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Capitolo 3

Gli individui e la politica

1. La socializzazione politica
La socializzazione è il processo con cui un individui apprende e interiorizza nozioni, prescrizioni di
ruolo, valori, orientamenti affettivi e giudizi sulla società in generale (socializzazione aspecifica) o
su sfere particolari di essa (socializzazione specifica).
La socializzazione politica è, dunque, una socializzazione specifica che corrisponde a
‘quell’insieme di esperienze che nel processo di formazione dell’identità sociale dell’individuo
contribuiscono a modellare l’immagine che egli ha di se stesso nei confronti del sistema politico e
nel definire i rapporti che instaura con le istituzioni pubbliche’; ovvero un iter di apprendimento che
ha come risultato la maturazione di orientamenti, emozioni, atteggiamenti verso gli oggetti della
politica, e lo sviluppo di capacità cognitive ed espressive necessarie all’agire politico.

Nel processo di socializzazione occorre tenere conto:


● degli aspetti morfologici ricorrenti (presenza di contenuti, rifermenti a fasi di vita, agenti,
modi ed effetti);
● delle condizioni storiche dei contesti specifici.
Ciò ci porta a concludere che:
● i contributi della psicologia sociale, dell’antropologia culturale e della sociologia non vanno
considerati in modo astratto, ma devono essere letti tramite operazioni di storicizzazione,
relative al contesto politico e allo stato degli agenti, dei mezzi e dei soggetti di
socializzazione;
● le operazioni di storicizzazione del contesto e del regime politico servono a suggerire e a
concludere questioni concettuali;
● sul piano empirico si può parlare di diversi processi di socializzazione quante sono le
generazioni entrate in scena in determinati momenti storici e paesi.

Alla luce di tale inquadramento, è agevole prendere in esame l’impostazione delle differenti scuole
sociologiche sulla socializzazione politica in generale e sugli aspetti strutturali o morfologici del
processo che la realizza.
Due tradizioni privilegiano il doppio approccio insieme analitico e normativo, le quali focalizzano
in maniera opposta il problema di partenza:
(Teorie interpretative-normative)
● il funzionalismo: la domanda cruciale è ‘come si mantiene in equilibrio la società e come è
possibile salvaguardare tale equilibrio’.
Gli autori principali sono Durkheim, Parsons, Bales, Easton e Dennis.
Easton e Dennis elaborano le quattro tappe della socializzazione politica:
1) riconoscimento dell’esistenza di un’autorità legittima;
2) distinzione tra autorità vicine e autorità pubbliche;
3) individuazione delle istituzioni e dei ruoli pubblici;
4) distinzione tra istituzioni e persone in carica;
● il marxismo: la domanda cruciale è ‘chi e come tiene assoggettata la società e che cosa si
deve fare per liberare gli esseri umani da tale assoggettamento e costruire una società
giusta’.
Gramsci, Althusser e Bourdieu, si interrogano sul perché le idee della classe capitalista si
impongono nelle società moderne registrando un adattamento delle masse.
La risposta non tocca gli aspetti della socializzazione, ma ne inquadra i presupposti
essenziali.
1)Secondo Gramsci, un gruppo sociale che voglia dominare un paese, fino a raggiungere la
forza di un vero e proprio blocco sociale, deve prima trovarsi nelle condizioni di dirigerlo;
ovvero deve essere capace di esercitare una egemonia su tutti gli strati della società.
La borghesia controlla lo Stato perché ha saputo affermare la propria visione del mondo, i
propri valori e modelli.
Il proletariato, se vuole sovvertire l’ordine capitalistico, deve conquistare a sua volta
l’egemonia: la chiave per raggiungere tale obiettivo è costituita dalla conquista degli
intellettuali che sono i veri mediatori di senso tra la società civile e il governo politico.
Ogni classe che punti al potere deve sapersi costruire i propri intellettuali organici.
2)Althusser, pur differenziandosi da Gramsi rispetto alla considerazione del marxismo, che
per l’italiano è ‘una visione del mondo’ mentre per il francese ‘una teoria scientifica’, sul
discorso dell’egemonia si muove sulla stessa linea del primo.
Per esercitare un dominio duraturo su un sistema sociale e politico non bastano gli apparati
repressivi dello Stato, ma occorrono i cosiddetti apparati ideologici di Stato (Ais).
Quest’ultimi sono individuati primariamente nella famiglia, nella scuola, nel sistema delle
varie Chiese, nelle istituzioni culturali, nel sistema dell’informazione, nei partiti, nei
sindacati, ecc.
E’ il lavoro della sovrastruttura marxianamente intesa a determinare la diffusione
dell’ideologia dominante.
3)Bourdieu individua nel concetto di habitus l’esito dei percorsi di formazione individuale.
Egli perviene a tale teorizzazione studiando tanto i meccanismi del sistema educativo con
cui vengono trasmessi i modelli culturali quanto le modalità con cui l’appartenenza di classe
si traduce negli stili di vita e nei gusti estetici.
Strada facendo, ogni individuo assume un proprio habitus, ossia un sistema di segni fornito
di una qualifica sociale che contiene disposizioni durevoli e trasponibili, le quali orientano i
comportamenti nei diversi momenti e nelle diverse occasioni della vita quotidiana.

(Teorie interpretative-descrittive)
● Un terzo filone di taglio più metodologico che normativo, è rappresentato
dall’interazionismo simbolico e dalle sue numerose varianti.
Tale scuola vede tra i suoi fondatori Schutz, Mead e Blumer e parte dal l’assunto che la
realtà delle ‘cose’ della vita sociale (oggetti fisici, individui, istituzioni, relazioni) viene
interpretata alla luce del significato che gli individui le attribuiscono, e che ogni significato
(il linguaggio) è il prodotto dell’interazione sociale, costruendosi sulla base degli
orientamenti comuni e delle aspettative reciproche.
In tale prospettiva un ruolo fondamentale è svolto dal linguaggio come insieme di simboli e
significati di cui l’individuo si appropria progressivamente.
La tesi di Mead: nei primi anni di vita la mente si costituisce intorno ad un Me, che
corrisponde all’insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri che un individuo fa
propri.
Successivamente, nello sviluppo del Sé, che si caratterizza con l’essere oggetto a se stesso,
entra anche l’Io, come reazione e rielaborazione propria degli atteggiamenti altrui.
● Un quarto tentativo teorico di affrontare il problema della socializzazione politica si deve a
A. Percheron.
Il processo di socializzazione politica ha luogo, a suo avviso, in modo preterintenzionale e
intuitivo, in un rapporto di interazione a più vie con le persone con i gruppi con i quali il
bambino entra in relazione.
Ciò consente di parlare di un autonomo universo politico infantile che si costituisce con
modalità complesse, le quali producono una concezione olistica della politica, un’identità e
un codice simbolico.
Il mutamento delle condizioni ambientali, rende il tutto dinamico e non statico.
Rispetto alle tappe di Easton e Dennis, riferite alla società statunitense, vanno considerate due
variabili di fondo:
● la posizione di classe e di ceto della famiglia;
● il regime politico in cui avviene la socializzazione.
Le modalità e i contenuti del processo di socializzazione pubblica variano notevolmente a seconda
che ci si trovi nell’ambito di un regime totalitario, autoritario o democratico.
I regimi totalitari dell’Urss, dell’Italia fascista e della Germania nazista, presentano alcuni aspetti
comuni:
● nascono da una rottura con il sistema istituzionale precedente e mirano ad imporre un
proprio modello di Stato;
● sottolineano con particolare enfasi l’importanza dei giovani, che sono destinati a
rappresentare le avanguardie del futuro dell’umanità liberata dai capitalisti e dai parassiti,
della nuova patria fascista e dell’uomo nuovo nazista;
● esercitano un ferreo controllo sui contenuti trasmessi dalla scuola di Stato e organizzano una
serie di associazioni e di occasioni per indottrinare bambini e bambine, ragazzi e ragazze.
Tutti e tre i regimi, non si preoccupano di fornire ai giovani banali nozioni su ‘oggetti politici’ ma
puntano, in maniera sistematica e totalitaria, ad inculcare una ‘visione del mondo’, un’idea sacra
dell’autorità politica e della sua personalizzazione e un’identificazione demonizzante per i nemici
del popolo o della nazione.

