accesa, ad analogie ardite, non prive di contatti con il surrealismo francese.
In comune le varie correnti ermetiche, peraltro in rapporto fra loro, mostrano la tendenza a
un uso astratto e fortemente simbolico del linguaggio, che riduce la possibilità di
identificazione di fatti e oggetti concreti.
Fra gli esponenti più puri dell’ermetismo vanno segnalati Salvatore Quasimodo (1901-1968) e
Alfonso Gatto (1909-1976). Entrambi operano a Firenze sopratutto negli anni Trenta,
assumendo ben presto un ruolo autorevole nei circoli culturali e nelle riviste più stimate,
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come “Solaria” e “Campo di Marte”. Quasimodo ottenne un ampio successo già con la sua
prima raccolta, Acque e terre (1930), cui ne seguirono presto altre, poi riunite nel 1942
sotto il titolo Ed è subito sera. L’accensione cromatica e l’evocatività tardosimbolista di
molti versi di questo autore appaiono oggi insufficienti a sostenere nuclei tematici piuttosto
vaghi: tanto è vero che spesso l’opera migliore di Quasimodo viene considerata la sua
traduzione dei lirici greci. Dal canto suo, Gatto mirò sopratutto a una poesia ricca di
suggestioni mitiche, ricostruzione fortemente metaforica di un’infanzia atemporale.
Altri autori propongono, sempre a Firenze, un ermetismo più colto, nel quale risuona la
lezione di Mallarmé e delle sue poesie perfette e oscure. In questo gruppo assunse presto un
ruolo di rilievo Mario Luzi (1914-2005), che peraltro si può considerare pienamente ermetico
solo per le sue primissime raccolte, specie per Avvento notturno (1940). Altri, come Pietro
Bigongiari o Alessandro Parronchi, proposero una lirica raffinata ma dai tratti stilistici meno
individuati. Ai margini dell’ermetismo vanno poi collocati autori che pure ebbero contatti
stretti con gli ermetici in senso proprio. Uno di questi è Leonardo Sinisgalli (1908-1981) che,
pur proponendo testi ricchi di evocazioni mitiche e oniriche, si ferma spesso sulla soglia
della metaforicità irrazionale, anche in virtù della sua formazione scientifica di ingegnere.
Un altro è Carlo Betocchi (1899-1986), che mantenne quasi sempre uno stile più sobrio di
quello degli ermetici, fondando le sue poesie molto più su impressioni e sensazioni filtrate
dal ricordo che non su sfrenate analogie. Dopo Realtà vince il sogno (1932), caratterizzato
da un’intensa spiritualità, nelle raccolte successive alla guerra si colgono riferimenti ancora
più diretti alla storia e all’autobiografia, con esiti molto intensi in varie liriche Estate di San
Martino (1961) e Ultimissime (1974).
Va infine notato che quasi tutti gli ermetici furono spinti ad abbandonare i temi più rarefatti
e tardosimbolisti, per affrontare in modi a volte stilisticamente troppo retorici gli eventi
drammatici del conflitto e della restaurazione. Esemplari in questo senso sono le raccolte di
Quasimodo Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949), dove peraltro
permangono molti dei tratti stilistici ermetici, sia pure nascosti da una più forte narratività.

Si possono individuare altri percorsi nella poesia italiana tra le due guerre. Un esempio
interessante è quello della lirica narrativizzata, che impiega versi lunghi alla maniera del
poeta statunitense Walt Whitman (1819-1892): in questo senso, fondamentale appare la
raccolta Lavorare stanca (1936) di Cesare Pavese; ma vanno pire ricordate le prove del
rondista Riccardo Bacchelli.
Rilevante è l’apporto dei dialetti, peraltro avversati dal fascismo, che puntava al purismo
anche linguistici. In una situazione in cui la lingua italiana risulta conosciuta soltanto da una
minoranza della popolazione, la scelta della lirica in dialetto può risultare ancora in molti
casi spontanea; tuttavia gli autori dialettali sono per lo più colti, e la loro opzione
linguistica appare dettata spesso da ragioni peculiari, a volte la difesa di culture comunque
minacciate dall’unificazione, a volte l’opposizione esplicita all’italianizzazione forzata,
intesa come oppressione del regime. In ogni caso la forza dei dialetti consente in questo
periodo di dare voce a sentimenti diversi, spesso contrastanti con il trionfalismo fascista.
Fra gli autori più considerevoli possono essere citati Virgilio Giotti (1885-1957) e Biagio
Marin (1891-1985), che rinnovano la tradizione impressionistico-elegiaca della poesia
dialettale. Molto più polemico Giacomo Noventa (1898-1960), attivo a Firenze, che fonde
cattolicesimo democratico e socialismo, proponendo liriche dal forte impatto e decisamente
antiermetiche. Ancora più tendenti all’espressionismo sono i versi di Delio Tessa
(1886-1939), che compone lunghe lasse dalla forte impronta orale e popolareggiante,
seguendo il grande modello ottocentesco di Carlo Porta. Sopratutto nella sua raccolta L’é el
dì di mort, alegher! (1932) Tessa riesce a tratteggiare personaggi e vicende realistiche e
insieme onirico-grottesche, spesso ispirate da un viscerale anarchismo, ben lontano dalla
ideologia del regime fascista.

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Umberto Saba (1883-1957)


Umberto Poli, di ascendenze ebraiche, nacque a Trieste. L’abbandono del padre, il rigore
della madre, l’affetto della nutrice slovena Beppa, costituiscono presupposti autobiografici
influenti sulla sua poesia. Essa si distingue sin dalle prime prove per l’apparente semplicità
e cantabilità, che si rivelano invece una superficie pacifica sotto la quale si nascondono
conflitti. Peraltro, solo dal 1929 Saba seguì una terapia psicanalitica che rese più
consapevole l’uso straniato di una stilizzazione, la quale da subito si presenta come troppo
semplice per essere solo ingenua. La sua formazione culturale fu eterogenea, con studi
umanistici e tecnici più volte interrotti (fondamentale Nietzsche). Saba rivendicò sempre
con orgoglio la sua figura di irregolare, e nello stesso tempo aspirò a un’integrazione che
dovette rivelarsi difficile o impossibile: mentre si definiva italiano fra gli italiani, il regime
fascista lo emarginava con le leggi razziali, che lo costrinsero nel 1943 ad abbandonare
Trieste; l’amore per Carolina Wölfler, sposata nel 1909, andò incontro a forti crisi, e dal
1945, per un breve periodo, il poeta si legò al giovane Federico Almansi; anche come
scrittore, nonostante il sostegno di autorevoli intellettuali, Saba rimase sino alla morte al di
fuori del circoli culturali più attivi e influenti. Ciononostante, soprattutto a partire dagli
anni Cinquanta la sua poesia fu assunta a modello per la linea antinovecentista, la quale si
doveva caratterizzare come semplice e onesta, capace di costruire un rapporto franco col
lettore. Negli ultimi decenni, grazie anche a nuove edizioni di tutte le opere sabiane, si
sono chiarite meglio alcune delle complesse stratigrafie compositive che si individuano sotto
la superficie di esiti in apparenza chiari e immediati.

