Sei sulla pagina 1di 20

CAPITOLO 9: LE POLITICHE PUBBLICHE

1. Dalla politica alle politiche


Lo studio delle politiche pubbliche intende colmare le carenze analitiche della
scienza politica tradizionale concentrando la sua attenzione sui processi che
avvengono nella scatola nera, dove avviene il processo decisionale e quindi sugli
outputs e outcomes e sulle loro conseguenze.
Con outputs intendiamo quei processi che convergono domande e bisogni del
cittadino in decisioni e con outcomes si intende il vero e proprio effetto di tali
decisioni. La tesi generale degli studiosi delle P.P. è che sono esse a determinare la
politica e non il contrario, inoltre danno strutturazione sia ai governi che ai sistemi
partito.
2. Decisioni e politiche pubbliche
È importante sottolineare che nessuna singola decisione può essere considerata una
politica pubblica in quanto essa va oltre al momento decisionale comprendendo
anche quello dell’attuazione. Possiamo considerare che la politica è pubblica quando
viene prodotta dalle autorità di governo in senso lato, sono pubbliche quelle
politiche dispiegate da funzionari e organismi governativi. Essa è il prodotto
dell’attività di un’autorità provvista di potere pubblico e legittimità istituzionale.
Tuttavia è necessario sottolineare che le p.p. non sono frutto soltanto degli attori
politici ma di una pluralità di soggetti che intervengono più o meno nei processi di
produzione delle varie p.p.
3. Gli attori nella produzione di politiche pubbliche
Il punto di partenza dei vari studi è che non sono mai né i politici né i governanti a
produrre da soli le p.p.
Ci sono diversi modelli a cui fare riferimento=
a. Il modello del party government: nel quale il ruolo dei decisori delle pol.pub.
viene attribuito ad attori di appartenenza, di estrazione o di nomina partitica,
e che sono responsabili nei confronti dei dirigenti dei partiti. Il party
government trova attuazione concreta nei sistemi bipartitici, tuttavia elementi
di notevole prevalenza degli attori partitici nei processi di produzione delle
p.p. si riscontrano ampiamente anche nei sistemi non bipartitici. La partiticità
di un modello decisionale dipende dal rapporto tra sistema dei partiti+ sfera
sociale+ sfera economica quindi è giusto sottolineare che anche quando non
sono attori esclusivi e dominanti nelle decisioni delle p.p., i partiti e i loro
dirigenti sono sempre presenti.
b. Neocorporativismo= è un modello descrittivo e interpretativo delle modalità
di produzione delle p.p. Quello che ci interessa è vedere come questo modello
perviene alla spiegazione della produzione delle pol.pub. e per la versione del
pluralismo classico le p.p. sono il prodotto sempre mutevole dell’interazione
dall’esito mai predeterminato fra una molteplicità di interessi, gruppi,
associazioni, anch’essi mutevoli per composizione, struttura organizzativa,
capacità di durata, possesso di risorse e che lo Stato non è che uno di questi
gruppi. Secondo alcuni studiosi del neocorporativismo però la situazione reale
è ben diversa e i gruppi che contano davvero sono soltanto 3 ovvero i governi
e i loro apparati esecutivi, le organizzazioni sindacali, le associazioni
imprenditoriali e quindi gruppi ben organizzati in grado di rispettare gli
accordi. Tuttavia gli studiosi trascurano il parlamento e i partiti. È importante
sottolineare che quando le p.p diventano più complesse per contenuto è
impossibile mantenere gli assetti neocorporativi nella loro interezza.
c. I triangoli di ferro= l’esistenza di essi si giustifica con l’individuazione
dell’esistenza di 3 aggregazioni di attori che sono
-i gruppi di interesse
-le agenzie burocratico/amministrative
- le commissioni parlamentari
La caratterizzazione die triangoli di ferro mira a evidenziare la solidità del rapporto
che si stabilisce tra le 3 aggregazioni ed è bene sottolineare che questi triangoli
possono essere numerosi, sparsi e diffusi nello stesso sistema politico.
d. Le reti tematiche= è meno strutturato e più aperto a una molteplicità di
partecipanti, le reti danno vita a p.p. instabili e mutevoli, consta di interazioni
episodiche e occasionali destinate a essere esposte al pubblico e a durare
poco nel tempo.
e. Le comunità politiche= in questo modello gli attori continuano ad essere
numerosi e le comunità si costituiscono attraverso contatti tra politici+
burocrati+ rappresentanti di gruppi di interesse+ esperti che hanno continuità
di ruolo nel tempo. Questa continuità garantisce vantaggi derivanti dalle
competenze personali e dalla possibilità di strutturare un processo decisionale
di soddisfazione reciproca. Le politiche prodotte da un sistema di
negoziazione stabile e con solidato sono infatti attribuibili alle azioni di una o
più comunità politica.
Più complesso è il processo attraverso il quale si producono le p.p. dell’Unione
Europea, la partecipazione di una pluralità di attori porta a una confusione
caratterizzata da comitati internazionali e sovranazionali e quindi c’è opacità del
procedimento che ha condotto all’approvazione delle varie p.p
Il presunto deficit democratico dell’UE è attribuibile anche al sistema ei comitati e
alla relativa produzione di politiche pubbliche.
In conclusione è corretto affermare che a seconda dei sistemi politici e delle
politiche pubbliche vi sarà prevalenza di un modello su un altro.
4. Le fasi della produzione delle politiche pubbliche
Il punto da cui partire è che la necessarietà o meno di una politica pubblica dipende
quasi esclusivamente dalla valutazione delle autorità politico-istituzionali. Molto
spesso una pp costituisce un tentativo di disinnescare eventuali domande sociali
destinate a presentarsi più pericolosamente in futuro, altre volte è la conseguenza
delle interazioni fra attori che prendono parte agli scambi secondo i differenti
modelli elencati sopra. In estrema sintesi si può dire che la pol pubb risponde a
esigenze, domande e bisogni ma Quando essa si afferma in assenza di problemi può
rispondere all’interesse delle autorità di farsi pubblicità o ottenere fondi.
Le risposte in termini di produzione delle pol pubb potranno dispiegarsi in una
pluralità di fasi. La prima teorizzazione di Lasswell individuava 7 fasi=
-informazione, raccolta di notizie
-iniziativa, promozione di politiche alternative
-prescrizione, emanazione di regole generali
-invocazione, qualificazioni provvisorie della condotta sulla base delle prescrizioni
-applicazione, qualificazione finale della condotta sulla base di prescrizioni
- valutazione, stima della riuscita o meno delle decisioni
- cessazione, estinzione delle prescrizioni e degli istituti entrati a far parte
dell’ordinamento delle regole.
Le teorie successive hanno soltanto introdotto qualche precisazione a questo studio
di Lasswell, una volta identificato il problema si inserisce nell’agenda politica e si
inizia a formulare la soluzione. Tuttavia anche il processo di selezione della pol pubb
porta alcuni problemi, le autorità possono ritenere utile procedere a una valutazione
delle alternative e di previsioni di successo. Sulla base di una selezione fra
alternative politicamente accettabili e praticabili si perviene all’adozione di una
decisione. Tuttavia la decisine costituisce soltanto una componente delle p.p e
risulta più importante quella successiva ovvero l’attuazione, infatti una decisione
rischia di rimanere morta se non viene seguita attentamente nella sua attuazione.
Molto spesso le autorità politiche non si interessano all’attuazione perché non
interessate a dare seguito alla decisione e la messa in opera è complessa e rivela con
quali modalità un sistema politico è strutturato e funziona.

