Sei sulla pagina 1di 32

Le politiche sociali in Italia nello scenario europeo

Ancona, 6-8 Novembre 2008


Sessione 7a

COSTRUIRE LE POLITICHE SOCIALI CON LA SOCIETÀ CIVILE.


PIANI DI ZONA E PARTECIPAZIONE NELLA PROVINCIA DI MILANO

Emanuele Polizzi 1

Le sfide della partecipazione nella legge 328


La legge 328/2000 costituisce, nella storia delle politiche pubbliche italiane, uno dei tentativi più
ampi e impegnativi di riforma complessiva del sistema di organizzazione dei servizi sociali. Attorno a
questa legge si sono coagulate attese maturate nel corso di anni di proposte, battaglie e sperimentazioni,
da parte di una platea ampia e diversificata di attori sociali e politici del dibattito pubblico: sindacati e
partiti, operatori del terzo settore e dei servizi pubblici, oltre che sociologi, economisti, politologi e
studiosi di pianificazione urbana.
Possiamo identificare diversi ordini di ragioni alla base di questa attesa di riforma. Un ruolo decisivo
è senz’altro ascrivibile all’emergere di una sempre più evidente frammentazione territoriale delle
modalità di organizzazione dei servizi sociali a livello locale. Tale frammentazione rendeva necessario
un ridisegno complessivo e organico del sistema, che garantisse regole certe e armoniche su uno stesso
territorio (Ranci 2004). Un altro fattore fondamentale è relativo alla necessità di bilanciare una spesa
sociale storicamente incentrata soprattutto sugli emolumenti economici, con una più consistente e
sistematica offerta di servizi sociali a disposizione di ogni contesto territoriale e di integrarli
organizzativamente tra loro per favorire la sinergia tra i diversi strumenti e i diversi operatori.
La ragione su cui però vogliamo qui soffermarci è quella relativo al progressivo affermarsi in Europa
di modelli di governo incentrati sulla sussidiarietà verticale e orizzontale. Tale tendenza spingeva anche
il sistema dei servizi sociali verso forme di governance nei quali avessero un ruolo attivo e protagonista le
amministrazioni locali e i soggetti della società civile 2 . Questi ultimi in particolare, dopo aver
conquistato oramai pienamente negli anni ’80 e ’90, il ruolo di soggetti capaci di erogare e gestire
servizi, venivano chiamati a esercitare un nuovo ruolo di co-progettisti e coprogrammatori delle
politiche locali, seguendo la tendenza in atto in molti campi di policy verso forme di democrazia
partecipativa. Se infatti andiamo a vedere il tipo di coinvolgimento della società civile nelle politiche
sociali più frequente fino ad recenti, notiamo come esso fosse incentrato prevalentemente, se non
esclusivamente, sulla parte operativa dei servizi, ossia sulla loro concreta gestione e al massimo sulla
loro progettazione tecnica, dando luogo a quello che è stato definito un modello di welfare mix (Ascoli e
Ranci 2003). Tale modello di coinvolgimento ha consentito delle innovazioni importanti nella
costruzione dei servizi (Fazzi e Scaglia 1999, Pavolini 2003), ma è stato limitato ad un momento

1 Dottore di ricerca in sociologia presso l’Università degli Studi di Milano.


2 Nella legittimazione di un tale mutamento, ha avuto una parte essenziale il riconoscimento del principio di sussidiarietà nell’ordinamento
costituzionale italiano, avvenuto nel 2001, con la riforma del titolo V. In esso è compresa sia la dimensione verticale che orizzontale della
sussidiarietà. In virtù della sussidiarietà verticale si adotta, come criterio ordinatore della distribuzione di poteri e competenze, una
preferenza per gli enti amministrativi territorialmente più locali, in quanto livelli di governo più adatti a servire le esigenze delle comunità
locali. In virtù della sussidiarietà orizzontale, si riconosce la legittimità e il valore pubblico dell’intervento di utilità sociale operato
direttamente da soggetti della società civile, persino laddove manchi un precedente mandato degli enti pubblici (Arena 2006).

1
implementativo di costruzione delle politiche, lasciando invece la parte di programmazione alla sola
competenza delle amministrazioni pubbliche.
La novità che invece è stata introdotta con la legge 328 in Italia, analogamente a quanto accaduto in
altri paesi europei, è il fatto che le organizzazioni della società civile vengano chiamate a contribuire,
insieme alle amministrazioni, alla programmazione delle politiche e alla definizione del loro sistema
locale.
La legge 328 ha così cercato di recepire questa nuova configurazione del ruolo delle organizzazioni
del terzo settore, inserendo la loro partecipazione tra i punti qualificanti del nuovo strumento di
pianificazione dei servizi locali: il Piano di Zona.
Attraverso il Piano di Zona, le amministrazioni comunali sono infatti tenute a programmare in
maniera partecipata le politiche sociali del territorio e, pur muovendosi su indirizzi nazionali e regionali,
elaborano un modello locale di partecipazione a questo lavoro programmatorio. Alla costruzione dei
Piani di Zona sono chiamati a partecipare tutti i soggetti del territorio che hanno un ruolo nel welfare
locale: dalle realtà dei servizi pubblici (non solo sociali ma anche sanitari, scolastici e degli altri comparti
del welfare) alle organizzazioni del terzo settore (associazioni, cooperative, fondazioni, ecc.).
A questi mutamenti del ruolo riconosciuto alla società civile, corrisponde un mutamento del ruolo
svolto dalle amministrazioni pubbliche locali. Queste ultime, infatti, non si trovano più in una
posizione distaccata e al di sopra degli interessi particolari. Le amministrazioni appaiono ora collocate
in mezzo agli interessi particolari, in un ruolo di regia e promozione che mira a creare delle sinergie
virtuose tra essi. E’ questo uno degli elementi chiave del passaggio da un sistema di government ad un
sistema di governance (Gaudin 1999, Le Galés 1999, 2007, Lafaye 2002).
Nell’assumere questo nuovo ruolo di regia della programmazione partecipata delle politiche sociali,
le amministrazioni locali si trovano ad affrontare diverse questioni problematiche, che corrispondono
ad altrettante sfide. Alcune di queste sfide sono comuni a tutti i campi di governance pubblica, altre sono
più specifiche del campo delle politiche sociali. Proviamo quindi a sintetizzare i principali nodi che le
amministrazioni si trovano ad affrontare in questa nuova configurazione.
Uno dei nodi principali riguarda il coordinamento degli attori del terzo settore del territorio. Si
tratta cioè di capire come rendere possibile alle diverse parti di un mondo molteplice ed eterogeneo
come quello del terzo settore, una partecipazione effettiva alle arene programmatorie, cioè non
frammentata e non dispersiva. L’effettività del coinvolgimento richiede per esempio che il contributo di
conoscenza, di competenza, di creatività dei soggetti della società civile sia raccolto con modalità che
diano precise titolarità e diritti di partecipazione e che tengano conto delle scarsità di tempo e di
competenze di molte delle organizzazioni del terzo settore. E’ infatti usuale, in diverse forme di
coinvolgimento della società civile (come ad esempio l’utilizzo di consulte di associazioni), che agli
attori associativi manchino la titolarità e le risorse tecniche che permettono l’elaborazione di critiche e
di proposte per le amministrazioni. La possibilità che la partecipazione nelle politiche locali sia effettiva
appare cioè molto difficile dove le associazioni, le cooperative piccole e grandi, le fondazioni e tutti i
diversi soggetti che compongono l’insieme del terzo settore agiscano senza alcuna forma di
coordinamento. Tale coordinamento implica quindi la presenza di strumenti di facilitazione della
partecipazione, come i meccanismi di rappresentanza, i supporti per la comunicazione e per
l’organizzazione della partecipazione, le competenze per l’interlocuzione politica con le amministrazioni
stesse. In assenza di queste condizioni per l’effettività della partecipazione, si producono facilmente
forme inefficaci di partecipazione e con esse fenomeni di delusione e di conseguente exit dei soggetti
della società civile del territorio, soprattutto di quelli piccoli e con meno risorse di tempo da spendere
nella partecipazione.
Un altro nodo riguarda l’universalismo delle arene partecipative. La sfida, in questo caso, sta nel
fatto che i diversi soggetti della società civile di uno stesso territorio possano partecipare tutti alla
costruzione delle arene della governance, senza che prevalgano in queste arene le istanze particolari dei
soggetti più forti e organizzati. Gli studi sulle arene di governance (Bifulco 2005, Trigilia 2005) mettono in
luce infatti come spesso manchino, in tali arene, delle forme di regolazione della partecipazione capaci
di: a) tenere aperte la possibilità di partecipare per tutti i soggetti potenzialmente titolati a farlo; b)
vincolare le proposte portate sul tavolo a essere fondate su esigenze oggettive e generalizzabili,
limitando così la possibilità che la partecipazione si trasformi in una serie di richieste particolaristiche

2
dei gruppi più dotati di risorse o più vicini ideologicamente o personalmente agli amministratori dei
comuni. Si pone quindi la necessità, in tali arene, di forme di regolazione che sappiano limitare o
prevenire questi rischi di chiusura o di particolarismo.
Un problema che invece si pone specificamente per il campo delle politiche sociali riguarda il ruolo
peculiare giocato dai soggetti del terzo settore nelle arene di governance. Il terzo settore si configura
infatti come un’espressione organizzata della società civile. Esso costituisce una forma mediata di
partecipazione della cittadinanza e tale mediazione è data dai filtri culturali e organizzativi che rendono
meno diretto l’apporto della cittadinanza alle politiche. La mediazione offerta dalle organizzazioni del
terzo settore può essere considerata un fattore di sviluppo delle capacità dei cittadini di incidere in
queste arene, nella misura in cui utilizza il sapere sviluppato dalle organizzazioni del terzo settore nelle
esperienze di azione più prossime alle condizioni effettive di bisogno. La mediazione però può anche
essere talvolta un fattore di opacità e di possibile distorsione delle volontà dei cittadini stessi (Andersen
e Burns 1996, Bifulco e De Leonardis 2005). Questo rischio è insito nel fatto che le organizzazioni del
terzo settore sono sempre attori di advocacy, cioè interpreti delle istanze dei cittadini e al tempo stesso
attori economici, in quanto fornitori di servizi che ricevano mandato e finanziamenti dalle
amministrazioni pubbliche. Queste organizzazioni cioè, nel corso della loro azione, perseguano non
solo gli interessi dei destinatari, ma anche gli interessi propri. Tale doppia natura rende la loro posizione
costitutivamente ambivalente e aperta a possibili dilemmi tra agire funzionalmente agli interessi di
impresa o a quelli di rappresentanza dei destinatari dei loro servizi (Powell 1987, Ranci 1999). Si pone
quindi la sfida, per la amministrazioni pubbliche, di saper coinvolgere le organizzazioni del terzo settore
nella costruzione delle politiche, distinguendo queste due diverse dimensioni.
La partecipazione alle arene di costruzione dei soggetti del terzo settore presenta poi un ulteriore
elemento problematico. La partecipazione dei soggetti del terzo settore alle arene di costruzione delle
politiche sociali si legittima infatti in quanto essi vengono ritenuti come rappresentanti della
cittadinanza. Non esiste però, nella gran parte dei casi, alcun dispositivo di rappresentanza istituzionale
che sancisca tale rappresentatività (Vitale 2007). La loro legittimità come titolari della voce della società
civile appare dunque fragile, sia in virtù del loro ruolo ambivalente di attori di advocacy e insieme di attori
economici, sia per la mancanza di dispositivi istituzionali per la loro rappresentanza. Anche il nodo
della legittimità della rappresentanza, rappresenta perciò un nodo problematico a cui le amministrazioni
della programmazione partecipata sono chiamate a dare risposta.
L’attuazione dei Piani di Zona costituisce così un contesto di prova, nel quale si misurano le capacità
delle amministrazioni di rispondere effettivamente a tutte le sfide qui menzionate.

Nonostante la legge 328 presenti dunque, in virtù delle sfide che apre, numerosi motivi di interesse
per la ricerca sulle politiche pubbliche, abbiamo visto in questi anni un progressivo affievolirsi
dell’interesse per i suoi esiti, sia da parte del mondo accademico, che sembra aver affrontato la
questione in modo ancora poco sistematico, sia da parte degli attori sociali e politici che pure avevano
tanto promosso l’introduzione di questa riforma. Tale perdita di attenzione può essere attribuita a
diversi motivi.
Un primo motivo è di tipo istituzionale ed è relativo al fatto che pochi mesi dopo l’introduzione
della riforma del 2000, sia stata approvata la riforma del titolo V della costituzione. La riforma
costituzionale, infatti, attribuiva alla regioni la competenza di regolare il comparto socio-assistenziale,
facendo eccezione per il rispetto di alcuni livello essenziali di assistenza, da garantire in ogni Regione.
Questo elemento normativo ha come disinnescato uno degli elementi centrali della riforma, ossia il suo
carattere di universalità, cogenza e sistematicità su tutto il territorio nazionale (Mirabile 2005). Un
secondo motivo di trascuratezza della legge è di tipo più strettamente politico. Il fatto che la riforma
elaborata e approvata da un governo e più in generale da una serie di attori politici di centro sinistra, sia
di fatto entrata in vigore nel momento stesso in cui ha assunto la responsabilità del governo nazionale il
centro-destra, ha fortemente indebolito il suo processo di implementazione, per esempio attraverso un
debole finanziamento della sua applicazione o un vaga e tarda definizione dei livello essenziali di
assistenza. Un terzo motivo è relativo alla frequente deriva delle grandi riforme a sottovalutare
l’importanza del momento implementativo delle risorse, e delle risorse ad esso necessarie. Come
emerge da un’ampia tradizione di studi sulle riforme delle politiche pubbliche (Wildawsky e Pressman

3
1973, Lindblom 1979), l’attenzione all’implementazione è decisiva nel rendere le riforme di policy,
soprattutto quelle di sistema, capaci di effettivo mutamento. La sottovalutazione dell’implementazione
delle riforme, d’altra parte, appare un fenomeno particolarmente ricorrente nelle culture riformiste
italiane, le quali si sono mostrate storicamente più attente alla dimensione giuridica del mutamento e
all’entrata in vigore di un disegno normativo (De Leonardis 1991), che non alla dimensione pragmatica
del mutamento stesso e alla capacità tecnica dei territori e degli attori di fare diventare prassi le condotte
previste dalle riforme.

Le premesse fin qui proposte conducono dunque a mettere a fuoco due problemi in particolare:
1) La questione di come si configuri il nuovo ruolo delle organizzazioni del terzo settore e più in
generale della società civile nelle arene di governance nate dalla riforma;
2) La questione di quali eventuali forme di innovazione possono essere individuate nella fase
implementativa della riforma stessa.
La ricerca qui presentata, prende le mosse da queste due questioni nodali e alla luce di un percorso
di indagine di tipo esplorativo, tenta di individuare alcune dinamiche presenti nel processo di attuazione
della riforma. Non si intendono qui proporre quindi delle risposte in merito agli esiti finali della
riforma, quanto indicare delle tendenze che vi si delineano 3 .

Stili di programmazione e innovazione


Tra i possibili fattori che possono innescare dei processi di innovazione nelle arene partecipative
che prenderemo in considerazione, sono qui messi a fuoco in particolare quelli relativi allo stile di
programmazione con cui tali arene sono gestite dalle amministrazioni locali. Gli stili
dell’amministrazione vengono qui visti cioè come delle variabili che hanno delle potenzialità
performative sui tavoli.
Nel privilegiare un’attenzione alla dimensione degli stili di gestione delle arene partecipative,
abbiamo utilizzato un impianto teorico proveniente dall’approccio neo-istituzionalista. Tale approccio
si caratterizza per l’attenzione dedicata alle proprietà che le cornici istituzionali di un campo
organizzativo hanno di vincolare la condotta degli attori. Tale condizionamento avviene sia a livello
cognitivo, nella misura in cui costruisce significati e sensi di oggetti e azioni, sia a livello normativo,
nella misura in cui stabilisce delle logiche di appropriatezza (March 1998). Uno dei campi privilegiati
di analisi della ricerca neo-istituzionalista è quella che si concentra sulla dimensione implementativa
delle politiche pubbliche. In particolare, James March e Johan Olsen (1986, 1995), pongono
l’attenzione sulle forme organizzative dei processi di governance e sul fatto che esse possano
determinare non solo le condizioni formali della relazione tra gli attori, attraverso una spinta
all’isomorfismo istituzionale, ma in parte gli stessi contenuti delle loro posizioni. La path dependency che
i contesti ereditano dalla configurazione delle relazioni che si è radicata nel corso del tempo, favorisce
la continuità delle condotte degli attori, anche a fronte di cambiamenti di mutamenti esterni che non
ne intacchino le cornici cognitive e normative, e quindi l’ordine di preferenze. Tuttavia, sia March e
Olsen, che altri autori riconducibili a questo filone come Friedberg (1993) o Pfau-Effinger (2004),
contemplano anche delle possibilità di path deviation e cambiamento istituzionale, tramite innovazioni
di processo nei quali gli attori giungono a cambiare preferenze, condotta e soprattutto configurazione
della relazione nei confronti degli altri attori e dello stesso campo di azione nel quale agiscono.
Seguendo questa linea di pensiero, possiamo dire che nel caso dei Piani di Zona, gli stili di
programmazione possono essere radicati nella storia di un’amministrazione e di un territorio e subire
quindi una path dependency da fattori radicati nel passato. Essi tuttavia possono anche essere l’esito di
una produzione e riproduzione che avviene di continuo nelle pratiche programmatorie degli attori,
soprattutto se vi sono strumenti di governo che vengono utilizzati per la prima volta, come nel caso
dei Piani di Zona.
Questa attenzione alla dimensione degli stili delle amministrazioni si pone d’altronde nel solco di
una tradizione di studi che in Italia ha avuto applicazione soprattutto nel campo delle ricerche sullo

3Il presente lavoro è una rielaborazione della tesi di dottorato svolta presso il Dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università degli
Studi di Milano e discussa nell’aprile 2008.