La vocazione poetica di Saba si manifesta nei primi anni del secolo, mentre già nel 1911-12
escono testi poi molto apprezzati come quelli di Casa e campagna e sopratutto di Trieste e
una donna, raccolte in parte dedicate alla moglie. Nonostante i contatti con alcuni
intellettuali che animavano la rivista “La Voce”, Saba rimane legato alla sua Trieste
mitteleuropea ma laterale in ambito italiano. Ecco perché le liriche delle prime raccolte
appaiono del tutto fuori tempo rispetto alle avanguardie, e volutamente fondate su un
linguaggio letterario ormai desueto, ricco di forme e vocaboli della tradizione più alta. La
stessa idea di un Canzoniere, elaborata sin dal 1913 e compiuta nel 1921, risulta a questa
altezza decisamente conservatrice; se si aggiunge che le forme metriche preferite da Saba
sono quelle chiuse (sonetti), in particolare quelle che tendono alla cantabilità dei
componimenti metastasiani e pariniani del Settecento, si capisce che l’accoglienza riservata
a questo autore non poteva essere ampia.
Fra le poesie di maggior valore del primo Canzoniere, si debbono ricordare quelle che
fondono una stilizzazione classicista con una scelta di immagini inconsuete e appunto
stranianti: è il caso della celeberrima A mia moglie, in cui Lina viene paragonata a una serie
di animali non nobili. L’amore coniugale peraltro contrastato si esplicita non in una liricità
sublime ma in un affetto quotidiano, singolare e profondo, come quello verso gli animali
domestici. In generale, l’insieme dei testi assume la struttura di piccoli romanzi, dove
l’autobiografismo esibito manifesta una tensione dell’io lirico a depurarsi dei sensi di colpa
e nello stesso tempo a comprendersi, nonché a comprendere la psicologia profonda dei suoi
interlocutori, a cominciare da Lina. Le tensioni nascoste dietro alla superficie serena, le
dissonanze nella cantabilità si accentuano nella sezione dal titolo La serena disperazione e
poi ancora nell’Amorosa spina del ’20: titoli in cui già la sfumatura ossimorica indica la
tonalità dominante, che va a toccare un tema di fondo della poesia sabiana, il conflitto
inevitabile tra i sessi. In generale, nel primo Canzoniere Saba mira a una poesia da lui stesso
definita “onesta”, di una leggerezza che diventa chiarezza e definizione, espressione
classica di una sensibilità contrastata e nonostante tutto moderna. Suo scopo è quello di
raccogliere in unità tappe biografico-esistenziali che ancora l’autore stesso non comprende
sino in fondo: per questo il modello di canzoniere rimanda all’inclusività tipica di raccolte
del pieno Ottocento.
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Dopo la pubblicazione del primo Canzoniere Saba entra in contatto con alcuni giovani
intellettuali e scrittori, come il critico Giacomo Debenedetti ed Eugenio Montale. In questi
anni il poeta si avvicina non solo alla psicanalisi, ma più in generale alla cultura europea
contemporanea, trovando modo di introdurre nel suo stile semplice e classico note più forti
di modernità, grazie magari a un impiego più ardito della similitudine, a un aumento della
allusività e a un calcolo del prosastico. Una nuova tappa è segnata dal secondo Canzoniere,
uscito nel 1945, nel quale confluiscono le raccolte successive al ’21. Dopo una fase di
ulteriore lavorìo sulle forme metriche tradizionali e sullo stile, nuovi apporti tematici
arrivano con Preludio e fughe (1928-29), dove si mettono in contrappunto musicale varie
voci liriche, e con Il piccolo Berto (1929-31), in cui vengono finalmente alla luce i traumi
infantili, grazie a un incontro poetico fra il Saba bambino e l’adulto.
Nella versione del ’45, il Canzoniere è diviso in tre grandi sezioni, che possono
simboleggiare le tre principali età dell’uomo. Rispetto alla prima edizione, Saba ha lavorato
a una risistemazione complessiva, sopratutto in rapporto al tema dell’amore e a quello della
guerra, letti in modo profondamente diverso rispetto al periodo immediatamente successivo
alla fine del primo conflitto mondiale. Assai rilevante in questo senso è considerata la
sezione Cuor morituro (1925-30), angosciata e dissonante anche da un punto di vista
stilistico, dove compaiono due poesie fondamentali nel percorso sabiano, La brama e Il
borgo. Amara nella sua denuncia diretta e volutamente enfatica è poi la sezione intitolata
1944, che rievoca uno dei periodi più drammatici della vita del poeta, a chiusura dell’intera
raccolta. Sempre nel terzo volume del Canzoniere, incisive e drammatiche risultano le
sezioni Parole (1933-34) e Ultime cose (1935-43), ancora risalenti al periodo culminato nella
persecuzione razziale e nella guerra. I contatti diretti con Ungaretti e Montale portarono
Saba a scrivere versi senza esplicitazione di nessi connettivi, dimodochè la sua lirica, pur
rimanendo chiara, assunse a volte in sé una componente della migliore oscurità moderna.
Successivamente, specie dopo il 1948, nella vena lirica di Saba si fece strada anche una
sempre più insoddisfazione esistenziale, che negli anni Cinquanta si manifestò attraverso
nuove crisi nevrasteniche, e un incupimento definitivo, con numerosi riferimenti al tema
della morte. Non mancano però testi più lievi, ancora in forma di delicato racconto
autobiografico, nonché altri che rivendicano il valore dei propri versi, oppure al presente in
forma epigrammatica. Le raccolte da Mediterranee (1946) a Sei poesie della vecchiaia
(1953-54) vanno a completare la nuova terza parte del Canzoniere che nel 1961 trova una
sistemazione postuma, con la chiusura moralmente alta e serenamente amara di Epigrafe.

Oltre che notevolissimo poeta, Saba fu pure un ottimo prosatore. Nei suoi molti racconti
brevi non mancano le storie legate al ricordo del mondo ebraico di Trieste, nonché ai fatti
autobiografici già trattati nel Canzoniere. Spiccano i testi come Scorciatoie e raccontini
(1946), nei quali le occasioni fornite dalla vita quotidiana vengono interpretate in modo
inatteso. Postumo è uscito il romanzo incompiuto Ernesto, scritto intorno al ’53 e per certi
versi rivelatore: si parla di un’iniziazione omosessuale di un ragazzo, narrata con levità e
naturalezza, grazie pure a un uso del dialetto triestino molto delicato e insieme
sintomatico: si osserva bene anche in questo testo quanto affermato da Saba in una sua
Scorciatoia, e cioè che l’arte vive “del proibito, di quello che non osa venire in altra forma
alla luce del giorno”. Va infine ricordato un testo singolare, quale Storia e cronistoria del
“Canzoniere” (1948): un autocommento in forma di falsa tesi di laurea attribuita al doppio
Giuseppe Carimandrei, che fornisce spiegazioni utili tanto da un punto di vista esegetico,
quanto per comprendere le ragioni personali più profonde che sottostanno
all’organizzazione dell’intero Canzoniere sabiano. Infine, vanno ricordati i Ricordi-racconti,
raccolti in volume nel 1956 ma risalenti in parte addirittura alla prima fase della produzione
sabiana, come nel caso delle novelle Gli ebrei o de La gallina (1913).

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Eugenio Montale (1896-1981)


Eugenio Montale, che nacque a Genova, ebbe una formazione molto eterogenea, nutrita
dalla lettura di testi letterari recenti, sopratutto italiani e francesi, nonché di classici;
buona era anche la conoscenza artistica e musicale, specie del melodramma italiano.
Inoltre, Montale lesse numerosi testi filosofici, morali e religiosi, fra cui spiccano i pensatori
francesi Bergson e Boutroux, avversati del positivismo e sostenitori di teorie vitaliste-
spiritualiste. Sin dall’adolescenza Montale cercò di avvicinarsi alla cultura italiana più
vivace, dapprima come lettore per esempio dei pezzi giornalistici del critico Emilio Cecchi;
poi come recensore e autore di articoli già importanti, come Stile e tradizione, pubblicato
sulla rivista torinese “Il Baretti”, fondata da Pietro Gobetti: in questo significativo saggio e,
implicitamente, manifesto di poetica, Montale sosteneva un’idea di lirica legata sia a una
forte stilizzazione, derivata da una rilettura della tradizione migliore, sia all’etica, in
opposizione alle varie forme di letteratura completamente avulsa dalla morale.
Proprio Gobetti fu l’editore della prima raccolta montaliana, gli Ossi di seppia (1925), che
garantì a Montale una discreta notorietà e una serie di amicizie.