5. Attuazione e valutazione
Per quanto riguarda l’attuazione delle p.p si confrontano due prospettive analitiche:
a. La prima viene definita top down e suggerisce che l’attuazione processa
dall’alto, quindi dal vertice politico e burocratico che l’ha formulata e
approvata, alla base cioè coloro che sono incaricati di attuarla
b. Bottom up,i dettagli dell’attuazione vengono definiti, selezionati e tradotti in
pratiche dagli operatori che agiscono a contatto diretto con i fruitori delle p.p
Gli operatori hanno conoscenze e poteri sufficienti per adattare la politica
pubblica alle caratteristiche del loro pubblico e ad esigenze personali.
La valutazione è il procedimento finale della p.p, ci sono numerosi criteri per
valutarla come la capacità della politica pubblica di conseguire li obiettivi. Questa
caratteristica è l’efficacia mentre con efficienza si intende il conseguire gli obiettivi
con il minor costo possibile. Inoltre la valutazione della politica deve anche misurare
l’impatto successivamente alla sua attuazione, la valutazione può essere fatta sia da
outputs cioè tutto ciò che è emerso alla fine del procedimento della pp, sia in
outcomes ovvero ciò che ha davvero fatto la messa in opera di quella pp e che le
può essere attribuito.
Per la terminazione di una pp è indispensabile un’ulteriore pp che ne imponga la
cessazione.

6. Schemi decisionali

È possibile individuare 4 schemi decisionale delle pp.


a. Schema della razionalità sinottica= prevede che il decisore raccolga tutte le
info e i dati necessari, si impadronisca di tutte le variabili che influenzano la
messa in opera della pp e scelga con precisione una politica rispetto a
un’altra.
b. Razionalità limitata= il decisore non si preoccupa di prendere in esame tutte le
alternative ma si limita alla soddisfazione di alcune esigenze, una raccolta di
dati e info non necessariamente esaustiva. Per questo quando si renderanno
disponibili altri dati e altre alternative, il decisore procederà alla
riformulazione razionale della pp
c. Schema dell’incrementalismo sconnesso = i processi decisionali e di
produzione delle pp procedono per tentativi attraverso accordi e scambi,
crescendo su decisioni già prese, revisionandole e modificandole.
d. Schema del cassonetto della spazzatura= in questo modello i processi delle pp
sono caratterizzate da una molteplicità di variabili e il decisore si abbandona
alla casualità scegliendo delle alternative a discapito di altre.

7. Tipi di politiche pubbliche


La maggior parte degli studiosi accetta la classificazione fatta da Lowi che evidenzia
4 grandi categorie di pp:
- Le politiche distributive= abitualmente prodotte da assemblee costitutive e
dalle loro commissioni, riguardano servizi di vario tipo
Sono le distribuzioni di risorse pubbliche a singoli soggetti.
- Le politiche regolative= riguardano la produzione di norme che regolano i
comportamenti.
- Le politiche redistributive= tolgono risorse a alcuni per darle ad altri,
redistribuire risorse tra classi sociali
- Le politiche costitutive= formazione di norme e che sovrintendono alla
creazione di strutture di autorità, istituire organismi e dettare le regole del
gioco.
Da questa classificazione deriva l’insegnamento che una politica pubblica è
l’intervento delle autorità pubbliche e le modalità scelte plasmano anche le
strutture politiche. È importante dire che l’ideologia dei governi e dei partiti ha fato
differenza sul settore e sul tipo di politica pubblica, insieme a variabili sociali ed
economiche.
Un’altra classificazione che riprende quella di Lowi è la tipologia di Wilson che si
concentra sulle politiche regolative ma il ragionamento può essere esteso anche alle
altre politiche. È articolata in base a costi e benefici=
La tipologia di Wilson è incentrata sul modo in cui i destinatari delle politiche
percepiscono soggettivamente una determinata azione pubblica in termini di
“COSTI” e “BENEFICI”, che sarà intenso, quando gli effetti di una determinata politica
colpiscono direttamente (positivamente o negativamente) l’individuo in forma
personalizzata (costi o benefici concentrati), e debole, quando lo raggiungono
indirettamente in quanto appartenente alla collettività nazionale (costi o benefici
diffusi).
Wilson è ben consapevole che i concetti di “costo” e “beneficio”, quando riferiti alle
politiche pubbliche, vanno intesi in senso relativo e non assoluto, sono cioè
percezioni soggettive frutto della razionalità limitata di cui sono capaci sia i policy
makers che i cittadini in generale.