4
sviluppo locale (Bagnasco 1977, Trigilia 2005). Un esempio di tale approccio è quello adottato da
Patrizia Messina, nel suo studio incentrato sulle strategie di sviluppo economico per le piccole e
medie imprese in Emilia Romagna e Veneto (Messina 2003, 2005). Qui si sostiene che la differenza
tra le diverse performance dei sistemi regionali nel rispondere alle sfide della governance dei processi di
sviluppo in un contesto di economia globale, risieda principalmente nella differenza tra le due diverse
culture politiche radicate in questi territori. Il concetto di cultura politica viene però qui declinato nel
concetto più ristretto di stile amministrativo, riferendosi con ciò alle forme di governo delle reti di
attori sul territorio da parte delle amministrazioni locali, al loro livello di intervento nel rapporto con
gli attori privati e pubblici, al maggiore o minore investimento fatto sulle risorse dedicate alla parte
tecnica dei processi di governo. In Emilia Romagna sarebbe più radicato uno stile di forte
interventismo regolativo, di costruzione di forme di coordinamento e controllo tra le diverse parti
pubbliche e private del sistema, con un presidio e un accompagnamento da parte delle autorità locali
sui processi di cooperazione locale. Ciò attrezzerebbe maggiormente i territori a fare fronte alle sfide
della concorrenza internazionale, dando maggiore legittimità e capacità di governance multilivello ai
sistemi locali. In Veneto invece, la cultura politica maggiormente gelosa dell’autonomia del privato, sia
in campo economico che in campo sociale, e la diffidenza diffusa tra gli attori economici e sociali nei
confronti della presenza dello Stato, percepito come inefficiente, avrebbe fatto emergere uno stile
amministrativo caratterizzato da un minore intervento da parte delle amministrazioni locali sulle
forme di scambio tra attori economici e sociali. Secondo l’interpretazione della Messina, ciò ha fatto
aumentare il policentrismo del governo locale e limitato la comunicazione e il coordinamento tra le
sue reti. Questo modello di maggiore debolezza del ruolo regolatore delle amministrazioni avrebbe
poi portato, con lo sviluppo della necessità di processi di governance multilivello, a forme di
programmazione più di tipo semplicemente aggregativo che non integrativo.
Altre interpretazioni però, pur mettendo anch’esse l’accento sugli stili con cui vengono gestite le
arene di programmazione partecipata a livello regionale, focalizzano l’attenzione su elementi più
strettamente legati alle dinamiche negoziali che si creano nei microcontesti locali, concentrando
quindi l’analisi sulla costruzione concreta dei processi di programmazione (Barbera 2001, Trigilia
2001, 2005). Tali elementi sono attinenti ad esempio alla capacità dei gestori dei tavoli di mutare le
mappe cognitive degli attori e di connettere attori del territorio precedentemente non connessi e dalla
capacità degli attori di spendere risorse proprie nei tavoli, generando così circoli virtuosi di fiducia
anche da parte degli altri attori.
E’ soprattutto a quest’ultima dimensione che faremo riferimento in questa analisi ed è in queste
pratiche di processo organizzativo che vengono cercati i fattori di innovazione, pur consapevoli che
non siano essi i soli fattori a determinare l’esito innovativo delle arene partecipative e il suo segno.
L’accezione che usiamo del termine innovazione comprende mutamenti relativi non solo agli
output delle politiche, ma anche relativi ai tipi di relazioni tra attori. Similmente a quanto hanno
proposto di recente alcuni studiosi come Moulert et al. (2007) o Papadopulos e Warin (2007), la
definizione di innovazione che usiamo non è neutra e si basa su quattro criteri normativamente
connotati per valutare le capacità di innovazione degli strumenti partecipativi e deliberativi: l’esistenza
di procedure che garantiscano l’apertura dell’accesso alle arene partecipative, la qualità della
deliberazione attuata, la qualità del processo deliberativo, l’efficienza e l’efficacia della deliberazione
stessa, la trasparenza e l’accountability dell’intero processo nella sfera pubblica.
Proviamo ora a vedere, più specificamente, cosa intendiamo con innovazione di output e
innovazione di relazione tra attori. Con il termine output non alludiamo qui all'esito diretto che le
politiche hanno sui destinatari, in termini di soddisfazione dei bisogni. L’output è invece, in questo
caso, l'esito che la programmazione ha sulla capacità del sistema dei servizi di rispondere ai bisogni
della popolazione del territorio con dei nuovi strumenti e dispostivi di policy. Tale capacità si traduce
nell’introduzione di nuovi servizi, nell’armonizzazione dell’accesso alle prestazioni su tutto il
territorio, di integrazione delle politiche socio-assistenziali con le altre politiche sanitarie, abitative, del
lavoro e della formazione. Un’ulteriore e decisivo indicatore di questa capacità sta nell’aumento di
risorse complessive per i servizi, ma nel caso della presente ricerca, questo indicatore è risultato quasi
sempre di difficile rilevazione.

5
Gli strumenti di policy inoltre, nell’accezione che abbiamo visto usare da Le Galés e Lascoumes
(2004, 2007), hanno un potenziale generativo di esiti propri, in termini di significati e di relazioni
generati, i quali sono autonomi da quelli prefissati dai policy-makers. Per questo ne verrà qui valutata
l’innovatività non solo in relazione all’allargamento o miglioramento delle attività di risposta ai bisogni
specifici della cittadinanza, ma anche in relazione a questi esiti prodotti dagli strumenti adottati.
Vediamo ora cosa intendiamo quando parliamo di innovazione nella configurazione della relazione
tra gli attori.
Le relazioni tra gli attori che partecipano ad un processo di governance sono importanti da studiare
in quanto, seguendo l’approccio neo-istituzionalista, è nel mutamento della cornice cognitiva e
normativa entro cui si produce l’interazione dinamica tra gli attori che può avvenire, o non avvenire,
un mutamento dell’ordine di preferenze degli attori stessi nei confronti dell'oggetto stesso
dell'interazione e nei confronti degli altri attori. Come mostrano alcune ricerche in proposito
(Barbera 2001, Pelligra 2001), è spesso proprio l'atteggiamento di maggiore o minore fiducia che si
costruisce tra gli attori nel corso del processo di interazione o la presenza di meccanismi di diffusione
della fiducia (Mutti 2003) a determinare una modificazione delle condotte nei tavoli partecipativi. In
settori delle politiche dove abbiamo visto essere diffusa la tendenza ad adottare forme negoziali di
mutuo accomodamento (Pavolini 2003), oppure meramente distributive (Baccaro 2004), la
trasformazione dell'atteggiamento degli attori da un impegno strettamente legato agli interessi della
propria organizzazione ad un impegno più attento alla costruzione di beni comuni più virtuosi (come
lo sono potenzialmente i Piani di Zona), passa attraverso la costruzione incrementale di fiducia tra i
soggetti dell'interazione. Una fiducia che peraltro non corrisponde sempre ad una effettiva migliore
capacità di cooperazione tra gli attori. Come evidenziano infatti molti studi sulle arene cooperative
(Donolo 1997, Trigilia 2005), un aumento della fiducia intra-organizzativa tra gli attori di una rete non
necessariamente produce un aumento della fiducia generalizzata. Esso può anzi condurre in alcuni
casi alla costruzione di rapporti collusivi e di clan, tali per cui le arene cooperative della
programmazione diventano più simili a delle forme di chiusura autoreferenziale e di privatismo
(Bifulco e De Leonardis 2005).
Con queste premesse analitiche, andiamo ora a vedere come si è svolta l’indagine empirica. Essa si
è articolata in due fasi. Nella prima fase abbiamo analizzato 21 Piani di Zona costruiti nella provincia
di Milano (escludendo quello di Milano città per la scarsa comparabilità dimensionale con gli altri) nel
2006, anno di inizio della seconda triennalità dei Piani di Zona lombardi. In questa fase abbiamo
potuto capire, in maniera limitata ma indicativa, cosa sia stato compiuto in questi documenti
programmatori, a quali forme di innovazione di politiche e di sistema essi abbiano dato luogo, con
quali processi di conoscenza e di riflessività siano stati costruiti e in particolar modo, come vi sia
stato articolata e promossa l’organizzazione della partecipazione. Da questa fase della ricerca,
abbiamo ricavato importanti informazioni su quali tipi di stili si stiano affermando nella provincia di
Milano e quali connessioni si possano ipotizzare tra gli stili adottati e gli esiti della programmazione
stessa, in termini di politiche e di assetti relazionali che emergono dal contenuto dei Piani di Zona.
Nella seconda fase della ricerca abbiamo invece guardato a due casi che si sono mostrati molto
differenti come stile e come esiti e li abbiamo studiati da vicino, cercando di capire come questi stili
diversi si articolino praticamente, con quali meccanismi si costruiscano i tavoli partecipativi e a quali
esiti essi diano luogo, non solo nel Piano stesso (come abbiamo già fatto nella prima parte della ricerca),
ma anche nella configurazione generale delle relazioni tra gli attori.
Passiamo dunque a presentare dapprima l’analisi descrittiva dei 21 Piani di Zona della provincia di
Milano.

L’analisi descrittiva dei Piani di Zona della provincia di Milano


Per arrivare a individuare gli elementi processuali che contano nel produrre gli effetti di
innovazione che abbiamo descritto, abbiamo suddiviso l’analisi dei Piani in quattro dimensioni, delle
quali la prima identifica principalmente gli output in termini di innovazioni nelle politiche, mentre le
altre tre identificano i principali elementi di cui è composto il processo programmatorio.

6
Innovazione programmatoria
La prima dimensione riguarda l'innovazione programmatoria, ossia quei tratti del documento di
Piano che manifestano una discontinuità rispetto alle pratiche di servizio e di organizzazione del
sistema dei servizi locali in uso precedentemente all'introduzione del Piano di Zona stesso. Abbiamo
suddiviso le forme di innovazione programmatoria in vari indicatori, che ricalcano per molti versi quelli
utilizzati da Mirabile (2005) nel suo studio sui Piani di Zona italiani.
Un primo indicatore è relativo alla capacità di individuare delle scelte prioritarie da operare nella
programmazione. Dietro questa capacità si può rintracciare un'attitudine verso le politiche sociali di
maggiore consapevolezza e finalizzazione delle politiche rispetto al fenomeno, molto diffuso nelle
pratiche delle amministrazioni locali, di elencare semplicemente i bisogni, distribuendo le risorse (quasi
sempre molto limitate rispetto al bisogno) in maniera indifferenziata o casuale tra le diverse aree,
secondo un modello simile a quello del “cestino dei rifiuti” descritto da March e Olsen (1986). In altre
parole, dietro questa qualità si può intravedere una capacità di azione strategica da parte delle
amministrazioni pubbliche.
Da questo punto di vista, possiamo notare come l'individuazione delle priorità sia effettivamente una
pratica diffusa tra i distretti della provincia di Milano. Sono pochi i casi dove questa non si dia. Più
frequente è tuttavia il caso in cui queste priorità siano semplicemente menzionate, senza che venga poi
costruita una programmazione che discenda dalla definizione delle priorità.
Un secondo indicatore individuato è quello relativo alla presenza nel documento di Piano di un
programma di introduzione di nuovi servizi e di sviluppo e armonizzazione di quelli esistenti. Si tratta
della capacità di utilizzare la pianificazione zonale, con l'allargamento del raggio spaziale dei servizi e
l'aumento relativo di risorse connesse con l'accesso ai fondi aggiuntivi della legge 328, per introdurre
servizi prima inesistenti, avviare sperimentazioni e adottare delle modalità di organizzazione e di
accesso ai servizi comuni a tutto l'ambito zonale. Per fare degli esempi, l'esistenza di un servizio sociale
professionale presente su tutti i comuni di un ambito dove prima esso era attivo solo in quelli più
grossi, e l'armonizzazione nell'accesso ai voucher e ai buoni sociali costituiscono forme di innovazione
rilevanti ai fini dell'analisi 4 .
Sotto questo profilo, i documenti analizzati presentano tutti una qualche forma di innovazione, sia
dal lato dell'introduzione dei nuovi servizi sia dal lato del loro sviluppo. Tuttavia esiste una differenza
significativa tra casi nei quali quest'opera di sviluppo e armonizzazione dei servizi si è dimostrata
soltanto genericamente annunciata ed altri nei quali ad essa è stato dedicato un ampio lavoro di
preparazione in sede di elaborazione del Piano e dove si sono effettivamente messe a punto forme di
armonizzazione all'accesso più estese e regolamentate. Sono speculari, da questo punto di vista, i casi di
Corsico e di San Donato (come si vedrà più approfonditamente negli studi di caso a loro dedicati)
rispetto all'attivazione dei voucher sociali. Mentre infatti nel primo caso le forme di armonizzazione
all'accesso al voucher sono state appena menzionate tra gli obiettivi del nuovo Piano, a San Donato a
queste è stata dedicata una parte molto ampia di progettazione in ogni servizio che li preveda.
Un ulteriore ed importante indicatore individuato ai fini dell'analisi dell'innovazione programmatoria
è costituto dall'integrazione. Con questo termine, designiamo qui sia l'integrazione organizzativa tra le
diverse parti dell'amministrazione che si occupano dei servizi sociali (come per esempio l'adozione di
aziende speciali per l'organizzazione e/o la gestione dei servizi, oppure un forte investimento sugli
uffici di Piano e sulla gestione associata), sia l'integrazione tra le politiche sociali e altre politiche di
welfare attuate dalle amministrazioni del territorio, come quelle sanitarie, abitative e del lavoro.
L’analisi condotta sui documenti di Piano di Zona negli ambiti della provincia di Milano ha fatto
emergere come l'innovazione programmatoria sia una dimensione per la quale i casi si suddividono
tendenzialmente in tre gruppi: a) i casi di ambiti scarsamente innovativi sotto tutti i profili. Lo stile ad
essi corrispondente può essere qui definito come residuale; b)i casi di ambiti con maggiori profili di
innovatività rispetto alla capacità di operare scelte strategiche e di sviluppare il sistema dei servizi, ma
meno sotto il profilo delle modificazioni del sistema dei servizi e della sua integrazione. Il loro stile può

4 Un caso emblematico è quello del Vimercatese. Qui infatti, il territorio è composto da un comune grande, Vimercate, e 27 comuni di
piccole dimensioni e non dotati del servizio sociale professionale. L'introduzione del Piano di Zona ha costituito l'occasione per costruire
un sistema di servizi di ambito, tramite il quale ogni piccolo comune si è trovato inserito in una rete integrata di nodi del servizio sociale
professionale.

7
essere definito come incrementale in quanto presenta elementi di innovazione accanto ad elementi di
continuità con le forme passate di costruzione delle politiche sociali; c)i casi innovativi su tutti i profili,
il cui stile di programmazione è stato definito come sistemico.

