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LIBERA UNIVERSITÀ MARIA SS.

ASSUNTA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI STUDI IN SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE


L - 39

CATTEDRA DI POLITICA SOCIALE ED ORGANIZZAZIONE DEI SERVIZI

TITOLO TESI
DAL PIANO SOCIALE REGIONALE AL PIANO DI ZONA
FROM REGIONAL SOCIAL PLAN TO AREA PLAN

RELATORE
Prof.ssa Marinella Sibilla

CANDIDATO
Claudia Caforio
Matricola 3033/L

ANNO ACCADEMICO 2015 –2016


2
INDICE

INTRODUZIONE…………………………………………………………... pag. 5

CAPITOLO PRIMO
PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E ANALISI
1. La pianficazione sociale……………………………………………... pag. 9

2. La funzione della programmazione: attori, contenuti e obiettivi……. pag. 12

3. L’analisi dei bisogni nel contesto del Piano di zona…………….…... pag. 16

CAPITOLO SECONDO
IL PIANO DI ZONA
1. La valenza del Piano di zona………………………………………… pag. 21

2. La costruzione del Piano di zona…………………………………….. pag. 25

3. I riferimenti legislativi………………………………………………. pag. 27

4. La partecipazione del Terzo settore ai Piani di zona………………… pag. 30

CAPITOLO TERZO
DAL PIANO REGIONALE AL PIANO DI ZONA
1. Il Piano regionale delle politiche sociali in Puglia ………………..... pag. 35

2. Le linee guida regionali per la programmazione territoriale e la stesura

dei Piani di zona……………………………………………………... pag. 40

3. Il Piano di zona di Taranto…………………………………………… pag. 42

CONCLUSIONI……………………………………………………………... pag. 49

BIBLIOGRAFIA………………………………………………………. pag. 52

3
4
INTRODUZIONE

Una delle novità più rilevanti introdotte dalla legge quadro n. 328/2000 è il Piano di

zona: alcuni lo definiscono come il piano regolatore dei servizi socio sanitari. Più

semplicemente si tratta di un documento di programmazione territoriale di durata

triennale, con il quale, in ciascun ambito territoriale, Comuni, Aziende Sanitarie Locali

e altri soggetti istituzionali o privati mettono a punto le politiche socio sanitarie rivolte

alla popolazione.

Il Piano di zona si configura come uno strumento di fondamentale importanza per gli

operatori sociali, essendo la modalità principale per la costruzione di un sistema

integrato di interventi e servizi sociali, con la sinergia di più soggetti attuatori. Il valore

e il significato del Piano di zona risiedono nel fatto che esso costituisce un’occasione

per veicolare una impostazione nel governo delle politiche sociali orientata alla

sussidiarietà sia verticale che orizzontale, nella logica di fornire autonomia ed

empowerment ai territori, con una funzione regionale di indirizzo, stimolo,

accompagnamento e promozione del miglioramento sociale continuo.

L’innovazione che caratterizza il Piano di zona deve essere intesa in senso dinamico

come processo continuo di sviluppo che tenga conto della mutevolezza degli scenari e

dell’incertezza delle risorse.

Muovendo da queste considerazioni, nel primo capitolo viene introdotta una

panoramica sulla questione della pianficazione, della programmazione territoriale degli

interventi e dei servizi sociali e dell’analisi dei bisogni, che trovano una chiara

collocazione nel modello di azione pubblica e nel riconoscimento normativo della loro

utilità quale premessa teorica per un corretto approfondimento dell’argomento.

La trattazione del tema intende poi focalizzare la valenza del Piano di zona e

l’apporto fondamentale di tutti gli attori e operatori sociali coinvolti nella sua
5
costruzione e realizzazione, basati su precisi capisaldi legislativi, ragion per cui si è

disquisito nel corso del secondo capitolo sull’aspetto della partecipazione del Terzo

settore. Il coinvolgimento di soggetti portatori di capacità ed esperienze diversificate

tende a costruire risposte originali e creative ai bisogni piuttosto che replicare modelli

standardizzati.

In base alla legge quadro sui servizi sociali, il Piano di zona deve contenere obiettivi

di intervento in aree tipicamente sociali o in quelle in cui si richiede una forte

compenetrazione tra servizi sociali e sanitari: minori, giovani e famiglia, anziani,

tossicodipendenze, salute mentale, disabilità, immigrazione, povertà ed emarginazione.

Risulta così chiaramente delineata l’importanza del Piano di zona quale strumento di

sviluppo che guarda alle politiche sociali e sanitarie come azioni di promozione e

investimenti, anziché come azioni riparative ed interventi in situazioni di emergenza,

capaci cioè di incrementare il benessere della comunità locale attraverso la realizzazione

di un sistema di welfare in grado di sostenere, accompagnare, promuovere le dinamiche

di autosviluppo della persona, della famiglia e delle comunità integrate.

Il sistema delle responsabilità e le specifiche attribuzioni di competenza ripartite tra i

diversi livelli istituzionali comportano la necessità di coniugare il livello di

programmazione regionale con un livello territoriale che risulti adeguato e funzionale

alla rappresentanza, promozione e protezione degli interessi specifici della popolazione

nelle singole comunità locali.

Questo aspetto è affrontato nel terzo capitolo, ove lo sguardo di osservazione e

riflessione è rivolto alla dinamica che va dalla programmazione regionale, e dunque dal

principale atto di indirizzo della Regione (il Piano sociale regionale), alla formulazione

del Piano di zona in un contesto territoriale e temporale circoscritto alla realtà di

Taranto, mettendone in evidenza le caratteristiche socio demografiche, le priorità, gli

obiettivi, la tipologia di utenza, gli strumenti e le risorse adoperati.

6
Passando così dal piano teorico al piano operativo, il lavoro si propone di illustrare il

contesto in cui opera e la struttura in cui si articola il Piano sociale regionale 2013/2015

e il Piano di zona di Taranto 2013/2015. L’analisi viene attuata con un focus specifico

sugli aspetti ed elementi ritenuti di maggior interesse, visti nell’ottica di un operatore

sociale capace di rilevare, intepretare e analizzare i bisogni del territorio in un momento

storico particolare e con l’intento di rilevare quelle azioni che favoriscono la

promozione di uno sviluppo sociale e civile equo e partecipativo.

L’individuazione dei valori, dei contenuti e della metodologia del Piano di zona

rappresentati in questo testo sono basati sulla raccolta e lo studio di materiali vari, utili

per comprendere il fenomeno. Si è fatto riferimento alla letteratura, alla legislazione, al

Piano regionale e quello locale nonché ad elementi di tipo storico o quantitivativo e dati

statistici. Sotto il profilo scientifico, si è fatto costantemente riferimento alle scienze

sociali e ai principali scritti delle discipline sociologiche, politiche, economiche e

giuridiche che hanno trattato la materia.

Va ricordato infine che, in sede di trattazione teorica, non si è mancato di osservare

che ai contesti che influenzano i quattro elementi chiave della definizione degli obiettivi

di una policy (politico, che influenza le finalità), sociale (che influenza i bisogni),

istituzionale e normativo (che determina i vincoli e le competenze), economico (che

concerne le risorse) corrispondono le quattro discipline più rilevanti nella valutazione

delle politiche sociali, ossia la scienza politica, la sociologia, il diritto e l’economia,

anche se, naturalmente, le corrispondenze sopra tracciate sono decisamente schematiche

e numerose sono le aree di sovrapposizione, a cominciare da quella sociologica.

L’approccio scientifico qui adottato pertanto è di tipo olistico ritenuto indispensabile

per affrontare la materia nella sua complessità oggettiva, al di là degli specifici ambiti

disciplinari.

7
8
CAPITOLO PRIMO

PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E ANALISI

1. La pianficazione sociale

L’uomo ha da sempre avuto la necessità di ricorrere ad una pianificazione razionale delle sue

azioni per risolvere i problemi della quotidianità. La pianificazione sociale, invece, come prassi

consapevole e volutamente indirizzata alla modificazione del sistema sociale per migliorare la condizione

esistenziale dei cittadini, è una conquista recente 1.

Gli effetti congiunti delle grandi trasformazioni strutturali intervenute nel sistema

sociale e l’emergere di una cultura più attenta alle esigenze dei singoli e dei gruppi

hanno indotto nella gestione delle politiche sociali nuovi modelli di welfare e

cambiamenti nei concetti e nelle categorie dell’aiuto alla persona e del servizio sociale

rivolto a gruppi e comunità.

La pianificazione sociale trova il suo luogo di eccellenza nel contesto delle

politiche sociali in generale tese a riequilibrare le disuguaglianze sociali e del welfare

locale integrato in particolare considerato come possibilità di assicurare il benessere ai

cittadini attraverso interventi sociali territorialmente adeguati.

L’origine della pianificazione sociale può essere ricondotta, dunque, a ragioni che

ricalcano i modelli idealtipici d’azione weberiani: essa, cioè «ha inzio da un problema,

o da un bisogno largamente sentito, o da un grosso malcontento o da una crisi» ossia

un agire razionale rispetto ad uno scopo. La pianificazione sociale in campo socio

assistenziale garantisce un nuovo modello di programmazione e progettazione di

interventi e servizi sociali, fondata sull’analisi puntuale del territorio, delle sue risorse e

1
BRUNI C., La pianificazione sociale nel quadro della teoria sociologica, in BRUNI C., FERRARO U. (a
cura di), Pianificazione e gestione dei servizi sociali. L’approccio sociologico e la prassi operativa,
FrancoAngeli, Milano, 2009, p. 11.

9
delle sue carenze, con il coinvolgimento della comunità nella realizzazione dei servizi

sociali, secondo un’ottica di sussidiarietà verticale ed orizzontale2.

Negli anni settanta con il termine di pianificazione sociale si indicava:

[…] la scelta di di una politica e di una programmazione sulla base di fatti, proiezioni nel futuro e
3
applicazioni di valori […] .

Quasi dieci anni più tardi Bailey (1975) lega la nascita della pianificazione sociale

in maniera inscindibile a quella della partecipazione, quando si passa dalla democrazia

rappresentativa a quella partecipativa. Se si affrontano i problemi nella loro totalità, il

pianificatore sociale ha a che fare con gli aspetti sociali dello sviluppo urbanistico,

sociale o economico e il fine è quello di promuovere lo sviluppo della collettività intera.

Per pianificazione, oggi, si intende un ampio processo concettuale ed operativo

che consiste nella fissazione dei fini e degli obiettivi di un’azione complessa, nella

definizione dei tempi entro cui raggiungerli e nell’individuazione dei mezzi e delle

risorse necessarie per attuarli4.