IL CICLO DI POLICY= Secondo Stella Theodoulou, il ciclo di politica pubblica è


essenzialmente tutto ciò che accade dal manifestarsi di un problema fino alla
conclusione della politica pubblica che lo riguarda. Un modello ormai standardizzato
di ciclo per le politiche pubbliche è il seguente:
-Inserimento nell'agenda (identificazione del problema)
-Formulazione della politica
-Decision-making
-Implementazione della politica
-Analisi e valutazione della politica (continuare o terminare la politica)
CAPITOLO 10= I REGIMI NON DEMOCRATICI
1. Alcuni dati
All’inizio degli anni 80 il numero dei regimi non demo era superiore a quelli
democratici, pertanto è utile ricordare che nel mondo ci sono ancora molti regimi
nei quali i diritti della popolazione non vengono rispettati. I regimi non demo sono
gli autoritari e i totalitari e hanno delle caratteristiche in comune come il tentativo di
ridurre o eliminare il pluralismo politico e i criteri di assegnazione e distribuzione del
potere politico che sono basati sull’uso della forza e non sulle elezioni.
2. Definizioni e distinzioni: regimi autoritari e totalitari
Secondo Linz i regimi autoritari sono sistemi a pluralismo politico limitato che non
sono basati su un’ideologia guida articolata ma caratterizzati da mentalità specifiche
con presenza di un piccolo gruppo o un leader che esercita il potere.
In questi regimi sono rarissime le variazioni suscettibili e questo spiega il motivo per
il quale dall’esterno il regime autoritario appare immobile con le stesse
organizzazioni nel tempo senza concorrenza visibile. È un pluralismo non
competitivo in quanto a ogni organizzazione spetta una parte di potere senza
sovrapporsi. Non essendoci competizione le organizzazioni alle quali è consentito di
sopravvivere non debbono rispondere a nessun elettorato, non sono responsabili. I
loro responsabili vengono cooptati fra coloro che hanno dimostrato fedeltà al leader
e ai principi del regime autoritario.
Questo pluralismo politico limitato va a differenziare i regimi autoritari dai totalitari
nei quali si parla di regimi monisti, non c’è quindi nessun tipo di pluralismo. Inoltre
la mentalità autoritaria fa riferimento a un modello tradizionale ovvero Dio, patria e
famiglia. le mentalità autoritarie non sono rigide e derivano da componenti
tradizionali quindi più vulnerabili al cambiamento e alla modernità. Differenti sono
invece i regimi totalitari che esibiscono ideologie rigide e mirano a man tenere la
società in uno stato di mobilitazione imposta dall’alto, esigono impegno
continuativo e impongono mobilitazione frequente e intensa. In generale i regimi
autoritari differiscono dai totalitari per la loro incapacità di natura organizzativa a
mobilitare grandi masse e per la riluttanza di natura ideologica.
Altra caratteristica di cui parla Linz è la presenza di un leader nei reg. autoritari,
esercita il potere entro limiti mal definiti e esiste una forte componente
personalistica spesso carismatica. La maggior parte di questi regimi dipende dal
fondatore e raramente quando scompare riescono a superare la crisi di successione.
Ulteriore differenza è la presenza del partito unico che caratterizza i regimi totalitari
in quanto in quelli autoritari è presente un pluralismo limitato e per questo anche il
potere del leader non diventerà mai arbitrario. Un’altra caratteristica importante di
cui parlare è il terrore, esso è imposto nei totalitari, può essere psicologico anche in
assenza di terrore attivo e influenza la vita quotidiana.
3. La peculiarità dei totalitarismi
Nei regimi totalitari è presente come già detto un’ideologia precisa e ufficiale,
inoltre c’è la presenza di un partito unico, una polizia segreta, c’è monopolio statale
dei mezzi di comunicazione, il controllo centralizzato delle organizzazioni
politiche/sociali/culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione
economica e la subordinazione completa delle forze armate al potere politico.
(Sono regimi totalitari il nazismo e i regimi comunisti sovietici.)
I regimi totalitari furono consapevoli che per sventare la nascita di qualsiasi
opposizione è indispensabile impedire la diffusione autonoma delle info nella
società, qualsiasi tipo di comunicazione non controllata può dare vita a verità
alternative in conflitto con quelle ufficiali del regime. Inoltre nei regimi autoritari
sono presenti due fattori molto importanti che sono lo sviluppo tecnologico che
consente al controllo totalitario di dispiegarsi completamente e la presenza di un
partito unico organizzato per applicare il controllo terroristico in maniera capillare.
4. Regimi sultanistici e post-totalitari
Linz e Stepan individuano una classificazione dei regimi non demo=
a. regimi autoritari
b. regimi totalitari
c. regimi post-totalitari= Linz e Stepan individuano delle sottocategorie che son i i
regimi di post totalitarismo iniziale dove si è appena intrapreso il processo di
cambiamento, il post tot. congelato che presenta differenze anche in ambitosociale
e può esserci la comparsa di gruppi e associazioni ma mantiene intatto il controllo.
La terza sottocategoria è il post tot maturo dove soltanto il ruolo del partito come
componente cruciale non è messo in discussione ma tutte le altre caratteristiche
sono profondamente cambiate.
d. regimi sultanistici = non hanno un’ideologia precisa e coerente, sono le idee del
leader che definiscono i limiti dell’accettabilità e della variabilità delle posizioni
politiche all’interno del regime. Essi cancellano il pluralismo politico e le differenze
tra sfera pubblica e quella privata per quanto riguarda le attività e le proprietà del
leader e giungono a termine con la scomparsa del sultano.
Una volta che il regime totalitario perde qualche caratteristica non verrà riportato in
vita.
5. Sull’origine e la trasformazione degli autoritarismi
In generale si può affermare che nel corso dell’allargamento del suffragio e
dell’espansione della partecipazione politica, si producono tensioni fra gruppi sociali
già collocati all’interno del sistema politico in rilievo. Da un lato i regimi autoritari
risultano il prodotto della vittoria di gruppi che si oppongono alla democratizzazione
sui gruppi che la desiderano. I detentori del potere decidono di resistere e si
dimostrano più forti degli sfidanti ma sono costretti a fare ricorso alla forza. A tutela
dei Loro diritti devono dare v ita a un regime autoritario. Al contrario quando il
processo di democratizzazione rimane aperto e i detentori di potere accettano
l’ingresso sulla scena politica di altri gruppi si realizza la democrazia. Dall’altro lato i
reg autoritari sembrano il risultato di una democratizzazione avvenuta rapidamente
e rimasta incompiuta.
6. Governi e regimi militari
Il profilo della maggioranza dei reg autoritari comparsi nel secondo dopoguerra è
caratterizzato dal ruolo svolto dalle organizzazioni militari, da un lato essi diventano
il gruppo dominante e dall’altro proprio per il loro peso nel regime, a volte
accettano, a volte esigono e altre svolgono un ruolo di governo diretto. Si definisce
pretorianesimo il fenomeno dell’intervento militare in politica e si hanno 3 fasi :
quello oligarchico dove la partecipazione politica è limitata a cricche e clan, quello
radicale quando la partecipazione è estesa anche alle classi medie e quello d massa
quando la partecipazione comprende le masse.
La durata dei governi militari e la probabilità che vengano costruiti dipende dalla
fiducia che l’organizzazione militare ripone nelle sue capacità di governo e dalla
sua convinzione che la sua integrità organizzativa non verrà messa in repentaglio
dalla difficile arte di governare e dal rischioso compito di reprimere. Il districarsi
delle istituzioni militari dalla sfera politica assume abitualmente tre forme che
sono la sconfitta politica dei militari, il disimpegno volontario o un golpe nel
golpe ovvero la sostituzione degli ufficiali intervenisti ad opera di quelli
costituzionalistici che si impegnano a restituire il potere ai politici.
Parlando delle modalità di mutamento dei regimi totalitari invece è importante
dire che essi crollano mentre quelli autoritari sono maggiormente in grado di
pilotare i vari cambiamenti e di trasformarsi.