Le considerazioni e le implicazioni relative ai contenuti (il che cosa) della socializzazione politica
suggeriscono di prendere in esame le fasi di vita in cui tale processo si sviluppa, la questione del
quando.
Il periodo di fissazione dei valori, degli oggetti e dei giudizi politici coincide con l’infanzia o con
l’adolescenza.
In tale fase funzionano meglio i meccanismi dell’imitazione, dell’apprendimento e
dell’interiorizzazione delle motivazioni da parte dei membri di un sistema sociale e politico.
La risocializzazione politica avviene in genere:
● in occasione di cambi di regime;
● in occasione di intense stagioni di cambiamento sociale;
● per situazioni di mobilità sociale individuale;
ferma restando una certa vischiosità della socializzazione infantile.

Ci sono però situazioni che fanno parlare di socializzazione politica continua.

La variabilità si ritrova anche nel modo di essere e di operare delle agenzie di socializzazione (il
chi socializza e come), prese singolarmente e nella loro combinazione.
Tradizionalmente si parla di famiglia, scuola, parrocchie o altre organizzazioni religiose, gruppi dei
pari, organizzazioni politiche e sistema dei media.
Tali agenzie hanno però un assetto e un peso storicamente variabile; oggi ad assumere una funzione
cruciale nei processi di socializzazione è indubbiamente il sistema dei media.
In proposito è opportuno introdurre una distinzione tra:
● il ruolo della radio e della televisione: in molti paesi, l’apparato radio-televisivo ha
conosciuto almeno tre diverse fasi.
1) la fase del monopolio pubblico, con comunicazione unilaterale;
2) la fase dell’entrata in scena delle radio e delle tv commerciali e di un certo pluralismo
dell’emittenza, ma sempre con una comunicazione ad una via;
3) la fase del pluralismo e dell’introduzione di circoscritti scambi a due o più vie.
La radio e la televisione hanno avuto un impatto notevole ma sottovalutato sugli
orientamenti individuali e collettivi.
Nelle tre dimensioni del processo di socializzazione (cognitiva, affettiva e valutativa) i
media incidono sull’aspetto delle informazioni.
Mano a mano, però, che si affermava la televisione commerciale e ai classici programmi di
informazione si affiancavano le fiction e le trasmissioni di infotainment (talk show di
informazione e intrattenimento), il condizionamento televisivo si è esteso alla sfera emotiva
e dei giudizi;
● della rete: Con l’avvento di internet e delle sue possibilità, che ha permesso l’accesso ad
un’immensa piazza virtuale a tutti coloro che si trovano nella condizione di superare il
digital divide, è avvenuto un passaggio da una logica top down ad una logica bottom up, con
una portata ancora tutta da verificare.

Gli effetti del processo di socializzazione politica.


Come è possibile isolare l’incidenza di un fattore rispetto alla molteplicità degli eventi e degli
elementi che intervengono nella crescita di una persona? Come essere certi che proprio quel fattore
sia quello prevalente?
Per risolvere la questione si devono ricercare in soggetti adulti le testimonianze dirette, di tipo
soggettivo e oggettivo, dell’esistenza di correlazione tra un fattore di causazione e un conseguente
comportamento politico.
Tendenzialmente, ma non sempre, la socializzazione politica della prima infanzia produce i suoi
effetti; abbiamo due esempi:
● l’indottrinamento nazista, ma anche anti-nazista;
● la prima volta al voto nelle democrazie.
Questi due esempi, oltre a confermare che il processo di socializzazione politica è ineludibile ed è
comunque produttore di qualche effetto, mostrano anche tre aspetti:
● il primo riguarda l’intreccio tra gli aspetti morfologici del processo e i suoi contenuti
specifici, rivelando che ogni risultato e considerazione di merito devono essere ricondotti
alle condizioni storiche di un contesto determinato;
● il secondo chiama in causa il concetto di generazione;
● il terzo aspetto, ci ricorda come all’interno di una stessa generazione possono aversi esiti
dissonanti, se non conflittuali, rispetto agli input delle agenzie di socializzazione dominanti
e agli orientamenti della maggioranza dei coetanei.

Mannheim, ripreso in Italia da Lattes, suggerisce di associare i giovani all’idea di generazione


politica.
Le giovani generazioni vengono definite come un gruppo sociale portatore di un progetto di
cambiamento della società, ovvero come una specie di matrice di mutamento sociale.
Ci sarebbero cosi generazioni politiche visibili e invisibili.

2. La partecipazione politica
La parola partecipazione si usa in due accezioni:
● come prendere parte, avendo da tutelare interessi;
● nell’essere parte, condividendo un’identità, di un sistema sociale.

La partecipazione sta dunque a significare, in senso lato, il fare parte più o meno attivamente di un
sistema politico e corrisponde, in senso stretto, all’insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti
con cui gli individui intervengono nei processi decisionali del sistema politico e/o delle sue
organizzazioni, cercando di determinare la qualità e gli esiti.
Rispetto alle anali riduttive dei politologi americani, sono le pre-condizioni, cioè i momenti storici
e le condizioni dei contesti, a caratterizzare le forme della partecipazione.
Si possono avere infatti:
● situazioni straordinarie: coincidenti, ad esempio, con la fondazione dello Stato,
l’abbattimento o la ricostruzione di un regime, l’emersione di identità o di interessi non
rappresentati o sottorappresentati, l’allargamento del suffragio universale, ecc;
● situazioni ordinarie: corrispondenti a regimi stabili, tanto democratici quanto non
democratici, e a sistemi di regole ben definite.

Nel primo caso molti individui sono in una condizione di soglia, ovvero sono alle prese con il
problema dell’inclusione, del passaggio cioè dall’esterno all’interno del sistema politico.
Stein Rokkan, in proposito, ha parlato di quattro soglie di inclusione:
● la prima soglia è rappresentata dalla legittimazione: il suo superamento consente a gruppi
sociali precedentemente esclusi dal sistema politico di vedersi riconosciuti i diritti di
petizione, di riunione, di associazione, di espressione e di critica, tipici dello Stato liberale;
● la seconda soglia riguarda l’incorporazione: ovvero l’allargamento della possibilità di
partecipazione politica, dall’estensione del diritto di voto all’acquisizione dell’elettorato
attivo e della garanzia del voto segreto per tutti i cittadini;
● la terza soglia è quella della rappresentanza: si tratta del passaggio da una prima graduale
incorporazione al diritto di vedere i propri rappresentanti entrare a far parte del parlamento,
abbassando progressivamente gli ostacoli istituzionali che impedivano ai nuovi movimenti o
ai nuovi partiti di avere lo stesso riconoscimento nel ruolo legislativo delle élites
tradizionali;
● la quarta soglia è infine quella del potere esecutivo.
Il suo superamento presuppone tre processi:
1) la crescita dell’influenza e del controllo sul potere esecutivo da parte delle assemblee
legislative;
2) la possibilità anche per i partiti espressione dei nuovi soggetti sociali di conquistare la
maggioranza parlamentare;
3) la condivisione di una cultura politica che consideri accettabile qualsiasi maggioranza.

