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Il Mulino - Rivisteweb

Simona Piattoni
La ”governance” multi-livello: sfide analitiche,
empiriche e normative
(doi: 10.1426/20904)

Rivista italiana di scienza politica (ISSN 0048-8402)


Fascicolo 3, dicembre 2005

Ente di afferenza:
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LA «GOVERNANCE» MULTI-LIVELLO:
SFIDE ANALITICHE, EMPIRICHE,
NORMATIVE
di Simona Piattoni

1. Introduzione

L’Unione Europea viene spesso descritta come un sistema multi-livello e le


decisioni che da essa emanano come il prodotto di governance multi-livello
(GML)1. Se questa espressione ben coglie la complessità dei processi decisio-
nali europei, poco ci dice circa la fonte e l’esatta natura di tale complessità né
come essa possa essere gestita e ricomposta né ancora se le decisioni che essa
produce siano legittime ed efficaci. In questo articolo intendo descrivere come
il concetto di GML risponda ad alcune delle sfide – analitiche, empiriche e
normative – che i processi decisionali e, più in generale, il sistema di governo
dell’Union europea pongono, se non per risolverle almeno per chiarirle. Pur
essendo un fenomeno quintessenzialmente europeo, GML tende a prodursi
in ogni contesto che debba riconciliare la sostanziale mutua interdipendenza
di entità territoriali formalmente sovrane quindi a verificarsi anche in altri
ambiti decisionali (internazionali e inter-istituzionali). Essa, pertanto, segnala
una nuova modalità di arrivare a decisioni autoritative che cerca di tenere in
dovuto conto anche le preferenze e le capacità dei ricettori delle decisioni a
diversi livelli giurisdizionali.
Anzitutto, la sfida analitica. L’uso, e l’esistenza stessa, di un concetto
quale governance multi-livello deve essere giustificato in base al suo potere
di discriminazione concettuale. Da qualche tempo la scienza politica ha
progressivamente accantonato il termine di governo (se non nell’accezione
più tecnica di «esecutivo») a favore del termine più ampio e apparentemente
rilevante di governance. Con questo termine s’intende descrivere l’insie-

1
L’autrice intende ringraziare Marco Brunazzo, Sergio Fabbrini, Marco Giuliani e Pa-
trizia Messina nonché due referees anonimi della RISP per i commenti davvero articolati che
hanno voluto fornire a una versione precedente del presente articolo. Rimango responsabile
di ogni ulteriore errore od omissione.

RIVISTA ITALIANA DI SCIENZA POLITICA - Anno XXXV, n. 3, dicembre 2005


418 Simona Piattoni

me (talvolta piuttosto differenziato) dei processi attraverso i quali, nelle


democrazie contemporanee, vengono prese decisioni autoritative aventi
valenza generale caratterizzate dalla decisiva compartecipazione di attori
non istituzionali ai processi decisionali ed attuativi. Beninteso, le istituzioni
governative detengono ancora poteri determinanti. Ciononostante, esse da
sole non riescono (più) a mobilitare quelle risorse che consentono di deci-
dere ed incidere. Fra gli attori privati che vengono coinvolti nei processi di
governance rientrano organizzazioni non governative, gruppi d’interesse,
movimenti sociali, nonché varie espressioni della società civile anche e
soprattutto a livello locale. Corrispondentemente, è cambiato il ruolo dello
stato: da uno stato che comanda e controlla (command and control state), si
è passati a uno stato che facilita e rende possibili processi decisionali altri-
menti impossibili (enabling state) (Peters e Pierre 2000, 131). La governance
multi-livello si caratterizza rispetto alla governance tout court proprio per la
partecipazione, affianco ad attori privati, di istituzioni governative di diversi
livelli al di fuori delle gerarchie istituzionali (e, quindi, quasi in qualità di
attori privati)2.
La seconda sfida, strettamente connessa alla prima, è di tipo empirico.
Ammesso che il concetto di governance multi-livello sia analiticamente (e
significativamente) distinto da quello di governance, quali e quanti fenomeni,
che passerebbero inosservati se noi mancassimo di tale strumento analitico, ci
consente di vedere? In altre parole, la differenza fra governance e governance
multi-livello è empiricamente rilevante oltre ad essere analiticamente signi-
ficativa? La significatività della governance multi-livello è probabilmente più
euristica – ci consente di cogliere fenomeni nuovi – che teorica – come sarebbe
se ci consentisse di formulare proposizioni teoriche nuove (per un’opinione
diversa vedi George 2004). Il campo d’osservazione privilegiato per fenomeni
decisionali che potremmo descrivere come multi-livello è tradizionalmente
stato quelle delle politiche comunitarie di sviluppo regionale che riconoscono
un ruolo significativo alle regioni sia nella fase decisionale ascendente sia in
quella discendente, soprattutto attuativa (Marks 1992, 1993)3. Ma sempre più
spesso il termine di governance multi-livello viene utilizzato per descrivere
anche altre aree di policy, come ad esempio quella ambientale (cfr. Jordan
1998; Jordan e Fairbrass 2004), che vedono il coinvolgimento di livelli di
governo sub-nazionali. Più in generale, questo termine viene utilizzato per
descrivere l’intero sistema decisionale europeo. Viene spontaneo chiedersi,

2
Una delle migliori introduzioni alle sfide analitiche poste dalla governance multi-
livello – particolarmente il suo essere un fenomeno nuovo, ma non troppo – è contenuta
in Peters e Pierre (2002, 3-9).
3
Non sarà possibile proporre in questo articolo una rassegna dettagliata della lettera-
tura relativa alle politiche europee di sviluppo regionale ed ambientali e, quindi, dare conto
La «governance» multi-livello 419

allora, quanti livelli debbano essere necessariamente coinvolti nel processo


decisionale affinché abbia senso parlare di governance multi-livello – se ne ba-
stino due o ce ne vogliamo almeno tre – e come esattamente tali livelli debbano
essere intesi. Sembrerebbe infatti che, talvolta, il concetto di «livello» venga
esteso analiticamente fino a ricomprendere non solo «livelli di governo isti-
tuzionale», che tradizionalmente avremmo concepito come gerarchicamente
ordinati o quantomeno innestati gli uni negli altri, ma più in generale come
«livelli decisionali non centrali» quindi anche «laterali» (ad esempio, le agenzie
amministrative indipendenti) o addirittura «esterni» (quali le organizzazioni
non governative e i gruppi d’interesse). È chiaro che se il concetto di «livello»
viene esteso fino a perdere la sua connotazione territoriale e verticale si rischia
di creare confusione concettuale fra governance e governance multi-livello: il
trasferimento di competenze statali «lateralmente» ad agenzie amministrative
indipendenti, ad associazioni non-governative o al mercato è già compreso nel
concetto di governance. Parlare di governance multi-livello ha senso solo se
l’accento viene posto sul nuovo tipo di partecipazione ai processi decisionali
di istituzioni di governo di diversa scala territoriale.
La terza sfida della governance multi-livello è, infine, normativa. Am-
messo che la GML distingua e descriva modalità nuove di presa di decisioni
autoritative, cosa possiamo inferire circa la legittimità delle decisioni che ven-
gono così generate? Nella letteratura sull’Unione Europea si suole distinguere
fra legittimità dal lato dell’output e legittimità dal lato dell’input, identificando
la prima con l’efficacia e la seconda con la democraticità (Andersen e Eliassen
1996). Uno dei problemi caratteristici dell’Unione Europea sarebbe di non
riuscire a combinare pienamente queste due fonti di legittimità (Scharpf 1999;
2000; Jachtenfuchs 1995). Poiché nell’Unione Europea i processi decisionali
tipici della democrazia rappresentativa convivono fianco a fianco con, e sono
spesso potentemente limitati da, processi decisionali elitari e tecnocratici, le
decisioni che da essa emanano mancano spesso della legittimità tipica dei
meccanismi decisionali nazionali. Dal lato dell’input, cioè della partecipazione
alla presa delle decisioni, l’Unione Europea è o solo sussidiariamente demo-
cratica (perché un ruolo centrale hanno il Consiglio dell’Unione Europea, che
è democratico solo in seconda istanza in quanto organo delegato di governi
nazionali democraticamente eletti, e la Commissione, i cui membri sono
selezionati dagli esecutivi nazionali e sono solo coralmente soggetti all’ap-
provazione del Parlamento europeo) oppure lo è solo blandamente (perché a
queste stesse decisioni partecipa anche il Parlamento europeo, che è sì eletto
direttamente dai cittadini europei ma spesso su programmi e per motivi che

dell’effettiva capacità descrittiva della GML. La sezione dedicata alla fruttuosità empirica
di questo concetto si limiterà pertanto a sottolineare quale classe di fenomeni nuovi essa
ci permette di cogliere, senza testare la loro effettiva diffusione, frequenza ed intensità.
420 Simona Piattoni