CAPITOLO 11= I REGIMI DEMOCRATICI


1.Democrazie reali
Esiste un’importante problematica storico-filosofica relativa alla democrazia che è
irriducibile alla realtà politica empirica. È una problematica che merita di essere
tenuta in seria considerazione come sfondo per la definizione e per la valutazione
delle democrazie attualmente esistenti e come suggerimento per gli sviluppi futuri.
Tuttavia un conto sono le demo reali un conto le teorizzazioni sulla demo. La
distanza tra teorizzazione e le realtà misura lo spazio che, di volta in volta, tenendo
conto dei tempi e dei sistemi politici, si deve e, eventualmente, si può tentare di
colmare. La tensione fra democrazia formale, poiché basata sul rispetto di regole e
procedure, e la demo sostanziale, poiché interessata agli esiti dei procedimenti
formali in termini di eguaglianza e benessere dei cittadini rappresenta la linfa del
discorso filosofico, teorico, empirico sulla demo. Dato che è aumentato in modo
considerevole il numero dei regimi definibili come demo ci si è interrogati sulla loro
qualità. Utilissima a questo proposito appare la distinzione tra demo liberali e quelle
elettorali dove certamente si vota ma dove uno o più principi della demo non
vengono rispettati.
2. Definizione
Sebbene non accettata da tutti gli studiosi, la definizione proposta da Schumpeter
consente di individuare con precisione quali regimi sono demo e quali no, ma anche
di valutare come un regime demo accresca o riduca la sua demo. Secondo lo
studioso dunque il metodo demo è quel assetto istituzionale per arrivare a decisioni
politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una
lotta competitiva per il voto popolare. Le critiche contro questa definizione
riguardano:
La presunta riduzione della demo a competizione elettorale, con un mandato o
delega a una squadra di persone che acquisirebbero un potere enorme non
controllabile per tuta la durata della loro carica.
3. Le condizioni politiche
Fra i requisiti indispensabili il primo è che il corpo elettorale deve essere definito in
maniera tale da includere tutti i cittadini senza discriminazioni tranne età.
Egualmente importante che i cittadini possano esercitare liberamente attività
considerate fondamentali per la strutturazione del voto e diritti considerati
irrinunciabili per la vita democratica.
L’elenco più accurato dei requisiti per la creazione di un regime demo è stato
formulato da dahl che ha sottolineato che è utilizzabile per valutare i processi storici
di democratizzazione e quindi per classificare i diversi sistemi politici. Lo schema può
servire anche a distinguere due dimensioni: quella della contestazione nei confronti
delle autorità e quella della partecipazione influente.
Il procedimento di allargamento delle opportunità di contestazione è definibile
come liberalizzazione e conduce dai regimi chiusi alle oligarchie competitive.
Il procedimento di allargamento delle attività di partecipazione è definibile co me
inclusività e conduce a regimi per l’appunto che includono.
La democratizzazione discende dalla congiunzione della liberazione e dell’inclusività.
Il suo esito consiste ne3lla creazione di regimi che dahl definisce poliarchie ove
nessun gruppo è in grado di egemonizzare il potere che invece è diffuso tra una
pluralità di detentori.
Se il sistema politico soddisfa i requisiti di Dahl e rispetta i diritti per i cittadini la
democrazia in entrata è conseguita. A questo punto si apre il problema della
democrazia in uscita, vale a dire le grado di controllabilità delle decisioni dei
governanti.
4 le fasi della democratizzazione
L’obiettivo iniziale e principale della ricognizione di Dhal sulle poliarchie era
consistito nell’ individuazione delle condizioni politiche fondamentali per
l’affermazione della democrazia. Dopodiché sostenne che quel regime era da un lato
concretamente prodotto, dall’altro, praticamente, mantenuti e fatto funzionare da
uno strato ampio di attivisti che abbiano interiorizzato le norme democratiche.
Soddisfatte queste condizioni il problema principale divenne quello della transizione
dai regimi non demo a quelli demo. Rustow ha individuato una serie di condizioni
politiche e di fasi che conducono all’emergere dei regimi democratici, secondo lui è
indispensabile che i partecipanti siano d’accordo sulla loro appartenenza a una
comunità politica. Stabilito chi fa volontariamente parte della comunità il sistema
politico affronta la prima fase, detta preparatoria, della costruzione del regime
demo: una lotta fra gruppi di élite che si conclude senza la vittoria decisiva di un solo
gruppo, ma con il compromesso di convivere e competere per il potere politico. Si
apre cosi la fase della decisione: si intende la decisione di riconoscere sul piano di
parità le proprie diversità e di creare strutture e procedure che preservino queste
diversità. Un’altra fase è quella di assuefazione alle norme democratiche, e
importante che gli artefici del compromesso democratico convincano i politici di
professione, gli attivisti e i cittadini dell’importanza ed efficacia dei principi di
conciliazione. La democrazia cresce quindi su se stessa e sul buon funzionamento di
quei principi verificati nel corso del tempo. È bene dire che in ogni fase sono
considerevoli i rischi che ogni procedimento di costruzione della demo incontri
ostacoli non superabili.
Rustow pone l’accento sulle condizioni politiche considerate decisive per la
costruzione della democrazia, Dahl e Lindbolm hanno continuato a interrogarsi sugli
inconvenienti che il capitalismo porta per i regimi demo, soprattutto per la loro
egualità.
È giusto altresì mettere in rilievo come i sistemi economici del socialismo realizzato
abbiano implicato una concentrazione ancora maggiore di potere economico nelle
mani dei detentori del potere politico, con l’impossibilita quindi di costruire un
regime demo. Qualsiasi investigazione delle modalità di costruzione dei regimi demo