La pianificazione, dall’inglese planning, in ambito sociale rappresenza, a partire

dall’individuazione del problema alla determinazione degli obiettivi e al controllo dei

risultati, in fasi distinte e logicamente interconnesse, l‘intero processo concettuale e

operativo mediante il quale si prendono decisioni razionali relative a scopi e ad azioni

future. Essa si basa innanzitutto sulla capacità di definire lo stato attuale e quello

possibile dei bisogni reali e delle priorità. Alla base del processo di pianificazione vi è

una dimensione conoscitiva che richiede una scelta di obiettivi politici che tengano

conto delle tendenze, dei bisogni e dei valori di una collettività e che indichino una

2
Cfr. BRUNI C., FERRARO U., Pianificazione e gestione dei servizi sociali. L’approccio sociologico e la
pressi operativa, FrancoAgneli, Milano, 2009, p. 7.
3
KAHN A. J., Teoria e pratica della pianificazione sociale, Fondazione Zancan, Padova, 1974, p. 31.
4
MARSELLA A., Pianificare, valutare, comunicare. Metodi e strumenti del lavoro sociale, Armando
Editore, Roma, 2004, p. 17.

10
volontà politica capace di tradurre in programmi concreti le previsioni. Il processo di

pianificazione è collegato alla volontà di cambiamento, di modificare una certa realtà, di

produrre cambiamenti.

La pianificazione intesa come:

[…] la definizione di una politica e la sua realizzazione per mezzo di scelte razionali […]5

è da intendersi come la traduzione degli indirizzi d’azione in programmi che

specificano contenuti e procedure e offrono criteri di misurazione e di valutazione

dell’efficienza e dell’efficacia degli interventi messi in atto.

Per una corretta ed efficace pianificazione sociale, è necessario partire dall’analisi

dei bisogni e delle risorse disponibili, dalla valutazione dei valori condivisi, si passa poi

alla formulazione degli indirizzi generali per una programmazione locale adeguata, alla

sistemazione degli aspetti organizzativi, amministrativi e finanziari, per giungere infine

alla valutazione finale dei progammi e dei feedback.

L’obiettivo della pianificazione sociale è la creazione di una politica indirizzata

alla realizzazione di piani in grado di garantire adeguatezza tra politica e programmi,

continuità nei processi, integrazione tra servizi sociali, sanitari ed educativi, riforme e

sviluppo nei programmi alla luce dei bisogni effettivi, regolarizzazione delle priorità

nella destinazione delle risorse umane e finanziarie ed attuazione delle scelte idonee.

Con la legge n. 328 dell’8 novembre 2000 «Legge quadro per la realizzazione del

sistema integrato di interventi e servizi sociali» la pianificazione sociale e il Piano di

zona sono stati istituiti come strumenti formali di governance per la programmazione

integrata del sistema di servizi sociali e socio sanitari locali.

5
FALBO E., Servizi Sociali oggi. Politica sociale, programmazione, legislazione, Armando Editore,
Roma, 2002, p. 24.

11
2. La funzione della programmazione: attori, contenuti e obiettivi

Per realizzare i diritti sociali e per garantire a tutti i cittadini un livello di vita

dignitoso, occorre un metodo. La programmazione sociale, sotto questo profilo,

costituisce un validissimo aiuto per chi deve mettere in campo le risposte pubbliche alle

situazioni di disagio e sofferenza. Il sistema di welfare non può fare a meno della

programmazione, perché seguendo questo metodo è possibile individuare il luogo dove

si vuole arrivare e il percorso per raggiungerlo6. Programmare quindi per cambiare,

ridurre le differenze nella fruizione di beni comuni, nella costruzione del benessere in

tutte le sue molteplici componenti e del valore di un territorio; ma anche come segnale

di un progresso nella storia dell’uomo: lavorare nel presente per assicurarsi un futuro.

Ciò che tradizionalmente viene definito programmazione sociale è una

programmazione orientata a fini sociali. Alfred Kahn individua una pluralità di ambiti

applicativi per la programmazione sociale, dalla pianificazione di un servizio sociale al

coordinamento di servizi di comunità, ai piani di risanamento urbano, ai piani rivolti a

problematiche sociali, fino a giungere alla pianificazione degli aspetti sociali della

politica fiscale e di uno sviluppo equilibrato7.

[…] Nell’uso quotidiano i termini di programmazione e pianificazione vengono utilizzati nel senso
8
di pre-vedere qualche cosa ed in conseguenza pre-parare un intervento, pre-ordinare una strategia […] .

Alla fase della pianificazione sociale segue pertanto quella della programmazione

cui è affidato il compito di conseguire i risultati preconizzati dalla pianificazione stessa.

La programmazione indica la traduzione degli obiettivi, fissati in sede di pianificazione,

per mezzo di programmi, che consentono la loro concreta attuazione e la loro efficacia

6
Crf. CARLONE U., Introduzione alla programmazione sociale. Come, cosa, perché, Morlacchi Editore,
Perugia, 2014, p.11.
7
Cfr. SIZA R., Progettare nel sociale. Regole, metodi e strumenti per una progettazione sostenibile,
FrancoAngeli, Milano, 2002, pp. 17-18.
8
MERLO G., La programmazione sociale: principi, metodi e strumenti, Carocci Faber, Roma, 2014, p. 17.

12
operativa9. La programmazione sociale si riferisce ad interventi che hanno come

destinatario un intero sistema sociale, guarda al vivere sociale, investe il sistema

associativo e ne diventa il contenuto sostanziale e prioritario. La programmazione è

sostanzialmente uno strumento tecnico professionale e metodologico che consente

l’analisi dello sviluppo dell’attività progettata e la verifica della sua efficienza e

comporta l’assunzione di responsabilità in merito a decisioni di natura tecnica e politica.

La predisposizione di programmi sociali che accompagnano lo sviluppo, volti a

limitare gli effetti sociali della crescita e ad affermare priorità di ordine sociale,

consente di realizzare l’esigenza di destinare risorse a tutela delle classi sociali più

povere per favorirne l’integrazione. Ciò in un’ottica di politica sociale che affida la

risoluzione dei problemi sociali ad un compiuto dispiegarsi dello sviluppo ed interviene

ex post, selettivamente, su una minoranza decrescente di fasce sociali in situazione di

disagio e di bisogno escluse dai benefici della crescita economica.

In Italia la prima esperienza di programmazione si è avuta con l’introduzione del

piano quinquennale a cavallo degli anni sessanta, inteso a portare una trasformazione a

lungo termine nell’economia e nella società italiana. In quel periodo gli assistenti sociali

che operavano sul territorio con interterventi di sviluppo ed organizzazione comunitaria

parteciparono ad alcuni convegni internazionali sul problema della programmazione

sociale ed elaborarono nelle proprie organizzazioni istituzionali, le teorie

programmatiche, adattandole agli specifici contesti operativi. Ciò fu possibile perché la

formazione teorica e pratica di detti operatori era in parte orientata ad un rapporto con la

dimensione territoriale, quindi con l’esigenza di conoscere e valutare i bisogni e le

esigenze di specifiche realtà sociali, tenendo conto delle risorse economiche ed umane

necessarie per avviare il processo programmatico, organizzando e gestendo servizi

9
MARSELLA A., Pianificare Valutare Comunicare. Metodi e strumenti del lavoro sociale, Armando
Editore, Roma, 2004, p.17.

13
collettivi. Più recentemente, la stessa tendenza si è evidenziata nello sviluppo di sistemi

di informazione sanitaria e nei Piani sanitari nazionali e regionali, nell’avvio di piani e

progetti sociali e dei Piani di zona, anche a seguito dell’approvazione della legge quadro

sui servizi sociali.

Se nel passato la programmazione sociale poteva assolvere alla funzione di

coordinamento degli interventi statuali volti ad assicurare un livello minimo di reddito,

nutrizione, salute, abitazione ed istruzione, in un welfare mix il coordinamento statuale

attiene alla distribuzione delle risorse del welfare considerate nel loro complesso e nelle

pluralità degli attori che la esprimono. L’obiettivo è quello di individuare strumenti

programmatori capaci di accrescere l’autonomia e la capacità decisionale dei singoli

soggetti che compongono il sistema.

La programmazione sociale si muove, inizialmente, nell’ambito della

programmazione generale, ne condivide modalità e strumenti di coordinamento e

regolazione: intende orientare lo sviluppo sottolineando i limiti di una valutazione solo

economica della crescita, affermando priorità e azioni che non mettono comunque in

discussione il modello economico o urbanistico privilegiato ma cercano di limitare gli

effetti negativi del mercato e della logica economica, evidenziandoli e promuovendo

adeguati interventi. Il più rilevante ambito applicativo della programamzione sociale è

costituito dalla programmazione dei servizi sociali. Tale ambito ha trovato il suo

massimo sviluppo nella fase istituzionale delle politiche sociali come modalità

razionale, organica e democratica di coordinamento degli interventi pubblici. Si è

presentato come espressione di uno stato che intendeva proporsi in termini sempre più

inclusivi di nuovi diritti e nuovi bisogni intervenendo in ogni aspetto della vita sociale,

che organizza la sua azione per meglio svolgere la sua crescente funzione regolativa e

distributiva. Il suo sviluppo ha coinciso con la fase espansiva delle politiche sociali, la

sua crisi con il progressivo ridursi dell’intervento pubblico e il moltiplicarsi degli attori

14
della politica sociali. Oltre alla funzione prettamente programmatoria, riguardante

l’individuazione delle priorità e la distribuzione delle risorse del welfare, vi è

l’approccio promozionale che sollecita il dinamismo complessivo del sistema

orientandolo a relazioni sinergiche per accrescere l’autonomia e la capacità decisionale

dei singoli soggetti che compongono il sistema. Intende promuovere, in rapporto alle

specifiche richieste dell’utenza e del contesto, dei mix sinergici di risorse, combinazioni

intersettoriali più efficaci e reti composte dal mercato, dallo Stato, dal settore informale

e quello non profit. La programmazione sociale elabora nuove modalità decisionali, più

partecipative, più attente alle diseguaglianze sociali e promuove opportunità di

espressione e rappresentanza dei molteplici gruppi sociali. Come sostiene Pierpaolo

Donati, aiuta le persone a diventare membri attivi e produttivi della società,

privilegando modalità di erogazione dei servizi che accentuino non solo la

partecipazione degli utenti nel definire i loro bisogni, ma anche e soprattutto

riconoscano il ruolo che essi possono avere come partners attivi piuttosto che destinari

passivi di servizi e benefici.

Regioni e Province vengono chiamati a mettersi fra loro in relazione per attivare il

sistema di programmazione delle politiche sociali che la legge n. 328/2000 disegna e

che, sul territorio, si impernia sul Piano di zona. L’istituzione però non può limitarsi al

mero assolvimento dei compiti istituzionali nel dare servizi, ma li deve offrire in una

prospettiva di sviluppo sociale e civile, tenendo conto dei cambiamenti in atto nella

società: a tale compito debbono contribuire gli operatori sociali che per primi sono in

grado di rilevare le esigenze di tali cambiamenti, stante il loro rapporto con l’utenza10.

10
Cfr. CORTIGIANI M., Nascita e sviluppo della programmazione sociale, in MARI A., La
programmazione sociale. Valori, metodi e contenuti, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN),
2012, p. 37.