Gli Ossi di seppia si presentano come un libro molto particolare nel panorama coevo,
senz’altro antiavanguardista ma non legato a un’idea tradizionalista di poesia: per tentare
di definire il carattere dominante la critica più recente ha iniziato a impiegare la categoria
del “classicismo paradossale”. Si tratta di una formula creata dallo stesso Montale per Saba,
ma nel poeta ligure è ben più forte la componente modernista all’interno dell’uso di
elementi tradizionali,che sono sì spesso riconoscibili ma sottoposti a una sorta di corrosione.
E’ il caso della metrica, nella quale si riscontra un’ampia presenza di endecasillabi o
settenari ma spesso mescolati ad altri versi meno canonici, e comunque quasi sempre
imperfetti/inconsueti. E anche le rime regolari si alternano con le assonanze/consonanze,
espedienti che impediscono una cantabilità in apparenza facile alla maniera di Saba.
L’insistere sulle peculiarità formali degli Ossi è necessario perché le varie componenti di
questa raccolta vengono tenute assieme appunto da una personalissima stilizzazione. A ciò si
accompagna l’aspetto tematico-contenutistico, che ha costituito uno dei motivi della larga
fortuna di questa raccolta. L’io-lirico degli Ossi si presenta come un soggetto debole, inetto,
che però non si limita a enunciare la sua propria condizione in modo malinconico o ironico,
come i crepuscolari. Viceversa, l’io montaliano confronta la sua condizione con quella
moderna dell’intero genere umano, e denuncia il “male di vivere”, la sofferenza
esistenziale di chi è ormai privo di una fede certa e di una reale volontà di agire, e
ciononostante continua a cercare il miracolo, la possibilità di incontrare il divino e quindi la
salvezza dalla “rete” della banalità quotidiana. Gli Ossi propongono la narrazione di una
serie di scacchi esistenziali, di azioni mancate, di speranze deluse per l’io, però magari
realizzate per qualcuno dei suoi interlocutori.
Montale suddivide gli Ossi in quattro grandi sezioni, a loro volta organizzate al loro interno.
In particolare, l’ultima vanne rivista più volte, con l’aggiunta di varie liriche nell’edizione
del 1928, e forma un microromanzo che ha al suo centro un evento fondamentale per tutta
la raccolta: la “fine dell’infanzia”, ovvero la perdita di un rapporto diretto e ingenuo con la
natura, sostituito dalla consapevolezza che la vita è “crudele più che vana”. Se per molto
tempo la critica si è divisa sulla valutazione delle varie sezioni, oggi si è soliti valutare la
raccolta nell’insieme, che ricava la sua forza dall’alternanza di tonalità e di registri, tutti
però controllati dalla potente stilizzazione, che garantisce una forma compiuta, classica e
moderna insieme.

Nel 1927 Montale si trasferì a Firenze, dove entrò in contatto con quasi tutti i più autorevoli
critici e scrittori dell’epoca, diventando per un periodo anche direttore del Gabinetto
Vieusseux. Nell’ambiente fiorentino Montale bevve modo di conoscere direttamente le
tendenze in atto nella letteratura italiana e internazionale, grazie all’apertura culturale
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tipica di riviste come “Solaria”. La vicinanza con questo ambiente spinse il poeta a una
rilettura molto raffinata dei grandi classici, avvalorata dalla vicinanza di esperti o dalla
stesura di traduzioni, utili per la miglior conoscenza di autori come Shakespeare. Sempre in
questo periodo Montale incontra due donne poi ben presenti nella sua poesia, Drusilla Tanzi,
in seguito sua sposa (Mosca) e soprattutto Irma Brandeis (Clizia).
E’ in questi anni che matura una svolta nella poetica montaliana. Se gli Ossi erano ancora un
insieme segnato da una classicità chiara, Le occasioni si orientano verso l’oscurità
tipicamente otto-novecentesca, che tuttavia risulta molto diversa da quella degli ermetici o
di Ungaretti. La difficoltà delle Occasioni non deriva da un simbolismo forzato o da un
surrealismo antirazionale; deriva invece da una condensazione di passaggi, da un tacere
l’elemento generatore della lirica per concentrarsi sui suoi effetti, e insomma su un
procedere per metonimie, per dettagli che stanno al posto del tutto, e non per grandi ed
evidenti metafore come negli Ossi. Si rafforza l’importanza degli oggetti, che però non sono
più ricavati principalmente dalla natura e caricati poi di una valenza simbolica, ma non più
di frequente frutto di lavoro artigianale o tecnico. In questi passaggi tematici si coglie
l’adesione a una poesia di tipo “metafisico”: una poesia che non mirava a nascondere la
realtà storica e biografica, ma semmai a farne la fonte concreta di una poesia oggettiva,
portatrice di un valore universale e non semplice espressione dei sentimenti dell’io. Lo
stesso Montale riconosce per sé l’importanza di questa linea metafisica, e fra l’altro
valorizza il rapporto fra poesia e prosa, procedendo in una direzione opposta a quella della
lirica pura e astratta.
Le occasioni mostrano i segni di una personalissima rilettura dell’intera lirica europea: le
fonti si moltiplicano e possono presentarsi come arricchimenti colti o più in generale come
allusioni ai grandi modelli stilistici e di pensiero della lirica e in parte della prosa
occidentali. La sostenutezza formale degli Ossi risulta qui fortificata da scelte lessicali
spesso preziose ma nello stesso tempo ampie, e sopratutto da una sintassi molto più
contratta, sincopata rispetto a quella più esplicita e diretta della prima raccolta. Mai però i
testi montaliani risultano volutamente ambigui o irrazionali: un’interpretazione letterale è
sempre possibile, ancorché complessa per la condensazione dei contenuti. Fra le novità,
spicca l’esaltazione del tema modernistico dell’epifania miracolosa, dell’occasione che
porta allo svelamento di una verità oltre le apparenze terrene, che all’io-poeta può
manifestarsi grazie all’intervento di Clizia, la donna-angelo dai tratti stilnovistici, e
mediante i tanti “oggetti salvifici” di cui è costellata la raccolta.
A livello strutturale, la seconda raccolta ripete in parte la prima, con una lirica proemiale e
quattro sezioni, delle quali le due centrali corrispondono idealmente a quelle degli Ossi
brevi e a Mediterraneo. L’epigrammaticità si accompagna però nei Mottetti con una
ricercatezza musicale quasi da polifonia antica: il “mottetto” è fra l’altro un tipo di
componimento della musica medievale e rinascimentale. Nei Tempi, più che il rapporto
diretto con la natura rappresentato dal mare, conta quello con la civiltà umanistica, che ha
trasformato e umanizzato la natura delle colline di Firenze. Insomma, se molti dei temi di
fondo degli Ossi si ripropongono nelle Occasioni, essi risultano modificati non solo per
l’azione della donna-angelo e dei “fantasmi liberatori”, ma anche per la consapevolezza
della necessita di difendere la cultura consegnataci dalla tradizione, che permette di
superare le difficoltà della storia. Molto riuscite sono alcune grandi liriche con cui si chiude
la quarta sezione, come la conclusiva Notizie dall’Amiata o come Nuove stanze, formidabile
poesia a sfondo allegorico in cui una scacchiera attorno alla quale giocano l’io e la donna
amata arriva a significare l’intero corso della storia che si svolge in quegli anni, con allusioni
chiare al nazifascismo e alla guerra imminente. Per tutto questo, Le occasioni possono
essere considerate una raccolta centrale nello svolgimento della lirica italiana del
Novecento.

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Montale dopo Le occasioni scrisse componimenti che alludevano alla seconda guerra
mondiale, raccolti nel ’43 ’45 in due plaquettes dal titolo Finisterre. Da questa serie di testi
deriva la prima sezione delle terza raccolta montaliana, uscita nel 1956 e intitolata La
bufera e l’altro. Nel frattempo Montale aveva attraversato una breve fase di impegno
politico nel Partito d’Azione, ben presto schiacciato dallo strapotere della Democrazia
cristiana e dei Partiti comunista e socialista; si era poi trasferito nel 1948 a Milano,
diventando redattore del “Corriere della sera”. L’attività giornalistica lo porta a incontrare
artisti, scrittori e in generale realtà cultuali europee ed extraeuropee. Nella Bufera si
accentuano i tratti manieristi e barocchi, applicati peraltro a una realtà storica spesso più
chiaramente riconoscibile che non nella raccolta precedente, ossia quella della guerra e del
dopoguerra. Le vicende dell’io lirico si collocano in questo sfondo collettivo, dal quale
emerge ancora Clizia, così nominata in uno dei testi più alti della lirica montaliana, La
primavera hitleriana, e poi sostituita dalla più terrena Volpe, che compare sopratutto nella
sezione di componimenti brevi Madrigali privati.
Rispetto alle Occasioni, sono più frequenti i testi interpretabili in senso allegorico, ovvero
come descrizioni di oggetti, personaggi e vicende che richiedono una lettura di secondo
grado: è il caso di Iride, ma anche di altri componimenti come Il gallo cedrone o L’anguilla.
La struttura d’insieme, pur mantenendo analogie con le precedenti, si complica: le parti
sono sette e una, Intermezzo, propone addirittura brevi testi in prosa. La sezione in cui si
colgono le più forti tensioni è forse quella intitolata Silvae, che presenta vari testi lunghi, in
parte ancora dedicati a Clizia, che vorrebbe spingere il poeta a una scelta definitiva in
senso religioso: ma l’io-lirico alla fine preferisce ritornare alla incertezze ma anche alla
concretezza della vita terrena, nella quale domina appunto la sensuale Volpe.
Molto significativa è la parte finale della Bufera, dal titolo Conclusioni provvisorie, nei cui
due testi si riscontrano alcuni cambiamenti. Innanzitutto, l’io viene a coincidere in modo
più esplicito con quello autobiografico, sopratutto per la rivendicazione di una dignità
morale e di una propria autonomia di giudizio nel tempo delle contrapposizioni tra
l’ideologia comunista e quella clericale-conservatrice. Inoltre, il consueto tema della
disarmonia e del “male di vivere” si sostanzia nella storia presente, pur aspirando ad
assumere un valore universale. Per parlare delle storture del presente, l’io-poeta adotta qui
un linguaggio basso-comico, intriso di espressioni o termini volutamente prosastici e quasi
gergali, che non sono più sostenuti da un grande stile, ma emblematicamente anticipano la
prossima impossibilità di una lirica alta nella società di massa.