deve comprendere anche una valutazione del ruolo svolto dal sistema
internazionale, che opera come fattore facilitante o debilitante di tendenze
democratiche. Sulla base delle conoscenze disponibili è possibile sostenere che la
probabilità che la costruzione di un regime demo eserciti influenza sugli altri sistemi
politici della stessa area geografica, è più frequente del processo attraverso il quale
il fallimento di un regime demo trascini con se gli altri regimi demo della stessa area.
Huntington ha individuato 3 ondate di democratizzazione e due ondate di reflusso:
a. Alla fine della prima lunga ondata di democratizzazione (1828-1926) c’erano
29 stati democratici ma in seguito alla prima ondata di reflusso (1922-42)
divennero 12
b. La seconda ondata (1943-62) il numero di stati demo era 36 e l’ondata di
riflusso ne fece diventare 30
c. La terza ondata ha portato il numero di stati demo a 58. Tuttavia la
percentuale di stati attualmente democratici risulta uguale a quella della
prima ondata.
Huntignton si interroga sulle diverse condizioni che danno vita alle ondate,
collega la prima a un insieme di condizioni socio-economiche, collega la seconda
a fattori politici e militari e la terza a un fattore definibile come apprendimento in
quanto molti dei paesi in oggetto avevano avuto esperienze precedenti con la
democrazia. Inoltre individua 5 mutamenti responsabili della terza ondata che
sono la crisi di legittimazione dei regimi autoritari, la crescita economica, il nuovo
ruolo della chiesa, l’impatto della comunità europea sui regimi autoritari e
l’effetto di contagio dei processi di democratizzazione.
5. le condizioni socio economiche
Lipset con una teoria formulata nel 1960 sostenne che sono i paesi più sviluppati
quelli che riescono a mantenere un regime democratico. Non era chiaro se Lipset si
limitasse a sostenere di avere individuato delle correlazioni per quanto consistenti e
significative, fra un determinato livello di modernizzazione socio economica o
l’esistenza di un regime demo, oppure se intendesse stabilire fra di loro una
relazione di causa ed effetto. Quel che si può affermare è soltanto la probabilità che
i sistemi socio economici con un determinato liv di sviluppo siano regimi demo e,
viceversa, che i regimi demo dotano di un liv di sviluppo socio economico
mediamente superiore a quello dei regimi non demo. Se esiste una relazione di
causa effetto si potrebbe formulare una legge di natura probabilistica secondo la
quale tutti i sistemi socio economici che sorpassino determinate soglie di
industrializzazione, alfabetizzazione, organizzazione e reddito pro-capite daranno
vita a regimi demo; e secondo la quale, viceversa, tutti i regimi che sono demo
devono questa condizione al fatto che i loro sistemi socio economici hanno superato
quelle soglie di sviluppo. Secondo alcuni studiosi, non contano le caratteristiche del
sistema socio economico quanto piuttosto che contano l’assenza di squilibri e di
disuguaglianza di grande portata di gruppi sociali. Grandi disuguaglianze di potere
socio economico non possono coesistere con un regime politico nel quale il potere
politico dovrebbe essere distribuito in maniera egualitaria. Altri studiosi hanno
sostenuto che non conta il livello di sviluppo socio-economico quanto le modalità è
stato conseguito e perseguito. Il tentativo di ottenere lo sviluppo socio economico in
maniera accelerata impone di fare leva su una rete totalitaria e, di conseguenza, è
destinato ad avere effetti destabilizzanti sul sistema politico da non riuscire a
condurre a un regime demo. Da un lato Huntigton ha recuperato e adattato
l’originale tesi di Lipset nella sua analisi delle ondate di democratizzazione e dei loro
effetti collegando lo sviluppo economico con i processi di democratizzazione e
riscontrando una correlazione, ovvero una spinta positiva delle condizioni socio
economiche a favore dei regimi demo. Da un altro, ma simile punto di vista la tesi di
Lipset è stata riformulata da Przeworski e Limongi sotto 2 aspetti= il primo riguarda
la nascita dei regimi demo che, secondo una approfondita analisi delle condizioni
socio economiche non sembrerebbe da essi influenzata, il secondo aspetto riguarda
la capacità di durata delle democrazie. Quel che destabilizza i regimi sono le crisi
economiche, fra i regimi comunque diventati demo hanno maggiore probabilità di
rimanere demo quelli più ricchi. È possibile tratte delle conclusioni generali : in
primo luogo, tenendo ben ferma la distinzione tra “correlazione” e “cause” abbiamo
appreso che i regimi demo tendono a essere relativamente socio economicamente
sviluppati; i regimi autoritari tendono ad essere meno sviluppati. In secondo luogo si
apprende che i regimi demo fanno la loro comparsa a diversi stati di sviluppo socio
economico e in maniera casuale e non necessariamente collegata a liv di sviluppo.
“Però lo sviluppo economico rende possibile la democrazia, la leadership politica la
realizza”. La casualità riguarda, la possibilità che esista ovvero faccia la sua comparsa
una leadership, capace e democratica. In terzo luogo i dati ci suggeriscono che, una
volta comparsi, i regimi demo che mostrano capacità di consolidamento e di durata
sono, a prescindere dal ritmo dello sviluppo, quelli insediati nei paesi più ricchi.
I regimi demo comparsi nei paesi più poveri sono più vulnerabili alle crisi
economiche; un buon livello di sviluppo socio economico garantisce al regime
demo già esistente maggiori opportunità di sopravvivenza. Una volta che i regimi
non demo siano stati indeboliti, sarà più facile costruire e mantenere un regime
demo qualora quei regimi autoritari avessero/ abbiano già conseguito un buon
livello di sviluppo economico. Una volta instaurati e consolidati, i regimi demo
presentano, anche in conseguenza delle diverse modalità politiche con cui sono
pervenuti alla democrazia e delle diverse condizioni socio economiche in loro
prevalenti, numerosi elementi differenzianti e distintivi.