15
3. L’analisi dei bisogni nel contesto del Piano di zona

I bisogni, vecchi e nuovi, impongono una revisione critica dell’attuale sistema di

offerta costituita dai servizi sociali e socio sanitari, non sempre adeguata sotto il profilo

qualitativo e quantitativo e spesso non idoneo a fornire le garanzie necessarie perché i

diritti sanciti a vari livelli risultino esigibili. D’altro canto, è necessario sviluppare una

approfondita conoscenza della natura del problema sul quale si vuole agire e dei bisogni

della popolazione, prima di poter procedere ad una programmazione dei servizi.

Si comprende così bene come l’analisi dei bisogni sia uno strumento di supporto

alla decisione utilizzabile per l’allocazione delle risorse, la precondizione per il disegno

di politiche, servizi, progetti e lo sviluppo dei programmi e degli interventi nel campo di

tutti i servizi alla persona. Attraverso l’analisi si può effettuare una stima dei bisogni o

fabbisogni futuri con lo scopo di pianificare interventi e fronteggiare meglio l’avvenire

attraverso la previsione di un migliore utilizzo delle risorse che si rendono necessarie. In

tal senso questo strumento è particolarmente adatto e flessibile per l’avvio e lo sviluppo

di una pianficazione così come è intesa nei Piani di zona.

Il Piano di zona è l’occasione offerta alle comunità locali per leggere, analizzare,

valutare, programmare e guidare il proprio sviluppo; è lo strumento promosso dai

diversi soggetti per analizzare i bisogni ed i problemi della popolazione sotto il profilo

qualitativo e quantitativo. Un’accurata elaborazione del Piano di zona non può

prescindere, dunque, da un’attenta analisi dei bisogni. Il Piano di zona assurge così a

strumento territoriale di concertazione tra diversi attori per la fissazione di modalità

organizzative dei servizi e di forme di rilevazione dei bisogni e delle risorse. L’analisi

dei bisogni è un processo che consiste nell’identificazione e nella valutazione di quelli

che sono i bisogni (le esigenze, le aspirazioni, i desideri, le aspettative) di una comunità

o di un gruppo di persone

16
[…] Il Piano deve essere realizzato con la principale finalità di assicurare nuove e sostenibili risposte al

bisogno di interventi e servizi per la collettività, attraverso la definizione delle relazioni e dei diversi ruoli

che si devono instaurare fra i soggetti istituzionali che operano nell’ambito, e dei rapporti che questi

devono tessere con altri soggetti che, a diverso titolo, operano sul territorio, gestendo programmi e servizi

sociali […]11.

Lo sviluppo del servizio sociale va di pari passo con quello delle moderne

politiche sociali. Nelle moderne democrazie occidentali la responsabilità di

implementare le promesse di benessere contenute nelle Costituzioni vengono attuate

attraverso le politiche sociali; il ben-essere inteso come bene dell’uomo rimane

l’obiettivo dichiarato.

La natura dinamica o processuale del benessere, messa in luce da Maslow con la

scala dei bisogni, ha ben chiarito come, raggiunto uno stato qualsiasi di benessere, esso

tende a divenire inavvertito, quasi fosse una realtà ormai scontata, mentre subito si fa

avanti un nuovo bisogno12. I bisogni possono essere quindi graduati lungo una sorta di

scala gerarchica, partendo dai cosiddetti bisogni primari o naturali, legati alla

sopravvivenza fisica, per poi salire a quelli legati allo sviluppo personale/sociale, ossia

ai cosiddetti bisogni artificiali o culturali fino ad arrivare a quelli di eterorealizzazione.

Scopo principale dell’analisi dei bisogni è quello di individuare problemi, carenze,

aree di miglioramento, cause di disagio o disservizio, efficienze o inefficienze, sprechi,

elementi che possono pregiudicare il genuino sviluppo della personalità e delle

comunità umane. Si cercano in tal modo opportunità possibili sulle quali intervenire

successivamente attraverso azioni mirate che possono assumere forma di servizio,

prodotto, programma, progetto o politica.

11
BATTISTELLA A., Costruire e ricostruire i Piani di zona, in BATTISTELLA A., DE AMBROGIO U., RANCI
ORTIGOSA E. (a cura di), Il Piano di zona, Carocci Faber, Roma, 2004, p. 49.
12
Cfr. FOLGHERAITER F., Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete, FrancoAngeli,
Milano, 1998, p.87.

17
L’analisi dei bisogni è resa complicata dalla straordinaria complessità del concetto

stesso di bisogno. Secondo l’accezione più generale riportata nel dizionario di

sociologia di L. Gallino, con il termine bisogno si intende:

[…] una mancanza di determinate risorse materiali o non materiali, oggettivamente o soggettivamente

necessarie ad un certo soggetto (individuale o collettivo) per raggiungere uno stato di maggiore benessere,

efficienza o funzionalità – ovvero di minore malessere o inefficienza o disfunzionalità – rispetto allo stato
13
attuale, sia essa sentita o accertata o anticipata dal medesimo soggetto oppure da altri per esso […] .

Discipline come la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’economia si sono

cimentate lungamente con il tema del bisogno contribuendo a generare uno straordinario

numero di varianti di significato. Ciò che rimane centrale tuttavia è l’idea che i bisogni

siano ritenuti cause dirette o indirette dell’azione sociale, abbiano quindi una funzione

motivazionale che spinge ad agire. A livello di Piano nazionale degli interventi e dei

servizi sociali, la situazione di bisogno viene definita come criterio di accesso al sistema

integrato di interventi e servizi sociali.

Ma cosa è realmente e in relazione a quali elementi va definito un bisogno? La

definizione di bisogno e la modalità con cui esso viene percepito in una data collettività

varia nel tempo e differisce per culture e ambienti sociali. Variano inoltre i modi e le

strategie che vengono ritenuti più adatti per affrontare un dato tipo di bisogno, così

come le descrizioni di urgenza e priorità, estensione e gravità degli stessi e i

meccanismi che generano nuovi bisogni. Nel settore dei servizi sociali l’accezione piena

della nozione di bisogno delle persone e delle famiglie mette in crisi taluni meccanismi

di mercato che risolvono le relazioni sociali nei puri termini del calcolo utilitaristico;

per altro verso l’eccessiva attenzione posta sul bisogno rischia di innestare pratiche

assistenzialiste che creano deresponsabilizzazione, passività e comportamenti

13
GALLINO L., Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 2006.

18
opportunistici. Per tutto questo il processo di individuazione dei bisogni e, soprattutto,

delle scelte delle priorità di intervento è un problema fortemente politico e si

caratterizza di una marcata complessità etica.

L’individuazione dei bisogni sia a livello di società civile che di organizzazione è

un processo dinamico che deve tenere conto di due dimensioni: quella temporale basata

sull’interpretazione del passato e sui possibili sviluppi degli scenari futuri, e quella

sincronica relativo allo stato attuale del sistema, che mostra la complessità e

l’estensione dei bisogni attuali. L’individuazione e la descrizione dei bisogni richiede la

disponibilità di dati quantitativi statistici, che forniscono il quadro di riferimento sociale

ed economico e le possibili direttrici della loro evoluzione e di dati più soggettivi che

aiutano a comprendere le aspettative, i pregiudizi e le percezioni di singoli, gruppi e

comunità relativamente ai bisogni. L’interazione tra tutte queste dimensioni lascia

emergere un quadro di grande complessità la cui comprensione consente di ridefinire il

problema dei bisogni in modo innovativo. I risultati ottenuti dall’analisi dei bisogni

devono, infine, essere comunicati ai soggetti coinvolti nel processo di costruzione dei

Piani di zona, assodato che lo sviluppo di un Piano di zona e l’individuazione degli

obiettivi strategici e della programmazione nelle aree di intervento richiedono la

disponibilità di informazioni valide ed attendibili sulla natura, sulle caratteristiche e sul

livello di presenza di un bisogno nella popolazione target.

L’obiettivo ultimo dell’analisi dei bisogni è quello di aumentare la capacità

conoscitiva del decisore al fine di ridurre i margini di incertezza insiti in ogni processo

decisionale e orientare le azioni e gli interventi in campo sociale affinché essi

rispondano in maniera più congrua alle situazioni di bisogno rilevate nella popolazione

migliorando la qualità di vita dei cittadini.

19
20
CAPITOLO SECONDO

IL PIANO DI ZONA

1. La valenza del Piano di zona

Il Piano di zona è la più significativa innovazione nella realtà delle politiche e dei

servizi sociali del nostro paese degli ultimi decenni. La rilevanza e la portata innovativa

dei Piani di zona sta in primo luogo nell’aver superato un cronico limite dei primi attori

istituzionali delle politiche sociali, i Comuni, promuovendo l’azione sociale a sistema

integrato attraverso la costruzione di una rete di sicurezza e di protezione per cittadini e

famiglie che si trovano in condizione di fragilità e valorizzando ruoli di soggetti diversi,

all’interno di una logica di forte integrazione e collaborazione.

La legge n. 328/2000 colloca il Piano di zona al capitolo IV tra gli «strumenti per

favorire il riordino del sistema integrato di interventi e servizi sociali» e, nell'art.19,

affronta complessivamente significati, contenuti, funzioni strategiche, modalità di

approvazione dello strumento e soggetti che devono definire il piano.

L’art.10 della legge regionale n. 19/2006 stabilisce che:

il Piano sociale di zona ha durata triennale ed è definito dai Comuni singoli o associati, d'intesa

con le Aziende Unità Sanitarie Locali, sulla base delle indicazioni del Piano regionale e con la piena

partecipazione dei soggetti di cui all'articolo 4, comma 2, lettera c), che, attraverso l'accreditamento

o specifiche forme di concertazione, concorrono, anche con proprie risorse, alla realizzazione del

Piano.

Il Piano di zona rappresenta, dunque, una grande occasione di rinnovamento

nell’azione di governo per realizzare un welfare comunitario, valorizzando culture e

disponibilità partecipative e concertative, per sviluppare una partnership tra istituzioni e

cittadini, per una crescente condivisione di responsabilità di indirizzi, rischi ed esiti delle

scelte di politica sociale. La valenza del Piano di zona risiede anche nella possibilità di

realizzare la tanto auspicata integrazione fra servizi sociali e servizi socio sanitari in una

21
logica di concertazione fra soggetti autonomi e di pari dignità. Un ruolo fondamentale

nella costruzione del Piano di zona è attribuito al Comune, o meglio all’insieme dei

Comuni dell’ambito, che devono concertare la propria programmazione, dialogare con

l’Azienda Sanitaria Locale in una logica di integrazione operativa su scala territoriale,

farsi promotori di iniziative di mobilitazione di tutti gli altri attori locali, pubblici e del

privato sociale.