poco hanno a che fare con l’Unione Europea). Insomma, l’Unione Europea
sarebbe afflitta da un «deficit democratico» che inficerebbe la legittimità
dal lato dell’input delle decisioni che da essa emanano4. La legittimità delle
decisioni dal lato dell’output consisterebbe nella loro capacità di risolvere
problemi che, a livello nazionale, non potrebbero essere affrontati altrettanto
efficacemente e comunque nella loro capacità di produrre decisioni che non
suscitano opposizione (Banchoff e Smith 1999). Anche dal lato dell’output la
legittimità della GML è altamente problematica perché di difficile misurazione:
una decisione che risolve efficacemente un problema per un certo gruppo di
riferimento, potrebbe crearne di maggiori ad un altro. Non è possibile del
resto ipotizzare che decisioni che non suscitino diretta opposizione siano, per
ciò stesso, legittime né, ancor meno, che decisioni che suscitano opposizione
dimostrino la legittimità delle istituzioni verso le quali si rivolge la protesta
(Banchoff e Smith 1999). Neanche la governance multi-livello può dunque
sottrarsi alla sfida normativa: occorrerà infatti chiedersi se i processi decisionali
multi-livello producano decisioni (più) legittime (dal lato dell’input, dal lato
dell’output o da entrambi i lati) perché coinvolgono, oltre ad attori privati
rappresentanti della società civile, anche istituzioni governative di diversa
scala territoriale.
È forse opportuno segnalare, fin dall’inizio, il disagio che concetti quali
governance e governance multi-livello hanno suscitato a lungo in chi scrive. Le
trasformazioni nei processi decisionali indotti dalla scoperta delle interdipen-
denze funzionali fra stati nazionali e fra livelli di governo un tempo concepiti
come innestati gli uni negli altri richiede certamente strumenti concettuali ed
approcci analitici nuovi (come sostiene, ad esempio, Gamble cit. in Bache e
Flinders 2004, 1), ma non ci esime dal richiedere a tali concetti chiarezza ana-
litica e alle analisi che da essi derivano forza descrittiva e/o esplicativa. Infine,
non occorre essere foucaultiani per provare un certo scetticismo verso tutti
quei processi decisionali che, offuscando le fonti e frammentando l’esercizio
del potere, rischiano di spuntare le armi di cui i cittadini si sono dotati per
chiedere conto ai propri governanti delle loro decisioni.

4
Secondo alcuni, questo deficit esisterebbe solo se si mantiene un approccio stato-
centrico della Unione Europea, ma se si parte invece dall’assunto che l’Unione Europea
costituisca un sistema politico sui generis, allora non si dovrebbero più applicare ad essa
nozioni di legittimità che sono state sviluppate per altre formazioni politiche. Questa,
almeno, l’opinione di Jachtenfuchs (1995).
La «governance» multi-livello 421

2. «Governance» e «governance» multi-livello: la dimensione


analitica

Il concetto di governance multi-livello si presta a numerose declinazioni ed


applicazioni, ed è per questo a rischio di perdere la propria specificità soprat-
tutto se raffrontato al concetto di governance. A sua volta, questo concetto è
stato spesso giudicato sfumato (fuzzy) e polisemico5. Se le definizioni fornite
da Marks e Hooghe (2004, 233) – «la presa di decisioni vincolanti nella sfera
pubblica» – e da Jachtenfuchs (2001, 246) – «l’abilità di prendere decisioni
collettivamente vincolanti» – sono fra le più sintetiche (anche se si avvicinano
pericolosamente alla definizione di «politica»), è R.A.W. Rhodes che fornisce
le descrizioni più diversificate (1996, 652-653): «un mutamento nel significa-
to di governo (government)», «un nuovo processo di governo (governing)»,
«nuove condizioni di dominio ordinato (ordered rule)» e, più semplicemente.
«il nuovo metodo con cui la società viene governata». Il passaggio da governo
a governance, quindi, si manifesta soprattutto come contrasto fra un passato
in cui le istituzioni governative – i ministeri e le loro burocrazie – sarebbero
stati in grado sia di decidere che di attuare le decisioni di policy e un presente
in cui non lo sono più.
Al fine di discutere il concetto di governance, e di preparare quindi il
terreno alla discussione di quello di governance multi-livello, propongo di
organizzare lo spazio concettuale lungo due assi dimensionali. Un primo asse,
messo in luce da Jon Pierre e Guy Peters (2000), distingue l’aspetto strutturale
dall’aspetto processuale della governance contrapponendoli agli aspetti strut-
turali e processuali del government. Un secondo asse identifica l’origine del
passaggio da government a governance nelle sfide interne oppure nelle sfide
esterne mosse allo stato nazionale, i cui poteri e le cui finalità sarebbero in via
di ridefinizione. In base a questo duplice asse di variazione, avremo quattro
dimensioni concettuali di governance: all’interno di ciascuna casella troveremo
i referenti empirici di ciascuna dimensione del concetto (Tabella 1).
Un’interpretazione strutturale del concetto di governance indica il veri-
ficarsi di un nuovo rapporto fra stato e società, se non addirittura lo sfumare
dei confini fra queste due sfere d’interazione (Pierre e Peters 2000, 14-15).
Analizziamo anzitutto le sfide interne all’azione dello stato. Il dibattito su «The
End of Big State» (cfr. Wilson 2000a; 2000b; Sbragia 2000) segnala l’apparente
inadeguatezza dello stato contemporaneo ad affrontare le molte sfide che ad
esso provengono anzitutto dal suo stesso interno e quindi a ridefinire i propri

5
Elencazioni dei vari significati ed usi del termine governance, e quindi delle lette-
rature ad essi collegate, sono contenute in Rhodes (1996), Van Kersbergen e Van Waarden
(2004) e Kjær (2004). Per un’utile distinzione fra multi-level governance e network gover-
nance, si veda Messina (2003, 248).
422 Simona Piattoni

compiti e le proprie modalità d’azione (quadrante I). Esso appare ormai inca-
pace a far fronte agli eccessivi impegni contratti nel dopoguerra («dalla culla
alla tomba», come prometteva il programma Beveridge ai cittadini inglesi alla
fine della Seconda guerra mondiale) ed ha finito per drenare eccessive risorse
alla società senza riuscire a fornirle servizi adeguati. La protesta fiscale ed un
generale cambiamento d’umore nei confronti dell’eccessiva ingerenza statale
e della sua eccessiva burocraticità ha indotto governi neo-liberali (e non) a
ridimensionare gli ambiti d’intervento statale e a delegare alcuni di essi a varie
espressioni della società civile. Governance, in questo caso, s’identifica con la
riduzione degli ambiti d’intervento dello stato (privatizzazioni di vario tipo),
con la condivisione con soggetti privati della fornitura di servizi «pubblici»
(sub-contracting e public-private partnerships), con l’adozione di metodi tipici
delle imprese private nella gestione di servizi tuttora pubblici (New Public
Management) e con l’affidamento ad agenzie amministrative indipendenti di
compiti di controllo e supervisione in settori ad alto contenuto tecnico e/o
ad elevata sensibilità politica.

TAB. 1. Dimensioni analitiche del concetto di «governance».

Origine
della sfida Aspetto caratterizzante della governance
allo stato
Strutturale Processuale

I - Crisi fiscale dello stato II - Maggiore partecipazione


New Public Management della società civile nazionale:
Smantellamento dello stato sociale organizzazioni non
Interna Agenzie amministrative governative, associazioni di
indipendenti volontariato, partnership
Decentramento, devolution pubblico-privato

III - Globalizzazione IV - Maggiore partecipazione


Integrazione europea della società civile
Europeizzazzione internazionale: organizzazioni
Esterna Creazione e rafforzamento di non-governative, associazioni
istituzioni inter- e sovra-nazionali: e movimenti transnazionali;
UE, GATT, WTO, ONU, FMI, governi sub-nazionali di altri
ecc. paesi

Passando all’aspetto processuale derivante da queste stesse sfide, il termi-


ne di governance indica processi decisionali ai quali partecipano crucialmente
tanto attori pubblici quanto attori privati, sia nella veste di decisori sia in
quella di attuatori (quadrante II). Sebbene il coinvolgimento di attori privati
(individuali e collettivi) nei processi decisionali pubblici non sia di per sé cosa
nuova e quindi sia perfettamente compatibile con il government – esiste al
La «governance» multi-livello 423

riguardo un’ampia letteratura sulla politica pluralista e sul ruolo dei gruppi
d’interesse e delle lobby nell’influenzare le decisioni autoritative – col termine
di governance s’intende indicare che gli attori privati non partecipano più
solo in qualità di esecutori di decisioni prese a livello istituzionale, ma anche
come attuatori delle stesse. S’intende inoltre attirare l’attenzione sul fatto che
le istituzioni governative non sono più solo i ricettori delle pressioni partico-
laristiche della società, alle quali rispondono dopo aver soppesato, aggregato
e trasformato le spinte e controspinte, quanto piuttosto che esse lascino che
l’equilibrio venga raggiunto nel corso stesso del processo decisionale – posto
che ad esso possano partecipare gli stakeholders6. Nel caso della governance,
attori privati (individuali e collettivi) diventano comprimari di ruoli decisionali
ed attuativi in aree d’intervento d’interesse generale e le istituzioni pubbli-
che si aprono ad una stretta collaborazione e condivisione del governo con
le espressioni più varie della società civile7. Insomma, ad entrare in crisi col
concetto di governance è l’immagine convenzionale delle democrazie liberali
nelle quali i governi agiscono autonomamente dalla società (Peters and Pierre
2001, 131). È questo uno sviluppo benvenuto da coloro i quali credono che
la governance non debba essere solo «la faccia accettabile dei tagli di spesa»
e «la parola in codice per ‘meno governo’» (Stoker 1998, 17), ma che debba
dare risposta al desiderio di partecipazione della società civile nella condu-
zione della cosa pubblica al di là dei meccanismi della delega parlamentare
e governativa. Le stesse esigenze che portano la società civile a richiedere un
maggior coinvolgimento nel governo sarebbero anche alla base della richiesta
di una maggiore autonomia da parte delle articolazioni periferiche dello stato
(Loughlin 1996) a cui lo stato ha da tempo risposto con una generale tendenza
al decentramento (Sharpe 1979; 1993).
Alle sfide interne si sommano poi sfide esterne. La globalizzazione ha
esposto i sistemi produttivi e i sistemi sociali nazionali alle pressioni compe-
titive dei mercati internazionali. Sono state messe in discussione sia forme
di protezionismo esplicito a favore di determinate fasce sociali sia forme di