6.Tipi di democrazie
I regimi demo esibiscono notevoli diversità strutturali che attengono ai loro sistemi
istituzionali, politiche che riguardano i loro sistemi partitici e funzionali che
concernono il loro funzionamento e rendimento. Considerata la stabilità/instabilità
dei regimi demo come una variabile indipendente, la variabile indipendente, cioè
esplicativa, venne individuata nella cultura politica: i sistemi politici dotati di cultura
politica omogenea e secolarizzata darebbero origine a regimi demo stabili; i sistemi
politici con cultura eterogenea e frammentata darebbero origine ai regimi demo
instabili. Lijphart vi aggiunse il comportamento delle élite e pervenne a una tipologia
di regimi demo più ricca.
Oggi sappiamo che dovremmo forse prestare maggiore attenzione alla categoria
delle democrazie spoliticizzate. Per la precisione le democrazie consociative
presentano culture politiche piuttosto segmentate, nelle quali le culture politiche
sono diverse, ma la distanza ideologica è contenuta. Tuttavia, i comportamenti
visibili delle élite possono riuscire a cambiare la cultura politica dei loro sostenitori, a
ridurre la distanza ideologica e il grado di polarizzazione tra i partiti, a far compiere il
difficile passaggio da una demo centrifuga a una centripeta funzionante. Lijhpart ha
rivisto e riformulato la sua classificazione di regimi demo con grande attenzione, per
l’appunto alle variabili istituzionali. La nuova classificazione prende le mosse
dall’individuazione di due logiche di funzionamento polarmente diverse. La prima
fondata sul principio maggioritario, valorizza il conflitto politico; la seconda timorosa
degli effetti di quel principio, preferisce la ricerca di accordi. Le democrazie
maggioritarie si contrappongono cosi alle demo che, Lijhpart definisce consensuali
abbandonando, il termine consociative che, per quanto destinato a classificare un
minor numero di casi, rimane più preciso, e rifuggendo dal termine proporzionali,
pure ultimamente applicato dalla letteratura di lingua tedesca e riferito al
funzionamento complessivo e concreto del regime demo e non soltanto ai sistemi
elettorali. In verità, appare molto più utile distinguere in linea di principio le
democrazie con riferimento a 2 criteri: da un lato quello definibile come strutturale,
dunque, maggioritari contro proporzionali; dall’altro, il criterio comportamentale
ovvero, consensuali contro conflittuali.
La seconda classificazione di Lijhpart=

