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Care management
Il modello case o care management, nasce negli Stati Uniti con l’obiettivo di
sistematizzare il ruolo di intermediazione tra le persone e il mercato dei servizi degli
operatori sociali. I punti fondamentali del care management si collocano nel contesto
di una separazione tra purchaser (compratore di servizi) e provider (erogatore di
servizi); in questo contesto il ruolo dell’operatore diventa quello di costruire pacchetti
personalizzati di servizi e di valutarne in seguito la qualità.
Il care manager ha a disposizione un budget e lo gestisce distribuendo risorse sulla base
della valutazione dei bisogni. Payne individua tra tipi di assessment iniziali:
- l’assessment finanziario, mirato ad identificare il contributo in termini di
supporto cui l’utente ha diritto;
- l’assessment iniziale, che consente di identificare i problemi principali e di
indirizzare le persone agli operatori e ai servizi più adeguati ad affrontare le
situazioni;
- l’assessment dei bisogni, uno screening generale di quelli che possono essere i
bisogni delle persone, che rappresenta la base per identificare pacchetti di
servizi.
La valutazione iniziale degli assistenti sociali, diventa la moltiplicazione delle schede
di rilevazione mirate ad indirizzare e standardizzare il processo.
Il managerialismo tende dunque a imporre un processo di lavoro il più possibile
omologato e proceduralizzato. Inoltre in una logica di limitazione della spesa pubblica
in campo sociale, il protagonista in tale scenario è il budget che diventa fattore
discriminante nelle scelte e nelle strategie adottate.
Critica del managerialismo
In una logica di limitazione della spesa pubblica in campo sociale, la valutazione degli
interventi e della capacità del lavoro sociale di rendere conto del proprio operato,
diventa centrale il “servizio che deve valere la spesa” (value for money), che si traduce
sul come monitorare l’efficacia degli interventi in modo da verificare se il denaro
pubblico è stato speso bene. Il protagonista di questi cambiamenti è il budget che
diventa fattore discriminante nelle scelte e nelle strategie adottate. Nel modello di care
management si privilegia: un’attività delle reti informali, della famiglia, del
volontariato. Il lavoro in comunità, la limitazione dei ricoveri in istituto e la
promozione di domiciliarità, diventano gli interventi privilegiati perché meno costosi.
In tale contesto gli operatori devono operare al fine di individuare le offerte più
economiche e vantaggiose.
Payne, sostiene che la community care, politica entro cui si è affermato il care
management in Gran Bretagna incarna molti principi che hanno caratterizzato il
servizio sociale. Per esempio, la valorizzazione del lavoro di comunità e la tensione
verso la de istituzionalizzazione sono tempi importanti del servizio sociale in chiave di
interventi emancipatori. Questi stessi temi sono ripresi dai modelli di care management
in una logica di efficienza e risparmio, che enfatizza e valorizza le reti informali e le
risorse dei soggetti coinvolti. L’attenzione dei bisogni, del care management, è uno dei
concetti centrali nella professione; inoltre, potenziare le capacità di scelta del cittadino
è uno dei cavalli di battaglia dei modelli di care management. Il cittadino potrà
acquisire il potere di orientare il mercato dei servizi attraverso le proprie scelte; in linea
di pensiero sembra convergere con i valori di autodeterminazione e con i principi di
empowerment del servizio sociale. Secondo Segal (1999), il care management
rappresenta, per la professione, l’opportunità di mettere in pratica i suoi principi
caratterizzanti, aiutando le persone ad attivarsi e a trovare le proprie strade anziché
sostituirsi con esse. Tra gli obiettivi operativi più importanti del care management vi è
quello di armonizzare e razionalizzare gli interventi sui singoli utenti.
Critiche al managerialismo
La cultura del management ha assunto molte parole e concetti che facevano parte
del servizio sociale ma li ha collocati all’interno di un contesto differente, spesso
in contrasto con quello originale. Per esempio, il concetto di bisogno che è centrale
sia nella cultura del servizio sociale sia nel care management; in realtà, in quest’ultimo
caso la comprensione dei bisogni viene trasformata in una procedura standardizzata in
cui alla globalità dell’ottica sociale si sostituisce uno screening o schede
onnicomprensive. La globalità del servizio sociale significa un’attenzione a cogliere
sfaccettature del bisogno, la capacità di cogliere come un bisogno materiale possa avere
dimensioni affettive, relazionali, cognitive e toccare aspetti quali il rispetto e la dignità
della persona. Nel care management la globalità si traduce in una sorta di radiografia,
in cui la soggettività delle persone trova spazio nell’autocompilazione di modelli
precostituiti sulla base dei frameworks di chi gestisce i servizi, non delle persone che
li utilizzano.
Lorenz (2005) espone la differenza di significato nel concetto di attivazione:
• Da una parte, letto come aiuto alle persone a sollevarsi da una posizione di
dipendenza, sia intermini di rafforzare le capacità, sia a livello della comunità nel
sostenere l’auto-aiuto;
• Dall’altra parte, l’attenzione può essere vista come una misura punitiva, una sorta di
test delle capacità disegnato per identificare e segregare gli “immeritevoli” e gli
imbroglioni, che sfruttano il sistema per coltivare la propria pigrizia.