Al fine di promuovere la concertazione istituzionale, per i diversi livelli vengono

allora individuati i soggetti (Regione e Conferenza permanente per la programmazione

sanitaria e socio sanitaria, Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale e Conferenza

dei Sindaci, Direttore del Distretto e Comitato dei Sindaci di Distretto), e gli atti

programmatori (rispettivamente Piano sanitario regionale, Piano attuativo locale (PAL),

Programma delle attività territoriali (PAT), Piano sociale regionale e Piano di zona) che

essi devono produrre. Le funzioni e le attività di carattere socio sanitarie devono essere

programmate congiuntamente, cioè d’intesa tra Comuni ed Aziende Sanitarie Locali;

tanto gli uni che le altre debbono, infatti, impegnare risorse di varia natura per rispondere

ai bisogni che richiedono interventi sul territorio. La sussidiarietà orizzontale si realizza

quando l’Ente locale assume il ruolo di propulsore e regolatore di politiche e azioni

sociali ideate e attivate di concerto con gli altri attori del privato sociale radicati nel

territorio, facendosi garante nei confronti dei cittadini rispetto alle prestazioni erogate da

una molteplicità di attori sociali, che dovranno accreditarsi e mostrare di possedere

adeguati standard di qualità. Il ruolo dei diversi attori pubblici e privati può essere

ricondotto a tre sostanziali funzioni: una funzione di governo, una funzione di produzione

e una funzione di tutela e promozione dei diritti sociali. La funzione di governo del

sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli Enti locali, alle Regioni e allo

Stato; essa comporta una responsabilità programmatoria, organizzativa e gestionale del

sistema coinvolgendo altri enti e organizzazioni operanti nel settore sociale. La funzione

22
di produzione di servizi, interventi e prestazioni si sostanzia nelle attività che vanno dalla

gestione all’offerta dei servizi cui provvedono i soggetti pubblici nonché gli organismi

non lucrativi di utilità sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di

promozione sociale e altri soggetti privati. La funzione di promozione e di tutela guarda

al raggiungimento dei fini istituzionali (qualità della vita, pari opportunità, non

discriminazione, diritti di cittadinanza, solidarietà sociale ecc.), in una prospettiva di

affermazione e di riconoscimento sociale a livello tanto collettivo che individuale. Sulla

base delle indicazioni dei Piani nazionali e regionali i Comuni provvedono a definire il

Piano di zona volto a favorire la creazione di una rete di servizi e interventi flessibili,

stimolando le risorse della comunità locale ed individuando, al suo interno, obiettivi,

priorità, strumenti e mezzi. Il Piano di zona organizza i servizi, le risorse e definisce i

requisiti di qualità degli stessi anche attraverso forme di concertanzione con gli enti non

profit erogatori di servizi sociali, enuclea le modalità per garantire integrazione fra servizi

e prestazioni e attua la collaborazione tra servizi territoriali e soggetti che operano

nell’ambito della solidarietà sociale e della comunità locale. Il valore e il significato del

Piano di zona risiede nel fatto che costituisce un’occasione per veicolare una

impostazione nel governo delle politiche sociali orientata alla sussidiarietà sia verticale

che orizzontale, nella logica di fornire autonomia ed empowerment ai territori, con una

funzione regionale di indirizzo, stimolo, accompagnamento e promozione del

miglioramento continuo nello sviluppo della comunità locale14. Il Piano di zona realizza

un sistema integrato di interventi e servizi per la popolazione che vive su un certo

territorio chiamato ambito o zona, definiti dalle Regioni e coincidenti solitamente con i

Distretti socio sanitari, come auspicato dalla legge, dimensione necessaria per

l’elaborazione e l’approvazione del Piano di zona. Quasi tutte le Regioni identificano

14
Cfr. RANCI ORTIGOSA E., Valore e significato dei Piani di zona, in BATTISTELLA A., DE AMBROGIO U.,
RANCI ORTIGOSA E. (a cura di), Il Piano di zona, Carocci Faber, Roma, 2004, p. 37.

23
l’organo di governo del Piano di zona nel Comitato dei Sindaci di Distretto, organo

composto dai Sindaci dei Comuni dell’ambito territoriale con qualche possibile variante,

ad esempio l’aggiunta di altri membri quali il Presidente o l’Assessore della Provincia o il

Direttore Generale dell’Azienda sanitaria. Alcune scelte vengono effettuate localmente e

formalizzate negli accordi di programma che approvano i Piani di zona; con l’accordo di

programma più enti assumono come proprio il contenuto del Piano di zona, entrando a far

parte di un soggetto plurimo chiamato a governare i servizi di un territorio; si definiscono

altresì il ruolo, i diritti e i doveri di ogni soggetto e la regolazione interna delle relazioni

reciproche, dove tutti i soggetti coinvolti vanno sollecitati a comprendere il valore

innovativo del Piano, resistendendo alla tentazione di considerarlo un mero momento

distributivo di risorse.

Per poter avviare la programmazione zonale, ciascun ambito territoriale ha la

necessità di un’organizzazione operativa e gestionale, trattasi dell’ufficio di piano che

opera in in raccordo con l’organo di rappresentanza politica (l’assemblea dei Sindaci di

Distretto) e con l’organo di rappresentanza tecnica (il tavolo tecnico distrettuale) 15.

L’ufficio di piano è solitamente composto da responsabili dei servizi sociali dei Comuni

facenti parte dell’ambito, rappresentanti politici, tecnici delle istituzioni e della comunità

locale oltre ad almeno un rappresentante dell’Azienda sanitaria. L’integrazione

costituisce un punto focale del modello di intervento disegnato dal Piano di zona, in

quanto la complessità di molti bisogni richiede la capacità di erogare risposte fra loro

integrate. Questo comporta l’intervento di più professionalità fra loro organizzativamente

e culturalmente coordinate, l’accordo fra le istituzioni di riferimento e lo sviluppoo di

sistemi a rete.

15
Cfr. LAZZAROTTO L., Ruoli e funzioni dell’ufficio di piano, in BATTISTELLA A., DE AMBROGIO U., RANCI
ORTIGOSA E. (a cura di), Il Piano di …, cit., p. 67.

24
2. La costruzione del Piano di zona

È necessario adottare fasi precise e principi metodologici corretti per un percorso di

costruzione dei Piani di zona che sia adeguato al mutare dei bisogni sociali e alla

complessità dello scenario politico sociale.

Preliminarmente c’è da acquisire il consenso tra gli attori su finalità ed obiettivi da

raggiungere per poi mettere a punto le tecniche per conseguire quanto prefissato. Quando

sussiste il consenso tra i decisori sugli obiettivi da perseguire e le tecniche per intervenire

sono conosciute, si parte dall’analisi della situazione per definire vantaggi e svantaggi, si

definiscono le priorità, costi, risultati attesi secondo il metodo della progettazione

«razional-sinottico». Più complesso è il caso in cui vi sia un conflitto tra decisori sugli

obiettivi del progetto, ad esempio diversi soggetti portano avanti istanze tra loro in

contrasto rispetto a servizi con una lunga tradizione (assistenza domiciliare, comunità per

minori, servizi di segretariato sociale) o bisogna procedere ad una distribuzione di risorse

limitate; in questi casi è necessario arrivare ad una mediazione iniziale. Quando invece

sussiste un consenso sugli obiettivi ma manca nei decisori un’approfondita conoscenza

delle tecniche di intervento, è necessario assumere una logica sperimentale, votata a

definire un primo progetto da mettere alla prova per intervenire con successivi

aggiustamenti e ripensamenti; è il caso di progetti che riguardano servizi innovativi,

politiche mai intraprese e nuovi bisogni sociali16.

Il modello che supera l’approccio «razional-sinottico» è quello «incrementale», che

contrappone una pianificazione che privilegia la dimensione interattiva della decisione,

intesa come confronto/consenso/dissenso/negoziazione continua tra i soggetti in campo.

16
Cfr. RANCI ORTIGOSA E., Costruire e ricostruire i Piani di zona, in BATTISTELLA A., DE AMBROGIO U.,
RANCI ORTIGOSA E. (a cura di), Il Piano di …, cit., pp. 51-52.

25
Le fasi della costruzione dei Piani di zona sono principalmente quattro:

 la prima fase riguarda la costruzione della rete dei soggetti chiamati alla definizione

partecipata del Piano e alla individuazione del ruolo di ogni attore locale;

 la seconda fase di analisi dei bisogni e dell’offerta, consiste nella raccolta dei dati

sulla domanda e offerta di servizi per costruire la base conoscitiva su cui fondare le

decisioni sullo sviluppo della politica sociale integrata;

 la terza fase durante la quale si attuano le scelte strategiche e di priorità riguarda

l’analisi delle modalità di gestione dei servizi a livello integrato;

 la quarta fase di progettazione operativa e stesura del Piano, consiste nella

definizione dei contenuti e nell’allocazione delle risorse di ambito17.

È importante notare che la quarta fase, durante la quale si costruisce il vero e

proprio Piano di zona, non ha alcun senso se non inserita in un processo programmatorio

completo e se non attuata attraverso l’attivazione della rete dei soggetti chiamati alla

gestione integrata degli interventi e dei servizi.

Il contenuto del Piano, in linea di massima, potrebbe essere articolato in tre capitoli:

 capitolo I: il contesto socio economico del territorio, analisi della domanda sociale

e dell’offerta;

 capitolo II: gli obiettivi strategici e le priorità generali del Piano;

 capitolo III: il programma attuativo, le risorse finanziarie, le aree di intervento

(famiglia, infanzia e adolescenza, disabilità, anziani, immigrazione, contrasto

all’esclusione, alla povertà e alle dipendenze), il programma di formazione e

aggiornamento e la valutazione del programma attuativo.

17
Cfr. Ibidem, p. 55.

26
3. I riferimenti legislativi

In materia di organizzazione dei servizi sanitari e dei servizi sociali la riforma del

titolo V, parte seconda, della Costituzione ha introdotto importanti modifiche per quanto

concerne la ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regione; in sostanza

sono state decentrate le competenze politiche ed amministrative alle Regioni, alle

Province e ai Comuni, rispetto alle materie di cui all’art. 117 della stessa Costituzione,

materie che oggi vanno a confluire nell’area che attiene ai servizi sanitari, socio sanitari e

sociali. Il sistema istituzionale assicura alle Regioni le funzioni relative alla

programmazione, prevedendo un adeguato coinvolgimento dei Comuni, cui spetta la

gestione, ancorché indiretta, dei servizi, mentre allo Stato competono i poteri di

regolamentazione generale del sistema attraverso il Piano nazionale sociale.

L’intensa produzione normativa avviatasi a partire dagli anni settanta attiene da un

lato la sanità e dall’altro il sociale. La prima legge organica in materia sanitaria che

prospetta una programmazione articolata sul territorio è la legge n. 833/1978 istitutiva del

Servizio Sanitario Nazionale (SSN); tale legge, con le successive riforme avvenuta nel

1992 con il d.lgs. n. 502 e nel 1993 con il d.lgs. n. 517, avvierà una nuova gestione dei

servizi sanitari mediante la costituzione delle Aziende Sanitarie Locali (ASL) per poi

giungere alla riforma ter con il d.lgs. 229/1999 meglio conosciuta come legge Bindi.