7. La qualità delle democrazie


Di recente, si è aperto un grande dibattito che ha portato alla rivalutazione delle
democrazie parlamentari rispetto alle presidenziali. Un tempo le prime erano
criticate per la loro instabilità politica e la loro inefficacia decisionale, tanto quanto
le seconde erano apprezzate per la loro stabilità e decisionalità.
Lijpart utilizza due criteri:
durata dei governi e qualità. Il punto che interessa lo studioso è quello di dimostrare
che le democrazie consensuali non sono di qualità inferiore alle maggioritarie.
Tuttavia ciò che conta è che la democrazia si regge sull’accettabilità e legittimità del
principio di maggioranza. Sancito questo principio è importante dire che la qualità di
una democrazia deve essere valutata con riferimento a una pluralità di indicatori
che attengono al rapporto tra cittadini e autorità pubbliche.
8 il futuro delle democrazie
La democrazia ha sempre trovato due gruppi di critici, ovvero quelli che la trovano
migliorabile e coloro che vogliono distruggerla e sostituirla con regimi più
democratici ed egualitari. Le critiche della democrazia riguardano le promesse non
mantenute e le sue potenzialità future. Secondo Bobbio la democrazia non ha
mantenuto le sue promesse con riferimento alla sua capacità di:
- Diventare una società di eguali
- Eliminare gli interessi organizzati che contrastino la rappresentanza con
politica generale
- Porre fine alle oligarchie
- Diffondersi degli apparati burocratico/amministrativo/militari dello stato e
nelle imprese
- Distruggere i poteri invisibili
- Elevare il livello di educazione politica dei cittadini
Bobbio sostiene che il progetto politico democratico fu ideato per una società
men complessa rispetto a quella di oggi e per questo le promesse non sono
mantenute. Dahl delinea invece tre possibili cambiamenti nel futuro delle
democrazie che sono l’aumento significativo del loro numero, della
trasformazione dei limiti e delle potenzialità del processo democratico e una
equa distruzione delle risorse e possibilità tra cittadini.
La teoria democratica si fonda sull’assunto che gli elettori sono razionali i
governanti responsabili e le caratteristiche che è importante sottolineare sono
che: il pluralismo politico delle democrazie consente di acquisire maggiori
informazioni di qualsiasi altro regime, la competizione tra i gruppi permette di
sottoporre all’elettorato la scelta fra una pluralità di azioni e l’alternanza al
governo consente la circolazione di personale politico e di idee. La vitalità dei
regimi democratici risiede nella loro costante capacitò di apprendimento e
mutamento.

