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Capitolo 1 Come cambiano le politiche sociali europee?

di Lavinia Bifulco

in BIFULCO LAVINIA (a cura di), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Roma,
Carocci, 2005, (pagine: 13-36).

Il dibattito sulla fase di cambiamento delle politiche sociali che si è avviata in Europa dalla seconda

metà degli anni ‘90 converge nell’identificarvi alcune linee di fondo ma non registra un eguale

accordo riguardo alla natura e alla portata delle dinamiche trasformative implicate. A partire da

quanto sottolinea Gøsta Esping-Andersen rispetto al carattere “congelato” dei regimi di welfare, in

particolare di quelli dell’Europa continentale (Esping-Andersen, 1996), le analisi concentrate sulle

configurazioni nazionali tendono a evidenziare la continuità dei riassetti odierni rispetto alle

traiettorie istituzionalizzate nell’Europa occidentale del secolo scorso e alle relative linee di

differenziazione fra regimi o famiglie. Ma se l’attenzione si sposta su versanti diversi da quelli

nazionali, vengono in luce dinamiche che contraddicono questi aspetti di persistenza. Infatti,

l’osservazione dello spazio europeo del policy making fa registrare i cambiamenti che ne investono

sia gli strumenti e la struttura, sia i riferimenti normativi e cognitivi (Palier, 2000). Così come la

messa a fuoco dei cambiamenti interni ai sistemi nazionali di welfare fa emergere i processi di

ristrutturazione che in modo generalizzato stanno interessando, all’insegna della decentralizzazione,

le architetture di governo delle politiche sociali (Geddes, Le Galès, 2001).

Certo è che le materie sociali costituiscono oggi un campo di sperimentazioni di approcci e

strumenti relativamente inediti, non sempre collegati a specifiche riforme, che fanno intravedere

nell’insieme l’emergenza di una nuova stagione delle politiche sociali. Queste sperimentazioni

hanno agito e stanno agendo sulle forme di governo, sui meccanismi regolativi e sui problemi

oggetto d’intervento, delineando un quadro indeterminato e aperto a sviluppi e approdi variabili.

1
E’ bene perciò rinunciare subito alla pretesa di render conto in modo esauriente e sistematico dei

cambiamenti in corso. Fisseremo, piuttosto, alcune linee di tendenza che possano fornirci delle

chiavi di lettura su cosa cambia o è suscettibile di cambiare in questo quadro.

1. Lo spazio europeo

Cominciamo con l’osservare cosa accade nello spazio europeo che perimetra le cosiddette nuove

politiche sociali. Le dinamiche di rapporto fra livello sovranazionale, nazionale e subnazionale del

policy making che vi hanno corso sono caratterizzati dall’importanza crescente assunta sia

dall’Unione Europea sia dal “locale” (de Leonardis, 2003a) nella cornice della “governance

multilivello” (Leibfried, Pierson, 1995).

1. L’importanza europea va inquadrata da un lato mettendo a fuoco il campo sovranazionale più

generale nel quale l’Europa interagisce con diverse organizzazioni internazionali – per esempio, la

Banca Mondiale - e le pressioni di tipo adattivo che ne derivano verso l’adozione di soluzioni di

policy coerenti con le trasformazioni della società globalizzata; dall’altro lato, evidenziando la

spinta che l’Unione esercita sui paesi membri in direzione dell’armonizzazione delle politiche

sociali e dell’elaborazione di un “modello sociale europeo” (Guillén, Palier, 2004). In questo

quadro, l’Europa agisce come un filtro fra le pressioni globali e le strutture nazionali (Palier, 2000).

Soprattutto a partire dal Summit di Lisbona del 2000, questo ruolo ne ha accresciuto l’influenza

dando impulso a dinamiche di europeizzazione delle politiche sociali1.

Lo strumento principale su cui poggia l’influenza europea è il “Metodo aperto di coordinamento”

1
L’influenza che l’Europa esercita sulla base di norme e dispositivi legislativi è sia diretta sia indiretta. Nel primo caso
è ancorata alla cosiddetta legislazione “core”, anche di tipo secondario, come ad esempio le Direttive; nel secondo caso
alla legislazione cosiddetta “soft”, come ad esempio i Libri Bianchi (Guillén, Palier, 2004; Ferrera, 2004).

2
che punta a conciliare l’obiettivo dell’armonizzazione delle politiche sociali europee con il rispetto

delle specificità nazionali e regionali e con la valorizzazione di un approccio decentralizzato. A

questo strumento è affidato il compito di dare corpo ai due criteri cui è ispirata la costruzione di un

modello comune: la cooperazione e la sorveglianza reciproca fra i paesi membri. Si tratta, più

precisamente, di procedure sistematiche e formalizzate di monitoraggio e valutazione “incrociata”

finalizzate a sostenere processi di mutuo apprendimento di capacità e strategie di policy making, e a

vincolare questi processi all’elaborazione di linee di azione condivise2.

Il progetto di “Europa sociale”, nel cui ambito i paesi membri sono chiamati a coordinarsi

applicando queste procedure, ha già una storia relativamente lunga e complessa. Ci limiteremo a

evidenziare in modo sintetico le idee-guida centrali nei processi odierni della sua elaborazione.

Quelle sintetizzate dalle nozioni di sostenibilità e coesione sociale sono i due pilastri su cui poggia

l’intera architettura. Oltre le soluzioni neo-liberiste dominanti negli anni ’80 e fino almeno alla metà

degli anni ‘90, esse manifestano l’attuale orientamento europeo a confrontarsi sia con i problemi

economici indotti dalla competizione globalizzata, sia con i vecchi e nuovi problemi sociali almeno

in parte collegati, in particolare con quelli che cumulano svantaggi multipli nel campo del lavoro,

del reddito, della salute, delle condizioni abitative. Prende forma in questa cornice un progetto

europeo di sviluppo che pone l’accento sulla necessità di conciliare fra loro la competitività

economica e la coesione sociale; e assume rilievo il riferimento alla sostenibilità come parametro

volto a ridurre, compensare o evitare gli squilibri sociali, oltre che i rischi ambientali, indotti dallo

sviluppo. L’Unione Europea richiama infatti in modo insistito il peso equivalente che le politiche

economiche, le politiche del lavoro e le politiche sociali rivestono rispetto al modello di sviluppo

2
Il Metodo aperto di coordinamento è stato introdotto nel 1997 nel campo delle politiche del lavoro, con l’avvio della
Strategia europea per l’occupazione, e successivamente esteso alle materie sociali, soprattutto agli interventi contro
l’esclusione sociale (Ferrera, Matsaganis, Sacchi, 2002). Il dibattito sul suo impianto e sulle sue realizzazioni non manca di
analisi critiche; si veda per tutti De la Porte, Pochet (eds., 2002).

3
prescelto e le loro capacità di rinforzo reciproco3. In quanto inscritte in questa prospettiva, le

politiche sociali sono chiamate a creare un tessuto sociale includente, a sviluppare azioni che

ricostruiscano o salvaguardino il legame sociale di una collettività, salvaguardando

contemporaneamente le condizioni di sostenibilità economica di queste azioni4.

Lungo l’asse dell’europeizzazione tracciato dal rapporto fra coesione sociale e sostenibilità, viene

posta un’enfasi particolare sull’obiettivo dell’attivazione, un’altra idea guida dell’Europa sociale, e

sul passaggio connesso da politiche passive a politiche attive. Nel suo significato più generale,

l’attivazione sposta l’accento dall’inclusione intesa come risarcimento di uno svantaggio attraverso

sostegni al reddito, all’inclusione intesa come partecipazione alla vita sociale, prioritariamente,

anche se non esclusivamente, attraverso il lavoro (van Berkel, Møller 2001). Prende forza in questo

modo la tendenza a trattare la spesa sociale come un investimento per produrre inclusione, lungo

due direzioni principali spesso compresenti: come investimento sulle risorse individuali dei

destinatari, in direzione dello sviluppo di competenze e capacità per l’inserimento sociale e/o

lavorativo; e sulle risorse in dotazione ai contesti locali in cui in modo prevalente queste politiche

hanno luogo, in direzione della valorizzazione dei loro potenziali di interazione cooperativa.