Nella materia concernente i servizi sociali, putroppo, vi sarà una vacatio non solo

temporale ma anche in via sostanziale; lo Stato per quasi venti anni, non riconosce ai

Comuni una competenza in materia di politica sociale; la legge n. 328/2000 «Legge

quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali» colmerà

questa lacuna.

Con la legge n. 328/2000 gli Enti locali, organi di governo del territorio, diventano

responsabili non solo di amministrare ma anche di programmare e gestire tutti i servizi

sociali nel territorio di propria competenza. La detta legge fa esplicito riferimento alla

27
programmazione sociale come strumento politico, metodologico e tecnico atto a garantire

interventi organici di sviluppo sociale di singoli, gruppi e dell’intera comunità.

La legge n.328/2000, oltre a contenere norme esplicite per tutto il territorio

nazionale circa gli obiettivi di politica sociale dello Stato che devono essere perseguiti,

richiama le responsabilità regionali a recepire tali norme per il territorio di competenza,

ma soprattutto mette in evidenza che sono gli enti più direttamente responsabili di fronte

ai cittadini (Province e Comuni) che devono porre in rapporto gli indirizzi generali con le

esigenze della popolazione che amministrano. Il metodo di programmazione adottato è

quello della programmazione degli interventi e delle risorse, che deve necessariamente

passare attraverso la definizione degli obiettivi strategici, dell’operatività per progetti,

della verifica sistematica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni,

nonché della valutazione di impatto di genere.

L’intento della legge è quello di creare uniformità dei sistemi locali quanto ad

erogazioni di prestazioni e modalità di accesso alle stesse, ridefinendo la titolarità delle

competenze istituzionali per creare interventi capaci di misurarsi con aspettative e bisogni

mutati e sempre più complessi. Con la legge quadro n. 328/2000 si è infatti inteso

superare l’accezione tradizionale di assistenza quale luogo di bisogni che possono essere

soddisfatti sulla base di fondamenti categoriali ad una accezione di protezione sociale

attiva, luogo di esercizio della cittadinanza.

La ridefinizione delle politiche sociali secondo i principi di un moderno

universalismo selettivo orientato alla costruzione di un sistema integrato di interventi e

servizi sociali vede il coinvolgimento di più protagonisti, istituzionali e non: enti

pubblici, organizzazioni del Terzo settore, soggetti privati. Realizza un sistema

caratterizzato da livelli essenziali di prestazioni accessibili a tutti, in particolare a chi vive

in condizioni di fragilità sociale, un sistema finanziato per il tramite della fiscalità

partecipata nei costi dai cittadini secondo criteri di equità, con un ventaglio più ampio di

28
servizi ed opportunità e con percorsi personalizzati a misura delle persone e delle loro

famiglie. L’obiettivo è quello di promuovere politiche sociali che favoriscano lo sviluppo

sociale in termini di benefici occupazionali, fiscali e di servizi e dunque la crescita

complessiva del paese; coordinamento, concertazione, integrazione e cooperazione

diventano le parole chiavi per il governo della complessità del sistema.

Un rilievo importante è riservato all’imprenditoria sociale, che diventa così uno

strumento per accrescere, a fronte dei mutati bisogni delle persone e delle famiglie,

l’offerta dei servizi attingendo al Terzo settore.

Tradurre i risultati di un’analisi conoscitiva sui bisogni della popolazione nella

pratica operativa dei servizi non è certo un’operazione priva di complessità; consapevole

di questa difficoltà, il legislatore ha previsto all’interno della stessa legge n. 328/2000 uno

strumento ad hoc all’interno del quale l’analisi dei bisogni dovrebbe rivestire un ruolo di

primaria importanza al fine di definire gli obiettivi di intervento.

La legge quadro nazionale e la legge regionale n. 19/2006, in linea con il processo

di decentramento amministrativo e di attuazione della sussidiarietà, indicano il territorio

come sede di progettazione, gestione e controllo delle azioni finalizzate alla promozione

del benessere e della salute. Tale indirizzo ben si incontra nell’elaborazione del Piano

sociale di zona, primo vero strumento di programmazione che crea opportunità di

sviluppo del sistema locale dei servizi socio sanitari e sociali. In tal modo, si può

guardare alle politiche sociali e sanitarie come azioni di promozione e investimenti,

anziché solo in ottica riparativa e di intervento in situazioni di emergenza.

Si comprende bene dunque come il Piano di zona possa incrementare il benessere

della comunità locale attraverso un sistema di welfare in grado di sostenere,

accompagnare, promuovere le dinamiche di autosviluppo della persona, della famiglia e

delle comunità integrate.

29
4. La partecipazione del Terzo settore ai Piani di zona

È facile osservare che la legislazione e la programmazione sociale propongono con

sempre maggior frequenza i termini concertazione, consultazione, partecipazione, intesa e

accordo, che ovviamente non sono sinonimi, ma concorrono tutti a sottolineare

l’importanza di uno sviluppo delle relazioni fra più soggetti che si presentano come attori

sulla scena sociale. Uno dei principi caratterizzanti la legge n. 328/2000 è l’idea di un

vasto coinvolgimento di attori che operano nelle comunità locali nel processo di

programmazione, la cosiddetta progettazione partecipata intesa non solo in senso formale

ma anche sostanziale.

Il Piano di zona è lo strumento di programmazione locale delle politiche sociali che

si realizza con la collaborazione concertata di tutti i soggetti attivi nel territorio, incluso il

Terzo settore, intesa come compartecipazione alle decisioni in pari dignità con le

Amministrazioni pubbliche, cui spetta la titolarità della programmazione in qualità di

garanti ultime delle risposte ai bisogni/diritti dei cittadini.

Il tema della partecipazione e la rappresentanza del volontariato alle politiche di

welfare allargato non hanno molta letteratura e soprattutto non sono ancora

specificatamente esplorati dalla ricerca empirica, tuttavia sono oggi avvertiti in tutta la

loro importanza, sia a livello delle sedi nazionali di rappresentanza che a livello locale

dove le organizzazioni di volontariato si confrontano con nuovi istituti della

partecipazione previsti dalla legge n. 328/2000.

La missione del volontariato è quella di promuovere e sollecitare il protagonismo

dei cittadini nella partecipazione diretta e informata alla cosa pubblica per l’interesse

generale, assumerndosi una responsabilità nel welfare plurale e comunitario, anche in

termini di compartecipazione alle decisioni della politica sociale (policy making). Il

volontariato, pur essendo un fenomeno per sua natura composito e variegato al suo

interno, non può sottrarsi ad un ruolo di partecipazione diretta alla programmazione, alla

30
concertazione e alla coprogettazione, nonché alla valutazione delle politiche sociali del

territorio.

Nel nuovo sistema di welfare che si è andato delineando a partire dalla

modernizzazione operata nella seconda metà degli anni settanta attraverso la densa

stagione normativa cui si è accennata nel capitolo precedente, le diverse organizzazioni

non profit vengono prima considerate come attori complementari e poi come autori e

quindi negoziatori di politiche sociali.

Gli obiettivi di ben-essere possono essere perseguiti unicamente attraverso una

forte interazione ed integrazione delle risorse e degli intenti tra il Comune, prima unità di

governance del welfare locale, e gli altri soggetti che concorrono all’accompagnamento

della famiglia e dell’individuo lungo l’intero percorso di vita.

La legge n. 328/2000 all’art. 19 esprime la necessità di favorire e coinvolgere, in

tutte le fasi della pianificazione sociale, i soggetti non istituzionali attivi sul territorio,

quelli cioè appartenenti al cosiddetto Terzo settore e del volontariato, dando attuazione al

principio di sussidiarietà orizzontale e realizzando dei veri e propri tavoli locali di

consultazione.

Gli organismi rappresentativi del Terzo settore che operano nel territorio, in

particolare gli organismi non lucrativi di utilità sociale, gli organismi della cooperazione

e le organizzazioni di volontariato sono soggetti attivi nella programmazione,

progettazione e realizzazione della rete delle unità d’offerta sociali e socio sanitarie. Tra

questi, il volontariato ha un ruolo specifico rispetto agli altri soggetti non lucrativi; esso

consiste nella realizzazione di progetti innovativi e sperimentali, tali cioè che una volta

provata la loro validità vengono affidati a soggetti che possono svolgerli in modo

continuativo e professionale (cooperative o imprese sociali).

La partecipazione del Terzo settore nello spirito della legge n. 328/2000 di

confronto e partecipazione supera la tradizionale forma dell’affidamento o

31
convenzionamento per la gestione dei servizi e assume un vero e proprio significato di

partnership con l’Ente pubblico per la definizione del disegno complessivo del sistema di

welfare locale. All’interno del Piano di zona, per realizzare una programmazione dei

servizi e degli interventi sociali, i Comuni aggregano tutti gli enti pubblici e privati

presenti nel territorio che sono vicini ai bisogni della gente coinvolgendoli nella

concertazione e negoziazione.

In tal modo gli attori che intendono collaborare alla elaborazione e gestione del

Piano di zona sono chiamati ad assumere un ruolo propositivo, di condivisione e

responsabilità, come ben evidenziato nel rapporto di ricerca del Centro Servizi

Volontariato di Taranto.

Le modalità concrete di esercizio della programmazione partecipata sono tre: quelle

dell’informazione, quelle della consultazione attraverso la richiesta di pareri da parte

dell’Amministrazione pubblica ad uno o più organismi che considera rappresentativi del

volontariato organizzato, trova attuazione attraverso la cosiddetta consulta del

volontariato ed infine quelle della partecipazione intesa come atto di corresponsabilità ad

un processo decisionale. La forma di partecipazione prevalente del volontariato alla

decisionalità pubblica in tema di politiche sociali è la seconda (consultazione) 18.

Gli enti del Terzo settore sono chiamati a lavorare attivamente per la realizzazione

della rete dei servizi territoriali mettendo a disposizione anche proprie risorse. Il ruolo

che assumono i soggetti che aderiscono al Piano non è pertanto quello di avvallare,

supportare e concorrere a realizzare decisioni prese dall’ufficio di piano, ma riuscire ad

essere interlocutori preparati e validi che concorrono a ridefinire gli obiettivi posti nella

18
Cfr. Centro Servizi Volontariato di Taranto, Partecipazione delle organizzazioni di volontariato

alla programmazione locale delle politiche sociali per l’attuazione dei Piani di zona nella Provincia di

Taranto, Taranto, 2009 in http://www.fondazioneterzopilastro.it/wp-content/uploads/2014/12/2-

PIANIDIZONATARANTO.pdf

32
programmazione zonale, di concordare la definizione delle priorità di intervento, di

portare all’attenzione i nuovi bisogni del territorio precedentemente non presi in

considerazione.