Dopo un lungo silenzio poetico, Montale ricomincia a scrivere a partire dal 1963 e poi
sopratutto dal ’68. Il risultato di questa nuova fase è un libro molto diverso dai precedenti,
Satura, edito nel 1971. Lo stesso autore dirà che questa sua nuova opera corrisponde al
verso delle lirica di cui prima aveva dato il recto: ovvero, una sorta di rovesciamento
ironico, a volte parodico dei suoi temi antecedenti. Lo stile diventa quello comico-satirico,
anche se il termine “satura” dovrebbe essere riferito in primo luogo alla varietà degli
argomenti e degli stili. Tuttavia, una componente propriamente satirica è ben evidente. Gli
interventi sempre più conservatori da un punto di vista sia culturale sia politico, che
Montale andava proponendo sul “Corriere della sera” dalla fine degli anni Cinquanta,
diventano qui il sottofondo per una resa poetica basata su alcune figure retoriche ricorrenti
e su una metrica non priva di tratti grotteschi, con rime singolari, largo uso di versi molto
cadenzati ecc. La cronaca comincia a dormire direttamente il materiale per le elaborazioni
poetiche, spesso coeve ad articoli giornalistici. La prosa insomma prende il sopravvento
sulla lirica, e l’io-poeta si riserva in genere il ruolo di ironico seminatore delle storture
sociali; non mancano le frecciate contro altri poeti, o contro gli stessi critici del poeta.
Nella compagine poco strutturata, di distinguo le due sezioni degli Xenia dedicate alla
moglie Mosca, morta nel 1963: qui l’affabilità e la grazia neocrepuscolari consentono di

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individuare componimenti appena sostenuti stilisticamente e però di sicuro valore, come Ho


sceso, dandoti il braccio o Avevamo studiato per l’aldilà.
I tratti riscontrati in Satura si ripropongono nelle raccolte successive: Diario del ’71 e del
’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977), Altri versi (1980), tutti riuniti nell’edizione
critica L’opera in versi, cui andrebbe aggiunto, oltre a varie poesie disperse, il Diario
postumo, dalla genesi controversa e forse non integralmente d’autore, ma composto da
testi risalenti per lo più agli anni Sessanta. L’impossibilità di una poesia alta nell’epoca della
massificazione risulta ribadita, mentre i temi diventano sempre più moralistico-sociologici.
In molti casi vengono citati e parodiati testi lontani mentre prende qui il sopravvento la
figura femminile di Annetta, che, con non poche contraddizioni, dovrebbe riferirsi a una
fanciulla morta giovane. I punti di forza di quest’ultima fase stanno forse in quei
componimenti che meglio riescono a coniugare il nuovo stile basso con una riflessione non
scontata sui destini dell’umanità e dell’arte, come nel caso di uno degli ultimi testi di
Montale, I miraggi.
Montale non fu solo un poeta di primaria grandezza, ma anche un critico intelligente,
capace di individuare valori misconosciuti, come quelli di Saba e di Svevo: la sua copiosa
produzione in prosa è ora raccolta in vari volumi. Fu inoltre critico musicale e d’arte,
nonché autore di numerosi interventi di taglio politico-morale, raccolti in Auto da fé nel
1966, e per molti aspetti ideale premessa alla poesia di Satura. Vanno ancora segnalati gli
scritti in prosa narrativa, vicina a quella raffinata degli anni Trenta, senza essere
esattamente una prosa d’arte: i brevi racconti di La farfalla di Dinard (1956), costituiscono
le versioni in prosa delle occasioni poetiche, con un’accentuazione dei tratti più lievi e
ironici rispetto a quelli alti e tragici della maggiore lirica montaliana.

Poco dopo la fine della prima guerra mondiale emersero nella narrativa italiana due linee in
parte contrastanti. La prima era promossa dalla rivista “La Ronda” e puntava a una prosa
d’arte, che prendeva spunto dal frammentismo e dal saggismo raffinato gia diffusi dalla
“Voce”, ma li inseriva in strutture più solide, come racconti e novelle. Questa linea venne
seguita da autori come Cardarelli e Bacchelli, il quale peraltro arrivò poi alla composizione
di romanzi di ampia portata, come il Mulino del Po (1938-40). Venne ripresa sopratutto negli
anni Trenta da molti scrittori operanti a Firenze.
La seconda linea venne invece sostenuta dal critico Giuseppe Antonio Borghese, che già nel
1921 pubblicò un testo definibile a pieno titolo romanzo, Rubè, nel quale si cercava di
interpretare il comportamento degli italiani nel periodo bellico e postbellico attraverso
quello di un giovane, moralmente disorientato. Il precoce antifascismo di queste posizioni si
coniugava con la ricerca di un nuovo tipo di realismo, ovvero di una narrazione che ponesse
in primo piano l’interpretazione della realtà storica e quella della psicologia profonda dei
personaggi. Questo appello per un ritorno alla narrativa fu accolto solo in parte dall’alta
cultura italiana, che continuò a preferire una prosa breve e raffinata. Tuttavia, sono
numerosi gli autori nuovi, che negli anni Venti e Trenta propongono romanzi almeno in parte
di tipo realistico, anche se per una vera rinascita di questa narrativa occorrerà attendere il
1943-44. Ma il caso più clamoroso di un romanzo nuovo arrivò nel 1923 da Italo Svevo.
Invece, l’esito più alto della linea fondata su una scrittura raffinata e addirittura complessa,
fu raggiunto da Carlo Emilio Gadda.

La narrativa raffinata, fortemente lirica e in genere breve, catalogabile sotto l’etichetta di