Forme di conoscenza e fonti informative


La seconda dimensione individuata nell'esame dei documenti di Piano riguarda le forme di
conoscenza e le fonti informative che sono state utilizzate per l'analisi di bisogni e risorse sociali del
territorio. Si tratta di una parte molto importante della costruzione di un Piano, dal momento che è
attraverso di essa che si fondano sia le priorità di azione su cui orientare le energie e le risorse delle
amministrazioni, sia le modalità concrete di organizzazioni dei singoli servizi.
Un primo indicatore utilizzato per indagare questa area è costituito dal grado di dettaglio dell'analisi
svolta sulle caratteristiche del panorama di bisogni e risorse del territorio e dalla presenza di
un'indicazione di come tradurre gli esiti delle analisi in scelte strategiche, cioè la sua finalizzazione. Con
questo indicatore, si intendono mettere a fuoco le capacità delle amministrazioni di analizzare le
specificità di ogni area di bisogno e di intervento, dando così conto di un lavoro di verifica e di raccolta
svolto non solo su macro voci ma anche sulle loro singole ripartizioni. Allo stesso tempo, si vuole
mettere sotto esame qui la capacità di utilizzare l'analisi per la costruzione di azioni prioritarie.
A questo riguardo la ricognizione dei casi mostra un elevato numero di ambiti nei quali questa analisi
è apparsa molto generica e scarsamente finalizzata. Si evidenzia cioè, in molti di questi casi, una pura
elencazione di informazioni socio-demografiche sul territorio, dei servizi pubblici esistenti e degli
interventi svolti nel precedente triennio, senza entrare nel dettaglio delle singole aree di problema e
senza far discendere dai dati una lettura generale o delle strategie di azione.
Un altro indicatore utilizzato per quest'area è quello relativo all'uso che le amministrazioni mostrano
di aver fatto di fonti informative ulteriori rispetto a quelle di tipo statistico e quantitativo sulla
composizione socio-demografica della popolazione. Con questo indicatore si vogliono esaminare le
capacità delle amministrazioni di svolgere un processo di conoscenza autonomo e originale, basandosi
non solamente su analisi demografiche, ma anche sul coinvolgimento di altre aree dell'amministrazione
pubblica (ASL, altri rami dell'amministrazione comunale, provincia, ecc.), nonché di altre realtà del
territorio, come ad esempio gli operatori dei servizi che sono più a contatto con la cittadinanza (da
quelli dei servizi sociali alle scuole o i vigili urbani) e considerazioni ad esse conseguenti. Questo
processo di conoscenza del territorio avvicina il lavoro di costruzione del piano alla “progettazione
come indagine” (Lanzara 1993), cioè alla progettazione come occasione di conoscenza e non solo come
strumento di elaborazione di azioni organizzative.
Anche sotto questo profilo, possiamo vedere una grande maggioranza di ambiti, di ogni tipo e
dimensione, nei quali questo lavoro di reperimento di informazione e fonti di conoscenza è apparso
seguire delle linee standard, che non prevedono modalità sistematiche di ricerca delle informazioni
diverse da quelle descrittivo-quantitative fornite dai dati socio-demografici e dall'elencazione dei servizi
e degli interventi esistenti. A mostrare una maggiore capacità di reperimento di dati di altre aree
amministrative e di altre fonti non istituzionali sono invece solo pochi casi.
In generale, si può quindi notare come per l'area di programmazione attinente al processo di
conoscenza e alle fonti informative utilizzati per costruire il Piano, ci sia una tendenza generale allo
scarso utilizzo di questa fase del Piano come occasione di crescita del patrimonio di conoscenza e
quindi di azione del Piano stesso. In un numero ampio ed eterogeneo di casi cioè, i Piani di zona si
presentano come collezioni di dati e conoscenze generiche e di tipo canonico, ossia quelle prodotte in
forma standardizzata dalle amministrazioni comunali. Questo tratto della programmazione designa uno
stile che potremmo definire come limitato.
Oltre a questo stile, ne possiamo individuare un altro, nel quale appare un maggiore sforzo di
dettaglio dei bisogni e delle risorse del territorio, ma dove ancora non si ravvisano forme originali di
raccolta di informazioni sul territorio o di legame con altre aree dell'amministrazione locale. Si tratta di
uno stile che potremmo definire dettagliato.
Sono invece pochi e difficilmente riconducibili a variabili dimensionali o politiche i casi in cui si può
scorgere una capacità di utilizzare anche fonti non convenzionali di conoscenza di bisogni e risorse del

8
territorio e una collaborazione nella raccolta di informazioni con altre organizzazioni amministrative
interne o esterne al settore dei servizi sociali. Tale stile è stato qui definito aperto.

Riflessione e valutazione
La terza area messa in esame nell'analisi dei documenti di Piano è relativa alle forme di riflessione
attuate dalle amministrazioni rispetto all'esperienza del primo triennio di programmazione e alle forme
di valutazione, già sperimentate o previste, del percorso di programmazione e implementazione del
nuovo Piano. Sia il momento della riflessione che quello della valutazione sono elementi che rinviano
alla capacità degli attori di osservare con occhio critico il proprio operato e cercare i punti deboli e i
punti forti dell'esperienza svolta. Si tratta di capacità che possono generare potenzialmente un
apprendimento e un miglioramento della qualità della programmazione.
Il primo indicatore su quest'area riguarda la semplice presenza o assenza di forme di analisi critica
sulla prima triennalità del Piano, cioè il dedicare una parte del documento di Piano al resoconto di
quanto è stato fatto e quali obiettivi sono stati raggiunti o mancati, sia rispetto a ciò che ci si era
dichiaratamente prefissati all'inizio del Piano, sia rispetto agli esiti imprevisti emersi nel corso
dell'azione. Da questo punto di vista, si nota un alto numero di ambiti, molto diversi tra di loro per
dimensione, frammentazione territoriale, investimento nelle politiche sociali e forme organizzative
adottate, nelle quali non è stato approntato alcun tipo di analisi rispetto all'esperienza passata di
programmazione. In questi casi cioè, non è stata inclusa nel percorso di programmazione alcuna attività
riflessiva. Si possono identificare poi diversi casi che riportano una sezione di analisi della triennalità
precedente. In molti casi, tuttavia, questa sezione si riduce al menzionare obiettivi e risultati raggiunti e
non raggiunti, senza entrare nel merito degli elementi che sono emersi nel corso del lavoro, sia positivi
che critici.
Un secondo indicatore è quello che sviluppa il lavoro di analisi della prima triennalità, non
limitandosi all'elencazione degli obiettivi raggiunti e quelli non raggiunti, ma svolgendo in maniera più
dettagliata la riflessione critica rispetto alle specificità di cosa ha funzionato e cosa ha funzionato meno
e cercando di risalirne, per quanto possibile, ai motivi. Si tratta cioè di un lavoro riflessivo più
approfondito, a cui si dedichi un tempo e uno spazio specifico nel corso della prima parte del lavoro
programmatorio. In questo caso, troviamo solo un limitato numero di casi nei quali questa capacità di
riflessione approfondita si è mostrata presente nei documenti di Piano
Per quanto riguarda l'indicatore della valutazione, abbiamo scelto di andare a vedere non solo dove
siano annunciate, nel documento di Piano, delle forme di valutazione, ma anche dove esse siano
specificate attraverso delle modalità e delle scansioni temporali definite. Il termine valutazione è infatti
quasi sempre presente tra le pratiche ritenute utili nel percorso programmatorio. Solo raramente
tuttavia, a questa valutazione viene dedicata una trattazione ampia e dettagliata, per esempio in ambiti di
applicazione e in fasi (ex-ante, in itinere ed ex-post). Anche il dotarsi o meno di forme di valutazione
esterna e non solo interna agli operatori stessi della programmazione indica una maggiore o minore
attenzione alla pratica della valutazione come ad un momento strategico del lavoro di
programmazione 5 .
Da questo punto di vista si nota, tra i Piani della provincia, una maggiore presenza di forme
sostanziali di valutazione negli ambiti con comuni di grandi dimensioni e un alto investimento nelle
politiche sociali. Questa capacità appare associata quindi al grado di risorse spese nella programmazione
sociale.
Possiamo quindi vedere, in questa dimensione di analisi,una suddivisione tra tre tipi di stile:
a) uno stile improntato al minore lavoro di analisi e riflessione critica sull'esperienza del primo piano,
quindi definibile né riflessivo, né valutativo;
b) uno stile che vede accanto ad una capacità di analisi critica, una buona attitudine alla valutazione,
ma una scarsa pratica di riflessione sulle cause delle criticità individuate, chiamato qui stile valutativo;
c) uno stile con buoni livelli di valutazione e insieme di analisi e riflessione, designato qui come stile
valutativo e riflessivo.

5Anche se non sempre la valutazione compiuta da un soggetto esterno garantisce un'effettiva messa in luce degli aspetti critici degli
apparati valutati, soprattutto nei casi in cui sia poco chiara l'indipendenza del lavoro del valutatore dalle attese del soggetto che
commissiona la valutazione, cioè gli stessi comuni valutati.

9
Organizzazione della partecipazione
La quarta area di analisi dei documenti di Piano riguarda il tipo di organizzazione della
partecipazione della società civile organizzata nella costruzione del Piano stesso. Si vanno a vedere,
nello studio di quest'area, le modalità con le quali vengono prese le decisioni sulle titolarità a
partecipare, sulla suddivisione del lavoro dei tavoli, sui tempi di convocazione e di svolgimento delle
sessioni di questi tavoli, sulla loro produzione. Attraverso questi elementi è possibile avere indicazioni
sulle forme di maggiore o minore investimento delle amministrazioni sulla partecipazione, sulla
maggiore o minore apertura, sulla loro regolazione, sulla gestione delle differenze di status e di capacità
deliberative al loro interno. La partecipazione è qui studiata quindi nella sua dimensione organizzativa e
a partire dalle forme di azione che ad essa vengono dedicate. Non potendo ancora entrare nel vivo dei
processi partecipativi stessi, cosa che avverrà nella parte successiva di studi di casi, ci si limita qui
all'analisi di ciò che della partecipazione emerge dalla documentazione del Piano di Zona, nella quale si
attestano tuttavia sia le forme pensate per l'assetto organizzativo del nuovo Piano, sia le forme utilizzate
per la sua programmazione. Si tratta quindi di elementi che, pur nella limitatezza della loro forma
esclusivamente scritta, rendono possibile delineare degli stili di programmazione della partecipazione
attuata dagli ambiti comunali.
Gli indicatori utilizzati per l'analisi di quest'area sono:
- il tipo di coinvolgimento che le amministrazioni hanno richiesto alle organizzazioni del terzo
settore (più sul livello tematico dei singoli tavoli o anche su quello strategico di sistema),
- il grado di investimento di risorse economiche ed umane che le amministrazioni hanno dedicato
all'organizzazione della partecipazione,
- le forme di regolazione della partecipazione (cioè mettere vincoli alla titolarità per partecipare) e
alla rappresentanza (cioè lo stabilire come le organizzazioni del terzo settore devono scegliere i loro
rappresentanti nei tavoli).
Il primo indicatore rivela come vi sia una presenza maggioritaria di forme partecipative relative alle
sole aree di intervento nelle quali si suddividono normalmente i Piani di Zona. In tutti i Piani di Zona
della provincia esistono infatti delle forme di partecipazione aperte alle diverse componenti del terzo
settore, come prescritto dalla legge 328 e ribadito nelle linee di indirizzo regionali. In 13 casi su 21
tuttavia, (cioè tutti i Piani di Zona provinciali escluso quello di Milano, qui non analizzato per
incomparabilità con gli altri piani), esse sono presenti nella sola parte riguardante i tavoli relativi alle
singole tematiche di programmazione, cioè quelle parti della programmazione nelle quali si raccolgono
esigenze, conoscenze e idee progettuali, sul come intervenire su una singola area tematica. Questo
significa che invece la parte di programmazione che prevede discussioni sul sistema complessivo dei
servizi, sulle scelte di fondo della pianificazione e sulle modalità di ripartizione delle risorse, viene in
molti casi svolta senza l'apporto del terzo settore, ma in maniera autonoma dalle amministrazioni.
Questa limitazione della partecipazione ai soli tavoli tematici ha una conseguenza sugli stessi tavoli. Il
lavoro dei tavoli è infatti spesso definito da agende di tempi e di contenuti definite preventivamente
della amministrazioni e ciò può limitare molto l'efficacia dell'apporto che gli attori del mondo del terzo
settore, ed in particolare i meno organizzati (come quelli dell'associazionismo volontario), possono dare
a questi tavoli.
Questo tipo di coinvolgimento a livello esclusivamente tematico, pur rappresentando un
cambiamento rispetto all'esperienza di programmazione passata, appare maggiormente in continuità
con il modello di welfare locale precedentemente praticato in molti territori, nel quale la parte di
progettazione dei servizi e degli interventi vedeva già la partecipazione di molte organizzazioni del terzo
settore, seppure in forma non sistematica. Inoltre, anche quando il coinvolgimento del terzo settore è
di tipo sistemico, non sempre esso coincide con una maggiore attività del terzo settore nella costruzione
del Piano. Dove anche la rappresentanza del terzo settore appare formalmente più coinvolta nel
dibattito sulle politiche, essa può essere nei fatti molto ridotta sul piano sostanziale, per esempio
attraverso una scarsa rilevanza e pubblicità data alla riunioni di programmazione o anche
semplicemente convocandone un numero minimo.
Anche per capire dunque quanto sia sostanziale il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo
settore nella programmazione partecipata, è utile guardare all'indicatore dell'investimento che viene

10
dedicato alla costruzione degli strumenti di partecipazione. Per investimento, qui intendiamo non
solamente le risorse economiche che vengono destinate al funzionamento degli uffici di Piano, in
particolare per la parte relativa all'organizzazione della partecipazione. Più in generale, con questo
termine intendiamo le risorse umane, materiali e simboliche che l'organizzazione della partecipazione
assume. Da questo punto di vista, il dato che sembra emergere maggiormente dai documenti di Piano è
proprio la scarsità di spazio dedicato alle forme di partecipazione del terzo settore in alcuni ambiti.
Un terzo importante elemento che abbiamo rilevato è relativo alla forma di regolazione che viene
costruita sulla dimensione partecipativa. Dal quadro di insieme dei Piani analizzati, le forme di
regolazione delle arene partecipative appaiono generalmente ridotte. Molto spesso non viene definito
un criterio di titolarità alla partecipazione del terzo settore, se non quello del considerarsi associazioni
che vogliono concorrere alla costruzione del welfare sul territorio o cooperative che operano nel
distretto interessato. Definizioni più dettagliate dei criteri di partecipazione sono presenti solo in 2 casi,
che potremmo definire come dotati di uno “stile partecipativo regolato”. In questi casi i criteri
menzionati tendono a selezionare le organizzazioni che diano garanzia di operare già da un certo
numero di anni nel distretto. Altre volte, si cerca di differenziare maggiormente la titolarità della
partecipazione alla programmazione del piano da quella della partecipazione alle progettazioni più
specifiche e soprattutto dalla partecipazione alle gare di appalto, nelle quali non sono possibili forme di
discriminazione.
Sempre nella dimensione regolativa rientra la questione di come viene definita la rappresentanza del
terzo settore. Nella grande maggioranza dei casi le forme di rappresentanza sono delegate allo stesso
terzo settore tramite delle assemblee autoconvocate e autoregolate dalle organizzazioni del terzo settore
locali (o che si ritengono tali). Negli altri casi la rappresentanza viene votata sempre dalle organizzazioni
del terzo settore locali, ma secondo criteri stabiliti dall'amministrazione, o di concerto con essa.
Un'ultima distinzione che emerge dall'analisi dei Piani è quella tra i casi nei quali da parte del terzo
settore vi sono forme di partecipazione alle scelte delle amministrazioni di tipo solo consultivo e casi in
cui al terzo settore viene attribuito anche un potere deliberativo, nella forma del voto in sede
decisionale. In quest'ultimo caso, la potestà deliberativa è assegnata ad un organo di rappresentanza del
terzo settore (delegato o regolato nei suoi criteri di composizione). Questa distinzione non sembra dare
luogo però a modelli differenti di organizzazione della partecipazione. I casi in cui è presente un potere
deliberativo del terzo settore sono infatti da una parte ancora troppo pochi per configurare un modello
partecipativo specifico, dall'altra sono difficilmente interpretabili come casi di maggiore coinvolgimento
deliberativo, dal momento che, anche dove ai soggetti del terzo settore è data una facoltà di voto, si
tratta di un voto comunque poco influente nelle decisioni rispetto a quello delle amministrazioni
comunali, solitamente più numerose nei tavoli decisionali. Il potere deliberativo potrebbe quindi avere
in questi casi un valore più simbolico che decisionale.
Come si vede dunque, il quadro complessivo rivelato dalla ricognizione delle forme di
partecipazione del terzo settore della zona appare complesso. I diversi stili che vengono individuati
designano una tendenza di maggiore o minore regolazione o di maggiore o minore investimento in
queste forme partecipative, ma spesso vi sono contraddizioni all'interno dello stesso caso tra indicatori
che denotano uno stile maggiormente incline all'investimento e alla regolazione e altri che invece vanno
nella direzione opposta. Possiamo tuttavia tentare di comporre una sintesi delle distinzioni che
appaiono più significative e che delineano i caratteri di uno stile di programmazione specifico.
La distinzione maggiore appare quella tra ambiti che hanno investito nell'organizzazione della
partecipazione e ambiti che vi hanno investito in maniera scarsa. Come abbiamo visto, questo
indicatore si compone di diverse variabili, e il peso che queste variabili mostrano di avere induce a
vedere l'insieme dei nostri casi in maniera polarizzata. Si tratta cioè della distinzione polare tra coloro
che hanno colto l'occasione dei Piani di Zona per creare un effettivo terreno comune di
programmazione tra i diversi soggetti del territorio e coloro che a questo obiettivo hanno assegnato
risorse residue e quindi l'anno reso poco effettivo. I due stili associati a queste modalità sono identificati
qui come stile promozionale e stile inerziale/limitato. All'interno di questa ampia polarità, individuiamo poi
una distinzione tra casi in cui la rappresentanza è stata delegata alle forme auto-organizzate del terzo
settore e casi in cui essa è stata sottoposta a delle forme di regolazione sia della titolarità alla presenza

11
nei tavoli, sia delle modalità di elezione e di composizione degli organismi di rappresentanza del terzo
settore stesso.