La sequenza prospettata da Rokkan, consente di cogliere bene tanto i momenti della mobilitazione,
tipici delle prime due fasi, quanto quelli della partecipazione politica, più appropriatamente
riconducibili alla terza e alla quarta fase.

Accanto alla mobilitazione, che nasce dalla spinta a voler entrare in un sistema politico (e per cui si
partecipa all’azione di movimenti o partiti), nei regimi stabili di tipo totalitario si hanno forme di
mobilitazione indotta ed eterodiretta.
Si tratta di quelle manifestazioni plebiscitarie che servono a canalizzare esclusivamente un assenso,
termine che si traduce nella sollecitazione e/o nell’obbligo a dire di si, piuttosto che un consenso,
che sta appunto per con-venire, cercare insieme un’intesa, o un dissenso, con cui si esprime una
critica e un’opposizione.
Rispetto alla mobilitazione, la partecipazione presuppone lo star già dentro un sistema politico.
La mobilitazione si correla con i regimi non democratici, scarsamente democratici o in situazioni di
blocco della democrazia, mentre la partecipazione politica si rapporta ai regimi liberal-democratici.

Tra i fattori che favoriscono o ostacolano la partecipazione politica vanno considerate quattro
condizioni di sistema e due relative allo stato dei singoli individui:
● il primo fattore di sistema è il momento storico dell’assetto politico;
● il secondo fattore è costituito dalle caratteristiche dell’ambiente istituzionale: il tipo di
sistema elettorale, l’importanza o meno del ruolo dei partiti, gli spazi riconosciuti ai cittadini
singoli o associati, ecc, sono fondamentali nel determinare il tipo di agibilità partecipativa;
● il terzo fattore riguarda la cultura politica del contesto;
● il quarto fattore è relativo alla natura dei mezzi e dei modi della comunicazione politica;

● la prima condizione sono gli elementi biografici di tipo oggettivo;


● la seconda condizione è la motivazione ad assumere determinati atteggiamenti o a scegliere
comportamenti specifici.

Il dove della partecipazione si connette al come e al chi.


Un repertorio completo deve tenere conto di tre tipologie di indicatori:
● relativi a sistemi di democrazia rappresentativa ad elevato consenso in cui i partiti svolgono
un ruolo modesto*;
● relativi a sistemi politici in cui i partiti occupano un ruolo fondamentale**;
● relativi a sistemi con movimenti sociali dai risvolti politici accanto le istituzioni tradizionali
e i partiti***.
*Un esempio di rilevazione del primo tipo è la scala di Milbrtah che conta più di dieci indicatori:
● da quelli finalizzati a registrare una minima intensità di partecipazione: ‘ascoltare appelli
politici’, ‘votare’;
● a quelli rispecchianti una media intensità: ‘dare soldi ad un partito o ad un candidato’,
‘partecipare ad un meeting politico’;
● a quelli corrispondenti all’intensità massima: ‘candidarsi o essere candidato a una carica
politica’, ‘occupare cariche istituzionali o di partito’.

**Accanto alla scala di Milbrath, nel caso italiano che riflette l’ambiente politico delle liberal-
democrazie europee, almeno dagli anni ’50 a tutti gli anni ’80 del ‘900, hanno dovuto prevedere
più indicatori relativi alla partecipazione nei partiti:
● semplice identificazione elettorale;
● iscrizione ad un partito;
● ruolo di militante;
● ruolo di attivista;
● ruolo di dirigente interno;
● ruolo di rappresentante eletto nelle istituzioni

***Un esempio di classificazione della partecipazione relativa alla terza tipologia è quella che si
associa alle diverse stagioni in cui emergono i movimenti sociali, come quelle degli anni 2000
(movimento no global e ambientalisti), dove la partecipazione è espressione di protesta e di
proposta.
Esempi di indicatori della scala di intensità sono:
● firmare petizioni;
● partecipare ad assemblee;
● partecipare a sit-in;
● bloccare il traffico;
● aderire a boicottaggi;
● occupare scuole, università o altri luoghi;
● fare violenza contro cose.

Tempo dopo, sempre in riferimento all’esperienza statunitense, Verba e Nie arrivarono ad una
classificazione ancora più articolata:
● gli individui totalmente passivi;
● i meri elettori;
● gli individui attenti solo ai problemi sociali;
● i ‘parrocchiali’, ovvero quelli centrati solo su gli interessi personali;
● i ‘contendenti’, impegnati in campagne su questioni specifiche;
● i cosiddetti ‘attivisti globali’, corrispondenti a soggetti coinvolti politicamente a 360 gradi.

Introducendo una comparazione tra la situazione statunitense e quella di Gran Bretagna, Olanda,
Repubblica Federale Tedesca e Austria, Kaase e Marsh hanno costruito una tipologia più attenta
alle forme della partecipazione, includendo il dissenso e la protesta.
Essa comprende:
● gli ‘inattivi’ con interessi politici saltuari;
● i ‘conformisti’, abituati ad usare solo le forme convenzionali di partecipazione;
● i ‘riformisti’, disposti a ricorrere ad un mix di modalità, da quelle convenzionali a quelle
anticonvenzionali (manifestazioni di protesta e boicottaggi);
● gli ‘attivisti’, per i quali l’azione politica può prevedere comportamenti al limite e oltre la
legalità;
● i ‘protestatari’, tendenti ad escludere il ricorso alle forme convenzionali.

Milbrath e Goel hanno sostenuto l’associazione di specifici elementi sociografici con i diversi livelli
di partecipazione:
● nel contesto Usa: la più alta partecipazione viene riscontrata tra gli uomini adulti, di
istruzione superiore, appartenenti alla classe media e a maggioranza etniche (bianchi),
sposati, con residenza urbana di lunga data e attivi in gruppi e associazioni.
All’opposto, figurano ai livelli più bassi di partecipazione le donne, i più giovani e i più
anziani, i meni istruiti, gli appartenenti alle classi sociali inferiori e alle minoranze etniche
(di colore), i non sposati, con residenza rurale o instabile, con un minore impegno sociale,
fatta salva l’adesione a gruppi conflittuali;
● nel contesto europeo: (con i partiti) e in alcune stagioni particolari (quelle dei movimenti),
la partecipazione di giovani, donne e operai è stata molto elevata.