6
Per avere il senso di come l’azione sociale sia cambiata, e sia stata diversamente
valutata, nel corso del tempo basti guardare l’ampia letteratura sui gruppi d’interesse
prodotta nel Regno Unito al fine di documentare le trasformazioni che il sistema politico
britannico ha subito passando da un modello quasi paradigmaticamente liberale (Richar-
dson e Jordan 1979) ad uno neo-corporativo (Jordan e Richardson 1987) fino a dissolversi,
dopo la rivoluzione neo-conservatrice, in una miriade di policy networks (Rhodes 1988;
Marsh e Rhodes 1992).
7
Nelle parole di Stoker (2000, 17), difficili da rendere in italiano per mancanza di
vocaboli, «governance si riferisce allo sviluppo di stili di governo nei quali i confini fra i
settori pubblico e privato [...] hanno incominciato a confondersi». Ed ancora: «L’essenza
della governance sta nel suo focalizzarsi su meccanismi di governo (governing) che non
ricorrono all’autorità ed al potere sanzionatorio del governo (government)» (ibidem).
424 Simona Piattoni

protezionismo occulto contenute nelle dettagliate regolamentazioni nazionali


di processi e prodotti. Queste sfide sono state per lo più interpretate come
una scelta radicale fra il mantenimento delle protezioni dello stato sociale e
l’ottenimento del successo economico sui mercati internazionali, e quindi
come formidabili pressioni a ridurre il welfare state, e comunque a ridurre
l’ambito dell’intervento statale, fornendo nuovi argomenti a chi già voleva
ridimensionarlo a causa delle pressioni interne. Le pressioni internazionali non
solo generano tentativi volti al loro contenimento, ma danno anche origine
alla costruzione o al potenziamento di organizzazioni internazionale volte alla
gestione delle relazioni tariffarie (GATT), commerciali (WTO), finanziarie
(FMI), militari (NATO) e di sicurezza (ONU). In Europa, in particolare, le
pressioni della globalizzazione si sono intrecciate alle pressioni dei processi
d’integrazione europea e d’europeizzazione, legate cioè alla creazione del
Mercato unico e dell’Unione Europea. Attraversati dalle forze competitive
di origine globale e comunitaria, gli stati europei si sono sentiti sempre più
«svuotati» (Strange 1996; Hooghe 1996; Della Sala 1997) dei poteri che un
tempo avevano e si sono aperti ai processi decisionali sovra-nazionali che
promettevano di imbrigliare quelle pressioni. Questi sviluppi, più chiaramente
dei precedenti, puntano nella direzione di una ristrutturazione multi-livello
delle istituzioni della governance europea e mondiale dando rilevanza al livello
superiore: siamo qui nel quadrante III della tabella 1.
Anche nel caso delle pressioni esterne, il termine di governance può
segnalare, oltre alla destrutturazione e ridimensionamento epocale dello stato,
anche l’attivazione di processi decisionali a cui partecipano crucialmente una
molteplicità di soggetti non-statali e non-nazionali (quadrante IV). Le orga-
nizzazioni inter- e sovra-nazionali sono popolate da una pluralità di soggetti
collettivi – associazioni, movimenti, governi sub-nazionali – che finiscono con
l’avere un impatto sui processi decisionali domestici di ciascuno stato nazione
e ciascuno stato membro. Questi soggetti si connettono in maniere nuove e
talvolta inconsuete ad attori nazionali (individuali e collettivi) collegando
così i processi di governance nazionale ai processi di governance internazio-
nale (cfr. Kolher-Koch 2003b). I contorni dello stato nazione, una volta così
nitidi, sbiadiscono nell’intreccio delle relazioni di governance domestiche ed
internazionali.
Per concludere, il concetto di governance multi-livello può e deve es-
sere mantenuto solo se ci permette di cogliere processi decisionali che non
potremmo appropriatamente descrivere, e forse nemmeno opportunamente
concepire, con altri concetti. Quando nei processi decisionali agli attori privati
si affiancano anche livelli governativi diversi al di fuori degli schemi gerarchici
istituzionali convenzionali, ecco che avviene il passaggio dalla governance tout
court alla governance multi-livello. Con le parole di Guy Peters e Jon Pierre
(2000, 131): «la governance multi-livello […] si riferisce a scambi negoziati
La «governance» multi-livello 425

e non gerarchici fra istituzioni ai livelli transnazionali, nazionali, regionali e


locali». Sebbene siamo abituati a considerare questi livelli istituzionali come
verticalmente ordinati, le relazioni inter-istituzionali tipiche della governance
multi-livello non operano necessariamente attraverso i livelli intermedi, ma
possono avvenire direttamente fra, ad esempio, il livello transnazionale e quello
regionale, saltando così il livello statale. Anzi, secondo questi stessi autori,
«la governance multi-livello non si riferisce solo alle relazioni negoziate fra
istituzioni a livelli istituzionali diversi, ma a una ‘stratificazione’ di processi
di governance a questi diversi livelli» (ibidem, 132). Il concetto di governance
multi-livello deve intendersi come una specificazione del concetto di gover-
nance che mette in particolare risalto la creazione (aspetto strutturale) di
livelli di governo di ampiezza giurisdizionale sovra- o sub-nazionale ed il loro
coinvolgimento (aspetto processuale) nei processi decisionali ed attuativi inge-
nerati dalle sfide interne ed esterne al potere di controllo e governo degli stati
nazionali. Esso, quindi, potrebbe essere utilizzato per descrivere rapporti fra
stati nazionali ed organizzazioni internazionali così come rapporti fra governi
nazionali e governi sub-nazionali (e persino rapporti fra governi regionali ed
articolazioni governative infra-regionali, Messina 2001). Ciononostante è in
ambito europeo che questo concetto viene utilizzato più frequentemente per
descrivere le relazioni particolarmente intrecciate e complesse fra stati membri
ed istituzioni governative sovra- e sub-nazionali. Poiché è in quest’ambito che
le sovrapposizioni, le confusioni e i conflitti si fanno particolarmente intensi,
è all’interno di quest’ambito che limiterò la discussione della GML nel resto
del presente articolo.

3. «Governance» multi-livello: i referenti empirici

Il concetto di governance multi-livello viene solitamente applicato all’Unione


Europea, quale descrizione, alternativamente, dei processi decisionali europei
oppure dell’integrazione europea, quindi avente referenti empirici sia pro-
cessuali che strutturali e situandosi a livelli d’analisi diversi, costitutivi della
polity europea (ontologici) oppure descrittivi del suo funzionamento (fisio-
logici)8. Come si è visto, esso può applicarsi anche ad altri contesti geografici

8
Jachtenfuchs (2001) situa l’agenda di ricerca legata alla governance multi-livello
nell’ambito degli studi «post-ontologici» dell’Unione Europea, di quegli studi cioè che non
mirano più a descrivere l’Unione Europea o a determinare come si sia andata formando,
ma che ne danno per scontata l’esistenza e ne studiano solo il funzionamento. A me sembra
invece che la GML sia stata utilizzata dai suoi proponenti anche come una teoria della
strutturazione dell’Unione Europea e quindi come teoria ontologica (in questo senso vedi
anche Bache e Flinders 2004).
426 Simona Piattoni