La relazione tra le dimensioni


Questa analisi dei documenti di Piano di Zona evidenzia alcune caratteristiche di fondo sulle
possibili diversità negli stili di programmazione. Pur avendo analizzato una zona relativamente
omogenea come quella della provincia di Milano, si sono osservati infatti stili talvolta molto differenti di
costruzione del Piano, in tutte le aree prese qui in considerazione. Ciò suggerisce che le amministrazioni
locali siano una fonte di specificità nella costruzione delle politiche, come rilevato già da altre ricerche
svolte su Piani di Zona della Lombardia (Montanelli e Turrini 2007).
Guardando alla panoramica degli ambiti analizzati, possiamo notare una maggioranza di casi nei
quali si evidenziano elementi di scarso investimento in molte dimensioni: in arricchimento della
conoscenza, in processi di riflessività e valutazione e in organizzazione efficace della partecipazione.
Tali casi rivelano una continuità ancora diffusa con il passato anche recente delle pratiche
programmatorie. Sono tuttavia presenti, in maniera non marginale, dei casi che vanno nella direzione di
una maggiore discontinuità rispetto alle pratiche utilizzate in passato.
Proviamo ora ad analizzare, nello specifico, il rapporto tra le dimensioni, partendo da quello tra le
dimensioni organizzativo-processuali e la dimensione degli esiti di innovazione programmatoria.
Utilizziamo qui una tabella (Tabella n.1) nella quale tutti i casi trovano una collocazione in una griglia
che incrocia proprio le tre dimensioni del processo di conoscenza, della riflessività/valutazione e
dell'organizzazione della partecipazione con le tre modalità dell'innovazione programmatoria.
Una prima relazione che si può ipotizzare è la tendenziale corrispondenza tra bassi gradi di
investimento nei tre processi che abbiamo individuato (conoscenza, riflessività e partecipazione) e i
bassi gradi di innovazione delle politiche. Le caselle con il maggior numero di casi sono infatti quelle in
alto a sinistra di ogni schema, cioè quelle dove si assomma un basso grado di investimento nel processo
con un basso grado di innovazione.
Una seconda considerazione, di segno parzialmente differente, riguarda il fatto che in molti casi,
anche laddove vi sia un livello medio di investimento nei processi di programmazione, ed in particolare
nella riflessività/valutazione e nell'organizzazione della partecipazione, troviamo livelli residuali di
innovazione programmatoria. Da questo punto di vista, si può affermare che l'innovazione in alcuni
processi non porti sempre ad un'innovazione delle politiche.
Una terza considerazione che si può fare riguarda le modalità che non presentano nessun caso. Sia
rispetto al processo di conoscenza che alla riflessività/valutazione, le caselle in alto a destra e in basso a
sinistra sono vuote. Queste caselle misurano una corrispondenza tra un alto grado di un indicatore di
una dimensione e un basso indicatore di un'altra dimensione. Il fatto che questa corrispondenza manchi
avvalora l'ipotesi che vi sia un rapporto tra la mancanza di investimenti nei processi di programmazione
e gli ouptut di politiche.
Non tutte le dimensioni hanno la medesima influenza sugli output. Mentre le dimensioni relative al
processo di conoscenza appaiono molto correlate con l’esito delle politiche, nel caso della
riflessività/valutazione la relazione appare debole.

Un ulteriore ordine di connessioni può essere ipotizzato isolando il rapporto tra organizzazione della
partecipazione e le altre dimensioni (Tabella n.2).
Un primo elemento che può essere rilevato su questa dimensione riguarda il rapporto tra
partecipazione e processo di conoscenza. Guardando infatti alle caselle nel riquadro più alto della
tabella, si nota una netta maggioranza di casi nella casella di corrispondenza tra conoscenza limitata e
partecipazione inerziale. Ciò significa che probabilmente dove vi è uno scarso investimento nel
processo di conoscenza applicato per la costruzione del Piano di Zona, vi è anche uno scarso
investimento nelle forme di partecipazione del terzo settore. E’ però più difficile affermare che valga
anche l’inverso, cioè che dove vi sia maggiore investimento in conoscenza ve ne sia uno elevato anche
in partecipazione. La tabella infatti mostra come possa esservi un basso livello di investimento nella
partecipazione anche laddove vi sia un processo di conoscenza dettagliato. Il rapporto tra basso
investimento in partecipazione e processo limitato di conoscenza potrebbe quindi dipendere non da

12
una relazione di causa effetto tra le due dimensioni, ma da una più generale scarsità di risorse che il
basso investimento negli strumenti del Piano genera in tutte le dimensioni del suo processo. Allo stesso
modo, si nota come anche dove vi sia uno stile promozionale alla partecipazione, il processo di
conoscenza, nella maggioranza dei casi, non sia aperto. In generale quindi si può affermare che il
rapporto tra partecipazione e conoscenza non sia diretto né direttamente proporzionale. Un secondo
elemento rilevabile riguarda la riflessività e valutazione. Dalla tabella emerge come questa dimensione
sia poco connessa con il livello di investimento nella partecipazione. Infatti, anche dove vi sono livelli
medi o bassi di riflessività e/o di valutazione, si riscontrano livelli alti di partecipazione. Ciò conferma
l’immagine, già individuata nelle analisi precedenti, di una scarsa relazione tra la riflessività e le altre
dimensioni dell’amministrazione dei Piani di Zona.
Un altro elemento che possiamo notare da questa tabella è relativo al rapporto tra partecipazione e
innovazione. Anche in questa caso, salta all’occhio una scarsa connessione tra le due dimensioni. Vi
sono molti casi di ambiti con innovazione residuale e partecipazione promozionale, così come vi sono
molti casi di innovazione incrementale e partecipazione minimale.

13
Tabella n.1 Stili di programmazione e innovazione delle politiche
Innovazione delle politiche
Stile programmazione Residuale Incrementale Sistemico
Limitato Abbiategrasso, Melzo,Corsico,
Magenta, Castano, Gorgonzola,
Vimodrone
Processo di conoscenza
Dettagliato Carate,Desio,Legnano Cinisello,Monza, Pieve E., Paullo,Vimercate
Rozzano, Seregno, Sesto S.G.
Aperto Garbagnate San Donato, Rho

Non riflessivo Carate, Castano, Corsico, Cinisello, Sesto S.G. Vimercate


né valutativo Gorgonzola, Melzo
Riflessività e valutazione

Valutativo Abbiategrasso, Desio, Legano, Garbagnate, Monza Pieve E., Paullo


Magenta, Vimodrone Rozzano, Seregno

Riflessivo e valutativo Rho, San Donato

Inerziale/minimale Castano, Corsico, Gorgonzola, Cinisello,Garbagnate,Monza,


Organizzazione della Desio, Magenta, Melzo Rozzano, Sesto S.G., Seregno
partecipazione

Promozionale Abbiategrasso, Carate B., Pieve E. Paullo, Rho, San Donato,


Legnano, Vimodrone Vimercate

14
Tabella n.2 Stili di programmazione e organizzazione della partecipazione
Organizzazione della partecipazione
Stile programmazione Inerziale/minimale Promozionale
Limitato Castano, Corsico, Gorgonzola, Abbiategrasso, Vimodrone
Processo di conoscenza Magenta, Melzo,

Dettagliato Cinisello, Desio, Monza, Rozzano, Carate B., Legnano, Paullo, Pieve
Seregno, Sesto S.G. E.,Vimercate

Aperto Garbagnate Rho, S.Donato

Non riflessivo Castano, Cinisello, Corsico, Carate B., Vimercate


né valutativo Gorgonzola, Melzo, Sesto S.G.,
Riflessività e valutazione
Valutativo non Desio, Magenta, Monza Abbiategrasso, Legnano, Paullo,
Riflessivo Rozzano, Seregno Pieve E. , Vimodrone

Riflessivo e valutativo Garbagnate Rho, S.Donato

Residuale Castano, Corsico, Desio, Abbiategrasso, Carate B., Legnano,


Gorgonzola, Magenta, Melzo Vimodrone
Innovazione delle politiche
Incrementale Cinisello,Garbagnate,Monza, Pieve E.
Rozzano,Sesto S.G., Seregno
Sistemico Paullo, Rho, S.Donato, Vimercate

15
In generale possiamo affermare che il panorama delle connessioni tra gli ambiti appaia piuttosto
eterogeneo. Sovrapponendo alcune dimensioni, come quella tra conoscenza e innovazione, vediamo
polarizzarsi la distribuzione dei valori in maniera chiara, tra casi con valori elevati o bassi sull’una come
sull’altra dimensione. Vi sono invece altre dimensioni che sovrapponendosi vedono i casi distribuirsi in
maniera più diffusa, in punti molto diversi di un continuum.
Questi elementi fanno emergere un quadro in evoluzione. Da una parte le correlazioni che si notano
tra le dimensioni fanno pensare che gli stili di programmazione si coniughino l’uno con l’altro, dando
luogo perciò a della sorte di modelli di amministrazione dei Piani di Zona. D’altra parte, il fatto che
alcune dimensioni non siano molto correlate l’una con l’altra fa invece pensare che forse lo strumento
Piano di Zona sia così giovane che ancora non si siano affermate delle forme sistematiche e coerenti
per la loro costruzione e amministrazione.

Colore politico e leadership d’ambito


Per individuare i fattori esterni che possono aver influito sull’adozione degli stili di programmazione
da parte delle amministrazioni, siamo andati a isolare i diversi ambiti analizzati, a seconda del colore
politico prevalente nell’ambito e della condizione di leadership dimensionale esistenti tra i comuni di
uno stesso ambito.
Per quanto riguarda il colore politico prevalente nell’ambito di applicazione del Piano di Zona, è
stato rilevato il colore politico del sindaco che governava ognuno dei 188 singoli comuni, appartenenti
all’ambito alla data del 31 dicembre 2005, cioè durante il periodo di stesura del secondo triennio di
Piani di Zona in Lombardia. Successivamente sono stati raggruppati i colori politici dei comuni
componenti ciascun ambito e si è così individuato un colore politico sintetico o dominante, tenendo
conto della numerosità di comuni con lo stesso colore politico e del peso di ciascun comune in termini
di abitanti.
Dalla sintesi composta emerge come tra gli ambiti di centro sinistra vi sia un numero maggiore di
casi che presentano stili di programmazione con maggiori profili di innovazione, di dettaglio e apertura
del processo di conoscenza. Meno frequentemente tali ambiti sono associati a livelli alti di riflessività e
valutazione e di partecipazione promozionale. Sugli 11 ambiti di centro-sinistra ne troviamo 4 nei quali
prevalgono i livelli medi e alti di investimento nelle diverse dimensioni della programmazione e nella
complessiva innovazione programmatoria, altri 5 ambiti che presentano una situazione dove vi sono
almeno 2 dimensioni su 4 con valori medi di investimento e 2 ambiti con prevalenza di valori bassi di
investimento. Una particolarità che si può riscontrare nella gran parte degli ambiti di centro-sinistra (8
su 11) è il più frequente livello medio o alto di valori nell’innovazione programmatoria, mentre
appaiono molto eterogenee le prestazioni di tali ambiti nelle altre dimensioni. Per quanto riguarda
invece gli ambiti di centro-destra, non troviamo nessun caso con valori alti di investimento, 3 casi con
valori medi e 2 casi con valori bassi. La particolarità degli ambiti di centro-destra è il livello medio di
investimento nel processo di conoscenza in 4 ambiti su 5 e la frequente carenza di innovazione
programmatoria in 4 ambiti su 5. Gli ambiti con amministrazioni miste (ossia con liste civiche
prevalenti) presentano 2 casi con prevalenza di livelli alti di investimento, 2 casi con livelli medi e 1
caso con livelli bassi. La specificità che caratterizza questi ambiti è quella di non presentare mai valori
bassi nella dimensione della riflessività e valutazione.
Questo quadro dei rapporti tra colori politici degli ambiti e stili della programmazione delle politiche
porta a ipotizzare una prevalente attitudine delle amministrazioni di centro-sinistra a cogliere i Piani di
Zona come occasioni per arricchire il processo programmatorio di nuovi attori, di maggiore dettaglio e
apertura del processo di conoscenza e di maggior innovazione nelle politiche programmate. Le
amministrazioni miste mostrerebbero invece una maggior attitudine all’adozione di forme di riflessività
e di valutazione, mentre le amministrazioni di centro-destra presenterebbero generalmente una buona
capacità di costruire il processo di conoscenza ma una scarsa capacità di innovazione nella
programmazione.
Questi dati fanno pensare che la variabile politica, pur avendo probabilmente un’influenza sulla
programmazione, non sia sufficiente per spiegarne le performance.

16
L’altro possibile fattore significativo che abbiamo preso in considerazione per capire i differenti
modelli ed esiti dei Piani di Zona riguarda il grado di leadership che i singoli comuni possono esercitare
sugli altri comuni dell’ambito distrettuale, in funzione della quantità di popolazione dell’ambito di cui
sono rappresentanti. Anche in questo caso, siamo andati a misurare la popolazione di ogni singolo
comune di ogni ambito e abbiamo individuato alcune categorie nelle quali suddividere il nostra
campione di 21 ambiti. La prima categoria individuata è quella della leadership dominante, ossia la
situazione nella quale vi è un comune che da solo assomma più della metà della popolazione
dell’ambito, in assenza di altri centri di paragonabile grandezza o nella quale un comune è di medie
dimensioni ma tutti gli altri sono talmente ridotti come dimensioni e popolazioni da rendere quel
comune dominante. La seconda categoria è quella della leadership centrata, ossia la situazione nella
quale un comune è chiaramente più grande degli altri, senza tuttavia essere in una posizione dominante.
La terza categoria è quella dove vi sono più comuni principali con dimensioni simili e nei quali la
leadership è quindi concorrente tra due o più amministrazioni, nel doppio senso che il termine
concorrente possiede: concorrere insieme ed essere in concorrenza, cioè esattamente la ambigua
situazione nella quale si trovano spesso gli ambiti con queste caratteristiche.
L’esito dell’analisi empirica sui 21 ambiti distrettuali fa ritenere che vi siano più frequentemente
livelli alti di investimento sulle dimensioni della programmazione, e in generale che vi siano più spesso
esiti innovativi, laddove vi sia una leadership dominante e, in misura inferiore, dove tale leadership sia
concorrente, cioè dove essa sia vi sia una situazione di parità di leadership tra due o più comuni. Dove
invece la leadership sia centrata, cioè dove sia chiara ma non dominante, allora si verifica il maggior
numero di casi caratterizzati da basso investimento. Ciò farebbe pensare che a dare risultati di maggiore
innovazione siano quegli ambiti nei quali la leadership non costituisca un motivo di tensione, sia perché
vi è troppa asimmetria tra un comune e gli altri, sia perché la parità di risorse impone una forma
effettivamente concertata delle decisioni sulla programmazione.
Anche il fattore legato alla presenza di una leadership forte nell’ambito non sembra dar luogo a esiti
univoci ma eterogenei. Tale fattore non sembra perciò rendere conto, da solo, della differenza di
performance di programmazione delle politiche sociali negli ambiti locali.
Per studiare dunque la performance dei Piani di Zona, ed in particolare le forme di coinvolgimento e
di funzionamento della partecipazione della società civile organizzata in queste politiche, appare
necessario guardare a variabili più attinenti alle specifiche dinamiche politiche, organizzative che si sono
sviluppate nei singoli ambiti. E’ quanto cercheremo di fare nel prossimo paragrafo.