Gli strumenti di collaborazione possono essere quelli che prevedono nuovi modelli

gestionali e sperimentali nell’ambito della rete sociale e le azioni comprendono anche

attività di tutela, interpretazione ed espressione sia dei bisogni sociali che delle risorse

locali, organizzazione delle attività di segretariato sociale, proposte di innalzamento dei

livelli di assistenza definiti dalla Regione, promozione e gestione degli sportelli di

cittadinanza, collaborazione ai progetti previsti nel Piano e determinazione dei parametri

di accesso prioritario alle prestazioni sociali e socio sanitari; attraverso queste azioni, i

soggetti del Terzo settore hanno potuto meglio esprimere le loro potenzialità non solo in

quanto enti attuatori di prestazioni, ma anche come soggetti direttamente chiamati ad

esercitare il controllo democratico e aumentare la legittimità delle scelte.

Il nuovo welfare deve poter contare sulla partecipazione del volontariato i cui

basilari valori sono la centralità della persona, il carattere partecipativo degli attori

comunitari, la concezione delle politiche sociali non ridotte a interventi curativi e

riparativi ma essenzialmente preventivi e promozionali e la qualità degli erogatori, delle

prestazioni e delle modalità di realizzazione dei servizi.

Un percorso, quello della progettazione partecipata, non certo privo di rischi e

difficoltà, come ad esempio quella delle diverse componenti del Terzo settore a esprimere

delle rappresentanze unitarie nell’ambito di vincoli amministrativi e burocratici spesso

troppo stretti date dalle scadenze ravvicinate di presentazione dei Piani di zona, ma che

certamente vale la pena di intraprendere per costruire modelli di risposte più originali e

creative ai bisogni e dunque più efficaci nel trattamento dei problemi complessi e delicati

che sfuggono ad una definizione ordinaria di routine.

33
34
CAPITOLO TERZO

DAL PIANO REGIONALE AL PIANO DI ZONA

1. Il Piano Regionale delle politiche sociali in Puglia

Il Piano sociale regionale è il principale atto di indirizzo con il quale la Regione

detta ai Comuni, che hanno la titolarità politica e gestionale nei settori delle politiche e

dei servizi sociali, i criteri di riferimento per la programmazione territoriale. La portata

rivoluzionaria del Piano sociale regionale sta nell’opportunità che questo strumento può

essere il volano per un welfare per lo sviluppo decisivo che coinvolge cittadini singoli e

associati, istituzioni, enti locali e forze sociali. Si passa così da un approccio al welfare

tradizionale che guarda alla tutela e, alla protezione, ai bisogni e alle risposte ad un

approccio che fa leva sulla promozione, sui diritti, sulla libertà e l’emancipazione.

La Regione Puglia, giova ricordarlo, è arrivata alla definizione del primo Piano

sociale regionale nel 2004, con tre anni di ritardo rispetto alla ridefinizione dei fondi

nazionali e quindi rispetto alla legge n. 328/2000. Questo ha consentito alla Giunta

Regionale di utilizzare tra il 2005 e il 2012 un tesoretto considerevole di risorse non

utilizzate, che ha permesso di dare copertura finanziaria alle programmazioni triennali

dei primi due cicli dei precedenti Piani sociali. Non è più stato così per il terzo ciclo di

programmazione, visto che il vecchio accumulo di risorse è stato gradualmente

utilizzato in Puglia per compensare la riduzione dei fondi prodottasi a seguito dei tagli

dei trasferimenti dal Fondo nazionale sociale da parte del Governo nazionale negli anni

tra il 2008 e il 2012.

Il Piano delle politiche sociali regionali 2013-2015 porta alla ribalta l’idea della

piena inclusione sociale per tutti, un welfare pugliese inclusivo, ovvero la possibilità di

costruire percorsi di emancipazione e di autoemancipazione dalle condizioni sociali,

economiche, individuali che portano all’esclusione e all’emarginazione, che costringono

al bisogno.
35
L’idea non è quella di rispondere ai bisogni sempre più nuovi e diversi che

emergono nelle fasce più deboli della popolazione, ma è la promozione di forme,

politiche e strumenti capaci di sostenere il protagonismo civile ed economico dei

cittadini ai processi comunitari di cambiamento, la liberazione delle persone escluse o a

rischio di esclusione dalle condizioni materiali, culturali, ambientali di precarietà; la

tutela e la protezione dei soggetti più deboli, esposti all’abbandono e agli abusi.

Il percorso che ha portato alla definizione del terzo Piano regionale delle politiche

sociali è stato condiviso, fin dal suo esordio, con il territorio; un intenso ed articolato

percorso di programmazione partecipata e concertata con il territorio e con i diversi

attori, istituzionali e non, necessario per la successiva stesura e l’attuazione dei nuovi

Piani sociali di zona 2014-2016.

Nella programmazione sociale regionale sono state introdotte diverse novità; tra

tutte, spicca l’introduzione di precisi obiettivi di servizio nell’area del contrasto delle

povertà, con l’attivazione in ogni ambito territoriale di un punto di pronto intervento

sociale (mensa sociale, alloggio d’emergenza per adulti senza fissa dimora, banco

alimentare, sportello sociale) e con la regolamentazione dei contributi economici in casi

di indigenza estrema.

Questi vanno ad aggiungersi agli obiettivi di servizio che già nel secondo Piano

regionale furono introdotti nel 2009; in tutta la Puglia ormai, ci si confronta con un

identico paniere di servizi essenziali.

Il welfare pugliese sceglie chiaramente e univocamente con questo terzo Piano di

sostenere e potenziare gli sforzi di protezione e di promozione sociale delle persone che

vivono in condizioni di fragilità e di disagio/marginalità, in alternativa ad un generale

quanto dispersivo obiettivo di contrasto al disagio puramente economico.

Per parte sua, la programmazione sociale regionale assume la finalità strategica

della rimozione delle cause che determinano povertà e rischio di esclusione e

36
marginalità per quei nuclei familiari e quelle persone che, a causa della carenza di

servizi, in specifiche fasi della vita o in presenza di particolari situazioni di bisogno,

sono sovraesposte rispetto al rischio delle nuove povertà: giovani coppie con bambini,

famiglie con anziani non autosufficienti, persone con disabilità, nuclei familiari

immigrati, donne sole con figli e persone a rischio di devianza.

Sono sei gli assi portanti della programmazione sociale regionale per il triennio

2013-2015:

1) sostenere la rete dei servizi per la prima infanzia e la conciliazione dei tempi di

lavoro e di vita familiare e sociale;

2) contrastare le povertà con percorsi di inclusione attiva;

3) promuovere la cultura dell’accoglienza;

4) sostenere la genitorialità e tutelare i diritti dei minori;

5) promuovere l’integrazione socio sanitaria e la presa in carico integrata delle non

autosufficienze;

6) prevenire e contrastare il maltrattamento e la violenza nei confronti delle donne e

dei minori.

Rispetto a ciascuna di queste priorità strategiche, si offre nel Piano regionale la

declinazione degli obiettivi specifici di intervento e dei risultati attesi con indicatori

puntuali, quando possibile, e degli obiettivi di servizio verso cui tendere nel triennio di

riferimento.

Sono stati riattivati, inoltre, i finanziamenti regionali per le attività di integrazione

scolastica e di trasporto scolastico per gli alunni disabili che frequentano le scuole

medie superiori, di competenza delle Province.

Sul versante della programmazione partecipata, viene introdotto, per la prima

volta, il patto di partecipazione per impegnare reciprocamente i Comuni e tutte le

37
organizzazioni del Terzo settore e le Organizzazioni sindacali più rappresentative in

ogni fase di vita del Piano sociale di zona.

Tra le altre novità, infine, criteri più stringenti sulla composizione dell’ufficio di

piano, l’organismo tecnico e gestionale della governance a livello locale, e la

compartecipazione dei Comuni ai servizi previsti nel Piano sociale di zona. Si tratta, ad

esempio, del trasporto e integrazione scolastica disabili, delle rette per minori fuori

famiglia,dei centri famiglia e servizi per le responsabilità familiari, degli interventi per

famiglie numerose e per l’area salute mentale e la prevenzione delle dipendenze19.

In ottemperanza alle previsioni della l.r. n. 19/2006 che disegna un sistema di

welfare plurale con responsabilità ed obiettivi condivisi tra i diversi attori sociali ed

istituzionali, si è proceduto all’individuazione ed attivazione di una apposita cabina di

regia regionale che si riunisce periodicamente, lungo l’intero triennio, per assicurare il

monitoraggio e la valutazione delle fasi del Piano nonché la necessaria partecipazione

alle eventuali fasi di riprogrammazione. Essa è composta, tra l’altro, dai referenti degli

ambiti territoriali, di altre istituzioni pubbliche coinvolte nella definizione ed

implementazione dei sistemi di welfare, delle Organizzazioni sindacali più

rappresentative ed organizzazioni del Terzo settore.

L’obiettivo del terzo Piano regionale della Puglia è il consolidamento del sistema

di servizi sociali e socio sanitari a livello regionale anche attraverso un maggior grado di

omogeneità tra i diversi ambiti territoriali, per scongiurare ogni possibile

discriminazione tra cittadini rispetto alle effettive opportunità di accesso ad una rete

integrata di interventi e servizi sociali.

19
Cfr. ASSESSORATO AL WELFARE DELLA REGIONE PUGLIA, Inserto speciale Piano Regionale Politiche

Sociali 2013-15, in “PugliaSocialeNews”, n.11, 2013, pp. 2-3.

38
Gli ambiti sono chiamati infatti ad assicurare reali competenze attuative, unica

garanzia di risposte concrete offerte alle comunità locali e alla platea dei beneficiari

finali e opportunità per costruire comunità solidali, contesti urbani connotati da un

migliore tessuto sociale e da una migliore qualità della vita.

Per quanto riguarda la sua struttura, il documento di Piano si articola in quattro

parti:

1) una prima parte dedicata alla descrizione del contesto socio demografico

regionale;

2) una seconda parte dedicata alla definizione delle strategie e delle priorità del

triennio;

3) una terza parte riservata alla ricostruzione del quadro complessivo delle risorse

finanziarie disponibili per il finanziamento degli ambiti territoriali;

4) una quarta parte dedicata, infine, al consolidamento degli assetti istituzionali e

organizzativo/gestionali.

In allegato al Piano sono rese disponibili:

 le principali statistiche descrittive delle variabili socio demografiche relative agli

ambiti territoriali;

 le linee guida per la stesura dei nuovi Piani sociali di zona;

 le tavole dei riparti per ambito territoriale relative a tutti fondi attribuiti al

finanziamento dei Piani sociali di zona.

Il Piano regionale si colloca nella dimensione dell’approccio proteso al

miglioramento della qualità della vita, delle condizioni di benessere e dell’efficacia di

presa in carico delle persone con fragilità, al fine dell’inclusione sociale dei soggetti

svantaggiati e in favore delle proprie comunità locali.