Arriviamo per questa via a un’altra idea-chiave, la sussidiarietà, che già dai primi anni ’90 ha

contribuito a cambiare gli assetti regolativi e istituzionali delle politiche sociali, dando impulso al

processo di decentralizzazione territoriale. Nella sua duplice dimensione, verticale e orizzontale, la

sussidiarietà viene in primo piano nelle elaborazioni che accompagnano oggi il progetto sociale

europeo. Essa, infatti, è posta espressamente alla base del sistema multilivello di governo e

decisioni che impegna gli attori nazionali a sorvegliarsi reciprocamente e a coordinarsi nello spazio
3
Secondo uno schema di rapporto espresso graficamente da un triangolo (Geroldi, 2004).
4
Donolo (2002), de Leonardis (2003a). Va detto subito che su questo il dibattito registra posizioni divergenti, alcune
molto scettiche. Per alcuni approfondimenti sugli aspetti critici del rapporto fra competizione e solidarietà sociale si
vedano Scharpf (1999); Streeck (2000a); Giubboni (2003).

4
europeo e che, contemporaneamente, riconosce e valorizza i livelli locali di governo (sia regionali

sia locali in senso proprio). Inoltre, la sussidiarietà è coerente con il profilo territorializzato

dell’azione richiesto da politiche che mirano a conciliare coesione sociale e competitività e con il

rilievo che vi assume la possibilità di coinvolgere le comunità locali e le forme organizzate che ne

esprimono i potenziali cooperativi .

2. Sostenibilità, coesione sociale, attivazione e sussidiarietà costituiscono nell’insieme il

vocabolario di base dell’Europa sociale. E’ bene dire subito che gli effetti concreti di

armonizzazione che questo vocabolario consegue, se osservati dal versante dei cambiamenti che sta

imprimendo alla “sostanza” degli assetti nazionali delle politiche, in termini di struttura di spesa,

copertura ed entitlements (cioè di titolarità alla protezione sociale), sono controversi (Guillén,

Palier, 2004). Nonostante ciò, esso detiene ed esercita un potenziale performativo: istituisce spazi

discorsivi, veicola idee, riferimenti d’azione e modelli delle politiche5.

Occorre inoltre precisare che questo vocabolario - e il suo potenziale performativo - è in realtà in

larga parte un coprodotto di due assi dell’europeizzazione fra loro compenetrati e complementari;

oltre che dalla spinta all’armonizzazione delle politiche sociali, esso prende forza dalla composita

filiera di programmi e iniziative europee (come i fondi strutturali) che finanziano interventi sia su

materie sociali sia su materie ad esse contigue: fra le altre, lotta all’esclusione sociale, lavoro,

sviluppo locale, riqualificazione urbana. Questo secondo asse è perciò contraddistinto

dall’importanza della leva finanziaria; una leva che, come si intuisce, assegna in questo caso

all’Europa una considerevole capacità di pressione. Su queste basi, l’Europa agisce come un vettore

istituzionale particolarmente potente della diffusione di nuovi approcci di policy di profilo integrato

5
E’ questa la prospettiva dalla quale alcune analisi mettono a fuoco i processi, più generali, dell’integrazione europea;
vedi Surel (2000); Redaelli (2000). Questa prospettiva è al centro degli approcci di studio delle politiche pubbliche
che focalizzano in modo specifico le dimensioni culturali del policy making. Per una prima presentazione, si veda
Muller (2000), Sabatier, Schlager (2000); per alcune elaborazioni critiche si veda Laborier, (2003).

5
e localizzato (d’Albergo, a cura di, 2003). I diversi programmi sono, infatti, volti principalmente a

promuovere forme integrate d’azione e di governo su problemi che, per la loro natura cumulativa e

multidimensionale, hanno reso evidente l’inadeguatezza degli stili d’azione tradizionali, di stampo

settoriale e categoriale. E’ quanto avviene, per esempio, nel caso dell’esclusione sociale in ambito

urbano. Gli orientamenti e le sperimentazioni concrete in merito, presupponendo il carattere

composito del problema, enfatizzano la necessità che il suo trattamento corrisponda al requisito

dell’integrazione fra materie e fra interventi (Geddes, Benington 2001).

Sotto la spinta all’integrazione, i modelli e gli stili delle politiche sono sollecitati a cambiare lungo

due direzioni principali:

a) La domanda di integrazione agisce soprattutto nei confronti dei contesti locali e tende a farne la

scala privilegiata del trattamento dell’interdipendenza fra problemi e del coordinamento di attori.

Gli approcci integrati, in linea con il principio della sussidiarietà, assegnano perciò centralità al

livello locale (sia regionale, sia locale in senso stretto) e dinamizzano in questa direzione i rapporti

fra i diversi livelli e soggetti interessati dall’azione pubblica (de Leonardis, 2003a).

b) Viene incentivata l’adozione di logiche dell’azione amministrativa orientate al risultato (Donolo,

2002), in alcuni casi attraverso meccanismi di premialità. Si apre la strada in questo modo al

rafforzamento o all’introduzione di criteri e competenze tipiche dell’amministrare per progetti:

l'ancoraggio agli obiettivi; la responsabilizzazione sulla spesa e la capacità di attrarre risorse;

l’attenzione alla dimensione temporale; l’uso di procedure di monitoraggio e valutazione.

Lungo entrambe le direzioni, gli effetti di cambiamento che si innescano possono riguardare, oltre

che i settori direttamente interessati dai programmi, anche i sistemi locali di decisione e di azione

nel loro complesso. Sia i programmi su materie e target tipicamente sociali, sia quelli che

intervengono su materie e target contigui, veicolano stili d’azione che poi possono essere “travasati”

6
nella gestione ordinaria delle politiche, trasformandone l’impianto e gli arrangiamenti consolidati

(d’Albergo, a cura di, 2003). Perciò, essi sono suscettibili di promuovere e rafforzare capacità

istituzionali e processi di institution building .

3. Come si vede, i due assi lungo i quali l’Europa amplia e consolida il suo campo di influenza si

intersecano con un altro asse importante delle trasformazioni odierne delle politiche sociali,

identificato dalla tendenza alla loro localizzazione. Il rapporto fra il livello europeo e quello locale è

perciò caratterizzato da dinamiche di rinforzo reciproco. Questo rapporto è scandito da un lato da un

movimento dall’Europa verso i contesti locali, che sostiene l’importanza di questi ultimi come

spazi del disegno, del governo e dell’implementazione delle politiche sociali, soprattutto in quanto

volte all’obiettivo dell’attivazione e commisurate a criteri di integrazione. Dall’altro lato, da un

movimento dai contesti locali verso l’Europa, che fa perno sul ricorso a strumenti in grado di

promuovere linee di azione comuni e di sorvegliarne le realizzazioni. Nel campo di trasformazione

attivato da questo doppio movimento prendono impulso altre e più specifiche linee di tendenza che

fisseremo nei prossimi paragrafi. Qui occorre fare ancora alcune precisazioni preliminari; queste

dinamiche sono infatti più nebulose e complicate di come le abbiamo appena schematizzate.

Primo: per quanto non esclusivo, il livello nazionale resta cruciale ed è decisivo il modo in cui gli

orientamenti e gli assetti istituzionali che vi si esprimono filtrano gli indirizzi europei adottando

soluzioni di policy anche temporalmente differenziate. Riguardo all’Italia, ad esempio, le vicende

relative alla sperimentazione del Reddito minimo di inserimento, alla sua mancata messa a regime e

alle proposte successivamente in discussione sotto la voce di Reddito di ultima istanza si prestano

bene a illuminare la complessità implicata dalle interazioni fra gli attori nazionali e gli orientamenti

europei e dalle loro evoluzioni nel tempo. Inoltre, il legislatore nazionale stesso può contribuire a

istituire o rafforzare un assetto decentrato, come per esempio nel caso della riforma italiana

7
dell’assistenza varata nel 20006.