Le politiche di workface si basano su un’ipotesi fondata empiricamente con supporti e
aiuti da parte dello Stato; sui possibili effetti delle politiche di sostegno al reddito e di
contrasto alla povertà in termini di indebolimento delle solidarietà familiari da un lato,
e di induzione di dipendenza dall’altro.
Nel servizio sociale, il concetto di empowerment, si afferma all’interno di una
corrente legata all’emancipazione di soggetti e gruppi emarginati. L’empowerment
rimanda ai processi di creazione di consapevolezza: dalla propria posizione sociale, dei
propri diritti e della propria forza. Nel management, l’empowerment si pone come atto
che consiste nel dare (o scaricare) la scelta dei soggetti; il concetto stesso di libera
scelta è stato oggetto di discussione.
Viviamo in una società in cui le nostre scelte sono influenzate ed espone i cittadini a
strumentalizzazioni mirate al profitto o al risparmio. Il budget, nella nostra cultura, è
il protagonista, ma si rischia di selezionare offerte e servizi che solo in apparenza si
presentano bene. Questa situazione ha messo a repentaglio gli aspetti più positivi del
terzo settore, consentendo la sopravvivenza solo a chi si dimostra un buon venditore,
il che non sempre si traduce nella capacità di dare risposte ai bisogni delle persone.
Laddove si afferma l’ideologia individualista del neoliberalismo e la solidarietà sociale
si riduce ai minimi termini, si sviluppa un’ossessione rispetto al controllo dei rischi
connessi a qualsiasi forma di devianza; in una cultura managerialista, oltre alle
esigenze di screening dei bisogni l’altro motore di intervento diventa la gestione del
rischio. In questo quadro il cosiddetto risk management, con l’introduzione di
telecamere e la pianificazione degli interventi per controllare la devianza e la
delinquenza, diventa un nodo centrale.
Il care management in pratica
Tra i cambiamenti apportati vi è una ricaduta negativa sul lavoro degli assistenti
sociali e sulla qualità del servizio offerto; un primo aspetto che è cambiato è dato
dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro, molti operai sono stati assunti con
contratti temporanei e flessibili, dando avvio a un fenomeno di turn over. La ricerca
di Carey ha evidenziato questa coerenza di contratto sia con gli utenti, sia con i
colleghi, sul versante degli utenti, il nuovo modello ha portato una sorta di
mercificazione dei diritti. Nello stesso tempo vi è un impoverimento dei contenuti
valoriali della professione che si ripercuote sulla relazione operatore-utente e sulla
qualità dell’intervento. La mancanza di procedure, tempo, spazi, questionari da
compilare, creano un contesto burocratico che non facilita la comunicazione, le persone
non trovano l’ambiente accogliente che consentirebbe loro di esprimere la loro
esperienza. Gli operatori non hanno sufficiente tempo per curare la trasmissione di
informazioni, e in assenza di informazioni e di una rete possibile di ascolto vi è un
aumento delle opportunità di scelta più apparente che reale.
L’introduzione del care management ha portato un aumento delle procedure del lavoro
burocratico ed amministrativo; gli operatori passano la maggior parte del tempo
completando schede, scrivendo relazioni di assessment e gestendo le dinamiche con i
soggetti a cui è stata delegata l’assistenza (provider). La percezione che se ne ricava è
una tendenza alla deprofessionalizzazione del ruolo; l’autonomia professionale è
sempre più sacrificata a vantaggio delle logiche di management. Gli operatori sono
sempre più costretti a confrontarsi con una situazione il cui mandato, la mission della
professione, è in contrasto con l’ethos che caratterizza i nuovi modelli di gestione
dell’intervento sociale. Il lavoro teso al miglioramento della qualità della vita, alla
valorizzazione della persona e della sua dignità, risulta in conflitto con logiche di
mercificazioni che riducono le persone a consumatori, considerando il mondo emotivo
di ciascun soggetto un possibile oggetto di commercio.
Gli assistenti sociali si trovano a dover affrontare dilemmi che mettono a repentaglio
la loro integrità professionale; Parry-Jones (1998) identificano tre modalità di gestire
questi dilemmi:
1. Un adattamento passivo e rassegnato dalla burocratizzazione del lavoro;
2. “fuga dal lavoro”, più spesso dall’ente pubblico ritenuto il luogo dove la professione
è più esposta a tensioni contrastanti.
Nel privato sociale vi sono più spazi per esercitare la professione in modo congruente
con la mission e con i suoi valori di fondo; il privato sociale vive di contratti e di
convenzioni con l’ente pubblico ed è sottoposto alle tensioni della concorrenza del
mercato;
3. Adesioni appartenenti alle logiche dominanti, soprattutto in Italia, gli operatori
svolgono in appartenenza il lavoro come richiesta dal nuovo modello organizzativo,
ma di fatto continuano a lavorare nel modo che ritengono più consono alla propria
professionalità. Questa modalità di resistenza passiva, identifica il modo di giocare il
proprio potere da parte di chi si trova ad operare sul fronte per mantenere attivi alcuni
servizi ed una capacità di risposta ai bisogni che altrimenti scomparirebbe;
4. È interessante notare che non sono stati ritrovati esempi del quarto tipo di relazione
al cambiamento: cioè gli atteggiamenti di ribellione aperta sembrano essere assenti tra
gli assistenti sociali.