prosa d’arte, trova a Firenze la sua patria d’elezione. Molti furono gli esponenti e i
sostenitori di questa forma espressiva, che peraltro presenta molteplici sfaccettature:
parecchi si riunirono intorno alla rivista “Solaria”. Fra gli autori più interessanti si possono
ricordare Arturo Loria (1902-1957), con i suoi racconti di tipo picaresco, e Giovanni Comisso
(1895-1969), con i suoi testi ricchi di impressioni e ricordi. Molto presenti i temi
dell’infanzia e del tempo passato, come avviene nelle opere di Anna Banti (1895-1985).
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Sempre a Firenze, ma con una maggiore attenzione alla struttura narrativa, si mosse anche
Romano Bilenchi (1909-1989), attivo dapprima nell’ambito del cosiddetto “fascismo di
sinistra” ed esponente della cultura marxista più aperta al dialogo. Con il racconto Anna e
Bruno (1938), il romanzo Il conservatorio di Santa Teresa (1940) e infine con un trittico
riunito nel 1984 sotto il titolo Gli anni impossibili,Bilenchi esaminò in modo acuto e spietato
sopratutto il periodo dell’adolescenza, con l’esplosione dei contrasti fra io e mondo.
Si differenziano dal filone della prosa d’arte privilegiando un’idea di realismo magico, altri
autori a cominciare da Massimo Bontempelli (1878-1960), operante sopratutto a Roma e
direttore dell rivista “900”, che nei suoi testi narrativi e teatrali inserì nella descrizione del
grigiore borghese elementi appunto magici o assurdi. Legato al surrealismo, ma nello stesso
tempo pure all’ideale di scrittura raffinata e tradizionale, è poi lo scrittore e artista Alberto
Savinio (1891-1952), fratello di Giorgio De Chirico e autore di testi nei quali la verve
linguistica si applica a temi mitologici o psicanalitici, con risultati di volta in volta assurdi,
grotteschi o comunque inquietanti. Decisamente surrealisti risultano alcuni testi di Antonio
Delfini (1908-1963), mai privi di una bizzarria carica di linfe satiriche e polemiche. Più
semplificate, ma ricche di componenti fantastiche e addirittura di sfumature kafkiane le
opere di Dino Buzzati (1906-1972), il cui testo più celebre resta Il deserto dei Tartari (1940).
Infine, va ricordato l’autore che meglio sintetizzò sia le tendenze a una scrittura colta e
spesso persino manierista, sia quelle alla ricerca di temi singolari, tra il fantastico e il
surreale, con chiare componenti psicanalitiche, Tommaso Landolfi (1908-1979). Landolfi fu
un ottimo conoscitore della lingua e della letteratura russa, della quale tradusse vari
capolavori. Nei suoi testi si coglie una pulsione autodistruttiva che, oltre a trovare riscontri
nella biografia, rinvia a grandi opere del periodo romantico e ai romanzi dostoevskiani. Già
nei racconti del Dialogo dei massimi sistemi (1937) i nuclei tematici fondamentali sono
quelli della morte e delle ossessioni, che si sostanziano di umori fantastico-grotteschi. Nel
successivo Il mar delle Blatte e altre storie (1939) viene addirittura proposto un bestiario in
parte inventato, mentre aumentano gli elementi misteriosi e allucinati. Anche nel
dopoguerra Landolfi prosegue su questo filone, raggiungendo un efficace risultato con
Racconto d’inverno (1947), mentre nel 1953 inizia una fase di sperimentazione linguistica e
infine di testi narrativo-diaristici, sempre più cupi e nichilisti.

Negli anni trenta si registrano vari esempi di un tipo di realismo più legato alla volontà di
documentare la vita italiana, a volte con finalità polemiche nei confronti del regime
fascista. Non mancano romanzi o racconti al confine tra lirismo e descrizione oggettiva. E’ il
caso del romanzo breve Gente in Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro, che collaborava con
Bontempelli a Roma nella redazione della rivista “900”. Tra realismo e decadentismo si
muovono i racconti di Sodoma e Gomorra (1931) dello scrittore Curzio Malaparte, che
pubblicò dal 1944 opere interessanti e nello stesso tempo irritanti, specie per la volontà di
continuare a esibire un io anarchico-dannunziano nel bel mezzo delle rovine della guerra.
Più improntati a una volontà di documentazione sono alcuni testi che godettero ampia
fortuna tra gli antifascisti. Il primo da segnalare è Fontamara (1933) di Ignazio Silone
(1900-1978), che si trovava in esilio in Svizzera per la sua militanza comunista. Fu
pubblicato in Italia, ma subito considerato “disfattista” dal regime, Tre operai (1934) di
Carlo Bernari (1909-1994), romanzo narrato in maniera sperimentale e ambientato nei primi
anni del Novecento fra i proletari di una Napoli grigia e opprimente. Infine, un diario
romanzato della vita in trincea durante la prima guerra mondiale, nel quale si coglie una
polemica contro tutte le dittature, è Un anno sull’altipiano (1938), scritto dall’antifascista
Emilio Lussu (1890-1975), in esilio a Parigi e fra i promotori con i fratelli Carlo e Nello
Rosselli del gruppo politico-culturale “Giustizia e Libertà”.

In ambito teatrale le novità del periodo fascista sono piuttosto limitate: mentre prosegue
sino al 1936 la parabola di Pirandello, e mentre il melodramma, dopo la morte di Puccini,
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stenta a rinnovarsi, vengono proposti o drammi tra il grottesco e il surreale, oppure


rivisitazioni del filone regionalistico, in genere prosecuzioni più o meno dirette del realismo
ottocentesco. In questo ambito si colloca l’opera di Eduardo De Filippo (1900-1984). Risale
già al 1931 uno dei suoi testi più celebri, Natale in casa Cupiello, nel quale si rivelano le
tensioni di una modesta famiglia radunata per il preparativi natalizi. Una più ampia
possibilità di rappresentare la realtà storica fu data a De Filippo dalla fine del regime:
proprio introno alla metà degli anni Quaranta risalgono quasi tutti i suoi drammi più noti,
quali Napoli milionaria (1945) o Filumena Marturano (1946). Numerose e fortunate furono
poi le trasposizioni cinematografiche delle sue opere principali.
A proposito del cinema, va notato che il regime lo impiegò come strumento di propaganda,
puntando a valorizzare attori e registi italiani. Il cinema diventò negli anni Trenta un polo di
attrazione per molti letterati: vari scrittori cominciarono a far ricavare sceneggiature da
loro romanzi o testi teatrali. Molti s’inserirono nella neonata Cinecittà, la cui direzione fu
affidata dal regime a Emilio Cecchi nel 1937.

Italo Svevo (1861-1928)


Italo Svevo è lo pseudonimo assunto da Hector Schmitz, nato nel 1861 a Trieste da una
famiglia di ascendenza ebraica. Il padre lo avviò agli studi tecnici e presto Svevo dovette
impiegarsi in una banca. Tuttavia continuò a coltivare la sua passione per la letteratura e il
teatro, che lo aveva spinto alla lettura di molti classici italiani e tedeschi.
Trieste era ancora sotto il dominio asburgico, marginale rispetto ai più autorevoli centri
culturali italiani, come Firenze. Il giovane aspirante scrittore s’interessò pure di politica e
filosofia, e lesse Schopenhauer e Darwin, sulle cui teorie rifletté a lungo. Iniziò intanto a
pubblicare recensioni e racconti: molto interessanti risultano essere quelli pubblicati sul
quotidiano irredentista “L’indipendente”, come il primo edito, Una lotta (1888), che già
presenta un tema tipico sveviano: la sconfitta degli eccentrici nella lotta darwiniana per
sopravanzare nella vita.
Nonostante i contrasti famigliari, Svevo continuò a scrivere e a pubblicare: nel 1892 uscì il
suo primo romanzo, Una vita. Seguirono anni intensi, nei quali Svevo si sposò con una cugina
di secondo grado, Lina Veneziani, si avvicinò a posizioni socialiste, testimoniate dal racconto
Una tribù (1897), e pubblicò un secondo romanzo, Senilità (1898). Ma l’ulteriore insuccesso
e il cambiamento lavorativo, spinsero Svevo ad allontanarci ufficialmente dalla letteratura,
anche se in segreto continuarono le sue prove di scrittura narrativa e teatrale. Dal 1906
Svevo cominciò a studiare inglese con James Joyce ed entrò in contatto con le teorie di
Freud, che costituiranno un sostrato fondamentale delle sue opere successive. A partire dal
1919, iniziò la stesura del suo capolavoro, La coscienza di Zeno, edita nel 1923. Grazie a
Joyce, l’opera ottenne ottimi riscontri a Parigi, e fu valutata positivamente anche in Italia.
Ma quando ormai la sua fama stava crescendo, e si moltiplicavano i suoi nuovi scritti teatrali
e narrativi, Svevo morì per un incidente d’auto nel 1928.