Secondo: l’importanza dei contesti locali rinvia anche ad altri processi, intersecati ma distinti

rispetto a quelli prima richiamati. Innanzitutto, rimanda agli esperimenti attuali di “rimessa in

squadra” della società a livello locale (Bagnasco, 2003), nel cui ambito le città tendono a emergere

come attori, come spazi cruciali della pianificazione strategica e della governance (Bagnasco, Le

Galès, 1997; Bagnasco, 2003). Questa tendenza, maturata nell’ambito della riorganizzazione su

scala interurbana della competizione nell’economia globalizzata, s’incontra con quella al

rafforzamento del ruolo degli amministratori locali registrabile in molti paesi europei, in alcuni casi

fondata su riforme della rappresentanza, in altri casi trainata dall’emergenza spiccata di una

dimensione territoriale in problemi che tendono a imporsi al centro dell’agenda politica nazionale7.

Terzo: il punto di fondo è che il quadro di policy in cui si sviluppano le dinamiche e i cambiamenti

in questione non è chiaro. Il dibattito odierno sottolinea con insistenza i tratti di ambiguità che

presenta lo stesso spazio europeo (Sbragia, 2000), collegati alla compresenza di logiche di azione e

di matrici di significato eterogenei, a volte incongruenti fra loro. Il modello sociale europeo è

tuttora l’espressione di un conflitto fra “attori economicamente orientati” che si ispirano a soluzioni

di mercato e “attori socialmente orientati”che provano a trovare le leve del rinforzo possibile fra

coesione sociale e crescita economica (Guillén, Palier, 2004; anche Scharpf, 1999). Avremo perciò

modo di confrontarci ripetutamente, in tutto il volume, con la pluralità delle prospettive in cui si

prestano a essere interpretati e declinati i temi al centro del discorso europeo.

6
La vicenda italiana si presenta particolarmente complicata, scandita com’è dal varo quasi in simultanea della riforma
dell’assistenza e della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione. Quest’ultima prefigura una
prospettiva di “devoluzione”, cioè di trasferimento di poteri legislativi e decisionali, nel caso specifico verso le
Regioni. Su questo si rimanda al cap. 4 nel volume.
7
Si veda, in Italia, il nuovo sistema della rappresentanza locale introdotto nel 1993, cui è collegata la nascita dei
cosiddetti nuovi sindaci. Per approfondimenti sul caso italiano si rimanda a Catanzaro, Piselli, Ramella, Trigilia (2002).
Un’ ampia analisi dei cambiamenti recenti dei governi locali europei è in Bobbio (2002c).

8
La coesione sociale stessa, in questa cornice, può essere intesa secondo due prospettive dissimili di

intervento sugli squilibri sociali: una mette al centro le disuguaglianze sociali e fissa queste ultime

come problema su cui agire per creare un “tessuto sociale ospitale”, “capace di supportare e

sopportare le differenze”; l’altra tende a trattare gli squilibri sociali come una minaccia all’ordine

sociale e può essere declinata attraverso approcci e interventi di tipo sicuritario (de Leonardis

2003a, pp. 21-22). Anche l’attivazione, come vedremo, è un ombrello sotto il quale stanno insieme

prospettive diverse: la partecipazione al lavoro, anche obbligata; la responsabilizzazione individuale

rispetto al proprio benessere e a quello dei membri della propria famiglia che si trovino in

condizioni di dipendenza; la libertà di scelta in quanto consumatori; la partecipazione alle scelte

pubbliche e l’autorganizzazione delle comunità locali. Queste prospettive intrattengono tutte un

rapporto stretto con il processo di individualizzazione che contraddistingue le società

contemporanee (Castel, 2003; Paci, 2004) e sono comunemente indirizzate a criteri di supporto

dell’agency dei destinatari. Ma questi criteri possono essere intesi in molti modi.

Dunque, le linee di azione emergenti in questo quadro sono ambigue e si prestano a forme ed effetti

di “traslazione”8 particolarmente variabili, tanto più in quanto fanno espressamente leva sulle

risorse d’azione e di scelta disponibili nei contesti locali. Dobbiamo attrezzarci da subito ad

assumere questa ambiguità come un tratto di fondo che impregna le politiche sociali odierne e come

una prima chiave di lettura importante per identificare alcuni terreni decisivi del loro cambiamento

2. Vecchi e nuovi quesiti della giustizia sociale

8 Il concetto di “traslazione” fa riferimento all’approccio sviluppato in Francia attorno ai lavori di Bruno Latour e
Michel Callon; si veda in particolare Latour (1996); Callon, Barthe, Lascoumes, (2001). Usato in questo contesto, esso
indica le dinamiche attraverso le quali un disegno o un indirizzo di policy viene tradotto nelle pratiche concrete. Per
un’applicazione del concetto alle riforme amministrative in Italia si veda Gherardi e Lippi (a cura di, 2000).

9
1. Da quanto rilevato finora, un terreno importante di cambiamento riguarda le idee, gli stili

d’azione e i valori incorporati nelle politiche sociali. Questo diventa particolarmente evidente se

osserviamo le dinamiche in corso nello spazio europeo dalla prospettiva dei paesi appena entrati

nell’Unione, focalizzando, ad esempio, le vicende relative alla lotta contro l’esclusione sociale. La

spinta a creare una visione comune attorno a questo tema forza questi paesi a creare un nuovo

vocabolario e nuovi criteri d’azione. Non si tratta soltanto di attrezzarsi con soluzioni appropriate

rispetto a un problema ma di elaborare sia i riferimenti concettuali che rendono quel problema

riconoscibile sia il repertorio di motivi sottostanti alla scelta di farne un target centrale (Lendvai,

2003)9.

L’europeizzazione delle politiche sociali mette perciò in gioco i nuclei ideali e normativi

sedimentati nei differenti assetti nazionali e amplifica le tensioni cui essi sono sottoposti per effetto

di altri fattori, all’incrocio fra globale e nazionale10. Con ciò, sembra anche riaffiorare quel legame

fra politiche sociali e “scelte di valore” che secondo Hugh Heclo (1981) è stato alla base della

costruzione del welfare state. Scelte relative a valori quali libertà, eguaglianza, sicurezza, che hanno

alimentato la discussione politica riguardo a come trattare rischi sociali alimentando

contemporaneamente il confronto e il conflitto fra idee diverse di “società giusta”. A partire dalla

fase di espansione del welfare state - il cosiddetto “trentennio glorioso”- questo legame è scomparso

dalla scena delle politiche sociali e il discorso politico sui valori è stato accantonato a favore di

9
Come rilevano Negri e Saraceno (2000), la centralità stessa di questo target è il frutto dell’influenza esercitata
dall’attore europeo. Resta il fatto che la nozione di esclusione sociale presenta molti elementi di ambiguità; su questo si
veda anche Castel (1996), Mingione (ed., 1996), Geddes, Benington (2001).
10
Queste dinamiche riguardano ovviamente anche gli assetti che da questo punto di vista sembravano più stabili, come
ad esempio i welfare scandinavi: si veda Johansonn (2001).

10
argomentazioni di ordine tecnico. Ma nella fase odierna, l’esigenza di costruire una visione

(politica) comune nel contesto europeo sembra riaprire la strada al discorso su valori e finalità come

terreno riconosciuto o riconoscibile di azione e di elaborazione delle politiche sociali; e sembrano

tornare di attualità in questo contesto i quesiti (politici) relativi a come progettare e realizzare una

società giusta - più o meno eguale, libera, sicura11.

2. I progetti di società giusta che hanno contraddistinto l’Europa del secolo scorso hanno dato

risposte differenti, a seconda dei paesi e dei periodi, a questi quesiti, ma hanno comunque concorso

a istituire un “nucleo duro” comune agli assetti nazionali della cittadinanza sociale, costituito dalle

misure che proteggono gli individui dai rischi cui sono esposti in quanto dipendenti dal mercato12.