Il come e il chi della partecipazione diventano più chiari se si indagano le motivazioni che ispirano
i comportamenti politici (il perché).
Esse possono ricondursi a tre tipologie:
● espressive: sono quelle che spingono gli individui a soddisfare il bisogno psicologico di
avere un’identità socio-politica ben definita, grazie all’appartenenza ad un gruppo, ad un
movimento o ad un’organizzazione, il più delle volte a prescindere dai risultati concreti o
strumentali che quell’appartenenza permetterà di seguire;
● strumentali: se le motivazioni espressive guardano all’identità, queste sono più attente
all’interesse.
Secondo A. Downs, un elettore sarà tanto più motivato a partecipare alle elezioni quanto più
le sue issues politiche saranno definite con chiarezza e polarizzazione; ciò indurrà a
percepire meglio il proprio interesse e ad andare a votare nella convinzione che anche il
proprio voto inciderà sul risultato finale.
Anche M. L. Olson, si misura con un’analisi dei costi/benefici dei vantaggi individuali e
collettivi della partecipazione, e si decide.
In questa situazione, possono venir fuori i cosiddetti ‘free riders’, ovvero coloro che
approfittano dei benefici conseguiti dall’azione collettiva degli altri, senza pagare in proprio
i costi della partecipazione;
● miste: con il passare del tempo, è diventato sempre più complicato poter distinguere tra
motivazioni meramente espressive e motivazioni meramente strumentali; perciò si è
cominciato a parlare di motivazioni miste.
Secondo R. Inglehart la generazione che è arrivata sulla scena delle società occidentali alla
fine degli anni ’60 ha ampiamente superato la soglia dei bisogni materiali, per proiettarsi
verso valori post-materialisti.
L’essere e l’avere coincidono ormai in un discorso che investe contemporaneamente la
qualità della vita privata e l’esercizio dei poteri pubblici.
Nei regimi liberal-democratici il principio della sovranità popolare si è tradotto nell’istituto della
rappresentanza.
Grazie ad esso, si è stabilita la convenzione che i cittadini esercitino il loro potere votando e i
rappresentanti eletti prendano decisioni in parlamento e nel governo in loro nome.
Ebbene, nelle più recenti stagioni della democrazia, questa convenzione non appare più sufficiente:
il che non significa che sempre più di frequente ad esso si affianchino prassi che prendono il nome
di democrazia partecipativa.
Le due tipologie che si prestano meglio ad esemplificare questa nuova esperienza riguardano:
● il bilancio partecipativo: esperienza di Porto Alegre;
● la e-governance: realizzazione di opere di impatto ambientale.

3. Le ideologie
Nel corso dell’800 e del ‘900 si è andato diffondendo il termine ideologia, per indicare i sistemi di
credenze tendenzialmente coerenti in grado di fornire spiegazioni condivise sulla natura dell’uomo,
sul funzionamento dei rapporti sociali, sul senso del mondo, caricando le stesse spiegazioni di valori
e di aspettative di comportamenti conformi.

Il termine ideologia nasce nel contesto della filosofia positiva francese ed è usato per la prima volta
da Destutt de Tracy tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’’800 per indicare ‘la scienza delle idee e delle
sensazioni’.
L’approccio degli idéologues, di cui Tracy è espressione, è neutro ed antimetafisico, e si traduce
nella volontà di studiare le idee come elementi materiali.
Il significato si trasforma bruscamente in senso spregiativo quando Napoleone, per reazione alle
critiche rivolte dagli ‘ideologi’ al suo governo, li accusa di essere dottrinati e fuori dalla realtà.

Ripreso nel contesto tedesco, il dibattito sul concetto si carica di elementi profondi e sostanziali.
Qui impera l’idealismo hegeliano che considera il dispiegarsi dello Spirito Assoluto (il mondo delle
idee) la forma perfetta della realtà (wiekliche Form) rispetto all’imperfezione e all’alienazione della
vita materiale.
K. Marx, rovesciando tale impostazione, individua nei rapporti materiali di produzione la forma
della realtà e attribuisce all’ideologia alla Erscheinungsform o forma apparente.
In particolare per Marx i rapporti materiali costituiscono l’infrastruttura della società, cioè e
fondamenta, mentre l’ideologia (con la religione, il diritto e lo Stato) va a comporre la
sovrastruttura, cioè l’edificio soprastante.

Per Marx ed Engels è il lavoro la categoria la categoria costitutiva dell’essere umano, ed è a partire
dai rapporti di produzione che si genera la coscienza e non viceversa.
Di conseguenza, in Marx il termine ideologia sta ad indicare le idee, i valori, le teorie con cui le
classi dominanti giustificano il proprio assetto di dominio costituito sui rapporti di produzione
storicamente determinati.
L’ideologia si compone insomma di false credenze, cui corrisponde la falsa coscienza di chi quelle
credenze assume come fossero naturali.
Muovendo dalla convinzione che l’orizzonte umano sia costituito dal nulla inteso come esito
inarrestabile della svalutazione dei valori della tradizione occidentale platonico-cristiana (da cui il
nichilismo), Nietzsche denuncia le illusioni consolatorie della ‘morale reattiva dei servi’, del
‘cristianesimo come àncora di salvezza dei deboli’, dello stesso ‘razionalismo politico moderno’,
che in qualche modo sono associabili al concetto di ideologia come falsa coscienza.
In contrapposizione a ciò egli afferma in positivo il nichilismo dell’Ubermensch, fatto di energia e
di produzioni di valori creativi veramente umani, della ‘volontà di potenza’.

La concezione dell’ideologia come falsa rappresentazione è sostenuta da Vilfredo Pareto.


Nel classificare le azioni umane come logiche e non logiche, Pareto rileva come le seconde siano di
gran lunga prevalenti sulle prime.
A suo avviso, ciò dipende dal fatto che alla base della maggior parte delle azioni ci siano i
cosiddetti ‘residui’, ovvero nuclei di impulsi primari (di natura istintuale e pre-razionale), tra cui
emergono per importanza quelli denominati ‘persistenza degli aggregati’ e ‘istinto delle
combinazioni’.
Poiché, però, l’uomo non accetta, per ossequio alle convenzioni sociali, di presentarsi come un
essere irrazionale, ecco allora che egli fa ricorso alle cosiddette derivazioni, ovvero a verniciature
logiche di comportamenti che logici non sono.
La categoria paretiana di derivazione riproduce, dunque, per altre vie, la concezione dell’ideologia
come falsità.
Pur fondato sociologicamente come in Marx, il ragionamento sviluppato da Pareto è però molto
diverso da quello marxiano: rispetto a Marx, Pareto destoricizza il concetto di ideologia, in quanto,
come dice N. Bobbio, ‘ciò che è in Marx è il prodotto di una determinata forma di società, in Pareto
è diventato un prodotto della coscienza individuale’.
Per entrambi, è come se la vita si svolgesse sempre ad un doppio livello:
● quello reale (dei rapporti di produzione o residui istintuali;
● quello delle rappresentazioni del reale.
L’enucleazione del concetto di ideologia dei rapporti di dominio storici serve a Marx come una leva
fortissima per smascherare e combattere la sovrastruttura borghese.
Pareto presenta la ‘deviazione’ come categoria della consapevolezza della scienza sociologica circa
l’ambiguità costante della condizione umana.
Nel pensiero politologico che si sviluppa tra ‘800 e ‘900, il richiamo ad un concetto simile a quello
di ideologia si deve a G. Mosca.
Negli Elementi di scienza politica egli scrive: ‘accade immancabilmente, in tutte le società
discretamente numerose ed appena arrivate ad un certo grado di cultura, che la classe politica non
giustifica esclusivamente il suo potere con il possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base
morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze
generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige’.
Tali giustificazioni corrispondono alle formole politiche, che non sono ‘volgari ciarlatanerie
inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse.. La verità è che esse corrispondono
ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di
governare e sentirsi governato non sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su
quella di un principio orale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza’.
In Mosca l’ideologia è dunque un concetto neutro e funzionale della società.

In Gramsci e Althusser l’ideologia svolge una funzione positiva a determinate condizioni.


Per il primo la condizione è che essa non è il frutto di proiezioni individuali, ma una concezione
organica che serve a mostrare la contrapposizione degli interessi delle masse dalla tradizione
culturale diversa.
Egli insiste sui concetti di ‘egemonia’ (della sfera delle credenze) e di ‘intellettuali organici’ da
arruolare nel movimento.
Il secondo ritiene che dopo lo smascheramento dell’ideologia borghese fatto da Marx, la tensione
ideologica sia comunque indispensabile a ogni società per formare gli uomini, trasformarli e
metterli nella condizione di rispondere alle esigenze delle loro condizioni di esistenza.