39
2. Le linee guida regionali per la programmazione territoriale e la stesura dei

Piani di zona

Una priorità fondamentale del Piano sociale è il superamento degli squilibri

territoriali in relazione all’offerta di servizi, alle opportunità di sviluppo sociale e

all’integrazione socio sanitaria. Il Piano sociale di zona deve esprimere i principi e gli

obiettivi che le linee guida regionali intendono valorizzare per quanto riguarda lo

specifico assetto della programmazione sociale locale. I contenuti, cioè i problemi da

affrontare nel Piano di zona sulla base di criteri unitari regionali, idonei a favorire

omogeneità nelle scelte strategiche fondamentali (priorità regionali), vengono

personalizzati nelle scelte locali, in una logica di sussidiarietà.

Parlare di programmazione sociale e governance significa delineare, da una parte,

le scelte strategiche e le misure regionali che intervengono per regolare le modalità di

intervento, i ruoli, le competenze e gli assetti relazionali dei soggetti che, a diverso

titolo, contribuiscono a realizzare le politiche di welfare sociale; dall’altra, guardare

parallelamente a come questi soggetti si muovono per definire i propri ruoli, confini e

relazioni, rendendo operative le scelte regionali e, contemporaneamente, sviluppando

riflessioni, strategie e azioni di fronteggiamento dei problemi e delle principali sfide

incontrate sui territori.

La definizione dei Piani sociali di zona quali strumenti attuativi del Piano

regionale a livello locale e gli strumenti operativi per l’esercizio concreto da parte dei

Comuni delle funzioni socio-assistenziali ad essi attribuiti dalla normativa regionale e

nazionale, avviene con la partecipazione di tutti i soggetti che sono parte attiva del

sistema locale delle responsabilità.

Il Piano Regionale delle Politiche Sociali, con la L.R. n. 19/2006, ha disegnato un

sistema di welfare plurale con responsabilità ed obiettivi condivisi tra i diversi attori

sociali ed istituzionali, favorendo la partecipazione dei cittadini singoli e associati alle

40
diverse fasi del processo di costruzione della rete locale dei servizi. Le linee guida

regionali valorizzano la governance sociale e ne delineano le strette relazioni con il

welfare di comunità, con il lavoro di rete, con il co-protagonismo e la co-responsabilità

dei soggetti sociali che operano su un territorio, allo scopo di superare una logica

prestazionale e riparativa dei servizi e degli interventi sociali e di attivare la comunità

nel prendersi cura dei suoi membri. In particolare, la governance del terzo Piano

Regionale delle Politiche Sociali è concepita come partecipata da tutti i soggetti

interessati, siano essi attori istituzionali o attori del partenariato socio-economico.

Per l’Amministrazione comunale di Taranto le scelte relative alla governance

rivestono carattere strategico e condizionano il funzionamento e la sostenibilità del

raccordo tra Enti pubblici, terzo settore e società civile organizzata nel triennio di

programmazione. Senza un’alleanza di fondo tra questi soggetti non è possibile né

raggiungere gli obiettivi regionali né, più in generale, costruire una politica sociale

locale che abbia come finalità il benessere delle persone.

Uno dei principali indicatori di efficacia per un sistema locale dei servizi è dato

dall’intensità e dalla qualità delle relazioni tra gli attori, elemento capace di agevolare i

processi e garantirne nel tempo la sostenibilità, generando capitale sociale, diffusione

della cultura della legalità e tutela dei beni comuni.

Gli allegati al Piano Regionale delle Politiche Sociali del triennio 2013-2015

recano le indicazioni operative sulla composizione e sul contenuto dei Piani sociali di

zona e delle relazioni sociali annuali, i riparti per ambito territoriale sociale delle risorse

finanziarie ordinarie e le tavole statistiche di analisi descrittiva del contesto

sociodemografico pugliese. Ogni Piano sociale di zona deve rispettare l’indice di

riferimento per la struttura come da linee guida regionali, in modo che lo stesso rechi gli

elementi di analisi e di proposta, gli strumenti di monitoraggio, le tipologie di azione, il

41
cronoprogramma e gli assetti organizzativi indispensabili per la configurazione del

sistema di welfare locale dell’ambito territoriale da realizzare, ovvero da consolidare.

In modo speculare rispetto alla struttura del Piano Regionale delle Politiche

Sociali, gli ambiti territoriali pugliesi redigono pertanto il rispettivo Piano sociale di

zona, in modo da illustrare compiutamente la lettura partecipata e condivisa dei

principali bisogni sociali e delle principali criticità nell’organizzazione delle rete dei

servizi, le azioni atte a rimuovere dette criticità e le azioni innovative, l’articolazione

della rete dei servizi per obiettivi di servizio, la composizione della dotazione

finanziaria di Piano e l’ottimale allocazione delle risorse disponibili.

3. Il Piano sociale di zona di Taranto

Il Piano sociale di zona di Taranto costituisce una vera e propria sfida al

cambiamento che ha comportato la necessità di un ripensamento del ruolo degli Enti

locali e della programmazione locale e regionale, per poter realizzare l’integrazione

delle politiche sociali con le politiche relative ad altri settori, in primis quello sanitario,

la cooperazione interistituzionale e la progettazione partecipata dei servizi fondata sulla

collaborazione attiva delle Associazioni di volontariato, del Terzo settore e dei

Sindacati.

Il Piano sociale, rilevate situazioni di bisogno estreme, riconducibili alla presenza

di disabilità, di povertà, di invalidità gravi ed esclusione sociale, che a loro volta

possono portare alla perdita del lavoro, all’interruzione dei rapporti familiari,

all’insorgenza di malattie mentali e all’esperienza di una reclusione o di una dipendenza

da alcool o stupefacenti, tenta di fornire risposte adeguate in termini di supporti

temporanei, mentre nei casi più gravi si rende necessaria un’azione concertata dei

diversi servizi ed una pluralità di interventi mirati; assistenza economica, alloggi

42
popolari, accoglienza protetta, inserimento lavorativo, cura, rieducazione e

reinserimento sociale.

È importante sottolineare che la povertà materiale spesso incrocia, quando non ne

rappresenta la causa, il circuito delle cosiddette «patologie della modernità» legate ad

una dimensione di povertà della sfera relazionale e dell’affettività.

È pure cambiato lo scenario sociale all’interno del quale si svolge l’azione delle

famiglie e il numero delle donne che lavorano, delle separazioni coniugali, delle

famiglie monoparentali, accanto al problema della disoccupazione e della precarietà

economica. La famiglia, negli ultimi anni, ha visto così modificare il suo tipico ruolo di

protezione sociale, riducendosi nelle dimensioni, nei consumi e nell’impiego del tempo

libero.

Per quanto riguarda gli anziani, cresce l’indice di vecchiaia a Taranto (circa 140,9

anziani ogni 100 giovani); essi chiedono risposte adeguate ai loro bisogni, servizi

domiciliari, assistenza sanitaria e socio-sanitaria domiciliare, servizi alternativi al

ricovero a causa della solitudine e ricoveri in strutture residenziali quando non è più

possibile la domiciliarità. Per tale ragione, nel Piano di zona viene attuato il

potenziamento dei servizi di cura per gli anziani, con specifico riferimento all’offerta di

assistenza domiciliare, servizio pasti caldi a domicilio, assegnazione di contributi ad

integrazione delle rette di permanenza in strutture residenziali.

Analogamente agli anziani, le persone con disabilità chiedono opportuni interventi

domiciliari e semi-residenziali, interventi di sollievo per le famiglie che se ne prendono

cura, servizi di accompagnamento presso strutture riabilitative, ospedali o

semplicemente per il tempo libero (taxi sociale).

Al disagio sociale che si vive nel capoluogo Jonico a causa della grave crisi

occupazionale e ambientale legata all’industria ILVA e al suo indotto, si aggiunge

l’emergenza abitativa che coinvolge molte famiglie tarantine per le quali lo sfratto è più

43
che un paventato rischio. Nel contrastare la situazione di povertà nella quale versano

molte famiglie di Taranto sono state erogate somme importanti a titolo di contributo

abitativo alle famiglie aventi i requisiti necessari per accedere al beneficio, le somme

sono finalizzate esclusivamente al pagamento del fitto. In aggiunta, come azioni di

contrasto alla povertà sono operativi altri tipi di interventi economici di natura

straordinaria come l’acquisto di farmaci non coperti dal Servizio Sanitario Nazionale,

contributi a famiglie numerose, contributi per la danneggiata categoria dei mitilicoltori,

il servizio civico che consente, a chi non lavora ed ha figli minori a carico, di percepire

la somma di 450 euro mensili per la durata di 6 mesi, l’assegnazione di alloggi popolari

e via dicendo. Per la città di Taranto è stato inoltre attuato un programma di recupero

urbano per la conservazione del Borgo antico, riaprendo i vicoli e mettendo in sicurezza

gli edifici abbandonati e in avanzato degrado, al fine di recuperare in primo luogo la

memoria storica dei luoghi che sono l’identità dei cittadini.

Le azioni contenute nel Piano di zona di Taranto si riconducono alle priorità

regionali di riforma del welfare tese ad accentuare lo sviluppo delle comunità locali e

l’alleanza tra attori pubblici ed attori della società, cittadini, famiglie, organizzazioni

private profit e non profit e parti sociali per la promozione delle opportunità e del

benessere sociale rispondendo più adeguatamente all’evoluzione dei bisogni.

Nel Piano di zona di Taranto trovano dunque attuazione apposite partnership in

campi strategici che diventano oggetto di progettazione sperimentale.

Gli attori coinvolti nel percorso di programmazione partecipata per la stesura dei

Piani di zona sono lo Stato, garante del principio di uguaglianza sociale; il mercato

(imprese e sindacati) che rappresenta le istanze di libertà di iniziativa; le associazioni,

come il Terzo settore organizzato, che rappresentano le richieste di solidarietà; i

cittadini e le famiglie che con le proprie reti informali di aiuto quotidiano assolvono a

funzioni di equità fra le generazioni.

44
Fulcro dell’intero processo è l’ambito territoriale sociale, titolare di tutte le

funzioni amministrative in area sociale, con particolare responsabilità nella promozione

e regia della costruzione del Piano.

Gli strumenti operativi per l’elaborazione del Piano sono il tavolo di

concertazione, luogo di lavoro comune al quale partecipano tutti gli attori sociali e

sanitari; i tavoli di lavoro suddivisi per aree tematiche (area disabili, area anziani, area

minori, area famiglia, area prevenzione e contrasto alla violenza–politiche migratorie,

area inclusione attiva, area politiche giovanili) e l’Ufficio di Piano per la redazione della

bozza del Piano e la definizione dei Piani d’azione e coesione (PAC).

Per ogni area tematica il Piano di zona rileva le criticità specifiche, ad esempio per

l’area famiglia si registrano l’aumento della fragilità delle famiglie monoparentali con

conseguente criticità nella gestione del ruolo genitoriale, elevati livelli di multi-

problematicità (dipendenza, non autosufficienza, malattie invalidanti, detenzione),

aumento delle separazioni e conseguente conflittualità, disoccupazione. Gli interventi

riguardano l’inserimento al nido, i contributi prima dote, rimborsi per spese di

frequenza, formazione e tasse comunali e sostegni economici. Sono previsti anche

interventi di taglio psico sociale ed educativo, con grande varietà di prestazioni che

vanno dall’affidamento familiare, al sostegno alla genitorialità, ad attività ludiche e di

animazione socio culturale.