Non possiamo approfondire qui le vicende di questi progetti, assai complesse; ma, per fissare

meglio il terreno di cambiamento che abbiamo individuato, è necessario dire qualcosa di più sulle

ragioni di giustizia incorporate in questo nucleo comune, richiamando in breve il vocabolario dei

diritti sociali che vi ha preso forza. Nella proposta di Thomas Marshall, padre fondatore di questo

vocabolario, quel che è in gioco nei diritti sociali è “tutta la gamma che va da un minimo di

benessere e sicurezza economica fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a

vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società”(1950, p. 8). Diritti ad avere

beni e diritti a stare nelle relazioni sociali13. Così precisati, questi diritti sono orientati a un tipo

specifico di eguaglianza: l’eguaglianza delle titolarità di accesso a beni e prestazioni per la

protezione sociale che è garantita dallo status di cittadino. In quanto associata alla redistribuzione di

11
Le dinamiche che interessano l’emergenza e gli sviluppi di uno spazio politico europeo sono al centro di una
riflessione molto ampia e più generale rispetto a quanto direttamente implicato dalle politiche sociali. Per una
discussione sul rapporto fra governance multilivello e democrazia si veda Trenz, Eder (2004).
12
O, usando un concetto ormai classico nella letteratura sul welfare, che ne realizzano la “demercificazione”. Il
concetto di demercificazione, che affonda le sue radici in Marx e Polanyi, è al centro della tipologia dei tre regimi
elaborata da Esping-Andersen (1990) e delle sue revisioni più recenti (Esping-Andersen 1999).
13
Marshall, come è noto, fa riferimento in particolare alla scuola e ai servizi sociali.

11
risorse, essa è un contrappeso potenziale alle diseguaglianze di reddito e ricchezza proprie della

società di mercato (Crouch, 1999). Tuttavia, più che sul versante redistributivo, gli assetti delle

politiche che l’hanno concretizzata hanno contato principalmente su quello

dell’istituzionalizzazione della protezione dai rischi sociali (Esping-Andersen, 1999; Castel, 2003).

Nelle loro linee generali e in una parte significativa delle loro realizzazioni concrete, i progetti della

cittadinanza sociale prevalenti in Europa hanno incorporato l’ancoraggio dei diritti sociali sia ai

beni sia alle relazioni sociali e il profilo di uguaglianza collegato. O, per riprendere Robert Castel,

hanno fatto riferimento all’idea di una società non di eguali, ma di simili “in cui tutti i membri

possono intrattenere delle relazioni di interdipendenza perché dispongono di un fondo di risorse

comuni e di diritti comuni”14. In quest’idea vi è perciò un rapporto stretto tra le condizioni

dell’indipendenza dell’individuo e le condizioni di riproduzione della società. Le risorse oggetto di

redistribuzione, infatti, sono “supporti per l’individuazione”, cioè il tramite per la realizzazione di

progetti di vita individuali messi al riparo dall’insicurezza e dalla dipendenza (Castel, 1995; Castel,

Haroche, 2000); proteggendo gli individui e consentendone la partecipazione alla società, esse

mediano la riproduzione della società: in questo senso di tratta di beni comuni.

I tracciati che hanno espresso questa idea sono accidentati e costellati di problemi. Sappiamo,

inoltre, che essi hanno impresso stampi differenziati ai sistemi nazionali di protezione sociale, più o

meno universalistici e più o meno capaci di rendere simili le società che concorrevano a

organizzare15. Tuttavia, un altro elemento comune è che ovunque lo sviluppo della protezione

14
Castel (2003, p. 34). Secondo Robert Castel, questo fondo di risorse e diritti comuni, indirizzato alla protezione dai
rischi, costituisce la “proprietà sociale” “un omologo della proprietà privata, una proprietà per la sicurezza ormai
messa a disposizione di quelli che erano esclusi dalla protezione che procura la proprietà privata” (ivi, p. 31).
15
Secondo linee di differenziazione del tipo di protezione che scandiscono tre varianti principali: quella universalistica,
quella occupazionale/meritocratica e quella residuale. A partire da queste varianti, la cui messa a fuoco risale a Titmuss
(1958), si è sviluppato un filone di studi comparati molto vasto e articolato sulle diverse tipologie di regimi, sistemi o

12
sociale e il rafforzamento della democrazia moderna si sono dispiegati in modo interdipendente

realizzando insieme i pilastri istituzionali dei diritti di cittadinanza 16. Da un lato, facendo sì che la

protezione si configurasse come parte integrante dei diritti alla base della cittadinanza democratica;

dall’altro lato, fornendo i presupposti e le condizioni materiali per l’esercizio di questa stessa

cittadinanza17. In questo senso, si è trattato non solo di ridistribuire rischi ed erogare beni per la

protezione ma anche “di ridistribuire poteri di scelta e di azione sui beni e sulla loro destinazione”

(de Leonardis, 2002, p. 75): di creare materie e spazi “di discussione circa le scelte e le azioni sulle

condizioni che riproducono la società” (ivi).

3. Da questo punto di vista, le articolazioni amministrative e organizzative del welfare state sono

state (e sono) spesso self-defeating. Basti pensare allo stampo paternalistico che esse hanno

manifestato nel trattare i loro destinatari come soggetti passivi, non come cittadini, titolari di diritti.

Lo stesso vocabolario della cittadinanza sociale, come è noto, non è esente da contraddizioni; in

quanto fondato sul linguaggio formale dei diritti, esso trascura le differenti capacità delle persone,

di essere e fare, dalle quali dipende l’esercizio effettivo dei diritti stessi 18.

Vero è che questo vocabolario e gli assetti che lo hanno istituzionalizzato sono da tempo “sotto

pressione” (García, in questo volume), per un groviglio di fattori fra cui ritroviamo le elaborazioni

famiglie di welfare, che qui non è possibile richiamare. Per alcuni riferimenti centrali nel dibattito si veda Esping-
Andersen (1990, 1999), Ferrera (1993, 1998), Castles (ed. 1993).
16
Questo rapporto di interdipendenza è basato, più precisamente, sul fatto che da un lato i diritti sociali si configurano
come diritti “abilitanti” rispetto ai diritti civili e politici (Nussbaum, 2002, p. 90; Saraceno, 2002c); dall’altro lato, solo
in un regime democratico i diritti sociali che riconoscono la protezione dai rischi e dalle vulnerabilità sono coerenti con
lo status di cittadino e con il suo ancoraggio alle tre componenti - civili, politiche, sociali - della cittadinanza. Con ciò,
in accordo con quanto sostiene fra gli altri Esping-Andersen (1999), sottolineiamo che il patto sociale fra stato e
cittadini alla base del welfare state ha come suo elemento costitutivo un regime di democrazia. Sembra dunque
fuorviante parlare di nascita del welfare state a proposito delle misure assicurative tedesche adottate sul finire dall’800
da Bismark.
17
Come sottolinea Colin Crouch (2003), la realizzazione della cittadinanza sociale ha contato anche come una
componente fondamentale di democratizzazione della politica (ivi, p. 90).
18
Il riferimento è ovviamente alle elaborazioni sviluppate in tema di capacità e diritti da Amartya Sen (1982, 1992).
Queste contraddizioni sono tanto più acute quanto più se, come nei sistemi di welfare dell’Europa centrale e
meridionale, i diritti tendono a essere configurati non come diritti individuali ma come diritti derivati, collegati cioè
all’appartenenza familiare.

13
critiche su questi risvolti problematici ma in cui pesano anche altri decisivi motivi. Anzitutto, pesa

l’emergenza di nuovi rischi e bisogni di protezione sociale indotti dalle trasformazioni intervenute

nelle società europee dagli anni ’80, in particolare nel mercato del lavoro, nelle strutture familiari e

nell’assetto demografico, oltre che collegati alla crescente presenza in Europa di migranti19. In

secondo luogo, pesano le scelte di policy che interagiscono con queste trasformazioni e con i

problemi che ne emergono. In queste scelte hanno spazio orientamenti, inscritti sia nella dimensione

nazionale sia in quella transnazionale, improntati dal progetto neo-liberista del “ritiro dello stato” e

volti all’introduzione del modello di mercato nelle politiche sociali e alla riduzione delle forniture

pubbliche. Si pensi anche all’obiettivo del risanamento dei bilanci e al peso che esso ha assunto

nelle agende nazionali sotto la pressione dell’Europa (economica) da Mastricht in poi; la

conciliabilità di questo obiettivo con l’idea-guida della coesione sociale al centro del progetto

sociale europeo rimane un interrogativo aperto nel dibattito politico e scientifico odierno.