ed istituzionali e coincidere con l’ottenimento del coordinamento fra entità


formalmente sovrane ma funzionalmente inter-dipendenti.
I processi decisionali europei implicano spesso il simultaneo coinvolgi-
mento di livelli di governo differenti secondo modalità che non rispecchiano,
ed anzi mettono in crisi, le rispettive competenze giurisdizionali. Più sem-
plicemente, le istituzioni sovranazionali dell’Unione Europea, le strutture
governative degli stati membri ed i rappresentanti dei governi sub-nazionali si
trovano ad interagire, in particolari ambiti di policy, per così dire «alla pari», in
modi che implicitamente od esplicitamente mettono in discussione la gerarchia
insita nell’articolazione giurisdizionale originaria di questi livelli di governo.
Convenzionalmente, lo stato nazionale costituiva la cerniera fondamentale fra
le proprie articolazioni sub-nazionali e le istituzioni inter- e sovra-nazionali: ora
i livelli sub-nazionali hanno accesso alle istituzioni sovra-nazionali dell’Unione
Europea indipendentemente dalla esplicita volontà dei rispettivi governi na-
zionali e possono influenzare i processi decisionali sia indirettamente, tramite
i propri rappresentanti nazionali, sia direttamente attraverso vari canali di
pressione e di lobby (Hooghe 1995; Hooghe e Marks 1996; Keating e Hooghe
1996; Marks et al. 1996a). Non solo: essi possono acquisire ulteriore potere
di pressione unendosi ad altri governi sub-nazionali e formando associazioni
inter-nazionali (Kohler-Koch 2003a). Anche le relazioni fra governi sub-na-
zionali di diversi stati membri si sono intensificate e si svolgono spesso senza
la diretta supervisione e controllo dei rispettivi governi nazionali (Keating
e Aldecoa 1999). La governance multi-livello si riferisce pertanto senz’altro
alla dimensione processuale e dinamica delle relazioni fra livelli di governo
con diversa competenza giurisdizionale e fra livelli di governo sub-nazionale
indipendentemente dai rispettivi governi nazionali.
Ma la governance multi-livello è anche una teoria della ristrutturazione
dello stato nazionale europeo. A ben vedere, questi due aspetti, seppur ana-
liticamente distinti, sono in realtà empiricamente collegati: sono i processi
decisionali interni all’Unione Europea che, da un lato, rivelano la sua natura
istituzionale e, dall’altro, la vanno ulteriormente costituendo e consolidando
(cfr. Kohler-Koch 2003a). Non deve pertanto stupire che la declinazione
strutturale della governance multi-livello (come descrizione del processo di
creazione di una polity né pienamente sovranazionale né semplicemente in-
tergovernativa) faccia poi concreto riferimento a singoli processi decisionali
per dimostrare come il dispiegarsi e l’accumularsi di queste decisioni da un
lato rivelino e dall’altro contribuiscano a costituire rapporti inter-istituzionali
di tipo nuovo.
Infine, la governance multi-livello può riferirsi assai generalmente a
tutti quei casi in cui il coordinamento fra entità sovrane non può ottenersi
né autoritativamente (cioè creando un’entità ad esse sovraordinata), né
contrattualmente (attraverso la negoziazione multilaterale). L’approccio
La «governance» multi-livello 427

alla governance come soluzione di problemi di coordinamento, ad esempio, è


caratteristico di chi, come R.A.W. Rhodes (1988), ha scoperto che neppure
il potente governo inglese era più in grado di comandare l’attuazione di de-
cisioni di policy né più capace di controllare la loro realizzazione da parte di
entità ad esso teoricamente subordinate, ma che tale coordinamento poteva
solo essere incentivato e favorito, ed anche di chi, come Jan Kooiman (1993;
2003), ha fin dall’inizio enfatizzato una visione cibernetica della governance.
La governance multi-livello sarebbe allora una declinazione particolare di tale
approccio quando a dover essere coordinate sono entità territoriali al di fuori di
schemi di sovra- o sub-ordinazione. In questo caso, la governance multi-livello
descrive una classe di interrelazioni e soluzioni istituzionali che facilitano ed
incoraggiano il coordinamento di entità territoriali indipendenti in mancanza
di (o in presenza di deboli) poteri coercitivi sovraordinati.

3.1. GML come descrizione del processo d’integrazione euro-


pea e dei suoi processi decisionali

Lo studio della genesi dell’Unione Europea costituisce il ceppo teorico da


cui si sono dipanate numerose agende di ricerca europeiste. I termini del
dibattito sono familiari: inter-governativisti si sono lungamente contrappo-
sti a neo-funzionalisti nel fornire la spiegazione di cosa muove il processo
d’integrazione europea. L’eccessiva rigidità teorica dell’inter-governativi-
smo, che eredita dal realismo un approccio agli stati nazionali come attori
individuali dotati di preferenze proprie, viene successivamente ammorbidita
quando ad esso viene preposto l’aggettivo «liberale», che segnala l’esistenza
all’interno degli stati di molteplici interessi societari, che però trovano una
loro sintesi e rappresentazione negli interessi nazionali distillati dai rispettivi
governi (Moravcsik 1994). Ad esso si contrappone il neo-funzionalismo che
propone una spiegazione del processo d’integrazione europea come trainata
soprattutto dalle interrelazioni funzionali fra interessi societari diffusi, che
avrebbero il potere di causare le soluzioni inter-governative di cui necessi-
tano per prosperare. Entrambe queste posizioni teoriche sono estreme: se il
processo d’integrazione europea è esclusivamente frutto delle decisioni degli
stati sovrani nel primo caso, esso è puro adattamento funzionale al bisogno di
coordinamento internazionale ingenerato dalle relazioni societarie nel secondo.
Fra questi opposti approcci si frappone la GML che ricava un proprio spazio
teorico mostrando la debolezza di alcune delle proposizioni empiricamente
meno difendibili, ma teoricamente più centrali, dell’intergovernativismo – fra
le quali quella secondo la quale lo stato centrale sarebbe il gatekeeper degli
interessi diffusi ai quali permetterebbe d’interagire con altri interessi europei
solo attraverso il suo filtro – e nello stesso tempo rifuggendo dall’eccessivo
428 Simona Piattoni

automatismo del funzionalismo ed adottando piuttosto un approccio teorico


al processo d’integrazione europea neo-istituzionalista incentrato sull’attore
(Marks 1993).
Da un lato, la GML mostra come vi siano molteplici ragioni teoriche e
pratiche che rendono il potere di controllo e di filtro degli stati nazionali assai
imperfetto e quindi impediscano di verificare le proposizioni empiriche dell’in-
tergovernativismo. Secondo questa teoria, infatti, gli stati nazionali accettereb-
bero di cedere parte della loro sovranità solo per poter meglio gestire fenomeni
che, individualmente, non potrebbero controllare. Conseguentemente ogni
decisione in merito alla rinuncia, seppur parziale, di tale sovranità può essere
giustificata solo in base ad un calcolo di convenienza. Al contrario la GML
intende mostrare come e perché le circostanze in cui i rappresentanti degli
stati prendono le decisioni relative alla loro sovranità siano tali per cui non si
realizza solo il minimo comune denominatore fra gli interessi degli stati sovrani
previsto dall’intergovernativismo, ma si verificano incursioni nelle sovranità
statali ben più ampie di quanto ciascuno stato possa desiderare. Dall’altro lato,
proprio perché enfatizza il ruolo di attori in carne ed ossa nei processi decisio-
nali europei (anche in quelli costitutivi dei poteri dell’Unione potenzialmente
lesivi della sovranità degli stati membri), la GML evita di suggerire un mec-
canicistico adattamento istituzionale alle necessità e alle pressioni, dirette ed
indirette, degli interessi societari ipotizzato dal neo-funzionalismo. Le soluzioni
istituzionali identificate dagli attori dei processi decisionali sono spesso «ineffi-
cienti» sia perché riflettono gli interessi individuali e collettivi di cui tali attori
sono portatori, sia perché sono filtrate dalle tradizioni nazionali legali, ammi-
nistrative, e perfino professionali di questi stessi attori (Marks et al. 1996b).
A riprova dei decurtamenti sostanziali della sovranità degli stati membri
e dell’impossibilità di adottare una visione puramente inter-governativista
del processo d’integrazione europea, i propugnatori della GML portano
il progressivo restringimento delle fattispecie in cui è possibile per gli stati
membri opporre il proprio veto; segnalano il progressivo ampliamento de-
gli ambiti di policy regolati dalla procedura della codecisione (che dà ampi
spazi decisionali alle istituzioni più comunitarie, quali la Commissione ed il
Parlamento); enfatizzano i poteri autenticamente sovranazionali della Corte
europea di giustizia; indicano la creazione del Comitato delle regioni e, più
in generale, la moltiplicazione dei canali di accesso diretto alle istituzioni e
ai processi comunitari dei governi sub-nazionali; e citano l’ampia libertà di
manovra concessa alla Commissione nella definizione di dettaglio di numerose
aree di policy i cui contorni generali vengono decisi dal Consiglio (Marks et al.
1996b). La ridefinizione delle relazioni di potere fra stati membri, istituzioni
comunitarie e governi sub-nazionali (l’aspetto strutturale della governance
multi-livello) si traducono in, e vengono a loro volta rafforzati da, i processi
decisionali europei multi-livello.
La «governance» multi-livello 429