L’assunto di K. Mannheim è che il pensiero non si sviluppi in maniera autonoma e astratta, ma sia
sempre correlato alle condizioni individuali e alle strutture sociali da cui emerge.
L’espressione che si usa in proposito è quella di ‘determinazione esistenziale della conoscenza’.
A partire da questa impostazione Mannheim rivisita evolutivamente il concetto di ideologia,
distinguendo tra:
● una concezione particolare: in essa, l’ideologia corrisponde al ragionamento menzognero
con cui un attore sociale o politico difende i suoi interessi o persegue i suoi scopi.
Di tale ragionamento è sempre possibile però smascherare in via razionale la falsità e
convincere quell’attore dell’errore della sua posizione;
● una concezione totale: in essa, il riferimento non è più al ragionamento erroneo di un
individuo, ma alla visione del mondo di un intero gruppo o di una classe sociale.
In questo caso è improprio valutare i contenuti di verità/falsità di una singola proposizione espressa
da un individuo (borghese o proletario che sia), in quanto tutti i soggetti appartenenti allo stesso
gruppo o alla stessa classe non si accorgono neppure di essere immersi in una visione che è frutto
della loro collocazione sociale.
Il disorientamento per lo scontro ed il tramonto dei discorsi ideologici conduce all’esito irrazionale
e liberticida del totalitarismo.
Sul piano politico, Mannheim sostiene quindi l’affermazione di una cultura politica democratica in
cui l’identità individuale e l’appartenenza collettiva possono convivere in equilibrio e libertà senza
soffocarsi l’una con l’altra.
Sul piano concettuale, egli rilancia il valore dell’utopia (che è una bussola in grado si trasformare il
mondo) rispetto a quello consunto dell’ideologia, che si condanna alla sterilità per essere
essenzialmente l’espressione cristallizzata degli interessi più o meno identitari di determinati gruppi
o classi sociali.

La riflessione sull’ideologia nella seconda metà del ‘900 prosegue prevalentemente in due direzioni:
● una conduce alla ‘normalizzazione’ del concetto, che perde la forza del nome o lo vede
declinare;
● un’altra ragiona sulla presunta ‘fine delle ideologie’.

La prima è riconducibile a due tradizioni teoriche tra loro molto diverse:


● la sociologia fenomenologica: che affermando che la realtà è una costruzione sociale,
giunge a trasformare la sociologia della conoscenza in sociologia della vita quotidiana;
● il funzionalismo: attraverso T. Parsons, legge l’ideologia come ‘il sistema di credenze
condiviso dai membri di una collettività’ e, lungi dall’attribuirgli un effetto negativo anche
per eventuali deformazioni della realtà, ne considera la funzione di integrazione sociale per
la messa a disposizione degli individui di schemi percettivi e d’orientamento che
uniformano le aspettative dei vari membri e aumentano la prevedibilità dei comportamenti e
l’ordine della società.
Questa interpretazione venne sostenuta dall’antropologo C. Geertz nello studio delle società
indonesiane.
L’approccio funzionalista cerca di rispondere alla domanda: ‘a che serve l’ideologia?’
Le risposte si collocano in due prospettive:
● macro-sociale;
● del singolo.

Nella prospettiva macro-sociale è possibile individuare almeno tre funzioni dell’ideolgia:


● fornire un’identità collettiva ai membri del gruppo, fornendo una comune interpretazione
della realtà e facendoli sentire parte di una stessa storia e di uno stesso progetto;
● produrre le motivazioni e l’energia necessarie a far sì che si perseguiano gli obiettivi del
progetto comune;
● in chiave conservativa, legittimare l’ordine sociale e politico esistente.

Per quanto riguarda la prospettiva del singolo, M. Rush ha così riassunto le sue funzioni:
● mettere a disposizione dell’individuo una visione del mondo;
● in maniera esplicita o implicita fornire all’individuo la sua visione preferita;
● costituire uno strumento di identità per l’individuo nei confronti del mondo;
● dare all’individuo i mezzi necessari per reagire ai fenomeni;
● fornire all’individuo una guida all’azione.

Il dibattito sulla fine delle ideologie, inizia con l libro di D. Bell, ‘La fine dell’ideologia. Il declino
delle idee politiche dagli anni cinquanta ad oggi’, uscito nel 1960.
In quel testo, Bell avanza due tesi:
● la prima è che di fronte allo scarto sempre più ampio tra l’andamento reale della storia e la
mobilitazione intorno a credenze morali nate in momenti particolari, si produca una forte
disillusione negli individui che avevano aderito fideisticamente a quei movimenti, facendo
quindi perdere vigore all’ideologia, vista ormai solo come forza coercitiva o ritualità
conformistica;
● la seconda, è che la fine di certe ideologie non significhi affatto la fine delle idee politiche
con cui i nuovi popoli del mondo cercano la loro strada verso la modernità.
Riprendendo questa argomentazione, S.M. Lipset nel 1966, nell’ambito di un inquadramento
concettuale implicitamente etnocentrico, sostiene che la carica ideologica dirompente e l’elevata
conflittualità sociale sono il frutto di situazioni in cui non si sono ancora risolti i problemi della
redistribuzione dei beni e della libertà politica, come nelle società pre-industriali e nelle società di
prima industrializzazione.
Mano a mano che l’industrializzazione procede e che i popoli conquistano i diritti economici,
politici e sociali della cittadinanza, essi finirebbero quasi ineluttabilmente con l’aderire al modello
ideologico più blando rappresentato dalla liberal-democrazia.
In realtà questa tesi non tiene conto del fatto che l’Occidente mantiene una sua peculiare ideologia
liberal-democratica e capitalistica, aggravata dalla pretesa di invisibilità.

Come riconoscere oggi le ideologie?


Secondo Crespi e Segatori, un discorso che riguardi la vita, le relazioni umane, la politica, il mondo
si qualifica come ideologico nel caso in cui (ed ogni volta che) pretenda di porsi come ‘unico vero’,
cioè quando vada ad assolutizzare una qualsiasi forma di mediazione simbolica, negandone il
carattere relativo dovuto alla compresenza di tante altre forme simbolicamente possibili.
Di conseguenza, nella post-modernità, ‘da un punto di vista operazionale, la distinzione tra ciò che è
ideologico e ciò che non lo è, non avviene più sulla base della coppia falsità/verità, bensì su quella,
per molti versi alternativa, pretesa di verità/non pretesa di verità.
In riferimento a ciò, è allora possibile rinvenire modalità ideologiche nelle argomentazioni di tutti
coloro che pretendono di possedere la verità, senza porre limiti, riserve o rinvii alle proprie
asserzioni’.
Nei paesi più avanzati, la modernità e la post-modernità si caratterizzano per il riconoscimento
sempre più esteso della scienza come discorso privilegiato di interpretazione del mondo e delle
regole del suo funzionamento.
L’entusiasmo fideistico della prima fase (quella del positivismo ottocentesco) portò a bollare questa
tendenza come scientismo.
Oggi sono almeno due i rischi di ideologizzazione della scienza:
● in primo luogo si evidenzia la situazione per cui delle teorie false si affermano come
scienza;
● in secondo luogo, si evidenzia la situazione per cui la scienza, intesa come sistema
istituzionale, assume un valore così centrale nella società, da originare un asservimento
dogmatico della società stessa alla scienza.
Contro tali rischi sono importanti le critiche di:
● Popper (rispetto al primo rischio): una teoria si può considerare scientifica non in quanto
sia verificabile, ma solo in quanto sia falsificabile, ovvero formulata in modo tale che dei
suoi assunti si possa sempre dimostrare empiricamente la falsità.
Il ragionamento popperiano conduce a due conseguenze:
1) che le teorie scientifiche non possono essere equiparate alle ideologie, in quanto esse non
si occupano della verità, ma si classificano in termini di utilità rispetto alle questioni
indagate e alla soluzione proposte;
2) che le teorie non falsificabili possono avere un legittimo uso sociale, ma non possono
essere considerate scientifiche;
● Boudon (rispetto al secondo rischio): pag. 124

L’ideologia implicita della globalizzazione corrisponde all’esito di un processo in cui si sta


progressivamente imponendo il trionfo della razionalità astratta sulla ragione giudicante, della
tecnica impersonale:
● sulla dimensione umana;
● del denaro (come neutro equivalente universale);
● della finanza (di nuovo come pura astrazione monetaria);
● sull’economia (la ricchezza prodotta dall’attività umana);
● dalla totale mercificazione e mercantilizzazione dei bisogni e degli spazi di vita sulla
gratuità e reciprocità;
● del mero principio di funzionalità su ogni finalismo etico.