C’è infine un altro campo di tensione, relativo agli spazi dei diritti sociali. Nell’Europa di una buona

parte del secolo scorso questi spazi erano nazionali: erano nazionali (statuali) le cornici in cui i

diritti erano riconosciuti, i fondamenti di legittimità alla loro base e le istituzioni che li

concretizzavano; ed erano nazionali le società che queste istituzioni contribuivano a plasmare e

organizzare. Oggi non è più del tutto così. Da un lato, come rileva Ferrera (2004), il processo di

integrazione europea ha anche dato impulso alla costruzione di uno spazio sovranazionale della

cittadinanza che si sovrappone a quella nazionale20. Dall’altro lato, come già accennavamo, assume

19
Come è evidente soprattutto nel caso del lavoro, queste trasformazioni sono interdipendenti con la crisi dei
meccanismi di regolazione che hanno costituito il cuore della società salariale. L’analisi dei nuovi rischi sociali è una
parte importante del dibattito sulle trasformazioni dei sistemi di welfare. Si veda in particolare Taylor-Gooby (ed.,
2004).
20
Secondo Ferrera (2004), questo processo, che ha concorso con la globalizzazione ad allentare il rapporto fra i diritti
sociali e lo spazio fisico e istituzionale dello stato–nazione sta evolvendo in direzione della configurazione dei diritti
sociali in termini di diritti aperti o multilivello.

14
un particolare rilievo la scala locale delle politiche, in particolare in alcuni ambiti di intervento.

Entrambi i processi sono cruciali rispetto al profilo della cittadinanza sociale, ma non è chiaro come

e con quali effetti si combinino fra loro.

Per fare il punto: lo spazio dell’elaborazione di una visione comune attorno a un modello sociale

europeo fronteggia problemi e assetti radicalmente diversi da quelli attorno ai quali hanno preso

forza le scelte di giustizia sociale elaborate nel corso del Novecento. In particolare: a) è cambiata e

sta cambiando la società, con da un lato l’insorgenza di nuovi problemi, dall’altra lato l’emergenza

della società locale come scala appropriata per la loro soluzione; b) non sono chiari i rapporti che

questo spazio intrattiene con altri spazi e attori che spingono verso l’adozione di soluzioni di

mercato; c) è indebolito il fondamento statuale dei diritti di protezione sociale ed è ridimensionato il

ruolo del soggetto pubblico.

Perciò, è difficile dare risposte, tanto più se condivise, ai vecchi e nuovi quesiti che in questo

spazio vengono in evidenza: Come si riformulano diritti e obbligazioni della cittadinanza sociale?

Sulla base di quali parametri di giustizia sociale? Rispetto a quali beni e poteri? Includendo/

escludendo chi? Vecchi e nuovi quesiti della giustizia sociale, che riemergono come terreno di

elaborazione, conflitti e scelte politiche proprio perché è maturata la crisi del repertorio consolidato

di significati e dotazioni della cittadinanza sociale.

4. Nel volume, questo ritorno delle politiche sociali al rapporto manifesto con questioni di giustizia

sociale rimane solo un’ipotesi. Ma da qui ricaviamo, in ogni caso, una chiave di lettura importante.

Bisogna mettere a fuoco la dimensione culturale - cognitiva e normativa - delle politiche sociali;

detto altrimenti, la loro dimensione istituzionale, nella direzione tracciata dai diversi filoni di

studio che della vita sociale concettualizzano e analizzano le cornici di significato che la fissano e

15
la mettono in forma 21. Seguendo questa direzione viene in evidenza la “densità normativa” di cui

è permeato per intero il mondo delle politiche sociali, il loro disegno come le pratiche della loro

implementazione (de Leonardis, 2002); questo mondo, infatti, è costituito di istituzioni, di scelte e

azioni in materia di giustizia sociale (ivi). Per questa via, perciò, illuminiamo anche il potenziale

generativo delle istituzioni e delle organizzazioni delle politiche sociali, all’opera nei processi di

“costruzione sociale” che vi hanno corso: nelle interpretazioni e nelle classificazioni dei problemi

che esse trattano, nelle valutazioni riguardo a chi debba o possa accedere a una misura, nelle

definizioni relative a quali siano le risposte appropriate.

3. Pubblico e privato

1. Un altro terreno decisivo di cambiamenti, appena intravisto, riguarda i rapporti fra pubblico e

privato. I welfare states dell’Europa occidentale del secolo scorso hanno implicato dovunque un

qualche grado di monopolio pubblico-statuale nella produzione di beni e servizi e nelle decisioni

relative22. Siamo arrivati alle soglie del nuovo secolo assistendo alla fine di questo monopolio e

all’affermazione di assetti variabili di welfare mix, che in diverso modo fanno leva su miscele fra

pubblico e privato (de Leonardis, 1998).

Nell’evoluzione di questi assetti, rivestono un ruolo centrale due tendenze collegate e coerenti con il

21
Si veda de Leonardis (2001), Donolo, (1997). I filoni incentrati sullo studio della dimensione istituzionale della vita
collettiva sono molti e fra loro eterogenei. Ci limitiamo a segnalare i contributi di approccio neo-istituzionalista
raccolti in Powell, DiMaggio (eds., 1991) e i lavori di James March e Johan Olsen, in particolare March, Olsen (1989).
Altri riferimenti verranno precisati in alcuni dei capitoli che seguono.
22
Anche nel sistema di welfare italiano, nonostante lo stampo ”particolaristico-clientelare” che ne distingue l’impianto
originario (Paci, 1989).

16
passaggio, in questo campo delle politiche come in altri, dal government alla governance23. La

prima è l’introduzione di condizioni di mercato nella produzione di beni e servizi sociali,

realizzata nell’ambito della “commercializzazione” (marketization: Crouch, Eder, Tambini, 2001) e

normalmente associata alla riduzione delle funzioni pubbliche di erogazione e gestione diretta a

favore di soggetti privati24. La seconda è l’apertura dei processi di policy making a una pluralità di

attori e organizzazioni, pubblici e privati, e la diffusione conseguente di stili negoziali delle azioni

pubbliche e di strutture di tipo partenariale.

E’ noto come la commercializzazione europea sia collegata in particolare all’affermazione nel

Regno Unito del New Public Management (NPM) e alle riorganizzazioni amministrative che esso

ha ispirato a partire dagli anni ‘8025. Essa mantiene perciò ancora oggi un collegamento forte con la

filosofia pubblica distintiva di quell’ambiente di policy. Ma un primo aspetto da sottolineare è il

fatto che i cambiamenti collegati alla governance si presentano oggi generalizzati in Europa,

intrecciandosi con le trasformazioni innescate dalla decentralizzazione. La diffusione del modello

del NPM in paesi caratterizzati da culture e orientamenti differenti rispetto al suo contesto

d’origine segnala perciò gli effetti di processi isomorfici, sia di tipo imitativo, sia collegati alla

pressione esercitata dall’Europa, come indica ad esempio l’obbligo a realizzare partnerships


23
Precisiamo subito, a scanso di equivoci, che governance è una nozione-ombrello. Anche nel dibattito scientifico
viene intesa in modi differenti; Rhodes (2000) ne rintraccia sette definizioni, fornendo con ciò una cassetta degli attrezzi
molto utile per orientarsi sul tema. Per una discussione di ampio respiro sul concetto e sui fenomeni implicati si
rimanda ai contributi raccolti in Pierre (ed., 2000).
24
Come rileva Colin Crouch, così definita la commercializzazione comprende processi più generali di quelli implicati
dalla privatizzazione che in senso stretto è definita dal trasferimento di risorse della proprietà (Crouch, 2003).
Condizioni di mercato possono infatti sussistere anche in assenza di proprietà privata; ad esempio, quando in un settore
pubblico viene adottato un sistema di prezzi e tariffe con l’obiettivo di creare un meccanismo competitivo fra diverse
amministrazioni. Il presupposto è che “la qualità dei servizi pubblici migliorerà se la prassi corrente e l’etica tipica del
servizio pubblico saranno parzialmente rimpiazzate da quelle proprie delle attività commerciali” (ivi, p. 91).
Ciononostante, come sostiene sempre Crouch, la commercializzazione, oltre a comportare di frequente la riduzione
della fornitura pubblica diretta, può aprire la strada alle privatizzazioni vere e proprie.
25
Nelle sue linee più generali, il New Public Management è un insieme di criteri di riforma delle amministrazioni
pubbliche volte a favorire lo sviluppo di strumenti di mercato in settori in precedenza caratterizzati da monopolio
pubblico e l’applicazione di metodi gestionali di tipo aziendale. Per una presentazione d’insieme, si rimanda a Clarke et
al.(2000); Christensen, Lægreid (2001); Pollitt , Bouckaert (2002),