La necessità di un’indagine interna ai processi partecipativi: gli studi di caso


Il lavoro di ricognizione descrittiva sui Piani di Zona della provincia di Milano ha messo in luce un
panorama di stili di programmazione composito ed eterogeneo. Le modalità di costruzione dei Piani
appaiono complesse e differenti tra loro. Esse tuttavia presentano anche importanti aspetti comuni. Tra
questi, ve ne sono alcuni che riguardano in generale la configurazione che hanno assunto le politiche
sociali italiane nel corso degli anni. Molto importanti, a questo proposito, sono i livelli di risorse a
disposizione dei comuni, spesso troppo bassi per consentire ai comuni di attivare sperimentazioni e
forme di investimento capaci di generare innovazioni effettive di sistema. La storica tendenza delle
politiche sociali italiane a privilegiare le varie forme di trasferimento economico rispetto alla
costruzione di un sistema solido e capillare di servizi (Paci 1989, Ranci 2004) pesa ancora sulle forme di
programmazione locale delle politiche sociali, come forti vincoli al possibile innescarsi di forme di
innovazione. Ancora, possiamo menzionare il fatto che nella gran parte dei casi vi sia un basso livello di
integrazione con politiche diverse da quelle del settore strettamente assistenziale, come quelle sanitarie,
della casa, del lavoro o della formazione. Vi sono poi elementi di natura più culturale, riguardanti per
esempio la carenza di competenze programmatorie nella classe dirigente, tecnica e politica, di molte
amministrazioni locali, cioè la competenza spesso limitata di molti loro dirigenti.
Una parte molto rilevante delle debolezze riscontrate nei territori che abbiamo studiato può essere
fatte risalire a questi vincoli storici che pesano su tutti gli ambiti e in modo peculiare su quelli lombardi
(Gori 2005, Bifulco 2005). Tali vincoli sono essenziali per comprendere l’andamento delle politiche

17
sociali a livello locale e per indagare il funzionamento delle leggi e degli strumenti che pure negli ultimi
10 anni hanno tentato di contrastare quegli stessi vincoli e quelle tendenze storiche. Ogni analisi dei
contesti micro nei quali si sviluppano tali leggi e strumenti non può non tenere conto del peso decisivo
di questi elementi esterni al processo che avviene a livello locale.
Se nonostante questi aspetti essenziali nella comprensione dell’andamento delle politiche sociali
partecipative, scegliamo ora di indagare ulteriormente i contesti locali e lo facciamo con una attenzione
ancora più specifica alle dinamiche che si svolgono nella dimensione micro di alcuni ambiti, è perché la
ricerca ha fatto emergere anche alcune differenze tra i casi. L’esistenza stessa di queste differenze
richiede un supplemento di analisi. Dalla ricognizione compiuta sui Piani di Zona della provincia di
Milano possiamo notare come, anche prendendo in considerazione ambiti territoriali molto vicini e
simili sotto molti aspetti socio-demografici, di storia locale e di colore politico, si siano sviluppati
modelli di programmazione sociale molti diversi tra i differenti casi. Questa differenza tra modelli è
riscontrabile, come vedremo, sia in termini di politiche programmate e di innovazioni presenti nei
documenti di Piano, sia in termini di configurazioni del sistema di rapporti tra gli attori. Si può quindi
parlare di una specificità di ogni ambito locale, i cui spazi di autonomia aperti dalla legge 328
conferiscono ai territori la possibilità di costruire delle modalità peculiari di programmazione delle
politiche, pur all’interno di una comune cornice nazionale e regionale di norme e di risorse.
La seconda parte della ricerca si è quindi concentrata su due casi che corrispondono a due modelli
diversi di applicazione della legge 328, per quanto riguarda la partecipazione degli attori del terzo
settore. Si è deciso di focalizzare l’attenzione sui soli casi di San Donato e di Corsico, sia per i limiti di
risorse che aveva la presente indagine, sia perché tali casi presentavano alcuni caratteristiche di
somiglianza e allo stesso tempo di profonda differenza tali da renderli particolarmente interessanti da
comparare. Da un punto di vista territoriale infatti, i casi di San Donato e Corsico appartengono ad un
area contigua e per molti versi simile: la prima cintura a sud-est e quella a sud-ovest di Milano. Da un
punto di vista della composizione e dimensione dei comuni, tali ambiti hanno entrambi alcuni comuni
di dimensioni medie e simili, e qualche comune di dimensioni ridotte. Da un punto di vista politico,
questi comuni sono stati in gran parte governati da amministrazioni a chiara dominanza di centro
sinistra, sia storicamente sia nel periodo di analisi. Non sono poche dunque le somiglianze tra i due
contesti in esame. Dal punto di vista però dei modelli di partecipazione costruiti, questi due ambiti
costituiscano dei casi quasi puri, collocati rispettivamente ai poli estremi del continuum nel quale sono
poste tutte le modalità emerse nella ricerca. E’ questo contrasto tra elementi comuni dei contesti di
appartenenza ed elementi molto diversi di processo e di esito che rende interessante la comparazione
tra questi due casi. La domanda che ha guidato l’analisi è stata dunque: come si producono le differenze
che sono emerse tra questi due ambiti? E in particolare: quanto ha influito su queste differenze la
diversa organizzazione della programmazione e della partecipazione?
Per studiare i casi in profondità abbiamo messo sotto esame gli effettivi comportamenti degli attori e
le forme dell’interazione tra di loro (Cefai 2006). Tra gli elementi su cui ci siamo soffermati, particolare
attenzione è stata data al modo con cui gli attori trattano i nodi problematici della partecipazione e di
come giungano eventualmente a soluzioni di compromesso. Il trattamento di un problema infatti,
prima che una soluzione, determina delle modalità di relazione e di apprendimento tra gli attori. Esso
configura dei possibili approcci cognitivi al problema, prima che delle risposte, e predispone gli attori
ad una chiusura o ad un rilancio rispetto alla risoluzione del problema (Weick 1997). Questi approcci
cognitivi al problema, delle vere e proprie forme cognitive su cui l’amministrazione ha investito, sono
necessari anche per rendere visibili le relazioni rilevanti ai fini del coordinamento, trascurando tutto ciò
che non è dotato della “giusta forma”. Al tempo stesso, il coordinamento non è legato unicamente
all’esistenza di strumenti per rappresentare la realtà (conoscenza, calcolo, informazione): a contare è
anche lo "sfondo" normativo che orienta la selezione di ciò che fa problema in rapporto a una
questione di legittimità (Centemeri 2006, D’Albergo 2002).
Andiamo quindi a vedere i principali elementi emersi nel corso dell’analisi dei due casi studio 6 .

6 Il lavoro di studio dei casi si è svolto nel corso di 14 mesi, dal giugno 2005 all’agosto 2006, in un periodo nel quale si sono svolti i
processi di preparazione e costruzione dei Piani di Zona della seconda triennalità e l’inizio della loro implementazione. La presente ricerca
si riferisce perciò a quanto accaduto in questo periodo. I mutamenti avvenuti nei due contesti nei mesi successivi al periodo di ricerca non

18
L’ambito di Corsico
L'ambito di Corsico è composto da sei comuni: Assago, Buccinasco, Cesano Boscone, Corsico,
Cusago, Trezzano sul Naviglio. Si tratta di un territorio della prima cintura esterna al comune di Milano,
nello specifico della cintura sud-ovest. Gli abitanti del distretto sono 110.000, distribuiti in sei comuni
di dimensioni diverse: Corsico (33.000), Buccinasco (26.000), Cesano Boscone (23.000) e Trezzano
(18.000), Assago (7.000) e Cusago (3.000) 7 .
Questo ambito presentava, all’inizio del primo Piano di Zona, un radicamento storico di alcune
associazioni di piccole dimensioni, con scarsa comunicazione e cooperazione tra di loro, delle Caritas e
delle ACLI locali e di un grande istituto privato di riabilitazione e di cura di disabili e anziani. Si trattava
quindi di un panorama del terzo settore anch'esso poco aggregato e scarsamente abituato all'interazione
progettuale con la pubblica amministrazione.
Per capire come è stato costruita la partecipazione alla programmazione per questo Piano di Zona,
iniziamo da un aspetto relativo alla gestione del tempo. Un elemento essenziale che ha caratterizzato
infatti questo modello riguarda proprio l’organizzazione dei tempi per le sessioni di lavoro dei tavoli. Le
prime convocazioni degli incontri dei tavoli sono state fatte nella terza settimana di novembre del 2005,
quando l’intero Piano di Zona avrebbe dovuto essere definito dai Comuni entro il 31 dicembre 2005 8 .
In questo modo il lavoro dei tavoli è risultato da subito molto circoscritto nelle modalità di lavoro e nei
contenuti: la ristrettezza dei tempi non ha consentito ai tavoli di aprire una discussione su come
individuare i bisogni esistenti nel territorio dell’ambito e su quali strategie di intervento adottare.
L’agenda degli incontri è stata quindi in gran parte predefinita dalle amministrazioni e ai tavoli è stato
richiesto solo di dare alcuni pareri sul merito delle scelte operative e di proporre delle correzioni.
Questa ristrettezza del mandato dei tavoli è risultata da subito come un elemento problematico per
diversi attori del terzo settore che vi hanno partecipato. Il tempo trascorso tra la chiamata a partecipare
ai tavoli e l’effettiva chiusura dei tavoli non ha permesso che si creassero le condizioni perché le
questioni problematiche emerse venissero sviluppate e perché l’eventuale azione collettiva del terzo
settore venisse organizzata. Il modo di gestire i tempi della partecipazione ha quindi costituito un
importante elemento che ha caratterizzato il processo partecipativo e insieme il processo di conoscenza
e di riflessione/valutazione del lavoro precedente. Ciò sembra avere avuto un importante ruolo
nell’esito del lavoro dei tavoli, sia in termini di output prodotti dai tavoli stessi, sia in termini di relazioni
e di apprendimento reciproco tra attori che vi si riesca a generare. Nella ristrettezza dei tempi infatti, si
sono compromesse le possibilità di reperire dati e argomenti sui temi all’ordine del giorno, ma anche di
confrontare le posizioni dei diversi attori presenti ai tavoli, aumentare la conoscenza dei problemi
affrontati dalle diverse organizzazioni e di costruire coordinamenti e rapporti di fiducia tra essi.
Un altro elemento che ha caratterizzato questo modello di processo partecipativo riguarda
l’interazione e la comunicazione che vi è stata nei tavoli tra i rappresentanti delle amministrazioni e tutti
gli invitati, cioè il terzo settore, le associazioni e i sindacati. In molte occasioni, infatti, ai partecipanti
che chiedevano informazioni sugli indirizzi del tavolo politico in merito alle scelte strategiche
contemplate per quell’area, venivano date dai tecnici e dagli assessori poche notizie, ipotetiche e incerte,
spiegando che su quelle materie il tavolo politico stava ancora discutendo. In questo modo, molti dei
rappresentanti delle organizzazioni convenute ai tavoli segnalano che questa vaghezza rendeva

sono stati presi in considerazione. L’indagine si è basata su diversi strumenti di ricerca. Sono stati innanzitutto analizzati i Piani di Zona
della prima triennalità dei due ambiti ed è stato svolto un primo giro di interviste ai seguenti testimoni privilegiati dei due contesti. Questo
giro di interviste ha consentito di identificare alcuni degli attori più importanti che hanno giocato un ruolo nelle due aree in esame e alcune
prime questioni salienti rispetto alle dinamiche che caratterizzavano i rapporti tra amministrazioni e terzo settore locale. Sulla base di
questo primo stadio di conoscenza dei contesti si è iniziato il vero lavoro di immersione nei due contesti, consistito in interviste semi-
strutturate a personale dell’amministrazione e del terzo settore dei due ambiti. Parallelamente alle interviste, sono state svolte delle
osservazioni a momenti importanti del processo partecipativo, durante le quali si sono potute vedere in azione alcune delle dinamiche
relazionali tra gli attori in campo. Contestualmente a interviste e osservazioni, si è studiata la documentazione prodotta da tutti i tavoli,
dalle amministrazioni e dal terzo settore: sia quella ufficiale, sia quella informale e operativa.
7 A differenza di altri territori dell'hinterland milanese, questo ambito non vede la presenza di comuni capofila di grandi dimensioni, bensì

un insieme di comuni medio-piccoli senza chiare leadership tra di loro, con una maggioranza storica delle amministrazioni di sinistra,
anche se non sono mancate delle fasi di differenziazione anche del colore politico delle giunte.
8 Il termine è stato poi prorogato di tre mesi dalla Regione Lombardia, ma tale proroga non era ancora nota al momento della

convocazione dei tavoli.

19
impossibile per i partecipanti applicarsi sulle modalità di intervento specifiche, dato che queste non
poggiavano su disegni generali definiti. A questo elemento di comunicazione carente nei tavoli, va
aggiunto lo scarso uso che in questo ambito è stato fatto di verbalizzazioni e comunicazioni pubbliche
del lavoro dei tavoli. Non è stato infatti istituito un sito del Piano di Zona dove trovare comunicazione
degli incontri dei tavoli, mentre sono state usate di più le comunicazioni via mail da parte dell’ufficio di
Piano a coloro che già hanno partecipato al lavoro dei tavoli. In generale quindi l’accessibilità ai
contenuti della programmazione in corso è stata qui riservata a coloro che già partecipavano al lavoro
dei tavoli, mentre sono risultate meno visibili all’esterno o a chi non vi avesse presto ancora parte.
Nonostante queste difficoltà nel rapporto tra attori del terzo settore e amministrazioni, sembra
esservi stata, nel prosieguo del lavoro, una crescita della capacità di collaborazione tra gli attori
partecipanti alle attività del Piano di Zona. E’ soprattutto il lavoro nei tavoli tematici, quelli cioè della
progettazione operativa partecipata, ad avere costituito un’opportunità di conoscenza tra gli attori e di
innovazione delle pratiche passate. I vari soggetti del terzo settore e dell’associazionismo hanno
riconosciuto di aver avuto, attraverso il confronto e la conoscenza, l’opportunità di sviluppare alcuni
progetti comuni. Questa collaborazione ha permesso la nascita di diversi progetti operativi, costruiti e
gestiti congiuntamente dalle più importanti realtà del terzo settore operanti nella zona, con il mandato
del Piano di Zona.
Secondo gli attori della pubblica amministrazione del distretto e una parte degli attori del terzo
settore, la scelta delle amministrazioni di questo distretto di non dedicare molte risorse economiche e
di tempo nella programmazione partecipata sembra avere facilitato il lavoro di collaborazione sulla
parte più operativa dell’implementazione dei Piani di Zona, ossia sulla costruzione e gestione dei
progetti di intervento. L’assenza sostanziale di programmazione partecipata di sistema sembra cioè aver
liberato tempo e risorse per l’attività di progettazione partecipata.
D’altra parte, la mancanza di arene partecipative di sistema, ha reso difficile la risoluzione congiunta
di controversie sul sistema di lavoro di costruzione del Piano. Le numerose occasioni in cui si sono
verificate controversie tra i componenti dei tavoli e in generale tra i soggetti del terzo settore e
l’amministrazione, non hanno avuto dei luoghi istituzionali in cui potessero essere discusse. Questioni
problematiche e tensioni sembrano invece essersi risolte in modalità che potremmo definire elusive,
cioè chiudendo la discussione sul problema appena esso si presenta e lasciando che l’agenda delle arene
partecipative si occupi solo delle questioni non problematiche. Queste modalità elusive sembrano aver
contribuito a produrre un effetto importante sul clima della relazione con il terzo settore. Si è creato
cioè, tra molti attori del terzo settore, un clima di insoddisfazione nei confronti delle amministrazioni di
questo ambito.

Il profilo dell’ambito che emerge quindi dall’insieme di interessi e di condizioni e situazioni qui
analizzate è caratterizzato in sintesi dai seguenti elementi. A monte del processo, una carenza di
integrazione e di leadership forti nel terzo settore locale e uno scarso livello iniziale di collaborazione tra
le sue diverse espressioni. Durante il processo, una tendenza delle amministrazioni a gestire la
programmazione con il terzo settore con modalità informali e poco regolate, evitando la promozione di
forme di coordinamento del terzo settore stesso e preferendo modalità informali e selettive di accordo,
un alto livello di promozione delle amministrazioni nei confronti della partecipazione del terzo settore
alle progettazioni operative e una tendenza elusiva di fronte alle controversie.
Gli esiti di questo modello riconducibili alle modalità con cui è stato organizzato il processo
partecipativo possono essere sintetizzati in alcuni elementi principali:
- Un basso livello di partecipazione del terzo settore alla fase di acquisizione di conoscenze su bisogni
e risorse della zona e nell’interlocuzione sulle strategie generali sulle politiche sociali dell’ambito.
- Un basso livello di integrazione del terzo settore locale, rimasto senza alcun organismo di
coordinamento e rappresentanza, nonostante sia aumentata la conoscenza e la cooperazione operativa
sui servizi.
- Dal punto di vista delle percezioni degli attori, una buona opinione generalizzata delle progettazioni
partecipate, per chi vi ha partecipato, ma una dominante insoddisfazione per le forme di
partecipazione alla programmazione.