La GML viene anche proposta come descrittore efficace dei processi


decisionali che caratterizzano molte aree di policy a livello europeo, soprattutto
la politica di sviluppo regionale. È stato infatti a partire da quest’ambito che
la governance multi-livello è stata inizialmente teorizzata. Un lungo dibattito
si è dipanato fra chi ha attirato fin da subito l’attenzione sulla significatività
di queste relazioni (Marks 1993) e chi ne ha negato invece l’incidenza reale
(Pollack 1997). Gary Marks e Liesbet Hooghe hanno prodotto, da soli (Marks
1992; 1993; 1996; Hooghe 1995; 1996), insieme (Marks e Hooghe 1997; 2003;
2004; Hooghe e Marks 1996; 2001; 2003) e con altri autori (Hooghe e Keating
1994; Marks et al. 1996b; Marks et al. 1996a) numerosi studi che documentano
il coinvolgimento delle regioni europee nei processi decisionali relativi alla
politica di coesione e hanno argomentato che questo coinvolgimento mette
in discussione i confini giurisdizionali degli stati membri a cui esse appar-
tengono. Il diretto coinvolgimento delle regioni sia nella fase ascendente (al
momento della definizione dei regolamenti, dei Quadri comunitari di sostegno
e dei piani di sviluppo) sia e soprattutto della fase discendente della policy
(al momento dell’attuazione dei piani di sviluppo e dell’approvazione e del
monitoraggio delle linee di spesa) segnalano la presenza di questo livello di
governo affianco alla Commissione e i rispettivi governi centrali. Interrelazio-
ni con i governi regionali di altri stati-membri indipendentemente dal filtro
costituito dai ministeri e dalle cancellerie nazionali si verificano poi non solo
nell’ambito della gestione dei Fondi strutturali ma anche nell’ambito delle
Iniziative comunitarie e di quell’arena istituzionale, predisposta al fine di
consentire la discussione delle, e la formulazione di pareri sulle, questioni
regionali, che è il Comitato delle regioni (Piattoni 2002). Inoltre, le regioni
interagiscono direttamente con una serie di attori europei (dai commissari ai
direttori generali, dai membri del Parlamento europeo ai semplici funzionari)
tramite i propri uffici regionali a Bruxelles, vere e proprie mini-ambasciate
che, seppure dotate di risorse, personale e competenze assai diverse, sono
comunque in grado di seguire la politica comunitaria in tutte le sue fasi e
di (cercare di) influenzarla fin dalla sua concezione (Brunazzo 2004; Profeti
2003; Marks 1996; Keating e Aldecoa 1999).
In seguito il dibattito si è orientato alla valutazione dell’impatto di que-
sti rapporti sulle relazioni inter-istituzionali all’interno degli stati membri se
questo potesse essere interpretato come un potenziamento delle regioni e un
indebolimento della sovranità statale e si è intrecciato a quello sull’europeizza-
zione, cioè sul trasferimento di opzioni di policy, strutture amministrative, stili
gestionali e perfino mappe cognitive europee a livello nazionale (cfr. Fabbrini
2003; Featherstone e Radaelli 2003; Giuliani 2003; Piattoni 2003; Radaelli
2003; Gualini 2004; Franchino e Radaelli 2004). La letteratura sull’attuazione
delle politiche di sviluppo regionale è vastissima ed estremamente variegata,
comprendendo studi sia di casi nazionali che di casi regionali ed infra-regio-
430 Simona Piattoni

nali: non è quindi possibile farne qui un’adeguata ricognizione9. In maniera


estremamente succinta, è possibile però affermare che all’iniziale entusiasmo
per una futuribile «Europa delle Regioni» (cfr. Loughlin 1996) si è sostituita
una visione assai più critica e scettica sull’argomento (cfr. Jeffery 2000). Né gli
equilibri interni agli stati-membri né quelli interni all’Unione Europea sono ap-
parsi pronti ad accomodare una sostanziale redistribuzione delle competenze
a danno degli stati membri e a favore delle regioni (tra l’altro dotate di diversi
poteri e talvolta perfino inesistenti). Ciononostante, un certo potenziamento
del «terzo livello» (Bullman 1996) si è verificato10. Le relazioni inter-istitu-
zionali non sono necessariamente un gioco a somma zero: il potenziamento
del livello regionale non deve essere necessariamente interpretato come un
indebolimento di quello nazionale, e viceversa. Al contrario, la governance
multi-livello ci segnala che tutti gli attori coinvolti nelle politiche multi-livello
sono simultaneamente attivi a tutti i livelli istituzionali e sono coinvolti in
relazioni inter-istituzionali di tipo nuovo in cui valgono risorse e capacità che
originariamente non detenevano (Kohler-Koch e Eising 1999; Kohler-Koch
1996; 2003a). Ciononostante il cambiamento nelle relazioni inter-istituzionali
è lento perché gli attori nazionali e regionali preferiscono mantenere com-
portamenti adeguati alla cultura politica ed amministrativa nazionale che
adeguarsi alle nuove politiche e procedure europee (Kohler-Koch 2003b)11.

3.2. GML come teoria del coordinamento fra entità indipendenti

Il problema dell’interdipendenza funzionale di entità (territoriali) formalmente


sovrane – oppure formalmente subordinate le une alle altre ma di fatto ormai
autonome – non è solo ed esclusivamente europeo, ma è piuttosto un problema
generale che caratterizza sia sistemi in via di formazione sia sistemi in via di

9
Non è qui possibile riportare i moltissimi contributi al dibattito, che si trovano soprat-
tutto su riviste. Rassegne accurate e ragionate sono contenute nei seguenti volumi: in inglese,
Bache 1998, Bomberg e Peterson (1998), Börzel (2002); Bukowski et al. (2004); Hooghe
(1996); Gualini (2004); Jones e Keating (1995); Keating e Jones (1985); Leonardi (1993); Rho-
des (1995); in italiano, Caciagli (2003); Messina (2003); Graziano (2004); Brunazzo (2005).
10
Per una discussione della letteratura e della difficoltà di trarre un bilancio defi-
nitivo circa il potenziamento delle regioni, si vedano Smyrl (1996); Bache e Jones (2000);
Bourne (2003).
11
Non sarebbe questa cieca resistenza, ma una comprensibile riluttanza al cambia-
mento quando questo non sia indotto da mutamenti generali di tutto il sistema politico-
amministrativo nazionale. Le mappe concettuali e normative dei rappresentanti politici e
dei funzionari regionali e nazionali cambierebbero lentamente e solo quando diventi chiaro
che le politiche, le procedure e le norme comunitarie sono diventate pienamente anche
politiche, procedure e norme nazionali.
La «governance» multi-livello 431

riformazione. In quanto tale, esso è stato studiato sia da chi, come R.A.W.
Rhodes (1988; 1996; 1997), parte da una situazione di ordine gerarchico che
va disgregandosi (il Regno Unito), sia da chi, come Fritz Scharpf (1988; 1994;
1997; 1999; 2000), cerca di teorizzare come il coordinamento possa svilupparsi
a partire dall’assenza di gerarchia (l’Unione Europea). In entrambi i casi, pur
prendendo spunto da situazioni geo-politiche concrete, questi autori finiscono
per studiare la governance multi-livello come un problema anzitutto teorico.
Ad essi si aggiunge una schiera sempre più folta di studiosi che enfatizzano
la natura generale del problema del coordinamento e propongono elabora-
zioni teoriche corrispondentemente sempre più astratte e generali (Eberlein
e Kerwer 2002; 2004; Knill e Lenschow 2003; Skelcher 2005). I disegni istitu-
zionali che renderebbero possibile il coordinamento vengono chiamati in vari
modi, ma i contendenti più appetibili appaiono essere quelli di federalismo,
da un lato, e functional, overlapping, competitive jurisdictions o FOCJ (Frey e
Eichenberger 1999), dall’altro, oppure ancora governance di Tipo I e di Tipo
II (Marks e Hooghe 2001; 2002; 2003; 2004; Benz 2000).
Iniziamo da questa contrapposizione idealtipica per vedere se ad essa
corrispondano referenti empirici chiaramente identificabili. La governance di
Tipo I è caratterizzata dalla dispersione dell’autorità in un numero limitato
di giurisdizioni non sovrapposte ad un numero limitato di livelli12. Tali giu-
risdizioni tendono ad estendere la loro autorità in vasti ambiti decisionali
(competenze) che rimangono stabili nel tempo. La governance di Tipo II
invece è caratterizzata dalla compresenza di molte giurisdizioni che si
sovrappongono a molti livelli «a mo’ di patchwork» e le cui competenze
giurisdizionali sono flessibili e vengono continuamente ridefinite. Il primo
tipo di governance multi-livello rassomiglia da vicino al federalismo e, più
in generale, allo stato: le giurisdizioni sono numericamente poche, i confini
giurisdizionali sono ampi, le competenze giurisdizionali tendono ad essere
precisamente definite (sia nel caso in cui le competenze di ciascun livello
terminino lì dove iniziano quelle degli altri sia nel caso in cui le competenze
dei vari livelli siano, in determinati ambiti, sovrapposte) e stabili. Il secondo
tipo di governance risponde ad un’immagine della società come «priva di
centro» (centreless society), in cui le attività degli attori sono regolate in mol-
te giurisdizioni specialistiche i cui confini s’intersecano e le appartenenze si
sovrappongono fluidamente.