17
pubblico-private previsto dai programmi comunitari. Un secondo aspetto da sottolineare è che,

pur trattandosi di tendenze comuni ai diversi paesi europei, esse vi assumono forme e implicazioni

dissimili. Ad esempio, mentre la commercializzazione in atto nei paesi scandinavi non sembra

avervi messo in questione la centralità del soggetto pubblico, pur ridefinendone il ruolo, in Gran

Bretagna ne risulta rafforzata la dominanza del mercato (Ascoli, Ranci, 2002b)

2. La governance, in effetti, comprende prospettive e pratiche eterogenee. A partire dalla

diffusione di rapporti negoziali fra soggetti pubblici e privati, for profit e non profit, la

commercializzazione registra lo sviluppo sia di formule centrate su meccanismi di mercato e

l’istituzione collegata di sistemi di “competizione amministrata” e di “quasi mercati”26; sia

l’espansione di formule che puntano su logiche di tipo cooperativo e danno risalto al ruolo specifico

che gli attori non profit possono rivestire in questa direzione. Formule di tipo competitivo prendono

piede in particolare nella sanità, normalmente ispirate alle riforme del sistema sanitario inglese

realizzate dal governo conservatore negli anni ‘90; le altre sono invece più diffuse negli interventi

di natura socio-assistenziale. Si tratta, però, di distinzioni approssimate; abbondano, infatti, le

miscele, come segnalano gli stessi quasi-mercati istituiti nella sanità inglese (Klein, 2001).

Su queste basi, la tendenza alla riduzione della fornitura pubblica diretta può in generale seguire due

modelli principali (Ascoli, Ranci 2002a). Essi differiscono a seconda che mettano al centro

l’esigenza di aumentare la domanda privata di servizi e di accrescere la libertà di scelta dei cittadini,

conferendo a questi ultimi funzioni di acquisto (modello guidato dalla domanda); oppure quella di

potenziare l’acquisto da parte dei soggetti pubblici di prestazioni fornite da soggetti privati

nell’ambito di rapporti di tipo contrattuale (modello guidato dall’offerta). Nella molteplicità di

26
I termini “competizione amministrata” e “quasi mercati” , normalmente usati come fra loro equivalenti, identificano
modelli di coordinamento basati sulla separazione fra acquisto e fornitura, sulla competizione fra fornitori, pubblici e
privati, e sulla regolazione pubblica dei meccanismi di concorrenza. Sui quasi mercati un riferimento di base è Le
Grand, Bartlett (eds., 1993).

18
arrangiamenti che normalmente traducono e mescolano questi due modelli, variano gli spazi, il

grado e i parametri di responsabilità che vengono riconosciuti ai soggetti pubblici in rapporto a

quelli riconosciuti ai soggetti privati. In questa molteplicità possiamo ritrovare forme di

condivisione di responsabilità, progettuale oltre che finanziaria, su obiettivi e interessi collettivi, ma

anche forme di riduzione marcata delle funzioni pubbliche di indirizzo e scelta politica.

Le alternative al monopolio pubblico della fornitura di beni e servizi sociali, quali che esse siano,

sono collegate all’emergenza di ambienti dell’azione pubblica complessi e tendenzialmente a bassa

integrazione. Si scompaginano, infatti, i rapporti istituzionalizzati fra attori pubblici e privati,

venendo meno l’esclusività delle logiche di autorità, tipiche della gerarchia, a favore di logiche di

tipo negoziale. Inoltre, come ci ricorda il vocabolario della governance con la sua insistenza sulle

dimensioni “multilivello” e “multisettoriale”, le relazioni fra istituzioni pubbliche con competenze e

poteri diversi si intensificano e tendono anch’esse ad assumere forme negoziali.

La governance solleva perciò, in generale, il problema del coordinamento della pluralità di attori e

istituzioni coinvolti nelle azioni e nelle decisioni pubbliche (Le Galès, 2002). Nell’ambito degli

approcci e delle pratiche di policy, i modi in cui questo problema viene affrontato sembrano

collocarsi in un continuum delimitato da due prospettive opposte. La prima pone l’accento sul ruolo

delle istituzioni politico-amministrative; questa prospettiva porta in primo piano, più precisamente,

le amministrazioni locali, ridisegnandone le funzioni sulla base di compiti di “regia” e di

“enabling”. Compiti che comportano la capacità di dirigere processi frammentati e di promuovere

forme di cooperazione e di partecipazione alle scelte coerenti con le finalità pubbliche in gioco.

L’altra prospettiva enfatizza le virtù auto-regolative del mercato e/o della società civile e sposta

massicciamente funzioni e prerogative delle istituzioni politico-amministrative verso attori privati,

economici e non. In questa seconda prospettiva possono svilupparsi e consolidarsi anche “governi

19
privati”, organismi decisionali su problemi collettivi ma esonerati dal sistema di controlli proprio

della rappresentanza democratica.

3. Nelle riconfigurazioni dei confini e delle relazioni fra pubblico e privato all’opera nei welfare mix

sono perciò in gioco alcuni passaggi tanto delicati quanto incerti.

Un primo passaggio riguarda un risvolto specifico di quel rapporto fra le politiche sociali e la

politica già intravisto prima. In queste riconfigurazioni, infatti, è implicata anche la messa in

questione delle forme tradizionali della regolazione e dell’organizzazione politica della società, per

dirla con Bagnasco (2003), con i problemi collegati riguardo alla rappresentanza politica (Crouch,

Eder, Tambini, 2001). Qui si apre perciò un versante di questioni molto vasto e complesso, che il

volume non approfondisce; l’obiettivo è, piuttosto, renderlo riconoscibile come sfondo nel quale

s’inscrivono le trasformazioni dei rapporti fra pubblico e privato nelle politiche sociali.

Il secondo passaggio da sottolineare, conesso a questo sfondo, riguarda i problemi che ruotano

attorno allo statuto pubblico delle politiche sociali. Che le istituzioni e le organizzazioni pubbliche

non siano oggi gli attori esclusivi delle politiche sociali è un fatto acquisito. Ciò non toglie che vi

siano almeno due quesiti collegati. Il primo è in che senso questo fatto rappresenti un cambiamento,

posto che il coinvolgimento di attori privati nelle politiche sociali è già evidente negli assetti

tradizionali dei welfare states europei, sia pure non in tutti o non in tutti allo stesso modo (Paci,

1989; Papadopoulos, 2000, 2003). Sicuramente è una novità l’insistenza con la quale il discorso

pubblico corrente tende a fare di questo coinvolgimento una soluzione buona per definizione; i

cambiamenti delle politiche si appoggiano a – e generano - specifiche retoriche, come sappiamo

dagli studi di James March e Johan Olsen in poi (1989). Così come è una novità la diffusione di

stili della regolazione pubblica che tendono ad articolare più riferimenti e più modelli, combinando

spesso fra loro le logiche dell’autorità, degli interessi di mercato e della cooperazione (d’Albergo,

20
2002; Ascoli, Ranci, 2002a). Dunque, pur non cambiando necessariamente gli attori, cambiano e

diventano più complessi e diversificati i modi in cui vengono regolate e istituzionalizzate le loro

interazioni; ma in che senso si tratti di regolazioni pubbliche rimane un punto da chiarire.

Con questo arriviamo al secondo quesito, centrale nel percorso analitico che faremo: che cosa è

pubblico nelle politiche sociali. Il rimescolarsi dei rapporti fra attori pubblico-statuali e attori privati

ha reso evidente che “pubblico” non coincide con la natura degli attori coinvolti. Bisogna perciò

domandarsi se e come le politiche sociali odierne – gli attori, le materie e le arene che vi sono

implicate - si qualifichino come pubbliche.

4. Locale

Ritorniamo ora alla dimensione locale, il filo che intesse il percorso di analisi sviluppato dal

volume. Questo filo è strettamente legato a tutte le linee di cambiamento fin qui evidenziate: alle

riorganizzazioni dei rapporti fra diversi spazi di policy; alla diffusione di approcci integrati; alle

ridefinizioni dei mix fra pubblico e privato e allo sviluppo di forme di governance che coordinano

diversi attori e interessi esprimendoli, appunto, in una località (Le Galès, 2002). Dobbiamo a questo

punto delinearne meglio gli aspetti di novità e le potenzialità e i problemi collegati.