4. La cultura politica
Il concetto di cultura politica si declina in due accezioni* e in almeno tre livelli** (da un punto di
vista analitico, lungo una scala macro-micro):
● *in senso immateriale: la cultura organizza il mondo come un sistema di segni, simboli,
linguaggi, codici, valori, norme, costumi, abitudini e modelli di comportamento;
● *in senso totale: oltre ai contenuti immateriali e normativi appena descritti, la cultura
include anche i mezzi concreti della produzione e della riproduzione sociale dell’uomo,
comprensivi della tecnologia e di tutti i vari manufatti.
La principale caratteristica della cultura è di essere contemporaneamente un ‘prodotto’ delle
interazioni e delle attività umane, ma anche una matrice d’orientamento e un ‘produttore’ di senso
sociale, attraverso un processo circolare.

● **cultura generale di una società: tende ad avere un carattere oggettivo in quanto esiste al
di là del singolo individuo e supera la durata delle singole generazioni;
● **subculture: sono condivise da classi o gruppi più o meno omogenei e presentano
connotati specifici pur collocandosi all’interno della più generale cultura della società;
● **culture personali: consistono nella rielaborazione soggettiva dei valori, delle norme e dei
modelli di comportamento che promanano dallo sfondo culturale societario.

Storicamente sono stati usati anche i concetti di civiltà e di contro cultura.


La civiltà o civilizzazione corrisponde ad una cultura che copre vaste aree geografiche, in genere
superiori ad un singolo paese, e si costituisce intorno ad alcuni assi di senso fondamentali che
mantengono una lunga durata temporale.
La classificazione delle civiltà dipende strettamente dall’asse identificativo che i vari studiosi
privilegiano di volta in volta:
● per Marx: la civiltà dipende dal tipo di relazione esistente tra le forze di produzione e i
rapporti di produzione;
● per Weber: le civiltà si differenziano per le combinazioni che si realizzano tra le credenze
religiose e le forme di pensiero, da un lato, e gli assetti socio-economici e politici, dall’altro;
● Alberoni: fa ricorso al concetto di civilizzazioni culturali.
Con tale espressione egli si riferisce a quelle potenze istituzionali capaci di assorbire e
distruggere gli avversari, di modificare le condizioni economico-sociali e culturali in modo
da renderle adatte al loro prosperare, che si espandono attraverso successivi movimenti
senza perdere l’identità (egli cita espressamente la filosofia greca, l’islam, la riforma
protestante, il marxismo, il buddismo, l’Illuminismo e il confucianesimo).

N. Elias usa come misura del processo di civilizzazione la progressiva eliminazione della violenza
fisica dalla scena societaria.
L’esito concettuale della sua analisi si ritrova nella distinzione tra:
● Kultur: corrisponde ad un senso di appartenenza fondato sulla consanguineità, sull’ethnos,
sull’amore distintivo e appassionato per la propria terra (noi diversi dagli altri e, al limite,
noi contro gli altri);
● Zivilisation: corrisponde ad una concezione del mondo e della politica ispirata a valori
universali e cosmopoliti (noi uguali agli altri in quanto esseri umani).

In riferimento alla situazione delle relazioni internazionali a cavallo tra gli ultimi decenni del
20esimo secolo e l’inizio del 21esimo, S. Huntington ha affermato che, dopo la fine della
contrapposizione tra il blocco atlantico e quello del patto di Varsavia, le linee di faglia e di
potenziale conflitto del campo mondiale vadano soprattutto individuate ai margini delle aree di
influenza religiosa (Cristianesimo vs. Islam, Islam vs. Induismo, etc).

Al penultimo livello del ventaglio concettuale che riguarda la cultura, c’è la cosidetta
controcultura.
Essa non è altro che una specificazione radicale del concetto di subcultura; mentre quest’ultima,
infatti, enfatizza i valori secondari della cultura generale, la controcultura designa un fenomeno
diverso: il fatto che un gruppo di persone posto all’interno di un sistema culturale ne respinge i
valori fondamentali e ne contrappone loro altri.

Il principale effetto di una cultura è quello di fornire a una nazione, una classe, un gruppo o un
individuo una precisa identità, ovvero un senso di condivisione e di appartenenza ad una entità
sociale comune.

La distinzione tra cultura collettiva e individuale pone problemi di metodo non banali.
La cultura generale può essere ricavata dalla produzione documentaristica (storica, normativa,
artistica, ecc) di un popolo e da quei fenomeni in cui la maggioranza della popolazione assume
comportamenti simili e largamente coerenti.
La cultura personale è rintracciabile negli atteggiamenti, nei comportamenti e negli eventi dei
singoli individui, di cui va colta sia la dimensione psicologica che quella sociale.

Passiamo ora ad esaminare la relazione che intercorre tra la cultura e la politica.


Possiamo dire che la cultura politica possa leggersi:
● tanto quanto una categoria generale, di sfondo : in questo senso, essa è essenzialmente un
sistema di credenze, di valori, di norme, di modelli di comportamento che costituisce il
cemento simbolico che lega una comunità con le sue istituzioni politiche;
● quanto come un patrimonio immateriale di tipo individuale : in questo senso, essa è il
tipo di atteggiamenti e orientamenti nei confronti della politiche dei membri di un sistema
politico.
Essa è l’opera soggettiva che sta alla base delle azioni politiche e dà loro un significato.

Secondo Almond e Powel, la cultura ispira tre orientamenti individuali verso la politica:
● orientamenti conoscitivi, cioè conoscenza, esatto o meno, di oggetti e credenze politiche;
● orientamenti affettivi, vale a dire sentimenti di attaccamento, impegno, rifiuto e simili
verso oggetti politici;
● orientamenti valutativi, cioè giudizi e opinioni su oggetti politici, che generalmente
comportano l’applicazione di valori standard agli oggetti e agli avvenimenti politici’.
Da essi possono derivare comportamenti strumentali o espressivi, o una combinazione delle due
modalità.
Allo stesso modo in cui la cultura generale fornisce un’identità sociale, la cultura politica è
fondamentale per l’acquisizione di un’identità politica.

Che rapporto c’è tra la cultura civica e la cultura politica?