CAPITOLO 12 L’UNIONE EUROPEA


2. le teorie dell’integrazione
L’Unione Europea è un sistema sovranazionale, una costruzione. L’analisi delle
modalità di cooperazione fra gli Stati europei che hanno dato vita all’UE è stata
inizialmente dominata dalle teorie funzionaliste. Secondo queste i processi di
integrazione nascono quando alcuni Stati mettono in comune determinate attività e
risorse economiche, e possono finché quegli Stati non traggono benefici da quella
cooperazione. Questa teoria venne abbandonata dai suoi stessi fautori quando si
resero conto che nella comunità economica europea emergevano anche tendenze
politiche sovranazionali.
Un’altra teoria fu quella federalista: sostiene che gli Stati federali devono cedere
parte della loro sovranità ad una entità superiore e perseguono gli obiettivi della
sicurezza e prosperità. Uniti gli stati acquistano forza e risorse per difendersi.
Teoria intergovernativa= il processo di unificazione politica dell’Europa è stato e sarà
dominato da interessi statali e dai governanti degli Stati che proteggono i propri
interessi.
Tuttavia il procedere verso una visione funzionalista suggerì la necessità di
partecipazione dei cittadini europei e cosi nel 1979 ci fu l’elezione popolare diretta
dal parlamento, fino ad allora composto da rappresentanti nominati dai vari
parlamenti nazionali.
3. Le premesse del deficit democratico
Fino al 1979 i cittadini non avevano nessuno strumento per influenzare le pp
europee, ma anzi erano molto presenti i gruppi di interesse, l’attività di questi fa
parte del processo democratico ma non lo esaurisce. c’era opacità decisionale,
tuttavia anche se né il consiglio né la commissione godono di un’elezione popolare
diretta, bisogna ricordare che i componenti del consiglio sono i capi dei governi degli
Stati membri più il presidente della commissione; mentre il consiglio è formato dai
ministri degli Stati membri. I Governanti degli Stati membri sanno che la loro
legittimità democratica giunge fino ad un certo punto e quindi agiscono in due modi:
I governanti degli Stati membri, in primo luogo, effettuano scelte a liv europeo e
formulano politiche che avvantaggino gli interessi nazionali. Il secondo modo con il
quale indicano la consapevolezza del deficit demo è facendo ricorso a referendum
nazionali che permettono di legittimare con il consenso dei cittadini decisioni
europeiste. Quindi i problemi del consiglio riguardano soprattutto la modalità di
votazione e il ricorso al voto all’unanimità. La soluzione sarebbe una diversa
distribuzione dei poteri fra le istituzioni europee, una ristrutturazione del consiglio
con una camera di Stati e una popolare.
4. Il parlamento europeo
Eletto direttamente dagli elettori dei singoli Stati membri a partire dal 1979, gode di
una legittimità democratica superiore al consiglio poiché diretta. Tuttavia si ritiene
che il deficit demo sia presente anche nel parlamento in quanto le campagne
elettorali degli Stati non riguardano mai questioni sovranazionali e c’è discrepanza
tra livello di partecipazione alle elezioni europee e quelle nazionali. Il parlamento
non ha poteri formali di iniziativa legislativa e deve imitarsi ad agire confrontandosi
con quanto proposto dalla commissione ed è improbabile che posa essere il
parlamento a ridurre il deficit democratico.
5. Il sistema partitico europeo
Il parlamento è organizzato con riferimento a gruppi parlamentari prodotti
dall’aggregazione di partiti nazionali che condividono la stessa ispirazione politico-
ideale. I 3 gruppi maggiori sono rappresentati dal partito popolare europeo+ partito
socialista europeo+ gruppo liberaldemocratico che hanno dimostrato di saper
crescere in termini di comportamenti di voto.
6. La commissione europea
La riduzione del deficit potrebbe cominciare dalla commissione, i 27 commissari
sono designati dai capi degli Stati membri e la commissione appare un organismo
tecno-cratico ovvero con capacità fuori dal comune. Una volta nominata la
commissione diventa irresponsabile in quanto non tiene conto delle preferenze
dell’elettorato europeo e non rende conto del suo operato, proprio per questo è il
vertice del deficit democratico e l’organismo meno collegato all’elettorato europeo.
Il nodo da sciogliere per arrivare a una riforma demo è nella formazione e
responsabilizzazione della commissione. La funzione di governo è esercitata negli
Stati nazionali da un esecutivo che trae il sostegno dal voto popolare e poi si
confronta con il parlamento sempre legittimato dal voto popolare. I parlamenti sono
assemblee esecutive che controllano l’operato del governo. Rispetto a questo
assetto, quello europeo appare molto complesso e va ricordato che la commissione
possiede il potere di iniziativa legislativa e che si avvale di un numero elevato di
esperti e rappresentanti nazionali con conseguenze a volte negative per la
trasparenza decisionale. Inoltre la commissione cerca di essere sensibile agli
interessi sia del consiglio sia del parlamento e cerca di controllarne l’operato.
7 il consiglio europeo
Il consiglio dispone un grande potere che è quello della nomina della commissione
europea. Proprio perché formato dai governanti degli Stati membri esso varia in
base a vittorie e sconfitte nelle nazioni. Il consiglio nomina il presidente della
commissione e i commissari ma sempre tenendo conto del Parlamento.
8. La produzione legislativa
La produzione legislativa si articola su 3 procedure ovvero la consultazione,
cooperazione e la co-decisione. La procedura può essere descritta a partire
dall’iniziativa della commissione, che propone la regolamentazione di una specifica
area politica o un insieme di norme/ modalità di intervento. Si noti che vige il
principio di sussidiarietà secondo il quale l’Ue e quindi la commissione non
interverrà in nessuna delle aree nelle quali gli stati membri sono in grado di operare
in modo soddisfacente.
9. Un’evoluzione multidimensionale
La cittadinanza europea appartiene a coloro che sono cittadini degli stati membri. Il
territorio dell’ue non è predefinito ma anzi è già coinvolto in un allargamento che
comporterà conseguenze sull’assetto istituzionale europeo. A tutela di alcuni
interessi nazionali è plausibile ipotizzare l’introduzione di meccanismi di doppia
maggioranza e che quindi le decisioni vengono prese sia tenendo conto del numero
degli stati sia della popolazione rappresentata. L’allargamento del parlamento
riguarda in primis la redistribuzione del numero dei parlamentari assegnati a
ciascuno stato dunque ne verrà ridotto a ogni stato membro.
10.Prospettive riformatrici
Il problema da risolvere è quello della fusione/ separazione tra esecutivo e
legislativo, tra governo e parlamento. Quanto alla commissione, ad essa sono rivolte
le più interessanti proposte di riforma. Delors propone l’elezione popolare diretta
del presidente della commissione che poi sceglierebbe i commissari, la proposta di
Hix mira ad accrescere la legittimità e il potere del presidente della commissione,
rivitalizzare i partiti in chiave europea e consolidare le basi di sostegno parlamentare
del presidente della commissione. Tuttavia la soluzione migliore sembrerebbe quella
del party government che sembra in grado di offrire agli elettori alternative
legislative e possibilità di scelta.
11.un bilancio del deficit democratico
Nessuna delle tre istituzioni europee vanta un livello alto di democrazia. Il
parlamento presenta deficit nelle elezioni e la soluzione consisterebbe nel cambiare
la dinamica delle elezioni cerando una competizione tra partiti transnazionali. Del
consiglio non si può parlare di deficit democratico in quanto formata da persone
elette con modalità democratiche nei paesi membri, tuttavia, il punto relativo al
deficit è proprio il fatto che nessuno dei governanti nazionali ha ricevuto un
mandato politico per affrontare i problemi dell’UE. Dunque il deficit del consiglio
attiene al rapporto esistente tra governanti dei singoli stati membri e i loro elettori
con riferimento alle tematiche europee.
È utile parlare di un deficit democratico in entrata e in uscita. Il primo si riferisce alla
scarsa influenza degli elettori sulla formazione delle 3 istituzioni e in uscita in quanto
il deficit dovrebbe essere riferito alle politiche europee. Da alcuni studi è visibile
come la maggior parte dei cittadini soddisfatti della propria demo nazionale siano
scontenti di quella europea, cosi da rimanere euroscettici.
L’ue tuttavia rappresenta il più importante e meglio riuscito tentativo di unificazione
sovranazionale.

Potrebbero piacerti anche