1. Una relativa autonomia territoriale non è in nessun paese europeo un fatto completamente nuovo,

ma, per le sue caratteristiche attuali, essa registra almeno due aspetti inediti27. Il primo riguarda

l’ampiezza del fenomeno: l’importanza nelle politiche sociali dei contesti locali d’azione e di

governo è in crescita ovunque, in alcuni settori in particolare (salute, assistenza, lavoro). Spingono

27
Per un inquadramento delle differenze nazionali nelle forme e nelle evoluzioni della localizzazione del welfare in
Europa si veda van Berkel (2003).

21
in questa direzione sia i processi di europeizzazione, sia quelli di decentralizzazione, sia in alcuni

casi gli indirizzi espressi a livello nazionale: dalla loro combinazione prendono vita i tratti distintivi

del “localismo cosmopolita europeo” (Moreno, 2002).

Il secondo aspetto rimanda alla portata dei cambiamenti potenzialmente associati, che riguardano in

modo intrecciato le architetture istituzionali, le materie e gli attori. Si pensi alla varietà di strutture e

arene istituzionali che prendono vita nell’ambito dei regimi di governance locale: partnerships,

agenzie miste, patti, contratti. In questa varietà si esprimono i processi di institution building che

dinamizzano il disegno e l’implementazione delle politiche sociali nei contesti locali. Questi ultimi

si presentano, perciò, ad alta densità istituzionale: la progettazione e la messa in opera delle

politiche sociali ne sollecitano in modo espresso la capacità di creare e trasformare istituzioni

(Balme, Faure, 1999). In prima battuta, possiamo dire che si tratta della capacità di stabilire cornici

normative e visioni condivise in grado di supportare le interazioni cooperative intra e inter-

istituzionali attorno a problemi comuni (Donolo, 1997). Un punto rilevante è, inoltre, lo stampo

contrattuale che impronta molte delle variegate architetture che ne scaturiscono (Bobbio, 2000): la

sovranità decisionale su finalità collettive non è depositata in una funzione unitaria ed esclusiva

delle istituzioni politico-amministrative, ma tende a emergere dalle interazioni di tipo contrattuale,

cioè negoziali e a base volontaria, che si sviluppano nell’ambito dei processi decisionali (Donolo,

2002). Si tratta perciò anche di “quasi-istituzioni”, dal momento che la loro esistenza è condizionata

dalla volontà dei diversi partners che concorrono alla loro costruzione (Vino, 2003).

In alcune circostanze, attraverso queste quasi-istituzioni “lo stato si fa locale”28. Questo accade, più

precisamente, quando i diversi attori pubblici e privati che ne fanno parte si integrano attorno a “un

collettivo”, cioè attorno a un insieme di regole “collettivamente negoziate […] espressione di un

28
L’espressione è di Robert Castel, che ringraziamo per il suggerimento.

22
compromesso fra partners sociali collettivamente costituiti” (Castel, 2003, p. 38). Ad esempio,

quando agenzie miste locali per l’aiuto all’impiego coordinano le diverse misure e risorse presenti

localmente dando continuità alle prestazioni e indirizzando processi e attori rispetto a scopi

collettivi. Quanto c’è o permane di statuale in situazioni del genere non rimanda tanto alla scala

territoriale - che è, appunto, locale, non nazionale- ma all’impegno universale rispetto a interessi

collettivi che qualifica le funzioni pubbliche e le responsabilità di indirizzo e di scelta collegate.

Vi sono poi elementi di novità relativi ai contenuti dei programmi; su questi ultimi la base

negoziale delle architetture istituzionali tende a incidere in due modi: spingendo a modularsi sulle

caratteristiche particolari che i problemi trattati presentano nei contesti locali e alimentando

aggiustamenti di tipo consensuale fra gli attori nell’elaborazione degli obiettivi e delle attività.

Qui incontriamo un altro terreno di cambiamenti associati alla localizzazione, che riguarda più

direttamente le materie delle politiche. Si è già detto qualcosa in proposito. In nome della necessità

di trattamenti flessibili e integrati dei problemi sociali, l’orientamento al territorio, declinato in

termini di misure centrate sui quartieri, sulle comunità locali o su un’area, tende a diventare un

riferimento importante nella definizione dei target delle politiche, affianco al più tradizionale

orientamento di tipo categoriale per popolazioni o per tipologie di bisogno. Da questa angolazione,

il locale indica lo spazio dove i diversi problemi sociali si cumulano secondo traiettorie specifiche, e

dove le risorse e gli attori per affrontarli (inclusi i destinatari) possono essere mobilitati e integrati.

Di qui l’importanza attribuita alla localizzazione come fattore d’attivazione e di integrazione. Di qui

anche lo sviluppo di dinamiche di “rispazializzazione” delle materie sociali (Daly, 2003). Gli esiti

innovativi sono potenzialmente due.

Il primo riguarda il peso rispettivo dei distinti settori di policy compresi nella protezione sociale.

Come dicevamo, l’evidenza assunta dal carattere composito dei problemi sociali e la sollecitazione

23
a mobilitare e attivare gli attori delle politiche concorrono a dare forza alla dimensione locale. Via

via che questa dimensione diventa centrale, acquistano maggiore rilevanza i settori che più

naturalmente la chiamano in causa: l’assistenza, il lavoro, la tutela della salute, l’abitazione. La

localizzazione va perciò insieme all’emergenza delle materie che meglio si prestano ad essere

localizzate. Questo primo esito si interseca con un altro sviluppo innovativo, che riguarda i confini

fra le politiche locali nel loro insieme: questi confini diventano fluttuanti e permeabili, perdendo

autoevidenza le tradizionali compartimentazioni politico-amministrative. Le sperimentazioni che

ostentano una maggiore portata innovativa sono proprio quelle che si configurano come un

attraversamento dei confini e come un riconoscimento del rapporto di interdipendenza fra i

problemi: per esempio fra lavoro e assistenza o fra inclusione sociale e riqualificazione urbana. Una

volta che questo rapporto sia incorporato nell’azione delle politiche, le tradizionali specializzazioni

settoriali lasciano il posto ad aree di intervento più ampie e indeterminate. Cambiano le pratiche e

cambia il lessico delle politiche; affiorano nuove delimitazioni e denominazioni in grado di render

conto delle trasformazioni in atto, quali ad esempio “politiche socio-urbane” (de Maillard, 2003a).

Un ultimo campo di cambiamenti riguarda il rapporto fra le architetture istituzionali delle politiche

locali e i cittadini. L’ancoraggio al territorio promette di realizzare l’inclusione di questi ultimi nelle

arene in cui si assumono le scelte rilevanti per i singoli e per la collettività. Questa promessa è tanto

più ribadita quanto più le politiche, attraverso approcci partecipati o partecipativi, mirano in modo

dichiarato a mobilitare gli individui e i territori rispetto alle condizioni della propria autonomia

attraverso il loro coinvolgimento attivo nelle decisioni che li riguardano (Newman et al., 2004).

2. Creare istituzioni, trasformare materie e approcci, accrescere gli spazi della partecipazione

moltiplicando gli attori delle politiche: non si tratta di processi di poco conto. Le difficoltà cui

vanno incontro e i problemi che sollevano sono almeno pari alle potenzialità che ne derivano. E’

24
bene perciò evitare i miti delle politiche locali, come ci invitano a fare Mike Geddes e Patrick Le

Galès (2001). Cogliendo questo suggerimento, indicheremo ora alcune avvertenze di cui dotarci

come viatico nel percorso che avvieremo dal capitolo seguente.