20
L’ambito di San Donato
L’ambito territoriale di San Donato Milanese, detto anche del Sud-est, è situato nella prima cintura
esterna alla città di Milano, e comprende 9 comuni di cui 2 medio grandi, San Donato (32.000) e San
Giuliano (33.000), un comune di livello medio, Melegnano (16.000), e tutti gli altri di piccole
dimensioni: Cerro al Lambro (4.500), Vizzolo Predabissi (4.000), San Zenone (3.800), Carpiano (2.500),
Dresano (2.500), Colturano (2.000). La sua popolazione è di poco più di 100.000 abitanti. 9 . Il terzo
settore presente in questa zona all’inizio del primo Piano di Zona era composto, anche in questo caso,
prevalentemente da cooperative sociali di dimensioni medie o medio-piccole e di alcune associazioni di
volontariato che operano con i disabili e con i minori, qualche associazione educativa e i gruppi legati al
mondo ecclesiale. Fino alla metà degli anni ’90, non esistevano infatti forme strutturate di relazione di
coprogettazione o coprogrammazione tra le organizzazioni del terzo settore del luogo. I sindacati, pur
avendo qui un forte radicamento tra i molti lavoratori della zona, non erano presenti tra i gruppi
operanti direttamente sul luogo, ma tramite un delegato SPI CGIL mandato dalle rappresentanze
provinciali.
Anche qui inoltre, come a Corsico, non vi erano leadership locali forti nel terzo settore e in generale
non vi erano forme di integrazione e coordinamento tra i suoi soggetti. Al momento dell’introduzione
del primo Piano di Zona quindi, le forme di cooperazione e coinvolgimento tra queste diverse realtà del
terzo settore non erano molto sviluppate e non vi erano neanche forti leadership che guidassero un
processo di aggregazione o di coordinamento.
Un dato che caratterizza in maniera peculiare questo ambito è da una parte il fatto che il processo di
partecipazione sia stato fortemente promosso e guidato dall’Ufficio di Piano, dall’altra parte il fatto che
esso sia stato regolato in modo formalizzato in ogni passaggio. Soffermiamoci dunque sulle modalità di
organizzazione della partecipazione che sono state qui attuate.
Sia in occasione del primo che del secondo Piano di Zona il sistema di governance con il terzo settore
è stato impostato su due livelli. Il primo è il livello tematico, nel quale vengono trattate le questioni di
merito sulle singole aree di bisogno e al quale partecipano tutte le realtà interessate dallo specifico tema,
i servizi sociali pubblici, le ASL, il terzo settore, le scuole. Il secondo è il livello di sistema, nel quale ci si
confronta sull’intera programmazione locale dei servizi. Questo confronto di sistema avviene in due
modi. Da una parte tramite riunioni di uno specifico tavolo del terzo settore, cioè il luogo di confronto
tra terzo settore e amministrazioni, al quale partecipano i rappresentanti del terzo settore eletti dalla
loro assemblea plenaria. Dall’altra, tramite una partecipazione degli stessi rappresentanti al tavolo
politico dell’ambito, cioè il tavolo politico titolare delle decisioni ultime riguardanti il Piano. A questa
presenza dei rappresentanti nel tavolo politico è stato assegnato non solo un ruolo consultivo, ma
anche un potere di esprimere un voto con un peso pari a quello degli altri componenti del tavolo 10 . Con
questo potere di voto, la rappresentanza del terzo settore, pur essendo numericamente ridotta dentro al
tavolo, può in alcuni casi giocare un ruolo di ago della bilancia nelle eventualità di divisioni tra i comuni
dell’ambito.
I tavoli d’area a cui partecipa il terzo settore sono stati consultati regolarmente quando viene fatta
una proposta su un argomento che attiene alle politiche sociali dell’ambito. La procedura che si è
instaurata prevede che si inizi a discutere la proposta, da qualsiasi fonte venga, nel tavolo d’area e lì si
sviluppa il tema. Poi si va al tavolo tecnico, cioè l’organismo composto dai tecnici dei servizi sociali dei

9 Si tratta di una zona eterogenea, in parte tipicamente suburbana e in parte ancora contadina, delimitata da confini costruiti ad hoc per
attuare il Piano di Zona e non corrispondenti ad un’unità geografica o politica precedente. Essa è infatti storicamente divisa da forti
confini spaziali, come il fiume Lambro, la Strada Statale Emilia e quella provinciale della Paullese e istituzionali, come quelli nei quali era
divisa fino alla recente riorganizzazione delle ASL regionali che hanno delimitato questo territorio come Distretto Sanitario n.2 della ASL
Milano 2. Il comune di San Donato, in particolare, è caratterizzato dalla presenza dell’insediamento degli uffici dell’ENI, per i cui
dipendenti è stato costruito negli anni ’50 un grande quartiere residenziale chiamato Metanopoli. Il veloce incremento demografico di
questo quartiere ha moltiplicato nel giro di pochi anni il numero degli abitanti della zona, creando qui un tessuto sociale relativamente
omogeneo, caratterizzato da livelli medio-alti di istruzione e dalla prevalenza culturale e politica di partiti di origine socialista o comunista.
Tranne brevi parentesi, le giunte che si sono succedute negli ultimi cinquanta anni sono state sempre di colore politico di sinistra e nella
tradizione politco-amministrativa della zona si è avuto storicamente un alto livello di investimenti nel comparto dei servizi sociali.
10 Di questa rappresentanza facevano parte, al momento dello svolgimento della ricerca: un dirigente di una cooperativa sociale di medie

dimensioni per disabili; un dirigente di una cooperativa sociali di piccoli dimensioni per minori; un sindacalista dello SPI CGIL.

21
vari comuni. Questo tavolo tecnico valuta la proposta ed eventualmente la rimanda al tavolo d’area con
l’apporto del tavolo tecnico. A questo punto il tavolo d’area rivede la proposta e alla fine viene tale
proposta presentata al tavolo politico, cioè il tavolo decisionale ufficiale. Si tratta quindi di un percorso
di coinvolgimento tortuoso e lungo ma che garantisce una partecipazione effettiva del terzo settore
nelle scelte sulla programmazione delle politiche.
Il tavolo del terzo settore è un organo di concertazione supportato organizzativamente dall’Ufficio
di Piano. E’ infatti l’Ufficio di Piano a fornire una sede e un facilitatore che convoca e organizza le
riunioni. Le varie organizzazioni che aderiscono al percorso di costruzione del Piano di Zona non
hanno costituito un organismo autonomo e indipendente del terzo settore, neanche in fase avanzata,
ma hanno preferito utilizzare direttamente come forma di rappresentanza del terzo settore, un tavolo
direttamente incardinato nel disegno istituzionale previsto nel Piano di Zona. Questo organo ha svolto
non solo una funzione di rappresentanza ma anche di coordinamento del terzo settore. Per partecipare
è necessario essere organizzazioni o associazioni operanti nella zona e sottoscrivere un formale atto di
adesione. Si è cioè voluta formalizzare la partecipazione al momento programmatorio, per dare un
maggiore riconoscimento a chi vi si impegnava e nello stesso tempo per distinguere questo momento
da quello della scelta degli affidamenti dei servizi, il quale si riteneva invece dovesse rimanere aperto a
chiunque, in ogni momento.
Da un punto di vista della comunicazione tra gli attori della partecipazione, il processo è stato
governato attraverso alcuni strumenti specifici. Da una parte, per le comunicazioni tecniche e
organizzative, è stato mobilitato direttamente l’Ufficio di Piano, tramite la figura dell’assistente sociale
specificamente preposto a curare i rapporti con il terzo settore. Dall’altro, per le comunicazione sociali
a tutta la cittadinanza, è stato istituito un sito internet nel quale sono stati inseriti materiali riguardanti
tutte le fasi del processo, con gli ordini del giorno e i verbali di tutte le riunioni.
La programmazione del nuovo Piano ha visto un lungo cammino di preparazione, nella quale sono
state coinvolte sia delle organizzazioni dei servizi pubblici dei territori, che di quelle del terzo settore.
Per quanto riguarda ad esempio la raccolta delle informazioni sulla situazione dei servizi e dei bisogni
sociali e sanitari della cittadinanza, vi è stato un continuo coinvolgimento delle ASL, i cui responsabili
dell’area sociale hanno partecipato ad ogni tavolo dell’ambito, fornendo un quadro dettagliato della
situazione socio-sanitaria in ogni area.
Per quanto riguarda la formulazione di nuove proposte sui servizi, il coinvolgimento delle realtà del
terzo settore è stata difficoltosa in alcuni casi e più riuscita in altri. Da una parte infatti, in quei tavoli nei
quali gli operatori pubblici avevano una presenza forte e molto legata a pratiche d’azione sviluppate nei
lunghi anni di gestione autonoma del servizio, si è rilevata una difficoltà nel far emergere elementi
originali e innovativi. D’altra parte, in altre aree di analisi del bisogno sul territorio, pare esservi stato un
effettivo salto di qualità della conoscenza dei bisogni del territorio, anche grazie alla partecipazione
attiva di nuovi soggetti dell’advocacy, come nell’esempio del tavolo sull’inclusione sociale. Ciò sembra
essere dovuto in gran parte alla forma di gestione organizzativa dei tavoli tematici. Ogni tavolo è infatti
stato organizzato in maniera da consentire l’espressione di ogni organizzazione presente, tramite
riunioni divise in sottogruppi di lavoro, nelle quelli non vi era un’agenda prefissata di temi, ma veniva
lasciato ad ogni partecipante uno spazio di proposta sui temi su cui lavorare.
Un altro elemento che ha caratterizzato l’organizzazione della partecipazione su questo ambito è
stata la scelta di adottare un approccio molto regolamentato alla partecipazione, nel quale i rapporti tra
amministrazione e soggetti della società civile organizzata siano sottoposte ad una forma di
ufficializzazione della titolarità a partecipare.
In questo ambito il processo partecipativo è stato quindi costruito con un livello di formalizzazione
maggiore rispetto ad altri ambiti e che questo processo sia avvenuto in maniera concertata con gli attori
stessi del terzo settore locale. Si è cioè prodotto un notevole sforzo organizzativo, consistente in una
moltiplicazioni di riunioni di consultazione, di un lungo lavoro istruttorio delle riunioni stesse, del
passaggio di ogni delibera al vaglio preventivo dei tavoli, incaricati di dare pareri e di fare proposte di
modifiche. Ciò ha implicato indubbiamente un appesantimento del lavoro partecipativo, facendo
spendere molte energie per il funzionamento stesso dell’attività programmatoria e rallentando molto la
costruzione delle arene partecipative e del Piano stesso.

22
Inoltre, il fatto che tutto il processo di costruzione del tavolo del terzo settore sia avvenuto “in casa”
dell’amministrazione, fa apparire il tipo di integrazione avvenuta tra le organizzazioni del terzo settore
come poco autonoma e potremmo dire, usando le espressioni usate dagli stessi attori locali del terzo
settore, “eterodiretta”.
Per quanto riguarda la gestione delle controversie, anche in questo distretto vi sono state diverse
occasioni di confronto/scontro tra amministrazioni e organizzazioni del terzo settore. La differenza
conil caso di Corsico tuttavia è che qui il la discussione e la soluzione di compromesso, si è raggiunto
non in sedi informali e tra i soli soggetti interessati, ma direttamente sul tavolo ufficiale di lavoro, alla
presenza di tutti i rappresentanti del terzo settore regolarmente eletti. Ciò non ha necessariamente delle
conseguenze sulla qualità del compromesso trovato. Anzi, l’esito che si configura in un caso come
questo può dar luogo anche a forme di mutuo accomodamento (Pavolini 2003). Il fatto però di trattare
queste questioni in maniera formale e direttamente ai tavoli ufficiali di decisione sembra configurare
una modalità che facilita la trasparenza del dibattito sulle controversie stesse tra tutti gli attori del
ambito.
Nei casi di controversie che sono state portate alla discussione dei tavoli, inoltre, i rappresentanti
delle amministrazioni hanno spesso reagito utilizzando una forma di cooptazione nei confronti dello
stesso autore delle critiche 11 . Si tratta cioè di una modalità di trattare le critiche tipica di una cultura
politica inclusiva e che potremmo definire cooptativa. Da una parte, invitando chi critica a prendere la
responsabilità di trovare la soluzione o cooptandolo nella arena decisionale, si da la possibilità alla
critica di essere incorporata e con un’eventuale modifica delle proposte iniziali. Dall’altro, la
cooptazione tende a neutralizzare i possibili effetti di delegittimazione del tavolo che la critica rischia di
innescare (Linz 1981).
Questa caratterizzazione delle gestioni delle controversie aiuta a capire come si configuri
tendenzialmente il rapporto tra gli attori in questo ambito territoriale. Queste modalità di trattamento
istituzionale e regolamentato delle questioni controverse, pur con gli aspetti cooptativi che abbiamo
individuato, sembrano contribuire a produrre degli esiti di fiducia da parte degli attori del terzo settore
nei confronti della possibilità di avere una voce in capitolo nella governance del Piano. Un tale esito di
fiducia sembra aver innescato uno sviluppo della cooperazione tra pubbliche e amministrazione della
zona e terzo settore, seguendo una dinamica già evidenziata dalla ricerca su queste arene (Barbera 2001,
Pelligra 2001), come uno degli ingredienti per l’innesco di circoli virtuosi della programmazione
partecipata.

In sintesi, il profilo dell’ambito che emerge dall’analisi svolto è caratterizzato da alcuni elementi
principali. Come a Corsico, anche qui il processo non ha visto la presenza di leadership forti e inclusive
nel terzo settore locale e uno scarso livello iniziale di collaborazione tra le sue diverse espressioni.
L’amministrazione pubblica ha assunto un ruolo di regia e di forte promozione del processo
partecipativo, sia per quanto riguarda le progettazioni operative, sia per quanto riguarda il livello di
programmazione strategica del Piano. Le amministrazioni gestiscono la costruzione del Piano attraverso
un sistema molto regolato, formalizzato e con tempo lunghi di preparazione di ogni fase di lavoro. Lo
stile di risposta alle critiche è di tipo cooptativo, cioè si tende a coinvolgere gli attori critici nel processo
di programmazione, cooptandoli nell’attività programmatoria. L’amministrazione promuove
direttamente le forme di coordinamento del terzo settore, tramite risorse organizzative e regolamenti
che conferiscono poteri alle sue rappresentanze. In questo senso il tipo di integrazione del terzo settore
appare poco autonoma dall’amministrazione pubblica.

Anche in questo caso, guardando agli esiti di questo modello più direttamente riferibili ai processi
partecipativi, possiamo individuare i seguenti elementi:
- Una produzione di un effettivo valore aggiunto in termini di conoscenza e di proposte sulle
progettazioni ai tavoli e sull’organizzazione del sistema, derivanti dalla partecipazione del terzo

11Nel dizionario di politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino (2004), la cooptazione viene descritta nei termini dell’ambigua funzione che
svolge nei confronti dei detentori di coloro ai quali la critica si rivolge. Essa è qui definita come modo per indebolire l’opposizione, ma
anche per incorporare nel proprio programma indirizzi e proposte portate avanti dall’opposizione.

23
settore alla fase di acquisizione di conoscenze su bisogni e risorse della zona e nell’interlocuzione
sulle strategie generali sulle politiche sociali dell’ambito.
- Delle forme di apprendimento reciproco tra gli attori, sia sulle progettazioni che sulla
programmazione.
- Un livello generalmente elevato di soddisfazione soggettiva dei soggetti del terzo settore per il tipo
di coinvolgimento sperimentato sulla programmazione nei Piani di Zona.

Per rappresentare più sinteticamente le differenze individuate tra i due casi, utilizziamo una tabella
nella quale sono evidenziati gli elementi principali evidenziati nei due casi.

Tabella n.3

Modello di partecipazione
Dimensioni di modello Corsico San Donato
Integrazione Basso livello di Basso livello di
terzo settore integrazione integrazione
prima del Piano di
Zona
Promozione Alto livello di Alto livello di
Coprogettazione coinvolgimento coinvolgimento
Promozione Coinvolgimento Alto coinvolgimento
Coprogrammazione informale e selettivo formalizzato e
universalista
Risposta alle critiche Elusiva Cooptativa
del terzo settore

Esiti
Dimensioni di esito Corsico San Donato
Integrazione Basso livello di Integrazione poco
terzo settore integrazione,cooperazione autonoma,cooperazione
dopo il Piano di Zona progettuale progettuale
Contributo della Basso livello di nuove Alto livello di nuove
presenza del terzo conoscenze conoscenze
settore
Innovazione Parziale innovazione Innovazione
progettuale e progettuale ma non progettuale e
istituzionale nei istituzionale istituzionale
rapporti col terzo
settore
Percezione degli attori Prevalente Soddisfazione e
del terzo settore insoddisfazione apprendimento

L’investimento negli strumenti partecipativi e la loro regolazione


Il principale elemento di sintesi che si può notare dall’analisi svolta sui Piani di Zona studiati è
l’importanza dell’investimento impiegato dalle amministrazioni negli strumenti della programmazione.
Con tale espressione non si allude solo alle risorse tecniche spese dalle amministrazioni nelle procedure
programmatorie, bensì alla costruzione di forme stabili e strutturate di relazione con le organizzazioni
pubbliche e private del territorio che operano in campo sociale. L’investimento in questione riguarda