12
«Giurisdizione», così come «governo» e «autorità», può essere intesa sia come
termine concreto sia come termine astratto. Come termine concreto, indica l’ambito su
cui viene esercitata autorità (talvolta persino la struttura che esercita tale autorità). Come
termine astratto, indica l’esercizio di tale autorità. L’ambito giurisdizionale può essere
definito territorialmente (come nel caso dello stato) oppure funzionalmente. Vedi Skelcher
(2005, 91) per un’utile discussione di questi concetti.
432 Simona Piattoni

Il primo tipo di governance è quello a cui siamo maggiormente abituati


perché «il processo di sviluppo storico-istituzionale ha prodotto un sistema
di stati sovrani che sono riusciti ad imporre il proprio ordine in territori
tendenzialmente vasti attraverso la creazione di sistemi ordinati di governi
multi-scopo» (Skelcher 2005, 94). Il secondo tipo di governance «tende
invece a fiorire lì dove sono necessarie strutture di governo ‘su misura’ per
affrontare questioni che non sono suscettibili d’intervento da parte di orga-
nizzazioni del primo tipo» (ibidem, 94) siano esse a livello giurisdizionale più
ampio (quali le organizzazioni internazionali) o a livello giurisdizionale più
limitato (quali i bacini di traffico). L’analisi empirica ha mostrato «che il Tipo
II di governance tende a prodursi lì dove l’elevata integrità di confine dei
sistemi di governo di Tipo I creano barriere di competenza, in altre parole
dove le organizzazioni governative tradizionali sono incapaci di rispondere
flessibilmente alle questioni di policy che attraversano le loro giurisdizioni
»(Skelcher 2005, 94).
Tipicamente, nelle società contemporanee, giurisdizioni di Tipo II si
sovrappongono disordinatamente fra di loro e alle giurisdizioni di Tipo I: si
verificano cioè interessanti mescolanze dell’uno e dell’altro tipo giurisdizionale
fra le quali è difficile aggiudicare. In questo caso, nella terminologia di Skelcher,
si realizza governance policentrica. Sfide all’integrità giurisdizionale possono
essere di carattere sia verticale, quando giurisdizioni superiori o inferiori
promettono di gestire più efficacemente determinate questioni di policy (e
conseguentemente si hanno processi integrativi o devolutivi), sia orizzontale,
quando giurisdizioni di pari livello intrudono lo spazio di competenza di altre
giurisdizioni (e quindi si possono avere processi aggregativi).
Mentre la dicotomia fra governance di Tipo I e Tipo II è concettualmente
chiara, più confusa è invece l’individuazione delle modalità concrete di rego-
lazione (processi) e delle istituzioni che le governano (strutture).
Numerosi autori propongono una tipologia quadripartita che con-
trappone alla gerarchia delle soluzioni regolative comunitarie (governance
di Tipo I) tre tipi di processi e strutture alternative, sulle quali però non vi è
apparente accordo. Skelcher (2005), ad esempio, delinea tre strutture giuri-
sdizionali di Tipo II: i club, le agenzie e le formazioni politiche. I club sono
formati da «individui che condividono uno spazio geografico o funzionale e
che hanno un bisogno comune di processi decisionali collettivi» (Hooghe e
Marks 2003, 240). La natura auto-selettiva dei club contrasta con la natura
ascrittiva delle comunità nazionali (stati) e, corrispondentemente, differi-
scono le basi della legittimità, del consenso e dell’accountability. Le agenzie
vengono create, all’interno degli stati o a livello sovrastatale, per assicurare
la gestione non partigiana o non nazionalistica di alcune aree di policy par-
ticolarmente sensibili. La legittimità delle agenzie dipende dalla legittimità
dell’organo governativo che le ha create; il consenso viene conquistato grazie
La «governance» multi-livello 433

alla loro expertise; l’accountability è molto attenuata e viene spesso sostituita


dall’imprenditività con cui la rilevanza dell’agenzia, al di là dei risultati che
essa produce, viene promossa. Infine, le formazioni politiche sono «sistemi
istituzionalizzati di dominio condiviso i cui sistemi di governo riescono a
produrre decisioni autoritative su una data popolazione e ad allocare i valori
nella società» (Chrissochoou, cit. in Skelcher 2005, 100). Queste formazioni
politiche possono essere identificate con le organizzazioni che sorgono spon-
taneamente per gestire le risorse comuni oppure con le comunità di residenti
o di utenti di alcuni servizi forniti e gestiti localmente su base volontaria. La
legittimità di tali strutture di auto-governo dipende dalla loro inclusività, il
consenso può essere assicurato da meccanismi di consultazione e partecipa-
zione diretta, l’accountability può derivare dall’utilizzo di forme elettive di
selezione e sostituzione dei responsabili13.
Vi è un certo parallelismo fra questa classificazione e quella, più concreta
e direttamente applicata all’Unione Europea, proposta da Knill e Lenschow
(2003) che delineano tre tipi di decisioni alternative alla regolazione classica
del metodo comunitario per molti versi «intonate» alle strutture appena
descritte. Secondo questi autori, le forme d’intervento dell’Unione Europea
variano a seconda del livello di obbligatorietà della regola (è possibile optare
se adeguarsi o meno alla regola?) e del livello di discrezionalità concesso nel-
l’attuazione (è possibile declinare la regola in modi diversi?). Elevati livelli di
obbligatorietà e bassi livelli di discrezionalità sono associati alla tradizionale
modalità regolativa dell’Unione Europea. Gli standard regolativi della Unione
Europea normalmente prevedono regole obbligatorie e dettagliate alle quali gli
stati membri e gli altri attori devono adattarsi, pena le sanzioni amministrative
della Corte europea di giustizia. I cosiddetti nuovi strumenti indicano invece
un insieme di strumenti regolativi che, mentre stabiliscono gli standard verso
cui è obbligatorio convergere, lasciano i dettagli di tale convergenza alla di-
screzionalità degli attori. Vi sono poi modi di regolazione che spostano l’onere
dell’adattamento sugli attori medesimi. La modalità di auto-regolazione lascia
agli attori la ricerca di standard regolativi comuni, «all’ombra dello stato»14,
mentre il metodo aperto di coordinamento prevede che gli obiettivi di mas-
sima e le modalità procedurali vengano determinati dall’Unione, ma che la
sostanza degli standard nonché il modo e la rapidità dell’adeguamento venga
lasciata alla discrezionalità stati membri o degli altri attori. È possibile, anche

13
È possibile osservare una somiglianza fra questa tipologia e la tipologia proposta
da Schmitter e Streeck (1985), i quali avevano identificato nelle associazioni, nei network
e nelle comunità le alternative più promettenti alla gerarchia, ma anche al mercato.
14
Con questa frase immagino che Knill e Lenschow (2003, 3) intendano che, una
volta concordati, questi standard devono poi essere effettivamente mantenuti, pena sanzioni
comminate dallo stato.
434 Simona Piattoni

in questo caso, identificare negli standard regolativi un esempio di governance


di Tipo I e nei nuovi strumenti, nell’auto-regolazione e nel metodo aperto di
coordinamento altrettanti esempi di governance di Tipo II.
È possibile associare univocamente strutture, processi e decisioni? No-
nostante evidenti assonanze e parallelismi fra queste tipologie, la letteratura
non offre ancora un quadro univoco delle modalità di presa di decisione che
caratterizzano l’Unione Europea e non consente quindi di concludere che ci
si stia avviando verso una cristallizzazione di strutture decisionali a cui cor-
rispondano necessariamente tipi d’interazioni e di decisioni diverse. L’analisi
pertanto deve limitarsi ad offrire una ricognizione dei nuovi processi deci-
sionali e, semmai, chiedersi come essi possano coesistere affianco a processi
decisionali più tradizionali. Le relazioni fra forme giurisdizionali di Tipo I e
forme giurisdizionali di Tipo II possono infatti essere di varia natura. Esse
possono: 1) coesistere le une affianco alle altre, 2) completarsi a vicenda, 3)
innestarsi le une nelle altre, 4) opporsi le une alle altre.
Se in termini idealtipici, forme di governance di Tipo I e forme di go-
vernance di Tipo II hanno uguale plausibilità, le cose iniziano a complicarsi
quando si discute della legittimità di cui sono investite, del consenso che
comandano e delle modalità con cui viene reso conto delle decisioni da
esse prodotte. Secondo Skelcher (2005), le giurisdizioni di Tipo I hanno un
«ancoraggio democratico» assai maggiore delle giurisdizioni di Tipo II, per
il semplice fatto che queste mancano ancora di legittimità, di consenso e di
meccanismi di rendicontazione (accountability) che i governi territoriali han-
no costruito nel corso dei secoli (cfr. anche Jessop 2004). Le giurisdizioni di
Tipo II in parte prendono a prestito alcuni dei meccanismi di legittimazione,
consenso ed accountability delle giurisdizione di Tipo I e in parte cercano di
crearsene di propri. In genere comunque esse vivono in un «vuoto istituzio-
nale» e devono per lo più affidarsi alla forza delle relazioni interpersonali. In
generale, la legittimità delle forme di governance del primo tipo deriva dalle
procedure con cui vengono gestite (regole, ruoli, norme), mentre la legittimi-
tà delle seconde dipende dalla loro efficacia (e dalla «abilità navigazionale»
dei loro gestori). Chiaramente si tratta di due orizzonti teoricamente non
intersecantesi, eppure strutture giurisdizionali del primo e del secondo tipo
coesistono nelle democrazie contemporanee e caratterizzano particolarmente
il sistema di governance dell’Unione Europa. Per Peters e Pierre (2002), questi
due tipi di governance convivono in un «ordine negoziato», caratteristico di
situazioni in cui un nuovo livello giurisdizionale (in questo caso, l’Unione
Europea) sta cercando di istituzionalizzarsi.
Secondo Eberlein e Kerwer (2002; 2004), la governance di Tipo I (la
«vecchia» governance), che anch’essi identificano con il metodo comunitario,
mostra tanto più i suoi limiti quanto più esubera dalle decisioni relative alla
creazione del mercato unico (market-creating), per il quale vige un «consenso
La «governance» multi-livello 435