L’avvertenza più generale è questa: cambiare la scala delle politiche sociali non è una cosa neutrale

(Geddes, Le Galès, 2001). Bisogna perciò evitare di liquidare troppo frettolosamente le questioni

relative alle possibilità di “ritiro dello stato” che questo cambiamento adombra. Per quanto le

politiche sociali siano ancora oggi in buona parte un affare nazionale (Rhodes, Meny, eds., 1998),

non c’è dubbio che la sovranità dello stato sia indebolita sia verso l’alto, per effetto delle dinamiche

transnazionali, sia verso il basso, per effetto dei processi di localizzazione. In particolare, questi

ultimi espongono al rischio della segmentazione e della diseguglianza su base territoriale,

concorrendo per di più a erodere il fondamento universalistico dell’autorità statuale. Non bisogna

dimenticare, inoltre, che questi processi s’inscrivono nelle razionalizzazioni amministrative avviate

in tutti i paesi europei con l’obiettivo di contenere la spesa pubblica. I problemi riguardo

all’eguaglianza della protezione possono essere particolarmente acuti proprio quando e dove

mancano programmi nazionali e meccanismi che garantiscono una redistribuzione centralizzata

delle risorse29. Un conto è la flessibilità indirizzata a commisurare il disegno e le azioni ai problemi

locali; un altro conto è la disparità delle dotazioni di risorse disponibili localmente che si verifica

quando questi meccanismi ridistributivi sono assenti.

Un altro rischio collegato è che la rispazializzazione delle politiche induca effetti di miopia. Quanto

non si vede da vicino può ricadere in zone d’ombra. Può trattarsi dei fattori non locali che

concorrono all’insorgenza dei problemi localmente visibili (come nel caso dei problemi del lavoro)

29
Questa questione è cruciale nell’assetto italiano dell’assistenza ed è particolarmente critica nel campo degli interventi
di contrasto alla povertà, considerati gli sviluppi successivi alla sperimentazione del Reddito minimo di inserimento
introdotta nel 1998 (oggi terminata) e al varo della riforma del 2000. Su questo si veda Saraceno (2002b).

25
e anche delle dotazioni di risorse necessarie ma localmente insufficienti: non solo dotazioni

finanziarie, ma anche supporti sociali per l’indipendenza delle persone (Castel, 2003).

Infine, sebbene il progetto europeo di sviluppo sociale ed economico scommetta in particolare sulle

capacità dei contesti locali per realizzare il rinforzo reciproco fra politiche sociali, economiche e

del lavoro, c’è sempre la possibilità che le strategie perseguite localmente subordinino l’obiettivo

dell’inclusione sociale a quello della competizione economica.

Di qui una seconda avvertenza: la localizzazione è un processo a molte facce, perciò ambiguo. La

cifra dell’ambiguità, come dicevamo, ricorrerà spesso nel nostro percorso. Per molti aspetti, essa

segnala anche un potenziale innovativo aggiuntivo delle politiche sociali odierne. L’ambiguità è

infatti una risorsa per i contesti e gli attori, perché ne favorisce l’autonomia, accresce le opportunità

di arrangiamenti flessibili, sollecita apprendimenti su problemi e soluzioni. Ma questi stessi motivi

possono valere anche in negativo, come fattori di frammentazione.

3. Quanto detto fin qui chiarisce alcuni buoni motivi per fare della dimensione locale il punto di

osservazione privilegiato delle dinamiche trasformative che interessano le politiche sociali e il loro

statuto pubblico. E’ perciò questa l’angolazione dalla quale affronteremo il quesito riguardo a cosa

è o diventa pubblico nelle politiche sociali, attraverso un percorso che prevede nella seconda parte

l’approfondimento delle materie nel cui ambito i problemi e le potenzialità innovative della

dimensione locale si presentano più pronunciate. Si tratta, a dire il vero, prevalentemente di incroci

fra settori, per motivi che a questo punto sono ovvii.

Il capitolo che segue affronta, per cominciare, il rapporto tra lavoro e assistenza e lo statuto che a

questo rapporto conferiscono l’obiettivo dell’attivazione e la sua ambiguità. Questa ambiguità viene

passata al vaglio sia per fissare le due genealogie dalle quali l’idea di attivazione deriva le sue

cornici interpretative, sia per mettere a fuoco i dilemmi e le contraddizioni di cui sono intessuti i

26
processi di implementazione delle politiche di attivazione.

Il terzo capitolo restringe la visuale sulle politiche contro le povertà in Europa per osservare il

rapporto che esse intrattengono con questioni di giustizia sociale, al livello europeo e a quello

locale. E’ soprattutto nelle pratiche locali che i processi di elaborazione e messa in tensione di

questo rapporto esprimono una forza generativa, come dimostra la pluralità delle definizioni di

giustizia sociale emergenti nell’ambito delle politiche locali di reddito minimo.

I successivi due capitoli si occupano dell’introduzione di contratti nelle politiche sociali, in

particolare nell’assistenza e nell’ambito socio-sanitario. Come evidenzia l’analisi condotta nel

quarto capitolo, i processi di contrattualizzazione innescano cambiamenti che riguardano sia il

rapporto fra i soggetti pubblici e i soggetti privati coinvolti nei welfare mix, sia la posizione dei

destinatari. Alcune direzioni di questi cambiamenti vengono esplorate dal quinto capitolo, che

compara due misure italiane di stampo contrattuale: i voucher socio-sanitari introdotti nel 2002 in

Lombardia e i budget di cura sperimentati a partire dal 1997 in alcune aree del nord e del sud Italia.

Con i quattro capitoli successivi ci inoltriamo fuori dai confini tradizionali delle politiche sociali. Il

sesto capitolo affronta, infatti, le politiche europee di rigenerazione urbana e in particolare i

programmi di sviluppo integrato, per mettere in luce le possibilità e i problemi che incontra l’azione

pubblica sotto la pressione “tirannica” della partecipazione. In questa cornice, il settimo capitolo

analizza le politiche abitative in Italia a partire dai “contratti di quartiere”, evidenziando il ruolo che

le amministrazioni pubbliche rivestono nell’alimentare processi di apprendimento. Processi che da

un lato tendono a conferire uno statuto pubblico a problemi e ad attori, dall’altro lato aprono al

passaggio dalle politiche della casa alle politiche dell’abitare.

I confini fra le politiche, ovviamente, possono restare spessi e ostici. E’ quanto vediamo negli ultimi

due capitoli della seconda parte, che trattano di sicurezza urbana e dell’incontro, spesso mancato o

27
asimmetrico, fra politiche della sicurezza e politiche sociali. Gli approcci in materia rilevabili oggi

in Europa e in Italia, analizzati nell’ottavo capitolo, sono incentrati sul passaggio dalla repressione

alla prevenzione. Da questo passaggio prendono forza sia le misure più marcatamente indirizzate

alla sorveglianza diffusa del territorio, sia gli interventi che provano a investire sul miglioramento

delle situazioni sociali a maggior rischio di illegalità. Il nono capitolo approfondisce i rapporti fra i

diversi settori amministrativi mobilitati nelle politiche della sicurezza, che in Italia registrano il

coinvolgimento prevalente della Polizia Locale. Di qui un effetto duplice di sottrazione: riguardo

alle istanze in questione, che vengono tradotte in problemi di sicurezza; e riguardo allo statuto

pubblico dell’azione, venendo relegati ai margini gli attori istituzionali delle politiche sociali.

Questo apre la strada al capitolo seguente, quello conclusivo, che sviluppa le indicazioni

provenienti dall’intero percorso analitico per provare a individuare se e in quali circostanze

diventano pubblici i regimi di azione emergenti nelle politiche sociali odierne. Si tratta, per

esempio, di esplorare se e in che modo l’attribuzione di una posizione attiva ai destinatari delle

politiche rafforzi, o viceversa indebolisca, le condizioni della loro partecipazione alle discussioni e

alle scelte collettive. O anche, se e in che modo le partnerships che agiscono per la rigenerazione di

un quartiere agiscono anche per la rigenerazione di quel vocabolario pubblico che consente di

mediare ragioni che a volte si presentano irriducibili. Andremo perciò sulle tracce di cosa – e come

– è pubblico nelle politiche sociali. Non esauriremo le questioni, ma fisseremo alcuni punti di

attenzione che chiariranno anche perché è importante occuparsene.

Questo libro è in gran parte il frutto dell’attività di ricerca teorica ed empirica condotta nell’ambito del
Laboratorio di Sociologia dell’azione pubblica “Sui Generis”, diretto da Ota de Leonardis presso il
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca, e del confronto con i diversi
interlocutori che ne hanno sostenuto e arricchito il percorso di lavoro intrapreso: a tutti un sincero
ringraziamento.

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