24
cioè sia la dimensione organizzativa relativa alle fasi di tipo progettuale e gestionale, sia la dimensione
politica relativa alle fasi di tipo programmatorio.
Le specifiche voci di investimento che si sono rivelate importanti, in questo senso, sono diverse.
Alcune sono di tipo organizzativo e attengono alla quantità e qualità del personale impiegato negli uffici
di Piano, alle risorse utilizzate per attivare strumenti di comunicazione tra tutti gli attori, a quelle usate
per formare i vari operatori pubblici e privati sulle potenzialità del lavoro in rete e alle indagini svolte
sui bisogni del territorio, ecc. Altre sono di tipo politico e attengono al tempo e alle energie spese dalle
amministrazioni per costruire processi condivisi, attivare momenti di pubblicizzazione e di confronto,
individuare forme di coinvolgimento dei soggetti di tipo integrato e non solo compartimentato per area
di attività.
L’analisi dei documenti di Piano ha evidenziato che in molti casi, da parte delle amministrazioni, non
siano stati fatti degli investimenti nelle risorse umane e tecniche necessarie per organizzare processi di
conoscenza dei bisogni della popolazione lì residente, di partecipazione dei soggetti della società civile
del territorio e di integrazione con le altre politiche e gli altri servizi di welfare della zona. Dove tali
investimenti siano stati carenti, sembrano essersi verificate maggiori difficoltà e lentezze
nell’introduzione di innovazioni nelle politiche, nella configurazione del sistema dei servizi locali e nelle
relazioni tra gli attori del welfare locale.
Questo esito sembra perciò confermare il dato di sottovalutazione, nelle politiche sociali italiane (e
in generale delle nostre politiche pubbliche) dell’importanza del momento implementativo, e delle
risorse ad esso necessarie.
Andando a vedere gli effetti che l’investimento negli strumenti programmatori tende ad avere
sull’innovazione nei Piani, possiamo dire che tali effetti si diano soprattutto laddove tale investimento si
sostanzi in quello che abbiamo definito uno stile di programmazione dettagliato e aperto nei confronti
del processo di conoscenza sviluppato per costruire il Piano. L’indagine empirica mette in evidenza cioè
come i più alti livelli di innovazione delle politiche attivate nei Piani di Zona siano frequentemente
associati ad alti livelli di investimento sui processi di raccolta delle informazioni territoriali che siano
capillari, approfonditi e aperti al contributo di attori diversi.
In questo esito possiamo vedere confermata un’importante caratteristica che il terzo settore, ed in
generale la società civile organizzata, può giocare nelle arene partecipative: quella di essere non solo un
agente di pressione politica sulle amministrazioni ma anche un agente di conoscenza sui bisogni e sulle
risorse del territorio e della sua cittadinanza (Fazzi e Scaglia 1999) .
Un altro dato interessante che viene dall’analisi dei 21 Piani di Zona è che su tali innovazioni
sembrano avere minore influenza le forme di riflessività e di valutazione utilizzate dalle
amministrazioni. Non sempre cioè, i Piani costruiti con processi di confronto interno ed esterno alle
amministrazioni sull’andamento della programmazione stessa o con momenti di valutazione del
processo, si sono rivelati poi quelli più capaci di attivare Piani di Zona innovativi. Inoltre, non sembra
essere la semplice apertura del processo partecipativo ad avere di per sé degli effetti di innovazione del
sistema e delle politiche attuate nel Piano di Zona. L’effetto innovativo sembra essere avvenuto solo
nei casi in cui lo stile programmatorio abbia investito maggiori risorse sul coordinamento delle arene
partecipativa, così da rendere il contributo del terzo settore meno frammentato e dispersivo (data
l’eterogeneità e quantità dei gruppi partecipanti) e più effettivo.
Far partecipare in maniera effettiva degli insiemi eterogenei di attori territoriali è infatti un’attività
dagli alti costi organizzativi, e tali costi appaiono spesso poco sostenibili per i singoli attori, come per
esempio i singoli comuni di piccole dimensioni, o le piccole organizzazioni locali della società civile.
Nel caso dei Piani di Zona questi costi sono sostenibili solo dall’intero ambito distrettuale e dalle sue
strutture associate. Perché un’attività di organizzazione della partecipazione sia possibile sembra quindi
necessario un investimento economico, di competenze e di mezzi ad hoc, da parte di ambiti istituzionali
e amministrativi più ampi.
La possibilità di utilizzare risorse per facilitare il coordinamento degli attori della società civile
emerge come un fattore essenziale di successo in quella che abbiamo visto essere una delle più
importanti sfide della governance, cioè la capacità di costruire forme di partecipazione effettiva e non
retorica della platea della società civile. Il coordinamento di insiemi spesso frammentati ed eterogenei

25
di attori, come sono quelli del terzo settore, si configura come una condizione essenziale perché i tavoli
partecipativi apportino un effettivo valore aggiunto alla programmazione.
Dove tale condizione non si dia, la partecipazione rischia di bruciare la risorsa partecipativa e portare
all’allontanamento della società civile locale (o di parti importanti di essa) dalle arene di governance. Tale
conclusione è coerente con una sindrome ben nota agli studiosi di processi deliberativi (Bobbio 2005,
Regonini 2005): quella di una partecipazione inizialmente anche alta e motivata ma resa sostanzialmente
irrilevante nel corso della sua attuazione. Si tratta cioè del rischio che i gruppi chiamati a partecipare alle
arene di deliberazione spendano molte energie nella partecipazione alle arene deliberative, ma che la tale
partecipazione risulti incapace di incidere sulle scelte delle amministrazioni, a motivo della
frammentazione e dello scollegamento tra partecipazione ed effettivo processo decisionale.

Dopo aver evidenziato l’importanza dell’investimento delle amministrazioni in strumenti di


programmazione, abbiamo provato a capire a quali possibili fattori esplicativi sia collegato tale
elemento.
Un fattore che probabilmente ha giocato un ruolo importante nel rendere le amministrazioni più
inclini ad investire sulla costruzione del processo programmatorio, è la storia associativa e politica della
zona, cioè il fatto che si sia radicata nel tempo o meno una tradizione amministrativa di alto
investimento negli strumenti di governo del territorio. Si tratta di un fattore di policy trend che influenza
lo sviluppo delle attitudini degli attori politici e amministrativi che vi operano.
Altri fattori che possono aver influito sono meno legati al passato dei territori e più attinenti a
dinamiche recenti del contesto politico e amministrativo locale. Un elemento che infatti sembra
apparire da diverse testimonianze emerse nel corso della ricerca, è che vi siano dei casi di distretti nei
quali, pur in presenza di una precedente carenza di forme di investimento pubblico e di debolezza del
terzo settore locale, si siano prodotti Piani più innovativi rispetto ad altri ambiti con maggiore
tradizione ed esperienza di azione nelle politiche sociali. In questi casi, la differente modalità evidenziata
nella costruzione del Piano può essere riconducibile per esempio alla presenza di una forte figura
politica o amministrativa presente nel comune capofila o alla presenza di una solida alleanza e vicinanza
tra amministratori e terzo settore organizzato.
Entrambi gli aspetti sopra menzionati possono avere avuto un peso produrre le modalità specifiche
di programmazione dei singoli ambiti amministrativi. Non abbiamo tuttavia avuto modo, nei limiti di
questa ricerca, di sviluppare un’indagine specifica su tali aspetti.
Abbiamo quindi provato a vedere quanto conti il fattore “colore politico” delle amministrazioni
dell’ambito territoriale del Piano di Zona e il fattore della leadership d’ambito, cioè una capacità di
esercitare un’egemonia politico-amministrativa, e quindi anche uno stile programmatorio, anche sugli
altri comuni dell’ambito. Ciò che è emerso dall’analisi è che tali fattori abbiano un’influenza sul tipo di
programmazione attuata nei diversi ambiti territoriali, ma che la loro influenza sia limitata e non spieghi
in maniera esauriente gli esiti. Ciò fa ipotizzare che una parte importante dello stile e degli esiti di una
programmazione possano essere influenzati anche da fattori interni alle modalità di conduzione del
processo programmatorio praticate dalle diverse amministrazioni dei Piani di Zona. La parte di ricerca
empirica basata sui casi studio, da questo punto di vista, ha consentito di arricchire la comprensione dei
meccanismi con i quali i diversi stili di programmazione adottati producono i loro esiti, mettendo in
luce in particolar modo l’elemento delle forme di regolazione e istituzionalizzazione delle forme di
partecipazione del terzo settore.
Il confronto tra il caso di Corsico e il caso di San Donato ha fatto cioè emergere due modi differenti
di costruire il processo programmatorio da parte delle amministrazioni. Il primo modo, che appare più
frequente, è basato sull’informalità e la scarsa regolazione delle arene di negoziazione con i soggetti del
terzo settore locali. Le negoziazioni, in questo caso, avvengono prevalentemente fuori dai tavoli ufficiali
e con maggiore fluidità del processo decisionale. Il secondo modo, che appare meno frequente, è
basato invece su forme di regolazione dettagliata del processo di partecipazione e i cui passaggi
avvengono in prevalenza sui tavoli ufficiali, con gradi maggiori di trasparenza del processo ma anche di
lentezza e di appesantimento burocratico.

26
La regolazione e l’istituzionalizzazione delle forme di partecipazione agiscono su due aspetti che
abbiamo visto essere problematici di tutti i processi di governance. In primo luogo l’istituzionalizzazione
delle arene partecipative permette di mantenere maggiormente sotto controllo i rischi che si producano
o si perpetrino rapporti privilegiati tra alcuni attori della società civile e le amministrazioni pubbliche.
Nella misura in cui rende il processo partecipativo più vincolato a delle norme di universalismo e
apertura, la regolazione consente a nuovi attori del territorio che si affacciano al processo partecipativo
di esserne coinvolti, e vincola maggiormente gli attori già presenti nelle arene a giustificare le proprie
condotte sulla base di criteri condivisi. In secondo luogo, l’istituzionalizzazione delle arene può
permettere, se attentamente regolata, di distinguere meglio i due ruoli che il terzo settore può rivestire:
quello di attore di advocacy e quello di operatore economico e gestore di servizi su mandato pubblico.
L’ambivalenza di questo doppio ruolo può così essere maggiormente controllata.
Un ulteriore aspetto importante dell’istituzionalizzazione delle arene partecipative è il fatto che essa
favorisca la nascita di forme di rappresentanza legittima del terzo settore, attraverso l’introduzione di
dispositivi che garantiscano l’effettiva rappresentatività e responsabilità dei rappresentanti. L’elemento
della legittimità della rappresentanza assume una rilevanza cruciale nell’azione pubblica dei soggetti
della società civile. La riflessione sociologica sulle forme di rappresentanza non tradizionali della società
civile (Cotta 1976, Pitkin 1967, Pellizzoni 2005), cioè non partitiche, sindacali o categoriali, ha messo in
luce infatti come la rappresentanza non possa mai essere considerata come un dato immediato, bensì
come un esito della scelta di un criterio in grado di conferire ad alcuni lo statuto di legittimi
rappresentanti di altri. Qualsiasi criterio si scelga 12 , è l’esistenza di prove legittime di rappresentanza,
informate a quel criterio, a garantire, nel lungo periodo, la rispondenza del rappresentante alle volontà
del rappresentato. Possiamo dire allora che le forme di rappresentanza del terzo settore che
contemplano qualche prova regolata e legittima di mandato, garantiscono un livello maggiore di
effettività nel rappresentare le volontà del panorama delle espressioni società civile organizzata di un
territorio (Vitale 2007). Da questo punto di vista, possiamo dire che la ricerca confermi che l’esistenza
di forme regolate e legittimate di rappresentanza consenta una migliore stabilità e un’efficacia del
processo partecipativo, mentre dove le forme di rappresentanza sono più informali, l’efficacia del
sistema di governance appaia indebolita e la fiducia degli attori del terzo settore nei confronti dell’arena
partecipativa venga messa da essi più facilmente in discussione.
Un elemento importante da mettere in luce infine è che gli esiti a cui danno luogo i due modelli
studiati sono differenti per il tipo di politiche che vi vengono costruite, ma soprattutto per il tipo di
relazione che essi configurano tra amministrazioni e terzo settore. Nella nostra analisi, sotto questo
profilo, abbiamo visto come in un caso a bassa regolazione come quello di Corsico, emerga un tipo di
relazioni tra amministrazioni locale e terzo settore simile a quella preesistente nei territori prima
dell’introduzione della legge 328, cioè basate prevalentemente su una configurazione di “mutuo
accomodamento” (Ascoli, Pavolini, Ranci, 2003) di tipo selettivo. A San Donato invece, sembra
emergere un tipo di relazioni più dialettico ma anche più condiviso tra terzo settore e altre realtà del
territorio.
Tale mutamento della relazione tra gli attori costituisce una delle dimensioni di innovazione che
abbiamo individuato come non neutra, ma ancorata una posizione normativa che vede la costruzione di
forme di regolazione e istituzionalizzazione della partecipazione come un elemento di crescita in senso
democratico rispetto ad un regime basato su relazioni particolaristiche tra amministrazioni e soggetti
della società civile (Moulaert et al. 2006, Papadopulos e Warin 2007).
Rispetto perciò alla domanda su come gli stili di partecipazione influenzino l’innovazione delle
politiche sociali locali, possiamo dire che la ricerca evidenzi un ruolo innovativo degli stili di
programmazione che favoriscono le forme di istituzionalizzazione della partecipazione, ma che tale
innovazione sia riscontrabile soprattutto nella relazioni tra gli attori che essa favorisce 13 .
12 Si possono menzionare, per esempio, criteri di rappresentanza per competenza o di rappresentanza per somiglianza tra rappresentante e
rappresentato (Pitkin 1967).
13 A conclusioni simili giunge Massimo Paci (2008), il quale a proposito della partecipazione del terzo settore nei Piani di Zona dei
Municipi romani, individua nel grado di istituzionalizzazione delle arene partecipative, uno dei fattori determinanti per dare innovatività e
continuità al coinvolgimento della società civile nella programmazione sociale di zona.

27
Conclusioni
Giunti in conclusione, possiamo domandarci quale sia l’estendibilità degli esiti di ricerca sopra
descritti alla generalità dei contesti di programmazione partecipata a livello locale. Da questo punto di
vista, va premesso che il metodo induttivo utilizzato non aveva tanto l’obiettivo di avvalorare una tesi
specifica generalizzabile all’universo delle situazioni di governance pubblica, quanto quello di esplorare un
campo di azione alla luce di alcuni punti di vista teorici e mettere in evidenza dei nessi e degli elementi
descrittivi e interpretativi di tale campo di azione, attraverso una ricostruzione di quelli che Friedberg
(1993, 294) chiama i “modi di regolazione che strutturano il sistema d’azione concreto e particolare”.
Un elemento che possiamo evincere complessivamente dalla ricerca è il fatto che la partecipazione
effettiva della società civile organizzata alle fasi di disegno e implementazione locale delle politiche
pubbliche non si verifichi semplicemente tramite l’introduzione di norme che la rendono possibile sul
piano legislativo. La legge 328, da questo punto di vista, ha costituito una tappa necessaria ma non
sufficiente per l’attivazione del coinvolgimento sistematico del terzo settore nella costruzione delle
politiche sociali. Essa, per usare il linguaggio di Amartya Sen (1992), ha offerto a tali attori gli
entitlements per partecipare alla programmazione sociale, ma l’indagine ha mostrato che questo
coinvolgimento sia dipeso, in molti casi, dall’esistenza di strumenti e risorse organizzative, economiche
e tecniche in grado di dotare gli attori del terzo settore delle capabilities per partecipare effettivamente ed
in maniera coordinata ai tavoli della programmazione. Nei casi in cui vi è stata una carente iniziativa di
promozione del coordinamento da parte delle amministrazioni, è apparso più debole l’apporto del terzo
settore al lavoro programmatorio. Dove invece le amministrazioni hanno promosso e supportato un
coordinamento tra gli attori del territorio sembrano essersi attivati più facilmente i contributi
conoscitivi e propositivi del terzo settore.
La promozione di forme di coordinamento delle realtà sociali del territorio ha una valenza più
importante della semplice facilitazione organizzativa. Il coordinamento tra gli attori è diventato infatti
anche un’occasione per le organizzazioni della società civile, di esprimere una soggettività politica. Ciò è
avvenuto per esempio attraverso la nascita di forum del terzo settore locali, nati e sviluppatisi spesso
proprio con il supporto degli enti locali, o attraverso l’organizzazione di iniziative comuni di
mobilitazione sul tema delle politiche sociali locali. In questo salto di qualità, il ruolo del terzo settore
non è più solo quello di terminale o braccio operativi dei servizi, ma diventa quello di co-autore e
protagoniste della costruzione della politiche ( e della politica) del territorio.
Questo elemento evidenzia un nesso importante tra la presenza di risorse e di competenze per
l’azione collettiva e la possibilità di giocare effettivamente un ruolo nell’arena politica da parte della
società civile. Troviamo qui un elemento che complessifica gli schemi esplicativi che danno importanza
al solo disegno istituzionale delle politiche (Fung e Wright 2003). Il disegno istituzionale che introduce
le forme partecipative non sembra cioè poter avere un esito determinante sulla possibilità che i gruppi
della società civile partecipino effettivamente nella costruzione delle politiche, se non sono date allo
stesso tempo delle opportunità concrete per il loro coordinamento e il loro accesso alle competenze
partecipative. Ciò si avvicina alle acquisizioni delle teorie sui movimenti sociali sull'importanza della
mobilitazione delle risorse economiche, tecniche e politiche per l'attivazione di azione collettiva dei
soggetti (Davis, Mc Adam, Scott e Zald 2007, Mc Carthy e Zald 1977).
La ricerca evidenzia poi l’importanza delle forme di istituzionalizzazione delle arene partecipative,
come antidoto a tre rischi tipici della governance: a) che si generino forme solo retoriche e inefficaci di
coinvolgimento delle organizzazioni della società civile; b) che si perpetrino gli accomodamenti
particolaristici tra amministrazioni e alcuni attori soltanto del terzo settore, e b) che il coinvolgimento
dei soggetti della società civile del territorio non sia impegnativo per le amministrazioni, così da
dipendere dalla loro discrezionalità.
Questi rischi derivano dal fatto che le arene pubbliche di governance si caratterizzano come sistemi
di governo di tipo multicentrico e complesso, nel quale la definizione dei ruoli e delle responsabilità
rischia facilmente di diventare opaca, rendendo così molto debole un’accountability delle scelte fatte