Per l’area di prevenzione e contrasto alla violenza, si predispongono interventi a

favore di donne con assistenza sociale, sostegno psicologico e consulenza legale, oltre

alla gestione di case rifugio che ospitano donne e minori maltrattati.

Il numero di prestazioni più elevato viene registrato con riferimento all’area

contrasto per la povertà per l’elargizione di contributi economici, seguono l’area

dipendenze, poi l’area anziani unitamente all’area famiglie e gli interventi per i minori,

45
in coda l’area disabilità, i progetti di inclusione socio lavorativa e le prestazioni relative

alla salute mentale rivolte ai pazienti psichiatrici.

L’accesso diffuso ai servizi di qualità è un elemento fondamentale tuttavia,

nell’ambito di Taranto, emerge un quadro piuttosto eterogeneo in merito alle strutture e

servizi accreditati che offrono servizi socio assistenziali e socio sanitari a sostegno di

minori, disabili, anziani e persone con problematiche psico sociali. Molto sviluppato

risulta essere il sistema dell’offerta nell’area socio educativa con una maggioranza di

strutture autorizzate destinate ai minori (su un totale di n. 57 strutture ben n. 43 sono

destinate ai minori). Ciò si contrappone al progressivo aumento dell’aspettativa di vita e

alla notevole riduzione della natalità che inducono ad un aumento della popolazione

anziana. Per tale ragione, nel tempo sono state potenziate le Residenze Socio Sanitarie

Assistenziali (RSSA), le quali hanno assunto un ruolo crescente ed alternativo al

ricovero ospedaliero offrendo prestazioni di tipo socio sanitarie.

La strategia complessiva di programmazione del Piano di zona di Taranto è

imperniata sulla definizione di una serie di obiettivi di servizio verso cui tendere, con

l’individuazione di valori target che permettono un processo di valutazione delle

performance registrate.

Tra gli obiettivi di servizio si annoverano:

 il servizio sociale professionale e il segretariato sociale per l’accesso al welfare

tramite la Porta Unica d’Accesso (PUA) istituita presso il Distretto Socio

Sanitario di Via Ancona e l’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM),

équipe multidisciplinare con l’obiettivo di definire in modo complessivo lo stato

di salute di una persona anziana e/o disabile;

 i servizi domiciliari come il Servizio di Assistenza Domiciliare (SAD) che

includono il sostegno psico sociale e fisico, la preparazione dei pasti, l’igiene e la

cura della persona, il lavaggio e stiratura della biancheria, l’accompagnamento, il

46
disbrigo di pratiche amministrative e gli interventi domestici. L’Assistenza

Domiciliare Integrata (ADI) per persone anziane e disabili comporta l’assistenza

sanitaria a carico dell’Azienda Sanitaria Locale e le prestazioni socio assistenziali

a carico del Comune, l’Assistenza Domiciliare Educativa (ADE) viene erogata in

favore delle famiglie e dei minori disabili o a rischio di devianza o entrati nel

circuito penale, il SAD è rivolto a utenti con disabilità mentale (riabilitazione

psico sociale a carattere domiciliare), oltre al servizio di distribuzione dei pasti a

domicilio previsto solo per anziani impossibilitati a provvedervi autonomamente

per ragioni economiche o di non autosufficienza fisica;

 i servizi comunitari a ciclo diurno (centri aperti polivalenti per minori, per persone

anziane e per persone disabili, centri antiviolenza), i centri socio educativi per

minori e riabilitativi per disabili;

 i servizi per la prima infanzia (asilo nido) e sostegno economico (assegni di prima

dote per i nuovi nati, buoni servizio a favore di famiglie con minori, erogazione di

latte formulato in favore di minori nella fascia di età 0-6 mesi appartenenti a

famiglie che vivono situazioni di disagio economico), i centri ludici prima

infanzia;

 i servizi residenziali (Casa per la vita per persone con problematiche psico sociali,

Case rifugio per donne vittime di violenza, Comunità alloggio);

 interventi di contrasto alla povertà (contributi abitativi, contributi economici

straordinari, contributi finalizzati al superamento delle barriere architettoniche,

interventi per famiglie numerose, servizio civico, buoni servizio a favore di

famiglie con minori, tirocini formativi e borse lavoro per minori e pazienti

psichiatrici, contributi alternativo all’istituzionalizzazione, fornitura di farmaci

non coperti dal Servizio Sanitario Nazionale, sostegno ai mitilicoltori, alloggio

sociale);

47
 misure a sostegno delle responsabilità genitoriali inerenti ad affidi ed adozioni,

azioni a sostegno psicologico nei riguardi del minore affetto da patologie e della

sua famiglia, vouchers sociali per famiglie.

Il Piano di zona dedica spazio ai cantieri di innovazione per l’attuazione di nuove

politiche di welfare capaci di dare centralità alle comunità locali per lo sviluppo

economico, lo sviluppo urbano sostenibile e l’inclusione sociale, favorendo le pari

opportunità tra uomo e donna e la qualità della vita attraverso la conciliazione dei tempi

di lavoro, di relazione, di cura parentale, di formazione e del tempo per sé delle persone

residenti nell’ambito.

Una delle priorità del welfare pugliese è quella di dotare o consolidare sul

territorio la rete dei servizi e delle strutture di pronta accoglienza per alcune categorie di

persone (immigrati, senza fissa dimora, persone con problematiche di dipendenza, ecc.),

obiettivo perseguito anche dall’ambito di Taranto attraverso la candidatura e gestione di

alcuni progetti speciali, di cui il più significativo è il progetto «Taranto oltre confine»

che costituisce una rete di centri di seconda accoglienza destinata ai richiedenti e ai

titolari di protezione internazionale.

Il Piano è stato accolto dalla Regione Puglia senza alcuna prescrizione, ottenendo

il plauso del Dirigente del Servizio programmazione sociale e integrazione socio

sanitaria, in considerazione del fatto che l’importo pro capite del Comune di Taranto sui

servizi sociali è circa il doppio della media regionale.

48
CONCLUSIONI

A cosa servono i Piani sociali e i servizi di welfare? La risposta potrebbe essere

scontata. Il Piano di zona è lo strumento che ha determinato e permesso la rilevazione e

il potenziamento della rete dei servizi per promuovere opportunità e benessere sociale,

rispondendo più adeguatamente all’evoluzione dei bisogni.

Ciò nonostante, dopo la stesura di questo elaborato emergono alcuni spunti di

riflessione che avvalorano l’importanza di un approccio pragmatico alla

programmazione sociale territoriale per una diversa cultura del welfare.

Se si vuole comprendere a fondo la portata rivoluzionaria del Piano sociale si deve

necessariamente fare riferimento ad un modello di welfare per lo sviluppo che include

un metodo innovativo per la realizzazione dei servizi sociali.

Con il percorso partecipato di pianificazione sociale regionale e locale è

fondamentale l’idea della visione del proprio territorio quale fattore originario di ogni

trasformazione. La ragione per la quale si trasforma qualcosa non è solo il

soddisfacimento dei bisogni attuali ma è la necessità di realizzare l’immagine di sé e del

proprio gruppo/comunità/territorio/società proiettata nel futuro20.

Per scegliere una direzione da seguire, gli operatori sociali, gli amministratori

pubblici, i politici devono prima aver sviluppato un’immagine mentale di una

condizione futura auspicabile e desiderata del loro territorio (vision). Chi ha una visione

sa dove vuole andare (essa indica una precisa destinazione, e insieme una via da

percorrere), sa cosa vuole costruire e trasformare. Senza visione rischiamo di

interrompere il futuro, il futuro del nostro lavoro, il futuro del nostro territorio, il futuro

delle persone cui ci rivolgiamo con il nostro lavoro.

20
Cfr. FINIZIO M., Le linee del piano sociale regionale, in “Basilicata Regione Notizie”, n. 105, 2003, p.

54.

49
Tutto ciò non può limitarsi a considerare soltanto la mera realtà attuale spesso

peraltro modesta, ma guarda a quanto è ricco invece il suo potenziale; è nel potenziale

delle persone e della società che risiede la loro natura.

In questo ci viene d’aiuto la metafora della farfalla: quanto è modesta la realtà

attuale del bruco e quanto è ricco invece il suo potenziale futuro di farfalla! Sarebbe

giusto quindi aiutare le persone a vedersi e a pensarsi nella dimensione potenziale. Le

persone sono soprattutto le potenzialità che esprimono e non i problemi che presentano

in un dato momento. Il loro potenziale risiede dunque nella capacità di affrontare,

gestire o superare le difficoltà stesse. Ci aiuta a ricordare che l’operatore sociale,

l’amministratore pubblico sono promotori di farfalle e custodi di crisalidi, non assistenti

del bruco malato, e la qualità del lavoro sociale e politico si misura dalla quantità delle

farfalle che vediamo volare tra gli alberi dell’agorà21.

Al pari di una persona, il territorio, sia di ampiezza comunale, sia regionale, va

visto e spiegato nella dimensione potenziale, ossia nella prospettiva contenuta in una

visione. Un contesto territoriale ricco di opportunità e possibilità, dove non si costruisce

in maniera disarmonica e disorganizzata, ma dove si aprono nuove prospettive, le vie

dello sviluppo pianificato e condiviso. Anche qui il paradigma della metafora della

farfalla ci facilita la visione di un welfare di sviluppo orientato alla trasformazione fisica

o morale di una comunità al pari della metamorfosi che trasforma il bruco in

qualcos’altro; uno è il miracolo operato dalla natura, l’altro il progresso operato dalle

politiche sociali nella società.

Il potenziale di ricchezza sociale che risiede nel sociale, nella dimensione civile o

nella sfera pubblica, si può tradurre in cultura e sviluppo e non soltanto in mera crescita

economica.

21
Cfr., Ibidem, p. 55.

50
È questa, a mio avviso, la vera sfida del Piano di zona, una sfida per il

cambiamento per una società più equa e uno sviluppo più sostenibile per le future

generazioni.

Un Piano di zona visto come luogo di ideazione di nuove politiche di welfare,

piuttosto che mera realizzazione e gestione dei servizi sociali di una comunità,

concepito nella culla natia delle politiche sociali.

51
BIBLIOGRAFIA

Testi

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Siti

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www.csvtaranto.it
www.fondazioneterzopilastro.it
www.provincia.taranto.it
www.regione.puglia.it

Riviste

ASSESSORATO AL WELFARE DELLA REGIONE PUGLIA, Inserto speciale Piano Regionale Politiche Sociali
2013-15, in “PugliaSocialeNews”, n.11, 2013, pp. 2-3.
FINIZIO M., Le linee del piano sociale regionale, in “Basilicata Regione Notizie”, n. 105, 2003, p. 55.

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