permissivo» che compensa la scarsa linearità della delega democratica, e de-


cide di questioni complementari (market-correcting), per le quali il consenso
esplicito a livello europeo manca. Insomma, forme di governance del primo
tipo funzionano in ambito europeo finché si occupano di «integrazione ne-
gativa»: ma proprio dal loro successo, e dalla necessità di occuparsi di aree di
«integrazione positiva», derivano le difficoltà di questo tipo di governance. È
questa la trappola dell’azione congiunta identificata da Scharpf (1988) grazie
ad una istruttiva comparazione fra sistema di governance tedesco e sistema
di governance europeo.
L’antinomia e la difficile coesistenza fra forme di governance multi-livello
di Tipo I e Tipo II è stato da Scharpf riformulato nei termini della ricerca
della «scala ottima di governo», cioè di quel livello di governo al quale la
ricerca di soluzioni ai problemi collettivi è sia efficace, perché opera ad una
scala sufficientemente vasta da ottenere soluzioni tecnicamente superiori, sia
democratica, perché si mantiene su una scala sufficientemente ristretta da non
dover imporre alcun significativo sacrificio all’espressione delle preferenze
individuali (Scharpf 1988, 239). Come Bartolini (1998) e Skelcher (2005),
anche Scharpf ritiene che l’equilibrio fra livelli di governi territoriali realiz-
zato dallo stato dal diciottesimo secolo sia stato progressivamente messo in
discussione dall’incapacità sia a prevenire le minacce (le esternalità negative)
che gli uni ponevano agli altri (leggi: guerre) sia a realizzare pienamente i
profitti (le esternalità positive) che il governo dei flussi reali e monetari a
livello continentale potevano ingenerare (leggi: mercato unico). Dalla presa
di coscienza dell’incapacità a prevenire le minacce e a realizzare i vantaggi
sarebbe nato il desiderio degli stati nazionali europei di attrezzarsi di strutture
di governo sovranazionali. Eppure, come riconoscono molti autori, l’appa-
rente inefficienza di un livello di governo non implica che questo governo sia
disposto a spogliarsi di poteri sovrani a favore di un governo di altro livello.
Il nuovo ordine presuppone sempre l’indebolimento ed il superamento del
vecchio, eppure le istituzioni di governo sopravvivono (e a lungo) alle ragioni
della loro creazione, anche perché riescono spesso a mobilitare un patrimonio
di aspettative, miti e lealtà che, indirizzando i comportamenti individuali,
tendono ad inverarli (cfr. Jachtenfuchs 1995).

4. «Governance» multi-livello e legittimità

Uno degli aspetti più problematici della governance multi-livello è il coinvol-


gimento nei processi decisionali di istituzioni governative di livello diverso
alla pari fra di loro e con altri attori della società civile. Per alcuni questo è il
precipuo vantaggio delle nuove modalità di governance, inclusa quella multi-
livello, perché consente la partecipazione nei processi decisionali di portatori
436 Simona Piattoni

d’interessi (stakeholders) fra loro assai differenziati – sia di tipo generale e


territoriale, sia di tipo particolare e funzionale – e quindi permette una vasta
rappresentanza degli interessi societari, che risulterebbe ridotta sia nel caso
in cui a partecipare fossero solo gli interessi territoriali (come nel caso del
federalismo), sia se a partecipare fossero solo i gruppi di pressioni (come nel
pluralismo) o gli interessi organizzati (come nel corporativismo). La possibilità
d’interagire alla pari può costituire un fattore di attrattività tanto per gli attori
della società civile, che possono così rapportarsi alle «autorità costituite»
senza filtri, sia forse anche per i governi territoriali, che hanno così la pos-
sibilità di dialogare informalmente con i ricettori ultimi delle loro politiche.
Inoltre, proprio perché coinvolge interessi territoriali su scala abbastanza
limitata (il livello sub-nazionale), la GML non imporrebbe grossi sacrifici
in termini di sottorappresentazione di preferenze territorialmente definite e
quindi contribuirebbe alla maggiore democraticità del processo decisionale
(Scharpf 1988).
Mettere sullo stesso piano la rappresentanza di interessi generali con
quella d’interessi particolari, però, è anche un aspetto problematico della
GML, perché induce una perdita di sensibilità nei confronti di due categorie di
interessi fra loro assai differenti. Commistioni di questo tipo si sono verificate
nel tardo medioevo, quando a competere per il favore dei prìncipi territoriali
erano ceti rappresentanti sia individui (i nobili e il clero), sia comunità (le città)
(Poggi 1978). Nel particolare contesto storico dell’alto medioevo, fonti d’au-
torità e princìpi di legittimazione erano plurimi e contestati – dall’investitura
divina per gli imperatori alla tradizione feudale per i nobili, dalle guarentigie
concesse dal Papa agli ordini religiosi agli statuti di autonomia concesse alle
città dai principi territoriali – e nessuno di essi godeva di chiara preminenza
rispetto agli altri. Oggi si ha la sensazione di un paradossale «ritorno al futuro»:
mentre la legittimità di governi democraticamente eletti su basi territoriali è
indubbia (Jessop 2004), il dibattito sulla governance multi-livello mette in
discussione il primato di questo tipo di legittimità ed invita a una riconsidera-
zione non «stato-centrica» della questione della legittimità (cfr. Jachtenfuchs
1995; 1997; Kohler-Koch 1999; Aalberts 2004).
Prima di vedere quali siano i problemi di legittimità della GML e quali
soluzioni siano state proposte a tali problemi, è utile richiamare i termini
generali della questione. La questione di cosa renda un governo legittimo e
quali criteri debbano essere osservati affinché coloro sottoposti ad autorità
politica debbano sentirsi obbligati ad obbedirlo sono stati dibattuti fin dal-
l’antichità15.
«Il grado di legittimità di cui gode un sistema politico (political order)
può spiegare l’entità del consenso su cui può contare un governo, oppure

15
La discussione che segue si basa largamente su Beetham e Lord (1998, 1-32).
La «governance» multi-livello 437

la sua relativa vulnerabilità quando dovesse essere sotto stress. I concetti di


‘deficit di legittimità’ oppure di ‘crisi di legittimità’ possono essere utilizzati
per analizzare la distanza crescente fra principi e pratica, oppure fra norme
di legittimità e sostegno societario per le stesse, che prelude a un processo di
sconvolgimento, rinnovamento o transizione» (Beetham e Lord 1998, 2).
La legittimità ha tre dimensioni principali. Un’autorità politica può dirsi
legittima se: 1) è acquisita ed esercitata secondo regole stabilite (legalità), 2) le
regole sono giustificabili in base a convinzioni popolari condivise e le attività
svolte dall’autorità sono ampiamente accettate (giustificabilità normativa), 3)
le posizioni di governo sono confermate tramite l’espresso consenso dei su-
bordinati e tramite l’approvazione di altre autorità legittime (legittimazione).
Il primo livello è quello delle regole, il secondo è quello delle giustificazioni
fondate sulle convinzioni, il terzo è quello degli atti di consenso o di rico-
noscimento. Queste tre dimensioni non sono alternative le une alle altre, ma
devono simultaneamente realizzarsi. Esse sono inoltre fonte di tre distinte crisi
di legittimità: illegalità (infrazione delle regole), deficit di legittimità (debole
giustificazione, convinzioni contestate), delegittimazione (ritiro del consenso
o del riconoscimento).
Come possono queste stesse dimensioni essere applicate all’Unione
Europea? Senza inoltrarci in una discussione che necessiterebbe di ben
altro approfondimento16, possiamo affermare che l’Unione Europea opera
certamente in base a regole codificate, anche se non diffusamente conosciute
dalla popolazione, ed è quindi legale. L’Unione Europea è anche legittimata
dal riconoscimento dei rappresentanti legittimi degli stati membri, ma non
essendo solo un’organizzazione internazionale, anche tale legittimazione non
basta17. Infine, la legittimità che le deriverebbe dalla diffusa conoscenza delle
regole di governo e dall’ampia condivisione dei suoi obiettivi (giustificabilità
normativa), è anch’essa problematica in quanto regole ed obiettivi sono invece
scarsamente conosciuti o ampiamente dibattuti. La legittimità dell’Unione
Europea quindi è non solo deficitaria, ma anche progressivamente più debole
man mano la sua sfera d’azione si amplia ed essa estende le proprie competenze
su nuove aree di policy. È questo il noto paradosso dell’Unione identificato da
Scharpf (1999), che quanto più essa ha successo, tanto più essa indebolisce le
basi della propria legittimità.