La prima prova narrativa di notevole impegno per Svevo è il romanzo Una vita (1892). Il
titolo provvisorio, Un inetto, già spiega il carattere del protagonista: come molti personaggi
della narrativa di fine Ottocento, Alfonso Nitti è un individuo modesto, un impiegato di
banca incapace di portare a compimento i suoi sogni, generati da letture letterarie e
filosofiche. Di fatto, dopo una serie di traversie dovute all’amore per la figlia del
proprietario della sua banca, alla morte della madre e a una grave malattia, Alfonso si sente
del tutto “incapace alla vita”, e alla fine decide di suicidarsi. Non mancano gli influssi
evidenti di autori come Stendhal, Flaubert e Zola. Ma l’inettitudine radicale di Alfonso pare
sopratutto un’applicazione delle teorie darwiniane, che lo vedrebbero dalla parte dei
deboli, destinati a soccombere nonostante le loro doti. Inoltre la scelta finale del suicidio
sembra portare alle estreme conseguenze la posizione di Schopenhauer sulla necessità di
sopire la “volontà” di continuare a esistere. In effetti, Alfonso rinuncia persino a spiegare la
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sua scelta in una lettera ad Annetta, nella quale avrebbe potuto usare la letteratura per
giustificare i comportamenti nella vita; ma al termine della parabola è la vita stessa che si è
rivelata al protagonista priva di qualunque attrattiva.
Nonostante gli scarsissimi riscontri, Svevo continua costantemente a scrivere negli anni
successivi, accentrando nel contempo i suoi interessi per il socialismo, ben evidenti nel
racconto filosofico La tribù: nella vicenda di due capi politici asiatici si riflettono le tensioni
fra riformisti e rivoluzionari in ambito socialista. Nel 1898 esce il secondo romanzo sveviano,
Senilità, nel quale si coglie una più raffinata capacità di introspezione psicologica. Le
vicende di tipo naturalistico lasciano il posto a un intreccio con quattro personaggi: il
principale è Emilio Brentani, autore di un romanzo invenduto, innamorato della bella
popolana Angiolina, che però rivela col tempo la sua rozzezza e s’invaghisce di Stefano Balli,
scultore mediocre ma vitalistico, di carattere quasi opposto al giovane scrittore e amico.
Anche la sorella di Emilio, Amalia, è innamorata segretamente di Balli, e soffre al punto di
ridursi in fin di vita perché lo scultore le preferisce Angiolina; a sua volta Emilio si trova solo
al termine del romanzo, precocemente arrivato alla “senilità”, come sempre incapace di
agire e in grado solo di sognare.
Pure in quest’opera si cogli una contrapposizione fra i deboli-sognatori e i forti-realisti,
darwinianamente molto più adatti alla vita. I tentativi di Emilio di idealizzare Angiolina e di
farne un modello d’amore perfetto sono destinati a fallire, ma vengono rappresentati con
efficacia grazie anche a un uso interessante del discorso indiretto libero, che permette di
cogliere pensieri e impressioni del protagonista. Ma un altro aspetto emerge con chiarezza
in questo romanzo: l’inaffidabilità delle affermazioni del protagonista, che spesso si scopre
travestire le sue vicende secondo una prospettiva falsificante o almeno svariante: il fatto
stesso che Emilio si senta ancora giovane e impreparato ad affrontare scelte fondamentali
viene messo in discussione dalla voce narrante, che invece sottolinea il suo essere ormai
privo delle “belle energie” dell’età giovanile. Il protagonista viene smentito in vario modo,
e il suo essere “nel mezzo del cammino” vitale non costituisce una giustificazione, ma
semmai un’ulteriore certificazione di inettitudine. In forme diverse, molti dei temi presenti
in Senilità verranno ripresi e scomposti nel capolavoro sveviano, La coscienza di Zeno.

Dopo l’ulteriore insuccesso di Senilità, Svevo decide di abbandonare la scrittura, e sembra


dedicarsi soltanto al commercio borghese nella ditta del suocero. In realtà, dal 1899 al 1923
egli continua a elaborare saggi e a comporre racconti e testi teatrali, nei quali imposta
nuove teorie sull’evoluzione dell’umanità e sperimenta nuove tecniche narrative. In
particolare, in questi anni sembra leggere con maggiore interesse la letteratura
anglosassone contemporanea e anche settecentesca. E’ quindi la tecnica umoristica a venir
messa in pratica da Svevo, che scrive racconti e fiabe incentrati su situazioni singolari,
pseudo-scientifiche, ricchi di dialoghi arguti e di prospettive stranianti. Un’ulteriore spinta
alla conoscenza della cultura inglese viene a Svevo dall’incontro con James Joyce, con il
quale entra in amicizia.
Il 1919 è l’anno in cui Svevo comunica la stesura della Coscienza di Zeno, pubblicato nel
1923. Nel frattempo lo scrittore ha conosciuto meglio le teorie freudiane, che gli
permettono di approfondire le sue idee sull’animo umano, intrecciandosi con quelle sul
l’evoluzionismo. Il risultato è la nascita di un personaggio del tutto nuovo nel panorama
italiano e originale anche in quello internazionale: un commerciante ben poco abile,
sposatosi in modo quasi grottesco, affidatosi poi alle cure della “psico-analisi” senza una
effettiva fiducia,ma costretto a scrivere una sorta di memoriale degli eventi più significativi
della propria vita. Appunto questo brogliaccio, sottratto al paziente Zeno Cosini dal dottor
S. dopo l’improvvisa interruzione della cura, viene a costituire la base della narrazione. Essa
però non segue un percorso lineare, ma al contrario, procede in apparenza a caso, per
blocchi al cui interno la voce del protagonista-narratore prende il sopravvento e descrive la
realtà secondo una prospettiva decisamente unilaterale, umorale, addirittura falsa, perché
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in molti casi Zeno si contraddice, oppure il lettore scopre da qualche indizio che le cose non
stavano esattamente come lui le ha raccontate.
Zeno quindi è un personaggio nevrotico e mentitore, soggetto a problemi psicosomatici.
Esordisce raccontandoci di come ha tentato infinite volte di smettere di fumare, trovando
stratagemmi inverosimili per violare le proprie autoimposizioni; prosegue narrandoci il
difficile rapporto con il padre, e la storia del suo matrimonio, che si conclude con la scelta
di Augusta, quella fra le sorelle Malfenti che non avrebbe mai voluto sposare; ci parla
ancora della sua amante e della sua incapacità a gestire le trattative commerciali salvo che
poi la situazione di capovolge a suo favore, sopratutto nel periodo bellico. L’ultimo capitolo,
in forma di diario, si riferisce appunto al periodo iniziale della prima guerra mondiale, che
presenta una situazione drammatica e potenzialmente apocalittica: e Zeno, abbandonata la
psicanalisi, conclude provvisoriamente il suo racconto ipotizzando la distruzione del mondo
con una bomba.
Come si comprende, Zeno non è più solo un inetto: è un po’ normale e un po’ fool, il pazzo-
comico che però interpreta bene i lati oscuri del reale. Ciò che gli manca è la certezza di un
destino, tipica dei personaggi ottocenteschi. Al suo posto gli rimangono ipotesi, supposizioni
e teorie: quella sua propria è che tutti gli uomini sono in realtà ammalati, e che la salute di
fatto non esiste. Non esistono allora deboli e forti, ma solo malati consapevoli o meno: da
questa condizione il singolo si può riscattare grazie all’amore fisico (Carla, l’amante),
oppure può gettarsi a capofitto nel “reale materiale” durante periodi di condizioni estreme
(guerra). Resta il fatto che il paziente Zeno reputa di essere guarito, diventando un bravo
commerciante, mentre invece la chiusura e la fine sembrano incompatibili con la sua visione
del mondo, basata su un continuo affermare e smentire, piuttosto che su dati certi e
definitivi. In effetti, Zeno è probabilmente guarito dall’ottimismo scientifico, quello di tutti
coloro che pensano di poter cambiare le vite dei singoli o addirittura della vita umana
spiegando dove stanno le malattie e dove la salute: tutto è malattia, e per questo il mondo
sembra destinato a finire con una grottesca apocalisse; ma chi lo ha capito, e lo denuncia,
paradossalmente può ritenersi guarito, al di là di ogni cura psicanalitica. Questa condizione,
umoristicamente felice, è quella in cui viene lasciato il protagonista sveviano: ma il testo
non può dirsi concluso, perché la dialettica di verità e menzogna potrebbe continuare anche
dopo la provvisoria chiusura.