Almond e Verba incrociano le due aree semantiche e leggono la cultura civica come la cultura
politica riferita ai valori democratici.
Nel 1963 viene pubblicata The Civic Culture: Politica Attitudes and Democracy in Five Nations
(Usa, Gran Bretagna, Repubblica Federale Tedesca, Italia e Messico).
(Il metodo)
Essi vanno ad esplorare tanto la dimensione psicologica quanto quella sociale negli atteggiamenti
verso la politica degli intervistati, orientati in senso conoscitivo, affettivo e valutativo.
Accanto alle tipiche informazioni sociografiche, gli item dei loro sondaggi puntano a rilevare:
● il livello di conoscenza e di informazione politica;
● il grado di interesse per la politica ed il grado di faziosità;
● la competenza politica soggettiva, la competenza amministrativa soggettiva, le modalità
dell’azione politica ed il ricorso ad eventuali forme di cooperazione politica;
● la valutazione del sistema politico sia in senso generale (ad esempio il grado di fierezza
dell’appartenenza nazionale), sia sui relativi input e output.
La grande mole dei dati raccolti, e soprattutto le loro combinazioni, suggeriscono ad Almond e
Verba di costruire una tipologia di tre differenti culture politiche:
● culura localistica (“parochial”): è quella più lontana dalla cultura politica nazionale, e può
correlarsi con un villaggio, un’etnia, una religione;
● cultura di sudditanza (“subject”): si ritrova nei cittadini rispettosi dell’autorità, ma passivi,
che fruiscono dei servizi del sistema politico, ne temono le esazioni fiscali, ma non pensano
di poter incidere sui processi decisionali;
● cultura partecipativa (“participant”): è quella in cui i cittadini si sentono parte attiva del
sistema politico in cui intervengono con petizioni, organizzazione di gruppi di professione,
manifestazioni, elezioni, ecc.
Poiché la cultura partecipativa è associata ai paesi anglosassoni e quella localistica di sudditanza ai
paesi latini, l’impostazione della ricerca viene accusata di etnocentrismo (vedi pag. 134,135).

Le subculture (a base etnica, religiosa, linguistica o semplicemente socio-economica) assumono


talvolta una veste politica.
Esse valorizzano aspetti differenziati rispetto agli oggetti, ai valori e ai modelli delle più generali
culture nazionali.
Lo abbiamo già visto nella situazione che ha portato alla divisione della ex Jugoslavia, o nella
tensione autonomista e/o separatista di baschi e catalani rispetto alla Spagna, di fiamminghi e
valloni in Belgio, o nelle guerre tra gruppi etnici e tribù per il controllo del potere politico in Africa.
Negli USA la subcultura politica degli abitanti di New York e della costa nord-orientale,
tendenzialmente aperta e progressista, è molto diversa da quella degli abitanti di molte zone del
centro e del sud del paese, prevalentemente chiusa e conservatrice.

Le subculture politiche in Italia.


All’uscita dalla seconda guerra mondiale, l’Italia è percepita come divisa in due grandi aree socio-
economiche (nord e sud, con la tematizzazione della ‘Questione meridionale’) ed è caratterizzata
dalla presenza di quattro subculture politiche:
● due decisamente minoritarie: una laica e liberale, concentrata soprattutto nel Nord-Ovest,
l’altra post-fascista di destra, polarizzata nelle zone di confine e nel Centro-Sud);
● due che coagulano molte più adesioni: democristiana, bianca, la prima e social-comunista,
rossa, la seconda.

Per affrontare al meglio la questione della persistenza e del cambiamento delle culture politiche, la
sociologia insieme alla psicologia sociale, ha dovuto riprendere e sviluppare una strumentazione
teorica classica che mette al centro della cultura il concetto di rappresentazione sociale.
Le rappresentazioni sociali sono modalità mentali condivise da un gruppo umano per esprimere la
percezione della realtà esterna e dei suoi oggetti.
A. Santambrogio ha suggerito di articolare i contenuti delle rappresentazioni sociali della sfera
politica in tre tipologie:
● i simboli: costituiscono la dimensione simbolica, e meno riflessiva della politica, fatta di
slogan, bandiere, miti, canzoni, manifestazioni, ecc;
● i valori: si intende una dimensione più riflessiva, in riferimento a quella sfera normativa
così importante per ogni cultura politica.
Troviamo qui uguaglianza, libertà, solidarietà, meritocrazia, ecc;
● le opzioni: sono quei modelli culturali maggiormente operativi, quindi più riflessivi, più
immediatamente vicini alla prassi politica e che più la influenzano.
Si può dire che i simboli esprimono le ragioni più viscerali, quel luogo dove l’identità appare come
mera apparenza; i valori le ragioni del cuore; le opzioni le ragioni della testa.

Per capire come effettivamente si produca il cambiamento occorre chiamare il causa altri elementi
di tipo psicologico.
S. Moscovici ha indicato due meccanismi attraverso i quali si producono le rappresentazioni sociali:
● ancoraggio: serve a legare una nuova idea ad una categoria preesistente, in modo che
quell’idea perda il carattere di estraneità;
● oggettivazione: trasforma la novità in una rappresentazione dotata di senso proprio e
destinata progressivamente a consolidarsi.
L’inizio del 21esimo secolo sembra caratterizzato per la compresenza di subculture politiche
frammentare e fluide come causa ed effetto della condizione precaria di molti sistemi politici.
Se le strutture politiche si allentano, anche le culture politiche ne risentono, e viceversa.
A livello nazionale ciò ha dato talvolta luogo ai fenomeni:
● dell’antropologia: corrisponde agli atteggiamenti di coloro che vedono nei soggetti che
detengono le cariche pubbliche, nei principi e negli oggetti della politica solo persone e
ideologia finalizzate a soddisfare interessi particolari, e che quindi si proclamano estranei al
sistema politico, assumendo verso di esso posizioni fortemente critiche e negative;
● del populismo: sta ad indicare l’atteggiamento di chi attribuisce il totale fallimento della
politica all’intermediazione presunta parassitaria della classe parlamentare, ed auspica una
rigenerazione della sfera decisionale tramite l’appello al popolo e il ricorso ad un rapporto
diretto e non medito tra leader e popolo.

A livello di scenario internazionale, le crisi delle subculture locali è dovuta soprattutto all’impatto
delle dinamiche economiche dei paesi occidentali più forti e delle imprese multinazionali.
Questo incontro squilibrato può facilmente condurre a connotazioni regressive, che assumono la
forma:
● dell’erodianismo: l’Erodiano è colui che assume l’Altro come modello e si propone di
limitarlo;
● dello zelotismo: lo Zelota è invece colui che, di fronte ad un rapporto sfavorevole, temendo
di uscire sconfitto e umiliato nel tentativo di imitazione, rifluisce su una difesa arcaica e
chiusa della propria identità.
L’esasperazione (o la degenerazione) dell’erodianismo può infatti condurre molte persone alla
prostituzione della cultura subalterna e all’entrata nei circuiti dell’illegalità; quella dello zeloismo
all’integralismo settario e perennemente aggressivo per motivi di difesa e di reazione.