28
(Donolo 2006, Bifulco De Leonardis 2005). In questo tipo di contesti, una maggiore regolazione dei
ruoli, delle ripartizioni di funzioni, dei criteri di accesso, delle responsabilità, può essere un modo per
ridurre tale debolezza. Dove le amministrazioni riescano a svolgere questa opera di regolazione e con
riconosciuta correttezza da parte degli attori coinvolti 14 , le arene di governance possono diventare delle
occasioni di responsabilizzazione reciproca degli attori e di attivazione delle qualità civiche della società
civile. Inoltre, abbiamo visto che dove i tavoli partecipativi sono stati gestiti con stile più formalizzato e
con una regolazione più trasparente della presa di decisioni, si è generata tra gli attori una maggiore
disponibilità a continuare l’esperienza partecipativa e a dedicarvi risorse proprie.
Si configura così una capacità da parte delle amministrazioni, di generare processi di institution-
building. Come è già stato osservato in altre ricerche dedicate ai processi di sviluppo locale (Pichierri
2002, Trigilia 2005), le amministrazioni che gestiscono arene di governance hanno la possibilità di far
diventare i tavoli di concertazione come delle sfere istituzionalizzate15 . Con questa espressione si
intende qui il fatto che i tavoli della partecipazione siano in grado di orientare l’azione dei soggetti verso
condotte più universalistiche e attente agli effetti di lungo periodo non solo tramite dei sistemi di
incentivi positivi o negativi che, usando un linguaggio da teoria dei giochi, modificano i pay-off degli
attori. Una modificazione delle condotte degli attori, in un contesto istituzionalizzato, avviene anche
fornendo degli obiettivi normativi e delle mappe cognitive (Lanzara 1993, 2005) capaci di modificare le
preferenze stesse degli attori e non solo i loro pay-off.
Accanto ai pregi e agli effetti positivi dell’istituzionalizzazione delle arene partecipative, la
ricerca suggerisce però l’ipotesi che, con la regolazione e la formalizzazione delle arene di
partecipazione, possano sorgere anche degli effetti di complessificazione delle competenze necessarie
per la partecipazione stessa e di appesantimento del carico di lavoro e burocratico da essa derivanti. Ciò
rende più difficile la partecipazione effettiva delle realtà meno forti e organizzate del terzo settore, e
conferisce più facilmente alle amministrazioni un ruolo preminente ed egemonico sul terzo settore
stesso.

Bibliografia

Abelson J. Gauvin, F. (2006) Assessing the impact of Public Participation, Canadian Policy Research Network.
Research Report.
Allum, P. (1975), Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi.
Almagisti, M. (2004), Procedure e democrazia. Cultura politica e capitale sociale nell’analisi della qualità democratica, in
«Teoria Politica», 20, 2, pp. 55-88.
Ambrosini, M. (2005), Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempi di soggettivismo, Bologna, Il Mulino.
Arena G., (2006), Cittadini attivi, Roma, Laterza.
Ascoli U., Ranci C., (2003), Il nuovo welfare mix, Roma, Carocci.
Ascoli U.,(1997), Azione volontaria e welfare state, Bologna, Il Mulino.
Baccaro L. (2004), Verso una Democrazia Associativa? in Stato e Mercato - n.1
Baccetti, C. (1999), Poteri locali e politiche pubbliche, Torino, Utet.
Bagnasco A., (2003), La società fuori squadra, Bologna, Il Mulino.
Bagnasco, A., (1977), Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino.
Baiocchi, G., (2003), Participation, Activism, and Politics: The Porto Alegre Experiment, in Fung, A., Wright, E.O.
(2003), a cura di, Deepening Democracy: Institutional Innovations in Empowered Participatory Governance, London-
New York:Verso.
Barbera F. (2005),Deliberare lo sviluppo. I patti territoriali come processo, in Pellizzoni L., La deliberazione pubblica, Roma,
Meltemi.
Barbera, F. (2001), Le politiche della fiducia, in Stato e Mercato, n.63, pp.414-449.
Becattini, G. e F. Sforzi, a cura di, (2002), Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosemberg & Sellier.

14 A questo proposito si segnalano le riflessioni di Pizzorno (2006) e di Barbera (2004) sul tema della reputazione e in generale del
riconoscimento delle qualità (tra le quali la correttezza) nelle arene di governance.
15 Diamo qui al termine istituzione il significato di sfera che orienta normativamente e cognitivamente gli attori (De Leonardis 2001,

March e Olsen 1995).

29
Becattini, G. (2000), Dal distretto industriale allo sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri
Bifulco L. e Centemeri L. (2006), Governance and Istitution Building in Local Welfare. The case of the Italian “Piani di
Zona” (Area Plans), in ESPANET Conference on “Making social policy in postindustrial age”,
www.espanet.org.
Bifulco L. (2005), Le politiche sociali, Roma, Carocci.
Bifulco L. e DeLeonardis O.,(2005), “Sulle tracce dell’azione pubblica”, in Bifulco L. (a cura di), Le politiche sociali.
Temi e prospettive emergenti, Roma, Carocci.
Biorcio R. (2003) Sociologia politica. Partiti, movimenti sociali e partecipazione, Bologna, Il Mulino.
Bobbio, L. (2002), Le arene deliberative, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n. 3, pp. 5-29.
Bobbio L., a cura di, (2007) Amministrare con i cittadini. Viaggio tra le pratiche di partecipazione in Italia, Catanzaro:
Rubettino.
Bobbio, L., (2005), La democrazia deliberativa nella pratica, in Stato e Mercato, n.73
Bohman J.,(2000) Deliberative Democracy: on James Bohman's Public Deliberation: Pluralism, Complexity and Democracy,
Cambridge, MIT press.
Bohman J., (1996), Public Deliberation, Cambridge, MA, MIT University Press.
Bruni L., Zamagni S. (2004), Economia civile, Bologna, Il Mulino.
Cefaï D. (2006), “Due o tre cosette sulle associazioni… Fare ricerca su contesti ibridi e ambigui”, in Bifulco,
Borghi, de Leonardis, Vitale (a cura di), Che cosa è pubblico?, numero monografico de La Rivista delle Politiche
Sociali, n. 3.
Cefai D., Trom D., (2001) Les Formes de l’action collective. Mobilisations dans des arènes publiques, Parigi, Éditions de
l’Ehess, 2001.
Centemeri, L., (2006), Ritorno a Seveso, Milano, Bruno Mondadori.
Cersosimo D., Wolleb G., (2001), Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui Patti Territoriali, in
Stato e Mercato, n.63. pp. 370-412.
Cesareo, V. (2003), I protagonisti della società civile, Bologna, Rubettino.
Cohen, J. (1989), Deliberation and Democratic Legitimacy, in A. Hamlin e P. Pettit (a cura di), The Good Polity,
Oxford: Blackwell, pp. 17-34.
Cohen, J.,A. Arato (1992), Civil Society and Social Theory. Cambridge: MIT Press
Cohen, J. Rogers, (1995) Association and Democracy. The Real Utopian Project, London-New York, Verso, pp. 267.
Coglianese C. (2002), Is satisfaction success? Evaluating public participation in regulatory policymaking. John F. Kennedy
School of Government, Harvard University, Faculty, Research Working Papers Series.
Corry, D. e G. Stokerl (2002) New localism: refashioning the centre–local relationship.New Local Government Network,
London.
Cotta, M., (1979) Il concetto di partecipazione politica: linee di un inquadramento teorico, in «Rivista Italiana di Scienza
Politica», 9, 2, pp. 193-227.
D’Albergo E. Moini G., (2007) Partecipazione, movimenti e politiche pubbliche a Roma, Roma, Aracne
D’Albergo E. (2002), ‘Modelli di governance e cambiamento culturale’, in F. Battistelli (ed.), La cultura delle
amministrazioni, fra retorica e innovazione, Milano: Angeli.
Davis G., Mc Adam D., Scott W., Zald M., (2007), Social Mouvements and Organization Theory, Cambridge,
Cambridge University Press.
De Leonardis O. (2001), Le istituzioni. Come studiarle e perché. Roma, Carocci.
De Leonardis O. (1991), Il terzo escluso, Milano, Feltrinelli.
Della Porta D., (2001), Politica Locale, Bologna, Il Mulino.
Denters, B. and Rose L., a cura di, (2005) Comparing local governance: trends and developments. Palgrave, Basingstoke.
Dewey J., (1944), The public and its problems. Athens, Ohio: Shallow Press
Di Maggio P.J., Powell W.W., (2000), Il neo-istituzionalismo nell’analisi organizzativa, Torino, Comunità.
Donolo, C., (1997), L’intelligenza delle istituzioni, Milano, Feltrinelli.
Esping Andersen G. (1990), The Three World of Welfare Capitalism, Princeton, Princeton University Press.
Fazzi, L., (2006), Relazione al seminario su “La partecipazione nelle politiche sociali”, 27 gennaio 2006, Politecnico di
Milano.
Fazzi, L., Scaglia, A., (1999), Il ruolo dell’associazionismo e delle forme organizzate di tutela e rappresentanza del cittadino, in
Modelli di welfare mix, Milano, Franco Angeli.
Ferrera M., (1993) Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Bologna, Il Mulino.
Ferrera M., (2006), Le politiche sociali, Bologna, Il Mulino.
Friedberg (1993), Il potere e la regola, Milano Etas libri.
Fukuyama, F. (1995). Trust: The social virtues and the creation of prosperity. NY: Free Press.
Fung A., (2004), Empowered Participation. Reinventing Urban Democracy. Princeton University Press.

30
Fung A., Wright O., (2003), Deepening Democracy. Institutional Innovation in Empowered Participatory Governance. Verso
Press.
Gaudin J. (1999), Gouverner par contrat. Paris, Presses de Sciences Po.
Gori C., a cura di, (2004), La riforma dei servizi sociali in Italia, Roma, Carocci.
Hirschman A. O. (1991), Retoriche dell’intransigenza, Bologna, Il Mulino
IRS (Istituto per la Ricerca Sociale) (2007), Il ruolo del volontariato lombardo nella programmazione sociale di Zona,
rappporto di ricerca, Milano IRS-CSV Lombardia.
Kooiman, J. , a cura di, (2003), Modern Governance. New Government-Society Interactions, London: Sage.
Kriesi H., (1996) The Organizational Structure of New Social Movements in a Political Context, in: McAdam D,
McCarthy J P, Zald M N (eds.) Comparative Perspectives on Social Movements. Cambridge University Press,
Cambridge.
Lafaye C., a cura di, (2002), La démocratie à l’epreuve de la gouvernance, Presses de l’Université de Ottawa, Ottawa.
Lanzara G.F. (2005) La deliberazione come indagine pubblica, in Pellizzoni L., La deliberazione pubblica, Roma,
Meltemi.
Lanzara G. F. (1998), “Self-destructive Processes in Institution Building and Some Modest Countervailing
Mechanisms”, European Journal of Political Research, 33(2), 3-39.
Lanzara G.F. (1993) Capacità Negativa, Bologna, Il Mulino.
Lascoumes, P. e Le Galès, P., (2007), Understanding Public Policy Through Its Instruments-From the Nature of
Instruments to The Sociology of Public Policy Instrumentation, in Governance. An Internation Journal of Policy,
Administrations and Institutions, Vol.20 n.1 (pp.1-21).
Lascoumes, P. e Le Galès, P. (a cura di), (2004), Gouverner par les instruments, Paris, Presses de Sciences-Po
Le Galés P., (2002), European Cities, social conflicts and governance, Oxford, Oxford University Press
Lindblom, C. E., Cohen D.K., (1979) Usable Knowledge: Social Science and Social Problem Solving, New Haven &
London, Yale University Press.
Lindblom C. E., (1965), The Intelligence of Democracy: Decision Making Through Mutual Adjustment, New York, Free
Press.
March, J. (1998), Prendere decisioni, Bologna, Il Mulino.
March, J., Olsen, J., (1995), Governare la democrazia, Bologna, Il Mulino.
March, J., Olsen, J., (1986), Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica, Bologna, Il Mulino.
Martelli A. (2007), La regolazione sociale delle politiche sociali, Milano, Franco Angeli.
Matteucci N., (1990) Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, Bologna, Il Mulino.
McCarthy, J., e M. Zald, a cura di, (1987). Social Movements in an Organization Society. New Brunswick, NJ:
Transaction Books
Mingione, E. (1998), Sociologia della vita economica, Roma, Carocci.
Mirabelli, C. (2000), Concertazione e sviluppo locale: l’esperienza dei patti territoriali in Calabria, in Rassegna
Italiana di Sociologia, n. 3.
Mirabile M.L. (2005) (a cura di), Italie sociali, Roma, Donzelli.
Montanelli R., Turrini A., (2006), La governance locale nei servizi sociali, Milano, Egea.
Moulert F. F., Martinelli F., Swyngedouw E., Gonzalez S., 2005, “Towards Alternative Model(s) of Local Innovation”,
in Urban Studies, Vol. 42, 11, pp. 1969-1990.
Mouritsen P. (2003) What’s the Civil in Civil Society? Robert Putnam, Italy and the Italian Tradition, in Political
Studies, Vol. 51, 651-668.
Mutti A. (2004), "I diffusori della fiducia", in Rassegna Italiana di Sociologia, vol. 4, ottobre-dicembre, pp. 533-
549.
Mutti, A. (1998), Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, Bologna, Il Mulino.
Newman J. (2001), Modernising Governance. New Labour, Policy and Society, London, Sage.
Paci M., (1998). Welfare locale e democrazia partecipativa, Il Mulino, Bologna.
Paci M., (2005).Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Bologna, Il Mulino.
Paci, M., (1989), Pubblico e privato nei moderni sistemi di welfare, Napoli, Liguori.
Papadopoulos Y. and Warin Ph., (2007) “Are innovative, participatory and deliberative procedures in policy
making democratic and effective?”, European Journal of Political Research, 46, pp.445-472.
Pavolini, E., (2003), Le nuove politiche sociali, Bologna, Il Mulino.
Pelligra V., (2007), I paradossi della fiducia, Bologna,Il Mulino
Pellizzoni L. (2002), Dilemmi della democrazia nel Partecipatory Technology Assessment, in «Sociologia e politiche
sociali», 5, 1, pp. 65-95
Pellizzoni, L. (2005), a cura di, La deliberazione pubblica, Roma, Meltemi.
Pellizzoni, L., (2005), Che cosa significa partecipare,in Rassegna Italiana di Sociologia, a.XLVI n.3, luglio-settembre.

31
Pfau-Effinger B., (2005), “Culture and Welfare Policies: a Complex Interrelation”, Journal of Social Policy, 1.
Pichierri, A. (2002), La regolazione dei sistemi locali, Bologna, Il Mulino.
Pierre, J., a cura di, (2000), Debating Governance. Authority, Steering and Democracy, Oxford, Oxford University Press.
Powell W. W. (1987). The nonprofit sector: A research handbook. New Haven, CT: Yale University Press
Putnam, R. (1993), Making Democracy Work, Princeton University Press, Princeton, trad. it. La tradizione civica nelle
regioni italiane, Milano, Mondadori.
Ranci C., (2004), Politica sociale. Bisogni sociali e politiche di welfare, Bologna, Il Mulino.
Ranci C., (1999), Oltre il welfare state. Terzo settore, nuove solidarietà e trasformazioni del welfare, Bologna, Il
Mulino.
Regonini G. (2005), Paradossi della democrazia deliberative, in Stato e Mercato, n. 73
Sen A., (1993) Il tenore di vita, Marsilio, Venezia
Shapiro, I. (1999), Enough of Deliberation: Politics is about Interests and Power, in S. Macedo (a cura di), pp. 39-48.
Simon, H. (1958), Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna.
Skocpol T., (2003), Diminished Democracy: From Membership to Management in American Civic Life, Norman, University
of Oklahoma.
Smith C., Graham J. e Wales K., Corinne A., (2000), Citizens’ Juries and Deliberative Democracy, in Political Studies,
48, pp. 51-65.
Streeck, W., Schmitter, P., (1985), Comunità, mercato, stato e associazioni?, in Stato e Mercato, n. 13, pp. 47-86
Trigilia C. (2005), Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Roma, Laterza
Trigilia, C., (2001), Patti per lo sviluppo locale. Un esperimento da valutare con cura, in Stato e Mercato, n.63. pp.
360-367
Van Deth, J.W., Maraffi, M. Newton, K., Whitely, P.F., a cura di, (1999), Social Capital and European Democracy,
London, Routledge.
Vitale T., a cura di, (2007), In nome di chi?Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, Milano, Franco
Angeli.
Weick, K. E. (1996), Sensemaking in organizations. Newbury Park, CA: Sage.
Wildavsky A. Pressman A. (1973)., Implementation, Berkeley, Universty of California Press.

32

Potrebbero piacerti anche