Dal 1924-25 per Svevo finalmente cominciarono ad arrivare i riconoscimenti, nonostante le


varie critiche sulla lingua poco elegante. La non-conclusione della Coscienza suggerì allo
scrittore di penare a prosecuzioni, effettivamente intraprese ma lasciate incompiute a
causa della morte. Nei vari abbozzi Zeno compare ormai vecchio, alle prese col problema di
sfuggire alla fine attraverso una sorta di “letteraturizzazione della vita”, ovvero la
trasformazione della vita in scrittura continua e potenzialmente infinita. Ma tali abbozzi
rimangono molto frammentari. Sempre nell’ultima fase della sua attività, Svevo pubblicò o
revisionò molto racconti e testi teatrali. Fra quelli più interessanti, si possono citare i
racconti Corto viaggio sentimentale (1925-26), che sin dal titolo rinvia al modello del
Viaggio sentimentale di Sterne, Una burla riuscita (1926) e il dramma La rigenerazione
(1927-28), che affronta uno dei temi più battuti dall’ultimo Svevo, ossia quello
dell’invecchiamento e della sua giustificazione in una prospettiva biologico-darwiniana. In
generale, questi ultimi tentativi presentano ulteriori dopo dell’autore che continua sino
all’ultimo a scrivere una sorta di ironica autobiografia per interposti personaggi.

Carlo Emilio Gadda (1893-1973)


Carlo Emilio Gadda nacque a Milano nel 1893. Pur essendo altoborghese, la famiglia si trovò
in difficolta economiche a causa delle spese eccessive. Dopo la morte del padre, Carlo di
legò sempre più alla madre, che lo spinse agli studi di ingegneria, nonostante la sua
passione per le lettere. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come ufficiale
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volontario, ma venne fatto prigioniero dopo la sconfitta di Caporetto: solo alla fine del
conflitto venne a sapere della morte del fratello, subendone un trauma che scosse
ulteriormente il suo equilibrio psichico. Di tutti questi spunti autobiografici, come di molti
altri, si trovano tracce e allusioni in molte opere gaddiane.
Pur essendo costretto a svolgere l’attività di ingegnere, Gadda iniziò negli anni Venti a
scrivere ampi abbozzi di romanzo e trattati, pubblicati solo postumi. Fra gli altri vanno
ricordati almeno il Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924-25) e La meccanica
(1928-29), che contengono molte riflessioni sulle caratteristiche che deve avere il romanzo
moderno in rapporto alla tradizione; e la Meditazione milanese (1928), un trattato di tipo
filosofico basato sulle ampie letture gaddiane di Spinoza, Leibniz e Kant, che influenzarono
pure le sue scritture successive. Una riflessione fondamentale che inizia in questo periodo è
quella relativa ai rapporti tra vari registri linguistici, da quello aulico-tradizionale a quello
tecnico-scientifico a quelli popolari, dialettali e gergali. In questi testi cominciano a
emergere alcuni nuclei narrativi poi ossessivamente ripetuti nella produzione di Gadda, per
esempio quello della persona moralmente retta ma incapace di difendersi, che viene
emarginata dalla società, o quella della donna, casta o impura, che viene uccisa; o ancora,
più in generale, quello dei comportamenti dell’intera società in periodi di profonda crisi.
Nel 1931 esce la prima raccolta gaddiana di racconti, La Madonna dei filosofi, che viene
seguita nel 1934 da quella intitolata Il castello di Udine, accompagnata nella versione
originaria da una premessa di poetica e da un fitto apparato di note, tra l’erudito e
l’ironico. I buoni riscontri e l’ammirazione del gruppo legato alla rivista “Solaria” non
consentono però a Gadda di abbandonare il lavoro di ingegnere. Intanto, continua a scrivere
brevi testi inseribili nel filone della prosa d’arte. Più di recente sono state pubblicate le
cospicue parti di un romanzo, Un fulmine sul 220, abbozzato tra il 1932-36 e dedicato
all’analisi di una famiglia borghese lombarda; da esso Gadda ricaverà materiali per alcuni
racconti, in parte editi nella raccolta L’Adalgisa (1944). Nel 1936 muore la madre e Gadda è
costretto a prendere dolorose decisioni, che aumentano i suoi sensi di colpa e le sue
nevrosi. Poco dopo comincia a scrivere La cognizione del dolore.

Pubblicata in parte sulla rivista fiorentina “Letteratura” tra il ’38-41,poi in volume nel 1963,
La cognizione del dolore mette in evidenza non solo alcuni dei temi più forti in Gadda, ma
anche la sua difficoltà a chiudere definitivamente le opere, tanto che quasi tutte le più
lunghe restano allo stadio di abbozzi o comunque incompiute. Ciò implica, per la critica, la
necessità di interpretare i finali, ma sopratutto implica una questione di poetica: per Gadda
la trama non è più il punto essenziale di un romanzo, che invece vive sopratutto della sua
capacità conoscitiva, ovvero della possibilità a esso connaturata di interpretare il mondo
attraverso il linguaggio. Anzi, per questo autore, che dichiara in molti suoi saggi di aver
bisogno di tutte le potenzialità linguistiche, la mescolanza delle lingue e degli stili è l’unico
modo di riuscire a rappresentare l’infinita complessità del mondo. Dunque, un Gadda
letterato-scienziato-filosofo, alla ricerca di una sua via per “singula enumerare” (elencare
tutte le singole cose) e “omnia circumspicere” (osservare tutto). Questo aspetto, ancor più
vistoso nel Pasticciaccio, si coniuga sempre con una fortissima volontà di giudizio, che
riguarda tanto i comportamenti umani consueti, quanto le storture più gravi e ingiuste.
La cognizione si apre nel fantastico paese sudamericano del Maradagàl, simile alla Brianza,
in cui imperversano reduci di guerra che mai hanno visto il fronte, profittatori, speculatori:
e il povero protagonista don Gonzalo Pirobutirro, ingegnere che vive in una villa dissestata
con la vecchia madre, deve subire angherie e minacce d’ogni tipo, diventando ancora più
nevrotico ed esasperato. Le parti satirico-grottesche si alterano con altre molto più dolorose
e drammatiche, come il dialogo fra Gonzalo e un medico, nel quale il primo rivela il suo
“male oscuro”, legato in parte al rapporto di amore/odio con la madre. Di quest’ultima
viene adottato il punto di vista nella quinta sezione, nella quale si comprende tutto il suo
rammarico di non riuscire a instaurare un rapporto spontaneo col figlio. Dopo varie
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vicissitudini, si arriva a una conclusione tragica, benché non del tutto compiuta.
Gli eletti edipici non bastano a spiegare la ricchezza del testo gaddiano. La stravaganza
nevrotica di Gonzalo non è dovuta soltanto alla complessità del legame filiale, ma pure alla
sua incapacità di adattarsi all’imperfezione del mondo, alle ingiustizie e ai soprusi: del suo
“male oscuro” si continua a ignorare la causa, perché, le cause sono molteplici e intanto
però quel male ”lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere di una vita, più
greve ogni giorni, immedicato”.
Questo breve citazione già fornisce un esempio di uno dei tanti registri stilistici della
Cognizione: si possono riscontrare il tragico/lirico/parodico/satirico-grottesco ecc. E pure i
linguaggi variano di molto, con moltissimi preziosismi e costruzioni sintattiche complesse.
Tale raffinata ed espressionistica non rimane però puro virtuosismo, perché proprio
attraverso l’elaborazione stilistica Gadda riesce a sostanziare la sua “cognizione” della vita.
Numerosi e plausibili i modelli riscontrati: da Manzoni a D’Annunzio sino all’Amleto e alla
tragedia greca. Il grottesco addirittura aggressivo nei confronti dei piccoli-grandi borghesi si
alterna con il tragico di un’esistenza all’insegna della negazione, della lontananza da ogni
forma di gioia e di vicinanza alla “verità del dolore”.