5. L’opinione pubblica e la comunicazione politica


Attraverso la socializzazione politica l’individuo introietta una cultura, o subcultura, politica, più o
meno caratterizzata da venature ideologiche: nel corso di questo processo egli tende
progressivamente ad acquisire un’identità politica e a maturare atteggiamenti verso la politica.
Un atteggiamento è un punto di vista strutturato e abbastanza stabile verso oggetti e fenomeni della
realtà sociale.
Dall’interazione tra la cultura politica fatta propria da un individuo, le sue dinamiche psicologiche e
le sollecitazioni dell’ambiente esterno scaturiscono le opinioni.
Le opinioni, rispetto agli atteggiamenti, hanno un carattere più fluido e meno stabile, e consistono
in pareri su oggetti e fenomeni anche contingenti in cui non è necessariamente presente un rapporto
diretto con la verità.
In ambito politico, sono importanti le opinioni collettive, che vengono comunemente ricondotte al
concetto di opinione pubblica.
Quest’ultima:
● Che cos’è? A che serve?: l’Op consiste nella manifestazione di orientamenti valutativi
(giudizi di valore più che di fatto, pareri) che è pubblica sia nel momento della sua
formazione, perché non è privata e nasce da un pubblico dibattito, sia nel suo oggetto, che è
la cosa pubblica.
Circa la sua funzione, il pensiero filosofico, sociologico e politologico ha prodotto due linee
di approfondimento costituite da:
1) teorie normative, che si dividono a loro volta in due visioni contrapposte: quelle che
negano in modo radicale la necessità o la possibilità che l’Op debba avere un suo spazio
nella sfera politica, e quelle che all’opposto ne auspicano la presenza e sottolineano
l’importanza della sua formazione autonoma nei sistemi liberali e in quelli liberal-
democratici.
Tra i sostenitori della prima visione, troviamo:
T. Hobbes, che tutto preso dall’idea di porre fine al disordine sociale mediante un disegno
che preveda l’affidamento del potere assoluto allo Stato, non può accettare di far rientrare
nella sfera politica altri elementi di disgregazione e corruzione;
G.W.F. Hegel, il quale considera lo Stato come la realizzazione dello Spirito assoluto che
non può essere messo in discussione dal chiacchiericcio della società civile, disordinata e
imperfetta;
K. Marx, ha una posizione ambivalente in quanto considera l’Op borghese nient’altro che il
fondamento dell’ideologia che si deve combattere, ma solo una critica contro quell’ideologia
può costituire l’oggetto di una presa di coscienza pubblica.
Tra i sostenitori della tesi del contenimento del ruolo dello Stato, troviamo:
J. Locke;
J. Bentham;
I. Kant, secondo il quale l’Op corrisponde all’uso pubblico della ragione, un esercizio che
non deve essere pilotato dai funzionari dello Stato, ma svolto dagli intellettuali, come i
filosofi e cultori del diritto, e aperto a tutto il popolo;
B. Costant, il quale sostiene in particolare che le assemblee elettive debbano rappresentare
nei loro dibattiti l’espressione più alta dell’Op, la quale peraltro si manifesta originariamente
nella società;
J.Habermas, il quale sostiene che è il confronto aperto, pubblico, condotto in riferimento al
principio dell’universalismo della condizione umana, a favorire l’emersione delle
argomentazioni migliori e ad assicurare così i presupposti per una società di democrazia
sostanziale.
2) analisi empiriche, che pervengono al livello che si interroga su come l’Op si manifesta
effettivamente sulla realtà.
La via che conduce progressivamente a questo livello è quella che si interroga sugli aspetti
storici della nascita dell’Op.
● Quando nasce?: l’Op assume fondamentale importanza in almeno due stagioni storiche,
inframezzate da periodi di assenza o di pseudo-presenza di una sfera pubblica vera e propria.
La prima stagione coincide con la prassi democratica della polis greca.
La seconda stagione inizia alla fine del 17esimo secolo e continua fino ai gironi nostri con
connotazioni però diverse.
Dal ‘700 in poi, storia e critica dell’opinione pubblica, come recita il titolo in italiano
dell’opera di Habermas, devono fare i conti con tre processi:
1) la pressione delle classi e dei ceti esclusi per far sentire la propria voce, e quindi
l’allargamento della platea degli attori della nuova sfera politica;
2) l’evoluzione dei mezzi di manifestazione dell’Op;
3) le strategie messe in atto delle élites politiche ed economiche per il controllo di tali mezzi.
● Come e dove si forma e si rileva? : nella sequenza storica ricostruita da Habermas i primi
luoghi di incubazione dell’Op sono i caffè letterari e i salotti della borghesia del ‘700.
Ben presto a questi luoghi si aggiunge la pubblicazione a stampa di fogli letterari e di
gazzette.
Alla fine del 19esimo secolo fanno la loro comparta i quotidiani, e nel 20esimo secolo
arrivano prima la radio e poi la televisione.
La situazione nei regimi non democratici è largamente sotto il controllo del potere politico: c’è
una pseudo-opinione pubblica ufficiale, alimentata dalla stampa di regime e dalle trasmissioni
radiofoniche a sostegno del governo; c’è un’Op informale e sottotraccia, che scaturisce dagli stessi
ambienti di partito e di sottogoverno, ma che non scalfisce la linea ufficiale; esiste infine l’Op
clandestina degli oppositori del regime, a circolazione circoscritta e a rischio continuo di essere
messa fuori gioco anche col rischio della violenza.
Nei regimi democratici la formazione e la qualità dell’Op sono strettamente correlate con il
pluralismo delle fonti di informazione e con il grado di autonomia dal potere politico ed economico
degli editori.
Poiché questa seconda condizione è particolarmente esposta alla contingenza, appare evidente come
diventi via via relativamente attendibile far coincidere l’Op con gli orientamenti espressi dai media.
E’ difficile considerare l’Op che scaturisce dai mass media come ‘pubblica’, se non nel senso che
essa esprime l’opinione di coloro che controllano le stesse emittenti.

W. Lippmann, fu il primo a dedicare nel 1922 un libro all’Op, nel quale espresse il timore che la
commistione tra gli interessi e la propaganda, veicolati dalla stampa, concorresse a creare uno
pseudo-ambiente di vita, e che il rapporto tra gli individui e la realtà venisse nutrito di stereotipi
come conseguenza di tale clima d’opposizione artefatto.

Per recuperare un significato più fondato di Op, nascono a questo punto i sondaggi di opinione.
Le critiche si appuntano soprattutto su due aspetti:
● l’inadeguatezza metodologica e sostanziale dei sondaggi a dare conto dell’Op più autentica
(Blumer, Bourdieu, Grossi);
● gli effetti della manipolazione e di conformismo prodotti dagli stessi sondaggi (Noelle-
Neumann).

Accanto alla proliferazione dei classici sondaggi di opinione, è probabilmente internet il nuovo
spazio da cui stanno originando i contributi più innovativi (e magari le trappole comunicative) della
costruzione dell’Op presente e futura.

M. Rush ha proposto di suddividere l’Op in quattro categorie:


● opinione specializzata: di coloro che sono considerati come specialisti sulla materia cui
l’Op si riferisce;
● opinione informata: di coloro che hanno sufficiente conoscenza o dimestichezza con la
materia cui l’Op si riferisce;
● opinione influenzata: di coloro che sono direttamente influenzati dall’argomento o dalla
questione cui si riferisce l’Op;
● opinione pubblica in senso lato: di tutti coloro che non rientrano nelle categorie
precedenti.

Lo stesso Rush, mutua da Lane e Sears le quattro caratteristiche fondamentali dell’Op:


● la direzione: riferita alla polarizzazione degli orientamenti;
● l’intensità: corrisponde alla forza con cui si difende un’opinione;
● la rilevanza: che rispecchia l’importanza che ha una posizione per un individuo od un
gruppo;
● la coerenza: che esprime la concordanza di opinioni su temi analoghi o vicini.

La questione cruciale dell’Op resta quella della sua determinazione libera e autonoma.
In questo senso c’è da dire che il grado di consapevolezza singola e collettiva è strettamente
correlato con il grado di completezza e di validità dell’informazione pubblicamente disponibile: il
che rinvia al tema della comunicazione politica.
La comunicazione politica svolge un ruolo fondamentale nella formazione dell’Op in quanto essa
va a definirsi sempre di più come il processo di scambio di informazioni e di altri contenuti tra gli
attori del sistema politico, i professionisti del sistema dei media e dei cittadini su argomenti di
interesse pubblico, riguardanti tanto la policy quanto la politics.

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