16
Non è possibile rendere giustizia, in poche righe, alla chiarezza e completezza
della trattazione di Beetham e Lord (1998). Sul problema della legittimità e democraticità
dell’Unione Europea si vedano, all’interno di una letteratura in continua crescita, Andersen
e Eliassen (1996); Lord (1998); Banchoff e Smith (1999); Eriksen e Fossum (2000).
17
Del resto, la sua legittimazione non può nemmeno unicamente basarsi su altre
fonti, quali ad esempio la superiore conoscenza tecnica dei suoi funzionari (legittimazione
tecnocratica, come pure è stato argomentato, cfr. Majone 1997).
438 Simona Piattoni

Tornando alla governance multi-livello, può essa aiutare a risolvere i


problemi di legittimità che affliggono l’Unione Europea? Sono le decisioni
prese attraverso meccanismi multi-livello per ciò stesso più legittime? La
letteratura è cautamente ottimista. Fra i meccanismi decisionali utilizzabili a
livello di Unione Europea (mutual adjustment, inter-governmental negotiations,
joint decisions (Scharpf 1999) e, ma sempre meno, hierarchical direction), le
decisioni congiunte tipiche del Metodo comunitario sono, al tempo stesso,
frequentemente utilizzate ma sempre meno legittime. Esse infatti combinano
aspetti nelle negoziazioni intergovernative ed aspetti della centralizzazione
sovranazionale. È in questo tipo di circostanza che il deficit di legittimità del
processo decisionale e della struttura che lo genera si fa più palese. L’inclusione
di rappresentanti della società civile e dei governi sub-nazionali può, in alcuni
ambiti di policy, migliorare la legittimità di tali processi decisionali e delle
decisioni che ne derivano se: 1) estende la partecipazione ad alcuni interessi
legittimi e rende potenzialmente più trasparenti questi stessi processi, partico-
larmente se i rappresentanti della società civile e dei governi sub-nazionali si
incaricano di informare e mobilitare i loro rappresentati (legalità delle regole);
2) incoraggia l’adozione di visioni comuni dei problemi e quindi tende ad
incrementare il consenso sull’appropriatezza degli obiettivi e degli standard
(giustificabilità normativa); 3) garantisce l’approvazione delle decisioni da
parte delle altre autorità legittime (le regioni, appunto) e crea un consenso
(permissivo) inespresso da parte dei ricettori di tali decisioni (legittimazione).
Quindi, per quanto la governance multi-livello contribuisca effettivamente a
colmare in parte il deficit di legittimità, essa è lungi dal risolvere completamente
il problema. Più in generale, il deficit di legittimità dei processi decisionali
multi-livello sarà tanto maggiore quanto più queste decisioni riguarderanno
misure correttive del mercato (sulle quali vi è minore consenso fra gli stati
membri e dove le tradizioni nazionali sono più forti) piuttosto che misure
costitutive del mercato (per le quali vige ancora un «consenso permissivo»).
Il dilemma dell’Unione Europea, anche per Jachtenfuchs, è che «quanto più
l’Unione Europea ha poteri autonomi, tanto meno legittima diventa. Quanto
più rispetta i processi politici degli stati membri che, secondo questa teoria,
sono di gran lunga la maggiore fonte di legittimità, tanto più inefficiente di-
venta. Il dilemma non può essere sciolto, ma solo moderato dall’applicazione
del principio di sussidiarietà» (Jachtenfuchs 1995, 129).
Se i contorni di questo paradosso, e le sue conseguenze in termini
di legittimità delle decisioni, sono stati particolarmente messi in luce da
Scharpf (2000), è di conforto leggere che sia Scharpf stesso (2001) sia al-
tri autori (ad esempio, Jachtenfuchs e Kohler-Koch 1995; Kohler-Koch e
Eising 1999; e soprattutto Eberlein e Kerwer 2002; 2004), sono ottimisti
circa la capacità di alcuni nuovi strumenti di governance, in particolare il
metodo aperto di coordinamento, di superare la contraddizione interna alle
La «governance» multi-livello 439

decisioni congiunte. Come è già stato osservato, tramite il metodo aperto di


coordinamento, uno degli strumenti della new governance, la Commissione
predispone gli incentivi affinché gli stati membri convergano verso soluzioni
(comportamenti, regolamenti) comuni, pur senza forzare i tempi della con-
vergenza, né indicare la soluzione preferita, né dettagliare i modi della sua
attuazione. Inoltre, aprendo la partecipazione a molti gruppi ed interessi al
di là di quelli direttamente interessati alla soluzione comune, esso permet-
terebbe anche ampia partecipazione e quindi colmerebbe in parte il deficit
di legittimità democratica. Infine, la qualità quasi deliberativa di questi fori
incoraggiano la trasformazione spontanea delle preferenze invece della loro
forzata soppressione (e quindi si situerebbe fra il modo delle inter-govern-
mental negotiations e del mutual adjustment). La «persuasività normativa»
di tale metodo e dei metodi deliberativi ad esso simili, dice Scharpf, «deve
risiedere nella proposizione che l’accomodamento di interessi speciali e la
qualità sostanziale degli standard europei possano sostituire la legittimità
dell’accountability democratica basata su elezioni generali ed uguali e dibattiti
pubblici» (Scharpf 2000, 19).
Tuttavia, neppure tale metodo decisionale è privo di difetti: il dibattito è
spesso mantenuto all’interno di circoli di esperti e quindi «non politicizzato»
e non è nemmeno detto che la partecipazione sia poi così aperta (Eberlein
2004). Se fosse possibile instaurare una sorta di divisione del lavoro fra de-
cisioni più politiche market-creating, prese tramite il Metodo comunitario,
per le quale vige plausibilmente ancora un vigoroso «consenso permissivo»,
e decisioni più tecniche market-correcting, prese negli ambiti più rarefatti dei
comitati di esperti o attraverso il metodo aperto di coordinamento, ma per le
quali non esiste un ampio consenso popolare, allora la legittimità complessiva
delle decisioni europee non verrebbe forse messa in discussione. I problemi
insorgono ogniqualvolta soluzioni apparentemente tecniche hanno invece un
impatto chiaro e discernibile sulla vita delle popolazioni europee e vengono
pertanto politicizzate. È ciò che è successo, ad esempio, alle decisioni relative
l’Unione economica e monetaria e la gestione della moneta comune.
In una prospettiva di lungo periodo, occorre ricordare che ogni nuova
istituzione governativa crea la propria giustificazione normativa, la propria
visione del mondo, il proprio mito (Jachtenfuchs 1995). Ciò non è solo au-
spicabile, ma forse anche inevitabile. «L’Unione Europea è [...] una struttura
simbolica che può essere oggetto di analisi empirica. Questa struttura simbolica
non riproduce fedelmente la struttura istituzionale, ma segue piuttosto una sua
logica» (Jachtenfuchs 1995, 122-123). Il dilemma fra efficienza e legittimità
non può essere risolto se il punto di riferimento rimane lo stato. «Ma se la
legittimità è definita come una ‘visione del mondo’ che si sviluppa in parallelo
con, ma indipendentemente dalle istituzioni, non è necessariamente legata fin
dall’inizio allo stato. L’efficienza potrebbe perfino sostituire la democrazia
440 Simona Piattoni

come fonte o come argomento di legittimazione» (Jachtenfuchs 1995, 129).


È questo, per ora, più un auspicio che una previsione.

5. Conclusioni

La governance multi-livello descrive, al tempo stesso: 1) il processo di de-


strutturazione dello stato nazionale e di costituzione di altre entità politiche
(i governi regionali, l’Unione Europea), 2) i processi decisionali vigenti in
molte aree di policy tanto all’interno dell’Unione Europea quanto, poten-
zialmente, di altri sistemi politici in via di formazione o di destrutturazione,
3) una classe di modalità di coordinamento fra entità formalmente sovrane
ma funzionalmente inter-dipendenti. Nella misura in cui enfatizza la parte-
cipazione di istituzioni governative a diversi livelli giurisdizionale al fianco
di e alla pari con attori rappresentanti della società civile, essa si differenzia
dalla governance tout court. Essa pertanto problematizza le interrelazioni
fra governi di diverso livello giurisdizionale che una volta erano concepite
come gerarchicamente ordinate o quantomeno innestate le une nelle altre.
Le decisioni che vengono prese suo tramite sono legittime nella misura in cui
riescono a fornire soluzioni a problemi la cui scala giurisdizionale esula dai
confini dei livelli di governo tradizionalmente intesi (legittimità di output),
ma rimane fragile la loro giustificabilità normativa (se non addirittura legalità
procedurale e legittimazione esterna). Man mano che il processo d’integrazione
europea prosegue diventa sempre più plausibile la definizione di nuovi criteri
di legittimità delle strutture e decisioni governance che non necessariamente
corrispondono ai criteri validi per gli stati nazionali e la creazione di miti e
visioni del mondo che ne giustificano l’esistenza e ne sostengono la legittimità.
La natura multi-livello di tali decisioni può incrementare la loro legittimità
se riesce a coinvolgere strati ampi della popolazione a scale giurisdizionali
ragionevolmente piccole, a diffondere criteri comuni di valutazione e ad avere
il supporto di altri organi legittimi.
Se la governance multi-livello risponda efficacemente alle sfide analiti-
che, empiriche e normative che i processi decisionali europei (ma non solo)
ci pongono, rimane un’agenda di ricerca ancora aperta. Rimane la sensazione
di vivere in tempi di grande fermento e confusione, in cui una pluralità di
strutture di governo, fonti d’autorità e principi di legittimazione si accavallano,
sommandosi o forse elidendosi vicendevolmente.
La «governance» multi-livello 441

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