Negli anni della seconda guerra mondiale Gadda soggiorna a Firenze e poi a Roma, dove
compone il suo secondo grande romanzo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957).
Il testo si presenta in forma di giallo, incentrato com’è su un delitto avvenuto a Roma in
pieno regime fascista. La vittima è Liliana Balducci, residente in un palazzo in via Merulana,
in apparenza domma e moglie proba, ma figlia di uno dei tanti profittatori di guerra. Amico
di famiglia è il commissario Ciccio Ingravallo, che viene incaricato delle indagini: a mano a
mano che queste avanzano, però, si conferma vera una delle stravaganti teorie del
detective, e cioè che le “inopinate catastrofi” sono il frutto di “tutta una molteplicità di
causali convergenti”. In effetti, il giallo gaddiano, più che puntare alla scoperta degli indizi
e delle spiegazioni, procede per deviazioni, piste sbagliate, riconoscimenti di contatti
insospettabili: insomma, più che l’indagine concreta conta quella conoscitiva di Ingravallo,
che alla fine sembrerebbe approdare alla scoperta di una responsabile, ma senza che ciò sia
confermato. Non a caso, nelle varie redazioni il finale viene modificato e il colpevole
cambia.
Rispetto alla Cognizione, domina qui una narrazione più consequenziale, che procede però
alternando al romanzesco popolare di fondo molti linguaggi e gerghi. Inserite in questa
polifonia si collocano parti stilisticamente molto marcate, come quella tragica quanto mai
barocca in cui viene descritto il cadavere di Liliana.
La trama è una sorta di canovaccio, quanto mai libero: le deviazioni dall’inchiesta
principale sono numerose, innanzitutto per seguire un furto di gioielli avvenuto nello stesso
palazzo di Liliana; poi per approfondire la biografia di molti personaggi in apparenza
secondari; infine per proporre lunghe e minuziose descrizioni che dilatano i dettagli sino a
rendere l’insieme volutamente incongruo. Il barocco del mondo trionfa: e dietro i delitti si
celano forze oscure, violente, tra eros e odio, comunque in grado di distruggere qualunque
difesa razionale e morale. Va aggiunto che Gadda non mancò qui di concretizzare la sua
abilità polemico-satirica contro un obiettivo preciso: il fascismo. Nella realtà biografica lo
scrittore si mostrò in un primo tempo vicino agli ideali del fascismo, in seguito però si rese
conto di quanto ingiusto fosse il governo mussoliniano, contro il quale forse già nella
Cognizione, ma certamente qui si appuntano gli strali gaddiani.

Dopo la prima stesura del Pasticciaccio, Gadda cominciò sopratutto a rimaneggiare le sue
opere. E’ il caso delle raccolte Novelle dal Ducato in fiamme (’53) e Accoppiamenti
giudiziosi (’63). I racconti più consistenti e riusciti, ossia San Giorgio in casa Brocchi (’31) e
L’incendio di via Keplero (’40), dipendono in varia misura dal romanzo incompiuto Un
fulmine su 220 e, come quelli già proposti in L’Adalgisa, descrivono ambienti del milanese
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con la consueta vivacità linguistica ricca di umori: un tema che ricompare è quello della
passione amorosa tra due classi sociali diverse, e del resto la problematica sessuale, specie
riguardo alle forme di repressione borghese dell’eros,ricorre in quasi tutto l’opera gaddiana.
Nel 1955 Gadda decide invece di rivelare un altro dei suoi tragici trascorsi esistenziali,
concedendo la pubblicazione del Giornale di guerra e di prigionia, peraltro parziale: si
colgono qui non solo alcuni dei motivi del risentimenti gaddiano contro gli opportunisti e i
profittatori di guerra, ma pure le tracce della sua forma mentis, tendenzialmente portata
all’elaborazione idealistica si un mondo perfetto, poi distrutto dal lassismo morale e dal
pressappochismo dei più.
Nel 1958 si registra l’edizione della raccolta di saggi I viaggi, la morte, nella quale vengono
riproposti alcuni testi fondamentali per comprendere la poetica gaddiana: fra gli altri,
vanno citati Lingua letteraria e lingua dell’uso (’42), dove lo scrittore afferma che è
necessario contorcere il linguaggio per ricavarne un senso autentico, e Come lavoro (’49),
nel quale definisce il suo un “impiego spastico” del linguaggio, grottesco ma sempre in
funzione gnoseologica. Altri contributi significativi sono stati riediti postumi in Il tempo e le
opere (’82): fra questi, molto rilevanti l’Apologia manzoniana (’27), nella quale i Promessi
sposi vengono considerati un’opera in cui dominano l’analisi del reale e il giudizio sulle
buone azioni e sulle colpe. A parte molti testi minori, va infine citato un saggio umorale,
Eros e Priapo: da furore a cenere (’67), nel quale Gadda scatena la sua virulenta satira
contro Mussolini, appellato nei modi più stravaganti e accusato di essere soltanto il
collettore di pulsioni erotiche represse. Il linguaggio qui più che mai scoppiettante e
perfido, mostra con le sue forzature espressionistiche i lati più osceni del potere.

Sebbene il regime fascista condizionasse pesantemente il dibattito culturale, rimanevano


ridottissimi margini per una discussione. A livello filosofico-politico, in posizione
contrapposta al nume tutelare dell’idealismo liberale, Benedetto Croce, si schierò Giovanni
Gentile (1875-1944), egli pure di formazione idealista, ma sostenitore del valore assoluto
dello Stato: il suo apporto al regime fu determinante tra l’altro per una vasta riforma
scolastica. Avversari del fascismo furono il socialista-liberale Pietro Gobetti, citato per la
sua rivista “Il Baretti”, e Antonio Gramsci, destinato a morire nelle carceri del regime, non
senza aver scritto fondamentali riflessioni nei suoi Quaderni, molti dei quali dedicati al
ruolo sociale della letteratura, con analisi relative ad autori come Machiavelli, Manzoni..
Nonostante le restrizioni, numerose furono le riviste letterarie attive sotto il fascismo: fra
queste, si sono già ricordate, “Solaria” (FI ’26-34) alla quale collaborarono quasi tutti i
maggiori scrittori dell’epoca e che dedicò largo spazio alla presentazione di nuovi autori
europei; e “Letteratura” (’37-68), diretta da Alessandro Bonsanti e per vari aspetti
prosecuzione della precedente. Oltre a queste, anche la romana “900” di Bontempelli riuscì
a proporre traduzioni di scrittori stranieri, dimostrando di superare nei fatti l’autarchia del
fascismo. Durante il Ventennio si rinforzarono la cultura popolare e quella di massa. In
questi anni il mezzo di comunicazione più diffuso ed efficace diventò la radio, cui
collaborarono scrittori e letterari. Vanno ancora ricordate le nuove collane di testi a grande
tiratura: cominciarono i primi gialli e poi i neri, il filone rosa trovò in Liala (1897-1995)
un’autrice di culto, mentre per il genere erotico godette di ottima fortuna Pitigrilli
(1893-1975); pure l’umorismo di Achille Campanile (1900-1977) ottenne larghi riscontri. Va
infine menzionato un altro tipo di cultura popolare, quello della musica leggera, i cui testi
erano ancora lontani, in genere, da una valida elaborazione, ma vennero largamente diffusi
grazie anche alle trasmissioni radiofoniche.

I critici militanti più quotati nel periodo tra le due guerre sono già stati citati: da Emilio
Cecchi a G.A. Borghese, da Carlo Bo a De Robertis al giovane Giacomo Debenedetti, senza
dimenticare il persistente ruolo di Croce. Va notato però che aumentano in questa fase gli
studiosi di solida formazione che si occupano anche di letteratura contemporanea: il primo
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e più celebre resta Gianfranco Contini (1912-1990), in assoluto uno dei maggiori critici
italiani del Novecento, tra i primi interpreti di autori come Gadda e Montale, ma anche
editore e commentatore di classici. Al suo fianco va ricordato, per la straordinaria qualità di
scrittura, il critico d’arte Roberto Longhi (1890-1970).
In questo periodo, la critica italiana porta a compimento molte opere di grande valore, in
particolare per l’interpretazione di Dante, Ariosto e Manzoni, per mano dei già citati
Michele Barbi e Santorre Debenedetti, ma anche Pio Rajna, che per altro aveva già
pubblicato a fine Ottocento i suoi lavori più significativi, Ernesto G. Parodi, molto attivo con
la Società Dantesca negli anni della ricorrenza del VI centenario della morte di Dante, e dei
più giovani Vittore Branca e Walter Binni, che sarebbero diventati sempre più autorevoli nel
secondo dopoguerra. Va infine ricordato il critico e scrittore romani Mario Praz (1896-1982),
anglista e comparatista, che con il suo fortunatissimo saggio La carne, la morte e il diavolo
nella letteratura romantica (’30) si affrancò dai dettami crociani per proporre un esempio
ancora molto valido di critica tematica.

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